Guida alla lettura de Il nome della rosa

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Guida alla lettura de Il nome della rosa
IL NOME DELLA ROSA – GUIDA ALLA LETTURA
di Guido Vassallo
Introduzione
Il nome della rosa (vincitore del premio Strega nel 1981) è un romanzo che ha lasciato il segno ed è
considerato uno dei capolavori della nostra letteratura di fine ‘900. Ha venduto fino ad ora 15 milioni di
copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in 44 lingue.
Ma le attese del suo autore non erano certo queste, tanto che anche lui si è stupito del successo
planetario che ha avuto. La trama è articolata e sofisticata, il lessico è colto, l’ambientazione medievale e le
pagine sono infarcite di questioni teologiche e filosofiche: sulla carta sono tutti elementi che avrebbero
dovuto scoraggiare il grande pubblico e invece ne hanno fatto un bestseller.
Proprio per questi elementi, però, è un libro che non può essere letto con superficialità: al lettore che
abbia voglia di affrontare le 500 pagine e di immergersi nella vicenda intricata che vi è narrata si richiede
attenzione e senso critico.
Attenzione:
- molti docenti di scuola superiore consigliano la lettura de Il nome della rosa ai propri alunni, che
spesso non hanno la preparazione culturale per comprenderne i contenuti. La presente guida alla lettura è
stata scritta principalmente per loro.
- nelle pagine che seguono riporterò in corsivo i brani tratti dal romanzo, da altri testi dell’autore (in
particolare diverse citazioni vengono dalle Postille a Il nome della rosa, un testo del 1983 in cui Eco ha
voluto dare qualche spiegazione sulla ispirazione del libro e su alcuni dei contenuti) o di altri autori.
- nel riassunto si rivelano particolari decisivi della trama e il finale del romanzo: a chi volesse leggere
il libro per intero si suggerisce di saltare il paragrafo.
La trama
Il soggetto del romanzo è di fantasia, ma sapientemente incastonato in un contesto storico
complesso, quello del contrasto tra l’imperatore Ludovico il Bavaro e il pontefice Giovanni XXII (primi anni
del XIV secolo). Su questo sfondo si sviluppa la trama che è quella di un thriller, colto e un po’ gotico. Gli
ingredienti del successo ci sono tutti: monaci corrotti, una biblioteca misteriosa strutturata come un
labirinto, magie e veleni, un manoscritto indecifrabile, l’inquisizione, il timore dell’Anticristo, streghe vere o
presunte, un rogo che alla fine cancella ogni traccia.
La vicenda è narrata in prima persona da Adso di Melk, un monaco benedettino, ormai anziano che
racconta cosa gli capitò durante un viaggio che fece da giovane novizio al seguito di Guglielmo di
Baskerville, un francescano, ex inquisitore, noto per la sua sagacia.
La narrazione (tutta la vicenda narrata dura sette giorni) è scandita dalle ore canoniche che regolano
le giornate nei conventi di benedettini: Mattutino, Laudi, Terza, Sesta, Nona, Vespri e Compieta.
Siamo nel novembre del 1327 e i due protagonisti giungono ad un’abbazia benedettina del nord
Italia. E’ un luogo straordinario, carico di storia, che incute rispetto e impone soggezione per la sua
monumentalità e la sua fama di centro di cultura. Si tratta di una specie di castello che ospita molti monaci,
impegnati soprattutto nella raccolta, catalogazione e copiatura di manoscritti antichi. Situata su di un alto
monte l’abbazia è circondata da un muro fortificato e comprende diverse costruzioni, tra cui una grande
chiesa e l’Edificio, sede della Biblioteca, dello scriptorium, delle cucine e di altri importanti ambienti.
Guglielmo è stato invitato a partecipare ad un incontro, previsto nei giorni a venire, tra una
delegazione del Papa Giovanni XXII proveniente da Avignone (sede del papato in quel periodo storico) e un
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gruppo di frati minoriti (francescani) guidati dal loro Generale Michele da Cesena. Il tema del dibattito è la
povertà di Cristo e la povertà della Chiesa, argomento che, dopo la morte di san Bonaventura (primo
successore di san Francesco alla guida dell’ordine francescano), è stato fonte di dolorose spaccature e
contese nell’Ordine e nella Chiesa.
Dopo aver incontrato l’abate dell’abbazia (di nome Abbone) e altri personaggi come Ubertino da
Casale (vecchia conoscenza di Guglielmo, cacciato dai francescani e diventato benedettino), l’erborista
Severino e altri, e dopo aver avuto con alcuni di loro dotte conversazioni, i due protagonisti vengono subito
messi al corrente dall’abate di un fatto sconcertante da poco avvenuto: Adelmo di Otranto, uno dei più abili
miniaturisti dello scriptorium è stato trovato morto sotto le mura di cinta della cittadella. Non si sa se si
tratti di suicidio o di omicidio. Abbone chiede allora a Guglielmo, dotato di fine intelligenza e astuzia, di
indagare sull’accaduto, dandogli facoltà di interrogare chiunque ritenga opportuno e anche di muoversi
liberamente all’interno degli edifici, tranne la biblioteca, luogo inaccessibile a tutti, eccezion fatta per il
bibliotecario (Malachia, austero e malinconico) e il suo aiutante (Berengario da Arundel). Vi vengono
custoditi libri preziosi e libri pericolosi e pertanto l’ingresso è vietato a tutti.
Tra una preghiera, un banchetto e qualche dotta conversazione Guglielmo e il fedele Adso
cominciano a conoscere i personaggi che popolano l’abbazia: il cieco Jorge da Burgos, il più anziano di tutti,
burbero e inquietante, temuto profeta di un’imminente apocalisse; il cinico Aymaro da Alessandria; il
bislacco Salvatore, che parla una lingua tutta sua, un misto di dialetti volgari e latino sgrammaticato; il
cellario Remigio da Varagine, mite e remissivo, ma dal passato oscuro (aveva fatto parte del seguito di fra
Dolcino, rivoluzionario ex-frate eresiarca); Venanzio da Salvemec, abile traduttore dall’arabo e dal greco,
grande conoscitore e appassionato di Aristotele; Bencio di Upsala, giovane monaco scandinavo, colto ed
esperto di retorica; il maestro vetraio Nicola da Morimondo, affascinato dalle lenti che Guglielmo usa per
leggere meglio; e altri ancora.
Nelle loro indagini sulla morte di Adelmo i due protagonisti scoprono molte cose interessanti.
Vengono a sapere per esempio di una strana conversazione avvenuta qualche giorno prima tra Jorge,
Adelmo, Venanzio e Berengario a proposito della Poetica di Aristotele e in particolare del secondo libro,
secondo la tradizione dedicato alla commedia, ma che nessuno ha mai potuto leggere. Visitano lo
scriptorium dove si imbattono in alcuni appunti sibillini di Venanzio tratti da un libro che però poche ore
dopo sparisce, sottratto da qualcuno. Di notte si intrufolano nella biblioteca che ha una struttura molto
tortuosa e con un po’ di fatica riescono a decifrare il criterio con cui sono distribuite le sale, con indicazioni
geografiche; e capiscono che c’è una zona a cui non si può accedere chiamata finis Africae, dove sono
custoditi volumi segreti. Vengono a conoscenza di una relazione troppo intima tra Adelmo e Berengario e di
strane cose che succedono la notte nell’abbazia, come le visite di alcune donne povere del villaggio vicino
disposte a vendersi a monaci corrotti in cambio di un po’ di cibo.
E nel frattempo continuano i delitti. Nel giro di poche ore vengono trovati i cadaveri di Venanzio
(affogato in un bacile pieno del sangue dei maiali scannati al mattatoio), di Berengario (annegato in una
vasca dei balnea) e di Severino (la testa rotta con una sfera armillare di bronzo). Sventare il colpevole di
tutti gli omicidi è sempre più difficile per Guglielmo, che ha notato che tutti i cadaveri hanno le dita e la
lingua macchiate di nero e sospetta siano stati avvelenati. Ma quando viene trovato il cadavere dell’erbario
Severino, grande conoscitore di piante e sostanze venefiche, il mistero si infittisce. Tanto più che l’assassino
di Severino viene colto in flagrante ed è Remigio.
E’ arrivata intanto all’abbazia la delegazione avignonese guidata dall’inquisitore Bernardo Gui. Viene
montato un tribunale per processare Remigio, ma il movente che viene fuori (certe carte che fra Dolcino
aveva consegnato al suo discepolo e che questi aveva nascosto nella biblioteca dell’abbazia con la
complicità di Malachia e su cui Severino sembrava stesse indagando) convince poco Guglielmo. Egli così
predice ciò che poche ore dopo avviene: anche Malachia, il bibliotecario muore.
Le morti che si succedono inesorabili, i misteri della biblioteca e dei manoscritti scomparsi
sconvolgono il giovane Adso che una notte, mentre si aggira nelle cucine dell’abbazia in cerca di indizi, si
imbatte quasi per caso in una ragazza con cui ha una relazione amorosa che lo turba profondamente. Se ne
confessa con il suo maestro che non dà troppo peso a questo peccato, attribuendolo più alla malvagità
della donna, fonte di tentazioni, che alla debolezza del discepolo. (Durante il processo la ragazza farà una
brutta fine, condannata al rogo come strega, insieme al selvaggio Salvatore, fedele compagno di Remigio e
responsabile delle incursioni notturne di estranei nell’abbazia).
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In mezzo a tutto questo trambusto la discussione tra la legazione avignonese e quella francescana
sulla povertà si trasforma in una rissa che non porta a nulla e che viene descritta in un capitolo intitolato
ironicamente “una fraterna discussione sulla povertà di Gesù”.
Il quinto giorno di permanenza di Adso e Guglielmo nell’abbazia si conclude a Compieta con un
tremendo discorso dell’anziano Jorge sulla venuta dell’Anticristo e sulla giustizia divina che si abbatterà sui
peccatori. La mattina del sesto giorno muore Malachia: anch’egli ha le dita e la lingua macchiate di nero.
Guglielmo è vicino alla scoperta della verità. Sembra che gli omicidi seguano una traccia dettata dalle
sette trombe dell’Apocalisse. Ha chiaro che tutto ruota attorno al libro scomparso dallo scriptorium che nel
frattempo è passato di mano in mano ma che non è riuscito a esaminare. Gli resta da interpretare
correttamente gli appunti di Venanzio e trovare un modo per entrare nel finis Africae dove spera di trovare
il libro misterioso. E’ Adso che involontariamente (prima raccontando un sogno che ha avuto, poi facendo
una battuta ingenua) gli svela il modo di accedere alla stanza segreta della biblioteca.
Nella notte i due accedono al luogo inaccessibile e vi trovano Jorge con il libro misterioso. Si tratta di
una raccolta che contiene alcune opere sulla comicità e il riso, tra cui l’unico manoscritto esistente del II
libro della Poetica di Aristotele. Jorge, il frate cieco, ha voluto proteggere quel volume considerandolo
pericoloso per l’umanità. Il Filosofo, infatti, vi direbbe che la commedia e il riso sono fonte di conoscenza,
una via di accesso alla verità. Ma ciò non è possibile perché il riso nasce dall’ubriachezza, dall’ignoranza e
dal sovvertimento dell’ordine. E se allora qualcuno avesse preso sul serio l’affermazione dello Stagirita e
avesse cominciato a ridersi della verità presto o tardi si sarebbe finito per ridersi di Dio. Il riso libera dalla
paura, mentre invece il rispetto della legge divina si fonda sulla paura, sul timor di Dio, afferma Jorge in un
dialogo delirante nella stanza buia. Per proteggere il manoscritto da mani indiscrete Jorge lo aveva trattato
con un veleno potentissimo, sapendo che chiunque ne fosse venuto in possesso lo avrebbe letto con foga
ma così si sarebbe avvelenato da solo.
Jorge, per suicidarsi, inizia a stracciare e ingoiare le pagine avvelenate del libro, mentre Guglielmo
cerca di strapparglielo di mano. Ne nasce una colluttazione durante la quale una lanterna cade sui
manoscritti. Il fuoco divampa subito tra le pergamene, i codici miniati e gli scaffali di legno antico. In poco
tempo tutto l’Edificio diventa un’enorme pira in cui migliaia di preziosissimi libri, raccolti con fatica lungo i
secoli, vanno in fumo. Il vento completa l’opera di distruzione dell’abbazia, portando il fuoco sulla chiesa e
sulle altre costruzioni. Molti perdono la vita, altri fuggono.
Adso e Guglielmo riescono a salvarsi e ad allontanarsi con due cavalcature trovate nel bosco.
Alcune considerazioni
L’impressione che si ha chiudendo il libro al termine della lettura è strana, di confusione. Si coglie
subito che il romanzo ha molti piani di lettura ma occorre fermarsi a riflettere per cogliere quali siano. C’è il
giallo (strano giallo, però, perché alla soluzione finale dell’enigma si arriva quasi per caso, nonostante i mille
ragionamenti e le elucubrazioni di Guglielmo, inglese, come uno Sherlock Holmes d’altri tempi). Ci sono le
diatribe filosofico-teologiche sulla comicità, sulla povertà, sull’amore, sui sacramenti, sui libri,
sull’interpretazione dei segni e su tante altre cose. C’è il gusto meticoloso della descrizione (Eco ha dedicato
tantissimo tempo alla creazione dei personaggi, dei luoghi, degli ambienti). E alla fine c’è anche
l’impressione che in realtà sia tutto un’illusione, e che non ci sia altro che il lusus letterario, il divertimento,
dell’autore nello scrivere e del lettore (soprattutto se colto e capace di cogliere riferimenti e citazioni)
nell’andargli dietro. «Volevo che il lettore si divertisse. Almeno quanto mi stavo divertendo io. Questo è un
punto molto importante, che sembra contrastare con le idee più pensose che crediamo di avere circa il
romanzo» scrive Eco nelle Postille a Il nome della Rosa. E però, guarda caso il riso e la comicità, e il ridere di
ciò che è serio e solenne sono il tema centrale del romanzo: lo stile paludato e colto nasconde solo uno
scherzo?
Questa ironia è sottile ed è uno dei tratti geniali del libro.
Ma alla fine la verità è che neppure lo stesso autore ha voluto spiegare quale sia il senso ultimo del
romanzo. Nelle già citate Postille, pubblicate nel 1983 che contengono alcuni appunti e chiarimenti
sull’opera, esordisce proprio con questa idea: «Un narratore non deve fornire interpretazioni della propria
opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni. Ma uno
dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito è proprio il fatto che un romanzo deve
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avere un titolo. (…) L'idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una
figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto
quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce,
grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima. Il lettore ne risultava giustamente depistato, non
poteva scegliere una interpretazione; e anche se avesse colto le possibili letture nominaliste del verso finale
ci arrivava appunto alla fine, quando già aveva fatto chissà quali altre scelte. Un titolo deve confondere le
idee, non irreggimentarle.
Nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava, e
che i lettori gli suggeriscono».
Un’idea che viene enunciata anche all’interno del romanzo. Ad un certo punto l’abate, in preda a un
trasporto mistico mostra ad Adso il suo prezioso anello tempestato di pietre preziose e comincia una dotta
e articolata disquisizione sui significati di ogni gemma che si conclude così: «Il linguaggio delle gemme è
multiforme, ciascuna esprime più verità, a seconda del senso di lettura che si sceglie, a seconda del contesto
in cui appaiono. E chi decide quale sia il livello di interpretazione e quale il giusto contesto? Tu lo sai
ragazzo, te l'hanno insegnato: è l'autorità, il commentatore tra tutti più sicuro e più investito di prestigio, e
dunque di santità. Altrimenti come interpretare i segni multiformi che il mondo pone sotto i nostri occhi di
peccatori, come non incappare negli equivoci in cui ci attrae il demonio?»
Questo dei segni e della loro interpretazione è uno dei temi chiave del libro. La ricerca della verità è
possibile? Guglielmo cerca continuamente di cogliere segni, indizi, e inquadrarli in un unico disegno. E cerca
di insegnare al suo giovane discepolo a fare lo stesso. Eppure in più di una occasione sottolinea
l’impossibilità di trovare il giusto ordine, perché forse un ordine oggettivo non esiste. Gli stessi segni
possono significare una cosa e il suo esatto contrario. Sono paradossi.
In tal senso è davvero significativo il dialogo finale tra i due personaggi e che riporto di seguito
integralmente:
Guardammo la chiesa che ormai ardeva lentamente, perché è proprio di queste grandi costruzioni
avvampare subito nelle parti lignee e poi agonizzare per ore, talora per giorni. Diversamente fiammeggiava
ancora l'Edificio. Qui il materiale combustibile era molto più ricco, il fuoco ormai propagatosi del tutto per lo
scriptorium aveva ora invaso il piano della cucina. Quanto al terzo piano, dove un tempo e per centinaia di
anni v'era stato il labirinto, era ormai praticamente distrutto.
“Era la più grande biblioteca della cristianità,” disse Guglielmo.”Ora,” aggiunse,”l'Anticristo è
veramente vicino perché nessuna sapienza gli farà più da barriera. D'altra parte ne abbiamo visto il volto
questa notte.”
“Il volto di chi?” domandai stordito.
“Jorge, dico. In quel viso devastato dall'odio per la filosofia, ho visto per la prima volta il ritratto
dell'Anticristo, che non viene dalla tribù di Giuda come vogliono i suoi annunciatori, né da un paese lontano.
L'Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall'eccessivo amor di Dio o della verità, come l'eretico nasce dal
santo e l'indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito
fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. Jorge ha compiuto un'opera
diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna.
Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni
verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far
ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per
la verità.”
“Ma maestro,” azzardai dolente,”voi ora parlate così perché siete ferito nel profondo dell'animo. Però
c'è una verità, quella che avete scoperto stasera, quella cui siete arrivato interpretando le tracce che avete
letto nei giorni scorsi. Jorge ha vinto, ma voi avete vinto Jorge perché avete messo a nudo la sua trama...”
“Non v'era una trama,” disse Guglielmo,”e io l'ho scoperta per sbaglio.”
L'asserto era autocontraddittorio, e non capii se veramente Guglielmo voleva che lo fosse.”Ma era
vero che le orme sulla neve rinviavano a Brunello,” dissi, “era vero che Adelmo si era suicidato, era vero che
Venanzio non era annegato nell'orcio, era vero che il labirinto era organizzato così come lo avete
immaginato, era vero che si entrava nel finis Africae toccando la parola quatuor, era vero che il libro
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misterioso era di Aristotele... Potrei continuare a elencare tutte le cose vere che voi avete scoperto
giovandovi della vostra scienza...”
“Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l'uomo dispone per
orientarsi nel mondo. Ciò che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a Jorge
attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. Sono arrivato a
Jorge cercando un autore di tutti i crimini e abbiamo scoperto che ogni crimine aveva in fondo un autore
diverso, oppure nessuno. Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante,
e non v'era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era
iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per
conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno. Dove sta tutta la mia saggezza? Mi
sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è
un ordine nell'universo.”
“Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa...”
“Hai detto una cosa molto bella, Adso, ti ringrazio. L'ordine che la nostra mente immagina è come
una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si
scopre che, se pure serviva, era priva di senso”.
Insomma, in ultima analisi per Eco sembra che la verità non esista. Quello che esiste veramente e
unicamente sono i segni. E’ una professione di Nominalismo, uno dei messaggi che l’autore vuole
trasmettere al suo lettore. Noi possiamo conoscere solo i nomi delle cose ma la verità è inconoscibile
(questo è uno dei principi della filosofia di Guglielmo da Occam, che viene citato a più riprese nel romanzo
come grande amico di Guglielmo di Baskerville). Ed è questo il senso del distico che chiude il libro: Stat rosa
pristina nomine, nomina nuda tenemus (che potremmo tradurre: dell’antica rosa non resta che il nome,
abbiamo solo nomi).
E se la verità non esiste, non esiste neanche Dio, anzi non esiste nulla, come con malinconia
riconosce Adso al termine del racconto della sua avventura giovanile, ormai in fin di vita: non c’è la vita
eterna, dopo la morte, ma solo un terribile, vuoto, nulla esistenziale: «Tra poco mi ricongiungerò col mio
principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia,
come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch
Hier... Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il
cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione
ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell'abisso il
mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l'uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate
tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità,
nell'intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c'è
opera né immagine».
N.B. Per una trattazione approfondita del nominalismo di Eco si suggerisce la lettura dell’articolo di
G. Sommavilla, L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco, pubblicato su La Civiltà Cattolica, 1981
La fede e la Chiesa
Un Dio distante. E’ il Dio de Il nome della Rosa.
Un romanzo che parla di Chiesa, monaci, frati, e dispute teologiche, che dovrebbe in qualche modo
parlare di Dio, lascia invece nel lettore un retrogusto amaro. La Chiesa è luogo di mercificazione dei beni
spirituali e scontri politici, le vocazioni religiose mascherano interessi umani e ideologie populiste, la
preghiera serve a scandire le parti della giornata. Dio sì c’è, ma non abita tra gli uomini. E’ un Essere
lontano, un signore come gli altri signori, che poco ha della figura paterna alla quale con semplicità il santo
di Assisi si rivolgeva nelle sue preghiere. E’ uno che detta legge e osserva come gli uomini si adeguano ai
suoi mandati, pronto a punirli non appena sbagliano strada. Così risulta dalle parole dei frati. Molto spazio è
dato al peccato e all’Anticristo, poco alla misericordia e alla salvezza. Domina la paura ed è assente la
speranza. Trionfano la severità e il rigore come unico modo per custodire la fede, mentre la gioia è sintomo
di male.
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Un accenno va fatto alle pagine che parlano dell’avventura amorosa di Adso. La scena è piuttosto
surreale: un giovane frate incontra una ragazza nelle cucine di un’abbazia, di notte, e si unisce a lei, senza la
minima resistenza, senza alcuno scrupolo. Poi subito di pente e si confessa con Guglielmo. Egli dà una
lettura della vicenda piuttosto superficiale: la donna è sempre fonte di tentazione per l’uomo quindi non è
strano che si cada nel peccato, ma non ci pensiamo più, dal momento che abbiamo ben altro da fare. In tal
modo la confessione, lungi dall’essere il campo dove si tocca con mano la misericordia di Dio, diventa una
superficiale incoraggiamento ad andare avanti, sminuendo la gravità del peccato. Anzi tra le righe sembra
passare l’idea che tutto sommato alcune esperienze vanno pure fatte nella vita (soprattutto si vedano le
pagine in cui Adso riflette su ciò che gli è successo e sembra quasi sovrapporre il suo peccato a una
esperienza mistica, nel capitolo intitolato Ora terza del Quarto giorno).
Un ultimo appunto.
Quello che colpisce, in un romanzo articolato e ricco in cui c’è un po’ di tutto è anche… ciò che non
c’è! Quello che manca è un esempio di monaco che sia come ogni monaco dovrebbe essere. E sì che
l’abbazia è molto popolata, strano che non vi sia un personaggio che spicchi per la vita di preghiera, dalla
forte spiritualità, per quell’aura mistica che ci si aspetterebbe da una persona che ha votato la sua intera
vita alla contemplazione, al sacrificio, al servizio e al lavoro. Ci saranno pure stati nel Medio Evo monaci
corrotti, attaccati alle ricchezze, vanitosi, sensuali, ladri, amanti delle crapule, violenti, arrivisti. Ma ce ne
saranno stati almeno altrettanti pii e devoti, austeri, laboriosi, delicatamente casti, distaccati dai beni
terreni, dediti al prossimo, umili, leali, fedeli alla propria vocazione religiosa, profondamente uniti a Dio. Il
Medio Evo non è l’età dell’inquisizione e delle crociate. E’ il periodo del fiorire degli ordini religiosi, della
Scolastica con la sua sistematizzazione del pensiero cristiano, della nascita delle università, degli albori delle
letterature europee, della costruzione delle grandi cattedrali, dell’arte che porta al Cielo, età di santi e
poeti. A tutto ciò la fosca ambientazione de Il nome della rosa, non rende la giustizia dovuta.
Lo stile
A proposito della strana commistione di azione da thriller e lunghe digressioni filosofiche, non si
capisce se queste siano poste per allungare il brodo e rendere più intrigante la trama ‘poliziesca’ o se
l’inchiesta sugli omicidi serva a tener desta l’attenzione del lettore tra una disquisizione erudita e l’altra.
Quel che è certo è che questo ritmo ‘scompensato’ è una cosa voluta dall’autore, secondo il quale ogni
romanzo deve avere un suo ‘respiro’. Ecco quanto afferma nelle Postille, rispondendo alla critica che gli
hanno fatto sulla lentezza eccessiva delle prime cento pagine: «i lunghi brani didascalici andavano messi
anche per un'altra, ragione. Dopo aver letto il manoscritto, gli amici della casa editrice mi suggerirono di
accorciare le prime cento pagine, che trovavano molto impegnative e faticose. Non ebbi dubbi, rifiutai,
perché, sostenevo, se qualcuno voleva entrare nell'abbazia e viverci sette giorni, doveva accettarne il ritmo.
Se non ci riusciva, non sarebbe mai riuscito a leggere tutto il libro. Quindi, funzione penitenziale, iniziatoria,
delle prime cento pagine, e a chi non piace peggio per lui, rimane alle falde della collina. Entrare in un
romanzo è come fare un'escursione in montagna: occorre imparare un respiro, prendere un passo,
altrimenti ci si ferma subito».
Confermo. Le prime cento pagine sono lente, poi il ritmo si fa più incalzante e intrigante.
Lo stile però è sempre sontuoso, il lessico ricco, c’è il gusto della parola ricercata, del lungo periodare
e dell’attenzione al dettaglio. Eco gode nell’ostentare la propria cultura (e anche lo studio previo alla
scrittura del romanzo, immagino) che spazia nei settori più diversi. Si esalta nella descrizione minuziosa per
esempio del portale della chiesa dell’abbazia, che lascia esterrefatto Adso, o dei particolari nelle miniature
di Venanzio, e ancora delle erbe contenute nel laboratorio di Severino e degli usi di ciascuna. C’è una vera e
propria passione per gli elenchi (i libri della biblioteca, le portate del pasto offerto alle delegazioni di
religiosi giunti all’abbazia, le creature fantastiche rappresentate nell’atrio dell’Edificio a incutere timore,
ecc.) che rallentano la narrazione ma popolano le pagine rendendole enciclopediche. La cosa viene anche
esplicitata: «L'elenco potrebbe certo continuare e nulla vi è di più meraviglioso dell'elenco, strumento di
mirabili ipotiposi».
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Chi vuole entrare nel romanzo e coglierne il respiro deve accettare anche le frequenti inserzioni di
frasi in latino, le rare in tedesco e qualcuna in altre lingue.
Insomma Eco si propone di sbattere in faccia al suo lettore un libro che non possa lasciarlo
indifferente e lo fa tirando fuori tutta la sua migliore mercanzia, come teorizza ancora nelle Postille:
«Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco. Io volevo
diventare completamente medievale e vivere nel Medio Evo come se fosse il mio tempo (e viceversa). Ma al
tempo stesso volevo, con tutte le mie forze, che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata
l'iniziazione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non voler altro che ciò che il testo
gli offriva. Un testo vuole essere una esperienza di trasformazione per il proprio lettore. Tu credi di voler
sesso, e trame criminali in cui alla fine si scopre il colpevole, e molta azione, ma al tempo stesso ti
vergogneresti di accettare una venerabile paccottiglia fatta di mani della morta e fabbri del convento.
Ebbene io ti darò latino, e poche donne, e teologia a bizzeffe e sangue a litri come nel Grand Guignol, in
modo che tu dica "ma è falso, non ci sto!" E a questo punto dovrai essere mio, e provare il brivido della
infinita onnipotenza di Dio, che vanifica l'ordine del mondo. E poi, se sarai bravo, accorgerti del modo in cui
ti ho tratto nella trappola, perché infine te lo dicevo ad ogni passo, ti avvertivo bene che ti stavo traendo a
dannazione, ma il bello dei patti col diavolo è che li si firma ben sapendo con chi si tratta. Altrimenti, perché
essere premiato con l'inferno?
E siccome volevo che fosse preso come piacevole l'unica cosa che ci fa fremere, e cioè il brivido
metafisico, non mi restava che scegliere (tra i modelli di trama) quella più metafisica e filosofica, il romanzo
poliziesco».
Ma l’impressione che ho è che il prodotto che ne è venuto fuori non sia di facile fruizione e
probabilmente molti dei suoi lettori non riescono a cogliere i messaggi e la polisemia che veicola,
perdendosi nel labirinto in cui l’autore lo ha voluto ingabbiare: «Un ragazzo di diciassette anni mi ha detto
che non ha capito nulla delle discussioni teologiche, ma che esse agivano come prolungamenti del labirinto
spaziale (come se fossero musica thrilling in un film di Hitchcock). Credo che sia accaduto qualcosa del
genere: anche il lettore ingenuo ha fiutato che si trovava di fronte a una storia di labirinti, e non di labirinti
spaziali. Potremmo dire che, curiosamente, le letture più ingenue erano le più "strutturali". Il lettore ingenuo
è entrato a contatto diretto, senza mediazione dei contenuti, con il fatto che è impossibile che ci sia una
storia» (Postille).
Notizie e curiosità
1. Il romanzo è costellato di citazioni scritturistiche e letterarie che solo il lettore colto coglierà.
Alcuni esempi: l’incipit del libro è quello del Vangelo di san Giovanni (Gv., 1, 1). Il capitolo in cui si racconta
dell’incontro amoroso di Adso nella cucina si conclude con queste parole: “Lanciai un urlo e caddi come
cade un corpo morto” (cfr. Divina Commedia, Inf., V, 142 “e caddi come corpo morto cade”: il verso chiude
il canto di Paolo e Francesca, una relazione amorosa adulterina, evidente parallelismo). E ancora si parla di
Malachia che era un “vaso di coccio tra vasi di ferro” (cfr. nei Promessi Sposi quello che si dice di don
Abbondio, che era “come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiar in compagnia di molti vasi di ferro”
cap. 1). Le pagine che descrivono le pene d’amore di Adso, poi, sono piene di citazioni del Cantico dei
Cantici, il libro della Bibbia che parla di due amanti che si cercano e che la tradizione ha sempre letto come
una allegoria dell’anima che cerca Dio.
2. Nell’Ora terza del Sesto giorno viene descritta una visione/sogno di Adso che è una sorta di Coena
Trimalchionis a sfondo scritturistico, una specie di delirante carnevale biblico, che può turbare il lettore più
sensibile per la sua irriverenza. Sembra sia ispirato a un’operetta medievale intitolata Coena Cypriani.
3. La critica si è sbizzarrita nell’interpretazione del romanzo, fino a vedere in esso un’allegoria della
situazione politica italiana di fine anni settanta, in cui i Giovanni XXII e la delegazione avignonese
rappresenterebbero i conservatori mentre i francescani i riformisti; e fra Dolcino e il suo movimento, più
volte citato, i gruppi extraparlamentari, per lo più armati.
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4. Il romanzo ha ispirato la canzone The sign of the cross degli Iron Maiden, contenuta nell’album The
X factor (1995), e anche un storia di Topolino intitolata Il nome della mimosa (pubblicata per la prima volta
nel n. 1693 del maggio 1988).
5. Il libro contiene alcuni piccoli errori. Per esempio a un certo punto uno dei personaggi cita il
violino, strumento che a quel tempo ancora non esisteva. In due passi si parla dei peperoni, che in Europa
nel trecento non erano conosciuti, essendo stati importati dall’America un secolo e mezzo dopo.
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Schede di approfondimento
Per suggerire al lettore de Il nome della rosa alcuni spunti di riflessione sul alcune delle tematiche
suscitate dal libro si allegano alcune schede di approfondimento che, senza essere esaustive, suggeriscono
una semplice traccia per un dibattito in classe o tra amici.
Scheda n° 1 – Libri ‘avvelenati’ e letture ponderate: l’Index librorum prohibitorum
Scheda n° 2 – Pastori non esemplari
Scheda n° 3 – Povertà e ricchezza nella Chiesa
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Per una lettura critica de Il nome della rosa
Approfondimenti: scheda n° 1
Libri ‘avvelenati’ e letture ponderate: l’Index librorum prohibitorum
Al centro del romanzo sta l’enorme biblioteca dell’abbazia sita all’ultimo piano dell’Edificio.
Strutturata come un labirinto custodisce migliaia di manoscritti raccolti nel corso di secoli, che abili copisti e
miniaturisti, si impegnano per studiare, tradurre, replicare.
«La biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei
monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto dal bibliotecario che lo
precedette, e lo comunica, ancora in vita, all'aiuto bibliotecario, in modo che la morte non lo sorprenda
privando la comunità di quel sapere. E le labbra di entrambi sono suggellate dal segreto. Solo il
bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove
riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione. Gli altri monaci lavorano nello scriptorium e
possono conoscere l'elenco dei volumi che la biblioteca rinserra. Ma un elenco di titoli spesso dice assai
poco, solo il bibliotecario sa, dalla collocazione del volume, dal grado della sua inaccessibilità, quale tipo di
segreti, di verità o di menzogne il volume custodisca. Solo egli decide come, quando, e se fornirlo al monaco
che ne fa richiesta, talora dopo essersi consultato con me. Perché non tutte le verità sono per tutte le
orecchie, non tutte le menzogne possono essere riconosciute come tali da un animo pio».
Così afferma l’abate, spiegando a Guglielmo come comportarsi nell’abbazia.
La trama del romanzo, inoltre, si snoda tutta intorno al tentativo di occultare un’opera (il II libro della
Poetica di Aristotele) ritenuta pericolosa perché, nella mente malata dell’occultatore, avrebbe potuto
originare interpretazioni negative. Ma anche, e soprattutto forse, per l’orgoglio di essere l’unico ad avere
letto (prima di perdere la vista, e questo è indicativo…) un manoscritto così prezioso.
Ed ecco un altro passaggio interessante:
“Bencio,” mi disse poi Guglielmo,”è vittima di una grande lussuria, che non è quella di Berengario né
quella del cellario. Come molti studiosi, ha la lussuria del sapere. Del sapere per se stesso. Escluso da una
parte di questo sapere, voleva impadronirsene. Ora se ne è impadronito. (…). Tu mi chiederai a che pro
controllare tanta riserva di sapere se si accetta di non metterlo a disposizione di tutti gli altri. Ma proprio
per questo ho parlato di lussuria. (…). Quella di Bencio è solo curiosità insaziabile, orgoglio dell'intelletto, un
modo come un altro, per un monaco, di trasformare e pacificare le voglie dei propri lombi, o l'ardore che fa
di un altro un guerriero della fede, o dell'eresia. Non c'è solo la lussuria della carne. E' lussuria quella di
Bernardo Gui, stravolta lussuria di giustizia che si identifica con una lussuria di potere. (…). Era lussuria di
testimonianza e trasformazione e penitenza e morte quella del cellario da giovane. Ed è lussuria di libri
quella di Bencio. Come tutte le lussurie, come quella di Onan che spargeva il proprio seme per terra, è
lussuria sterile, e non ha nulla a che vedere con l'amore, neppure quello carnale...”
“Lo so,” mormorai mio malgrado. Guglielmo fece finta di non avere udito. Ma, come continuando il
suo discorso, disse: “L'amore vero vuole il bene dell'amato.”
“Non sarà che Bencio vuole il bene dei suoi libri (ché ormai sono anche suoi) e pensa che il loro bene
sia restare lontano da mani rapaci?” domandai.
“Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro
volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e
quindi è muto. Questa biblioteca è nata forse per salvare i libri che contiene, ma ora vive per seppellirli. Per
questo è divenuta fomite di empietà. Il cellario ha detto di aver tradito. Così ha fatto Bencio. Ha tradito. Oh
che brutta giornata, mio buon Adso! Piena di sangue e rovina. Per quest'oggi ne ho abbastanza. Andiamo
anche noi a compieta, e poi a dormire.”
Mettendo insieme queste e altre pagine e riflessioni che in questa sede non è possibile riportare per
motivi di spazio, nasce la domanda su come comportarsi nei confronti dei libri.
E’ giusto censurare? E d’altronde: è vero che leggere tutto e di tutto è necessario per acquisire una
vera e profonda scienza? Chi dovrebbe dare indicazioni in questo ambito?
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Alcuni spunti di riflessione per farsi un’idea personale:
1) Mediamente, tranne il caso della stampa-spazzatura, di cui purtroppo sono piene oggi le librerie, i
libri veicolano le idee, sono i binari sui quali corre il pensiero. Da sempre la cultura si è fatta con il libro, in
pergamena, in papiro, sulla carta, oggi in formato elettronico. Ed è una conquista delle società più
democratiche la libertà di pensiero e di stampa: ognuno può manifestare le sue idee, editarle, diffonderle. E
le idee nutrono la mente, modellano i valori della persona, generano modi di comportarsi, muovono la
volontà ad agire in un senso o nell’altro, a investire energie nei progetti, a mettersi in moto. Le idee creano
consenso intorno a determinati obiettivi, vengono metabolizzate dalle società, si incarnano nell’esistenza
delle persone. Come il cibo, che si trasforma in cellule, in muscoli, in vitamine e proteine, in vita. E così
come non tutti i cibi sono buoni per tutte le persone ed esistono migliaia di diete legate alle età (neonati,
bimbi, anziani), alle condizioni di salute (particolari intolleranze come la celiachia, per esempio) , alle
necessità estetiche (un fisico da spiaggia, una vita da modella), alle attività praticate (sport, lavori
particolari), ecc. allo stesso modo il nutrimento della mente va assimilato con ponderazione. Un caso
estremo e un po’ pittoresco è quello di don Chisciotte che «tanto s’immerse nelle sue letture che passava le
nottate a leggere da un crepuscolo all’altro, e le giornate dalla prima all’ultima luce; e così, dal poco
dormire e il molto leggere gli si inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio» (Cervantes, Don
Chisciotte, cap. 1).
E allora seppur non è giusto, forse, vietare formalmente e fisicamente l’accesso alla scienza e alle
idee, è però quanto mai necessario orientarsi e farsi orientare in ciò che si legge, perché serva per la
crescita intellettuale, scientifica, culturale. I grandi uomini di cultura hanno sempre avuto dei maestri, e i
maestri sono quelli che indicano una strada da seguire. E’ buona prassi ricorrere a qualcuno con esperienza
nella scelta dei percorsi di studio.
2) Nell’antichità e nel medioevo (e fino all’avvento della stampa) il rapporto col libro non è come
quello che abbiamo noi oggi, quando i libri sono dovunque, si comprano anche all’autogrill. Possedere un
libro, poterlo leggere, era un privilegio per pochi, per quelli che avevano studiato, soprattutto nelle
università, nate da poco, o nelle scuole, sviluppatesi comunque in ambito religioso. Non è strano pertanto
che accanto alla promozione della cultura (era nei monasteri, infatti, che si copiavano i libri) ci fosse da
parte dei pastori (monaci, vescovi) un’attenzione alla diffusione di idee e scritti che potessero risultare
dannose per la fede del popolo di Dio, spesso ignorante e privo di senso critico. I primi secoli della storia
della Chiesa, con la diffusione delle eresie, avevano già portato molte ferite.
3) L’Index librorum prohibitorum. Furono considerazioni analoghe a quelle sopra riportate che
spinsero l’autorità della Chiesa (Papi, Vescovi) a mettere in guardia i fedeli cristiani dalle eresie e dalle
letture ‘pericolose’ (oggettivamente pericolose, in quanto contenenti errori dottrinali, oppure pericolose
per alcune persone non dotate del senso critico e della formazione adeguata a recepire certi messaggi o ad
accogliere certe idee). Nel 1558, in pieni tempi di Contro-riforma, fu emanato dal Sant’Uffizio (l’organo
della Chiesa Cattolica preposto alla custodia della fede, oggi chiamato Congregazione per la Dottrina della
Fede) il primo Elenco di libri proibiti (Indice Paolino), che conteneva opere di autori non cattolici e anche
alcune traduzioni errate della Bibbia. Previa consultazione del Sant’Uffizio era anche prevista la possibilità
di leggere le opere contenute nell’Indice per motivi di studio o ricerca, o per confutarne le tesi.
Nel corso dei secoli tale elenco, l’Index, è stato aggiornato e modificato diverse volte (almeno 20,
l’ultima nel 1948). Nel 1966, dopo il Concilio Vaticano II, l’Indice è stato abolito (sarebbe impossibile, tra
l’altro, andar dietro alla rapidità e complessità del mondo editoriale di oggi).
Quello che non può essere abolito è invece il buon senso che dovrebbe spingere ogni studioso e
uomo di cultura nella scelta delle opere da leggere, degli autori da studiare, se non altro per evitare perdite
di tempo con libri e materiale di dubbia scientificità, approcci ideologici e non oggettivi, opere superficiali e
testi che nulla di nuovo apportano alla riflessione sui temi di ricerca.
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Per una lettura critica de Il nome della rosa
Approfondimenti: scheda n° 2
Pastori non esemplari
Abbone, l’abate, è una figura mediocre. Orgoglioso, attaccato al suo incarico e alle ricchezze. Del
papa Giovanni XXII si dicono peste e corna. Le altre figure (Michele da Cesena, Bernardo Gui, ecc.) sono
corrotte, cercano l’affermazione personale, sono calcolatori e opportunisti, violenti e doppi.
E all’interno del convento quasi tutti i monaci hanno un passato (o un presente!) poco limpido. Nel
romanzo si tratta chiaramente di fiction, ma la storia insegna che non sono mancati personaggi di dubbia
moralità nella Chiesa e anche tra figure da cui ci si sarebbe aspettati esemplarità e santità.
Il tema purtroppo è di grande attualità anche oggi, come la cronaca mostra.
Come interpretare tutto questo? Come reagire?
La reazione che verrebbe naturale, e che è anche la più diffusa, è un allontanamento dall’istituzione,
dalla Chiesa, una perdita di fiducia, la delusione. Ecco alcune riflessioni che possono aiutare a riflettere sul
tema.
1) La Chiesa non è semplicemente una organizzazione politica ma ha un fondamento spirituale che le
deriva dal suo Fondatore (la duplicità di azione terrena ed efficacia spirituale è ben chiara in uno dei
momenti della sua ‘fondazione’: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei Cieli, e tutto ciò che
scioglierai sulla terra sarà sciolto nei Cieli, cfr. Mt. 16, 18-19 e anche Gv. 20, 23). E tuttavia questo
‘patrimonio spirituale’ è stato affidato a uomini che, pur essendo scelti e formati, sono soggetti a difetti e
debolezze come tutti gli uomini. Basti pensare che già tra gli apostoli, scelti direttamente da Gesù per stare
al suo fianco, compiere miracoli come lui e predicare il Vangelo dopo la sua Ascensione, 1/12 era corrotto a
tal punto da tradirlo. E anche gli altri non brillavano per santità, se anche il primo Papa nei momenti decisivi
ha avuto le sue debolezze e le sue viltà. L’essere oggetto di una chiamata divina (al sacerdozio,
all’episcopato, alla vita religiosa, ecc.) non genera automaticamente una vita santa: la santità va
conquistata ed è frutto di lotta, per tutti. Gli uomini che compongono la gerarchia della Chiesa sentono su
di sé gli stessi difetti che tutti hanno, e in più sentono anche il peso della responsabilità del compito a loro
affidato. Pertanto andrebbero aiutati a portarlo, piuttosto che essere giudicati o lasciati soli.
2) Proprio perché dai pastori della Chiesa ci si aspetta esemplarità e virtù, fa molto più notizia un
pastore corrotto di cento che vivono generosamente dedicati al servizio delle persone e al loro ministero.
Così come, analogamente, fa molto più notizia una pornostar che diventa suora di tante centinaia che
continuano a svolgere la propria professione tanto degradante della persona umana. Quando si sente dire
o si viene a conoscenza di qualcuno che non si comporta coerentemente con il ruolo che occupa, pertanto,
fa bene pensare ai tanti che invece lo vivono con eroismo e senza sbandierarlo.
3) L’azione di Dio del mondo (questo in fondo è la Chiesa, nell’amministrazione dei sacramenti, nella
predicazione, nell’opera di assistenza ai poveri, nell’evangelizzazione) segue logiche divine che in quanto
tali non sono comprensibili fino in fondo all’intelligenza umana. Ne è un esempio la parabola evangelica del
grano e della zizzania (cfr. Mt. 13, 24-30). Dopo la semina del buon grano nel campo (il mondo, o la Chiesa),
un nemico (il diavolo) approfitta del sonno dei contadini (gli uomini buoni) per mettere erba cattiva, la
zizzania. Non appena se ne accorgono i contadini chiedono al Padrone (Dio) di togliere l’erbaccia, ma lui li
ferma, non sia mai che anche il grano venga via durante l’operazione. Per il grano è molto meglio crescere
insieme alla zizzania, e solo alla fine (dei tempi) essere separato dall’erbaccia. C’è un misterioso motivo,
sembra insegnare la parabola, per cui anche il male (la violenza, il sopruso, l’odio) rientra in un disegno di
bene (a tal proposito si suggerisce la lettura del primo capitolo di Memoria e identità, di Giovanni Paolo II,
una bella riflessione sul tema del male).
Può risultare illuminante anche quanto dice Benedetto XVI in Gesù di Nazaret (vol. II, pag. 194). Sta
parlando della condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio e in particolare del ruolo decisivo che ha
avuto in tale decisione l’affermazione del Sommo Sacerdote (massima autorità religiosa): «Il fatto che
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Giovanni riconosca esplicitamente come punto decisivo nella storia della salvezza il carisma legato alla
carica dell’indegno detentore di tale carica corrisponde alla parola di Gesù tramandata da Matteo: “Sulla
cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non
agite secondo le loro opere! (23, 2-3)”. Tanto Matteo quanto Giovanni hanno voluto richiamare alla
memoria della Chiesa anche del loro tempo questa distinzione, perché pure in essa esisteva la
contraddizione tra autorità legata alla carica e condotta di vita, tra ciò ‘che dicono’ e ciò ‘che fanno’».
4) Riporto alcune parole di Benedetto XVI contenute nel libro-intervista Luce nel mondo (pag. 61-63).
Il Papa risponde ad alcune domande del giornalista Peter Seewald sugli abusi sessuali commessi da parte di
alcuni sacerdoti:
E’ una domanda che veramente tocca il mysterium iniquitatis, il mistero del male. E ci si chiede anche:
cosa pensa uno così quando al mattino va all’altare e celebra il Santo Sacrificio? Si confessa? E cosa dice
quando si confessa? Quali effetti ha la confessione su di lui? In realtà dovrebbe essere un messo potente per
strapparlo dal male e per costringerlo a cambiare. E’ un mistero quello per cui qualcuno che si è votato a ciò
che è sacro lo perda totalmente e poi smarrisca anche le sue stesse origini. Al momento dell’ordinazione
sacerdotale deve pure avere avuto una nostalgia per ciò che è grande, per ciò che è puro, altrimenti non
avrebbe compiuto quella scelta. Come è possibile che uno così precipiti in questo modo?
Non lo sappiamo. Ma tanto più significa che i sacerdoti devono sostenersi a vicenda, e non devono
perdersi di vista; che i vescovi sono responsabili di questo e che noi dobbiamo raccomandare ai fedeli che
anche loro sostengano i propri sacerdoti. Vedo che nelle parrocchie l’amore per il sacerdote cresce quando si
riconoscono le sue debolezze e ci si propone di aiutarlo.
(…)
Il male farà sempre parte del mistero della Chiesa. E se si considera tutto quello che gli uomini, che i
chierici, hanno fatto nella Chiesa, allora questo si rivela proprio come una prova che è Lui che sostiene e che
ha fondato la Chiesa. Se dipendesse solo dagli uomini, la Chiesa sarebbe già affondata da un pezzo.
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Per una lettura critica de Il nome della rosa
Approfondimenti: scheda n° 3
Povertà e ricchezza della Chiesa
Una delle questioni che vengono affrontate nel romanzo è quella della povertà di Cristo e della
Chiesa. E’ questo anche il tema trattato nell’incontro tra la delegazione avignonese guidata da Bernardo Gui
e i minoriti di Michele da Cesena (cfr. il capitolo Ora Prima del Quinto Giorno).
La questione è in parte legata alle contingenze storiche: comprendere come vivere il distacco dai
beni materiali (che era uno degli insegnamenti centrali della spiritualità francescana) e cercare i suoi
fondamenti teologici. Le disputa in particolare cercava di comprendere se poteva essere affermato in
maniera dogmatica, e quindi sotto pena di eresia se non accettata, la verità che Cristo e i suoi discepoli non
avessero posseduto beni materiali.
Il Vangelo narra che Gesù non aveva «un posto dove appoggiare il capo» ma che possedeva una
tunica senza cuciture (che doveva essere abbastanza pregiata se i soldati sul Golgota se la giocarono ai dadi,
Gv. 19, 23-24); inoltre si dice che i discepoli avevano una cassa comune che era stata affidata a Giuda
(cattivo amministratore, però, perché rubava il denaro che vi mettevano dentro, cfr. Gv. 12, 4-6) e che Gesù
si fidava di loro (giunti al pozzo di Sicar, mentre Gesù parla con la Samaritana, i discepoli erano andati a
procurarsi da mangiare, probabilmente ad acquistare qualcosa, cfr. Gv. 4, 8). In un altro passo si narra che
alcune donne sostenevano la predicazione di Gesù «con i propri beni» (cfr. Lc. 8, 3). E così anche gli Atti
degli apostoli raccontano di una comunità cristiana in cui tra i compiti degli Apostoli c’è quello di
amministrare le elemosine e sostenere le necessità dei più bisognosi.
Il tema della povertà, allora come oggi, va coniugato con la necessità di utilizzare strumenti materiali
per le attività di predicazione e apostolato, per aiutare i poveri e i bisognosi, per compiere le opere di
misericordia corporale (assistere i malati, vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati e da bere agli
assetati) e per tutte le attività assistenziali che la Chiesa, e specialmente gli ordini religiosi, hanno sempre
portato avanti con generosità e sacrificio in tutto il mondo. Nel contesto storico a cui fa riferimento Il nome
della rosa, e limitatamente all’ordine francescano, era stata trovata una soluzione (poi abbandonata)
decretando che tutti i beni materiali dell’Ordine fossero di proprietà del Papa che ne affidava l’usufrutto ai
francescani (bolla Exiit qui seminat di papa Niccolò III, anno 1279).
Non è questa la sede per approfondire la questione storica, che portò a diversi scontri, anche
violenti, e a spaccature all’interno dell’Ordine francescano.
Una vera soluzione al problema non esiste. O, meglio, va cercata nel cuore dell’uomo. L’avidità è uno
dei vizi capitali che può colpire il ricco come il povero, l’uomo di Chiesa come il politico. Non c’è da stupirsi
se anche in persone che dovrebbero essere esemplari nel vivere il distacco dalle ricchezze si insinui il
desiderio di accumulare beni o di utilizzarli in modo egoistico. Sono diversi i passi del Vangelo in cui si
spiega come la ricchezza sia un ostacolo per chi vuole camminare verso la salvezza. Ad esempio dopo
l’episodio del giovane ricco: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di
Dio!» (Mc. 10, 23). O dopo le beatitudini: «Guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc., 6,
24). O ancora la parabola del ricco epulone (Lc. 16, 19-31). Ma tutto ciò non è dovuto al fatto che il denaro
sia un male in sé. Il male sta nel cuore: è da lì, infatti, che «escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti,
omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc. 7,
21-22)
Al contrario coloro che possiedono molte ricchezze e le mettono al servizio del prossimo sono graditi
Dio come il centurione a cui Gesù guarisce il figlio, che aveva costruito lui la sinagoga per il popolo (Lc. 7, 110). O Barnaba, uomo generoso che poi divenne apostolo (At. 4, 36).
C’è di più, però.
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Adso rimane ammirato davanti al monumentale portale della chiesa dell’Abbazia, in uno degli
incontri con l’abate (Ora Nona del Secondo giorno) e anche nel visitare il tesoro custodito nei sotterranei,
fatto di preziosissimi reliquiari.
Lo sfarzo di certe chiese o degli arredi liturgici suscita scandalo. ‘Che bisogno c’è -si dice- di tutta
questa ricchezza?’ Le cattedrali medievali, le basiliche rinascimentali, le grandi abbazie, calici, ostensori e
quant’altro: ‘non sarebbe più utile vendere tutto e dare il ricavato ai poveri?’ verrebbe da pensare. Ed è
esattamente il commento di Giuda davanti alla donna che versa olio profumato preziosissimo sul capo del
Signore (Gv. 12, 4-6, già citato), al quale Gesù risponde: «lasciatela stare, ha compiuto verso di me un’opera
buona; i poveri, infatti, li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete
sempre. Essa ha fatto ciò che era in suo potere» (passo parallelo di Mc. 14, 6-8).
E’ questo il senso delle grandi cattedrali e dell’arte sacra: il desiderio di rendere onore al proprio
Signore con la massima generosità possibile. Esprimono la fede di un popolo, di una civiltà. E poi: non si
spendono forse miliardi oggi per la costruzione di nuove cattedrali laiche (musei, stadi, hotel, centri
commerciali) che come obiettivo altro non hanno che quello di far soldi?
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