Stralcio volume

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Capitolo Primo
FINANZA E IMPRESA.
UN QUADRO D’INSIEME *
1.1. Introduzione
Si assiste oggi a un ampliamento delle funzioni e dei ruoli dell’impresa. L’impresa, da un lato, è sospinta, nel conseguimento del fine della sopravvivenza, a
introdurre affinamenti e innovazione nei processi di produzione di beni e servizi.
Dall’altro lato, l’impresa deve rispondere a istanze, aspettative e interessi con
contenuti sovente differenziati e promananti da una platea variegata di soggettività presenti sia all’interno che all’esterno dell’impresa stessa.
In questo mutato quadro di riferimento che la finanza e la funzione finanziaria,
intesa come presidio organizzativo, vede arricchirsi e ampliarsi il proprio contributo nell’ambito del governo dell’impresa. Ciò quando i responsabili della funzione finanziaria quantificano al responsabile dalla funzione ricerca e sviluppo i
fabbisogni finanziari connessi all’introduzione di nuovi prodotti, al responsabile
commerciale indicano i vantaggi e gli svantaggi connessi alla gestione del credito
mercantile, al responsabile della politica degli investimenti illustrano i vantaggi
connessi al bilanciamento tra la riduzione del tempo dell’immobilizzo e il ciclo
dei rinnovi associati alle attività immobilizzate, al top management esplicano le
opportunità e i rischi associati a programmi di investimento finalizzati alla introduzione di combinazioni innovative o suggeriscono i benefici connessi all’introduzione di iniziative nel campo della sostenibilità.
La funzione finanziaria diventa dunque un momento unificante, un ponte tra le
scelte di natura reale, finalizzate a migliorare o a modificare le combinazioni produttive, e quelle di natura finanziaria, tipicamente rivolte a ricercare le fonti finanziarie necessarie per sostenere i fabbisogni scaturenti dai processi di produzione e dalle decisioni di investimento assunte nell’impresa (Golinelli, 1996).
Nello svolgere questo ruolo di ponte tra le dimensioni reali e finanziarie, la finanza d’impresa può contribuire alla formazione di un momento di riflessione,
* I paragrafi 1.2, 1.4, 1.5, 1.7 e 1.8 sono da attribuire ad Antonio Renzi. I paragrafi 1.1, 1.3 e 1.6
sono da attribuire a Gianluca Vagnani.
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
che talora può limitare le scelte reali, soprattutto quando la stessa contribuisce
all’analisi e alla valutazione delle possibilità produttive, fornendo i necessari pareri di fattibilità. Parimenti, la finanza può concorrere a espandere la capacità di
reazione dell’impresa alle tendenze irreversibili di fondo così come espandere la
capacità dell’impresa a modificare tali tendenze. Quando ciò, bilanciando opportunamente le fonti di finanziamento riesce a ridurre l’influenza esercitata dagli intermediari finanziari sulla discrezionalità manageriale, valorizzando i risultati
conseguiti facilita lo sviluppo della capacità di credito dell’impresa nei confronti
del sistema finanziario, concorrendo alla gestione del capitale circolante netto
tende a creare flussi di cassa potenzialmente disponibili per sostenere la politica
degli investimento, fornendo indirizzi per la politica dei dividendi ovvero per
l’accantonamento a riserva degli utili prodotti, la funzione finanziaria e le scelte
finanziarie che ne discendono possono svolgere un ruolo di primissimo piano in
termini di contributo alla capacità dell’impresa di mantenere nel tempo un adattamento con le dinamiche del contesto esterno.
Sebbene dal punto di vista teorico sia possibile tracciare due distinte modalità
attraverso le quali la finanzia d’impresa può contribuire al governo dell’impresa,
nella realtà dell’impresa queste modalità restano confuse e difficilmente separabili, soprattutto, in quanto vengono ispirate da una comune logica e sono conseguenza dell’esigenza dei manager di accrescere la capacità di sopravvivenza dell’impresa (Golinelli, 2011).
1.2. I presupposti della finanza
Lo studio della finanza trae origine dalla circostanza che nell’economia moderna le transazioni dei beni si realizzano per mezzo della moneta che si qualifica
come attività finanziaria, la cui emissione avviene, cioè, in assenza di una contropartita di beni reali (Ferrari et al., 2012, p. 58). “La creazione di moneta assunse
in pieno le caratteristiche dell’attività finanziaria con il passaggio dalla stadio di
moneta merce a quello di moneta carta: cioè nel momento nel quale gli strumenti
che venivano utilizzati per gli scambi non erano più beni reali, ma dei titoli rappresentativi e in forma via via minore e sempre più generica dei beni reali” (De
Mattè C., 1990, p. 6).
A ogni transazione regolata in moneta corrisponde un flusso finanziario tra due
operatori. Per esempio, nel cedere una quantità prestabilita di una merce il venditore otterrà dall’acquirente o una quantità equivalente di moneta o la promessa a
cedere detta quantità di moneta a una data futura. Nel secondo caso si crea in capo
al venditore una posizione creditoria e in capo all’acquirente una debitoria.
La moneta concorre alla formazione di attività finanziarie per il regolamento
degli scambi. Si creano così rapporti di debito e di credito che costituiscono flussi
di finanziamento all’interno del sistema economico. In particolare, si determinano
posizioni debitrici, alle quali corrispondono speculari posizioni creditrici, per ef-
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
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fetto, da un lato del collocamento di mezzi di pagamento, e, dall’altro, dell’insorgere di sfasamenti temporali tra il trasferimento dei beni reali e la contropartita
monetaria. L’economia moderna, dunque, si qualifica come creditizia, essendo i
movimenti dei beni reali speculari ai flussi di attività finanziarie costituite da moneta o da titoli rappresentativi della stessa.
Gli sfasamenti temporali originati dalle modalità di regolamento degli scambi
implicano, per gli operatori del sistema economico, la necessità di riequilibrare,
mediante il ricorso a strumenti finanziari, i flussi monetari in entrata con quelli in
uscita. Al riguardo, il vincolo finanziario, inteso come disponibilità di risorse di
capitale, assume connotati diversi in ragione del ciclo economico. Per i soggetti
che anticipano i ricavi ai costi la raccolta di nuovo capitale presso il sistema finanziario si realizza mediante un atto volontario, finalizzato a generare nuova liquidità in via anticipata rispetto alla normale formazione della stessa. Di contro,
nel caso di costi sostenuti anticipatamente rispetto ai ricavi, l’esigenza di reperire
risorse finanziarie rappresenta una condizione ineludibile, qualora l’autofinanziamento precedentemente generato non sia sufficiente a coprire il disavanzo originato dagli impieghi programmati.
A livello microeconomico, dunque, la finanza concerne la gestione delle transazioni finanziarie finalizzata all’impiego delle eccedenze di liquidità, nel caso di
avanzi finanziari, ovvero, nel caso di disavanzi, al reperimento del necessario capitale. Scopo generale della teoria finanziaria è l’analisi dei flussi di capitale che
si manifestano all’interno del sistema economico, e nell’ambito di ciascun operatore che lo compone. In particolare, gli studi in materia finanziaria attengono alla
teoria dei mercati finanziari, alla finanza d’impresa e all’economia degli intermediari finanziari. Si tratta di filoni di studio tra loro interdipendenti, nel senso che
la struttura del mercato finanziario, la dinamica finanziaria delle aziende e
l’attività svolta dalle società che intermediano i flussi di capitale rappresentano tre
aspetti propri di un’economia in cui alle posizioni in avanzo finanziario si contrappongono quelle in disavanzo finanziario (Monti, Onado, 1982, pp. 22-25).
Gli studi rivolti alle questioni finanziarie d’impresa sottendono alla necessità
di schematizzare più aspetti gestionali che nel corso degli anni hanno assunto rilevanza crescente. Un primo elemento che si qualifica come presupposto base degli studi in parola attiene alla circostanza che le risorse di capitale (a titolo di credito e di pieno rischio), al pari degli altri input dell’attività produttiva, sono onerose e scarse. Ogni utilizzo di capitale comporta, dunque, un duplice costo: un costo finanziario e un costo opportunità. Il primo costituisce il prezzo sostenuto
dall’impresa per disporre di mezzi finanziari adeguati alle esigenze gestionali. Il
secondo rappresenta l’onere indiretto dovuto alla rinuncia dei benefici associabili
a utilizzi alternativi del capitale, rispetto alle allocazioni finanziarie che l’impresa
sceglie di realizzare.
La teoria finanziaria d’impresa si è sviluppa come ponte tra scienze economiche e scienze manageriali. Da una parte, infatti, tale teoria fonda le sue radici sui
modelli economici basati prevalentemente sulla prospettiva neoclassica; dall’altra
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
ha come fine ultimo quello di fornire il manager aziendale di strumenti di sintesi
atti a governare le risorse finanziarie. L’adattamento di modelli economici alla
gestione operativa delle imprese comporta, inevitabilmente, rivisitazioni e arricchimenti delle teorie originarie tanto più accentuati quanto maggiore è la complessità che accompagna l’attività manageriale. Di conseguenza i fenomeni che
maggiormente hanno intensificato il dibattito teorico sulla finanza d’impresa sono: l’esigenza di governare le variabili finanziarie in contesti sempre più incerti;
la continua ricerca di nuovi modelli di analisi finanziaria finalizzati ad attenuare il
divario tra la rigidità di alcune impostazioni teoriche e la dinamicità dell’impresa
moderna; l’esigenza di includere il fenomeno finanziario all’interno del fenomeno
strategico; lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari che nel tempo hanno modificato le tecniche gestionali con riferimento, soprattutto, alla gestione della tesoreria e dei rischi (Comuzzi, Marzo, 2000, p. 651).
1.3. Cenni sul sistema finanziario
I circuiti finanziari propri dell’economia moderna sono il presupposto fondamentale per la costituzione e la sopravvivenza delle singole imprese. In particolare, l’acquisizione dei fattori di produzione, anticipata rispetto al perseguimento
dei ricavi, implica per le imprese l’accensione di passività che corrispondono ad
attività finanziarie detenute da più operatori del sistema economico (Giovannini,
1982). Lo studio della dimensione finanziaria dell’impresa non può, dunque, prescindere dal contesto finanziario di riferimento. Da questo punto di vista è opportuno richiamare alcuni concetti base relativi al sistema finanziario quale insieme
di mercati, intermediari e strumenti posti a supporto delle attività produttive e dei
risparmiatori.
In generale, il sistema finanziario emerge come infrastruttura necessaria al
funzionamento dell’economia reale. Esso svolge, infatti, molteplici funzioni che
impattano in modo decisivo, a livello sia macro che microeconomico, sui processi
di produzione e scambio di beni e servizi, sull’accumulazione del risparmio e sulle dinamiche monetarie. Più in dettaglio i tipici compiti assegnati al sistema finanziario sono: la funzione monetaria; l’allocazione del risparmio a favore di investimenti produttivi; la diversificazione dei rischi connessi alle decisioni di investimento/finanziamento; la creazione di meccanismi di trasmissione delle scelte di
politica monetarie; la definizione di regole comuni in ordine alle transazioni finanziarie; il controllo della stabilità dei mercati finanziari e degli intermediari deputati al trasferimento delle risorse di capitale.
L’espletamento di tali funzioni si estrinseca mediante una variegata gamma di
operatori, mercati e istituzione che qualificano il sistema finanziario come entità
complessa, caratterizzata da un vasto perimetro di relazioni di tipo sia orizzontale
che verticale. Le prime sottendono alla necessità degli attori del sistema economico di dar luogo a transazioni finanziarie. Le relazioni verticali si riferiscono, inve-
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Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
ce, alla gerarchia tra organi deputati al governo e controllo del sistema finanziario
e l’insieme di operatori che agiscono all’interno dello stesso con diversi ruoli.
Come evidenziato in figura 1.1 le transazioni finanziarie si realizzano tra unità
in surplus e unità in deficit.
Le unità in surplus identificano attori economici che, in un dato arco temporale, hanno accumulato risparmio in virtù di un saldo positivo tra attività finanziarie
e passività finanziaria, ossia tra finanziamenti accordati e finanziamenti attinti. In
altre parole, questi operatori presentano un’eccedenza delle fonti rispetto ai fabbisogni e, quindi, hanno l’esigenza di impiegare questa eccedenza.
Le unità in deficit si caratterizzano per un saldo finanziario negativo, quindi
per un volume di attività finanziarie inferiore a quello delle passività finanziarie.
In altre parole, questi operatori registrano un difetto delle fonti rispetto ai fabbisogni e, pertanto, hanno l’esigenza di reperire capitale per coprire questo difetto.
Figura 1.1. – Le componenti del sistema finanziario
Comitato di Basilea
FMI
BM
BCE
…
Banca d’Italia
Consob
Isvap
Antistrust
…
Unità
in surplus
Depositi
Polizze
Azioni
Obbligazioni
Organo di governo
su scala mondiale
Organo di governo
su scala nazionale
Struttura
operativa
Intermediari
finanziari
Unità
in deficit
Mercati
finanziari
Fonte: Adattato da G.M. Golinelli, C. Gatti, L. Proietti, G. Vagnani, 2011, p. 256.
L’integrazione tra finanziamenti e investimenti delle imprese è reso possibile
dalla formazione di flussi di capitale che caratterizzano in termini sia quantitativi
che qualitativi la dinamica del sistema finanziario, cui spetta il compito di collegare gli operatori che necessitano di risorse finanziarie con gli operatori che accumulano risparmio. Tali flussi scaturiscono da due esigenze contrapposte: il finanziamento delle imprese; l’impiego dei surplus finanziari accumulati dalle famiglie. A livello macroeconomico ciò assicura continuità all’attività produttiva,
favorendo altresì la crescita del risparmio.
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
I flussi finanziari tra gli operatori in surplus (tipicamente famiglie) e quelli in
deficit (tipicamente imprese) possono realizzarsi per via diretta ovvero indiretta.
Nel primo caso, il trasferimento delle risorse finanziarie si concreta mediante i
meccanismi di mercato, ossia attraverso l’acquisizione, da parte degli operatori
caratterizzati da un saldo finanziario netto positivo, dei titoli di debito e di rischio
emessi dalle imprese (figura 1.2).
Figura 1.2. – Schema d’intermediazione finanziaria diretta e ciclo finanziario del
sistema economico
Risparmio
Unità in
surplus
Risparmio
Remunerazione
del capitale
Unità in
deficit
Titoli di rischio e di debito
Imposte
Autofinanziamento
Reddito
Investimenti
Tale forma di intermediazione può essere realizzata secondo due modalità generali: 1) mediante scambi diretti e autonomi, ove i soggetti interessati (prenditore e
datore di fondi) non ricorrono al supporto di nessuna forma di intermediazione da
parte di operatori specializzati nel collegare domanda e offerta di risparmio; 2) mediante scambi assistiti da intermediari specializzati nella mediazione finanziaria.
L’intermediazione diretta nell’economia moderna si realizza attraverso mercati
primari e secondari. Nei secondi sono oggetto di negoziazione attività finanziarie
che sono state già emesse nei mercati primari. La principale funzione del mercato
secondario è quella di consentire agli investitori di mantenere un elevato grado di
liquidità dei propri investimenti. Allo stesso modo l’esistenza di un mercato secondario garantisce tutti gli operatori circa la possibilità di investire eventuali eccedenze di liquidità, nel momento in cui queste si manifestano. Mercato primario
(mercato di primo collocamento) e mercato secondario si alimentano a vicenda: il
numero di sottoscrizioni di titoli realizzate presso il mercato primario si riflette,
inevitabilmente, sulla quantità di titoli negoziabili presso il mercato secondario; a
sua volta l’efficienza di questo ultimo si riflette sull’efficacia dei collocamenti dei
titoli di debito, di rischio e degli altri strumenti finanziari.
Nel caso dell’intermediazione indiretta, invece, il collegamento tra i risparmiatori (es. una banca) e le imprese avviene in virtù dell’intervento di intermediari
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Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
finanziari che assumono il rischio connesso al trasferimento del risparmio, giacché non si limitano ad esercire una semplice azione di mediazione tra le parti, ma
operano come prenditori e datori di fondi, ossia da un lato raccolgono capitale,
dall’altro lo impiegano a copertura dei fabbisogni finanziari originati dalle attività
di produzione (figura 1.3).
Figura 1.3. – Schema d’intermediazione finanziaria indiretta e ciclo finanziario del
sistema economico
Forbice dei tassi
Unità in
surplus
Risp.
Intermediari
finanziari
Finan.
Unità in
deficit
Reddito
Risparmio
Remunerazione
del capitale
Autofinanziamento
Imposte
Reddito
Investimenti
I due modelli d’intermediazione finanziaria sono alla base di ogni sistema economico. È evidente, infatti, che il venire meno dei flussi di finanziamento causerebbe l’interruzione dell’attività di produzione (soprattutto in quelle imprese in
cui l’autofinanziamento non è sufficiente a coprire i fabbisogni finanziari), da un
lato, e la graduale distruzione della ricchezza accumulata dalle famiglie, dall’altro. In particolare, l’esistenza di un mercato di negoziazione diretta dei capitali e
l’attività svolta dagli intermediari finanziari consentono alle imprese di dar luogo
a processi d’investimento (in misura superiore rispetto alla loro capacità di autofinanziamento) dai quali scaturisce il reddito che in parte alimenta il risparmio delle
famiglie, e quindi i finanziamenti ottenibili in una fase successiva dal sistema
produttivo, in parte viene da questo riutilizzato sotto forma di autofinanziamento.
In sostanza, “il sistema assicura processi di finanziamento e di accumulazione del
capitale a livello macroeconomico, ridistribuendo le risorse disponibili mediante
una valutazione ed una selezione degli investimenti reali programmati dalle unità
economiche in disavanzo” (Ferrari et al., 2012, p. 5). Il trasferimento delle risorse
finanziarie può determinare, quindi, un circolo virtuoso, ove la produzione di beni
e la generazione di risparmio sono l’una funzionale all’altra. La capacità e
l’efficienza con cui il sistema finanziario sostiene la nascita, il funzionamento e lo
sviluppo delle imprese rappresenta un passaggio nodale per la sopravvivenza e la
crescita del sistema economico considerato nel suo complesso (Levine 1997).
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
1.4. La finanza d’impresa come governo del capitale
La dimensione e l’evoluzione finanziaria dell’impresa, in termini di risorse e
flussi di capitale, sono il riflesso, statico e dinamico, delle decisioni strategiche ed
operative assunte dal management (Golinelli, 1996). Le decisioni che impattano
sulla dimensione reale della struttura aziendale sono, infatti, accompagnate da
operazioni di investimento/finanziamento e generano effetti di natura sia reddituale che monetaria, con ciò che ne consegue sul piano dell’equilibrio finanziario,
cioè, della capacità dell’impresa di assicurare il costante bilanciamento tra la formazione e l’assorbimento della liquidità, ovvero tra le entrate e le uscite finanziarie (Sandri S., Bozzi S., 2004, p. 364). La relazione tra finanza ed economia d’impresa si manifesta sia nel lungo che nel breve termine: la nascita e lo sviluppo
dell’impresa implicano scelte finanziarie durevoli; la gestione operativa, connessa
ai processi di acquisto, trasformazione e vendita, produce effetti sulla dinamica
finanziaria di breve periodo.
Al fine di cogliere il senso e il ruolo dell’analisi finanziaria in ordine all’azione
di controllo e pianificazione dell’impresa è bene specificare, seppure in termini
generali, i momenti caratterizzanti il governo finanziario delle organizzazioni
economiche che, come riportato in figura 1.3, si articola nelle tre fasi di: acquisizione del capitale; allocazione del capitale; e remunerazione del capitale.
La fase di acquisizione del capitale scaturisce da un insieme di decisioni relative ai finanziamenti ottenibili da terze economie e ai processi di autofinanziamento (Amaduzzi, 1953, p. 111). Detta fase quindi, da una parte, determina la relazione tra sistema finanziario e impresa, dall’altra, dipende dalla capacità della
stessa di autofinanziare le proprie attività. L’autofinanziamento, poiché causa un
assorbimento totale o parziale del reddito (indicato come dividendo) potenzialmente spettante alla proprietà, può essere assunto come finanziamento non monetario realizzato dalla compagine sociale: i detentori di capitale di rischio essendo
entità, economicamente e giuridicamente, separate dall’impresa hanno la facoltà
di finanziare la stessa mediante apporti di capitale e/o la rinuncia ad esercitare il
proprio diritto al reddito prodotto. Non tutto l’autofinanziamento, tuttavia, consegue ad una esplicita rinuncia al dividendo. Infatti, una parte del reddito generato
dalla gestione è trattenuto dall’impresa sottoforma di ammortamenti ed accantonamenti a fondi.
La fase di allocazione del capitale si concreta nelle decisioni d’investimento
finalizzate al mantenimento o alla modifica della struttura aziendale nelle sue
componenti reali. Da questo punto di vista, l’allocazione del capitale può assumere la forma di investimenti conservativi o strategici: i primi assolvono ad una funzione essenzialmente operativa, in quanto attengono alla ricostituzione delle risorse reali consumate nell’espletamento della funzione di produzione e necessarie
affinché il ciclo industriale si svolga senza soluzione di continuità. Gli investimenti strategici sono, invece, causa di discontinuità strutturale, cui conseguono
effetti sia finanziari sia economici. Per esempio, la scelta di sviluppare nuovi pun-
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
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ti vendita causa effetti sulla dinamica dei costi e dei ricavi. Da una parte, infatti,
l’investimento in nuovi punti vendita genera la formazioni di costi aventi un durevole impatto strutturale sulla vita dell’impresa, quali quelli riconducibili ad
ammortamenti, manutenzioni, dipendenti ecc.; dall’altra, lo sviluppo della forza
commerciale dell’impresa aumenta le aspettative in termini di ricavi attesi.
Figura 1.4. – Le tre fasi del governo finanziario dell’impresa
DIMENSIONE FINANZIARIA DELL’IMPRESA
Stakeholder
finanziari
Capitale
Acquisizione
del capitale
Finanziamento
non monetario da parte
della proprietà
Remunerazione
del capitale
Allocazione
del capitale
Autofinanziamento
Rendimento del
capitale investito
La fase di remunerazione del capitale concerne il rendimento offerto dall’impresa ai fornitori di capitale di credito e di rischio. Tali fornitori si pongono a
monte del ciclo di impresa e vengono remunerati a valle dello stesso. In altri termini, l’impresa remunera i suoi finanziatori a seguito della formazione di flussi
economico-finanziari scaturenti dal processo input-trasformazione-output. Ciò
implica (come sarà meglio argomentato nel paragrafo 1.6 e nel quarto Capitolo)
che il rendimento atteso dai finanziatori sia conseguenza dei fattori tempo e rischio.
La remunerazione del capitale è strettamente interconnessa con le fasi di acquisizione e allocazione dello stesso: la qualità degli investimenti si riflette direttamente sulla capacità dell’impresa di soddisfare, in termini di remunerazione, i
creditori finanziari e la proprietà; le scelte in merito all’acquisizione del capitale
impattano sull’onerosità del passivo dell’impresa e, con riferimento al trade-off
tra autofinanziamento e capitali di provenienza esterna (ivi compreso il capitale di
rischio), sulla remunerazione monetaria della proprietà (dividendi). Al riguardo è
bene specificare che la remunerazione monetaria del capitale di rischio, ossia il
dividendo, rappresenta solo una componente del rendimento complessivamente
offerto dai titoli azionari. Tale rendimento, infatti, include l’eventuale capital
gain, cioè l’apprezzamento del valore azionario maturato in un certo arco temporale.
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
1.5. L’impresa come sistema di flussi finanziari
Negli studi in tema di financial management l’impresa è vista come struttura
attraversata da continui flussi finanziari conseguenti al combinarsi di impieghi di
capitale e fonti di finanziamento che si legano all’impresa sia nel breve che nel
medio-lungo periodo (Fanni, 2000, p. 3).
Dalla schematizzazione proposta in merito alle tre fasi del cosiddetto governo
finanziario dell’impresa emerge, infatti, che la dinamica finanziaria d’impresa può
essere letta come sistema integrato di flussi finanziari in entrata e in uscita, le cui
determinanti endogene sono: l’effetto combinato tra formazione del fabbisogno
finanziario e politica degli investimenti; l’efficacia economico-finanziaria degli
investimenti; la politica dei dividendi (figura 1.5).
Il suddetto sistema di flussi è, inoltre, influenzato da fattori esogeni quali: il
grado di efficienza e di liquidità del mercato finanziario di riferimento; le caratteristiche strutturali e la propensione al rischio degli operatori finanziari; l’andamento ciclico del settore produttivo d’appartenenza; la dinamica delle principali
grandezze macroeconomiche.
Figura 1.5. – L’impresa come sistema integrato di flussi finanziari
Stakeholder finanziari
DETERMINANTI
ENDOGENE
Flusso
in entrata
Allocazione del capitale
Flusso
in entrata
Fabbisogno
finanziario
Acquisizione del capitale
Flusso
in uscita
Efficacia
degli investimenti
Rendimento del capitale
Remunerazione del capitale
Politica
degli investimenti
Flusso
in uscita
Politica dei
dividendi
Il governo finanziario dell’impresa (o governo del capitale) implica, dunque, la
progettazione e il controllo della dinamica finanziaria in relazione agli obiettivi
strategici dell’impresa e a vincoli di natura endogena ed esogena. Ne deriva un
processo decisionale complesso, ove il sistema di flussi di capitale, da una parte,
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
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emerge come adattamento del profilo finanziario dell’impresa alla implementazione di una o più strategie, dall’altra, implica verifiche di fattibilità economicofinanziaria di determinati politiche aziendali. Per esempio, la decisione di incrementare la capacità produttiva dell’impresa, nel momento in cui si ripercuote sul
fabbisogno finanziario e sulla redditività dell’attivo, implica effetti sulla dimensione e la manifestazione temporale dei flussi finanziari in entrata e in uscita;
dall’analisi prospettica di tale effetti potrebbe emergere l’incompatibilità del progetto di crescita rispetto alla possibilità di ottenere un adeguato sostegno dal sistema finanziario; oppure aspettative di rendimento dei potenziali finanziatori incompatibili con l’equilibrio finanziario dell’impresa; o ancora una capacità di autofinanziamento limitata rispetto all’obiettivo di realizzare lo sviluppo dimensionale senza accrescere la dipendenza dal sistema finanziario.
1.6. La funzione finanziaria nell’economia d’impresa
Al pari delle altre funzioni aziendali, la funzione finanziaria necessita di specializzazione, in termini organizzativi, secondo il tradizionale principio della divisione del lavoro (Pochetti G., 1989, p. 17). Essa, tuttavia, assume connotati diversi, in funzione delle peculiarità gestionali e settoriali dei singoli operatori. In alcuni casi, specie nelle piccole realtà produttive, la gestione finanziaria non si realizza per mezzo di apposite strutture, ma compete direttamente alla proprietà, o
confluisce nell’area amministrativa; in altri, invece, l’area finanza è operativamente distinta dalle altre funzioni aziendali. Negli ultimi decenni, comunque, è
emersa una generale tendenza a sviluppare il ruolo della direzione finanziaria nei
processi decisionali. Ciò è spiegabile con l’accentuarsi della criticità dell’area finanza per effetto del proliferare di nuovi strumenti finanziari e per le maggiori alternative d’impiego, dovute principalmente al processo di globalizzazione dell’economia. Alla attuale complessità delle decisioni d’investimento e di finanziamento corrispondono opportunità e rischi crescenti che inducono le imprese a prestare una sempre maggiore attenzione ai processi di analisi volti a programmare e
a controllare l’andamento delle variabili finanziarie.
La funzione finanziaria, soprattutto quando viene esercitata da un’apposita
struttura, determina vincoli alle altre funzioni aziendali. Vincoli che sono fonte di
dialettica tra coloro che si propongono di accrescere le performance commerciali
e produttive e la direzione finanziaria, sempre tesa a sincronizzare i flussi monetari in entrata con quelli in uscita. Ad esempio, se da un lato l’area marketing tende,
per favorire incrementi nelle vendite, ad allungare le scadenze relative ai crediti
commerciali, dall’altro i responsabili della finanza esercitano pressioni per contenere il ricorso a tale leva commerciale foriera, come è noto, di tensioni monetarie
(Dallocchio M., 1995, pp. 2-3). I rapporti di equilibrio tra la finanza e le altre funzioni aziendali dipendono da fattori sia endogeni che esogeni. I primi derivano,
essenzialmente, dall’importanza che la proprietà aziendale assegna alla gestione
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
del denaro. I secondi sono riconducibili principalmente al settore di appartenenza,
all’andamento congiunturale dell’economia e alla liquidità disponibile in un dato
momento presso il sistema.
In generale, i fattori esogeni sono spesso tra loro interdipendenti ed influiscono
maggiormente, rispetto a quelli endogeni, sul ruolo che nel tempo assume la direzione finanziaria, soprattutto quando il loro andamento limita le risorse finanziare,
attuali e potenziali, sulle quali l’azienda può fare affidamento. In altri termini, se
l’azienda, per motivi non influenzabili dall’azione del management, opera con capitali sempre più scarsi, i vincoli propri della gestione finanziaria prevalgono sugli obiettivi di natura commerciale e produttiva. Ciò non deve, tuttavia, indurre a
pensare che, nel caso opposto di ampie disponibilità di capitale, la funzione finanziaria sia sempre rilegata ad un ruolo marginale. Nelle realtà d’impresa caratterizzate da elevata cultura manageriale, infatti, la pianificazione della tesoreria e delle
decisioni durevoli d’investimento e di finanziamento sono considerati ormai da
tempo elementi indispensabili affinché l’azienda si sviluppi in condizioni di equilibrio economico-finanziario. Del resto una gestione del denaro poco razionale,
quando viene percepita dai finanziatori esterni, provoca un peggioramento del cosiddetto merito creditizio, con la conseguente riduzione dei finanziamenti accordati a favore dell’azienda.
Ai fini di un giusto bilanciamento tra i limiti posti dalla direzione finanziaria,
riguardo alla raccolta e alla allocazione del capitale, e gli obiettivi di crescita della
struttura aziendale, è necessario disporre di un adeguato sistema informativo che
consenta un continuo scambio di dati. Poiché, mediante la gestione finanziaria le
performance dell’impresa vengono espresse in valori monetari, i responsabili dell’area finanza hanno a disposizione un considerevole numero di dati storici sintetici, soggetti di utilizzo da parte di altre aree aziendali. Nello stesso tempo, le competenze e le informazioni attinenti alle diverse funzioni assumono rilevanza ai fini
della valutazione finanziaria dei progetti d’investimento. Nelle imprese caratterizzate da più sistemi informativi tra loro non convergenti le previsioni finanziarie
sono poco attendibili in quanto, a prescindere dal modello quantitativo utilizzato,
si basano su presupposti sbagliati, scollegati cioè dalla realtà oggetto di valutazione. In tal caso possono emergere vincoli finanziari forvianti che impediscono lo
sfruttamento di determinate opportunità, o al contrario vengono intraprese strategie di crescita che causano squilibri monetari e reddituali.
Il ruolo svolto dalla funzione finanziaria nell’economia d’impresa, quindi, se
da un lato è bene che sia distinto in termini organizzativi dagli altri rami della gestione, dall’altro deve con questi interagire il più possibile per evitare che il suo
esercizio risulti slegato dalla reale dinamica delle variabili aziendali. Se ne deduce
che i contorni della funzione finanziaria non sono standardizzabili per tutte le
aziende, ma vanno adattati, oltre che alle peculiarità produttive e commerciali dei
singoli operatori, anche agli strumenti e alle competenze di cui dispongono gli altri organi che compongono la struttura organizzativa (Brugger, 1979, p. 16).
La funzione finanziaria è cambiata nel tempo in ragione del susseguirsi di
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
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schemi interpretativi che ne hanno gradualmente ampliato gli orizzonti (Sandri S.,
Bozzi S., 2003, p. 391). Tale evoluzione, tuttora in atto, ha trasformato il ruolo
della finanza d’impresa da mera gestione tecnica del denaro ad una componente
fondamentale dei processi strategici. Nella sua accezione più moderna la funzione
finanziaria concerne tutti i movimenti di capitale, originati da operazioni sia
d’investimento, sia di finanziamento. Tale approccio si differenzia nettamente da
quello tradizionale, in base al quale i compiti della direzione finanziaria si esauriscono nella ricerca delle risorse monetarie atte a soddisfare la copertura dei fabbisogni di capitale (Brusca L., Zampogna L., 1995, p. 5).
Con l’approccio tradizionale, dunque, la gestione finanziaria attiene prevalentemente alla negoziazione dei debiti e, nel caso delle realtà più evolute, all’emissione
di titoli obbligazionari e di rischio. L’azione della direzione finanziaria, delimitata
negli ambiti di cui sopra, assume natura prevalentemente descrittiva circa le modalità di approvvigionamento dei fondi (Brunetti G., 1985). Di tale azione descrittiva ne
beneficia il management che ha così modo di verificare l’effettiva possibilità di finanziare la realizzazione dei piani strategici. Alla base di tale approccio vi è, dunque, l’idea di un fabbisogno finanziario esogeno rispetto alle scelte della direzione
finanziaria la cui azione, circoscritta a favorire formalmente il collegamento tra impresa e ambiente finanziario, non interagisce con il processo strategico. Gli studi
connessi al paradigma della finanza tradizionale hanno assunto, inevitabilmente, carattere istituzionalistico e normativo in quanto pongono l’enfasi, da un lato, sulle
relazioni tra impresa e finanziatori, dall’altro, sulla descrizione tecnica sia delle operazioni di finanziamento sia del funzionamento degli intermediari finanziari e del
mercato dei capitali (E. Comuzzi-G. Marzo, 2000, p. 652).
In ambito operativo, l’approccio tradizionale è stato dominante fino agli anni
’70, mentre a livello teorico l’idea di una finanza “allargata”, ossia concernente
anche le decisioni d’investimento, si è affermata a partire dal secondo dopoguerra
(Panati e Golinelli, 1991).
Il passaggio dalla finanza tradizionale alla finanza “allargata” ha esteso la gestione del capitale alle valutazioni degli investimenti durevoli, alla individuazione
di un’ottimale composizione delle fonti di finanziamento e alla programmazione e
al controllo dei flussi finanziari.
Le cause di tale evoluzione sono riconducibili a quei fattori forieri, a partire
dalla fine degli anni ’60, di maggiore incertezza (Brusca L., Zampogna L., 1995,
p. 7). Tra questi i principali sono l’incremento della concorrenza in molti settori
produttivi, la maggiore rapidità con cui gli input della produzione diventano obsoleti per effetto delle spinte all’innovazione tecnologica, l’accentuarsi del rischio di
tasso d’interesse e di cambio.
Il processo evolutivo, qui brevemente accennato, ha gradualmente spostato gli
studi di finanza aziendale, da un lato, e l’esercizio della funzione finanziaria, dall’altro lato, da una mera analisi e gestione delle risorse di capitale, alla ricerca degli strumenti atti ad indagare i fenomeni finanziari, tenendo conto delle loro interdipendenze.
14
Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
Al concetto di finanza “allargata” va, dunque, affiancato il concetto di finanza
integrata, in base al quale le scelte relative agli investimenti e quelle relative ai
finanziamenti rappresentano parti di un unico processo decisionale che si riflette
sulla dinamica degli utili correnti e sulla composizione patrimoniale. In particolare, la finanza integrata persegue un duplice obiettivo: la gestione delle scadenze,
attive e passive, rispetto al rischio d’interesse; la gestione delle scadenze, attive e
passive, rispetto al rischio di liquidità.
Da un lato, quindi, l’attuale approccio allo studio e alla gestione della finanza
d’impresa postula che le scelte relative agli investimenti e quelle connesse ai finanziamenti rappresentano parti di un unico processo decisionale, avente come
fine ultimo la massimizzazione del valore economico dell’impresa; dall’altro tiene
conto degli effetti che le relazioni temporali tra le operazioni di acquisizione e di
allocazione del capitale esercitano sulla formazione dei risultati economici e dei
saldi di liquidità. Finanza “allargata” e finanza integrata non sono tra loro alternative ma complementari essendo la formazione del valore economico influenzata,
oltre che dalla qualità intrinseca delle singole decisioni finanziarie, anche dalle
interdipendenze esistenti tra le performance gestionali e la struttura per scadenze
dell’attivo e del passivo.
La funzione finanziaria improntata sull’integrazione, non solo quantitativa ma
anche qualitativa, tra i finanziamenti e gli investimenti, implica per i responsabili
dell’area finanza disporre di conoscenze su tutto il ciclo d’impresa per assumere
le decisioni in un’ottica strategica. Nello stesso tempo, però, l’innovazione relativa alle modalità di finanziamento aziendale e l’accentuarsi dei rischi connessi alle
fluttuazioni del mercato dei capitali hanno prodotto nuovi strumenti finanziari, il
cui utilizzo richiede specifiche competenze tecniche. Da un lato, quindi, si è assistito in questi ultimi decenni ad un processo di despecializzazione dell’area finanza, sempre più coinvolta nella pianificazione strategica, dall’altro si sono affermate all’interno della stessa specifiche figure professionali qualificate nell’utilizzo di
particolari strumenti di capitale.
Funzione finanziaria, reddito e inflazione
In linea generale, la raccolta di capitale operata dalla direzione finanziarie è finalizzata alla copertura degli esborsi monetari legati alla gestione corrente e a favorire
processi di espansione dell’impresa mediante la crescita degli investimenti. A tal proposito sono state sviluppate diverse teorie che pongono in relazione l’andamento degli investimenti con la capacità dell’impresa di generare reddito (Marris R., 1972;
Vender J., 1983). Tale relazione tra espansione e gestione finanziaria può essere analizzata tenendo conto o meno della svalutazione del potere di acquisto della moneta.
Ipotizzando un tasso d’inflazione nullo il rapporto che si instaura tra la crescita degli
investimenti e la capacità di reddito è di tipo sia industriale che finanziario. Dal punto di vista industriale, il tasso di crescita del reddito è riconducibile allo sviluppo della funzione d’investimento, quando le nuove allocazioni di capitale generano un’espan-
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
15
sione dei volumi sia di produzione sia di vendita. In altri termini, la relazione industriale tra il tasso di crescita degli investimenti e il tasso di crescita del reddito è tanto più
accentuata quanto più il mercato di riferimento dell’impresa offre l’opportunità di sfruttare economie di scala. In termini finanziari, invece, il tasso di crescita del reddito alimenta la possibilità di sfruttare la funzione d’investimento in condizioni di stabilità finanziaria. L’aumento dei mezzi finanziari prodotti dal ciclo economico riducono, infatti, a parità di altre condizioni, l’esposizione debitoria. Ne consegue che la relazione finanziaria tra reddito e investimenti è inversa rispetto a quella di tipo industriale, nel
senso che se da un lato l’espansione della capacità economica è riconducibile a politiche di crescita degli investimenti, dall’altro le disponibilità di capitale originate dal ciclo economico stabilizzano la dinamica finanziaria nelle fasi di sviluppo dell’attivo. Per
ogni azienda sussiste un vincolo finanziario allo sviluppo dato dal massimo divario tra
la crescita degli investimenti e la crescita del reddito, oltre il quale l’espansione della
produzione produce effetti destabilizzanti sull’equilibrio di gestione e sugli assetti proprietari. Durante i processi di espansione, dunque, il principale compito della direzione
finanziaria consiste nel valutare, data una certa capacità di reddito attuale e prospettica,
il livello massimo di crescita degli investimenti. Il vincolo finanziario all’espansione può
causare un duplice costo opportunità: un costo opportunità dovuto al mancato sfruttamento di nuove iniziative produttive e/o commerciali foriere di miglioramenti reddituali; un costo opportunità dovuto alla rinuncia totale o parziale ai dividendi da parte della
compagine sociale, volta a contenere l’afflusso di capitali esterni in corrispondenza di
incrementi significativi degli investimenti.
Il perseguimento di un ottimale politica di allocazione del capitale non può, tuttavia, prescindere dal tasso d’inflazione. Durante i cicli economici caratterizzati da
un’inflazione molto elevata la funzione finanziaria in seno all’impresa è orientata al
mantenimento di un determinato livello di reddito, piuttosto che a processi espansionistici. Forti spinte inflazionistiche limitano, infatti, la propensione all’espansione per
effetto dell’incremento del costo del denaro e degli input della produzione. In contesti del genere, il vincolo finanziario all’espansione può aumentare in misura tale da
obbligare le imprese ad intraprendere politiche di ridimensionamento dell’attivo tese
a salvaguardare le aree d’impiego più remunerative. Occorre, inoltre, considerare il
fenomeno della restituzione anticipata dei debiti, tipico dei periodi inflazionistici. Tale fenomeno scaturisce dal danno che i creditori subiscono in virtù di un tasso nominale applicato sui finanziamenti, operati a favore dell’impresa, inferiore ai tassi d’interesse correnti. In particolare, coloro che hanno concesso credito all’impresa prima
della crescita dei tassi d’interesse subiscono una perdita di rendimento reale che, in
un primo momento, si qualifica come trasferimento di ricchezza a favore dell’impresa; in un secondo momento, tuttavia, i creditori tenderanno ad aumentare il tasso
nominale in misura tale da annullare il danno prodotto dall’inflazione. L’incremento
del tasso nominale genera una restituzione di quote capitali dell’indebitamento prima
delle scadenze predeterminate. Ne conseguono, anche in assenza di politiche di crescita degli investimenti, squilibri di natura finanziaria, che possono essere evitati solo
nell’ipotesi di flussi di reddito sufficienti a compensare la rapida contrazione dei finanziamenti esterni (Rullani R., 1984, p. 594).
16
Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
1.7. Gestione finanziaria, valore contabile e valore economico
Come sopra evidenziato, l’attuale concezione della finanza d’impresa vede
nella creazione di valore il principale obiettivo cui ancorare le decisioni finanziarie. La qualità del processo finanziario d’impresa, basato sulle tre fasi di acquisizione, allocazione e remunerazione del capitale, può, quindi, essere misurata in
termini di creazione del valore. Si tratta di un tema particolarmente vasto e suscettibile di molteplici chiavi di lettura (Iandolo, Pesic, Sancetta, 2013, p. 149).
La creazione del valore nell’economia d’impresa ha suscitato e suscita, senza
soluzione di continuità, un diffuso interesse presso studiosi, imprese ed operatori
del mercato finanziario (vedi, per esempio, Guatri, 1991). Le motivazioni di tale
interesse possono essere facilmente individuate: la nascita delle iniziative imprenditoriali trova nella produzione di valore la sua prima spiegazione; la sopravvivenza e lo sviluppo di ogni impresa è funzione del valore creato e di quello potenzialmente generabile; il costante monitoraggio dei driver del valore costituisce
una condizione necessaria ad indirizzare le decisioni d’impresa verso il perseguimento di livelli gestionali di eccellenza; le scelte di asset allocation degli operatori del sistema finanziario passano attraverso stime analitiche, empiriche o intuitive, degli assetti economico-finanziari, nonché delle potenzialità di sviluppo, delle
società che emettono titoli; il valore che generano le imprese assume rilevanza
macroeconomica, in quanto si qualifica come prima determinante della ricchezza
dei sistemi economici.
L’analisi del valore, pur essendo trasversale a diverse discipline economiche,
trova la sua maggiore applicazione nell’ambito degli studi legati al mondo aziendale. Appare del resto evidente come l’impresa capitalistica imponga l’individuazione di metodi atti ad indagare la capacità delle unità produttive di remunerare il
capitale in esse investito. L’attività d’impresa, infatti, sebbene sia rivolta al raggiungimento di più obiettivi, persegue come fine ultimo la creazione di profitto
(differenza tra ricavi e costi espressi in termini economici) attraverso la trasformazione fisica di beni a più contenuto valore in beni ad alto valore e lo spostamento degli stessi nello spazio e nel tempo. Produzione e commercializzazione
rappresentano, cioè, i due modi fondamentali che consentono alle imprese di generare ricchezza mediante l’estrinsecarsi del ciclo aziendale.
In generale, il valore viene definito in modo diverso dagli economisti in ragione del contesto analitico al quale è riferito: in alcuni casi con il termine valore ci
si riferisce ad un prezzo di mercato, in altri la teoria economica individua come
valore o sue componenti l’utilità, la rarità, l’energia e il lavoro (Vicari S., 1995).
Al riguardo, Barile e Gatti osservano che “tanti sono stati gli interventi volti ad
esaminare le regole di condotta idonee a creare valore per l’impresa e, quindi,
per tutti i soggetti influenti sulla sopravvivenza della stessa. L’individuazione di
tali regole ha scontato l’adozione di una chiave interpretativa, più o meno restrittiva, dei vari interrogativi, quali ad esempio: Cosa si intende con il termine valore? Chi sono i destinatari del valore, ovvero chi sono i soggetti che possono re-
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Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
clamare un diritto al valore? Quali sono le strade per generare valore? E, ancora, è sufficiente discutere di creazione di valore in un’ottica di breve periodo oppure è corretto parlarne soltanto in un’ottica di lungo periodo? Infine, se è possibile misurare il valore creato è possibile anche misurarne la distruzione?” (Barile, Gatti, 2007).
Chiarito che il valore negli studi economici e aziendali emerge come concetto
composito difficilmente catturabile mediante un’unica definizione, ai nostri fini è
sufficiente fare riferimento ai concetti base di:
– valore contabile;
– valore economico.
La formazione del valore contabile può essere rappresentata, in modo dinamico, evidenziando il ciclo finanziario dell’impresa che si estrinseca attraverso il
combinarsi di movimenti strutturali ed auto-generati: a monte del ciclo finanziario, gli apporti di capitale e l’acquisizione di debiti finanziari si qualificano come
flussi strutturali (flussi che non hanno contropartita nel conto economico) che agiscono, rispettivamente, in modo positivo e negativo sulla dimensione dei mezzi
propri (o patrimonio netto o anche capitale proprio); dagli investimenti posti in
essere scaturisce il divario tra i ricavi e i costi che, se positivo, determina una crescita auto-generata dei mezzi propri (figura 1.6).
Figura 1.6. – Ciclo finanziario e valore contabile dei mezzi propri
Investimenti
Debiti
MP
Apporti
di capitale
Ricavi
Costi
Fonte: Renzi, 2005, p. 28.
Nell’ottica dell’azionista, il valore contabile è costituito, tempo per tempo, in
parte da una grandezza stock, ossia dal divario tra capitale impiegato e debiti, in
parte da una grandezza flusso, ossia dalla distribuzione dei dividendi.
La crescita degli investimenti aumenta, a parità di debiti, il valore stock, la
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
quota parte, cioè, di attività dell’impresa (in figura indicati con MP) spettante a
ciascun azionista; nel momento in cui le nuove attività sono autofinanziate, all’incremento del volume di mezzi propri corrisponde una minore condivisione del
reddito da parte della proprietà, rispetto all’ipotesi di distribuzione totale dello
stesso (figura 1.7).
Figura 1.7. – Il valore contabile per l’azionista
Capitalizzazione
redd.
Reddito
Distribuzione
redd.
Dividendi
Investimenti
MP
Debiti
Fonte: Renzi, 2005, p. 29.
Il capitale d’impresa determinato contabilmente esprime un valore prudenziale
che non tiene conto delle future opportunità reddituali. In particolare, il divario tra
investimenti e capitale di credito, ossia i mezzi propri, non misura l’effettivo potere d’acquisto dell’impresa, nel momento in cui le poste dell’attivo vengono stimate al costo storico e sottoposte a periodiche procedure di svalutazione contabile.
Sussiste, dunque, una sostanziale differenza tra il capitale di bilancio e il capitale economico: il primo identifica un margine minimo tra le risorse allocate e
quelle raccolte con vincolo di debito; il secondo scaturisce da performance attese
corrette in funzione del rischio d’impresa. In particolare, il capitale economico
esprime un’unità di misura astratta riferita, tuttavia, ad un bene tangibile, quale è
l’azienda nell’espletamento della sua funzione economica volta alla produzione di
reddito.
Il capitale economico individua, cioè, l’attitudine dell’investimento azienda a
generare nel tempo ricchezza (Ferrero G., 1966). Tale ricchezza non può essere
riferita esclusivamente alle performance patrimoniali contabilmente esplicitate nei
bilanci d’esercizio, ma attiene alla capacità reddituale, attuale e potenziale, di tutti
i beni posseduti dall’azienda e di quelli che la stessa si accinge ad acquisire: ad
ogni decisione d’investimento corrisponde un reddito conseguibile che concorre a
determinare il valore d’impresa (Ferrando M., 1991). Il valore creato è condiviso
da un insieme di attori che alimentano l’attività imprenditoriale ponendosi a monte e a valle del processo produttivo. Da una parte l’obiettivo del valore riguarda
Finanza e impresa. Un quadro d’insieme
19
gli azionisti che, assumendo in modo diretto il rischio d’impresa, puntano ad ottenere una adeguata remunerazione dal capitale in essa investito; dall’altra, gli attori
legati all’impresa in termini commerciali, finanziari ed amministrativi trovano
nella capacità della stessa di produrre ricchezza la maggiore tutela dei propri interessi. Per i fornitori di input produttivi (materie prime, lavoro, ecc.), ad esempio,
si determina una relazione inversa tra il rischio dagli stessi sostenuto e la solidità
economica dell’impresa acquirente. Considerazioni analoghe possono riguardare
la banca di riferimento e tutti gli altri soggetti, ivi compresa la Pubblica Amministrazione, che con l’impresa intrattengono rapporti di vario tipo. Anche i clienti
partecipano, soprattutto in ambienti altamente concorrenziali, alla condivisione
del valore, nel momento in cui la redditività d’impresa si riflette sulle politiche di
prezzo e di prodotto. La capacità dell’impresa di ottenere elevati margini di profitto, infatti, libera risorse che possono consentire sia riduzioni dei prezzi unitari finalizzate ad aumentare la quota di mercato, sia il perseguimento di politiche migliorative della produzione volte alla soddisfazione del cliente.
Ciò che differenzia le suddette tipologie di capitale si configura come componente intangibile del valore. In linea generale, tale componente misura un
goodwill (avviamento) nell’ipotesi in cui il capitale economico (W) ecceda il valore contabile (MP):
(W – MP) > 0  Goodwill = W – MP
2
W = MP + Goodwill
3
da cui deriva:
In sostanza il goodwill esprime “un complesso di condizioni immateriali, proprie dell’azienda (ubicazione, organizzazione, qualità tecniche e morali del personale, tradizione produttiva, clientela, credito, prestigio etc.): condizioni che
concorrono a conferire alla gestione redditività, in funzione della quale può attribuirsi al capitale economico … un valore superiore al ‘capitale di gestione’ o
di ‘liquidazione’ o del capitale comunque determinabile in bilancio, stimando
analiticamente i diversi componenti del patrimonio, distintamente valutati” (Onida P., 1987, p. 659). In presenza di un goodwill, quindi, il valore attuale dell’insieme delle attività già in essere e di quelle prossime alla realizzazione è potenzialmente in grado di generare ricchezza, determinando così un potere d’acquisto
effettivo maggiorato rispetto a quanto prudenzialmente determinato in sede contabile. A tal proposito, in figura 1.8 si ipotizza che le imprese A, B, C, D ed E abbiano il medesimo valore contabile; le imprese A e B operano in condizioni di
badwill (avviamento negativo); l’impresa C non ha ne un badwill ne un goodwill;
le imprese D ed E operano in condizioni di goodwill.
Sulla base di quanto descritto si evince che il processo valutativo nell’ottica
del capitale economico debba estrinsecarsi attraverso analisi previsionali volte a
dimensionare le performance attese, in funzione dell’andamento prospettico di
variabili sia endogene che esogene: l’andamento delle prime è connesso, princi-
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Fabbisogno finanziario, equilibrio e redditività
palmente, alla capacità del management di gestire in modo efficiente le risorse interne disponibili e di intraprendere efficaci strategie di crescita; le fluttuazioni delle seconde sono, invece, originate da cambiamenti di natura ambientale, indipendenti rispetto alle scelte del management, che modificano le relazioni e i rapporti
di forza tra l’azienda e i mercati di riferimento (mercato dei capitali, mercato di
sbocco, mercato di approvvigionamento e mercato del lavoro).
Figura 1.8. – Goodwill/badwill
Badwill
Goodwill
MP
WA
WB
WC
WD
A
B
C
D
WE
E
Redditività attesa
Fonte: adattato da Guatri, 1998, p. 243.
Non sempre, tuttavia, l’analisi del valore è di tipo previsionale. Occorre considerare due diversi contesti valutativi: la determinazione del valore durante il normale funzionamento della realtà produttiva oggetto di studio; la determinazione
del valore in fase di dismissione aziendale. Nel caso di dismissione l’elemento su
cui si fonda l’analisi del valore non può che riguardare il cosiddetto capitale effettivo di liquidazione (Panati, Golinelli, 1991, p. 866).
L’analisi del valore in fase di funzionamento si basa, tradizionalmente, su
due componenti: i flussi netti attesi dagli investimenti e il costo del capitale (figura 1.9).
I flussi attesi individuano la qualità intrinseca del capitale investito (o che verrà investito); il costo del capitale esprime il rendimento minimo atteso da parte dei
finanziatori che si qualifica come congrua copertura del fattore tempo e del rischio avvertito dagli stessi 1. La consistenza del capitale economico è, dunque,
correlata positivamente alle performance aziendali e negativamente all’incertezza
che grava sulle stesse.
1 Il
tema del costo del capitale sarà oggetto di approfondimenti nel Quarto Capitolo.