INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE

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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
INDUSTRIA SETTENTRIONALE:
I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI
TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Giuseppe Russo* e Giampaolo Vitali**
LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL CONTESTO INTERNAZIONALE – L’INDUSTRIA
“TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA: ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI – L’EVOLUZIONE DI
LUNGO PERIODO DELLA OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91) – LA RIDUZIONE
DI OCCUPATI MANIFATTURIERI NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O
RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE? – IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA
NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE – LA
CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI DEL NORD ITALIA – L’ORGANIZZAZIONE
PRODUTTIVA DEL SISTEMA INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA – I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI
MAGGIORI RISCHI E OPPORTUNITÀ – BIBLIOGRAFIA
LE SPECIALIZZAZIONI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL
CONTESTO INTERNAZIONALE
Quali sono i tratti caratteristici dell’industria italiana? Le sue specializzazioni
settoriali sono sufficienti a garantirne la competitività nel contesto europeo?
E se no, su quali altri vantaggi competitivi essa può contare? Intanto, è bene
chiarire perché affrontiamo l’argomento del futuro dell’industria settentrionale partendo da alcune considerazioni sul complesso dell’industria nazionale.
Per opportunità, innanzi tutto, poiché la mole di informazioni sulle industrie
nazionali europee è assolutamente maggiore rispetto alle informazioni sui
settori regionali. Ma anche perché per approssimazione poi non eccessiva, il
cuore dell’industria nazionale sta nell’Italia centro-settentrionale (79,9 per
cento degli addetti nazionali). La maggior concentrazione industriale si trova
nel Nord Ovest, che con il 26 per cento della popolazione occupa il 37 per
cento degli addetti industriali, seguito dal Nord Est, che dà lavoro a un ulteriore 24 per cento degli occupati del settore secondario (contenendo una popolazione pari al 18 per cento del complesso nazionale).
Avvertiamo poi che in questo paragrafo ci comporteremo con trasparenza
nell’esposizione dei dati, ma non cureremo, per mancanza di spazio in questo
primo lavoro, tutti gli aspetti caratteristici dell’industria italiana. In altri termini, vogliamo darne acquisiti e scontati i punti di forza, in prevalenza risiedenti nel modello organizzativo, settorial-territoriale dei “distretti industriali”, più volte guardato come un esempio da imitare. Pure apprezzandone il
valore, temiamo che nel tempo questo modello sia andato sovraccaricandosi
di aspettative, sia da parte degli operatori, sia soprattutto dai decisori di politica economica. Noi nutriamo il dubbio che i vantaggi competitivi scaturenti
dalle specializzazioni distrettuali possano – da soli – rimediare agli svantaggi
e alle debolezze eventualmente emergenti in altri campi.
UNA SCARSA DINAMICA
DELLA PRODUZIONE
INDUSTRIALE ITALIANA
NEGLI ULTIMI 5 ANNI
A prova di questo argomento vi è l’evidenza dei dati. Abbiamo messo a confronto le variazioni percentuali osservate dagli indici della produzione industriale dei maggiori paesi industrializzati (Unione Europea, Stati Uniti e Canada) tra il 1993 e il 1998, ossia nell’ultimo quinquennio. La fonte dei dati è
Eurostat. La scelta del periodo non è stata casuale. Nel 1993 l’Italia usciva
*
Centro “Luigi Einaudi”, Torino
Ceris-Cnr, Torino
**
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SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
dalla crisi della lira del 1992, la svalutazione ripristinava un valore della nostra divisa coerente con le parità dei poteri di acquisto e si compensava lo
svantaggio competitivo che, negli ultimi anni, aveva penalizzato la produzione interna. Ebbene, tra il 1993 e il 1998, nonostante il recupero di competitività di prezzo del “made in Italy”, la produzione industriale italiana ha fatto
segnare la variazione percentuale più bassa in Europa. Il nostro +13 per cento
è in “buona compagnia”, se si considera che né il Regno Unito, né l’Olanda
avrebbero saputo fare meglio. Ma trascuriamo il fatto che nel Regno Unito si
è avuto una parallela crescita del comparto dei servizi, e che anche l’Olanda
ha puntato sui servizi e sulla esportazione del suo modello d’impresa. Le
multinazionali olandesi sono state nell’ultimo decennio, particolarmente nei
servizi, i veri modelli da imitare. In Italia l’industria ha segnato il passo senza
che i servizi andassero oltre un semplice consolidamento. Come dire che
“abbiamo fatto il compitino” richiesto dall’Unione europea, ma abbiamo osato poco o nulla di più.
Fig. 1 – Produzione industriale nei principali paesi industrializzati (variazione 1983-93)
Produzione industriale (var. % 1993-'1998)
120,0
100,0
104
80,0
60,0
40,0
48
20,0
0,0
13
13
13
14
15
16
PT
FR
16
17
17
18
BE
GR
EF
MU
21
23
26
27
29
49
31
0
JP
NL
IT
UK
DE
LU
AT
US
DK
NO
ES
S1
SE
FI
IR
Fonte: Eurostat
Le ragioni dello scarso dinamismo dell’industria nazionale sono diverse: ma
prima di chiamare in causa complicati concetti organizzativi e i limiti del nostro capitalismo, per decenni incline, e in parte obbligato, a schivare la concorrenza del mercato internazionale dei capitali, piuttosto che a misurarsi con
essa, possiamo incominciare a riflettere sulle nostre specializzazioni settoriali. Si tratta di specializzazioni tradizionali, che, purtroppo, non hanno saputo
rinnovarsi.
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
LE SPECIALIZZAZIONI
DELL’INDUSTRIA
ITALIANA
SU TUTTI:
PELLE, CUOIO,
CALZATURE, TESSILI
E ABBIGLIAMENTO
PRODOTTI IN
METALLO,
MECCANICA E BENI
STRUMENTALI:
SPECIALIZZATI, MA IN
BUONA COMPAGNIA
IL SETTORE DEI
MOBILI: IL PESO
DELLO STILE
LA RITIRATA DELLA
CHIMICA E
DELL’ELETTRONICA
Il front end dell’industria italiana, quella che si trova ogni giorno a sostenere
una concorrenza continentale e globale sempre più agguerrita, è caratterizzato
da un’ampia presenza di prodotti e produttori tradizionali, da una limitata
quota, pur crescente, di beni ad alta tecnologia, da una ridotta presenza, nonché stabile, di prodotti e produttori che impiegano un contenuto input di capitale. Attingiamo l’evidenza per sostenere queste affermazioni dalle fonti internazionali.
Gli indici di specializzazione della tabella 1 parlano chiaro. Quelli italiani
superano il valore di equilibrio di 100 (ossia il valore che indica una presenza
settoriale omogenea con la media dei paesi appartenenti all’Ocse) nei settori
della pelle, del cuoio, delle calzature, nei settori tessile e dell’abbigliamento.
In questi stessi settori la presenza industriale di paesi come la Germania e il
Regno Unito è specularmente più bassa, con indici di specializzazione inferiori al livello di equilibrio.
L’Italia mostra poi una specializzazione nell’industria dei prodotti in metallo,
della meccanica non elettrica ed elettrica, in quella dei beni strumentali. Il
che sarebbe un punto di forza del sistema industriale italiano, dato che questi
settori sono tradizionalmente fortemente esportatori, se non fosse che il nostro indice di specializzazione di 143 è tallonato dal 134 della Germania, dal
130 dell’Austria, dal 129 finlandese e superato dal 145 danese. Il che riporta
“la palla al centro”, e fa vedere come alcuni dei ricorrenti punti di forza nazionali non sono che situazioni di parità, non appena si restringa il confronto
ai paesi di punta tra quelli concorrenti. Inoltre, non si deve dimenticare che
anche il Giappone ha un coefficiente di specializzazione elevato nei beni
strumentali (117), avendo in termini di volumi una “bocca di fuoco”, ossia
una capacità produttiva che da sola sfiora la metà di quella dell’intera Unione
Europea. Il mercato mondiale dei beni strumentali, necessariamente in crescita con lo sviluppo mondiale, incomincia poi ad attrarre i migliori tra i paesi
emergenti. Come la Corea del sud, che sembra seguire da vicino il pattern di
sviluppo settoriale nipponico, e si appresta a divenire un concorrente agguerrito nelle macchine utensili, come è già nel campo automobilistico.
L’ultimo dei settori dove la specializzazione italiana è significativamente superiore a quella media nei paesi Ocse è quello dei mobili, il che in parte ci
accomuna ad alcuni paesi avvantaggiati per l’ampia disponibilità di legname
(Finlandia e Svezia, in primis), e in parte ci vede apparentati agli ultimi paesi
entrati a fare parte dell’Unione Europea (Spagna e Portogallo), nei confronti
dei quali il vantaggio competitivo italiano risiede nell’elemento aggiuntivo
stilistico, il che vale non per tutto il mercato dell’arredamento, ma per la fascia alta del mercato. Tuttavia, nonostante l’indubbia buona salute del settore
del legno, anche recentemente confermata nelle statistiche nazionali, difficilmente l’arredamento potrebbe fornire quello slancio di creazione di posti
di lavoro ben remunerati cui la nostra economia aspirerebbe. Per questi ultimi
bisogna rivolgersi, come è noto, ai settori a maggiore intensità di capitale, di
innovazione, di lavoro qualificato, ma in questi settori la presenza italiana è
sotto la media Ocse.
I coefficienti di specializzazione rivelano, per esempio, che siamo sottopesati (98,5) nella chimica, che lasciamo nelle mani dei francesi (133), dei
belgi (126), degli olandesi (159), dei tedeschi (108), dei britannici (127).
Siamo poco presenti nell’elettronica da ufficio (90,8). La riconversione del
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SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
distretto di Ivrea dall’elettronica alle telecomunicazioni evidenzia una storia
di successo solo a metà, poiché le telecomunicazioni emergenti sono nate
sull’appassimento di un intero distretto dove nella metà degli anni Ottanta si
concepivano e producevano personal computer di livello tecnologico pari allo “stato dell’arte” mondiale. L’uscita italiana dalla chimica e dall’elettronica
sono storie parallele che si associano strettamente alle vicissitudini di due
delle maggiori imprese italiane (Montedison e Olivetti1), e che fanno riflettere come per decenni la storia industriale d’Italia sia stata legata alla storia di
pochi soggetti. Sotto questo profilo, la vicenda dei distretti, cresciuti al di
fuori della logica dei maggiori gruppi italiani, è senza dubbio una storia da
sottolineare positivamente, non solo per aver saputo inventare e vendere prodotti e creare lavoro anche quando le maggiori imprese ristrutturavano o
chiudevano, ma anche per averlo saputo fare con tutte le limitazioni e i razionamenti, particolarmente del capitale finanziario, che hanno caratterizzato lo
sviluppo delle Pmi italiane negli anni passati. Ovvio, peraltro, che in queste
condizioni non si potesse attendere che le imprese dei distretti si specializzassero pure nelle produzioni che richiedevano intensità di capitali, intensità di
ricerca, o fattori di scala significativi.
AUTO, BIOMEDICA E
STRUMENTI DI
PRECISIONE: UNA
SPECIALIZZAZIONE
INFERIORE ALLA
MEDIA OCSE
Un settore nel quale l’industria nazionale è nuovamente sotto-pesata è, quasi
a sorpresa, quello automobilistico, ossia un campo di tradizionale vocazione
storica (e sportiva) dell’industria nazionale. In Italia si producono appena 1,3
milioni di vetture all’anno, contro gli 1,8 milioni del Regno Unito, i 2,1 milioni della Spagna, i 2,6 della Francia, e i 5,2 milioni delle autovetture prodotte in Germania.
Infine, pesa, tra i fattori di debolezza, la pallidissima presenza italiana nel
campo degli strumenti di precisione e delle tecnologie biomedicali: il relativo
indice di specializzazione è 51,6, contro il 90,8 del Regno Unito, il 102 della
Germania, il 154 degli Usa.
1
La rapidità della crisi dell’Olivetti è impressionante, quanto quella del suo primo successo e
dell’esito positivo della sua riconversione. Una riconversione che segna però anche l’uscita
italiana dal settore dei computer. Nel 1987 l’impresa era ancora fortemente in crescita e attiva
nei merger internazionali: l’azienda era protagonista di joint ventures (JV) con società del rango di Eds (USA), Seat (I), Microsoft (USA), acquistava partecipazioni rilevanti o di controllo
in Ibimaint, in Systema (I), Olamtel (SP, telecomunicazioni), Logos (I). Nel settembre del 1988
si riorganizza in quattro divisioni, e quasi contemporaneamente annuncia di varare una strategia di espansione nelle comunicazioni cellulari insieme a Cellular Communication e Shearson
Lehman. Nel 1989 annuncia nuove JV e si lancia in operazioni diversificate internazionalmente, riacquista la quota di ATT, ma annuncia anche la chiusura di Hermes. Il 1990 è il primo anno del deterioramento. Pochi annunci nella prima parte dell’anno, ma verso la fine ci sono le
dimissioni “per divergenze” di Tatò (AD di Olivetti Office) e l’annuncio del taglio di 7000 posti (4000 riguardano l’Italia). Nel 1991 cede Olinet a France Telecom. Alla fine dell’anno Carlo De Benedetti assume tutte le deleghe e concentra i poteri gestionali. Sono previsti 2500 tagli
nel 1992. Corrado Passera affianca C. De Benedetti. Tra il ‘93 e il ‘94 la società cede il controllo di Teknecomp, di Radiocor, di Triumph Adler. Nel 1995, anno di nascita di Infostrada,
Olivetti chiede denaro fresco al mercato e annuncia altri 5000 tagli. La strategia di riconversione nel settore delle telecomunicazioni è decisa, ma i business in perdita, come quello dei
PC, pesano quasi insostenibilmente sui conti. La situazione precipita nel 1996, quando De Benedetti è costretto a cedere tutte le cariche. La società “consuma” due AD prima di finire nelle
mani di Colaninno. Le cessioni non sono terminate. Omnitel, appena nata, è parzialmente ceduta a Mannesmann. France Telecom entra in Infostrada. Le attività informatiche sono cedute
a Wang e quelle nei PC a una nuova società (Piedmont), che tuttavia al 1999 non ha ancora
risalito la china. Le telecomunicazioni dell’Olivetti producono utili, e la società – alleggerita
dei rami in perdita – è nuovamente in nero prima di ogni favorevole previsione, tanto da lanciarsi, attraverso la controllata Tecnost, nell’Opa vittoriosa su Telecom. Dell’originaria vocazione nell’industria dei computer non c’è quasi più traccia, consumata in meno di dieci anni.
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
UNA VISIONE
DINAMICA DELLE
SPECIALIZZAZIONI
DELL'INDUSTRIA
ITALIANA
ALCUNE IPOTESI
INTERPRETATIVE
Se si passa dalla fotografia delle specializzazioni, che evidenziano una struttura che potremmo definire come molto tradizionale, alla visione dinamica
dei fenomeni descritti, sia pure con un certo grado di aggregazione delle variabili, ecco emergere un quadro in movimento non così rassicurante:
• la presenza relativa di imprese ad alta intensità di capitale è andata costantemente diminuendo fin dai primi anni Novanta. Le imprese capital
intensive, rappresentano il 27 per cento del totale, secondo l’Eurostat, 8
punti in meno del Regno Unito, 10 in meno rispetto alla Germania e 5 in
meno rispetto ai valori italiani di dieci anni fa, rispetto ai quali siamo in
regresso;
• l’high tech in Italia è andato crescendo in dieci anni dal 7 al 9,5 per cento
dell’industria, ma il peso di quello francese è dell’11,5 e di quello britannico è del 12,5 per cento;
• i flussi di investimenti diretti all’estero e dall’estero sono particolarmente
modesti. Nei primi ci superano la Germania e la Francia, che fin dal 1994
hanno dimostrato una maggiore comprensione della incombente realtà di
un mercato europeo più grande, nel quale occorreva che le industrie nazionali più competitive si muovessero in anticipo per conquistare le posizioni. Non siamo però neppure particolarmente attraenti come “piattaforme di atterraggio” di investimenti dall’estero, i quali sembrano
preferire la Spagna e il Regno Unito.
Tutto questo suggerisce alcune riflessioni, che riprenderemo dopo avere esaminato in maggiore dettaglio l’industria del Nord Italia. Per il momento ci
sembra di potere avanzare le seguenti ipotesi:
a) non vi è stato un radicale cambiamento delle specializzazioni
dell’industria italiana in accordo con la domanda mondiale di prodotti e
servizi a forte contenuto tecnologico e innovativo, in grado di remunerare
con un premio di prezzo i fattori che li producono;
b) il mantenimento delle specializzazioni tradizionali è stato realizzato pagandone il costo in termini di “dimagrimenti produttivi e occupazionali”,
piuttosto sensibili, non compensati da una pari crescita di settori e vocazioni nuove;
c) il fenomeno dei “distretti” ci pare un eccellente esempio di “adattamento”
imprenditoriale e territoriale a una serie di vincoli del sistema, e in particolare al “razionamento finanziario” delle Pmi, alla carenza di intermediari di capitale di rischio, alla dotazione limitata di risorse umane ad elevata
formazione (certi livelli di competenze sono infatti più semplici da mantenere all’interno di un distretto, anche senza percorsi formativi ad hoc);
d) il fenomeno dei distretti, tuttavia, non sarebbe in grado di svolgere tutte le
funzioni dell’innovazione. In particolare, l’innovazione dei distretti è incrementale, e la nascita di nuove vocazioni è improbabile, se non
nell’intorno di quelle esistenti. Una strategia di migrazione settoriale verso
campi nuovi, come quello della multimedialità o dell’Internet business,
difficilmente può nascere dai distretti storici d’Italia. Allo stesso modo, i
distretti di Pmi possono supplire alle strozzature dimensionali quando si
tratti di produrre, ma non quando si tratti di “concepire e realizzare strategie di crescita a scala globale”. Il limitato numero dei global player italiani, e il loro concentrarsi, nello scorso decennio, nelle strategie di sopravvivenza anziché in quelle di espansione, è responsabile dello scarso peso
del capitalismo italiano nel capitalismo europeo e mondiale.
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INDUSTRIA “TRADIZIONALE” NEL NORD ITALIA:
ALCUNE SPECIALIZZAZIONI SETTORIALI
IL PESO DEL “MADE
IN ITALY” …
… IN UN’ANALISI DI
LUNGO PERIODO
GLI ALIMENTARI E
LE BEVANDE
LA FILIERA DELLA
MODA
Per mettere in luce le peculiarità del sistema industriale del Nord Italia si è in
primo luogo esaminato il ruolo del comparto “tradizionale”, definito come il
macro-settore che comprende al suo interno le industrie tipiche del cosiddetto
“made in Italy”, e cioè quelle industrie in cui le imprese italiane hanno mostrato, fino a oggi, un elevato vantaggio competitivo a livello internazionale.
Tali industrie sono quelle in cui si sono specializzati i distretti del Nord Italia:
il tessile, con Biella e Como; l’abbigliamento, con Carpi, Castelgoffredo, la
Lomellina, l’Oltrepo’ Mantovano; le calzature, con Vigevano, Montebelluna,
la Riviera del Brenta, San Mauro Pascoli; l’alimentare, con San Daniele,
Parma, Alba, Modena; il legno e il mobilio, con l’Alto Livenza, Forlì, Saluzzo, Cantù; la lavorazione dei minerali non metalliferi, con Sassuolo, Castellamonte, la Valpolicella, Murano, Possagno, la Val di Cembra, Val Fontana
Buona; il comparto residuale delle “altre industrie manifatturiere”, che comprende anche i giocattoli (Canneto sull’Oglio), i pennarelli (Settimo Torinese), i gioielli (Valenza Po e Vicenza).
Per sottolineare il carattere strutturale dell’analisi, distinguendolo
dall’approccio “congiunturale”, si è deciso di usare dati di lungo periodo,
grazie alla recente pubblicazione di statistiche omogenee dei censimenti industriali che coprono il periodo 1951-1991, nonchè al loro aggiornamento
tramite il censimento intermedio del 1996. Alcuni dati derivati dalle rilevazioni dell’Istat relative ai conti economici regionali, completeranno la fonte
delle nostre informazioni.
Si esamini il peso di ciascun settore del “made in Italy” nell’Italia del Nord:
• la tabella 2 mostra come gli alimentari e le bevande rappresentino l’8%
dell’occupazione manifatturiera al 1996. Si tratta di un settore nel quale il
vantaggio competitivo si è tradizionalmente basato su fattori non di prezzo, come la qualità e la pubblicità, ed in cui le imprese italiane hanno la
possibilità di vincere la concorrenza internazionale nonostante le loro ridotte dimensioni. Ed è proprio a causa di tali ridotte dimensioni che le
imprese leader italiane sono persino rimaste “vittime del proprio successo”, nel senso che buone parte di esse sono state acquisite dalle grandi
multinazionali estere in virtù della loro elevata visibilità e potenzialità di
crescita. I casi di Galbani, comprata dalla francese Danone, Martini &
Rossi, acquisita dalla Bacardi, Cinzano, appartenente al gruppo Remy
Martin, Buitoni, entrata nel gruppo Nestlè, sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di imprese dell’Italia settentrionale che hanno potuto
crescere grazie all’utilizzo delle risorse finanziarie, e distributive, dei
grandi gruppi internazionali;
• la filiera della moda, con i comparti del tessile, abbigliamento, calzature e
pelli-cuoio, rappresenta un altro tipico settore dell’Italia settentrionale,
essendo il suo peso in termini occupazionali pari al 16% del sistema industriale del 1996 (vedi tabella 2). Nel settore della moda i vantaggi per
l’impresa settentrionale sono legati alle innovazioni organizzative, cioè
all’uso del decentramento produttivo nazionale o internazionale, più che
alle innovazioni tecnologiche. Anche questo settore, come il precedente,
è fortemente polarizzato tra pochi grandi leader, che hanno comunque
una dimensione relativamente piccola se confrontata con quella media
europea, e tantissimi piccoli imprenditori, che in buona parte non possie-
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INDUSTRIA DEI
•
MOBILI E DELLA
LAVORAZIONE DEL
LEGNO
I MINERALI NON
•
METALLIFERI
LE ALTRE
INDUSTRIE
MANIFATTURIERE
UNA STRETTA
INTERDIPENDENZA
TRA IL “MADE IN
ITALY” E IL
COMPARTO DEI
MACCHINARI
INDUSTRIALI
•
dono un marchio proprio e producono per le grandi firme. La filiera della
moda è il tipico comparto che trae rilevanti vantaggi dalle economie esterne presenti nei distretti italiani (Ceris-Cnr, 1997);
come il caso precedente, anche l’industria dei mobili e della lavorazione
del legno ha una lontana e solida presenza nell’Italia del Nord grazie
all’accumulo di competenze originatesi sin dall’inizio della rivoluzione
industriale. Nell’attuale struttura industriale il settore del legno rappresenta quasi l’8% del totale manifatturiero e mostra una configurazione
produttiva basata sulla qualità della produzione finale; produzione che si
lega alle innovazioni dello stile, alla deverticalizzazione del ciclo produttivo per fasi di lavorazione (vedi il penultimo paragrafo di questa scheda), nonché all’introduzione di nuovi materiali di arredamento (è un tentativo, talvolta riuscito, di inserire innovazioni di prodotto);
i minerali non metalliferi rappresentano una nicchia di mercato in cui le
imprese settentrionali hanno accumulato una buona esperienza rivendibile a livello internazionale. All’interno di questo comparto, merita sottolineare il ruolo dell’industria della produzione di ceramiche, ove le esportazioni italiane rappresentano una rilevantissima quota delle esportazioni
mondiali. È altresì importante rilevare come il vantaggio competitivo in
tutto il settore non derivi tanto dalla presenza della materia prima in loco
(le cave pre-alpine di pietra o di granito), quanto dall’organizzazione
produttiva delle imprese italiane e dall’innovazione di prodotto tramite
gli strumenti della moda e del design;
nel comparto residuale delle altre industrie manifatturiere sono anche
presenti alcuni comparti tradizionali comunque importanti per l’Italia settentrionale: si tratta dell’industria dell’oreficeria e di quella dei giocattoli.
Soprattutto nel primo caso, il vantaggio competitivo deriva da fattori
non-price, quali la moda ed il design: anche in questo caso,
l’importazione di materie prime e la riesportazione di prodotti ad elevato
valore aggiunto sono la conferma del know-how posseduto dalle imprese
italiane.
In generale, merita poi sottolineare come il comparto tradizionale, qui esaminato nei suoi dettagli infra-settoriali, mostri uno stretto legame di interdipendenza con il comparto a medio-alta tecnologia dei macchinari industriali. Il
rapporto di interdipendenza si manifesta sia dal lato della elevata domanda
proveniente dagli utilizzatori di macchinari (le industrie tessili, alimentari,
del legno ecc.), sia dal lato dell’offerta dei produttori di macchine innovative
e ad alta produttività, che favorisce la competitività degli utilizzatori nazionali rispetto agli esteri. Tale interdipendenza è evidente anche a livello distrettuale, in quanto ovunque vi sia una leadership nei settori tradizionali si nota
una pari leadership internazionale nel corrispondente comparto dei macchinari: i produttori di macchine per gli alimentari e le bevande, di quelle per i tessili, di quelle per la lavorazione della pietra ecc. sono particolarmente presenti nelle regioni settentrionali, e proprio nelle aree distrettuali in cui si
concentrano le imprese del “made in Italy”. Tale fatto indica come siano positive le sinergie tra utilizzatori e produttori di macchinari in termini di efficienza d’impresa e di innovazione di prodotto.
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INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’EVOLUZIONE DI LUNGO PERIODO DELLA
OCCUPAZIONE INDUSTRIALE NEL NORD ITALIA (1951-91)
I SETTORI
TRADIZIONALI: UN
PESO STABILE
NELL’EVOLUZIONE
DELL’INDUSTRIA
MANIFATTURIERA
UNA DUPLICE
LETTURA
DELL’IMPORTANZA
DEI SETTORI
TRADIZIONALI DEL
NORD ITALIA
I dati Istat consentono di esaminare l’evoluzione del sistema industriale
dell’Italia del Nord nel corso degli ultimi 50 anni: la tabella 3 mostra come
dal 1951 al 1996 l’industria manifatturiera del Nord Italia sia cresciuta, da
2.464.000 occupati a 3.254.000, pur non mostrando un percorso di crescita
lineare. Infatti, dopo un crescita rapidissima dal 1951 al 1981, negli anni successivi si avverte un calo della presenza manifatturiera. Tale calo ha sollevato
un intenso dibattito sul futuro “industriale” del Nord Italia e sulla sua evoluzione verso le configurazioni tipiche dell’era post-industriale (vedi infra).
A questo riguardo è interessante sottolineare come l’andamento dei settori
tradizionali segua un percorso abbastanza simile all’evoluzione dell’industria
manifatturiera. Anche se dal 1951 al 1981 i settori tradizionali aumentano di
meno della crescita dell’intera industria manifatturiera e dal 1981 al 1996 il
loro calo è leggermente maggiore di quello che registra il manifatturiero nel
suo complesso (tabella 4), il loro peso si mantiene più o meno stabile negli
ultimi trent’anni (intorno al 39%).
Stesse affermazioni valgono per il peso dei settori tradizionali del Settentrione rispetto al sistema industriale nazionale: la tabella 5 indica che esso si
mantiene nell’intorno del 60%.
L’importanza che i settori tradizionali ancora possiedono in un’area ad alta
industrializzazione qual è il Nord Italia si presta a una duplice lettura: da un
lato, è un indice della difficoltà di emersione di imprese/settori innovativi,
dall’altro, rivela una non comune capacità dell’industria italiana di concepire
e applicare innovazioni di processo e organizzative cost reducing, che sono
comunque alla base della competitività di ogni sistema economico.
Per quanto riguarda la composizione interna al macro-comparto tradizionale,
non si segnalano rilevanti cambiamenti di peso nel corso del tempo.
Nell’Italia settentrionale, l’industria degli alimentari e delle bevande cresce
leggermente tra il 1961 ed il 1996; quella della moda stabilizza il proprio peso intorno al 16-18% del totale manifatturiero, dopo aver perso notevole importanza negli anni precedenti; il comparto dei mobili mantiene la buona posizione raggiunta nel 1981.
LA RIDUZIONE DI OCCUPATI MANIFATTURIERI
NELL’ITALIA DEL NORD: DEINDUSTRIALIZZAZIONE O
RIORGANIZZAZIONE DELLE FASI PRODUTTIVE?
IL PROCESSO DI
DEINDUSTRIALIZZAZIONE
Il forte calo mostrato dall’industria manifatturiera del Nord Italia nel suo
complesso tra il 1981 ed il 1996 è stato talvolta interpretato come
l’indicazione dell’esistenza di un processo di “deindustrializzazione”.
Dal punto di vista della teoria economica, con questo termine si intende il
processo di impoverimento continuo e irreversibile di un’area industrializzata
per quanto attiene l’ammontare della produzione industriale prodotta in loco
ed il numero di lavoratori occupati nelle imprese corrispondenti. Il termine
deindustrializzazione fu introdotto nella letteratura anglosassone negli anni
Sessanta, periodo di forte ristrutturazione e riconversione dell’industria inglese, anche se il vero e proprio periodo di deindustrializzazione il Regno Unito
lo visse più tardi, negli anni Settanta ed Ottanta, con il passaggio verso
l’economia finanziaria e dei servizi.
120
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
I DUBBI SULL’ATTUALE
IDENTITÀ
INDUSTRIALE DEL
NORD ITALIA
SPIEGAZIONI
“OTTIMISTICHE” DEL
CALO DI OCCUPAZIONE
MANIFATTURIERA
GLI EFFETTI DELLE
INNOVAZIONI
LABOUR SAVING
L’OUTSOURCING
DELLE FUNZIONI DI
SERVIZIO
DALL’IMPRESA
MANIFATTURIERA
Con riferimento al “caso Nord Italia”, nel corso degli anni Settanta si è parlato di deindustrializzazione soprattutto nelle regioni del Nord-Ovest – in Piemonte, Lombardia e Liguria – quando le pessime relazioni industriali di allora comportavano l’ingovernabilità dei maxi-sistemi produttivi che, associata
all’esplosione dei prezzi delle materie prime, ponevano seri dubbi sul modello di sviluppo del sistema industriale (Vitali, 1989). Recentemente, il termine
deindustrializzazione è stato anche utilizzato per descrivere l’evoluzione
dell’industria del Nord-Est (Benincasa, 1998).
Comunque, i dubbi sull’identità industriale dell’Italia settentrionale derivano
oggi dalla sua minore attrattività di iniziative industriali, nazionali o estere, e
dalla mancata sostituzione delle industrie rese obsolete dall’evoluzione tecnologica con le nuove industrie ad alto contenuto di ricerca e innovazione. Parziali conferme del processo di deindustrializzazione in atto nascono dalla
constatazione che le imprese “innovative” non vengono localizzate nell’Italia
del Nord-Ovest, ma in altre regioni europee, evidenziando un “deficit” di rigenerazione imprenditoriale dell’area da cui il mercato sta eliminando le produzioni obsolete.
È anche possibile, in un’ottica ottimistica, che il calo di occupati manifatturieri possa essere semplicemente l’effetto del progresso tecnologico laboursaving, che a parità di output prodotto necessita di minori input di forza lavoro, o dell’esternalizzazione delle attività di servizio precedentemente internalizzate dalla grande impresa manifatturiera2.
Nel primo caso, il cambiamento tecnologico ha favorito le innovazioni di
processo, aumentando eccezionalmente la produttività del fattore lavoro e
l’intensità di capitale nell’impresa: le innovazioni labour-saving introdotte
dagli anni Ottanta rendono strutturalmente in esubero la manodopera organizzata in schemi produttivi ormai superati dall’introduzione della lean production. La bassa presenza di innovazioni di prodotto non ha creato nuovi
mercati di sbocco sufficienti ad assorbire la perdita di occupazione generata
dagli incrementi di efficienza del sistema, favorendo quindi un saldo occupazionale negativo. La mancanza di nuovi business si è associata alla saturazione dei mercati tradizionali, la maggior parte dei quali sono ormai di “sostituzione” e non più di “primo acquisto”. Le nuove forme organizzative della
lean production, nate dall’unione dell’innovazione tecnologica e di quella organizzativa, richiedono personale più qualificato, ma in minor quantità rispetto alle strutture tradizionali (Gros-Pietro, 1994).
Nel secondo caso, a fronte di un’esternalizzazione delle funzioni di servizi
dall’impresa manifatturiera, si assiste anche ad un aumento della quantità di
servizi che la produzione manifatturiera stessa richiede. Il contenuto di servizi presente nel manufatto industriale tende ad aumentare per cause tanto esogene quanto endogene al sistema produttivo. Con le prime intendiamo la
maggiore complessità della società e del governo dei mercati che comporta
maggiori oneri burocratici e specialistici (ad esempio, per la politica fiscale,
ambientale, del lavoro ecc.). Con le seconde ci riferiamo alla necessità di dotare il prodotto manufatto di tutta una serie di elementi “immateriali” acquisibili solamente sul mercato del cosiddetto “terziario avanzato”: si tratta so2
È il fenomeno di outsourcing delle funzioni di servizi dall’impresa manifatturiera a favore di
imprese specializzate nella prestazione di tali servizi a prezzi inferiori.
121
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
prattutto di particolari servizi a supporto delle vendite e che generalmente
non possono essere prodotti all’interno dell’impresa, quali i servizi finanziari
per il credito al consumo, i servizi di manutenzione, di installazione e di assistenza post-vendita, le attività di pubblicità e di promozione ecc.
Il dibattito tra gli economisti è quindi aperto tra chi prevede la deindustrializzazione del Nord Italia, con un abbandono delle produzioni “tradizionali” e la
mancata nascita delle produzioni innovative, e tra chi prevede una sostanziale
tenuta delle produzioni manifatturiere e la maggiore importanza dei “servizi
avanzati” per il sistema manifatturiero stesso. Entrambe le interpretazioni sono però coerenti con gli effetti individuati nella tabella 3: una perdita di addetti nei settori tradizionali e nell’intero sistema industriale.
IL RUOLO DELLE DIMENSIONI D’IMPRESA
NELL’INFLUENZARE LA COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE
DELL’ITALIA SETTENTRIONALE
L’evoluzione del numero delle unità produttive nel corso del tempo mostra
una sorta di ciclicità, tanto nell’industria manifatturiera settentrionale, che
nell’aggregato dei soli settori tradizionali (tabella 6). Il ciclo dal 1981 al
1996 è chiaramente basato sulla riduzione di tale numero, invertendo la tendenza precedente.
Il confronto tra l’evoluzione mostrata dagli addetti e quella assunta dalle unità locali utilizzate nella produzione si sintetizza nella dimensione media aziendale. Negli anni Novanta si arresta, in pratica, il trend di riduzione del
numero di addetti per unità produttiva, calo iniziato dal 1971 (tabella 7). Si
può pertanto affermare che il tasso di contrazione delle dimensioni medie si è
fortemente ridotto, anche se non si è ancora annullato.
Tale evoluzione è in parte il frutto delle modifiche organizzative introdotte
dalle imprese settentrionali.
ANNI SETTANTA E
OTTANTA:
IL VANTAGGIO
DELLA PICCOLA
DIMENSIONE
Merita infatti ricordare, come negli anni Settanta e in quelli Ottanta
l’adeguamento delle imprese alle incertezze dei mercati (di approvvigionamento e di sbocco) è reso difficile dalle forti rigidità che le organizzazioni
produttive di quel tempo possedevano (rigidità presenti non solo nell’utilizzo
della forza lavoro e del capitale investito, ma anche nei processi di decisione
aziendale). Per tali motivi all’inizio degli anni Ottanta le piccole dimensioni
si trovano notevolmente avvantaggiate rispetto alle grandi. In realtà, la migliore situazione economica delle piccole imprese è anche attribuibile allo
sfruttamento delle potenzialità insite nelle nuove tecnologie di produzione di
allora, come, ad esempio, i macchinari a controllo numerico. L’evoluzione
della tecnologia favorì una parallela evoluzione della divisione del lavoro:
anziché concentrare in un’unica impresa tutte le fasi di produzione (mantenendo quindi l’elevata integrazione verticale dei modelli produttivi degli anni
Sessanta e Settanta) fu possibile riorganizzare l’industria con specializzazioni
per fasi o parti produttive: ciascuna impresa, collegata in rete con il resto del
sistema, effettua una sola fase produttiva, la cui specializzazione consente la
riduzione dei costi (per la continua saturazione degli impianti), l’aumento
122
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
delle competenze (per l’apprendimento da accumulazione) e l’ampliamento
della clientela a tutte le imprese a valle di tale ciclo di lavorazione3.
ANNI NOVANTA:
LA RIVINCITA DELLE
ECONOMIE DI SCALA …
MA IN NUOVI AMBITI DI
APPLICAZIONE
L’EURO: UN VANTAGGIO
SOPRATTUTTO PER LA
GRANDE DIMENSIONE
D’IMPRESA
IN ITALIA PREVALE
LA PICCOLA
DIMENSIONE …
… MA OCCORRE TENERE
CONTO DELLA
DIFFUSIONE DEI GRUPPI
INDUSTRIALI
La rivincita ed il recupero della grande impresa avvengono negli anni Novanta grazie, nuovamente, all’evoluzione tecnologica. L’uso dell’informatica assume un aspetto sistemico con la sua estensione dall’area meramente produttiva a tutte le rimanenti funzioni aziendali, ottimizzando in tal modo non solo
la linea produttiva, ma anche tutto ciò che sta a monte e a valle di essa: i magazzini di entrata e uscita, la progettazione, i servizi alla clientela, la raccolta
degli ordini ecc. Solo la grande impresa può permettersi di effettuare gli elevati investimenti che le innovazioni di sistema comportano, talvolta aiutata in
ciò dai capitali freschi raccolti in borsa4.
Negli anni Novanta, il ritorno all’importanza delle economie di scala avviene
tuttavia in nuovi ambiti di applicazione: non più economie di scala tecniche,
che afferiscono all’ampiezza degli stabilimenti produttivi, ma soprattutto economie di scala economiche, finanziarie, distributive, tecnologiche, di
gamma prodotta.
In questo contesto di rinascita del vantaggio della grande impresa, le imprese
del Nord Italia registrano dimensioni nettamente inferiori ai concorrenti europei, sollevando alcuni dubbi sulla loro capacità di contenere la concorrenza
dei grandi gruppi internazionali.
Del resto, la realizzazione della moneta unica avvenuta nel 1999 è un ulteriore catalizzatore dello sviluppo della grande dimensione: i vantaggi di efficienza garantiti dai minori costi transazionali che la moneta unica consente
sono sfruttati soprattutto dalle grandi dimensioni che operano in tutto il mercato europeo come se si trattasse di un grande mercato domestico. Chi non ha
le dimensioni per fare ciò, cioè chi non possiede le adeguate risorse finanziarie e manageriali per gestire un’impresa in ambito europeo, non può sfruttare
i benefici dell’Unione Economica e Monetaria, subendone comunque la
maggiore concorrenza determinata dalla trasparenza dei prezzi.
Una recente pubblicazione Eurostat ha messo in luce che in Italia il 47,5 per
cento dell’occupazione totale è presente in imprese con meno di 10 dipendenti, contro una media comunitaria di 32,8 per cento. Ancora, le imprese con
10-49 dipendenti occupano il 21,4 per cento degli addetti contro una media
del 18,9 per cento nei quindici. Solo il 30,8 per cento degli addetti italiani è
occupato in imprese con almeno 50 dipendenti: la corrispondente percentuale
media europea è del 48,2 per cento.
A parziale temperamento di tale visione sostanzialmente pessimistica esiste
un’altra scuola di pensiero che vede la struttura dimensionale del sistema
produttivo influenzata anche, e forse soprattutto, dagli assetti proprietari tipici del Nord Italia: i lavori di Banca d’Italia (Barca, 1994) e del Mediocredito
Centrale (1997) indicano che la struttura del gruppo industriale è molto diffusa anche tra le piccole imprese, probabilmente per ragioni connesse agli oneri
fiscali, alla legislazione sul lavoro e a quella sui fallimenti d’impresa.
3
In molti casi l’ampliamento del mercato di riferimento avviene addirittura a livello internazionale, nella subfornitura dei grandi gruppi internazionali.
4
Il ricorso alla borsa da parte delle piccole imprese del Nord Italia è reso difficile anche dalla
particolare struttura proprietaria di tali imprese che, basate sul cosiddetto “capitalismo famigliare” accedono prevalentemente a capitali provenienti dalla “famiglia” (eventualmente allargata) e non da terzi “estranei”.
123
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’effetto di tali configurazioni proprietarie comporterebbe una sottostima statistica delle reali dimensioni medie del sistema industriale settentrionale, probabilmente maggiori di quanto le stime farebbero apparire.
LA CREAZIONE DEL VALORE NELLE REALTÀ AZIENDALI
DEL NORD ITALIA
IL “MADE IN ITALY”:
UN CRESCENTE
CONTRIBUTO ALLA
RICCHEZZA
NAZIONALE …
… GRAZIE A UN
PROFONDO
PROCESSO DI
RISTRUTTURAZIONE
… MA LE STRATEGIE
BASATE SUL
RECUPERO DI
EFFICIENZA NON
BASTANO PIÙ
I dati sul valore aggiunto regionale relativi al periodo 1980-96 indicano come
il Nord Italia abbia risentito della crisi congiunturale dei primi anni Ottanta in
misura maggiore rispetto al resto del paese, tant’è che il peso del valore aggiunto manifatturiero sul totale nazionale cala dal 68.3% del 1980 al 65.7%
del 1984 (tabella 8). Successivamente la dinamica del dato del Nord Italia
migliora e si mantiene nell’intorno del 67% rispetto al totale nazionale.
Se all’interno del manifatturiero si esaminano distintamente i settori tipici del
“made in Italy”, si nota come questi ultimi seguano un’evoluzione completamente diversa: non subiscono la crisi dei primi anni Ottanta e migliorano
continuamente il loro peso sul dato nazionale. Per esempio, il valore aggiunto
degli alimentari aumenta dal 61.6% del 1980 al 66.2% del 1996, quello del
tessile-abbigliamento dal 59.5% del 1980 al 67% del 1996.
Il miglioramento generalizzato del valore aggiunto prodotto da tali imprese
settentrionali negli anni Novanta è il frutto di un profondo processo di ristrutturazione che ha modificato la realtà imprenditoriale dell’Italia settentrionale
mediante innovazioni di processo e innovazioni organizzative.
Tra gli effetti della ristrutturazione merita sicuramente attenzione il tentativo
di usare meno, e di usare meglio, i fattori produttivi a disposizione. Tale tentativo è all’origine della minore remunerazione dei fattori produttivi interni, a
cui ha fatto seguito anche un minore utilizzo di essi (soprattutto per quanto
riguarda il fattore lavoro). Del resto, bisogna ricordare che questa strategia è
la più semplice e quella che si è dimostrata vincente nel passato, quando la
risposta alle crisi congiunturali veniva in primo luogo affrontata aumentando
la produttività dei fattori interni di produzione: grazie alle nuove tecnologie
che permettevano un rapido recupero dell’efficienza dei fattori, in termini di
maggiore produttività, le imprese delle industrie “tradizionali” riuscivano a
contrastare la concorrenza di prezzo proveniente dai paesi in via di sviluppo.
Purtroppo, tale strategia scricchiola se messa di fronte alle sfide future, in
quanto le profonde modifiche avvenute nel contesto competitivo europeo impongono di affiancare al recupero dell’efficienza anche un allargamento dei
mercati attuato mediante l’internazionalizzazione e l’innovazione tecnologica, soprattutto quella che si riferisce a nuovi prodotti.
Come peraltro si è discusso in altri contributi, è difficile che l’attuale contesto
industriale possa continuare a supportare la creazione di ricchezza nelle regioni settentrionali. È probabile che sia auspicabile un progressivo spostamento delle attività industriali verso i nuovi settori innovativi, al cui interno
dovranno nascere nuove imprese e opportunità di investimento dei capitali
locali.
124
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA DEL SISTEMA
INDUSTRIALE DEL NORD ITALIA
L’evoluzione dell’organizzazione produttiva nell’ultimo decennio è stata in
gran parte determinata dalle varie forme di decentramento produttivo.
Poiché nei periodi in cui più è acuta la concorrenza tra gli operatori diviene
cruciale la scelta strategica tra l’operare all’interno dell’impresa (make) o
sfruttare l’attività dei fornitori (buy), si può ben comprendere l’importanza
che riveste il concetto del decentramento nelle decisioni aziendali degli anni
Novanta.
Il modello di crescita dell’impresa basato sull’esternalizzazione di parte della
produzione, all’interno di rapporti orizzontali definiti nelle “reti di imprese” e
di rapporti verticali che fanno capo alla cosiddetta “impresa-rete”, è stato
ampiamente studiato nella letteratura economica (Bramanti e Maggioni,
1997; Garofoli, 1994; Varaldo e Ferrucci, 1997), ed appartiene alla cronaca
consolidata industriale dell’Italia degli ultimi quindici anni.
L’EVOLUZIONE DEL
DECENTRAMENTO
PRODUTTIVO
… ANNI OTTANTA:
DAL CONTROLLO DELLA
FORZA LAVORO A
ESIGENZE DI ORDINE
STRUTTURALE E
CONGIUNTURALE
Per approfondire le caratteristiche del processo di decentramento della produzione occorre in primo luogo fare riferimento all’evoluzione della tecnologia
produttiva e alla diffusione dell’innovazione all’interno del sistema.
L’elaborazione dei dati Istat sull’innovazione tecnologica ha evidenziato come le imprese del Nord Italia rispondano alla recessione e all’evoluzione del
contesto competitivo utilizzando innovazioni di processo e di prodotto (vedi
la scheda sulla ricerca e sviluppo). In entrambi i casi, l’impresa innovativa
per ottenere un miglioramento della redditività, perseguito sia dal lato dei costi sia da quello dei prezzi, deve supportare l’innovazione di prodotto e/o di
processo con una parallela innovazione organizzativa.
La nuova organizzazione utilizza il decentramento produttivo nelle sue diverse forme di attuazione.
Se agli inizi degli anni Ottanta il decentramento è finalizzato al maggior controllo della forza lavoro, negli anni successivi esso risponde soprattutto a
problemi di ordine strutturale (ricerca di una più efficiente organizzazione aziendale) oltre che congiunturale (risposta alla elevata variabilità della domanda); la sua attuazione permette di rendere più flessibile l’utilizzo dei fattori produttivi, di ridurre i fabbisogni per gli investimenti, sia sotto forma di
capitale fisso che di capitale circolante, e di aumentare il grado di utilizzo
della capacità produttiva.
Merita ancora aggiungere alcune caratteristiche che qualificano meglio il
concetto di decentramento produttivo. Infatti questa forma organizzativa
permette di conseguire una maggiore flessibilità produttiva, concetto a sua
volta distinguibile in versatilità, cioè la capacità di lavorare contemporaneamente più prodotti appartenenti alla medesima famiglia, e in convertibilità,
ossia la possibilità di ampliare o sostituire la gamma dei prodotti lavorati. Entrambe le esigenze derivano dalla brevità del ciclo di vita dei prodotti: per recuperare i costi dei nuovi impianti occorre, da una parte, essere in grado di
modificare rapidamente la composizione della produzione per lavorare più
prodotti contemporaneamente (bisogno di versatilità), dall’altra, poter utilizzare i medesimi immobilizzi tecnici (con qualche piccolo investimento aggiuntivo) nel caso in cui si debba sostituire la gamma produttiva (bisogno di
convertibilità).
125
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
… ANNI NOVANTA:
IL DECENTRAMENTO SI
ESTENDE ALLA
PROGETTAZIONE E
ALLO SVILUPPO DEL
PRODOTTO
L’INTEGRAZIONE
MONETARIA IMPONE
NUOVI MODELLI DI
DECENTRAMENTO
Con gli anni Novanta si assiste ad un’evoluzione ed un ampliamento della
tradizionale forma di decentramento attuata dalle imprese settentrionali: soprattutto la grande impresa tenta di esternalizzare non solo le fasi di produzione ma anche quelle di progettazione e di sviluppo del prodotto (Calabrese,
1997). Si tratta di nuove configurazioni organizzative che legano più strettamente l’impresa terminale e i suoi fornitori: questi ultimi vengono coinvolti
nel ciclo produttivo fin dalla fase di progettazione, in modo da applicare fin
dall’inizio del ciclo le loro specifiche conoscenze. Ciò implica la presenza
nelle imprese fornitrici di conoscenze e capacità gestionali prima assenti, in
quanto non necessarie per lo svolgimento del compito produttivo. Stesse affermazioni riguardano gli investimenti per acquisire gli strumenti e i macchinari necessari a svolgere il nuovo ruolo, basti pensare ai sistemi Cad o alle
reti informatiche con cui dialogare con l’impresa terminale.
Tale modello ha favorito forti legami tra le imprese distrettuali del Nord Italia
e, solo in un secondo tempo, tra queste e le imprese del Mezzogiorno. Al
contrario, il modello non ha determinato la ricerca di partner internazionali, al
contrario di quanto successo nei rimanenti paesi europei. In questi ultimi, i
settori tradizionali sono stati progressivamente delocalizzati nei paesi in corso di industrializzazione, al fine di sfruttarne i minori costi produttivi. È
quindi molto probabile che con l’avvento della moneta unica, e quindi con
l’impossibilità di guadagnare competitività di prezzo tramite la svalutazione
della lira, il modello di decentramento utilizzato dalle imprese del Nord Italia
si modifichi sull’esempio dei modelli europei, sostituendo progressivamente
il contesto nazionale (e distrettuale) con quello internazionale. Le fasi dei
processi produttivi dei prodotti tradizionali destinate a restare in Italia saranno certamente quelle più ricche di valore aggiunto, ma alla questione occupazionale interna sarà sempre più difficile trovare risposte all’interno dei modelli di adattamento dei settori tradizionali. Occorrerebbe una proiezione
imprenditoriale “verso il nuovo”, che ancora ci pare lontana dal manifestarsi.
I SEGNALI POSITIVI NEL CONTESTO DI MAGGIORI
RISCHI E OPPORTUNITÀ
IL MODELLO
COMPETITIVO
DELL’INDUSTRIA DEL
NORD È A UN PUNTO DI
SVOLTA
Forte dell’aver fatto lavorare l’Italia, di avere esportato merci sufficienti a garantire l’approvvigionamento di importazioni e una solida posizione finanziaria verso l’estero, nondimeno il sistema industriale settentrionale è a un punto
di svolta.
Il nuovo contesto in cui esso si trova inserito mostra i limiti del modello di
adattamento dei decenni scorsi, basato sull’innovazione cost reducing nei settori tradizionali, associata allo sfruttamento delle esternalità distrettuali. In
zona grigia sono rimaste, però, l’innovazione di prodotto, la crescita dimensionale delle imprese, lo sviluppo di strategie di internazionalizzazione complesse, non più semplicemente basate sulle esportazioni, ma sulla crescita internazionale delle reti produttive e, forse più importanti ancora, delle reti
distributive.
Più innovazione, maggiore inserimento nei nuovi settori ad elevato valore
aggiunto, più crescita dimensionale e internazionale non si sarebbero probabilmente mai conseguite nel contesto istituzionale e di mercato precedente
all’integrazione monetaria europea. Il che supporta l’ipotesi che i “distretti”
126
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
L’INTEGRAZIONE
MONETARIA MODIFICA
GLI ORIZZONTI DI
RIFERIMENTO
ALCUNI
PROVVEDIMENTI
LEGISLATIVI
SEMBRANO
FAVORIRE NUOVE
DIREZIONI DI
SVILUPPO
abbiano costituito un modello adattivo di successo a un ambiente economico
di riferimento largamente imperfetto, rispetto all’ideale degli economisti.
L’Unione Monetaria mette a nudo le debolezze del sistema industriale
dell’Italia del Nord e dei suoi distretti. Ne restringe le già modeste dimensioni medie relative delle imprese, e le mette in concorrenza non solo con “i soliti” partner europei, ma soprattutto con l’industria extra-Ue, che punta sul
mercato europeo vedendovi, a ragione, non solo il maggiore mercato continentale integrato del globo, ma anche il mercato più agevole, dato il livello di
armonizzazione economica e di integrazione monetaria raggiunta tra le economie dei “quindici”.
Il legislatore europeo, consapevole di questa “messa a nudo” dei punti di debolezza che riguarda prevalentemente i paesi che avevano avuto mercati più
chiusi e protetti, ha però favorito l’adozione di numerosi provvedimenti legislativi che vanno nella direzione di risvegliare dal torpore gli animal spirits
del capitalismo mediterraneo. Alcuni esempi sono d’obbligo:
• nel mercato borsistico, Easdaq e soprattutto il “Nuovo mercato”, modellato sul modello del Neue Markt tedesco e del Noveau Marchè francese,
mettono finalmente fine in Italia al tradizionale razionamento delle Pmi
nel capitale di rischio, da destinare a progetti di crescita e sviluppo;
• sotto il profilo del capitale finanziario, non solo i fondi di investimento
esteri in capitale di rischio di Pmi sono più liberi di agire, data anche
l’assenza di un rischio di cambio all’interno dell’Unione, ma la legislazione italiana è stata aggiornata per permettere la nascita di tali soggetti
di diritto italiano, regolandone anche la capacità di raccolta di risparmio
sul mercato;
• la fine dei monopoli pubblici in settori come la telefonia e l’energia va
anch’essa salutata con favore, con effetti non solo sul benessere dei consumatore, ma anche effetti supply side. Infatti, è noto che uno degli effetti
negativi dei monopoli pubblici sull’innovazione di prodotto sia l’ostacolo
alla nascita di Pmi in settori innovativi, che il nuovo contesto legale dovrebbe invece, finalmente, favorire;
• il razionamento di risorse umane con preparazione tecnica dovrebbe
anch’esso essere sulla via di migliorare, grazie all’introduzione di un più
ampio ventaglio di titoli, corsi e indirizzi universitari (come i Diplomi) e
grazie all’autonomia delle Scuole e delle Università, più libere che in
passato di rispondere direttamente ai bisogni di preparazione al lavoro
emergenti dall’economia e dalla società;
• successivi interventi legislativi, infine, hanno ridotto la barriera di impermeabilità tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa, favorendo
lo scambio di risorse umane, e per questa via oliando i canali e i meccanismi, fin qui assai imperfetti, del trasferimento dei risultati della ricerca
in innovazioni commercialmente sfruttabili;
• l’Euro ha portato in Italia la stabilità dei prezzi e i minori tassi di interesse degli ultimi venticinque anni;
• il contesto fiscale per le imprese è in miglioramento, in primo luogo perché la pressione fiscale ha cessato di crescere; in secondo luogo perché
l’introduzione dell’Irap, e la connessa ristrutturazione della fiscalità sulle
imprese, ha ridotto, sia pure di poco, il costo del lavoro e ha eliminato la
distorsione della preferenza fiscale per le (piccole) società di persone ri-
127
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
spetto alle (maggiori) società di capitali; in terzo luogo perché l’investimento nelle imprese è incentivato, anche se con misure “a termine”.
QUALCHE TIMIDO
SEGNALE POSITIVO
Non sappiamo ancora se e in che grado il nuovo contesto sia sufficiente a garantire che il sistema industriale settentrionale prenda gradualmente nuove
direzioni di sviluppo, aumentando la propria specializzazione nei nuovi settori e nell’hi-tech, favorendo l’aggregazione di imprese per creare soggetti capaci di competere nel contesto europeo e di proiettarsi al di fuori di esso.
Ci sembra, in linea generale, che dopo un periodo di inerzia durato dal 1996
al 1998, qualcosa si stia finalmente muovendo e che, sia pure con ritardo rispetto agli altri paesi5, le strategie dell’industria italiana vadano finalmente
nelle giuste direzioni. Nulla che possa essere rilevato dalle statistiche, per le
quali ci vorranno anni di dati e di verifiche empiriche. Ma da alcuni mesi gli
investimenti e le acquisizioni di imprese italiane all’estero si sono intensificate, così come la nascita di imprese in settori innovativi. Finalmente, poi, questi processi si intrecciano con la crescita, qualitativa e quantitativa, dei diversi
mercati di Borsa (tabella 9). Tutte ragioni per essere, se non tout-court ottimisti, almeno possibilisti sul fatto che, magari in ritardo, il sistema industriale
italiano e settentrionale non è più soltanto chiuso in difesa, ma sta incominciando ad approfittare delle opportunità emergenti. Nel mercato globale non
c’è spazio per una crescita senza assunzione di rischi: una lezione che va progressivamente appresa.
5
Nel mese di settembre 1999 risultava solo una società italiana quotata nel sistema EuroNuovo Mercato, contro le oltre 160 europee complessive.
128
Tab. 1 – Indici di specializzazione manifatturiera rispetto alla media dei paesi Ocse (1995)
129
Paesi
Belgio
Danimarca
Germania
Grecia
Spagna
Francia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Olanda
Austria
Portogallo
Finlandia
Svezia
Regno Unito
Norvegia
Svizzera
Turchia
Stati Uniti
Canada
Messico
Giappone
Australia
N. Zelanda
tessili
Abbipelli, legno e
gliament
cuoio, prodotti
o confe- concia, (eccetto
zioni calzature mobili)
carta e stampa combu- gomma e altri pro- metalli e macchi- computer meccani- apparec- strumen- autoveialtri mobili e
suoi ed edito- stibibili e materie dotti da prodotti
nari e e mac- ca elettr. chi radio- taz. mecoli e mezzi di altri beni
prodotti
ria prodotti plastiche minerali in metal- attrezza- chine da e appa- televisivi dicale, rimorchi trasporto manifatchimici
non me- lo (escluture
ufficio rec. non e per le ottica di
turieri
talliferi
se ataltrove comuni- precis.
(nac)
trezz.)
classif. cazioni
orol.
127,7
63,2 198,8
51,2
39,1
75,5
74,8
85,8
216,2 334,3
72,4
85,5
96,2 136,3
61,9 105,5
84,5 140,1
69
70,1
61,4
81,2
72,5
75,2
203,7
205 245,6 304,2 178,7
93,8
72,9
55
155,8
75,4 114,1 160,9 297,1 112,7
87,5
94,7
128
47,1
95 104,2 105,6
63,4
80
94,1
248,2 210,1
55,2
68,4
38,8
59,4
32,9 127,4
89,2 140,4 225,3 263,1 604,3
68,3
56,8
58,4
55,8 135,3 203,3
15,9
0
24,1
8,3
64,9
181,4 247,7
62,3
32,1
30,2
47,7
82,6 139,9
110,6
98,4 138,2
56,4
129 199,2 122,8
69,7
140,6 189,2 368,7 380,8 851,3
172
86,9
91,2
92,7
25
35,6
56,2
53,2 307,3 514,2 115,8
36,1
46,6
33
4,6
25,7 374,7 359,2
5,5
125,4 226,1
97,3
77,8
97,8
48,7
89 119,3
169,8
91,7
39,4
20,7
22,9 167,9 146,7 142,5
92,9
82,6
74
86,9
64,6 115,4
48,7 136,8
100,2 316,2 457,5 269,1
66,6
38,2
79,3
34,5
98,6
76,9
91 118,9
47,8 117,7 127,3 115,9
100,2
71,6
84,3
83,3
43,6 252,7 208,9
80
163,3 216,1
71,4
32,7
54,5
7,8
92,7
18,6
77,5
84,6
87,7
64,3
73,9
78,3
77,2 100,9
153,3
55,6 102,4 159,9 118,8 155,9
66,9 128,1
224
50,4
92,4 197,8
147 340,7 159,3 103,1
Fonte: Monthly Panorama of European Industry, Competitiveness Report, 4/97
126,3
67,4
108,2
144,2
91
133,5
8,3
98,5
16,2
159,2
88,8
93,6
67,2
67,4
127,4
80,9
121,8
181,4
107,5
84,4
130,3
75,6
89,3
70,6
100,6
91,2
107,5
68,6
99
93,2
55,1
85,5
420,3
72,8
77,4
53,4
57,8
28,7
116
39,6
77,2
75,3
100,4
85,7
78,8
108,7
92,7
89,2
144,8
115,1
117,5
197,1
182,4
97,9
67,4
129,6
269,8
91,4
191,7
212,9
64,7
21,7
90,3
73,2
110,8
149,5
73,2
52,4
172,7
106
135
75,6
85,3
71,8
108,3
105
106,3
92,4
31,2
104,1
385,8
89
131,9
62,4
116,5
104,7
84
118,9
95,7
117,7
89,6
90,2
142,3
108,9
180,7
76,1
67,1
144,9
134,3
30,6
56,4
71,1
38,4
143,1
63,1
72,5
130,4
43,2
129,9
79,2
78,3
192,7
94,9
49,4
88,4
65
30,4
117,4
53,1
42,2
9,5
18,6
51,2
3,9
24,8
75,8
548,2
90,8
56,2
45
86,7
1,9
84,2
27,9
146
13
119
1,1
109,5
59,8
45,5
135
75,8
65
75,1
72,5
167,6
72,6
76,3
88,2
64
101,6
69,7
41,4
96,2
75,9
93,4
87,2
74,1
64,9
94,9
44,5
70
46,4
48,8
132,6
65,9
64,8
49,5
43,4
41,8
29,5
30,9
59,5
65,3
48,1
0
90
92,9
66,1
106,7
207,5
62,5
41,4
101,7
46,2
97
45,1
24
176
4,1
52,5
29,4
106,7
102,4
7,4
31,1
102,1
143
51,6
35,1
55,8
49,2
27,6
57,9
156,2
90,8
28,2
243,4
6,7
154,5
23,3
14,3
74,3
37,1
18,1
146,1
12,4
112,9
5,7
104,4
112,9
6,7
54,5
3,8
32,4
57,2
46,9
9,4
190,6
76,4
44,2
252,7
58,2
90,6
194,7
165,6
105,1
64,6
46,2
31,7
85,7
66,8
86,2
80,6
98,1
32,9
86,7
12,2
90,7
22,7
34,5
105
90,8
120,4
122,9
245,6
20,2
131,1
47,8
3,8
92,5
88,3
128,4
109,9
228,9
105,6
44,9
126,7
83,2
94,6
148,4
5,1
71,1
132,6
123,2
68,6
19,3
83,5
81,3
100,7
21,1
114,3
100,7
42,7
79,9
119,9
100,7
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE SPECIALIZZAZIONI
TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Settori alimenta- tabacco
ri e bevande
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
129
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 2 – Composizione percentuale degli addetti nei settori “tradizionali” nel Nord Italia
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
7,9
7,7
6,9
6,9
7,0
7,6
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
16,4
18,4
18,9
20,9
25,4
33,3
Legno e mobili
7,6
7,4
7,6
7,3
7,2
6,9
Minerali non metalliferi
4,4
4,3
4,8
5,1
5,5
4,7
Altre industrie manifatturiere
2,0
1,8
1,4
1,6
1,3
0,0
Totale “made in Italy”
38,4
39,6
39,5
41,7
46,4
52,4
Totale industria manifatturiera
100
100
100
100
100
100
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 3 – Evoluzione dell’occupazione nei settori “tradizionali” del Nord Italia
1996
1991
1981
1971
1961
1951
Aliment., bevande e tabacco
256901 267331 268688 249369 225314 187843
Tessile, abb., cuoio e calzat.
532348 637794 737627 757171 814228 819341
Legno e mobili
248287 255696 295669 262747 231850 169043
Minerali non metalliferi
144571 149872 185283 182635 174911 114849
Altre industrie manifatt.
66168
63655
52673
57140
42622
0
Totale “made in Italy”
1248275 1374348 1539940 1509062 1488925 1291076
Tot. industria manifatturiera 3253693 3470289 3900498 3614678 3207219 2463725
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 4 – Evoluzione dell’occupazione nelle imprese settentrionali
(variaz. % sul periodo precedente)
1996 1991 1981
Alimentari, bevande e tabacco
-3,9
-0,5
7,7
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
-16,5 -13,5
-2,6
Legno e mobili
-2,9 -13,5
12,5
Minerali non metalliferi
-3,5 -19,1
1,4
Altre industrie manifatturiere
3,9
20,8
-7,8
Totale “made in Italy”
-9,2 -10,8
2,0
Totale industria manifatturiera
-6,2 -11,0
7,9
1971
10,7
-7,0
13,3
4,4
34,1
1,4
12,7
1961
19,9
-0,6
37,2
52,3
n.d.
15,3
30,2
1951
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 5 – Occupazione nelle imprese del Nord Italia nei settori “tradizionali” (peso % sul
tot. Italia.)
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
57,5
56,4
55,4
57,8
53,2
45,5
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
57,7
59,8
60,1
65,8
70,1
74,4
Legno e mobili
64,1
63,2
62,7
62,4
60,8
57,6
Minerali non metalliferi
57,6
54,2
54,8
55,8
54,9
55,6
Altre industrie manifatturiere
65,5
66,3
65,2
74,1
76,7
Totale “made in Italy”
59,2
59,3
59,1
62,7
63,6
64,1
Totale industria manifatturiera
67,0
66,6
66,9
70,9
71,3
70,4
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
130
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 6 – Evoluzione del numero di unità locali nel Nord Italia
1996
1991
1981
1971
Aliment. Bevande e tabacco
33613
30913
28114
24397
Tessile, abb., cuoio e calzat.
54379
68149
86201
72400
Legno e mobili
50194
51719
62607
53703
Minerali non metalliferi
13247
13280
12853
11211
Altre industrie manifatt.
11370
10976
9092
6375
Totale “made in Italy”
162803 175037 198867 168086
Tot. industria manifatturiera
333125 338962 360741 272548
1961
21883
109850
52728
9185
1945
195591
311517
1951
27484
134163
52929
7412
0
221988
313580
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab. 7 – Evoluzione della dimensione media nel Nord Italia (addetti per unità locale)
1996 1991 1981 1971 1961 1951
Alimentari, bevande e tabacco
7,6
8,6
9,6
10,2
10,3
6,8
Tessile, abbigliamento, cuoio e calzature
9,8
9,4
8,6
10,5
7,4
6,1
Legno e mobili
4,9
4,9
4,7
4,9
4,4
3,2
Minerali non metalliferi
10,9
11,3
14,4
16,3
19,0
15,5
Altre industrie manifatturiere
5,8
5,8
5,8
9,0
21,9
Totale “made in Italy”
7,7
7,9
7,7
9,0
7,6
5,8
Totale industria manifatturiera
9,8
10,2
10,8
13,3
10,3
7,9
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
Tab.8 – Valore aggiunto dell’industria settentrionale (peso % sul totale nazionale)
totale industria
tessile
carta e
legno, gomma e
anni
manifatturiera
alimentari abbigliamento
stampa
e altre manifatt.
1980
68,30
61,65
59,53
69,37
71,06
1981
68,07
62,44
59,20
69,67
70,87
1982
67,01
61,94
59,40
69,22
70,33
1983
66,39
61,50
60,89
68,64
70,24
1984
65,68
60,86
59,90
68,70
69,26
1985
66,32
62,66
60,95
68,18
68,80
1986
66,67
63,10
63,53
68,66
69,12
1987
66,93
65,11
65,48
68,35
70,07
1988
67,42
65,25
65,34
69,05
70,12
1989
67,46
62,72
65,30
69,29
69,81
1990
67,42
65,09
66,41
67,89
70,82
1991
66,26
65,51
65,18
67,25
69,86
1992
65,51
64,34
65,34
66,17
69,94
1993
65,59
64,49
66,64
65,85
70,48
1994
66,21
64,94
67,41
66,47
70,89
1995
66,80
65,70
66,96
66,15
70,44
1996
66,88
66,24
66,97
65,86
70,55
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat
131
INDUSTRIA SETTENTRIONALE: I LIMITI DELLE
SPECIALIZZAZIONI TRADIZIONALI E LE NUOVE SFIDE
Tab. 9 – Società italiane prossime alla quotazione (elenco aggiornato al 13/9/99)
Titolo
Flottante
Mercato
Sponsor
Settore
Acsm Como
25%
Caboto-Sim
Utilities
Ais
Software
Astaldi
Costruzioni
Bco Bilbao Vizcaya
10%
Bnl
Banche
Biosearch
Farma
Cassa Risp. Firenze
Banche
Cent Latte To
Mediobanca
Alimentare
Cifa
Meccanica
Datanord Multimedia
Rothschild
Hi-Tech
Direct
E-Commerce
Eleca
Bca Aletti
Meccanica
Enel (2-3/11/99)
Etnoteam
Finmatica
Gandalf Airlines
Grandi Navi Veloci
Gruppo Basic
Gruppo Tessile Monti
Kariba
I.Net
Industriale Cesena
Mannesmann
Pol-Geox
Poligrafica S.Faustino
Prima Industrie
Tecnodiffusione
Tiscali
Fonte: www.bullbear.it
15%
Mediobanca Merrill Lynch
Afv Milla
Euromobiliare Sim
Banca Imi
Abn Amro
50%++
55-60%
20-25%
33%
50%++
25%
20%
ristretto
nuovo mercato?
nuovo mercato
nuovo mercato
Cofimo/Price Wat
Foglia Ventura Sim
Caboto-Sim
Comit/Dt.Bank
Bca Aletti
Comit/Nomura
Interb/Fleming
Abn Amro/Bcaimi
Utilities
Informatica
Informatica
Trasporti
Trasporti
Finanziario
Tessile
Meccanica
Internet
Impianti
Hi-Tech
Calzature
Editoriale
Elettronica
Hi-Tech
Tlc
BIBLIOGRAFIA
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