Solo l`idraulico batterà il robot

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Solo l`idraulico batterà il robot
La conversazione «La Lettura» ha incontrato Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, autori del
libro sul futuro della rivoluzione digitale. Così le macchine stanno (radicalmente) modificando
le professioni
Solo l’idraulico batterà il robot
Commercialisti addio, resistono i mestieri manuali Ma la politica non capisce
l’«automation tsunami»
«I nuovi lavori del futuro? Ci saranno ma non so dire quali. Con la rapidità e le dimensioni dei
cambiamenti in atto, chi fa previsioni a dieci anni mente agli altri e a se stesso. L’unica cosa certa,
quella che abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio nell’universo digitale dal Mit alla Silicon
Valley, è che con la crescita esponenziale della tecnologia aumenterà anche il numero di mestieri e
professioni inghiottiti dall’automazione. Chi vuole difendersi dai robot deve puntare su lavori nei
quali l’essere umano ha ancora un grosso vantaggio sulle macchine: quelli che richiedono empatia,
creatività, capacità di negoziazione. Mestieri nei quali si devono motivare le persone, assisterle con
sensibilità umana, ma anche ruoli per i quali serve capacità di leadership. O professioni che ruotano
attorno a valori etici o di altra natura: tutti campi che un’intelligenza artificiale, per quanto
sofisticata, non riesce a padroneggiare. Ancora».
Erik Brynjolfsson ha appena finito di discutere del suo nuovo libro, The Second Machine Age (W.
W. Norton & Co Inc.), con una ventina di giovani nell’ufficio di New York della New America
Foundation e si ferma volentieri a parlare delle reazioni suscitate dalle tesi sue e del suo coautore
Andrew McAfee. Il loro è il libro del momento: oggetto di molte analisi — da quelle di Martin
Wolf sul «Financial Times » a David Brooks sul «New York Times» —, il saggio sul futuro
dell’automazione e del lavoro ha ispirato anche una recente copertina dell’«Economist». I due
accademici del Mit di Boston dicono di voler restare ottimisti perché la tecnologia comunque
migliora le nostre vite e, nel lungo periodo, farà nascere nuovi prodotti e servizi che creeranno
nuovo lavoro. Ma avvertono che la transizione sarà lunga. E per molti dolorosa: la distruzione di
posti di lavoro continuerà e, anzi, si farà sempre più incalzante. In assenza di correttivi, le
diseguaglianze sociali cresceranno ulteriormente. Dobbiamo prepararci come individui,
adeguandoci ai cambiamenti del mercato del lavoro, e come collettività, spingendo la politica ad
affrontare questa sfida epocale.
Siete proprio sicuri che i lavori che evaporano e la polarizzazione dei redditi nelle nostre
società dipendano dalla tecnologia? Molti incolpano soprattutto la globalizzazione e altri
fattori come l’aggressività del mondo della finanza o le politiche fiscali pro-ricchi dell’era
Bush.
McAfee: «Siamo davanti a fenomeni complessi, certo, ma alcuni numeri sono chiari: l’America per
anni ha lamentato l’emorragia di posti di lavoro trasferiti dalle sue aziende in Cina. L’esodo c’è
stato, è chiaro, ma se poi guardiamo meglio, vediamo che dalla fine degli anni Novanta a oggi la
Cina ha perso ben 20 milioni di posti di lavoro nell’industria, nonostante l’aumento dei suoi volumi
produttivi. Evidentemente, più che spostarsi dagli Usa alla Cina, il lavoro passa sia dagli Usa che
dalla Cina ai robot».
Per non essere spazzati via dalle macchine dovremo creare lo scudo di un’elevata
scolarizzazione o sopravviveranno anche molti mestieri «low-tech»?
Brynjolfsson: «Nelle professioni intellettuali i numeri dicono che la spunta più facilmente chi ha un
titolo di studio di livello superiore. Meglio governare le macchine che esserne governati. Ma hanno
un futuro anche molti lavori che comportano un’attività fisica. Per i computer è più facile risolvere
problemi di enorme complessità che conferire a un robot la capacità di muoversi in modo non
ripetitivo, di orientarsi in una stanza, di trovare la porta. Anche in questo campo della robotica si
cominciano a fare passi da gigante grazie a tecnologie tipo il sistema Kinect di Microsoft, ma ci
sono mille lavori, da quelli degli artigiani agli infermieri negli ospedali, che per ora sono al sicuro.
In altri campi, come i trasporti, le cose cambieranno: l’auto che si guida da sola prima o poi farà
sparire gli autisti. Quelli più a rischio sono i mestieri intellettuali di livello intermedio basati su
modelli replicabili. Prenda i commercialisti: Turbo Tax, il programma informatico che ti aiuta a
compilare le dichiarazioni fiscali, è ormai popolarissimo, è stato pubblicizzato in tv anche durante il
Superbowl. Per i professionisti del ramo è difficile spuntarla su un software che costa appena 39
dollari. Risultato: in America in pochi anni il numero dei consulenti fiscali si è ridotto del 17%».
Le altre professioni più a rischio?
Brynjolfsson: «Ho parlato della consulenza fiscale, ma cose simili stanno avvenendo, come lei sa
bene, nel campo dei media, nella musica, nella finanza, nei supermercati, nelle fabbriche: il
software si sta mangiando il mondo o almeno un pezzo di mondo. Centinaia di milioni di posti di
lavoro a rischio: prepariamoci allo tsunami dell’automazione. Abbiamo tutti sottovalutato l’impatto
della crescita esponenziale della capacità di calcolo, la legge di Moore. Per un po’ di anni questa
moltiplicazione è stata solo sorprendente. Da un certo punto in poi i numeri sono diventati da
capogiro. Per cercare di spiegarlo, nel libro abbiamo usato la parabola dell’inventore degli scacchi».
Scusate, ma allora il vostro ottimismo su che cosa si basa?
McAfee: «La tecnologia ci aiuta a vivere meglio e prima o poi anche il mondo del lavoro ritroverà
un suo equilibrio. Certo, ce ne vorrà. E nel frattempo non puoi usare i poteri regolamentari per
bloccare l’evoluzione delle applicazioni scientifiche. Tim O’Reilly, un guru delle tecnologie, dice
che dobbiamo decidere se proteggere il futuro dal passato o cedere alla tentazione di difendere il
passato dal futuro: ha ragione. Questo non significa assistere passivamente: possiamo ancora
scegliere il nostro futuro. Ma dobbiamo fare delle scelte. Abbiamo la democrazia: usiamola».
Come?
Brynjolfsson: «Siamo esperti di tecnologia, non politici. Ci vuole umiltà, come nel predire il futuro.
Ma se guardiamo al passato, all’esperienza della rivoluzione industriale, due cose sono chiare: le
nuove tecnologie che hanno alimentato i grandi processi di industrializzazione, il vapore, il motore
a combustione interna, l’elettricità, hanno avuto bisogno di parecchi decenni per maturare, per il
necessario adattamento ai processi produttivi. Ci vorrà tempo anche ora. Magari l’idea giusta per
creare nuove attività, nuovo lavoro, verrà dal crowdsourcing. Secondo punto. Nell’Ottocento e nel
primo Novecento l’industrializzazione portò a profonde innovazioni politiche e sociali: la
scolarizzazione di massa, le grandi reti di infrastrutture. Oggi siamo davanti a cambiamenti
altrettanto epocali».
Martin Wolf vede rischi di tecno-feudalesimo.
Brynjolfsson: «Beh, comunque siamo davanti a mutamenti che richiedono una forte iniziativa
politica. Qui, invece, la politica è distratta, si occupa d’altro, non capisce cosa sta accadendo:
anziché guidare, Washington va a rimorchio», nota Brynjolfsson. Secondo il quale dobbiamo
prepararci a rivoluzionare quasi tutto: dall’insegnamento alle statistiche, il modo nel quale oggi
misuriamo il benessere. In scuole e università perde importanza la capacità di memorizzare, mentre
diventa essenziale saper ricercare, analizzare in fretta, contestualizzare, aggiornate continuamente la
propria formazione. Quanto ai numeri dell’economia, «bisogna creare un parametro diverso dal Pil
che — aggiunge Brynjolfsson — è un indice obsoleto. È stato inventato negli anni Trenta del secolo
scorso, ai tempi della prima rivoluzione industriale. Serviva a Franklin Delano Roosevelt che aveva
bisogno di un’unità di misura per capire se le sue terapie funzionavano: un mondo che non c’è più,
quelle statistiche sono da reinventare. Dobbiamo imparare a calcolare anche i benefici in termini di
qualità della vita che vengono dall’utilizzo delle tecnologie digitali».
A proposito di anni Trenta e di rischi di tecno-feudalesimo, in un celebre saggio pubblicato
proprio nel 1930, John Maynard Keynes, immaginando il mondo dei suoi nipoti, scrisse che il
reddito a disposizione dei cittadini si sarebbe moltiplicato molte volte mentre gran parte del
lavoro sarebbe stato fatto dalle macchine. Visione azzeccata, salvo che Keynes aveva anche
previsto che l’uomo, liberato dalla fatica, avrebbe lavorato 15 ore alla settimana, tre al giorno,
scoprendo per il resto le gioie del tempo libero. Il mondo di oggi, invece, è diviso tra gente che
lavora anche 60 ore a settimana, guadagnando spesso moltissimo, ed eserciti di disoccupati o
sottoccupati: dove ha sbagliato?
Brynjolfsson: «Credo che Keynes abbia sbagliato nell’illudersi che la gente avrebbe usato il
reddito aggiuntivo per godersi la vita come i lord inglesi. Più gaudenti che avidi, tazze di tè e caccia
alla volpe. Invece la gente tende a lavorare di più per guadagnare e consumare di più: vuole grandi
tv al plasma, vuole viaggiare. Riflettiamo su questo: quello che siamo diventati, quello che
vogliamo essere. La politica non può risolversi nei Tea Party che inveiscono contro la corruzione di
Washington e in Occupy Wall Street che criminalizza la finanza. C’è qualcosa di più profondo, di
più fondamentale: dobbiamo cercare di cambiare la conversazione dominante nel nostro Paese».
Massimo Gaggi