INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Giuseppe Russo* e Giampaolo Vitali** LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI – L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) – LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? – IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA – L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA – I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ – BIBLIOGRAFIA LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE Quali sono i tratti caratteristici dell’industria italiana? Le sue specializzazioni settoriali sono sufficienti a garantirne la competitività nel contesto europeo? E se no, su quali altri vantaggi competitivi essa può contare? Intanto, è bene chiarire perché affrontiamo l’argomento del futuro dell’industria settentrionale partendo da alcune considerazioni sul complesso dell’industria nazionale. Per opportunità, innanzi tutto, poiché la mole di informazioni sulle industrie nazionali europee è assolutamente maggiore rispetto alle informazioni sui settori regionali. Ma anche perché per approssimazione poi non eccessiva, il cuore dell’industria nazionale sta nell’Italia centro-settentrionale (79,9 per cento degli addetti nazionali). La maggior concentrazione industriale si trova nel Nord Ovest, che con il 26 per cento della popolazione occupa il 37 per cento degli addetti industriali, seguito dal Nord Est, che dà lavoro a un ulteriore 24 per cento degli occupati del settore secondario (contenendo una popolazione pari al 18 per cento del complesso nazionale). Avvertiamo poi che in questo paragrafo ci comporteremo con trasparenza nell’esposizione dei dati, ma non cureremo, per mancanza di spazio in questo primo lavoro, tutti gli aspetti caratteristici dell’industria italiana. In altri termini, vogliamo darne acquisiti e scontati i punti di forza, in prevalenza risiedenti nel modello organizzativo, settorial-territoriale dei “distretti industriali”, più volte guardato come un esempio da imitare. Pure apprezzandone il valore, temiamo che nel tempo questo modello sia andato sovraccaricandosi di aspettative, sia da parte degli operatori, sia soprattutto dai decisori di politica economica. Noi nutriamo il dubbio che i vantaggi competitivi scaturenti dalle specializzazioni distrettuali possano – da soli – rimediare agli svantaggi e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi. UNA SCARSA DINAMICA DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE ITALIANA NEGLI ULTIMI 5 ANNI A prova di questo argomento vi è l’evidenza dei dati. Abbiamo messo a confronto le variazioni percentuali osservate dagli indici della produzione industriale dei maggiori paesi industrializzati (Unione Europea, Stati Uniti e Canada) tra il 1993 e il 1998, ossia nell’ultimo quinquennio. La fonte dei dati è Eurostat. La scelta del periodo non è stata casuale. Nel 1993 l’Italia usciva * Centro “Luigi Einaudi”, Torino Ceris-Cnr, Torino ** INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE dalla crisi della lira del 1992, la svalutazione ripristinava un valore della nostra divisa coerente con le parità dei poteri di acquisto e si compensava lo svantaggio competitivo che, negli ultimi anni, aveva penalizzato la produzione interna. Ebbene, tra il 1993 e il 1998, nonostante il recupero di competitività di prezzo del “made in Italy”, la produzione industriale italiana ha fatto segnare la variazione percentuale più bassa in Europa. Il nostro +13 per cento è in “buona compagnia”, se si considera che né il Regno Unito, né l’Olanda avrebbero saputo fare meglio. Ma trascuriamo il fatto che nel Regno Unito si è avuto una parallela crescita del comparto dei servizi, e che anche l’Olanda ha puntato sui servizi e sulla esportazione del suo modello d’impresa. Le multinazionali olandesi sono state nell’ultimo decennio, particolarmente nei servizi, i veri modelli da imitare. In Italia l’industria ha segnato il passo senza che i servizi andassero oltre un semplice consolidamento. Come dire che “abbiamo fatto il compitino” richiesto dall’Unione europea, ma abbiamo osato poco o nulla di più. Fig. 1 – Produzione industriale nei principali paesi industrializzati (variazione 1983-93) Produzione industriale (var. % 1993-'1998) 120,0 100,0 104 80,0 60,0 40,0 48 20,0 0,0 13 13 13 14 15 16 PT FR 16 17 17 18 BE GR EF MU 21 23 26 27 29 49 31 0 JP NL IT UK DE LU AT US DK NO ES S1 SE FI IR Fonte: Eurostat Le ragioni dello scarso dinamismo dell’industria nazionale sono diverse: ma prima di chiamare in causa complicati concetti organizzativi e i limiti del nostro capitalismo, per decenni incline, e in parte obbligato, a schivare la concorrenza del mercato internazionale dei capitali, piuttosto che a misurarsi con essa, possiamo incominciare a riflettere sulle nostre specializzazioni settoriali. Si tratta di specializzazioni tradizionali, che, purtroppo, non hanno saputo rinnovarsi. 114 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA SU TUTTI: PELLE, CUOIO, CALZATURE, TESSILI E ABBIGLIAMENTO PRODOTTI IN METALLO, MECCANICA E BENI STRUMENTALI: SPECIALIZZATI, MA IN BUONA COMPAGNIA IL SETTORE DEI MOBILI: IL PESO DELLO STILE LA RITIRATA DELLA CHIMICA E DELL’ELETTRONICA Il front end dell’industria italiana, quella che si trova ogni giorno a sostenere una concorrenza continentale e globale sempre più agguerrita, è caratterizzato da un’ampia presenza di prodotti e produttori tradizionali, da una limitata quota, pur crescente, di beni ad alta tecnologia, da una ridotta presenza, nonché stabile, di prodotti e produttori che impiegano un contenuto input di capitale. Attingiamo l’evidenza per sostenere queste affermazioni dalle fonti internazionali. Gli indici di specializzazione della tabella 1 parlano chiaro. Quelli italiani superano il valore di equilibrio di 100 (ossia il valore che indica una presenza settoriale omogenea con la media dei paesi appartenenti all’Ocse) nei settori della pelle, del cuoio, delle calzature, nei settori tessile e dell’abbigliamento. In questi stessi settori la presenza industriale di paesi come la Germania e il Regno Unito è specularmente più bassa, con indici di specializzazione inferiori al livello di equilibrio. L’Italia mostra poi una specializzazione nell’industria dei prodotti in metallo, della meccanica non elettrica ed elettrica, in quella dei beni strumentali. Il che sarebbe un punto di forza del sistema industriale italiano, dato che questi settori sono tradizionalmente fortemente esportatori, se non fosse che il nostro indice di specializzazione di 143 è tallonato dal 134 della Germania, dal 130 dell’Austria, dal 129 finlandese e superato dal 145 danese. Il che riporta “la palla al centro”, e fa vedere come alcuni dei ricorrenti punti di forza nazionali non sono che situazioni di parità, non appena si restringa il confronto ai paesi di punta tra quelli concorrenti. Inoltre, non si deve dimenticare che anche il Giappone ha un coefficiente di specializzazione elevato nei beni strumentali (117), avendo in termini di volumi una “bocca di fuoco”, ossia una capacità produttiva che da sola sfiora la metà di quella dell’intera Unione Europea. Il mercato mondiale dei beni strumentali, necessariamente in crescita con lo sviluppo mondiale, incomincia poi ad attrarre i migliori tra i paesi emergenti. Come la Corea del sud, che sembra seguire da vicino il pattern di sviluppo settoriale nipponico, e si appresta a divenire un concorrente agguerrito nelle macchine utensili, come è già nel campo automobilistico. L’ultimo dei settori dove la specializzazione italiana è significativamente superiore a quella media nei paesi Ocse è quello dei mobili, il che in parte ci accomuna ad alcuni paesi avvantaggiati per l’ampia disponibilità di legname (Finlandia e Svezia, in primis), e in parte ci vede apparentati agli ultimi paesi entrati a fare parte dell’Unione Europea (Spagna e Portogallo), nei confronti dei quali il vantaggio competitivo italiano risiede nell’elemento aggiuntivo stilistico, il che vale non per tutto il mercato dell’arredamento, ma per la fascia alta del mercato. Tuttavia, nonostante l’indubbia buona salute del settore del legno, anche recentemente confermata nelle statistiche nazionali, difficilmente l’arredamento potrebbe fornire quello slancio di creazione di posti di lavoro ben remunerati cui la nostra economia aspirerebbe. Per questi ultimi bisogna rivolgersi, come è noto, ai settori a maggiore intensità di capitale, di innovazione, di lavoro qualificato, ma in questi settori la presenza italiana è sotto la media Ocse. I coefficienti di specializzazione rivelano, per esempio, che siamo sottopesati (98,5) nella chimica, che lasciamo nelle mani dei francesi (133), dei belgi (126), degli olandesi (159), dei tedeschi (108), dei britannici (127). Siamo poco presenti nell’elettronica da ufficio (90,8). La riconversione del 115 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE distretto di Ivrea dall’elettronica alle telecomunicazioni evidenzia una storia di successo solo a metà, poiché le telecomunicazioni emergenti sono nate sull’appassimento di un intero distretto dove nella metà degli anni Ottanta si concepivano e producevano personal computer di livello tecnologico pari allo “stato dell’arte” mondiale. L’uscita italiana dalla chimica e dall’elettronica sono storie parallele che si associano strettamente alle vicissitudini di due delle maggiori imprese italiane (Montedison e Olivetti1), e che fanno riflettere come per decenni la storia industriale d’Italia sia stata legata alla storia di pochi soggetti. Sotto questo profilo, la vicenda dei distretti, cresciuti al di fuori della logica dei maggiori gruppi italiani, è senza dubbio una storia da sottolineare positivamente, non solo per aver saputo inventare e vendere prodotti e creare lavoro anche quando le maggiori imprese ristrutturavano o chiudevano, ma anche per averlo saputo fare con tutte le limitazioni e i razionamenti, particolarmente del capitale finanziario, che hanno caratterizzato lo sviluppo delle Pmi italiane negli anni passati. Ovvio, peraltro, che in queste condizioni non si potesse attendere che le imprese dei distretti si specializzassero pure nelle produzioni che richiedevano intensità di capitali, intensità di ricerca, o fattori di scala significativi. AUTO, BIOMEDICA E STRUMENTI DI PRECISIONE: UNA SPECIALIZZAZIONE INFERIORE ALLA MEDIA OCSE Un settore nel quale l’industria nazionale è nuovamente sotto-pesata è, quasi a sorpresa, quello automobilistico, ossia un campo di tradizionale vocazione storica (e sportiva) dell’industria nazionale. In Italia si producono appena 1,3 milioni di vetture all’anno, contro gli 1,8 milioni del Regno Unito, i 2,1 milioni della Spagna, i 2,6 della Francia, e i 5,2 milioni delle autovetture prodotte in Germania. Infine, pesa, tra i fattori di debolezza, la pallidissima presenza italiana nel campo degli strumenti di precisione e delle tecnologie biomedicali: il relativo indice di specializzazione è 51,6, contro il 90,8 del Regno Unito, il 102 della Germania, il 154 degli Usa. 1 La rapidità della crisi dell’Olivetti è impressionante, quanto quella del suo primo successo e dell’esito positivo della sua riconversione. Una riconversione che segna però anche l’uscita italiana dal settore dei computer. Nel 1987 l’impresa era ancora fortemente in crescita e attiva nei merger internazionali: l’azienda era protagonista di joint ventures (JV) con società del rango di Eds (USA), Seat (I), Microsoft (USA), acquistava partecipazioni rilevanti o di controllo in Ibimaint, in Systema (I), Olamtel (SP, telecomunicazioni), Logos (I). Nel settembre del 1988 si riorganizza in quattro divisioni, e quasi contemporaneamente annuncia di varare una strategia di espansione nelle comunicazioni cellulari insieme a Cellular Communication e Shearson Lehman. Nel 1989 annuncia nuove JV e si lancia in operazioni diversificate internazionalmente, riacquista la quota di ATT, ma annuncia anche la chiusura di Hermes. Il 1990 è il primo anno del deterioramento. Pochi annunci nella prima parte dell’anno, ma verso la fine ci sono le dimissioni “per divergenze” di Tatò (AD di Olivetti Office) e l’annuncio del taglio di 7000 posti (4000 riguardano l’Italia). Nel 1991 cede Olinet a France Telecom. Alla fine dell’anno Carlo De Benedetti assume tutte le deleghe e concentra i poteri gestionali. Sono previsti 2500 tagli nel 1992. Corrado Passera affianca C. De Benedetti. Tra il ‘93 e il ‘94 la società cede il controllo di Teknecomp, di Radiocor, di Triumph Adler. Nel 1995, anno di nascita di Infostrada, Olivetti chiede denaro fresco al mercato e annuncia altri 5000 tagli. La strategia di riconversione nel settore delle telecomunicazioni è decisa, ma i business in perdita, come quello dei PC, pesano quasi insostenibilmente sui conti. La situazione precipita nel 1996, quando De Benedetti è costretto a cedere tutte le cariche. La società “consuma” due AD prima di finire nelle mani di Colaninno. Le cessioni non sono terminate. Omnitel, appena nata, è parzialmente ceduta a Mannesmann. France Telecom entra in Infostrada. Le attività informatiche sono cedute a Wang e quelle nei PC a una nuova società (Piedmont), che tuttavia al 1999 non ha ancora risalito la china. Le telecomunicazioni dell’Olivetti producono utili, e la società – alleggerita dei rami in perdita – è nuovamente in nero prima di ogni favorevole previsione, tanto da lanciarsi, attraverso la controllata Tecnost, nell’Opa vittoriosa su Telecom. Dell’originaria vocazione nell’industria dei computer non c’è quasi più traccia, consumata in meno di dieci anni. 116 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE UNA VISIONE DINAMICA DELLE SPECIALIZZAZIONI DELL'INDUSTRIA ITALIANA ALCUNE IPOTESI INTERPRETATIVE Se si passa dalla fotografia delle specializzazioni, che evidenziano una struttura che potremmo definire come molto tradizionale, alla visione dinamica dei fenomeni descritti, sia pure con un certo grado di aggregazione delle variabili, ecco emergere un quadro in movimento non così rassicurante: • la presenza relativa di imprese ad alta intensità di capitale è andata costantemente diminuendo fin dai primi anni Novanta. Le imprese capital intensive, rappresentano il 27 per cento del totale, secondo l’Eurostat, 8 punti in meno del Regno Unito, 10 in meno rispetto alla Germania e 5 in meno rispetto ai valori italiani di dieci anni fa, rispetto ai quali siamo in regresso; • l’high tech in Italia è andato crescendo in dieci anni dal 7 al 9,5 per cento dell’industria, ma il peso di quello francese è dell’11,5 e di quello britannico è del 12,5 per cento; • i flussi di investimenti diretti all’estero e dall’estero sono particolarmente modesti. Nei primi ci superano la Germania e la Francia, che fin dal 1994 hanno dimostrato una maggiore comprensione della incombente realtà di un mercato europeo più grande, nel quale occorreva che le industrie nazionali più competitive si muovessero in anticipo per conquistare le posizioni. Non siamo però neppure particolarmente attraenti come “piattaforme di atterraggio” di investimenti dall’estero, i quali sembrano preferire la Spagna e il Regno Unito. Tutto questo suggerisce alcune riflessioni, che riprenderemo dopo avere esaminato in maggiore dettaglio l’industria del Nord Italia. Per il momento ci sembra di potere avanzare le seguenti ipotesi: a) non vi è stato un radicale cambiamento delle specializzazioni dell’industria italiana in accordo con la domanda mondiale di prodotti e servizi a forte contenuto tecnologico e innovativo, in grado di remunerare con un premio di prezzo i fattori che li producono; b) il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di “dimagrimenti produttivi e occupazionali”, piuttosto sensibili, non compensati da una pari crescita di settori e vocazioni nuove; c) il fenomeno dei “distretti” ci pare un eccellente esempio di “adattamento” imprenditoriale e territoriale a una serie di vincoli del sistema, e in particolare al “razionamento finanziario” delle Pmi, alla carenza di intermediari di capitale di rischio, alla dotazione limitata di risorse umane ad elevata formazione (certi livelli di competenze sono infatti più semplici da mantenere all’interno di un distretto, anche senza percorsi formativi ad hoc); d) il fenomeno dei distretti, tuttavia, non sarebbe in grado di svolgere tutte le funzioni dell’innovazione. In particolare, l’innovazione dei distretti è incrementale, e la nascita di nuove vocazioni è improbabile, se non nell’intorno di quelle esistenti. Una strategia di migrazione settoriale verso campi nuovi, come quello della multimedialità o dell’Internet business, difficilmente può nascere dai distretti storici d’Italia. Allo stesso modo, i distretti di Pmi possono supplire alle strozzature dimensionali quando si tratti di produrre, ma non quando si tratti di “concepire e realizzare strategie di crescita a scala globale”. Il limitato numero dei global player italiani, e il loro concentrarsi, nello scorso decennio, nelle strategie di sopravvivenza anziché in quelle di espansione, è responsabile dello scarso peso del capitalismo italiano nel capitalismo europeo e mondiale. 117 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI IL PESO DEL “MADE IN ITALY” … … IN UN’ANALISI DI LUNGO PERIODO GLI ALIMENTARI E LE BEVANDE LA FILIERA DELLA MODA Per mettere in luce le peculiarità del sistema industriale del Nord Italia si è in primo luogo esaminato il ruolo del comparto “tradizionale”, definito come il macro-settore che comprende al suo interno le industrie tipiche del cosiddetto “made in Italy”, e cioè quelle industrie in cui le imprese italiane hanno mostrato, fino a oggi, un elevato vantaggio competitivo a livello internazionale. Tali industrie sono quelle in cui si sono specializzati i distretti del Nord Italia: il tessile, con Biella e Como; l’abbigliamento, con Carpi, Castelgoffredo, la Lomellina, l’Oltrepo’ Mantovano; le calzature, con Vigevano, Montebelluna, la Riviera del Brenta, San Mauro Pascoli; l’alimentare, con San Daniele, Parma, Alba, Modena; il legno e il mobilio, con l’Alto Livenza, Forlì, Saluzzo, Cantù; la lavorazione dei minerali non metalliferi, con Sassuolo, Castellamonte, la Valpolicella, Murano, Possagno, la Val di Cembra, Val Fontana Buona; il comparto residuale delle “altre industrie manifatturiere”, che comprende anche i giocattoli (Canneto sull’Oglio), i pennarelli (Settimo Torinese), i gioielli (Valenza Po e Vicenza). Per sottolineare il carattere strutturale dell’analisi, distinguendolo dall’approccio “congiunturale”, si è deciso di usare dati di lungo periodo, grazie alla recente pubblicazione di statistiche omogenee dei censimenti industriali che coprono il periodo 1951-1991, nonchè al loro aggiornamento tramite il censimento intermedio del 1996. Alcuni dati derivati dalle rilevazioni dell’Istat relative ai conti economici regionali, completeranno la fonte delle nostre informazioni. Si esamini il peso di ciascun settore del “made in Italy” nell’Italia del Nord: • la tabella 2 mostra come gli alimentari e le bevande rappresentino l’8% dell’occupazione manifatturiera al 1996. Si tratta di un settore nel quale il vantaggio competitivo si è tradizionalmente basato su fattori non di prezzo, come la qualità e la pubblicità, ed in cui le imprese italiane hanno la possibilità di vincere la concorrenza internazionale nonostante le loro ridotte dimensioni. Ed è proprio a causa di tali ridotte dimensioni che le imprese leader italiane sono persino rimaste “vittime del proprio successo”, nel senso che buone parte di esse sono state acquisite dalle grandi multinazionali estere in virtù della loro elevata visibilità e potenzialità di crescita. I casi di Galbani, comprata dalla francese Danone, Martini & Rossi, acquisita dalla Bacardi, Cinzano, appartenente al gruppo Remy Martin, Buitoni, entrata nel gruppo Nestlè, sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di imprese dell’Italia settentrionale che hanno potuto crescere grazie all’utilizzo delle risorse finanziarie, e distributive, dei grandi gruppi internazionali; • la filiera della moda, con i comparti del tessile, abbigliamento, calzature e pelli-cuoio, rappresenta un altro tipico settore dell’Italia settentrionale, essendo il suo peso in termini occupazionali pari al 16% del sistema industriale del 1996 (vedi tabella 2). Nel settore della moda i vantaggi per l’impresa settentrionale sono legati alle innovazioni organizzative, cioè all’uso del decentramento produttivo nazionale o internazionale, più che alle innovazioni tecnologiche. Anche questo settore, come il precedente, è fortemente polarizzato tra pochi grandi leader, che hanno comunque una dimensione relativamente piccola se confrontata con quella media europea, e tantissimi piccoli imprenditori, che in buona parte non possie- 118 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INDUSTRIA DEI • MOBILI E DELLA LAVORAZIONE DEL LEGNO I MINERALI NON • METALLIFERI LE ALTRE INDUSTRIE MANIFATTURIERE UNA STRETTA INTERDIPENDENZA TRA IL “MADE IN ITALY” E IL COMPARTO DEI MACCHINARI INDUSTRIALI • dono un marchio proprio e producono per le grandi firme. La filiera della moda è il tipico comparto che trae rilevanti vantaggi dalle economie esterne presenti nei distretti italiani (Ceris-Cnr, 1997); come il caso precedente, anche l’industria dei mobili e della lavorazione del legno ha una lontana e solida presenza nell’Italia del Nord grazie all’accumulo di competenze originatesi sin dall’inizio della rivoluzione industriale. Nell’attuale struttura industriale il settore del legno rappresenta quasi l’8% del totale manifatturiero e mostra una configurazione produttiva basata sulla qualità della produzione finale; produzione che si lega alle innovazioni dello stile, alla deverticalizzazione del ciclo produttivo per fasi di lavorazione (vedi il penultimo paragrafo di questa scheda), nonché all’introduzione di nuovi materiali di arredamento (è un tentativo, talvolta riuscito, di inserire innovazioni di prodotto); i minerali non metalliferi rappresentano una nicchia di mercato in cui le imprese settentrionali hanno accumulato una buona esperienza rivendibile a livello internazionale. All’interno di questo comparto, merita sottolineare il ruolo dell’industria della produzione di ceramiche, ove le esportazioni italiane rappresentano una rilevantissima quota delle esportazioni mondiali. È altresì importante rilevare come il vantaggio competitivo in tutto il settore non derivi tanto dalla presenza della materia prima in loco (le cave pre-alpine di pietra o di granito), quanto dall’organizzazione produttiva delle imprese italiane e dall’innovazione di prodotto tramite gli strumenti della moda e del design; nel comparto residuale delle altre industrie manifatturiere sono anche presenti alcuni comparti tradizionali comunque importanti per l’Italia settentrionale: si tratta dell’industria dell’oreficeria e di quella dei giocattoli. Soprattutto nel primo caso, il vantaggio competitivo deriva da fattori non-price, quali la moda ed il design: anche in questo caso, l’importazione di materie prime e la riesportazione di prodotti ad elevato valore aggiunto sono la conferma del know-how posseduto dalle imprese italiane. In generale, merita poi sottolineare come il comparto tradizionale, qui esaminato nei suoi dettagli infra-settoriali, mostri uno stretto legame di interdipendenza con il comparto a medio-alta tecnologia dei macchinari industriali. Il rapporto di interdipendenza si manifesta sia dal lato della elevata domanda proveniente dagli utilizzatori di macchinari (le industrie tessili, alimentari, del legno ecc.), sia dal lato dell’offerta dei produttori di macchine innovative e ad alta produttività, che favorisce la competitività degli utilizzatori nazionali rispetto agli esteri. Tale interdipendenza è evidente anche a livello distrettuale, in quanto ovunque vi sia una leadership nei settori tradizionali si nota una pari leadership internazionale nel corrispondente comparto dei macchinari: i produttori di macchine per gli alimentari e le bevande, di quelle per i tessili, di quelle per la lavorazione della pietra ecc. sono particolarmente presenti nelle regioni settentrionali, e proprio nelle aree distrettuali in cui si concentrano le imprese del “made in Italy”. Tale fatto indica come siano positive le sinergie tra utilizzatori e produttori di macchinari in termini di efficienza d’impresa e di innovazione di prodotto. 119 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) I SETTORI TRADIZIONALI: UN PESO STABILE NELL’EVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA MANIFATTURIERA UNA DUPLICE LETTURA DELL’IMPORTANZA DEI SETTORI TRADIZIONALI DEL NORD ITALIA I dati Istat consentono di esaminare l’evoluzione del sistema industriale dell’Italia del Nord nel corso degli ultimi 50 anni: la tabella 3 mostra come dal 1951 al 1996 l’industria manifatturiera del Nord Italia sia cresciuta, da 2.464.000 occupati a 3.254.000, pur non mostrando un percorso di crescita lineare. Infatti, dopo un crescita rapidissima dal 1951 al 1981, negli anni successivi si avverte un calo della presenza manifatturiera. Tale calo ha sollevato un intenso dibattito sul futuro “industriale” del Nord Italia e sulla sua evoluzione verso le configurazioni tipiche dell’era post-industriale (vedi infra). A questo riguardo è interessante sottolineare come l’andamento dei settori tradizionali segua un percorso abbastanza simile all’evoluzione dell’industria manifatturiera. Anche se dal 1951 al 1981 i settori tradizionali aumentano di meno della crescita dell’intera industria manifatturiera e dal 1981 al 1996 il loro calo è leggermente maggiore di quello che registra il manifatturiero nel suo complesso (tabella 4), il loro peso si mantiene più o meno stabile negli ultimi trent’anni (intorno al 39%). Stesse affermazioni valgono per il peso dei settori tradizionali del Settentrione rispetto al sistema industriale nazionale: la tabella 5 indica che esso si mantiene nell’intorno del 60%. L’importanza che i settori tradizionali ancora possiedono in un’area ad alta industrializzazione qual è il Nord Italia si presta a una duplice lettura: da un lato, è un indice della difficoltà di emersione di imprese/settori innovativi, dall’altro, rivela una non comune capacità dell’industria italiana di concepire e applicare innovazioni di processo e organizzative cost reducing, che sono comunque alla base della competitività di ogni sistema economico. Per quanto riguarda la composizione interna al macro-comparto tradizionale, non si segnalano rilevanti cambiamenti di peso nel corso del tempo. Nell’Italia settentrionale, l’industria degli alimentari e delle bevande cresce leggermente tra il 1961 ed il 1996; quella della moda stabilizza il proprio peso intorno al 16-18% del totale manifatturiero, dopo aver perso notevole importanza negli anni precedenti; il comparto dei mobili mantiene la buona posizione raggiunta nel 1981. LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? IL PROCESSO DI DEINDUSTRIALIZZAZIONE Il forte calo mostrato dall’industria manifatturiera del Nord Italia nel suo complesso tra il 1981 ed il 1996 è stato talvolta interpretato come l’indicazione dell’esistenza di un processo di “deindustrializzazione”. Dal punto di vista della teoria economica, con questo termine si intende il processo di impoverimento continuo e irreversibile di un’area industrializzata per quanto attiene l’ammontare della produzione industriale prodotta in loco ed il numero di lavoratori occupati nelle imprese corrispondenti. Il termine deindustrializzazione fu introdotto nella letteratura anglosassone negli anni Sessanta, periodo di forte ristrutturazione e riconversione dell’industria inglese, anche se il vero e proprio periodo di deindustrializzazione il Regno Unito lo visse più tardi, negli anni Settanta ed Ottanta, con il passaggio verso l’economia finanziaria e dei servizi. 120 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE I DUBBI SULL’ATTUALE IDENTITÀ INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA SPIEGAZIONI “OTTIMISTICHE” DEL CALO DI OCCUPAZIONE MANIFATTURIERA GLI EFFETTI DELLE INNOVAZIONI LABOUR SAVING L’OUTSOURCING DELLE FUNZIONI DI SERVIZIO DALL’IMPRESA MANIFATTURIERA Con riferimento al “caso Nord Italia”, nel corso degli anni Settanta si è parlato di deindustrializzazione soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest – in Piemonte, Lombardia e Liguria – quando le pessime relazioni industriali di allora comportavano l’ingovernabilità dei maxi-sistemi produttivi che, associata all’esplosione dei prezzi delle materie prime, ponevano seri dubbi sul modello di sviluppo del sistema industriale (Vitali, 1989). Recentemente, il termine deindustrializzazione è stato anche utilizzato per descrivere l’evoluzione dell’industria del Nord-Est (Benincasa, 1998). Comunque, i dubbi sull’identità industriale dell’Italia settentrionale derivano oggi dalla sua minore attrattività di iniziative industriali, nazionali o estere, e dalla mancata sostituzione delle industrie rese obsolete dall’evoluzione tecnologica con le nuove industrie ad alto contenuto di ricerca e innovazione. Parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla constatazione che le imprese “innovative” non vengono localizzate nell’Italia del Nord-Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un “deficit” di rigenerazione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni obsolete. È anche possibile, in un’ottica ottimistica, che il calo di occupati manifatturieri possa essere semplicemente l’effetto del progresso tecnologico laboursaving, che a parità di output prodotto necessita di minori input di forza lavoro, o dell’esternalizzazione delle attività di servizio precedentemente internalizzate dalla grande impresa manifatturiera2. Nel primo caso, il cambiamento tecnologico ha favorito le innovazioni di processo, aumentando eccezionalmente la produttività del fattore lavoro e l’intensità di capitale nell’impresa: le innovazioni labour-saving introdotte dagli anni Ottanta rendono strutturalmente in esubero la manodopera organizzata in schemi produttivi ormai superati dall’introduzione della lean production. La bassa presenza di innovazioni di prodotto non ha creato nuovi mercati di sbocco sufficienti ad assorbire la perdita di occupazione generata dagli incrementi di efficienza del sistema, favorendo quindi un saldo occupazionale negativo. La mancanza di nuovi business si è associata alla saturazione dei mercati tradizionali, la maggior parte dei quali sono ormai di “sostituzione” e non più di “primo acquisto”. Le nuove forme organizzative della lean production, nate dall’unione dell’innovazione tecnologica e di quella organizzativa, richiedono personale più qualificato, ma in minor quantità rispetto alle strutture tradizionali (Gros-Pietro, 1994). Nel secondo caso, a fronte di un’esternalizzazione delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera, si assiste anche ad un aumento della quantità di servizi che la produzione manifatturiera stessa richiede. Il contenuto di servizi presente nel manufatto industriale tende ad aumentare per cause tanto esogene quanto endogene al sistema produttivo. Con le prime intendiamo la maggiore complessità della società e del governo dei mercati che comporta maggiori oneri burocratici e specialistici (ad esempio, per la politica fiscale, ambientale, del lavoro ecc.). Con le seconde ci riferiamo alla necessità di dotare il prodotto manufatto di tutta una serie di elementi “immateriali” acquisibili solamente sul mercato del cosiddetto “terziario avanzato”: si tratta so2 È il fenomeno di outsourcing delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera a favore di imprese specializzate nella prestazione di tali servizi a prezzi inferiori. 121 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE prattutto di particolari servizi a supporto delle vendite e che generalmente non possono essere prodotti all’interno dell’impresa, quali i servizi finanziari per il credito al consumo, i servizi di manutenzione, di installazione e di assistenza post-vendita, le attività di pubblicità e di promozione ecc. Il dibattito tra gli economisti è quindi aperto tra chi prevede la deindustrializzazione del Nord Italia, con un abbandono delle produzioni “tradizionali” e la mancata nascita delle produzioni innovative, e tra chi prevede una sostanziale tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei “servizi avanzati” per il sistema manifatturiero stesso. Entrambe le interpretazioni sono però coerenti con gli effetti individuati nella tabella 3: una perdita di addetti nei settori tradizionali e nell’intero sistema industriale. IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE L’evoluzione del numero delle unità produttive nel corso del tempo mostra una sorta di ciclicità, tanto nell’industria manifatturiera settentrionale, che nell’aggregato dei soli settori tradizionali (tabella 6). Il ciclo dal 1981 al 1996 è chiaramente basato sulla riduzione di tale numero, invertendo la tendenza precedente. Il confronto tra l’evoluzione mostrata dagli addetti e quella assunta dalle unità locali utilizzate nella produzione si sintetizza nella dimensione media aziendale. Negli anni Novanta si arresta, in pratica, il trend di riduzione del numero di addetti per unità produttiva, calo iniziato dal 1971 (tabella 7). Si può pertanto affermare che il tasso di contrazione delle dimensioni medie si è fortemente ridotto, anche se non si è ancora annullato. Tale evoluzione è in parte il frutto delle modifiche organizzative introdotte dalle imprese settentrionali. ANNI SETTANTA E OTTANTA: IL VANTAGGIO DELLA PICCOLA DIMENSIONE Merita infatti ricordare, come negli anni Settanta e in quelli Ottanta l’adeguamento delle imprese alle incertezze dei mercati (di approvvigionamento e di sbocco) è reso difficile dalle forti rigidità che le organizzazioni produttive di quel tempo possedevano (rigidità presenti non solo nell’utilizzo della forza lavoro e del capitale investito, ma anche nei processi di decisione aziendale). Per tali motivi all’inizio degli anni Ottanta le piccole dimensioni si trovano notevolmente avvantaggiate rispetto alle grandi. In realtà, la migliore situazione economica delle piccole imprese è anche attribuibile allo sfruttamento delle potenzialità insite nelle nuove tecnologie di produzione di allora, come, ad esempio, i macchinari a controllo numerico. L’evoluzione della tecnologia favorì una parallela evoluzione della divisione del lavoro: anziché concentrare in un’unica impresa tutte le fasi di produzione (mantenendo quindi l’elevata integrazione verticale dei modelli produttivi degli anni Sessanta e Settanta) fu possibile riorganizzare l’industria con specializzazioni per fasi o parti produttive: ciascuna impresa, collegata in rete con il resto del sistema, effettua una sola fase produttiva, la cui specializzazione consente la riduzione dei costi (per la continua saturazione degli impianti), l’aumento 122 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE delle competenze (per l’apprendimento da accumulazione) e l’ampliamento della clientela a tutte le imprese a valle di tale ciclo di lavorazione3. ANNI NOVANTA: LA RIVINCITA DELLE ECONOMIE DI SCALA … MA IN NUOVI AMBITI DI APPLICAZIONE L’EURO: UN VANTAGGIO SOPRATTUTTO PER LA GRANDE DIMENSIONE D’IMPRESA IN ITALIA PREVALE LA PICCOLA DIMENSIONE … … MA OCCORRE TENERE CONTO DELLA DIFFUSIONE DEI GRUPPI INDUSTRIALI La rivincita ed il recupero della grande impresa avvengono negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali, ottimizzando in tal modo non solo la linea produttiva, ma anche tutto ciò che sta a monte e a valle di essa: i magazzini di entrata e uscita, la progettazione, i servizi alla clientela, la raccolta degli ordini ecc. Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in ciò dai capitali freschi raccolti in borsa4. Negli anni Novanta, il ritorno all’importanza delle economie di scala avviene tuttavia in nuovi ambiti di applicazione: non più economie di scala tecniche, che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi, ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di gamma prodotta. In questo contesto di rinascita del vantaggio della grande impresa, le imprese del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere la concorrenza dei grandi gruppi internazionali. Del resto, la realizzazione della moneta unica avvenuta nel 1999 è un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che la moneta unica consente sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha le dimensioni per fare ciò, cioè chi non possiede le adeguate risorse finanziarie e manageriali per gestire un’impresa in ambito europeo, non può sfruttare i benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi. Una recente pubblicazione Eurostat ha messo in luce che in Italia il 47,5 per cento dell’occupazione totale è presente in imprese con meno di 10 dipendenti, contro una media comunitaria di 32,8 per cento. Ancora, le imprese con 10-49 dipendenti occupano il 21,4 per cento degli addetti contro una media del 18,9 per cento nei quindici. Solo il 30,8 per cento degli addetti italiani è occupato in imprese con almeno 50 dipendenti: la corrispondente percentuale media europea è del 48,2 per cento. A parziale temperamento di tale visione sostanzialmente pessimistica esiste un’altra scuola di pensiero che vede la struttura dimensionale del sistema produttivo influenzata anche, e forse soprattutto, dagli assetti proprietari tipici del Nord Italia: i lavori di Banca d’Italia (Barca, 1994) e del Mediocredito Centrale (1997) indicano che la struttura del gruppo industriale è molto diffusa anche tra le piccole imprese, probabilmente per ragioni connesse agli oneri fiscali, alla legislazione sul lavoro e a quella sui fallimenti d’impresa. 3 In molti casi l’ampliamento del mercato di riferimento avviene addirittura a livello internazionale, nella subfornitura dei grandi gruppi internazionali. 4 Il ricorso alla borsa da parte delle piccole imprese del Nord Italia è reso difficile anche dalla particolare struttura proprietaria di tali imprese che, basate sul cosiddetto “capitalismo famigliare” accedono prevalentemente a capitali provenienti dalla “famiglia” (eventualmente allargata) e non da terzi “estranei”. 123 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’effetto di tali configurazioni proprietarie comporterebbe una sottostima statistica delle reali dimensioni medie del sistema industriale settentrionale, probabilmente maggiori di quanto le stime farebbero apparire. LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA IL “MADE IN ITALY”: UN CRESCENTE CONTRIBUTO ALLA RICCHEZZA NAZIONALE … … GRAZIE A UN PROFONDO PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE … MA LE STRATEGIE BASATE SUL RECUPERO DI EFFICIENZA NON BASTANO PIÙ I dati sul valore aggiunto regionale relativi al periodo 1980-96 indicano come il Nord Italia abbia risentito della crisi congiunturale dei primi anni Ottanta in misura maggiore rispetto al resto del paese, tant’è che il peso del valore aggiunto manifatturiero sul totale nazionale cala dal 68.3% del 1980 al 65.7% del 1984 (tabella 8). Successivamente la dinamica del dato del Nord Italia migliora e si mantiene nell’intorno del 67% rispetto al totale nazionale. Se all’interno del manifatturiero si esaminano distintamente i settori tipici del “made in Italy”, si nota come questi ultimi seguano un’evoluzione completamente diversa: non subiscono la crisi dei primi anni Ottanta e migliorano continuamente il loro peso sul dato nazionale. Per esempio, il valore aggiunto degli alimentari aumenta dal 61.6% del 1980 al 66.2% del 1996, quello del tessile-abbigliamento dal 59.5% del 1980 al 67% del 1996. Il miglioramento generalizzato del valore aggiunto prodotto da tali imprese settentrionali negli anni Novanta è il frutto di un profondo processo di ristrutturazione che ha modificato la realtà imprenditoriale dell’Italia settentrionale mediante innovazioni di processo e innovazioni organizzative. Tra gli effetti della ristrutturazione merita sicuramente attenzione il tentativo di usare meno, e di usare meglio, i fattori produttivi a disposizione. Tale tentativo è all’origine della minore remunerazione dei fattori produttivi interni, a cui ha fatto seguito anche un minore utilizzo di essi (soprattutto per quanto riguarda il fattore lavoro). Del resto, bisogna ricordare che questa strategia è la più semplice e quella che si è dimostrata vincente nel passato, quando la risposta alle crisi congiunturali veniva in primo luogo affrontata aumentando la produttività dei fattori interni di produzione: grazie alle nuove tecnologie che permettevano un rapido recupero dell’efficienza dei fattori, in termini di maggiore produttività, le imprese delle industrie “tradizionali” riuscivano a contrastare la concorrenza di prezzo proveniente dai paesi in via di sviluppo. Purtroppo, tale strategia scricchiola se messa di fronte alle sfide future, in quanto le profonde modifiche avvenute nel contesto competitivo europeo impongono di affiancare al recupero dell’efficienza anche un allargamento dei mercati attuato mediante l’internazionalizzazione e l’innovazione tecnologica, soprattutto quella che si riferisce a nuovi prodotti. Come peraltro si è discusso in altri contributi, è difficile che l’attuale contesto industriale possa continuare a supportare la creazione di ricchezza nelle regioni settentrionali. È probabile che sia auspicabile un progressivo spostamento delle attività industriali verso i nuovi settori innovativi, al cui interno dovranno nascere nuove imprese e opportunità di investimento dei capitali locali. 124 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA L’evoluzione dell’organizzazione produttiva nell’ultimo decennio è stata in gran parte determinata dalle varie forme di decentramento produttivo. Poiché nei periodi in cui più è acuta la concorrenza tra gli operatori diviene cruciale la scelta strategica tra l’operare all’interno dell’impresa (make) o sfruttare l’attività dei fornitori (buy), si può ben comprendere l’importanza che riveste il concetto del decentramento nelle decisioni aziendali degli anni Novanta. Il modello di crescita dell’impresa basato sull’esternalizzazione di parte della produzione, all’interno di rapporti orizzontali definiti nelle “reti di imprese” e di rapporti verticali che fanno capo alla cosiddetta “impresa-rete”, è stato ampiamente studiato nella letteratura economica (Bramanti e Maggioni, 1997; Garofoli, 1994; Varaldo e Ferrucci, 1997), ed appartiene alla cronaca consolidata industriale dell’Italia degli ultimi quindici anni. L’EVOLUZIONE DEL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO … ANNI OTTANTA: DAL CONTROLLO DELLA FORZA LAVORO A ESIGENZE DI ORDINE STRUTTURALE E CONGIUNTURALE Per approfondire le caratteristiche del processo di decentramento della produzione occorre in primo luogo fare riferimento all’evoluzione della tecnologia produttiva e alla diffusione dell’innovazione all’interno del sistema. L’elaborazione dei dati Istat sull’innovazione tecnologica ha evidenziato come le imprese del Nord Italia rispondano alla recessione e all’evoluzione del contesto competitivo utilizzando innovazioni di processo e di prodotto (vedi la scheda sulla ricerca e sviluppo). In entrambi i casi, l’impresa innovativa per ottenere un miglioramento della redditività, perseguito sia dal lato dei costi sia da quello dei prezzi, deve supportare l’innovazione di prodotto e/o di processo con una parallela innovazione organizzativa. La nuova organizzazione utilizza il decentramento produttivo nelle sue diverse forme di attuazione. Se agli inizi degli anni Ottanta il decentramento è finalizzato al maggior controllo della forza lavoro, negli anni successivi esso risponde soprattutto a problemi di ordine strutturale (ricerca di una più efficiente organizzazione aziendale) oltre che congiunturale (risposta alla elevata variabilità della domanda); la sua attuazione permette di rendere più flessibile l’utilizzo dei fattori produttivi, di ridurre i fabbisogni per gli investimenti, sia sotto forma di capitale fisso che di capitale circolante, e di aumentare il grado di utilizzo della capacità produttiva. Merita ancora aggiungere alcune caratteristiche che qualificano meglio il concetto di decentramento produttivo. Infatti questa forma organizzativa permette di conseguire una maggiore flessibilità produttiva, concetto a sua volta distinguibile in versatilità, cioè la capacità di lavorare contemporaneamente più prodotti appartenenti alla medesima famiglia, e in convertibilità, ossia la possibilità di ampliare o sostituire la gamma dei prodotti lavorati. Entrambe le esigenze derivano dalla brevità del ciclo di vita dei prodotti: per recuperare i costi dei nuovi impianti occorre, da una parte, essere in grado di modificare rapidamente la composizione della produzione per lavorare più prodotti contemporaneamente (bisogno di versatilità), dall’altra, poter utilizzare i medesimi immobilizzi tecnici (con qualche piccolo investimento aggiuntivo) nel caso in cui si debba sostituire la gamma produttiva (bisogno di convertibilità). 125 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE … ANNI NOVANTA: IL DECENTRAMENTO SI ESTENDE ALLA PROGETTAZIONE E ALLO SVILUPPO DEL PRODOTTO L’INTEGRAZIONE MONETARIA IMPONE NUOVI MODELLI DI DECENTRAMENTO Con gli anni Novanta si assiste ad un’evoluzione ed un ampliamento della tradizionale forma di decentramento attuata dalle imprese settentrionali: soprattutto la grande impresa tenta di esternalizzare non solo le fasi di produzione ma anche quelle di progettazione e di sviluppo del prodotto (Calabrese, 1997). Si tratta di nuove configurazioni organizzative che legano più strettamente l’impresa terminale e i suoi fornitori: questi ultimi vengono coinvolti nel ciclo produttivo fin dalla fase di progettazione, in modo da applicare fin dall’inizio del ciclo le loro specifiche conoscenze. Ciò implica la presenza nelle imprese fornitrici di conoscenze e capacità gestionali prima assenti, in quanto non necessarie per lo svolgimento del compito produttivo. Stesse affermazioni riguardano gli investimenti per acquisire gli strumenti e i macchinari necessari a svolgere il nuovo ruolo, basti pensare ai sistemi Cad o alle reti informatiche con cui dialogare con l’impresa terminale. Tale modello ha favorito forti legami tra le imprese distrettuali del Nord Italia e, solo in un secondo tempo, tra queste e le imprese del Mezzogiorno. Al contrario, il modello non ha determinato la ricerca di partner internazionali, al contrario di quanto successo nei rimanenti paesi europei. In questi ultimi, i settori tradizionali sono stati progressivamente delocalizzati nei paesi in corso di industrializzazione, al fine di sfruttarne i minori costi produttivi. È quindi molto probabile che con l’avvento della moneta unica, e quindi con l’impossibilità di guadagnare competitività di prezzo tramite la svalutazione della lira, il modello di decentramento utilizzato dalle imprese del Nord Italia si modifichi sull’esempio dei modelli europei, sostituendo progressivamente il contesto nazionale (e distrettuale) con quello internazionale. Le fasi dei processi produttivi dei prodotti tradizionali destinate a restare in Italia saranno certamente quelle più ricche di valore aggiunto, ma alla questione occupazionale interna sarà sempre più difficile trovare risposte all’interno dei modelli di adattamento dei settori tradizionali. Occorrerebbe una proiezione imprenditoriale “verso il nuovo”, che ancora ci pare lontana dal manifestarsi. I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ IL MODELLO COMPETITIVO DELL’INDUSTRIA DEL NORD È A UN PUNTO DI SVOLTA Forte dell’aver fatto lavorare l’Italia, di avere esportato merci sufficienti a garantire l’approvvigionamento di importazioni e una solida posizione finanziaria verso l’estero, nondimeno il sistema industriale settentrionale è a un punto di svolta. Il nuovo contesto in cui esso si trova inserito mostra i limiti del modello di adattamento dei decenni scorsi, basato sull’innovazione cost reducing nei settori tradizionali, associata allo sfruttamento delle esternalità distrettuali. In zona grigia sono rimaste, però, l’innovazione di prodotto, la crescita dimensionale delle imprese, lo sviluppo di strategie di internazionalizzazione complesse, non più semplicemente basate sulle esportazioni, ma sulla crescita internazionale delle reti produttive e, forse più importanti ancora, delle reti distributive. Più innovazione, maggiore inserimento nei nuovi settori ad elevato valore aggiunto, più crescita dimensionale e internazionale non si sarebbero probabilmente mai conseguite nel contesto istituzionale e di mercato precedente all’integrazione monetaria europea. Il che supporta l’ipotesi che i “distretti” 126 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE L’INTEGRAZIONE MONETARIA MODIFICA GLI ORIZZONTI DI RIFERIMENTO ALCUNI PROVVEDIMENTI LEGISLATIVI SEMBRANO FAVORIRE NUOVE DIREZIONI DI SVILUPPO abbiano costituito un modello adattivo di successo a un ambiente economico di riferimento largamente imperfetto, rispetto all’ideale degli economisti. L’Unione Monetaria mette a nudo le debolezze del sistema industriale dell’Italia del Nord e dei suoi distretti. Ne restringe le già modeste dimensioni medie relative delle imprese, e le mette in concorrenza non solo con “i soliti” partner europei, ma soprattutto con l’industria extra-Ue, che punta sul mercato europeo vedendovi, a ragione, non solo il maggiore mercato continentale integrato del globo, ma anche il mercato più agevole, dato il livello di armonizzazione economica e di integrazione monetaria raggiunta tra le economie dei “quindici”. Il legislatore europeo, consapevole di questa “messa a nudo” dei punti di debolezza che riguarda prevalentemente i paesi che avevano avuto mercati più chiusi e protetti, ha però favorito l’adozione di numerosi provvedimenti legislativi che vanno nella direzione di risvegliare dal torpore gli animal spirits del capitalismo mediterraneo. Alcuni esempi sono d’obbligo: • nel mercato borsistico, Easdaq e soprattutto il “Nuovo mercato”, modellato sul modello del Neue Markt tedesco e del Noveau Marchè francese, mettono finalmente fine in Italia al tradizionale razionamento delle Pmi nel capitale di rischio, da destinare a progetti di crescita e sviluppo; • sotto il profilo del capitale finanziario, non solo i fondi di investimento esteri in capitale di rischio di Pmi sono più liberi di agire, data anche l’assenza di un rischio di cambio all’interno dell’Unione, ma la legislazione italiana è stata aggiornata per permettere la nascita di tali soggetti di diritto italiano, regolandone anche la capacità di raccolta di risparmio sul mercato; • la fine dei monopoli pubblici in settori come la telefonia e l’energia va anch’essa salutata con favore, con effetti non solo sul benessere dei consumatore, ma anche effetti supply side. Infatti, è noto che uno degli effetti negativi dei monopoli pubblici sull’innovazione di prodotto sia l’ostacolo alla nascita di Pmi in settori innovativi, che il nuovo contesto legale dovrebbe invece, finalmente, favorire; • il razionamento di risorse umane con preparazione tecnica dovrebbe anch’esso essere sulla via di migliorare, grazie all’introduzione di un più ampio ventaglio di titoli, corsi e indirizzi universitari (come i Diplomi) e grazie all’autonomia delle Scuole e delle Università, più libere che in passato di rispondere direttamente ai bisogni di preparazione al lavoro emergenti dall’economia e dalla società; • successivi interventi legislativi, infine, hanno ridotto la barriera di impermeabilità tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa, favorendo lo scambio di risorse umane, e per questa via oliando i canali e i meccanismi, fin qui assai imperfetti, del trasferimento dei risultati della ricerca in innovazioni commercialmente sfruttabili; • l’Euro ha portato in Italia la stabilità dei prezzi e i minori tassi di interesse degli ultimi venticinque anni; • il contesto fiscale per le imprese è in miglioramento, in primo luogo perché la pressione fiscale ha cessato di crescere; in secondo luogo perché l’introduzione dell’Irap, e la connessa ristrutturazione della fiscalità sulle imprese, ha ridotto, sia pure di poco, il costo del lavoro e ha eliminato la distorsione della preferenza fiscale per le (piccole) società di persone ri- 127 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE spetto alle (maggiori) società di capitali; in terzo luogo perché l’investimento nelle imprese è incentivato, anche se con misure “a termine”. QUALCHE TIMIDO SEGNALE POSITIVO Non sappiamo ancora se e in che grado il nuovo contesto sia sufficiente a garantire che il sistema industriale settentrionale prenda gradualmente nuove direzioni di sviluppo, aumentando la propria specializzazione nei nuovi settori e nell’hi-tech, favorendo l’aggregazione di imprese per creare soggetti capaci di competere nel contesto europeo e di proiettarsi al di fuori di esso. Ci sembra, in linea generale, che dopo un periodo di inerzia durato dal 1996 al 1998, qualcosa si stia finalmente muovendo e che, sia pure con ritardo rispetto agli altri paesi5, le strategie dell’industria italiana vadano finalmente nelle giuste direzioni. Nulla che possa essere rilevato dalle statistiche, per le quali ci vorranno anni di dati e di verifiche empiriche. Ma da alcuni mesi gli investimenti e le acquisizioni di imprese italiane all’estero si sono intensificate, così come la nascita di imprese in settori innovativi. Finalmente, poi, questi processi si intrecciano con la crescita, qualitativa e quantitativa, dei diversi mercati di Borsa (tabella 9). Tutte ragioni per essere, se non tout-court ottimisti, almeno possibilisti sul fatto che, magari in ritardo, il sistema industriale italiano e settentrionale non è più soltanto chiuso in difesa, ma sta incominciando ad approfittare delle opportunità emergenti. Nel mercato globale non c’è spazio per una crescita senza assunzione di rischi: una lezione che va progressivamente appresa. 5 Nel mese di settembre 1999 risultava solo una società italiana quotata nel sistema EuroNuovo Mercato, contro le oltre 160 europee complessive. 128 Tab. 1 – Indici di specializzazione manifatturiera rispetto alla media dei paesi Ocse (1995) 129 Paesi Belgio Danimarca Germania Grecia Spagna Francia Irlanda Italia Lussemburgo Olanda Austria Portogallo Finlandia Svezia Regno Unito Norvegia Svizzera Turchia Stati Uniti Canada Messico Giappone Australia N. Zelanda tessili Abbipelli, legno e gliament cuoio, prodotti o confe- concia, (eccetto zioni calzature mobili) carta e stampa combu- gomma e altri pro- metalli e macchi- computer meccani- apparec- strumen- autoveialtri mobili e suoi ed edito- stibibili e materie dotti da prodotti nari e e mac- ca elettr. chi radio- taz. mecoli e mezzi di altri beni prodotti ria prodotti plastiche minerali in metal- attrezza- chine da e appa- televisivi dicale, rimorchi trasporto manifatchimici non me- lo (escluture ufficio rec. non e per le ottica di turieri talliferi se ataltrove comuni- precis. (nac) trezz.) classif. cazioni orol. 127,7 63,2 198,8 51,2 39,1 75,5 74,8 85,8 216,2 334,3 72,4 85,5 96,2 136,3 61,9 105,5 84,5 140,1 69 70,1 61,4 81,2 72,5 75,2 203,7 205 245,6 304,2 178,7 93,8 72,9 55 155,8 75,4 114,1 160,9 297,1 112,7 87,5 94,7 128 47,1 95 104,2 105,6 63,4 80 94,1 248,2 210,1 55,2 68,4 38,8 59,4 32,9 127,4 89,2 140,4 225,3 263,1 604,3 68,3 56,8 58,4 55,8 135,3 203,3 15,9 0 24,1 8,3 64,9 181,4 247,7 62,3 32,1 30,2 47,7 82,6 139,9 110,6 98,4 138,2 56,4 129 199,2 122,8 69,7 140,6 189,2 368,7 380,8 851,3 172 86,9 91,2 92,7 25 35,6 56,2 53,2 307,3 514,2 115,8 36,1 46,6 33 4,6 25,7 374,7 359,2 5,5 125,4 226,1 97,3 77,8 97,8 48,7 89 119,3 169,8 91,7 39,4 20,7 22,9 167,9 146,7 142,5 92,9 82,6 74 86,9 64,6 115,4 48,7 136,8 100,2 316,2 457,5 269,1 66,6 38,2 79,3 34,5 98,6 76,9 91 118,9 47,8 117,7 127,3 115,9 100,2 71,6 84,3 83,3 43,6 252,7 208,9 80 163,3 216,1 71,4 32,7 54,5 7,8 92,7 18,6 77,5 84,6 87,7 64,3 73,9 78,3 77,2 100,9 153,3 55,6 102,4 159,9 118,8 155,9 66,9 128,1 224 50,4 92,4 197,8 147 340,7 159,3 103,1 Fonte: Monthly Panorama of European Industry, Competitiveness Report, 4/97 126,3 67,4 108,2 144,2 91 133,5 8,3 98,5 16,2 159,2 88,8 93,6 67,2 67,4 127,4 80,9 121,8 181,4 107,5 84,4 130,3 75,6 89,3 70,6 100,6 91,2 107,5 68,6 99 93,2 55,1 85,5 420,3 72,8 77,4 53,4 57,8 28,7 116 39,6 77,2 75,3 100,4 85,7 78,8 108,7 92,7 89,2 144,8 115,1 117,5 197,1 182,4 97,9 67,4 129,6 269,8 91,4 191,7 212,9 64,7 21,7 90,3 73,2 110,8 149,5 73,2 52,4 172,7 106 135 75,6 85,3 71,8 108,3 105 106,3 92,4 31,2 104,1 385,8 89 131,9 62,4 116,5 104,7 84 118,9 95,7 117,7 89,6 90,2 142,3 108,9 180,7 76,1 67,1 144,9 134,3 30,6 56,4 71,1 38,4 143,1 63,1 72,5 130,4 43,2 129,9 79,2 78,3 192,7 94,9 49,4 88,4 65 30,4 117,4 53,1 42,2 9,5 18,6 51,2 3,9 24,8 75,8 548,2 90,8 56,2 45 86,7 1,9 84,2 27,9 146 13 119 1,1 109,5 59,8 45,5 135 75,8 65 75,1 72,5 167,6 72,6 76,3 88,2 64 101,6 69,7 41,4 96,2 75,9 93,4 87,2 74,1 64,9 94,9 44,5 70 46,4 48,8 132,6 65,9 64,8 49,5 43,4 41,8 29,5 30,9 59,5 65,3 48,1 0 90 92,9 66,1 106,7 207,5 62,5 41,4 101,7 46,2 97 45,1 24 176 4,1 52,5 29,4 106,7 102,4 7,4 31,1 102,1 143 51,6 35,1 55,8 49,2 27,6 57,9 156,2 90,8 28,2 243,4 6,7 154,5 23,3 14,3 74,3 37,1 18,1 146,1 12,4 112,9 5,7 104,4 112,9 6,7 54,5 3,8 32,4 57,2 46,9 9,4 190,6 76,4 44,2 252,7 58,2 90,6 194,7 165,6 105,1 64,6 46,2 31,7 85,7 66,8 86,2 80,6 98,1 32,9 86,7 12,2 90,7 22,7 34,5 105 90,8 120,4 122,9 245,6 20,2 131,1 47,8 3,8 92,5 88,3 128,4 109,9 228,9 105,6 44,9 126,7 83,2 94,6 148,4 5,1 71,1 132,6 123,2 68,6 19,3 83,5 81,3 100,7 21,1 114,3 100,7 42,7 79,9 119,9 100,7 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Settori alimenta- tabacco ri e bevande INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE 129 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 2 – Composizione percentuale degli addetti nei settori “tradizionali” nel Nord Italia 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 7,9 7,7 6,9 6,9 7,0 7,6 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 16,4 18,4 18,9 20,9 25,4 33,3 Legno e mobili 7,6 7,4 7,6 7,3 7,2 6,9 Minerali non metalliferi 4,4 4,3 4,8 5,1 5,5 4,7 Altre industrie manifatturiere 2,0 1,8 1,4 1,6 1,3 0,0 Totale “made in Italy” 38,4 39,6 39,5 41,7 46,4 52,4 Totale industria manifatturiera 100 100 100 100 100 100 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 3 – Evoluzione dell’occupazione nei settori “tradizionali” del Nord Italia 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Aliment., bevande e tabacco 256901 267331 268688 249369 225314 187843 Tessile, abb., cuoio e calzat. 532348 637794 737627 757171 814228 819341 Legno e mobili 248287 255696 295669 262747 231850 169043 Minerali non metalliferi 144571 149872 185283 182635 174911 114849 Altre industrie manifatt. 66168 63655 52673 57140 42622 0 Totale “made in Italy” 1248275 1374348 1539940 1509062 1488925 1291076 Tot. industria manifatturiera 3253693 3470289 3900498 3614678 3207219 2463725 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 4 – Evoluzione dell’occupazione nelle imprese settentrionali (variaz. % sul periodo precedente) 1996 1991 1981 Alimentari, bevande e tabacco -3,9 -0,5 7,7 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature -16,5 -13,5 -2,6 Legno e mobili -2,9 -13,5 12,5 Minerali non metalliferi -3,5 -19,1 1,4 Altre industrie manifatturiere 3,9 20,8 -7,8 Totale “made in Italy” -9,2 -10,8 2,0 Totale industria manifatturiera -6,2 -11,0 7,9 1971 10,7 -7,0 13,3 4,4 34,1 1,4 12,7 1961 19,9 -0,6 37,2 52,3 n.d. 15,3 30,2 1951 n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. n.d. Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 5 – Occupazione nelle imprese del Nord Italia nei settori “tradizionali” (peso % sul tot. Italia.) 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 57,5 56,4 55,4 57,8 53,2 45,5 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 57,7 59,8 60,1 65,8 70,1 74,4 Legno e mobili 64,1 63,2 62,7 62,4 60,8 57,6 Minerali non metalliferi 57,6 54,2 54,8 55,8 54,9 55,6 Altre industrie manifatturiere 65,5 66,3 65,2 74,1 76,7 Totale “made in Italy” 59,2 59,3 59,1 62,7 63,6 64,1 Totale industria manifatturiera 67,0 66,6 66,9 70,9 71,3 70,4 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 130 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 6 – Evoluzione del numero di unità locali nel Nord Italia 1996 1991 1981 1971 Aliment. Bevande e tabacco 33613 30913 28114 24397 Tessile, abb., cuoio e calzat. 54379 68149 86201 72400 Legno e mobili 50194 51719 62607 53703 Minerali non metalliferi 13247 13280 12853 11211 Altre industrie manifatt. 11370 10976 9092 6375 Totale “made in Italy” 162803 175037 198867 168086 Tot. industria manifatturiera 333125 338962 360741 272548 1961 21883 109850 52728 9185 1945 195591 311517 1951 27484 134163 52929 7412 0 221988 313580 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab. 7 – Evoluzione della dimensione media nel Nord Italia (addetti per unità locale) 1996 1991 1981 1971 1961 1951 Alimentari, bevande e tabacco 7,6 8,6 9,6 10,2 10,3 6,8 Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature 9,8 9,4 8,6 10,5 7,4 6,1 Legno e mobili 4,9 4,9 4,7 4,9 4,4 3,2 Minerali non metalliferi 10,9 11,3 14,4 16,3 19,0 15,5 Altre industrie manifatturiere 5,8 5,8 5,8 9,0 21,9 Totale “made in Italy” 7,7 7,9 7,7 9,0 7,6 5,8 Totale industria manifatturiera 9,8 10,2 10,8 13,3 10,3 7,9 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat Tab.8 – Valore aggiunto dell’industria settentrionale (peso % sul totale nazionale) totale industria tessile carta e legno, gomma e anni manifatturiera alimentari abbigliamento stampa e altre manifatt. 1980 68,30 61,65 59,53 69,37 71,06 1981 68,07 62,44 59,20 69,67 70,87 1982 67,01 61,94 59,40 69,22 70,33 1983 66,39 61,50 60,89 68,64 70,24 1984 65,68 60,86 59,90 68,70 69,26 1985 66,32 62,66 60,95 68,18 68,80 1986 66,67 63,10 63,53 68,66 69,12 1987 66,93 65,11 65,48 68,35 70,07 1988 67,42 65,25 65,34 69,05 70,12 1989 67,46 62,72 65,30 69,29 69,81 1990 67,42 65,09 66,41 67,89 70,82 1991 66,26 65,51 65,18 67,25 69,86 1992 65,51 64,34 65,34 66,17 69,94 1993 65,59 64,49 66,64 65,85 70,48 1994 66,21 64,94 67,41 66,47 70,89 1995 66,80 65,70 66,96 66,15 70,44 1996 66,88 66,24 66,97 65,86 70,55 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat 131 INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE Tab. 9 – Società italiane prossime alla quotazione (elenco aggiornato al 13/9/99) Titolo Flottante Mercato Sponsor Settore Acsm Como 25% Caboto-Sim Utilities Ais Software Astaldi Costruzioni Bco Bilbao Vizcaya 10% Bnl Banche Biosearch Farma Cassa Risp. Firenze Banche Cent Latte To Mediobanca Alimentare Cifa Meccanica Datanord Multimedia Rothschild Hi-Tech Direct E-Commerce Eleca Bca Aletti Meccanica Enel (2-3/11/99) Etnoteam Finmatica Gandalf Airlines Grandi Navi Veloci Gruppo Basic Gruppo Tessile Monti Kariba I.Net Industriale Cesena Mannesmann Pol-Geox Poligrafica S.Faustino Prima Industrie Tecnodiffusione Tiscali Fonte: www.bullbear.it 15% Mediobanca Merrill Lynch Afv Milla Euromobiliare Sim Banca Imi Abn Amro 50%++ 55-60% 20-25% 33% 50%++ 25% 20% ristretto nuovo mercato? nuovo mercato nuovo mercato Cofimo/Price Wat Foglia Ventura Sim Caboto-Sim Comit/Dt.Bank Bca Aletti Comit/Nomura Interb/Fleming Abn Amro/Bcaimi Utilities Informatica Informatica Trasporti Trasporti Finanziario Tessile Meccanica Internet Impianti Hi-Tech Calzature Editoriale Elettronica Hi-Tech Tlc BIBLIOGRAFIA Barca F. (1994) (a cura di), Assetti proprietari e mercato delle imprese, Bologna, Il Mulino. Benincasa G. 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