L`importo deLLa ferita e aLtre storie

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L`importo deLLa ferita e aLtre storie
Pippo Russo
L’importo della
ferita e altre storie
Frasi veramente scritte dagli autori italiani
contemporanei Faletti, Moccia, Volo, Pupo e
altri casi della narrativa di oggi
Edizioni Clichy
Beaubourg
Il Centre Pompidou, luogo d’incontro di giovani artisti e performer, musicisti
e skater, presta il nome alla collana di Edizioni Clichy che dà voce allo spirito
della cultura pop, in tutte le sue espressioni: dalla musica al cinema alla danza,
alla narrativa postmoderna che sappia venire incontro ai lettori più diversi.
Un percorso aperto, curioso, che si apre a ogni tipo di espressione, compresa la
graphic novel, e che esplora senza snobismi quello che si muove intorno a noi.
© Edizioni Clichy - 2013
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn 978-88-6799-0027-6
Indice
Introduzione. A tavola con Freak Antoni
Parte prima. I libro-panettonisti
Capitolo 1. Giorgio Faletti, «l’incredibile più grande
scrittore italiano»
1.1. I thriller più lenti della storia
1.2. Quel sofferto rapporto con la lingua italiana
1.3. La sagra del nonsense, le ricorrenze e le
sciatterie assortite
1.4. Product placement
1.5. Il Faletti solenne e l’onnipresente Vito Catozzo
1.6. L’Evidente Manifesto. Ovvero: e se avesse
sbagliato il titolo?
Appendice: da quando a ora a boh
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Capitolo 2. Fabio Volo e il suo mondo di volette
2.1. I diciamo-così-romanzi del diciamo-così-scrittore
2.2. Mescolando la stessa minestra
2.3. Il sesso e il cesso
2.4. Fabio Volo ama le donne
2.5. Un mondo di coglioni
2.6. Un fine umorista
2.7. Il Buddha di Calcinate e la sua penna-badile
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Capitolo 3. Federico Moccia e la classe coatta che
va in paradiso
3. 1. I mattoni light del coattologo
3.2. I coatti del coattologo
3.3. Spot non stop
3.4. Uno stile senza pari. Né dispari
3.5. Sadomaso? No, sadomoccia
3.6. Lui cita, noi Tarzan
3.7. Del legittimo modo di disprezzare
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Parte seconda. I narratori improvvisati
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Capitolo 4. Pupo, inventore del romanzo marrone
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4.1. Nelle pieghe del romanzo marrone
4.2. Nel marrone dipinto di marrone
4.3. La lingua creativa del romanzo marrone
4.4. In attesa di cosa?
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Capitolo 5. Il petulante strillo narrativo di
Giuliano Sangiorgi
5.1. Il romanzo mandato al macello
5.2. Uno stile im-pulp-abile
5.3. L’apoteosi del Niente e l’anti-sofia
5.4. La scrittura preterintenzionale
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Parte terza. I premiati
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Capitolo 6. Antonio Scurati, ovvero: Operazione
Piombo Fuso
6.1. La Biblioteca d’Acciaio
6.2. Una prosa tersa
6.3. Un mondo putrescente
6.4. Il Furio sociologo
6.5. Il Grande Cauterizzatore dell’Eros
6.6. A mo’ di Scurati
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Capitolo 7. Alessandro Piperno, il Predestinato
7.1. Saghe e seghe familiari. Ovvero, teoria e
pratica della musturbazione letteraria
7.2. La lingua neo-geroglifica del Predestinato
7.3. L’inesauribile vena musturbatoria
7.4. Voleva essere South Park
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Conclusione (?)
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Introduzione
A tavola con Freak Antoni
A tutti i cani del mondo.
Che non scrivono perché
è poco commendevole
scrivere da cani.
Ogni persona è libera di scrivere e pubblicare un libro.
Enuncio e rivendico questo principio benché sia contrario a un mio
fermo convincimento: che al giorno d’oggi vengano pubblicati troppi
libri, e che sarebbe cosa buona e giusta arginare drasticamente la marea.
La mia esperienza di assiduo lettore dice che, ogni dieci libri letti, il
bilancio è il seguente: sei/sette sono da macero, tre/due sono accettabili, e non più di uno è degno d’essere ricordato e consigliato alle
persone care. E certo un bilancio così catastrofico sarà effetto di idiosincrasie personali e gusti estetici che con l’andare del tempo si sono
fatti più esigenti. Proprio per questo m’impongo di mettere da parte i
miei pre-giudizi in materia di letture e affermo con forza la libertà di
scrivere e pubblicare come un diritto della persona da garantire.
E tuttavia, enunciato il principio garantista della Libertà Universale
di Scrivere e Pubblicare, faccio seguire un principio ancor più tassativo:
ogni persona che scrive e pubblica ha il DOVERE di farlo nel modo
più rigoroso e inappuntabile. Un rigore e un’inappuntabilità che dovrebbero essere assicurati attenendosi a pochi, elementari dettami.
Il primo è il rispetto assoluto della lingua. Del suo corretto uso, delle
sue forme, delle elementari regole di grammatica e sintassi, dell’appro5
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priato significato delle parole utilizzate. Chi legge starà pensando che
quella appena scritta sia un’ovvietà, qualcosa data talmente per scontata
da non meritare d’essere rimarcata. Purtroppo così non è. Molta libraglia odierna sembra essersi arruolata in una milizia rivoluzionaria, il cui
obiettivo è la disarticolazione della lingua. E ciò si nota in particolar
modo nei libri nati per essere best seller, e destinati a un pubblico vasto.
A questi libri toccherebbe un supplemento di responsabilità sociale,
consistente nell’attenta manutenzione della lingua; perché in quelle
pagine uno sfondone linguistico ha ricadute di massa. Ciò che si trova
stampato in un libro viene assorbito dal pubblico come lingua corrente,
ulteriore declinazione della correttezza formale nel discorso pubblico.
Su questo versante autori e editori non vigilano abbastanza, o forse non
ritengono sia il caso d’intristirsi a fare i notai della lingua. E i risultati
sono sotto gli occhi di tutti.
Il secondo elemento è il rispetto di un patto originario col lettore.
Ogni libro è una promessa fatta dall’autore al lettore, che a sua volta
investe risorse di vario tipo (denaro, tempo, facoltà cognitive, riserve
emotive) ma tutte caratterizzate dalla condizione di scarsità: nel senso
che la quota parte di quelle risorse destinate dal lettore al libro è sottratta a altri libri o a altre attività. Dunque, è ineludibile dovere dell’autore
mantenere ciò che promette al lettore; e attenersi a ciò che il lettore si
aspetta nel momento in cui investe, a scatola chiusa, una quota parte
delle sue risorse scarse nella lettura del libro. Se la promessa era quella
d’un romanzo, allora bisogna attenersi scrupolosamente ai canoni del
romanzo. Il che significa non cedere alle seguenti tentazioni: improvvisarsi saggisti, deviando dal registro di scrittura che si conviene al romanzo; cimentarsi in esercizi di scrittura autocompiacente, mettendosi
a fabbricare ampolle e riempiendo le pagine di pesantezze barocche;
disseminare il testo di citazioni libresche a vanvera, col solo intento di
far sfoggio muscolare di cultura personale; essere sciatti nel fare quelle
citazioni e ogni altro tipo di riferimento; tromboneggiare; soprattutto,
andare fuori misura in termini meramente quantitativi, e per la sola
libidine di scrivere «il librone all’americana».
Infine, dovrebbe esserci da parte dello scrittore un dovere di non
innamorarsi del personaggio di se stesso. Scrivere per pubblicare è una
forma di narcisismo, una ricerca di riconoscimento, una volontà di imporre la propria visione del mondo come versione degna d’essere eletta
a punto di riferimento; se così non fosse, ogni autore terrebbe nel cas6
L'importo della ferita e altre storie
setto le cose che scrive e le rileggerebbe di tanto in tanto per scoprire
qualcosa in più di se stesso. Dunque, nella ricerca di protagonismo da
parte dello scrittore non c’è nulla di disdicevole. Il problema sta piuttosto nella misura di tale protagonismo. Che troppo spesso esonda. E
allora succede che gli scrittori diventino animali da talk show quando
in tempi ancora recenti facevano dell’assenza un elemento indispensabile per la costruzione dell’aura personale; o che pretendano di costruire gruppi d’azione e elaborazione collettiva, quando invece il ruolo
comanderebbe uno stretto individualismo; o che sgomitino per entrare
a far parte delle giurie dei premi letterari, magari per fare in seguito il
bel gesto d’andarsene sbattendo la porta e inveendo contro il «sistema
corrotto». Che poi la defezione avvenga perché il defezionante non si
sia visto premiare a sua volta, è solo un dettaglio.
Questo libro nasce sulla spinta delle motivazioni appena illustrate.
E si muove su un piano dell’analisi del testo che non è quello della
critica letteraria. Un’operazione del genere non m’interessa, né minimamente m’appassiona. Ciò che qui viene condotto è un lavoro di sezionamento e analisi del testo scritto: gli strafalcioni, i luoghi comuni,
le stracche retoriche, le ricorrenze, le trombonerie, et similia. Per chi
la conosce, il concetto di base è lo stesso che ispirò la mia fortunata
rubrica Pallonate, nata sulle colonne del Manifesto e successivamente
ospitata dall’Unità e dal Fatto Quotidiano. Nella rubrica veniva preso in
esame un segmento importante della cultura popolare italiana: quello
del giornalismo sportivo. Gli articoli pubblicati quotidianamente dalle
tre testate sportive nazionali e dalle pagine sportive dei giornali d’informazione venivano passati al setaccio per fare emergere gli sfondoni,
le inesattezze, le forzature, e le «troppo licenziose licenze». La rubrica
ebbe un successo inatteso, tanto da indurmi a dedicarle un libro. Pubblicato da Meltemi nel 2003, esso arrivò in libreria col titolo Pallonate.
Tic, eccessi e strafalcioni del giornalismo sportivo italiano.
L’approccio utilizzato è lo stesso che decretò il successo di Pallonate.
Qui non si discetta della qualità di un libro e del suo autore, se non in
modo molto rapido. Qui si fa una lettura molto approfondita del testo.
Che per l’autore può rivelarsi una trappola, e lui non lo sa. L’autore
può difendersi in ogni modo dalle critiche sullo stile, sui temi scelti,
sulla qualità della scrittura; perché riguardo a questi aspetti siamo nel
campo della critica di merito, e riguardo al merito ciascuno è libero di
pensare e giudicare come vuole senza che vi siano giudizi più validi di
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altri a prescindere. Ma come fa l’autore a difendersi dalle cose che ha
scritto? Non può. Scrivendole e dandole alla stampa se ne è assunto la
responsabilità, ha legato indissolubilmente il nome e la faccia a quel
testo. E se infine il testo gli si rivolta contro per qualsiasi motivo (perché scorretto, o impreciso, o eccessivo, o sciatto, o per qualunque altra
ragione sia possibile immaginare), egli non potrà difendersi in nessun
modo. Dovrà incassare il colpo di boomerang e ingoiare la frustrazione.
Tu l’hai scritto, tu te lo tieni per come è venuto fuori.
In queste pagine troverete analisi del testo. E vi godrete uno a uno i
boomerang che tornano in piena fronte agli autori presi in esame. Dai
nomi che trovate nell’indice scoprite che sono tutti quanti personaggi
di chiara fama. Una fama acquisita sia nel ruolo di scrittori, sia in altri
ruoli a partire dai quali i personaggi in questione hanno voluto cimentarsi come narratori. Perché oggi un romanzo può scriverlo davvero
chiunque, specie se ha un buon capitale di notorietà da spendere sul
mercato editoriale. E specie se gode del favore da parte di critici compiacenti e ben allocati nei grandi giornali.
Il libro è diviso in tre sezioni.
La prima è dedicata ai libropanettonisti, gli autori di libri di cassetta concepiti come fossero cinepanettoni. Obiettivo dell’operazione
editoriale è in questi casi la conquista del grande pubblico. In questa
sezione trovano spazio i capitoli su Giorgio Faletti, Fabio Volo e Federico Moccia.
La seconda sezione ospita i narratori improvvisati. Si tratta di personaggi famosi che un bel giorno, poiché non avevano di meglio da fare,
hanno deciso di scrivere un romanzo. Gli autori passati in rassegna
sono i cantanti Pupo e Giuliano Sangiorgi (leader e voce dei Negramaro).
La terza sezione è dedicata ai premiati, e ospita tre scrittori che grazie alle loro fatiche narrative hanno portato a casa ambiti premi letterari: qui trovate i capitoli su Antonio Scurati e Alessandro Piperno.
Prima di passare alla lunga rassegna dei testi scritti dai nostri eroi
mi tocca controbattere preventivamente alle due ovvie obiezioni che in
molti si sentiranno di muovere.
La prima riguarda il fatto che alcuni di questi autori siano stati
insigniti di prestigiosi premi letterari. Rispondo che l’analisi dei loro
testi dovrebbe far riflettere su quanto prestigiosi vadano considerati quei
premi.
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L'importo della ferita e altre storie
La seconda obiezione è ancora più sollecitante, e ha a che fare con
la categoria dei libropanettonisti. Succede che, se vi azzardate a criticare
la qualità dei loro libri, troverete sempre qualcuno pronto a saltar su
e sbattervi in faccia il numero delle copie vendute. «Ma sta’ zitto, che
Faletti ha venduto 12 milioni di copie!». Per carità, il dato è incontrovertibile, e i numeri sono indiscutibili più di quanto lo sia un errore di
grammatica. Ma se così stanno le cose - se il piano della discussione è
quello dei grandi numeri, e se la quantità si trasforma automaticamente
in qualità -, allora bisogna comportarsi di conseguenza in ogni campo
dell’agire quotidiano. Tutte le cose che realizzano grandi numeri devono essere assunte come buone e giuste, e essere elette a riferimento
di qualità. Se questo è il principio, mi può anche star bene. E anzi ne
rilancio e ne radicalizzo la logica, rifacendomi a una vecchia e geniale
battuta di Roberto Freak Antoni. Che tempo fa scrisse: «Mangiate merda! Miliardi di mosche non possono avere torto!».
Ecco, questo è il punto. A chi sostiene che i grandi numeri siano
automaticamente fonte di legittimazione e indice di qualità, chiedo di
essere conseguente e coerente applicando il principio a 360 gradi nella
propria vita quotidiana. E mangiando un bel piatto di merda tutte le
sere a cena. Ha facoltà di sceglierla di qualsiasi qualità. A patto che non
sia la propria.
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Parte prima
I libro-panettonisti
Capitolo 1
Giorgio Faletti,
«l’incredibile più grande scrittore italiano»
«Non ci crederete, ma quest’uomo è il più grande scrittore italiano».
La copertina di Sette, il magazine settimanale del Corriere della Sera,
sbatté in faccia ai lettori questo titolo un giovedì di novembre 2002.
E lì campeggiava una foto che molti lettori fecero fatica a associare.
Non perché non riconoscessero il personaggio, ma perché proprio non
riusciva loro capire come quello lì potesse essere «il più grande scrittore
italiano». Ma chi, Giorgio Faletti? Quello che faceva Vito Catozzo a
Drive In? Quello che voleva sempre regalarti il giumbotto? Quello che
soave come le unghie passate sulla lavagna cantava «Minchia signor
tenente»?1 Davvero roba quasi impossibile da credere, come del resto
avvertiva il titolo di copertina. E invece da allora quell’incredibile evento è andato avanti a accadere, trascinandosi fino all’oggi. Infatti, dal
giorno in cui i lettori si ritrovarono quella copertina fra le mani sono
trascorsi undici anni. Il settimanale allegato il giovedì al Corriere della
Sera ha fatto in tempo a cambiare denominazione, venendo ribattezzato Magazine, e a mutare il giorno dell’uscita settimanale passando
al venerdì e tornando alla vecchia denominazione Sette. E Faletti ha
riempito l'intero periodo con altri sette libri dopo quello d’esordio.
Incredibile. Ma vero.
Dunque, è dall’elemento d’incredibilità che bisogna partire. Cioè,
1 Potete godervi la memorabile e prolungata stonatura esibita sul palco del Festival di Sanremo digitando
la url http://www.youtube.com/watch?v=Qa4IgieVkhE
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Pippo Russo
dalla reazione di chi stentò a credere che davvero Giorgio Faletti potesse (e possa) essere considerato il più grande scrittore italiano. In quella
reazione ci sono la diffidenza e il pregiudizio riservati all’ex cabarettista, autore di performance dall’umorismo grasso che cauterizzavano
la risata sulle labbra, e suscitavano la medesima tenerezza riservata al
mago che sul palco della parrocchia non riesca a estrarre il coniglio
dal cilindro. Atteggiamenti comprensibili, questi della diffidenza verso
uno scrittore che giunge alle sponde della narrativa portandosi dietro un
curriculum siffatto. Ma in nessun modo tali atteggiamenti e pregiudizi
possono far velo a chi deve valutare un’opera letteraria. Obiettività e
esperienza impongono di non lasciarsi condizionare dalle idee preconcette, e di giudicare le azioni delle persone per i loro contenuti e non
partendo dall’opinione che su quelle stesse persone ci si era formati.
Dunque, questo è l’assunto dal quale bisogna partire: che anche un cabarettista che scatenava le risate soltanto se preregistrate, o un cantante
stonatissimo e dalla verve funebre (o entrambe le cose messe insieme),
può essere un grande scrittore.
La sola cosa che conti davvero per dare una corretta valutazione è il
confronto coi testi. Su questo intendo basarmi, così come farò nel caso
degli altri autori passati qui in rassegna. Tuttavia, non sarebbe giusto
sottrarmi dal dare un giudizio sulla qualità letteraria dei libri di Faletti.
Cioè, prima di guardare all’aspetto formale di quei volumi, ci tengo a
far conoscere il mio giudizio da lettore sulle opere dell’incredibile più
grande scrittore italiano. A ciò è dedicato il prossimo paragrafo, che
precede quelli rivolti all’analisi formale della prosa falettiana.
1.1 I thriller più lenti della storia
Di Faletti si dice che sia uno scrittore più americano che italiano.
Che abbia «reinventato» il noir in Italia. Che i suoi libri abbiano un
ritmo incalzante e avvincente. Che sia impossibile staccarsene.
Si dice.
In fondo, il bello della letteratura è anche questo: che ognuno la
vede a modo suo, e ci si può far piacere tutto. È così anche per la
gastronomia. C’è chi detesta al palato il mix dei gelati al cioccolato e
alla fragola, e chi invece trova che ne sortisca un contrasto sublime.
E c’è pure chi mette il formaggio sugli spaghetti alle vongole, ciò che
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molti (come me) trovano semplicemente criminale. De gustibus non
disputandum est. Detto questo, esprimo il mio personale parere estetico a proposito dei romanzi di Giorgio Faletti, senza preoccuparmi di
confutare l’opinione di chi la pensi in modo diverso. Per fortuna i gusti
letterari non sono uniformi, e come in campo gastronomico esistono
palati fini e palati grassi. Saranno i paragrafi successivi a supportare i
miei gusti e dis-gusti. Per il momento, dovendo dare un giudizio da lettore, e cioè basandomi sulle sensazioni e le emozioni suscitate in me dai
libri di Giorgio Faletti, posso valutare i suoi romanzi e racconti come i
thriller più lenti della storia. Allungati come brodi da servire a venti invitati in sovrannumero, costruiti su trame parecchio malferme e a volte
infantili, e con finali di quelli che quando salta fuori il colpevole si è
spinti a esclamare: «Ma fammi il piacere!». E il libro viene scaraventato
nell’angolo più lontano della stanza.
Ma detto questo, com’è il Faletti scrittore? Risposta complessa a domanda semplice, e non lo dico per usare a mia volta un luogo comune.
C’è che Faletti è una personalità molteplice, e lo dico senza voler dare
luogo a interpretazioni maliziose. Sforzandomi di ridurre per quanto
possibile il numero delle identità autoriali falettiane, posso indicare le
seguenti:
- il Faletti da scuola Holden, autore di quelle parti di libro che, pur
suscitando la medesima tensione emotiva che darebbe il vedere un
trancio di pizza della sera prima scaldarsi nel forno a microonde, quantomeno sono scritte con un barlume di tecnica;
- il Faletti solenne, che imbraccia il trombone e si lancia in spericolati assolo, come se anziché un thriller stesse scrivendo The Holy Bible
Reloaded;
- il Faletti allungatore di brodi, cioè il fratello cattivo e dispettoso del
Faletti da scuola Holden, che rovina il lavoro di quello stravolgendo il
ritmo di alcuni capitoli e zavorrandoli;
- il Faletti-Vito Catozzo, quello che proprio non riesce a resistere al
richiamo delle origini e regala battute umoristiche raggelanti.
A questo punto, di un autore così molteplice non resta che valutare
sommariamente l’opera, dando un voto in decimi a ciascuno dei suoi
libri.
Il primo, in ordine di pubblicazione è Io Uccido (Baldini Castoldi
Dalai, 2002), da adesso in avanti IU. Per gran parte dei lettori si tratta del libro meglio riuscito fra quelli di Faletti. Giunti in fondo alle
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679 (seicentosettantanove!) pagine, il primo commento è: «Se questo
è il migliore, non oso pensare cosa siano gli altri». Che dire? Il libro è
lungo almeno il triplo, se non più, di quanto necessario per dargli un
ritmo compatibile. La storia è improbabile. Tanto quanto il colpevole
e i poliziotti che lo braccano in modo maldestro, senza accorgersi di
dettagli che una polizia seria e realistica noterebbe in 5 minuti. Per di
più, l’identità del serial killer viene svelata a pagina 458; nonostante
ciò, la storia va avanti ancora per 221 (!) pagine, misura sufficiente per
scrivere un altro romanzo. Mentre leggevo quel finale che non finiva
mai, e che forse meriterebbe d’essere battezzato sfinale perché proprio
di sfinimento del lettore si tratta, mi tornava in mente ciò che pensai a
proposito di un altro romanzo esageratamente lungo, ma ovviamente
non paragonabile per qualità del prodotto e dell’autore a IU: L’età di
mezzo di Joyce Carol Oates. Allora immaginai che l’editore avesse messo nel contratto dell’autrice la seguente clausola: «Devi scrivermi un
romanzo da 600 pagine. Se me lo scrivi da 599 pagine, non ti pago». A
ogni modo, il voto per IU è 3.
Il secondo romanzo è Niente di vero tranne gli occhi (Baldini Castoldi Dalai, 2004, da adesso in avanti NVTO). Con le sue 496 pagine
è un libro meno corposo del precedente, ma come IU dura almeno il
triplo di quanto dovrebbe. È in queste pagine che emerge con maggiore insistenza il Faletti solenne. L’intreccio è ancora una volta stanco e
improbabile. La trovata della donna che riceve un trapianto di cornee,
e per questo rivede le immagini e le esperienze vissute dalla persona
espiantata, non è nemmeno originale: chi ha visto Quattro mosche di
velluto grigio, il terzo film di Dario Argento, lo sa bene. Il voto per
questo libro è 2,5.
Il terzo libro è Fuori da un evidente destino (Baldini Castoldi Dalai
2006, da ora in poi FED), e con esso si inaugura il filone del mistery. Si
tratta di una storia ambientata in Arizona, nella terra abitata dalle tribù
Navajo. E Faletti ci tiene a avvisare i lettori che per scriverla si è documentato sulla cultura Navajo. Come specifica nella breve nota in coda
al romanzo, egli ha letto ben 3 (tre!) libri sull’argomento, più il Conversational Navajo Dictionary di Gareth Wilson. Aggiunge che è stato
«in loco», per dire che mica qui si sta a pettinare le bambole! Lui in
Arizona c’è andato davvero, è uno che si documenta, mica come quelli
che orecchiano e riportano facendo credere d’avere avuto un’esperienza
diretta e dettagliata. A questa pretesa di verità risponde in modo arguto
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L'importo della ferita e altre storie
e spietato una lettrice, Cristina, che in data 22 settembre 2008 lascia
su Internet Bookshop un giudizio sul libro con tanto di voto (il minimo
consentito, 1/5) meritevole d’essere letto:
Sono andata sul sito di Faletti e ho guardato con attenzione le foto del
suo viaggio in Arizona e dintorni. Ebbene, non per sfatare un mito, ma, a
cominciare dalla foto a cavallo, fa tutto parte di un copione da pacchetto
turistico e niente di più (è stata scattata a Monument Valley, al Glen Ford
Point, dove un indiano Navajo presta per un paio di dollari il proprio
ronzino per una foto ricordo). Visto ciò, come si fa poi ad avere il coraggio
di rivendicare un minuzioso approfondimento delle tematiche di cui si
parla nel libro? Il mondo è piccolo e globalizzato, caro Giorgio, e non solo i
grandi letterati possono permettersi un viaggio in USA di un paio di settimane... Quindi un po’ più di sana modestia non guasterebbe.
Di FED posso dire una cosa positiva: è un rimedio infallibile contro l’insonnia. In quelle pagine succede quasi nulla, e quel pochissimo
avviene a un ritmo talmente lento da passare inosservato. Se non avessi
dovuto passarlo al microscopio l’avrei mollato a meno di metà, e io per
principio tendo a non mollare la lettura di un libro anche a costo di
farmi violenza. Non nego, tuttavia, che lo stato di narcosi provocato
a più riprese dalla lettura di quelle pagine possa avermi fatto sfuggire
dettagli degni di menzione. Quanto al rapporto fra lunghezza reale e
lunghezza opportuna del libro, è presto detta: su 492 pagine, almeno
420 sono di troppo. E a questo punto il voto congruo per quest’opera
sarebbe 2, se non fosse che essa mostra la Magagna delle Magagne Falettiane. Una roba talmente grossa da meritare il Guinness dei Primati.
La illustrerò al paragrafo 1.6. A ogni modo, si tratta di un dettaglio più
che sufficiente per far scendere il voto a 0,5.
Il quarto libro è un caso a sé. Si tratta di una raccolta di racconti,
Pochi inutili nascondigli (Baldini Castoldi Dalai, 2008, da ora in poi
PIN). Con questo volume Faletti prosegue lungo il filone del mistero. Inoltre, tornando al motivo della poliedricità dell’autore, direi che
questo è il libro in cui egli è più vero, quello nelle cui pagine esprime al
massimo grado se stesso. E si vede. Risultato? Per giudizio unanime, si
tratta del libro peggiore. Per dare un’idea, nel 2011 l’editore BCD lanciò una collana di best seller in edizione economica, denominata Dieci
e lode perché raccoglieva i 10 titoli di maggior successo commerciale
della casa editrice. In quella collana vennero ripubblicati tutti i libri di
Faletti: i già citati IU e NVTO, più i successivi Io sono Dio e Appunti
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Pippo Russo
di un venditore di donne. Tutti tranne PIN. Al momento dell’uscita il
libro venne presentato come un tentativo dell’autore di misurarsi coi
grandissimi dei generi mistery e horror. Per intenderci, H. P. Lovercraft,
Edgar Allan Poe e, per rimanere alla contemporaneità, Stephen King.
Una volta letti quei racconti sembrano scritti, a esser generosi, da Rocco Smitherson ‘reggista de paura’, glorioso personaggio interpretato da
Corrado Guzzanti a Avanzi, inizio anni Novanta.
Voto a PIN: 1. E nel darlo mi torna alla mente una frase di Pasquale
Pulvirenti, il mio mitico professore di matematica e fisica al Liceo Classico Empedocle di Agrigento. Un giorno, sul finire del primo quadrimestre, gli chiesi che voto avrebbe dato in pagella a chi aveva risposto
sempre «impreparato» al momento dell’interrogazione. E presumevo
che il voto fosse 2, come è solito in questi casi. Lui rispose invece che
avrebbe dato loro 1. «Ma come 1?» chiesi stranito. E lui, stizzito della
mia sorpresa: «E gli regalo pure un voto!». Ecco, dando 1 a PIN ho
davvero l’impressione di regalargli un voto in più di quanto meriti.
Col quinto libro si torna al romanzo e al thriller: si tratta di Io sono
Dio (Baldini Castoldi Dalai, 2009, da ora in poi ISD). Subito un’annotazione positiva: rispetto alla desolazione di PIN il livello si risolleva. E
del resto sarebbe stato impossibile fare il contrario. La storia è ancora
una volta ambientata negli Usa, con New York come scenario principale. Un reduce dal Vietnam, che porta nel corpo e nell’anima i segni
dell’esperienza bellica, decide di vendicarsi contro il mondo intero. E
poiché non gli basta farlo da solo, coinvolge nella vendetta il figlio
nato illegittimamente da un rapporto con la figlia di un notabile locale.
Questo notabile, come da stereotipo, osteggia la relazione fra i due e è
l’artefice della partenza del (futuro) killer per il Vietnam. Uno schema
già visto in FED. La storia si sviluppa tra i primi anni Settanta e l’oggi,
con un ritmo che per lentezze quasi eguaglia FED. Certo, rispetto a
quest’ultimo in ISD si sussegue qualche evento in più. Ma ancora una
volta la cadenza è narcotizzante, e l’allungamento di brodo raggiunge
in certi passaggi il picco dell’estenuazione. Superfluo sottolineare che
anche stavolta la misura del romanzo è esagerata: su 520 pagine almeno 300 sono di troppo. Ma la cosa più rimarchevole di questo libro è
che esso risulta il più incomprensibile della lista. A un certo punto la
confusione sull’identità dei killer (padre e figlio) diventa quasi inestricabile. Con risultati grotteschi alla lettura. Immaginate di giungere alla
fine di un giallo, o thriller che dir si voglia, e di scoprirvi a chiedere:
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«Ok, ma chi era l’assassino?». Vi pare una cosa impossibile? E invece è
esattamente ciò che è successo a molti lettori, come ancora una volta
testimoniano i giudizi lasciati su Internet Bookshop, qui riportati testualmente senza correggere gli errori di battitura. Inizia Tizigolf il 6
novembre 2010, che sotto il voto 1/5 scrive:
no vabbé ma che noia di libro. ma scusate alla fine chi é il figlio????
500 pagine x non capire neanche come finisce è il colmo
Da lì s’apre il dibattito sull’incomprensibile finale. Tocca a ‘zs’, che il
4 marzo 2011 dà voto 1/5 e scrive:
proprio non ci siamo... trama scontata e inverosimile... e finale incomprensibile... ho anche provato a rileggere le ultime pagine ma proprio nn
ci siamo!!!
Si associa felly 66, che pure sul voto è un po’ più indulgente (2/5).
Ecco cosa scrive il 6 settembre 2011:
Beh, mi consolo perchè non sono l’unica che non ha capito bene il finale
!! Peccato perchè, anche se a tratti un po’ lento, si è lasciato leggere bene e
non mancava una certa suspance...
Chiude la serie «RobertaMilano», che per di più a accompagnare il
voto di 2/5 scrive un giudizio da cui si deduce un suo atteggiamento
non pregiudizialmente contrario all’autore:
Inizio secondo me un pochino lento. Bellissimo e avvincente poi(impossibile non appassionarsi alla storia tra vivien e russell!)ma le ultime 20
pagine.. no comment! finale a sorpresa che non ho ben capito!!! delusione..
concordo con chi chiedeva in altre recensioni indietro «chi è il figlio e se ci
sono quindi due copevoli»... io uccidio rimane il migliore!
Non mi sembra sia necessario aggiungere dell’altro. Voto: 2.
Il sesto libro viene pubblicato a strettissimo giro di posta, e ancora
una volta è etichettabile come thriller. Si tratta di Appunti di un venditore di donne (BC Dalai, 2010, da adesso in poi AVD). Di tutte le
improbabili storie falettiane, a parte i racconti compresi in PIN, è la più
improbabile. Ambientata a Milano durante i giorni del sequestro Moro,
dunque fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, essa mescola confusamente terrorismo, malavita milanese, trame di servizi segreti deviati e
esponenti politici collusi con la mafia. Una gran macedonia che di per
sé potrebbe anche avere un sapore coerente, sapendola amalgamare. Il
problema è che i terroristi tratteggiati sono dei brigatisti da operetta, gli
‘ndranghetisti trapiantati al nord sono più fessi di mister Bean, gli 007
infedeli lì dipinti sarebbero incapaci di ordire un blocco del traffico, e i
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Pippo Russo
personaggi compromessi con la mafia sembrano di quelli che la mafia
l’hanno vista soltanto nelle commedie all’italiana. Il protagonista è un
magnaccia castrato che si ritrova tirato dentro a un complotto nel quale
vengono mescolati terrorismo e servizi segreti deviati. Il motivo per cui
Francesco Marcona alias Bravo alias Nicola Sangiorgi viene coinvolto è
d’esilissima credibilità, ma questo è il meno. A non reggere sono i personaggi dei brigatisti, soprattutto quello di Carla: che a sua volta è un
agente del Sisde infiltrato nelle BR, capace di tradire e uccidere chiunque
tranne Francesco-Bravo-Nicola senza che se ne capisca il perché. Tutta la storia ha un impianto debolissimo, e tuttavia nella parte centrale
mantiene quantomeno un ritmo accettabile, abbastanza da far pensare
che la scrittura falettiana possa far segnare una leggera tendenza al rialzo
e riapprossimarsi a quel 3 di IU che rimane il massimo di valutazione.
Dunque, per gran parte dello svolgimento di AVD il Faletti da scuola
Holden pone quantomeno le condizioni per portare a casa la pagnotta.
Ma poi, purtroppo, nel finale interviene il Faletti solenne col suo infallibile fiuto per i colpi di scena improbabili. Lì viene piazzato l’ennesimo
disvelamento d’identità, come già era avvenuto in quasi tutti i precedenti
romanzi. Così è in IU, riguardo all’assassino. Idem in ISD, dove addirittura le identità cambiate sono due, quelle del padre e del figlio assassini.
In AVD si scopre che il magnaccia evirato è in realtà figlio di un senatore
democristiano vicino alla mafia. E ancora non è tutto. C’è da aggiungere
che a evirare Marcona-Bravo-Sangiorgi sono stati dei picciotti di mafia,
per punire la storia d’amore fra lui e la pupa di un boss, e che il padre
era consapevole di quanto stava per accadere al figlio ma aveva lasciato
fare per non sacrificare la propria scalata politica. Ancora una volta, tutto molto credibile. Plausibile soprattutto che Marcona-Bravo-Sangiorgi
ottenga in pochi giorni la possibilità di espatriare e rifarsi una vita nonostante si trovi al centro di cotanto casino. Per dare un’idea di quanto sia
breve il lasso temporale, la vicenda inizia quando Aldo Moro è già stato
rapito (dunque, dopo il 16 marzo) e si conclude, con l’espatrio del personaggio uno e trino, quando ancora l’ex segretario della DC non è stato
ammazzato dalle BR (dunque, prima del 9 maggio). In così poco tempo,
pur trovandosi nel mezzo di un intrigo da far saltare in aria il paese, e per
di più con la tensione sociale e politica al diapason per il perdurare della
prigionia di Moro, Marcona-Bravo-Sangiorgi si sgrava di tutte le accuse,
prende il malloppo e espatria col beneplacito dei servizi segreti. Giudicate voi quanto possa reggere un intreccio del genere. Voto: 1,5.
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