FONDAMENTI STORICO-EPISTEMOLOGICI DELLA SCIENZA

Transcript

FONDAMENTI STORICO-EPISTEMOLOGICI DELLA SCIENZA
FONDAMENTI STORICO-EPISTEMOLOGICI DELLA SCIENZA GIURIDICA
Prof. Igino Grendene
a.a. 2003-2004
SISS
III^ Lezione on-line: La dottrina, il giudice, il legislatore
La legislazione e la consuetudine nell’alto medioevo.
Con la caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche anche l’ordinamento giuridico
romano perse la sua posizione di predominio; “i principali cambiamenti furono questi: mentre
sotto l’impero tutta la popolazione era stata soggetta al diritto romano, soltanto i Romani, i
discendenti della vecchia popolazione indigena, in questo periodo furono soggetti ad esso e le
tribù germaniche conservarono il loro diritto consuetudinario” (Van Caenegen, Introduzione
storica al diritto privato, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1995).
I popoli germanici erano governati, come si è accennato sopra, dalle consuetudini,
tramandate oralmente, tuttavia con la formazione dei nuovi regni nei territori conquistati le
loro leggi nazionali “furono talvolta messe per iscritto, sotto l’influsso di modelli antichi: erano
queste le leges nationum germanicarum, o in tedesco Volksrechte. Le compilazioni non erano
tuttavia niente più che rozzi tentativi di esprimere in latino una legge primitiva che era priva di
ogni principio generale e, di conseguenza, di qualsiasi tradizione analitica. Queste compilazioni
contenevano principalmente norme di diritto penale, che prendevano la forma di misure
dettagliate nello stabilire multe e compensi in caso di omicidio e danni vari, come pure norme
di procedura e sul diritto delle prove (ancora primitivo e irrazionale). Tali norme riflettevano
fedelmente la società agraria arcaica da cui derivavano; la più nota è la Lex Salica, la legge dei
Franchi Sali, la più antica versione della quale risale probabilmente agli ultimi anni del regno di
Clodoveo (507-511 ca.). In essa si trovano le «glosse malbergiche», vecchi termini giuridici
franchi che appaiono nel testo latino e si chiamano così perché sono le parole rituali
pronunciate sul malberg, cioè sulla collina su cui la corte (mallus) si riuniva.
Si dovrebbero pure menzionare importanti compilazioni di leggi germaniche al di fuori del
regno franco, come l’editto di re Rotari del 643 per i territori conquistati dai longobardi. In
Inghilterra, i re anglosassoni a partire dal re Etelberto del Kent (+ 616) promulgarono anche
un’importante serie di «leggi» (dooms), ma a differenza delle altre compilazioni queste inglesi
furono composte in lingua volgare.
I regni germanici del Continente - franco, ostrogoto, visigoto e longobardo - unirono popoli
di origine romana e germanica. I romani rimasero soggetti al diritto romano volgare, i germani
al diritto della propria tribù. Questo è il principio della «personalità» del diritto: qualunque sia il
suo luogo di residenza e chiunque sia il sovrano del posto, un individuo rimane soggetto alla
legge del suo popolo di origine. Così, nel vasto impero franco di Carlo Magno, oltre ai romani,
c’erano parecchie altre nazioni germaniche governate dal loro proprio diritto. Per superare il
disagio provocato da questa complessità, Carlo Magno tentò di imporre una specie di unità
giuridica, ma senza successo. Fu solo più tardi che il principio della personalità del diritto fu
abbandonato in favore del principio della territorialità, sotto cui il diritto consuetudinario della
regione era applicabile a tutti coloro che vi abitavano, senza riguardo all’origine etnica” (Van
Caenegem, Introduzione storica al diritto privato, cit., p. 40).
A proposito del rapporto tra legislazione e consuetudine nel periodo dell’alto medioevo
(dalla caduta dell’impero romano fino a circa il 1100 d.C.), è opportuno citare il pensiero di M.
Kelly (Storia del pensiero giuridico occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 40) “il re
germanico del medioevo non fu mai considerato come avente un potere indipendente ed
arbitrario di creare nuovo diritto. Il diritto stesso era in primo luogo concepito come una
consuetudine immemorabile della nazione che, lungi dall’essere stata «creata» da un qualsiasi
re, era la cornice in cui il re si collocava, il panorama in cui si muoveva. Ovviamente, in questa
o quella occasione si rendeva necessario un mutamento o un’aggiunta al corpo del diritto
esistente, ma ogni mutamento di questo genere, in tutti i regni germanici, sembra essere stato
possibile solo con l’approvazione di altre persone oltre al re: di norma, un’assemblea degli
uomini più importanti della nazione, la cui approvazione si supponeva avvalorata dal consenso
popolare. Un esempio precoce di legislazione elaborata secondo la concezione germanica sono
le leggi del re longobardo Rotari (636-652), le quali, vi si dichiara esplicitamente, furono
confermate nel modo tradizionale fra i Longobardi, cioè con la battitura delle lance sugli scudi,
il modo in cui questo applauso guerresco stava ad indicare il consenso popolare”.
Nei regni romano-barbarici furono fatti molti tentativi per ricomprendere in testi scritti le
consuetudini dei popoli germanici “di solito l’iniziativa partiva dal re, e lo scopo era quello di
dare alla comunità una maggiore certezza nell’applicazione del diritto tradizionale. Una
documentazione scritta degli usi costituiva la prova certa di quella che era la legge, e definiva
questioni in precedenza lasciate alla discrezionalità dei giudici laici nelle corti locali,
proteggendoli da influenze indesiderabili. Quando le norme su materie come il wergild e gli
indennizzi per gli illeciti venivano trasfuse con precisione in un testo scritto, la corte infatti
poteva opporsi alle pressioni volte a farle dichiarare la legge in termini favorevoli ad una parte,
richiamandosi al proprio dovere di seguire il testo.
Spesso queste raccolte primitive di diritto consuetudinario documentano i passi intrapresi
per accertarne il contenuto, e la sua successiva approvazione da parte delle assemblee
popolari. Il prologo della Legge Salica (dei Franchi Salii) afferma che quattro uomini erano stati
scelti e avevano discusso con i presidenti delle assemblee popolari le prassi originali seguite in
situazioni particolari, e poi le avevano raccolte per presentarle all’assemblea generale. In
quanto prodotto dell’accordo tra il re e tutto il popolo, le compilazioni talvolta erano descritte
come patti, per esempio il pactus legis Salicae. Gradualmente, tuttavia, man mano che la loro
autorità diventava più salda, i re germanici rivendicarono il potere di legiferare unilateralmente
in nome del popolo nel suo insieme. Ma la legge che promulgavano pretendeva ancora di
essere la corretta esposizione di ciò che era sempre stato legge, sebbene in precedenza non
correttamente enunciata. Molti di tali atti legislativi sono attribuiti ad un particolare sovrano, in
modo da usufruire dell’autorità del suo nome, ma di fatto contengono materiale che si trova
anche in raccolte simili di altre nazioni” (P. Stein, op. cit., p. 97).
2. Il diritto giustinianeo.
Per seguire l’evoluzione del rapporto tra consuetudine e legislazione (che costituisce una
parte del filo conduttore di questo Corso) è necessario ritornare brevemente al VI secolo dopo
Cristo. E’ infatti nel 527 d.C. che Giustiniano diviene imperatore (dell’impero romano d’Oriente)
ed inizia, come ricorda Stein, “un programma di restaurazione dell’antica gloria del primo
periodo dell’Impero Romano. C’era stata una rinascita dello studio accademico del diritto nelle
scuole giuridiche orientali, ed egli fu così in grado di ordinare al suo ministro Triboniano di
organizzare una codificazione basata sul diritto classico di tre secoli prima. La parte più
ambiziosa dell’opera è il Digesto, talvolta noto con il titolo greco Pandette, un’antologia di
estratti dagli scritti di vari giuristi classici ma specialmente dei cinque indicati nella Legge delle
citazioni. Tali estratti sono raccolti in titoli, ognuno dei quali è dedicato ad un particolare
argomento, ordinati in cinquanta libri. Questi brani rappresentano circa un ventesimo della
massa degli scritti di cui i compilatori si sono serviti e dei quali molto poco sopravvive al di
fuori del Digesto. I compilatori ebbero istruzione di intestare ciascun frammento con una
iscrizione che rivelava la sua fonte, ma al tempo stesso dovevano curare che non vi fosse
alcuna materia obsoleta, contraddizione o ripetizione nell’opera, ed erano autorizzati ad
apportare le modifiche necessarie a tal fine. Molte delle «interpolazioni» probabilmente furono
fatte allo scopo di abbreviare, ma la loro individuazione ha costituito un problema grandissimo
per gli studiosi. All’interno di ciascun titolo, scarsi furono i tentativi di organizzare i frammenti
in un ordine coerente.
L’altra sezione importante della compilazione giustinianea è il Codice, una raccolta di
costituzioni imperiali basata sul codice di Teodosio, ma che conteneva molta legislazione
successiva, comprese parecchie costituzioni promulgate dallo stesso Giustiniano per definire le
dispute giuridiche non risolte poste in luce dalla compilazione del Digesto. Le costituzioni erano
elencate in ordine cronologico in titoli, e i titoli in dodici libri. Sebbene il Digesto offrisse un
riassunto dello ius e il Codice della lex, erano troppo difficili per essere messi nelle mani degli
studenti, e perciò Giustiniano ordinò che fossero completati dalle Istituzioni, appunto un
manuale didattico, in quattro libri, basato su un testo del secondo secolo del giurista Gaio.
Giustiniano continuò ad emanare costituzioni fino alla sua morte, avvenuta nel 565, e queste
Novelle (novellae constitutiones) furono raccolte ed aggiunte alle altre tre parti della
codificazione per formare quello che più tardi venne chiamato il Corpus Iuris Civilis, l’insieme
del diritto civile, per contrasto con il diritto canonico della Chiesa.
I1 materiale di cui era formato il Corpus Iuris era in parte diritto scritto - le costituzioni
imperiali - e in parte diritto non scritto - le discussioni dei giuristi - ma la codificazione lo
ridusse interamente a diritto scritto, e tutte le sue componenti (anche le Istituzioni) da allora
in poi ebbero la stessa efficacia giuridica. Ogni riferimento alle autorità precedenti era proibito,
al pari dei commentari. Limitandosi ad osservare che chi corregge ciò che non è stato detto in
modo esatto merita un plauso maggiore dello scrittore originale, Giustiniano fece propria tutta
l’opera dotandone ogni parte della sua autorità.
All’epoca della sua pubblicazione, la codificazione giustinianea ebbe scarso impatto,
essendo per lo più inaccessibile all’Occidente di lingua latina e incomprensibile all’Oriente di
lingua greca. In effetti, riportandosi al diritto classico di tre secoli indietro, era in larga parte
inadatta alle condizioni della Bisanzio del sesto secolo. I manoscritti sopravvissero, tuttavia, e
500 anni più tardi, nell’undicesimo secolo, iniziarono ad essere oggetto di studio in Italia,
particolarmente a Bologna. Gli studiosi che vi si dedicarono però, i Glossatori, dettero poco
peso all’evoluzione storica del materiale in essi contenuto, e trattarono tutto come una legge
imperiale. Nonostante la pessima sistemazione del Digesto, analizzarono a fondo e si
impadronirono di tutti i passi, tentando di conciliarne le contraddizioni ivi presenti, a dispetto
delle assicurazioni del contrario da parte di Giustiniano. Nel far ciò, essi trattarono i testi come
intoccabili ed applicarono alla loro interpretazione tecniche simili a quelle usate in relazione ai
testi delle Sacre Scritture. Nel tardo Medioevo la legge giustinianea divenne «la legge scritta»
per eccellenza. Ma era redatta con uno spirito di distacco dalle esigenze pratiche dell’epoca. I
giuristi classici avevano posto un marchio accademico indelebile sul diritto romano, e questa
caratteristica fu mantenuta sia dai compilatori di Giustiniano, i più attivi dei quali erano
professori delle fiorenti scuole di Beirut e di Bisanzio, sia dai giuristi bolognesi. I testi infatti
non potevano avere utilizzazione pratica senza l’aiuto delle glosse e dei commentari che li
spiegavano. Anzi, la Grande Glossa a tutte le parti del Corpus Iuris, opera del docente
bolognese Accursio nella prima metà del XIII secolo, acquistò autorità uguale ai testi stessi.
«Ciò che la Glossa non riconosce, le corti non riconoscono» divenne una massima legale” (P.
Stein, op. cit., pp. 95-97).
3. Ius commune e ius proprium.
Come già accennato in precedenza, e riprendendo le parole di Van Caenegem, “verso il
1100 l’Occidente riscoprì il Corpus iuris civilis di Giustiniano. Non si trattò semplicemente di
ritrovare l’intero testo di Giustiniano; significò che da ora in poi il testo fu studiato, analizzato e
insegnato nelle università. Gli studiosi di diritto fecero glosse e commentarono queste antiche
e autorevoli compilazioni, e gradatamente costruirono un diritto neo-romano, ossia il diritto
romano medievale, che divenne la base comune dell’insegnamento universitario e della
disciplina giuridica in tutta l’Europa. Il diritto romano medievale o «civile», insieme con il diritto
canonico, che fu di per sé fortemente influenzato dal diritto romano, costituì il diritto comune a
tutto l’Occidente: da qui il nome di ius commune. La componente principale di questo diritto
comune scritto era quella romana, poiché erano i principi, la terminologia e la dottrina del
diritto giustinianeo ad essere la base dello studio del diritto canonico, piuttosto che il contrario.
Lo ius commune si deve mettere in contrasto con lo ius proprium, il diritto «particolare»
che era in vigore in innumerevoli varianti nei diversi paesi, regioni e città europee, sotto la
forma di consuetudini, ordinanze e «carte» concesse. Lo studio del diritto romano nel Medioevo
avrebbe potuto forse limitarsi a una ricerca puramente accademica, come il nostro approccio
attuale, per esempio, al diritto dell’antico Egitto. Ma non fu così. Attraverso i secoli, la dottrina
giuridica romana permeò la pratica legale in vari modi, che si esamineranno più avanti, e il
diritto dotto medievale pertanto influenzò lo sviluppo del diritto in misura maggiore o minore in
ogni parte dell’Europa occidentale. Questa recezione di un diritto straniero si può chiamare
acculturazione giuridica o «trapianto giuridico». Per l’Occidente, nel basso Medioevo, il diritto
romano era un diritto nuovo e straniero: in modo decisivo lo fu nelle regioni settentrionali, ma
anche nelle regioni mediterranee dove, sotto l’influsso germanico e feudale, il diritto si era
alquanto distaccato da quello antico.
Non c’è nulla di eccezionale nella recezione di un sistema giuridico straniero che sia
considerato tecnicamente superiore. Talvolta questo è un processo improvviso, deliberato;
altre volte avviene con una lenta infiltrazione, una graduale, impercettibile osmosi. Un esempio
ben noto di assimilazione del primo tipo, a parte la recezione in Germania all’inizio dell’età
moderna, è la decisione delle autorità giapponesi, nel XIX secolo, di introdurre il diritto civile
occidentale (specialmente tedesco, ma in parte anche francese), in una consapevole politica di
occidentalizzazione volta a liberare il paese dai condizionamenti feudali. In questo esempio il
Giappone optò sì per un diritto straniero, ma per uno vivo e contemporaneo. Di contro,
l’assimilazione dello ius commune nel Medioevo dipese dal diritto di un impero e di una civiltà
che erano svaniti secoli prima, e di cui il Corpus iuris era semplicemente, per così dire, una
reliquia imbalsamata. In questo modo il filo di una evoluzione millenaria, che si era spezzato
provvisoriamente nella Bisanzio del VI secolo, fu ripreso nell’Italia del XII secolo.
L’entusiasmo che caratterizzò lo studio del Corpus iuris, diffusosi dall’Italia nelle varie
società occidentali, fu soltanto parte di un rinascimento culturale più generale, un aspetto del
quale fu la fondazione delle università. Oltre al diritto antico, la filosofia greca (Aristotele) e la
scienza greco-araba (medicina, fisica, matematica) furono scoperte, tradotte e commentate. Il
prestigio del sapere antico fu assoluto: ciò che la Sacra scrittura era per la teologia, Aristotele
fu per la filosofia, Galeno per l’anatomia e il Corpus iuris per il diritto. Ma motivi ed esigenze
supplementari stimolarono l’interesse per l’antico diritto romano: città e principati che si
espandevano avevano bisogno di un ordinamento giuridico adatto alle nuove strutture
amministrative, e durante la lotta per le investiture, ciascuna parte cercò argomenti per
sostenere la propria causa nei testi del Corpus iuris” (Van Caenegem, Introduzione storica, cit.,
pp. 69-71).
L’opera dei giuristi del XII secolo fu proseguita dai commentatori del Trecento e del
Quattrocento i quali “costruirono sulle fondamenta gettate dai loro predecessori, ma fecero un
passo avanti: essi ampliarono i loro orizzonti fino a prendere in considerazione tutto ciò che
costituiva il mondo dei loro tempi, con le sue necessità. Furono realisti e capirono che il diritto
consuetudinario e la legislazione medievali sarebbero sopravvissuti, e che la scienza giuridica
basata sul diritto romano doveva tenere conto di questo fatto. Per cui essi mantennero sempre
la loro attenzione puntata sulla vita reale, e scrissero commenti e trattati che andavano oltre i
ristretti confini del vecchio Corpus. La loro opera riguardava problemi fondamentali, e si
spingeva oltre le parole del Corpus, così da essere comprensibile e pronta ad essere
immediatamente usata nei tribunali. Davano spesso consigli alle parti ed alle corti su specifici
problemi o cause che venivano loro sottoposti (consilia), cosa che li poneva a diretto contatto
con le realtà e le perplessità dei comuni cittadini. Però essi erano e rimanevano sempre
civilisti, cioè il ‘consiglio’ che essi esprimevano era basato sul diritto romano ed era pieno di
riferimenti al Corpus ed ai suoi glossatori. Questa scuola si occupò anche del problema del
giusto posto del diritto romano in una società europea che si era molto allontanata dal mondo
classico: essa sviluppò la dottrina del rapporto fra lo ius commune e lo ius proprium” (Van
Caenegem, I signori del diritto, trad. it., Giuffrè, Milano, 1991).
Nel Cinquecento si affermò la scuola degli Umanisti: “Questi giuristi fecero parte del
generale movimento intellettuale dell’epoca, e ne condivisero l’entusiasmo per il ritorno alle
fonti, l’avversione per il barbarismo medievale (in particolare per il cattivo latino) e l’amore per
il metodo filologico e storico volto a scoprire il vero significato dell’antichità classica e delle sue
opere. I giuristi umanisti volevano ricostruire il diritto romano ed il ruolo che esso giocò
nell’antichità, per cui era necessario liberarlo dai sedimenti e dai travisamenti medievali, e
sviluppare un vero approccio storico. Questo fu ciò che essi si impegnarono a realizzare, e non
vi è dubbio che raggiunsero una più profonda e più esatta comprensione del diritto di Roma e
della società in cui esso operava. Produssero anche eccellenti edizioni critiche del Corpus, che
vennero sorpassate soltanto dal testo standard tedesco dell’Ottocento. Ma mentre ciò era un
grande servizio per la cultura, era di poca utilità per la pratica del diritto. Il diritto puro
dell’antichità era applicabile solo all’antica Roma; i tribunali della moderna Europa potevano
servirsene poco e preferivano il diritto romano così come i commentatori l’avevano adattato
all’Europa in cui vivevano” (Van Caenegem, I signori del diritto, cit., pp. 53-54).
Tuttavia lo studio prodotto dai Commentatori abbinato a quello degli Umanisti, servì nel
secolo successivo, creò una cultura giuridica che “penetrò nell’uso quotidiano dei Tribunali e
modificò in diverse maniere la vita di tutti nel Continente (ed in misura minore in Inghilterra)”
(Van Caenegem, I signori del diritto, cit., p. 54).
A questo punto è opportuno fermarsi, in quanto i periodi successivi saranno trattati nella
lezione V, che avrà per oggetto la storia delle codificazioni europee, ma con cenni anche al
XVII e XVIII secolo.
Lo Specializzando è invitato a spedire una breve relazione, tramite e-mail, al Tutor (max 2
pagine) sul tema: Consuetudine e legislazione.