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PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXI N.76 MAGGIO 2012 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO PANE QUOTIDIANO «FRATELLO... NESSUNO QUI TI DOMANDERA’ CHI SEI, NE’ PERCHE’ HAI BISOGNO, NE’ QUALI SONO LE TUE OPINIONI» C H V IA UO M I A P IL AR pa N LA ne UM R qu E E C ot RO O @ 0 N tin 2 N .it 58 OI? 31 04 93 IL CONTO CAMBIA, CAMBIA LA BANCA! Da Banca di Legnano cper onto xme Il Conto che fa i miei interessi. Zero spese, più interessi e tutta la libertà che ho sempre cercato. Basta con i soliti conti correnti che mi obbligano a regole che mi stanno strette. Finalmente c’è un conto nuovo che lascia fare a me. Decido io quando, dove e anche come utilizzare la Banca. Posso andarci, telefonare o connettermi attraverso internet, per controllare ma anche per operare. Le operazioni costano Zero euro, mentre gli interessi vengono aggiornati automaticamente. In più mi regala Carta Jeans, la prepagata ricaricabile. ContoPerMe, il conto multioperativo www.bancadilegnano.it Prendere visione delle condizioni economiche mediante i fogli informativi disponibili presso ogni Filiale (D. Lgs 385/93). Il presente messaggio pubblicitario ha finalità esclusivamente promozionali. PERIODICO TRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898) Iscritto alla Unione Stampa Periodica Italiana ANNO XXI N.76 Maggio 2012 Reg. del Trib. di Milano n.592 del 01/10/90 Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Milano Pubblicazione Omaggio Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa Viale Toscana, 28 • 20136 Milano Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734 [email protected] indice Dioniso - Francesco Licchiello 4 Quando muoiono i Maestri - Guido Buffo 6 Amerigo Vespucci - Gigliola Soldi Rondinini 7 L’epopea di Gilgamesh - Atanor 10 Nettuno, pianeta dell’Utopia - Enrica Franciolini 12 Misteri e Segreti dei Templari - Angelo Casati 17 America Britannica - 1776 - Umberto Accomanno 19 Far tacere la vecchia mente per far parlare la nuova coscienza - Rodolfo Signifredi 22 Il trionfo di Venere ovvero il piacere della lusinga Mirta Serrazanetti 25 Dopo il pane e il formaggio, il salame! - Renzo Bracco 26 El guarnasc - Ercole Pollini 28 1938 - La nuova FIAT “2800” - Ercole Pollini 31 Cucina - Ercole Pollini 33 Zanzare 34 www.panequotidiano.org Direttore Responsabile Pier Maria Ferrario Segretario di Redazione Ercole Pollini Relazioni Esterne Cinzia Bianchi Redazione Gigliola Soldi Rondinini Hanno collaborato: Francesco Licchiello, Guido Buffo, Gigliola Soldi Rondinini, Atanor, Enrica Franciolini, Angelo Casati, Umberto Accomanno, Rodolfo Signifredi, Mirta Serrazanetti, Renzo Bracco, Ercole Pollini. Grafica e stampa: Tipografia Vigrafica srl Federico Ferrario Viale gb Stucchi, 62/7 • Monza tel. 039.20.28.028 • fax 039.20.28.044 www.vigrafica.com • [email protected] Copertina: Foto di Morgan Club Italia - Edoardo Biasini Gentile lettore/lettrice, La informiamo che i Suoi dati sono inseriti in un database gestito dall’editore. Siamo tenuti a informarLa che il trattamento dei dati che La riguardano viene svolto a mezzo di supporti informatici nel rispetto di quanto previsto dal decreto Legislativo 30-6-2003 N° 196 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 29-7-2003 N° 74) Codice in materia di protezione dei dati personali. In qualsiasi momento, Lei potrà richiedere la modifica o la cancellazione dei dati, scrivendo all’editore. Potrà ugualmente rivolgersi allo stesso indirizzo qualora Lei non desiderasse ricevere Che vi do. Gli autori si assumono la piena responsabilità degli articoli firmati. La rivista, salvo diversi accordi firmati tra le parti, diventa proprietaria delle foto, dei disegni e degli scritti pubblicati che non verranno restituiti; questi non possono essere pubblicati senza autorizzazione. La riproduzione, anche parziale, se autorizzata deve comunque citare la fonte. Eventuali collaborazioni danno diritto, salvo accordi particolari, solo a tre copie giustificative dei lavori pubblicati. Francesco Licchiello Dioniso Di probabile origine tracia o, meglio, asiatica, Dioniso, ebbe un culto assai antico, tributatogli nel periodo miceneo-cretese. Il suo culto comprendeva pratiche estatiche e orgiastiche: le sue seguaci, dette mènadi o baccanti, portavano il tirso (un bastone con una pigna in cima, coronato di edera e di pampini) e vagavano 4 nei boschi celebrando il dio nell’ebbrezza dionisiaca, al limite della ferinità e della violenza; del suo corteggio si riteneva facessero parte anche centauri, ninfe e satiri: uno di loro, Sileno, fu precettore del dio. L’unica sede fissa in cui godeva di un culto era Delfi, dove divideva il tempio con Apollo e veniva celebrato in grandi feste cit- tadine e con lo svolgimento di numerose competizioni teatrali, alle quali partecipavano grandi drammaturghi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane. Nei suoi misteri la funzione della musica era centrale. Il culto mistico di Dioniso ricopriva un’importante funzione sociale, in quanto sublimava e simboleggiava elementi della religione che la civiltà greca aveva rimosso o superato, quali il sacrificio cruento, l’adorazione della natura, i culti fallici e i riti di iniziazione. Era ritenuto figlio di Giove e di Semele, figlia di Cadmo e Armonia. Secondo il mito greco, Semele, consigliata dalla gelosa Era, pregò Giove di mostrarsi come dio e non come mortale. Giove, dietro l’insistenza della sua amante, accondiscese e Semele morì arsa dal fuoco divino. Giove fece in tempo a sottrarle il figlio dal grembo inserendolo in una sua coscia. Dioniso, reso così immortale, scese poi agli inferi per liberare la madre e portarla sull’Olimpo. Biagio Chiara nella sua opera La mitologia, accenna a una relazione di Dioniso con Mosè, ipotizzata da G. Giovanni Vossio (XVI-XVII sec.), Padre Tomasino e dal vescovo francese Pierre Daniel Huet (1630-1721): «Nacque Dioniso in Egitto dopo due maternità, quella di Semele e quella di Zeus: fu ritrovato esposto nell’isola di Nasso, e questa circostanza di essere stato preservato dall’acqua fece dare a Dioniso il nome di Misas, vale a dire ‘salvato dalle acque’. Mosè nativo di Egitto ebbe parimenti due madri, l’una che lo partorì e l’altra che lo adottò; il medesimo fu lasciato sopra le rive del Nilo e fu chiamato Mosè perché era stato salvato dalle acque… Dioniso passò il mar Rosso con una grande armata composta di uomini e di femine per andare alla conquista dell’India. Mosè traversò similmente questo mare e l’Arabia con una numerosa armata, composta del pari di uomini e di femine per andare alla Terra promessa. La favola attribuisce delle corna a Dioniso e gli mette in mano uno spaventevole tirso. Mosè aveva sulla fronte due raggi di luce e portava nelle mani la miracolosa verga. Dioniso fu allevato su una montagna della geografia mitica chiamata Nisa. Mosè passò quaranta giorno sopra il monte Sinai, di cui pare che Nisa sia l’anagramma». Ci sarebbe ancora qualcosa da aggiungere alla tesi di Dioniso come un ‘dios’ legato a una galassia religiosa con origini comuni nel Mediterraneo orientale. Infatti Dioniso era invocato gridando “Io Evoé”, praticamente il tetragramma del nome del Dio degli ebrei, YHVH. Nella civiltà ellenica il tempio era consacrato agli dei e il teatro e il vino erano consacrati a Dioniso. L’elemento femminile nel culto dionisiaco è preponderante o è egualitario con quello maschile. Isterismo e furor uterinus si spiritualizzano fino a comporre l’essenza della divinità. I cabalisti affermarono che in Dio vi è una parte femminile, la Shekinà. Quest’unione del maschio e della femmina per comporre l’unità psicosomatica dell’uomo viene riproposta dall’alchimia che nelle ieros gamos, le nozze sacre, l’unione mistica e operativa tra il re e la regina, realizza l’aurum o l’immortalità. Occorre anche ricordare che nei misteri eleusini il sacerdote e la sacerdotessa recitavano l’accoppiamento nella semioscurità e alla fine, con il ritorno della piena luce, mostravano un fascetto di spighe di grano in un rito celebrativo nato dagli antichi riti agrari. Il dionisismo ci riporta anche all’antichissimo mito dell’androgino, l’uomo-donna, forse legato al culto della Dea Madre, soffocato dai popoli invasori, tra cui gli Ariani, che imposero il patriarcato, la supremazia maschile. Il culto della Dea Madre sopravvisse a Cipro e a Creta fino all’età del bronzo e tracce sicure di tale culto si ritrovano nei misteri dionisiaci, che esaltavano il lato oscuro, irrazionale, folle, della realtà umana ed erano seguiti particolarmente dalle donne, escluse da ogni altro mistero. Dioniso spesso era raffigurato con vesti e tratti femminili. Da F. Licchiello, Razionale ed irrazionale in Eschilo, 1973, pp. 29-30. Nietzsche nel suo primo libro La nascita della tragedia (1872) aveva riconosciuto a fondamento dell’arte la dualità, il rapporto, tra spirito apollineo e spirito dionisiaco. Dall’elemento dionisiaco, pessimistico e tragico, oltre che orgiastico e sfrenato, sarebbe nata la tragedia, mentre dall’elemento apollineo, sereno, olimpico e luminoso, sarebbe derivata l’epica, il cui primo grande rappresentante sarebbe stato Omero. «Soltanto in virtù dello spirito dionisiaco - affermava Nietzsche -, il popolo greco riuscì a sopportare l’esistenza. Sotto l’influenza della verità contemplata, l’uomo greco vedeva dappertutto l’aspetto orribile e assurdo dell’esistenza. L’arte gli venne in soccorso, trasfigurando l’orribile e l’assurdo in immagini ideali, in virtù delle quali la vita fu resa accettabile». «Queste immagini sono il sublime, con il quale l’arte doma e assoggetta l’orribile e il comico che libera dal disgusto dell’assurdo. La trasformazione fu compiuta dallo spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo. Il pessimismo, trasfigurato dall’arte, distolse i Greci dalla fuga di fronte alla vita. Questo avveniva nella giovinezza del popolo greco; in seguito, con l’apparizione di Socrate e del Platonismo, lo spirito dionisiaco fu combattuto e represso e cominciò, con la rinuncia alla vita, la decadenza del popolo greco». Gli Antichi concordavano, pure senza essere pienamente consapevoli del problema, con la geniale intuizione di Nietzsche. Essi sentivano come l’arte, e segnatamente quella drammatica, esprimesse un sentimento di vita forte, pieno, pulsante, simile all’ebbrezza bacchica; perciò dissero che Eschilo, e anche altri, componeva in stato di ubriachezza. Eschilo, oltre che dalla pro- fonda emozione estatica dionisiaca, dovette sentirsi attratto dall’emozione estetica dell’epica e dell’intellettualità apollinea, poiché egli voleva proiettare entro una misura percepibile e sostenibile dagli uomini, una ‘misura umana’, l’assurda e tenebrosa realtà cosmica, stemperando nei modi sublimi, eroici e rasserenanti dell’epos il pathos immensurabile dell’oscuro fatalismo; perciò soleva chiamare le sue opere “briciole del banchetto d’Omero”. In conclusione, possiamo collegare Apollo al logos e Dioniso all’eros. In ambito antropologico possiamo riferirci a ricerche sulla transessualità, a opere come L’androgino - l’umana nostalgia dell’interezza di Elémire Zolla, al tantrismo indiano, al taoismo cinese e, infine, agli studi di C. Gustav Jung che, a specchio del simbolo yinyang, attribuisce una parte maschile alla donna, ‘l’animus’ e una parte femminile all’uomo ‘l’anima’. 5 Guido Buffo Quando muoiono i Maestri Strana la cultura la nostra: sempre in bilico tra l’intraprendenza più sfrontata e iconoclasta, e la ricerca spasmodica di modelli da seguire, imitare, incarnare. Strani tempi, quelli sempre più veloci nei quali viviamo e verso i quali muoviamo: ampli tanto da dare spazio a corsi di specializzazine in materie che fino a ieri nemmeno esistevano, e così angusti da dimostrarsi incapaci di mantenere un sistema efficace per assicurare il passaggio dell’esperienza. Dire informazione senza esperienza è un po’ come dire aspettativa di futuro senza storia; suona contraddittorio e, tutto sommato, un po’ ridicolo. Come impiegare il sapere senza un collegamento con realtà, esigenze e progetti? 6 Come definire la direzione dello sviluppo senza considerare carenze, limiti e potenziali? Come fissare obiettivi senza ricordare lo sforzo fatto per raggiungere il punto in cui ci troviamo? Queste cose non sono scritte nel futuro ma nel passato. Non sono definite da complessi processi di analisi e calcolo, da iperboliche teorie e sistemi: sono il risultato - misurato e misurabile - del metodo che abbiamo utilizzato. Sono l’odore del nostro sudore, il gusto amaro degli errori e dei fallimenti, il ricordo dell’eccitazione con la quale abbiamo accettato la sfida, la memoria dei successi, e di tutti quelli che vi hanno contribuito. Non c’è libro che possa trasmettere esperienza. Ne sanno qualcosa quelli che, per piacere o mestiere, hanno letto qualche libro di Management. Ne sanno qualcosa i nostri Laureati e i nostri Diplomati, ai quali dovremmo spiegare che la Scuola trasmette conoscenze e attitudini e non competenze e metodo. Ne sa qualcosa chi abbia avuto la fortuna di incrociare, per breve o lungo tempo, un Maestro. Nello sport o nell’arte, così come nel lavoro o nella ricerca spirituale, il Maestro compie sempre il medesimo atto, espone sempre la medesima lezione: porta la sua conoscenza all’uomo, sapendo che la conoscenza è per l’uomo e non l’uomo per la conoscenza. Differenza apparentemente sottile, dietro la quale si cela l’abisso che separa ogni agire, generalmente inteso, dall’agire conforme a necessità. Quando i Maestri muoiono, c’è sempre chi immagina di sostituirsi a loro per competenza: il punto non è questo. Il Maestro non è preoccupato del come; si cura del perché, sapendo che il come dipende dalle circostanze. Noi, incapaci di questa serena consapevolezza, ne imitiamo le fattezze esteriori diventando arroganti. In fin dei conti, quante volte ci siamo detti che il sapere e l’informazione sono potere? E quante volte ci è sembrata intelligente questa affermazione? Eppure, anche una farfalla insegna che il come del suo volo dipende dal perché sta volando. Gigliola Soldi Rondinini Amerigo Vespucci nel centenario della morte Una statua negli Uffizi, a Firenze, non coeva e qualche ritratto di fantasia sono le sole immagini che ci rimangono del figlio di un modesto notaio, Nastagio Vespucci, che aveva fatto carriera diventando notaio della Signoria e di una nobildonna di Montevarchi, tale Elisabetta, che, battezzato in S. Maria del Fiore, fu chiamato Amerigo. Sebbene abbia dato il nome a due continenti, oltre al fatto di non conoscerne il volto, poco sappiamo della sua giovinezza e della prima maturità: era nato a Firenze il 9 marzo 1454, quando al timone del Banco della famiglia era Cosimo de’ Medici, che lo portò al massimo della prosperità da quel manager che era, e che allo stesso modo governò Firenze da dietro le quinte, pur lasciando sopravvivere apparenze di libertà. In quel periodo, in città stava facendo le sue prime prove politiche Lorenzo de’ Medici, e Amerigo entrò nel cerchio della casata legandosi a suo cugino, Lorenzo di Pierfrancesco, uomo coltissimo, amico di Poliziano e di Marsilio Ficino e protettore di artisti quali Botticelli ( è infatti raffigurato in vesti di Mercurio nella Primavera botticelliana), che fece su sua commissione le illustrazioni della Divina Commedia, e il giovane Michelangelo agli inizi della sua carriera. Amerigo si interessava di procurare a Lorenzo opere d’arte e merci preziose. Marsilio Ficino, animatore dell’Accademia Neoplatonica di Careggi fondata da Cosimo nel 1459, e Paolo del Pozzo Toscanelli, figura straordinaria di geografo, matematico, filosofo, medi- co, astronomo, furono determinanti per la sua formazione che si avvalse delle discussioni che avevano luogo nel circolo dell’Accademia, con Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, lo stesso Ficino, Pico della Mirandola e Nicolò Cusano. I temi trattati riguardavano spesso la geografia e la cosmografia, dal momento che qualche decennio prima era stata tradotta in latino la Cosmographia di Tolomeo e nella letteratura “di evasione” aveva grande successo il poema Guerin meschino di Andrea da Barberino, che, in forma divertente, trattava delle nuove conoscenze geografiche. L’ambiente formava quindi l’uomo, inoltre si rendeva necessario poter ritornare nella favolosa Cina di Marco Polo che non si poteva più raggiungere per strade di terra da quando era caduta la dinastia mongola che le proteggeva ma solo doppiando il Capo di Buona Speranza. Si pensava però esistesse una via verso Occidente che del Pozzo Toscanelli individuò e propose al re del Portogallo con una carte geografica da lui disegnata che recava le indicazioni necessarie per giungere a quelle che venivano dette le Isole felici. A 34 anni Vespucci lascia Firenze e quel mondo intellettualmente vivace: è il 1491, Colombo sta iniziando il suo viaggio, e lui si trasferisce a Siviglia, dove lavora sempre per Lorenzo di Pierfrancesco, ma anche per grandi mercanti fiorentini, trafficando nel commercio dell’oro e degli schiavi. Nel 1492 Colombo approda alle Bahamas, la prima tappa della scoperta dell’America, nel 1404 il secondo viaggio, (22 febbraio 1512) di cui Vespucci si occupa, attendendo il momento in cui anche lui ne avrebbe intrapreso uno. Il riconoscimento dell’effettivo ruolo di Amerigo nella scoperta dell’America ha richiesto molto tempo e molto studi, data l’incertezza delle fonti che lo documentano. Vespucci ci ha lasciato alcune lettere famigliari manoscritte e due lettere a stampa, pubblicate all’inizio del sec.XVI: il Mundus novus, stampato per la prima volta nel 1504 ad Augusta e la Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente tro- vate in quattro dei suoi viaggi, più nota come Lettera a Soderini, il cancelliere della Repubblica di Firenze, ivi pubblicata nel 1505, meglio conosciuta nella versione latina come Cosmographie Introductio, uscita in Lorena nel 1507. Quale l’importanza di queste fonti e la loro autenticità? Anzitutto esse rispondevano alle molteplici domande che le scoperte geografiche del tempo ponevano, e in particolare quelle di Colombo; in secondo, aprivano all’ampia polemica relativa ai viaggio veramente com- 7 piuti da Vespucci, aperta da Bartolomeo de Las Casas, che sosteneva essere stato Colombo a raggiungere per primo le coste sudamericane, ma si è andata rinfocolando tra Ottocento inizi Novecento, quando un esame più attento dei manoscritti vespucciani e un esame sui luoghi, hanno confermato l’attendibilità delle informazioni tratte da quelle fonti e fornito indicazioni basilari per la ricostruzione dei suoi viaggi, ma ha messo in evidenza alcune incongruenze. Mondus novus è probabilmente un rimaneggiamento 8 di alcune lettere dirette a Lorenzo di Pierfranveco De’ Medici per cui lavorava, come si è detto, una sorte di relazione del viaggio compiuto nel 1501-1502 al servizio del re del Portogallo, ma l’opuscolo ebbe ben presto enorme successo, dal momento che, nel giro di due anni, ebbe dodici edizioni latine e tra il 1505 e il 1510 altre tredici, in latino, tedesco, olandese oltre a cinque tradizioni riassuntive. Particolarità di Vespucci è riconoscere che non di isole o coste si tratta, ma di una parte di un continente nuovo: di qui le ampie e piacevoli descrizioni delle vicende del viaggio, dando ampio risalto all’ambiente umano - geografia antropica del Nuovo Mondo - non dimenticando le esperienze dei precedenti viaggiatori che mette in correlazione. La Lettera al Soderini è stata valutata un’operazione per pubblicizzare l’esplorazione delle coste americane. Essa parla di quattro viaggi organizzati da Vespucci, di essi sappiamo che erano due per gli spagnoli, nel 1497 e 1498 e nel 1499-1501 e due per il Portogallo nel 1501-1502 e nel 1503-1504, ma anche che il primo fu forse un viaggio commerciale e che le esplorazioni cominciarono con il secondo, quando partì da Siviglia con Alonso de Hojeda e Juan de la Costa, approdò sulle coste dell’America del sud, risalì fino a Trinidad, percorse le coste del Venezuela fino oltre Cabo de Vela, giungendo ad Haiti nel 1499. Dopo questa impresa fu assunto dal re del Portogallo per cui compì nel 1501 la spedizione più importante, che raggiunse, pare il 32° parallelo lungo le coste americane, per poi spingersi più a sud, in mare aperto, il che gli diede la possibilità di comprendere, data la grande estensione delle coste di essere davanti a un continente, un mondo nuovo, sconosciuto ai geografi dell’antichità e del medioevo e non compreso dallo stesso Colombo nella sua entità, sempre convinto di essere sulle coste dell’Asia. Nel marzo del 1508, il sovrano portoghese nominò Vespucci Piloto mayor, ossia primo comandante delle flotte commerciali spagnole con un ricco finanziamento per le sue imprese. Morì il 22 febbraio 1512; non lasciò eredi diretti, solo un nipote che continuò il suo lavoro. BIBLIOGRAFIA CARLA MASETTI, Il ruolo di Amerigo Vespucci nella conoscenza del mondo, www. treccani.it/scuola/maturità/ materiale_didattico/esplorazioni/8.html, 05/03/2012. PIETRO CITATI, L’ epopea di Vespucci, inventore dell’America, Corriere della Sera, 6 febbraio 2012. www.granarolo.it QUANDO BEVI IL LATTE TI SENTI UN PALLONE? Latte Granarolo Accadì. Digeribile anche da chi ha difficoltà con il lattosio. Grazie alla scomposizione del lattosio nei due zuccheri che lo costituiscono, più facilmente assimilabili, puoi ritrovare il piacere del latte. Granarolo Accadì. Più digeribile di così! La Grande Passione per l’Alta Qualità. Atanor L’epopea di Gilgamesh È poco noto fra il pubblico poco iniziato un interessante poema epico babilonese che può considerarsi l’antenato dell’Odissea e delle canzoni di gesta del Medio Evo. Georges Contenau, noto storico, alla fine degli anni Trenta aveva presentato non una riedizione critica destinata agli specialisti, bensì una traduzione che ne facilitava la divulgazione a profani(*). Si trova in questo poema l’esaltazione di un eroe nazionale con l’intervento del meraviglioso e del divino, e poiché, come avverte il traduttore, gli Egiziani non ebbero, per quel che se ne sa, una simile letteratura, e alcuni frammenti dell’Epopea di Gilgamesh risalgono a più di 2000 anni a.C., si può affermare che questo genere poetico sia venuto dalla valle del Tigri all’Eufrate. Perché il pubblico a cui si rivolge possa meglio comprendere e gustare il poema, Contenau, che è uno dei più noti cultori di letterature orientali, fa precedere alla traduzione un dotto ma limpido studio sulle fonti e un’analisi generale del poema, e fa seguire esaurienti e chiari commenti al testo. Le fonti del poema sono numerose tavolette d’argilla, scritte con caratteri cuneiformi, di cui le più recenti risalgono al VI secolo a.C.; furono trovate nel 1852 a Ninive fra le rovine del palazzo del re assiro Assurbanipal (Sardanapalo, 681 - 62 a.C.) e rappresentano i resti di quattro esemplari in lingua assira fatti trascrivere dal monarca da originali molto più antichi. Dall’esame di queste quattro copie è risultato che il poema si componeva di dodici tavolette, 10 scritte in ciascuna faccia su tre colonne di cinquanta righe ciascuna; in tutto 3600 linee, di cui solo la metà è arrivata a noi. Ma la nostra conoscenza del poema, di cui queste tavolette di Ninive restano il nucleo principale, poté essere integrata grazie ad altri frammenti di redazioni più antiche, scoperti fra il 1896 e il 1927 a Niffer o Nippur, a Ur, a Warka, l’antica Uruk ad Assur, e cosa più interessante ancora, nel villaggio anatolico di Boghaz-Keni. Di queste antichissime tavolette, alcune, del XV secolo a.C., sono redatte in babilonese, altre - quelle scoperte a Ur e a Nifer o Nippur, una delle più antiche città numeriche, sono redatte in numerico e risalgono al XX secolo a.C. Fu questa una scoperta di grandissima importanza, che confermò da una parte l’ipotesi di un prototipo numerico del poema, dall’altra la tradizione secondo la quale Gilgamesh fu un antico re dei Sumeri, di questo grande popolo che abitò per primo le valli del Tigri e dell’Eufrate, sviluppandovi una civiltà che i nuovi invasori assiro-babilonesi assimilarono e che dalle coste del Golfo Persico si diffuse fino alle coste anatomiche del Mar Nero, formando il substrato delle successive civiltà semitiche e di quelle così dette Asiatiche dell’Anatolia. Infatti un terzo gruppo di frammenti, pure della seconda metà del XX secolo a.C. è quello scoperto nel villaggio di BoghazKeni, a nord di Ankara; sono redatti in alcuni dei dialetti parlati nel potente regno Littita che aveva là la sua capitale. Attraverso questi testi di varia origine e lingua, è stato possibile a Contenau di giungere alla sua bellissima traduzione che, malgrado le lacune ancora esistenti, ci offre la possibilità di seguire le grandiose vicende di Gilgamesh, il re di Uruk, di cui: …due terzi del corpo sono d’un dio, un terzo d’un uomo la forma del corpo è perfetta. Dopo un breve preambolo in cui il poeta annuncia il suo tema, comincia il racconto. Gli abitanti di Uruk sono oppressi dall’attività del loro re “il forte, l’ammirevole, l’astuto”, che non ha figli e non ha rivali e implorano gli dei di liberarli. Costoro pensano di creare qualcuno simile a lui che ne occupi l’attività e la dea Aruru plasma con il fango Enkidu, l’uomo selvaggio che vive con gli animali della pianura, si nutre come loro, li protegge e li salva dagli agguati dei cacciatori, i quali portano lamentele contro di lui a Gilgamesh. Per attirarlo in un agguato, questi allora manda presso di lui una Lierodula o cortigiana sacra, di cui Enkidu si innamora, che lo inizia alla civiltà, e lo attira a Uruk. Dapprima in fiera lotta tra loro, Gilgamesh ed Enkidu diventano inseparabili amici e partono per imprese comuni. Combattono il gigante Humbaba, che regna sulla foresta di cedri, e con l’aiuto del vento del Nord, del vento di Sud e della tempesta, lo vincono e gli tagliano la testa. Allora la dea Ishtar, avvinta dall’eroismo di Gilgamesh, gli propone di diventare suo sposo, ma egli la respinge sdegnoso, rinfacciandole aspramente i numerosi amanti. Ishtar, adirata, ottiene che il dio Anu, suo padre, crei un toro celeste, che devasta il paese, finché Enkidu lo uccide. Ma nella notte stessa questi cade ammalato e muore. Pietoso è il lamento di Gilgamesh davanti al cadavere dell’amico e agli anziani: per sei giorni e sei notti egli piange, ricordando le imprese comuni; poi, preso da paura della morte, decide di andare alla ricerca della vita eterna; raggiunge i monti Mashu (nell’Armenia?), incontra gli uomini scorpione che custodiscono la via del sole e gli danno preziosi consigli per il suo viaggio. Arrivato alla riva del mare, ottiene che Ur-Shanati, il barcaiolo che sa la strada, lo trasporti alla dimora del suo avo Um-napishti, il solo ho paura della morte e ho errato nella pianura Verso il conforto che mi darà Um-napishti ….Um-napishti, il mio avo, Che ha saputo elevarsi fino al consiglio degli dei e ottenere la Vita, Sulla vita e sulla morte io voglio interrogarlo! uomo che abbia potuto ottenere l’immortalità sfuggendo al Diluvio, aggiungendo che “coloro che dormono sono simili ai morti”. E per provare a Gilgamesh la sua debolezza, Um-napishiti gli raccomanda di non dormire per sei giorni e sette notti. Ma il re subito si addormenta e Um-napishti subito lo risveglia e lo rimanda con le provviste di viaggio e con nuovi abiti. Poi, dietro suggerimento della moglie impietosita, lo richiama per dirgli che in fondo all’acqua troverà una pianta che rende la giovinezza. Gilgamesh, infatti, si impadronisce, tuffandosi, della pianta, ma mentre si bagna a una fonte, un serpente deridendolo gliela ruba. E così egli ritorna deluso e piangente alla città di Uruk. Verso la fine, (XII tavoletta) il poema diventa oscuro, attraverso episodi confusi, Gilgamesh ottiene che Nergal, dio dell’inferno, permetta a Enkidu di risalire per pochi istanti sulla terra e interroga l’amico sulla condizione dei morti del mondo sotterraneo: l’angosciosa descrizione che ne fa Enkidu, chiude il poema. La lettura della breve ma affascinante storia che fragili tavolette ci hanno conservato sotto gli enormi cumuli dei rovinati palazzi di Ninive, di Assur, di Ur, tramandandoci aspetti della vita sociale e religiosa di popoli così remoti, non può non richiamare alla nostra mente analoghe epopee createsi intorno ad antichi eroi a noi più noti, il biblico Sansone o il pelasgico Eracle o il divino Ulisse; persino la leggenda intorno a Alessandro il Grande - ci avverte il traduttore nei commenti non meno interessanti del testo - si è arricchita di imprese e caratteri propri a Gilgamesh, giungendo attraverso il greco-egiziano Callistene del III secolo d.C. e la traduzione latina di Giulio Valerio, a ispirare i poeti medievali della “gesta” di Alessandro. Ma non è questo, solo a mio parere, ciò che nel poema interessa noi, inquieti spiriti moderni; più che le meravigliose imprese di Gilgamesh e di Enkidu sorprendono quel senso di aspirazione verso qualcosa di più vasto, di più alto, che ispira le imprese stesse, e nel tempo stesso il contrasto fra esso e l’acuto sentimento della vanità di ogni sforzo e del perire di tutte le cose. Abituati alla serena, ma anche semplice concezione della vita e della gloria che ispira l’epica greca, non possiamo leggere senza commosso stupore le parole spesso angosciose di Gilgamesh che non vuole rassegnarsi a morire. Se il pianto di Gilgamesh sul perduto amico richiama il pianto di Achille sul morto Patroclo, c’è qualcosa di più nel grido di quello (tav.IX): Non sto dunque anch’io per morire come Enkidu? Il terrore è entrato nelle mie viscere, E quando, dopo un lungo cammino nelle tenebre, aver attraversato il mare, contrapponendo il suo disperato ardore a quanti lo dissuadono dalla difficile e vana impresa arriva da Um-napishti, gli getta l’angosciosa implorazione (tav. X): Non so come tacere: non so come gridare! L’amico che amavo non è ora altro che fango; Non sto anch’io per coricarmi per mai più alzarmi? Si, Gilgamesh ritornerà alla città di Uruk senza il dono dell’immortalità e portando nel cuore le amare parole che Enkidu, per un momento risalito dagli inferi, dice all’angosciato amico, il quale vuole “sedersi e piangere” ma sapere tutto: Ciò che tu hai avuto di caro, che tu hai accarezzato e piaceva al tuo cuore, come un vecchio vestito è ora roso dai vermi Ciò che tu hai avuto di caro, che tu hai accarezzato e piaceva al tuo cuore, è oggi coperto di polvere. Tutto questo è immerso nella polvere. Questo è a parer mio il dramma che affiora tra le meravigliose vicende dell’epoca e fa si che il poema, se per certi aspetti prelude all’Odissea e alle gesta di Alessandro, per altri più profondi prelude al Salmista ed all’Ecclesiaste. (*) - GEORGES CONTENAU, L’epopée de Gilgamesch, poeme babylonien, Paris , «L’Artisan di Livre». 1939. - Sunto di Maria Venturini. (1940) 11 Enrica Franciolini Nettuno, pianeta dell’Utopia Dopo la scoperta di Urano, avvenuta nel 1781, gli astronomi si concentrarono sullo studio di un nuovo pianeta. I calcoli matematici suggerivano che le perturbazioni nello schema orbitale di Urano non potevano essere attribuite ai campi di forza gravitazionale dei pianeti vicini allora conosciuti, e così cominciarono a cercare nuovi pianeti. Dopo anni di ricerche mirate e prolungate, e attraverso lo studio delle irregolarità del moto orbitale di Urano, l’inglese Adams e il francese Leverrier pervennero al medesimo risultato e cioè che in una determinata zona doveva esserci un nuovo pianeta, che in effetti venne individuato nel 1846. Nettuno è emerso nella co- 12 scienza collettiva in un periodo in cui il mondo occidentale stava attraversando la prima fase post rivoluzione industriale: erano in corso grandi trasformazioni sociali, e Nettuno rifletteva le aspirazioni delle masse. Stiamo parlando, per esempio, della pubblicazione del «Manifesto» comunista del 1848, a due anni dalla congiunzione Saturno / Nettuno del 1846. Nel «Manifesto» sono descritti grandi ideali nettuniani, o meglio, grandi utopie nettuniane, in quanto Nettuno può essere definito il pianeta dell’Utopia. E quale Utopia migliore dell’idea della fondazione di una società perfetta, basata su principi di solidarietà e comunione, unita da una causa collettiva ? A livello politico – sociale, Nettuno diventa il simbolo della sovversione, anche se non si tratta della rivoluzione uraniana, improvvisa e violenta, quanto, piuttosto, di una trasformazione di forze che già esistono all’interno della società. Ecco dunque che Nettuno dissolve il corpo morente delle vecchie tradizioni aristocratico reazionarie, per rispondere al bisogno collettivo di un’aspirazione a una vita perfetta, “socialista” nel senso di aderente ai bisogni sociali. E così, in quel periodo, nascono non solo nuovi movimenti politici, ma anche i nuovi movimenti di assistenza, la Croce Rossa per esempio, nonché i primi ten- tativi di integrazione di una nuova spiritualità importata dall’Oriente. In Europa, proprio in quel periodo, affiorano alla coscienza collettiva i medium, nonché società esoteriche di grande prestigio, quali, per esempio la Società Teosofica di Helena Blavatsky, con tutte le pubblicazioni esoteriche che ne seguirono. I miti di Nettuno Il nome è Poseidone presso i Greci, Nettuno presso i Romani. Poseidone era fratello di Zeus, Giove, anche lui salvato con uno strattagemma dalla madre Rea e anche lui coinvolto nella deposizione del padre Cronos (Saturno). Quando Cronos venne cac- ciato, ci fu la grande divisione del mondo, e tre campi diversi vennero assegnati ai figli di Cronos: il cielo a Zeus (Giove), gli Inferi ad Ade (Plutone) e il mare a Poseidone (Nettuno). La Terra e l’Olimpo erano di dominio comune, anche se Zeus si era autoproclamato signore di tutti gli dei, cosa di cui Poseidone non era affatto contento. Anche Poseidone, come il fratello Zeus, era solito interferire nella vita degli uomini, soprattutto seducendo le loro donne: da qui, in Astrologia, le dissonanze di Nettuno e Giove vengono associate ai tradimenti sentimentali. Un’altra sua famosa caratteristica era quella di assumere sembianze diverse, da cui, il trasformismo nettuniano, la capacità di cambiare pelle, di recitare, anche da un punto di vista artistico (gli attori sono tutti nettuniani). Oltre alle conquiste femminili, Nettuno prediligeva anche i fanciulli, da cui il trasformismo sessuale dei nettuniani, il loro essere potenziali bisex, proprio perché Nettuno non ha forma precisa, neppure sessualmente. Un’altra divinità associata a Poseidone è Dionisio, con i suoi culti e riti dionisiaci, il cui scopo è quello di raggiungere l’estasi attraverso esperienze istintive, oppure esperienze con droghe o vino, tutte sostanze inerenti a Nettuno. Il vero e unico obbiettivo di Nettuno, di fatto è la trascendenza in cui la divisione fra materia e spirito è spazzata via, superando la barriera razionale saturniana, che invece vedeva la spiritualità completamente separata dalla materia, in un contenzioso senza possibilità di conciliazione. Con Nettuno, l’immanenza, secondo cui la divinità è insita in ogni cosa terrena e quindi anche nella natura, e la Trascendenza, secondo cui la divinità è invece al di sopra della materia, si fondono in un’unica visione della realtà e il cammino diventa molto più fluido, in quanto la materia è utilizzata per raggiungere lo spirito. Dal punto di vista psicologico, una delle caratteristiche principali attribuite al nettuniano è l’empatia, che supera la sensibilità, La sensibilità ti fa sentire gli stati d’animo altrui, mentre l’empatia ti fa partecipare a tali stati d’animo, e da qui nasce l’aiuto che il nettuniano sente di dover dare all’umanità, per lenire le sofferenze del mondo. Anche l’aiuto agli altri, è un sentiero spirituale per congiungersi al divino. Un altro simbolo di Nettuno è la purificazione, che in Alchimia corrisponde alla fase chiamata in “bianco”, che segue quella di putrefazione “al nero”. Nettuno, vero ponte fra Astrologia e psicanalisi. Tra i pianeti transaturniani, Nettuno ha l’influsso più sottile ed elusivo e, tuttavia, i suoi effetti sono estremamente potenti e trasformatori: nessuna barriera, per quanto resistente, è in grado di opporsi alla sua potenza erosiva, un po’ come se si attivasse l’oceano inondando le coste e le terre interne. Le immagini dell’oceano e della massa d’acqua, sono state associate dalla psicologia junghiana e dall’Astrologia moderna, all’inconscio collettivo. Il vero nettuniano, è in grado di sintonizzarsi con i bisogni dell’inconscio collettivo e il cosiddetto successo, attribuito per esempio all’artista, o al santone, dalle masse, è di origine nettuniana. In questo senso, esiste un collegamento fra Nettuno e la Luna. Anche la Luna infatti rappresenta l’archetipo delle masse, del traffico, delle maree, e di tutto ciò che è legato alla folla, e quindi, in un oroscopo indica il gradimento che la persona suscita, il suo grado di successo, ecc. Con Nettuno, si fa un passo avanti. Se la Luna sta alla sensibilità, Nettuno sta all’empatia, e alla capacità di prevenire, prevedere i bisogni collettivi, rispondendovi e quindi, riscuotendo successo. Difficile è l’ingresso nel mondo nettuniano, così come è difficile nuotare nelle onde del caos e dell’oceano: ci si riesce solo se si impara a restare a galla e a riconoscere la realtà, attraverso le visioni confuse indotte da Nettuno. Tutti sanno che un palo nell’acqua offre una visione distorta e illusoria di sé: ebbene, quella è la visione della realtà nettuniana, da cui dobbiamo risalire a quella concreta e reale. Non è un percorso facile, e in questo può esserci d’aiuto Saturno, come vedremo più avanti. Si dice anche che Nettuno sia il pianeta della nebbia, intesa come un’entità che impedisce di vedere, e in effetti, la tattica per entrare nel mondo di Nettuno è quella del “sentire” la realtà, più che vederla, immergendosi in essa, così come ci si immerge nelle acque. Una delle principali funzioni di Nettuno è quella di dissolvere e sgretolare strutture mentali, fisiche ed emozionali. Questo avviene tramite una trascendenza dei confini inibitori, per raggiungere una sfera di maggior espansione. Nettuno corrode le definizioni e le restrizioni saturniane, quegli schemi di pensiero e convinzioni che Saturno instaura e impone alla vita collettiva. Nettuno rivoluziona mediante un processo di disintegrazione, dissolvendo lentamente le barriere e gli schemi psicologici di comportamento, secondo l’antica formula 13 “solve et coagula”. Un altro metodo per raggiungere la Trascendenza è l’immaginazione artistico creativa, per esempio attraverso la danza, la musica, la letteratura, l’arte, la pittura, il teatro. Altro metodo è il “sacrificio”, del proprio piccolo sé per dissolversi nell’Universo; una sorta di canale creativo attraverso cui l’Universo invia la propria energia guaritrice, tipica dei nettuniani. La cosa sbalorditiva di Nettuno è che, in una personalità, agisce soprattutto per dissolvere schemi e strutture e più queste strutture perdurano nel tempo e si cristallizzano, più Nettuno agisce in maniera da dissolvere, confondere, annebbiare la visione della realtà. Dunque, più la persona vive basandosi su schemi fissi, rigidi, altamente moralistici, più Nettuno lo “dissolve” infiltrandosi nel punto più debole della sua personalità, un po’ come l’acqua si infiltra in una fessura di una struttura rigida e chiusa. Il termine “dissoluto”, che noi percepiamo come negativo in senso morale, in realtà deriva appunto da dissolvere, sciogliere le rigidità mentali e comportamentali saturniane e rendere tutto più fluido, e dunque la cosiddetta dissolutezza stride, ma in un certo senso riequilibra le persone che si piccano di eccessi di moralismo. Per riuscire a “dissolvere”, Nettuno non agisce soltanto a livello fluido, ma anche “acido”, in quanto soltanto con l’acido si può corrodere le strutture rigide. E così, lentamente, ma inesorabilmente, si cominciano a dissolvere le certezze, le sicurezze della vita, entrando in tal modo in un mondo incerto, possibilista, in cui si alternano stati di ispirazione quasi ultraterrena, a stati di disorientamento, indecisione, mancanza di concentrazione, tutto per entrare in uno stato interiore di fluidità. Da qui alla malattia mentale, il passo è breve. Infatti, non è facile lasciarsi sommergere 14 dall’acqua, senza avere punti di appoggio sotto i piedi. L’acqua sale, la confusione interiore aumenta, la visione della realtà si deteriora sempre più e a un certo punto si rischia di annegare, cioè si rischia che l’immaginazione prenda il sopravvento. Il rischio è il cosiddetto “delirio”, oppure le allucinazioni, e disturbi mentali di vario genere, primo fra tutto la dissociazione. Non solo: ma la malattia al nettuniano può venire anche dall’esterno, nel senso che l’empatia lo “obbliga” a entrare in relazione con gli stati d’animo della colletti- vità, comprensivi di dolori, stress, emozioni negatività collettive, che possono sommergerlo, fino a farne sparire l’individualità. L’individuo nettuniano si sacrifica così per l’universo attorno a sé, e non sempre il sacrificio rientra nei canoni sociali: così i falliti, i reietti, quelli che il Cristo chiama “gli ultimi” sono i “necessari” ricettacoli dell’energia negativa della società, coloro che, consapevolmente oppure no, si sacrificano per la salvezza del resto della società, dei cosiddetti “integrati” e “strutturati”. Gli “ultimi” della società pos- sono anche essere chiamati “gli abitanti dei confini”, e quindi, di fatto liberi esploratori di nuovi spazi. E infatti, il nettuniano è anche “il” viaggiatore, a livello geografico o metafisico, cioè l’esploratore di nuovi spazi, colui che va avanti a scoprire nuovi orizzonti, per gli altri che poi seguono, canalizzano, inquadrano il “viaggio”. Il ciclo di Saturno e Nettuno Per non farsi travolgere e spazzare via da Nettuno, è necessario riconoscere il ruolo e la funzione di Saturno. Infatti, espandersi rapida- mente oltre le proprie capacità naturali il più delle volte non è assennato e può creare ulteriori problemi, quindi uno sviluppo graduale è più sicuro e Saturno fornirà i freni quando sarà necessario. Nettuno ci offre un’ispirazione rinnovata, un’energia per trasformare la vita e gli schemi di passività, stimolando affascinanti sogni alternativi che indicano nuove potenziali direzioni. Saturno invece ci impartisce la disciplina necessaria per strutturare il cambiamento, per erigere limitazioni, canalizzazioni, senza le quali l’uomo non può esprimere l’infinito che contiene in sé. Nell’I Ching si ritrova una dinamica del genere negli esagrammi numero 59 e 60, intitolati rispettivamente “La Dissoluzione” e “La Delimitazione”, che non a caso vengono l’uno dopo l’altro. Il 59, cioè La Dissoluzione, parla di scioglimento delle tensioni, di separazione, disgregazione dell’energia, insomma descrive la fase dispersiva a tutti i livelli. Il 60, cioè La Delimitazione, nasce dalla considerazione che “Le cose non possono stare durevolmente disperse, in quanto l’uomo disperderebbe le proprie energie in mille direzioni, e quindi occorrono anche le barriere, che a loro volta, non vanno innalzate troppo durevolmente. In poche parole, l’uno scivola nell’altro e viceversa. Dunque, unendo le energie di Saturno e Nettuno, è possibile creare una potente piattaforma dalla quale iniziare a lavorare, un fulcro dove le esigenze dell’idealismo e dell’applicazione pratica sono riconosciute, al fine di raggiungere uno scopo chiaro. In questo modo, una situazione rischiosa, in cui Nettuno stravince e porta alla deriva l’Io, si trasforma in una condizione in cui si collabora con l’impulso più elevato di Nettuno e ci si assume la responsabilità della propria vita, strutturandola in maniera nuova. Nettuno e il sociale Come tutti i pianeti, anche Nettuno agisce sul sociale a vari livelli, dai più “bassi”, ai più “elevati”. Gli effetti superficiali di Nettuno sono molto evidenti nella società, attraverso la moda, o le tendenze, e dove la creatività è usata per il profitto. L’effetto più importante di Nettuno come spia dell’inconscio collettivo sta nel fatto che esso si esprime attraverso i film, la musica, il teatro l’arte e la letteratura. Il fatto che le mode siano passeggere è legato al flusso dell’acqua, che non può mai fermarsi, proprio perché deve stare al passo con le modificazioni dell’animo umano. Salendo di livello, ecco che Nettuno si esprimere nell’impegno sociale, soprattutto se associato a Saturno, e quindi lo ritroviamo in tutte le persone che, in un modo o nell’altro, si prendono cura di coloro che soffrono. Dunque i nettuniani sono medici, infermieri, ma anche psicologi, psicoanalisti, psichiatri, assistenti sociali e volontari. Si arriva infine ai mistici, che sono l’incarnazione più elevata dello spirito nettuniano, coloro che sacrificano il proprio piccolo sé per raggiungere la Trascendenza, in cui l’Ego si è completamente dissolto. Proprio dal 1848 in poi si annoverano moltissimi casi di medium che spuntano come l’erba, e fra i veri medium si mescolano ciarlatani e imbroglioni di ogni tipo. Questa è la paradossale peculiarità della vita spirituale, e cioè la sua contraddittorietà, per cui la verità si mescola con la menzogna o meglio, con le illusioni, cosicché chi si avventura nel mondo della spiritualità deve, per prima cosa, cominciare a distinguere il vero maestro dal falso, cosa di cui parla anche Gesù nei Vangeli. Dove c’è Nettuno, c’è sì un percorso spirituale, ma bisogna essere pronti ad attraversare mondi avvolti da fosche nebbie e soprattutto, mondi popolati da venditori di fumo di ogni tipo. Inoltre, anche ammesso che il personaggio in questione, il nettuniano, il guru, ecc... sia in buona fede, è molto difficile individuare un maestro che abbia uno stile di vita da “maestro”, come ce lo immagineremmo secondo gli standard tradizionali. Per ogni libro che descrive la santità di un personaggio e la sua grandiosità, ne spunta subito un altro che al contrario descrive scandali o falsità inerenti allo stesso personaggio. Del resto, come si può pensare che Nettuno, il trasformista, Nettuno il “senza limiti” possa rientrare nei nostri schemi mentali, secondo cui l’uomo spirituale deve essere e comportarsi secondo dei clichés ben definiti? Dunque, molti dei guru, maestri più riconosciuti e famosi del nostro secolo sono state personalità estremamente controverse. La Blavatsky, Gurdjeff, RAjneesh, e altri, tutti rientrano in questa categoria e in tal senso, non sono sfuggiti alla “nebbia” nettuniana. Altro grande ostacolo insito nel percorso spirituale mistico, è il fanatismo, rischiosa deviazione nettuniana, in cui gli ideali dell’Utopia, si mescolano con idee fisse e atteggiamenti maniacali della persona. La posizione di Nettuno nel cielo del 2012 Proprio nel febbraio 2012 Nettuno è entrato in Pesci, segno in cui si fermerà per più di un decennio e, in cui esplicherà al massimo tutte le caratteristiche sinora descritte, in quanto, come si dice in gergo astrologico, tale pianeta è “in domicilio” in Pesci. Questo passaggio vivrà una prima fase di caos totale, corrispondente alla fase solvente di Nettuno: regne- ranno dunque, confusione e incertezza, in quanto il mondo non ha ancora trovato un equilibrio fra i vecchi sistemi e schemi di vita e i nuovi, che ancora non compaiono, in quanto siamo ancora appunto nella fase del caos. Vi saranno tensioni fra sistemi politici più avanzati ed evoluti, e quelli più arretrati, soprattutto per motivi economici, in quanto Nettuno, pianeta dei fluidi, presiede anche il mondo dei soldi, chiamati, per l’appunto “liquidi”. Data la fluidità di Nettuno in Pesci, col tempo si tenderà a ridistribuire le ricchezze in maniera più equa e uniforme. Ci sarà una nuova coscienza e un nuovo senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, soprattutto quello delle acque. Nettuno formerà per tutto il 2012 e parte del 2013 un trigono con Saturno, attivando quel ciclo di cui si è parlato prima a un livello costruttivo e positivo. La spinta al miglioramento sociale e alla solidarietà, unita allo spirito costruttivo di Saturno si uniranno per partecipare al miglioramento della società. Dunque, si distrugge, o meglio si dissolve per ricostruire schemi e sistemi che funzionino di più e che siano più equi. Le professioni più richieste saranno quelle di assistente sociale, attività legali, servizi sociali, oppure riguardanti l’ambiente, la finanza, l’amministrazione, i media, la cinematografia e la fotografia. Grande impulso a tutte le attività spirituali, esoteriche e occulte, nonché interesse collettivo per movimenti spirituali, per la meditazione e la religione. Infine, la congiunzione di Chirone e Nettuno in pesci dovrebbe dare un grande impulso alla medicina, soprattutto allo studio delle malattie infettive, oppure delle malattie mentali, con nuove tecniche di cura all’avanguardia. 15 Grazie... 16 Angelo Casati Misteri e Segreti dei Templari Parte Prima L’improvvisa scomparsa dei Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis, come in origine si chiamarono i Cavalieri Templari, cioè Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone, ha lasciato innumerevoli domande senza risposta, e ispirato il fiorire di leggende che con il passare dei secoli, hanno deformato i dati storici arricchendoli di elementi fantastici. Gli studiosi, citando sempre fonti inoppugnabili, espongono tesi contrapposte, si contraddicono e generano più dubbi che certezze. In effetti, le pubblicazioni sono molto numerose e, quasi tutte, sono comparse in epoche successive ai tempi descritti. Molti non comprendono che per capire degli iniziati si deve essere iniziati. Se un insegnamento è affidato a riti e simboli, a una conoscenza di tipo quindi analogica superiore, sfugge a chi si affida solo ai limite della razionalità sensoriale, indispensabile, ma non esaustiva e sicura. Di conseguenza i Misteri Templari, sono molto affascinanti ma anche difficili da affrontare con obiettività e rigore storico, ed è diventato quasi impossibile stabilire una linea di demarcazione netta tra verità e fantasia, tra realtà e leggenda, inestricabilmente connesse. qualcun altro ne assumesse il controllo. Nei suoi piani, pensava infatti di mettere le mani su queste immense ricchezze oltre a non restituire l’ingente prestito avuto. La tenacia con cui nel processo fece perseguire i Cavalieri come eretici, è da ascrivere al fatto che solo tale accusa annullava qualsiasi credito nei loro confronti; quindi il Re, pieno di debiti con i Templari, ne avrebbe tratto un immediato vantaggio. Del resto dopo un periodo in cui aveva dovuto battere moneta con leghe vili tanto da meritarsi il soprannome di “Re Falsario”, sembra che Filippo abbia sostituite tali monete con pezzi di oro purissimo. Il tesoro dei Cavalieri sarebbe stato composto da beni materiali quali oro, monete, oggetti d’arte, ma anche di qualcosa di ben più mistico e antico. Forse dallo stesso tesoro di Re Salomone, nascosto nei sotterranei del Tempio e risparmiato al saccheggio del 70 dopo Cristo da parte dei soldati Romani dell’imperatore Tito. Nella fantomatica stanza ipogea del “Sancta Sanctorum”, si sarebbero trovate reliquie molto sacre come l’Arca dell’Alleanza, la Vera Croce, la Sindone, il Graal, la Menorah, ma , soprattutto, tantissimi documenti in papiro o in fogli di rame, con prove importanti per le dottrine Cristiane ed Ebraiche: in particolare la discussa natura di Gesù e la natura femminile della divinità, la Sophia o Sapienza, citata nel libro biblico dei Proverbi come pari a Dio. I custodi, fuggiti in Europa, si erano tramandati per secoli il segreto dell’esistenza della stanza ipogea nel Tempio, o di più stanze, fino a che i di- scendenti, fondatori del Priorato di Sion e dell’Ordine del Tempio, non erano ritornati a Gerusalemme con la Crociata per iniziare gli scavi alla ricerca di qualcosa di grande valore. I misteriosi custodi sarebbero stati i discendenti delle 24 famiglie sacerdotali del Tempio di Gerusalemme, con lo storico Giuseppe Flavio sopravvissuti alla distruzione del 70 d.C. del tempio di Salomone: essi erano i detentori del potere oligarchico regale e spirituale del popolo ebraico. Ne dà notizia lo stesso storico che elenca tutti i superstiti includendo se stesso. Giuseppe Flavio era infatti Gran sacerdote, e appartenente alla prima delle 24 famiglie ebraiche più importanti; la sua parentela per parte di madre con gli Asmonei, legati alla misteriosa famiglia definita degli Aronnidi, Il Tesoro segreto L’ordine del Tempio per la gestione delle sue innumerevoli attività poteva disporre di una considerevole quantità di denaro liquido e, di conseguenza, Filippo il Bello, re di Francia, quando si rese conto di non poter controllare l’Ordine diventando egli stesso Gran Maestro, decise di distruggerlo, prima che 17 lo faceva discendente da Mosè. Giuseppe Flavio, che viene ricordato solo come storico romano, in realtà era stato inviato dal Sinedrio di Gerusalemme come governatore della Galilea, ed era stato il primo a combattere contro le legioni romane, ma fu sconfitto e si rifugiò nella città di Iotpata. Caduta, dopo l’ assedio, la città, Giuseppe si consegnò ai Romani e chiese di parlare con il generale Vespasiano: da quel colloquio inizia la fortuna del futuro imperatore Vespasiano e anche la nuova ricollocazione del Gran sacerdote Giuseppe, che poco dopo la conquista del potere da parte di Vespasiano fu adottato dalla famiglia imperiale dei Flavi, assumendo il nome di Flavio, e divenendo noto solo come lo storico autore delle Antichità Giudaiche. Un semplice fatto parrebbe dimostrare la ragione che lega questi due personaggi: il generale Vespasiano non aveva mezzi finanziari per aspirare a divenire imperatore, ma li trovò dopo la guerra giudaica: il Gran sacerdote del Tempio indubbiamente co- 18 nosceva l’ubicazione esatta del tesoro e da nemico sconfitto si trasformò in protetto dell’imperatore di Roma. Giuseppe Flavio si trasferì a Roma con le famiglie di numerosi sacerdoti, non certo osteggiati dall’autorità romana; ci sono anche fonti storiche che sembrano avvallare una grande influenza di costoro nella nascita e affermazione della Chiesa Cattolica Romana. Del resto, dei trenta anni che vanno dal 70 al 100 dopo Cristo, cioè dall’arrivo di Giuseppe Flavio a Roma in poi, non sappiamo praticamente nulla di quello che successe alla Chiesa nascente, anche se si tratta del periodo cruciale della sua storia, con l’inizio della sua stessa formazione. Chiesa che tuttavia dopo questo periodo uscì trasformata nel fondamento della propria struttura, è un fatto che da allora fu gerarchizzata e atta a iniziare un’irresistibile ascesa. Quello che fu eventualmente trovato dai Templari sotto le rovine del Tempio di Gerusalemme, venne trasportato in Francia dal Gran Mae- stro del Tempio, Bertrand de Blanchefort, quarto gran maestro dell’Ordine (per altri autori sesto), succeduto ad Andrea di Mombard, zio di san Bernardo, le cui origini di sangue vengono fatte risalire alla stirpe sacerdotale ebraica, come anche del resto per Goffredo da Buglione. Bertrand o Bernard de Blanchefort avrebbe nascosto il tesoro nei suoi possedimenti, vicino a Rennes le Château, o a Parigi, nelle stanze segrete della fortezza Templare dalle 7 torri, ma nella Torre del Tempio gli sgherri del Re non trovarono nulla o, almeno, così affermarono. Del resto, prima che tutti i funzionari del Regno avessero ricevuto l’ordine di arresto, era passato oltre un mese e, quindi, ci sarebbe stato tutto il tempo per nascondere il tesoro. Diversi luoghi e castelli sono stati sospettati di custodire i forzieri, protetti da trabocchetti, da stagni o complicati ostacoli idrici e segnalati da geroglifici segreti. Le ricerche, rivelatesi comunque infruttuose, hanno interessato molte località tra cui Gisors, Argigny, Nizza, la Foresta d‘Oriente, Laon. Qualcuno favoleggia la divisione in tre parti del tesoro, poi spedito in tre luoghi diversi: in America, in Italia e in Francia. Una parte sarebbe partita dal porto templare di la Rochelle per essere trasportata in America dai Templari grazie ai Normanni e ai Norvegesi, discendenti dai Vichinghi che erano a conoscenza del fatto che la terra fosse rotonda e non piatta e che avevano già scoperto l’America, come qualcuno sembra dedurre dall’osservazione della Cattedrale di Chartres e di Rosslyn. Sulla scoperta dell’America c’è chi afferma che Cristoforo Colombo, prima di partire, avesse consultato i cartolari di Calatrava, redatti dai Templari e, forse per questo abbia disegnato sulle vele la Croce Patente Templare Rossa a otto punte, che era il simbolo dei “Cavalieri di Cristo” portoghesi, (dopo la soppressione i Templari così mutarono il loro nome in Portogallo). Una parte, finita in Italia, sarebbe stata nascosta nelle precettorie del Tempio di Firenze, Orvieto, Roma. Umberto Accomanno America Britannica - 1776 le tredici colonie danno vita a un nuovo impero Il principale onere finanziario della colonizzazione inglese in Nord America (XVII secolo) fu sostenuto da compagnie commerciali (1) che rastrellarono i loro capitali (circa 13 milioni di sterline) vendendo azioni a un’ importante fascia della popolazione inglese. Infatti, furono migliaia coloro che investirono: proprietari terrieri, mercanti, gente facoltosa ma anche gente comune. I fondi raccolti in questo modo furono per la maggior parte gestiti da persone che operavano non solo con le preoccupazioni di normali uomini d’affari, ma sotto la pressione di due fattori molto particolari: non ci si attendeva che il capitale azionario (il capitale iniziale) di queste imprese durasse nel tempo; le prospettive dei mercanti inglesi erano proiettate verso un guadagno immediato. Ci si aspettava che, al termine del periodo di ingaggio, il capitale iniziale, aumentato degli (eventuali) profitti dell’impresa, venisse distribuito fra gli azionisti. Molti dei coloni erano al soldo della compagnia commerciale che aveva organizzato l’impresa, e solo per un preciso numero di anni, perciò erano assillati dall’idea di produrre un immediato profitto. Se i coloni non fossero riusciti a spedire in Inghilterra le prove concrete del valore finanziario dell’impresa, sarebbero stati abbandonati a se stessi e costretti ad arrangiarsi sul posto per sopravvivere (2). Quindi i primi coloni, invece di esplorare attentamente le zone d’insediamento e acclimatarsi nell’incognito territorio americano, passavano il loro tempo esplo- rando ogni rivolo d’acqua alla ricerca dell’oro, cercando vie per il Pacifico nell’estuario di ogni fiume un po’ ampio, e gettandosi in maniera pressoché suicida verso l’interno per verificare i confusi resoconti di parte indiana riguardanti l’esistenza di immense città o la possibilità di enormi rifornimenti di pelli o metalli preziosi. Dopo circa un secolo dai primi difficili esperimenti coloniali, nel 1700 la popolazione immigrata era organizzata in undici province controllate in maniera molto approssimativa dal governo inglese, che stava appena cominciando a rendersi conto dell’importanza acquisita dal mondo coloniale. All’inizio del XVIII secolo una ridotta percentuale di coloni, forse l’ 8%, viveva nei cinque principali centri portuali (Boston, Newport, New York, Filadelphia e Charleston) nei quali affluiva la maggior parte del commercio e delle comunicazioni che legavano il nuovo mondo all’Europa. L’incremento demografico dei territori dell’America britannica e il conseguente aumento del valore fondiario indussero i discendenti dei proprietari del XVII secolo a far fruttare, ove possibile, i loro diritti su grandi estensioni di territorio. Quattro, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, erano particolarmente imponenti. La famiglia Penn avanzava diritti sulla terra non ancora assegnata in Pennsylvania. La famiglia Calvert rivendicava tutta la terra non colonizzata del Maryland, e il conte di Grenville quella parte della terra, concessa in origine alla Carolina, che copriva quasi tutta la metà settentrionale dell’odierno Stato della Carolina del nord. Lord Fairfax era l’erede del Northen Neck della Virginia, cinque milioni di acri tra i fiumi Potomac e Rappahannock, originariamente concessi da Carlo II. Alla metà del XVIII secolo queste vastissime proprietà non erano più territori selvaggi, bensì terre che venivano messe a coltura e che successivamente acquistarono un enorme valore per i loro proprietari. Tuttavia, a eccezione di Fairfax che si installò in Virginia nel 1753, nessuno di essi era residente né personalmente impegnato nella gestione e nello sviluppo di proprietà agricole lavorate da fittavoli permanenti, secondo il modello europeo. In alcuni latifondi lungo il fiume Hudson, e in misura minore nel New Jersey, furono ricreate molte delle tradizionali forme signorili europee: alti affitti perpetui, esazioni di tasse e gabelle, insicurezza per i fittavoli. Tutto ciò era possibile per la grande influenza politica dei proprietari terrieri inglesi (exclusive proprietors and Lord) anche nell’ambito dell’ amministrazione della giustizia. I landowner della British America, tuttavia, non riuscirono a ricreare un sistema signorile simile a quello aristocratico inglese. Anche i proprietari del Sud del XVIII secolo vivevano in modo completamente diverso da quello dell’aristocrazia e della gentry inglese di cui cercavano di emulare lo stile. Certamente esistevano grandi proprietà nel Sud, anche se non molte: nel Maryland solo il 3,6 % di tutte le proprietà terriere valeva più di 1.000 sterline e manteneva una qual- 19 che sorta di aristocrazia. Tuttavia, le difficoltà di gestione e la fatica di amministrare e far fruttare piantagioni e terreni, rendevano la vita quotidiana di un piantatore virginiano molto diversa da quella di un aristocratico lord, proprietario terriero inglese del Kent, le cui prerogative potevano essere fatte risalire a Guglielmo Il Conquistatore. Edmund Burke, pensatore e uomo politico inglese del XVII secolo, indicava come vera base di ogni aristocrazia l’agio illimitato, il godimento gratuito della vita. Un semplice sguardo ai diari dei piantatori dei territori del Sud (British America) mette a nudo le tremende preoccupazioni che affliggevano questi imprenditori agricoli (libri mastri, margini di profitto, difficoltà attinenti la produzione agricola, controllo della manodopera costituita da schiavi importati dall’Africa e da immigrati ridotti in schiavitù provenienti dall’Europa). Londra esigeva che i sud- 20 diti delle colonie atlantiche contribuissero al pagamento delle spese del vasto impero britannico nord americano. Dopo la guerra dei Sette Anni l’Inghilterra si trovava in serie difficoltà economiche e tentò di porvi rimedio con due provvedimenti: lo Sugar Act che imponeva alti dazi sui prodotti di importazio- ne dalla madrepatria alle colonie e lo Stamp Act che imponeva bolli governativi sui documenti ufficiali e sui giornali. La Corona inglese inoltre ribadiva costantemente il proprio monopolio industriale vietando di fatto lo sviluppo autonomo delle colonie. Nel 1733 la Compagnia inglese delle Indie Orientali(3) ottenne dal Parlamento il diritto di vendere in esclusiva e mediante propri agenti il tea che importava dalla Cina. La meglio nota East India Company intendeva penalizzare i coloni e gli intermediari americani che fino ad allora avevano goduto di un lucroso giro d’affari. Nel 1774 gli americani, che avevano celebrato l’incoronazione di Giorgio III, erano virtualmente in rivolta contro la Gran Bretagna. Nei due anni successivi ai Coercive Act del 1774 gli eventi si succedettero a ritmo incalzante e si fece sempre più improbabile una riconciliazione tra la Gran Bretagna e le sue colonie americane. Si trattava di qualcosa di più di una semplice crisi nei rapporti all’interno dell’impero. La Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 trasformò il distacco dalla Gran Bretagna in un evento che, per gli americani, stava alla pari con i più grandi avvenimenti della storia passata. Essi erano convinti di lottare non solo per la propria libertà, ma anche per la libertà del mondo intero, ma per ottenerla dovevano muovere guerra alla più grande potenza del XVIII sec. Nel 1781, le tredici colonie della British America si staccavano dall’impero con una Costituzione scritta: gli «Articoli della Confederazione» Le colonie americane di Giorgio III si congedavano così da Londra per cercare un nuovo impero ispirato in qualche modo al millenario impero romano. Gli inglesi, da parte loro, che avevano in qualche modo trascurato i loro Land atlantici, possedevano un estesissimo impero che dal 1788 si arricchirà dei territori australiani. L’apogeo dell’Impero Britannico, territorialmente intendendo, si registrerà solo nel 1905. Negli Stati Uniti fin dall’inizio, le differenziazioni sociali, non soltanto nel New England(4) e in Virginia, ma all’interno di ciascun singolo territorio, rispecchiavano la divisione che nell’Inghilterra del ‘600 aveva contrapposto i Roundheads (le teste rotonde, ovvero i protestanti puritani di tendenze repubblicane) e i cavaliers (che erano, o si consideravano, membri dell’aristocrazia latifondista, e avevano tendenze monarchiche). La guerra civile inglese fu vinta dai Roundheads, e il diritto divino dei sovrani cadde insieme alla testa di re Carlo, per essere rimpiazzato da una simil repubblica con un protettore ereditario, (Cromwell) il quale fu a sua volta soppiantato dalla Restaurazione del laico Carlo II. Durante i tumulti, molti cavaliers irritati e molti roundheads delusi si trasferirono in America, dove al New England toccarono i severi roundheads, e al sud i cavaliers, o quelli che avrebbero voluto esserlo. Numerosi europei concepirono il disegno di emigrare in America. In particolare, molti di coloro che si sentivano a disagio, se non addirittura ostili, nei confronti di una civiltà che non venerava il Cristianesimo delle origini, preferirono rifarsi una vita nel nuovo emisfero. Mentre alcuni europei cercavano di riportare d’attualità l’era di Pericle greco o almeno quella degli Antonini di Roma, i fondamentalisti protestanti avevano in mente qualcosa di più duro e più puro, anzi puritano: città splendenti in cima alle colline, con indiani convertiti e schiavi importati dall’Africa, addetti alle piantagioni e ai lavori pesanti e forzati. Quando nel 1783 fu firmato il trattato di pace fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, la nuova Repubblica, più o meno ispirata alla Roma precesarea con venature e contaminazioni imperiali, comprendeva già il litorale atlantico, con in più una buona parte del territorio in gran parte occupato dagli inglesi. Il confine occidentale dell’Unione era costituito dal Mississipi, controllato dai cosiddetti Don: così i nuovi americani chiamavano i poco amati spagnoli. Gli Stati Uniti erano a quel punto, territoriale e politico, relativamente liberi dall’Inghilterra di Giorgio III (Hannover) e dalle guerre a ripetizione contro l’odiata Francia combattute nel teatro americano (Guerra dei sette anni). A sud e a ovest c’era ancora lo sgangherato impero spagnolo. A parte il Texas, che sarebbe diventato una repubblica indipendente nel 1836 e poi, nel 1845, uno degli stati americani, la Spagna controllava anche la Florida e i territori a essa contigui sul versante occidentale. Nel 1819, per mezzo di trattati, gli abili ambasciatori americani completarono l’acquisizione della Florida; nel 1813, i futuri stati americani del Tennesee, del Mississipi e dell’Alabama erano ormai stati incorporati nell’Unione con la forza. Restava soltanto, a sud e a ovest, un impero ispano messicano potenzialmente ricco, che si estendeva dal Golfo del Messico fino all’Oceano Pacifico. La Louisiana e New Orleans vennero acquistate dalla Francia di Napoleone Bonaparte. Il plenipotenziario di Jefferson a Parigi, Robert R. Livingston, pagherà 15 milioni di dollari dell’epoca per New Orleans e tutta la Louisiana, un territorio di circa 828.000 miglia quadrate. Il presidente americano Polk afferma nel 1864 la sua intenzione di conquistare la California. Due anni più tardi California, Arizona e Utah entrarono a far parte dell’Unione. Con l’acquisizione infine dell’Oregon, dello stato di Washington e dell’Idaho, l’Unione ormai occupava tutto il continente, dalla storica costa atlantica orientale a quella occidentale del Pacifico. Nel 1867 l’Alaska, ‘la ghiacciaia’, venne acquistata dalla Rus- sia degli Zar. Le isole Hawaii furono invece annesse nel 1898 insieme a Puerto Rico e alle recalcitranti Filippine. Mentre si procedeva a riempire vaste estensioni di territorio con nuovi stati ordinatamente regolamentati, il segretario di stato John Quincy Adams produsse per conto del Presidente James Monroe una dottrina che proclamava i due continenti off-limits: Europa e Stati Uniti saldamente sovrani nelle loro rispettive zone di influenza. Nel 1917, entrando nella prima guerra mondiale, gli Stati Uniti annullarono di fatto la dottrina Monroe. Ma lo fecero per aggiudicarsi, con le limitazioni del caso, un altro mondo: quello che attualmente si chiama, con molto ottimismo, globale. Note (1) Christofer Hill, La formazione della potenza inglese, dal 1530 al 1780, Torino, 1977; (2) Bernard Bailyn - Gordon S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, Bologna, 1987; (3) Federico Rampini, East India Company, la S.p.A. che regnò su un continente, La Repubblica, 3 agosto 2008, pagina 32 e seguenti; (4) Gore Vidal, L’invenzione degli Stati Uniti, Roma, 2007; (5) Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, n°2 /2011: Dream over. L’America torna a casa. Riferimenti bibliografici •B. Bailyn - G.S. Wood, Le Origini Degli Stati Uniti, Bologna 1987; •D. Cannadine, Declino E Caduta Dell’aristocrazia Britannica, Milano 1991; •L. Coley - Prigionieri, L’inghilterra, L’impero E Il Mondo 1600 - 1850, Torino 2004; si veda in particolare la parte seconda America Prigionieri: Presenze Imbarazzanti, p.149 e ss.; •A. Stephanson, Destino Manifesto. L’espansionismo Americano E L’impero Del Bene, Milano 2004; •S. Delfino, Alla Periferia Dell’impero. Le Tredici Colonie Nordamericane Nell’economia ATLANTICA, Genova 2004; •M. Sioli, Esporando La Nazione. Alle Origini Dell’espansionismo Americano, Verona, 2005; •N. Ferguson, Colossus: Ascesa E Declino Dell’impero Americano, Milano 2006; •N. Ferguson, Impero - Come La Gran Bretagna Ha Fatto Il Mondo Moderno, Milano 2007; •S. Luconi - M. Petrelli, L’immigrazione Negli Stati Uniti, Bologna 2008; •F. Fasce, I Presidenti Usa, Roma 2008; •A. Del Mar, Storia Dei Crimini Monetari, Milano 2009; 21 Rodolfo Signifredi L’intuizione creatrice Far tacere la vecchia mente per far parlare la nuova coscienza Più i tempi si fanno cupi e più si vede chiara una luce in fondo al tunnel. I segnali di un cambiamento in meglio arrivano da molte parti e non solo dai profeti dell’antichità che lo avevano indicato con sorprendente convergenza. A supporto delle varie dottrine esoteriche, che parlano di una supercoscienza destinata a sorgere sulle ceneri degli uomini zombi di questo nostro mondo civilizzato, ci sono le relazioni scientifiche dei neurofisiologi. L’abitante del terzo millennio riuscirà ad armonizzare i suoi tre cervelli, del rettile, del mammifero e dell’uomo, attraverso lo sviluppo di una supercorteccia luminosa. Lo ha ipotizzato Régis Dutheil nel suo L’homme superlumineux avanzando l’ipotesi che la nuova coscienza potrebbe essere costituita di un “materiale” superluminoso, le cui particelle sono più veloci della luce. Ciò spiegherebbe fenomeni come la premonizione o le esperienze ai confini con la morte. Ma chi dirige questo lavoro dentro di noi? Una supercoscienza in grado di coordinare i tre livelli di coscienza che ci caratterizzano oggi e che sono la coscienza di veglia, quella di sogno e quella di sonno profondo, corrispondenti ai nostri attuali tre cervelli. Come si sviluppa questa supercoscienza? Mettendo a tacere, quando è il momento, le nostre varie personalità contrastanti che nascono da questi tre livelli, caratterizzati dall’inconsapevolezza. Gran parte della nostra vita mentale si svolge, infatti, a livello inconsapevole, in uno stato di sonnambulismo. C’è anche una consapevolezza ordinaria, però è un livello 22 momentaneo, limitato all’apprendimento o a situazioni di emergenza. Dopo questi brevi momenti subentra di nuovo l’abitudine, l’automatismo, l’inconsapevolezza; e lo stato mentale passivo che ne prende il posto impoverisce la nostra vita e la mette in pericolo. Consapevolezza vera vuol dire, invece, controllo della propria vita, creatività, capacità di inventare soluzioni nuove e trasformare le difficoltà in opportunità. Consapevolezza, inoltre, è saper attingere alle risorse segrete della mente e del corpo per combattere la tendenza a regredire verso la vecchiaia e la malattia. Sono soltanto alcuni dei vantaggi che dà questo stato. È importante, quindi, imparare come e perché si sviluppi l’inconsapevolezza e come, viceversa, si può diventare più consapevoli e attenti al presente in molti aspetti della nostra vita. Passare dalla senescenza, appunto, alla creatività, dal lavoro alla salute. La riflessione sulla consapevolezza e sulla inconsapevolezza può modificare le nostre opinioni sul mondo e rendere più facile l’affrontare i rischi o guardare con favore ai cambiamenti. Dal cervello rettile alla supercorteccia In questa “nuova era” stiamo assistendo all’emersione di un modo nuovo ed efficace di concepire l’uomo e la sua realtà. La scienza ha già dimostrato che la creazione è un atto continuo; il creato è un fluire ininterrotto di energia cosmica e le variazioni di questo flusso si manifestano come materia, come esseri, come sentimenti. E noi stes- si interferiamo in questa creazione del mondo. L’osservatore modifica ciò che va osservando. E’ un principio della fisica quantica, per il quale siamo noi i responsabili di ciò che avviene nel mondo attraverso l’emissione dei nostri pensieri. Perché i pensieri sono energia e questa energia viaggia più veloce della luce. Siamo abituati a credere che quanto proviamo dentro di noi sia causato da ciò che ci accade, mentre la nuova visione dell’uomo ci dice che tutto ciò che ci accade è causato o modificato dal nostro modo di pensare. Cioè, la nostra contentezza o scontentezza non dipende dagli avvenimenti esterni o dalle persone che vi prendono parte, ma dal nostro atteggiamento verso di loro. E’ questo modo di pensare che determina come gira e come vediamo girare il mondo; uno stesso avvenimento può essere giudicato buono o cattivo secondo il punto di vista da cui lo si guarda, modificandone al tempo stesso l’andamento. Oggi, però, stiamo imparando a usare l’energia della mente, a filtrare e dirigere i nostri pensieri; cosa che nessuno ci aveva mai insegnato prima. Sappiamo usare il computer ma non siamo capaci di controllare la nostra mente. Ci hanno aiutato a camminare, a parlare, a scrivere, a conquistarci una posizione, a farci una famiglia, ad avere successo. Ma nessuno ci ha saputo dire che tutto ciò che viviamo e sperimentiamo passa solo attraverso la nostra mente. E il corpo si mise a pensare E’ importante che l’uomo del terzo millennio, che sta unendo oriente e occidente, abbia già cominciato a coltivare questa supercoscienza mediante una più reale consapevolezza della propria presenza nel mondo, a partire dalla dimensione corporea. Nel corpo, infatti, ci sono numerose cellule sensoriali di cui non prendiamo mai coscienza, ma che sono rappresentate nel cervello allo stato latente. Sono le cellule superluminose di cui parlava Dutheil. E’ questo collegamento che dobbiamo ristabilire con la zona delle operazioni coscienti. La consapevolezza di tutto il corpo simultaneamente presente in ogni sua parte nel nostro schema mentale, è la coscienza che si diffonde ovunque in noi stessi, dal tronco alle varie membra, dai muscoli fino alle cellule. E questa coscienza diffusa mette in risonanza ogni parte con l’attività mentale, arricchendo e ravvivando l’immagine di noi stessi raffigurata nella corteccia. Tutto il corpo entra in vibrazione mentale, tutto il corpo pensa, tutto il corpo vive consapevolmente. Questo apporto di intelligenza alla estrema periferia del nostro corpo risveglia l’intelligenza latente delle nostre cellule periferiche; e la vitalità corporea, stimolata e raccolta in ogni singola cellula, va ad accrescere la vitalità mentale. E’ la mente che si fa corpo e il corpo che si fa mente. Ma a un livello supercosciente. Importante e riflessivo, questo procedimento di scambio creativo-energetico può avvenire anche tra noi e le cose. L’osservazione ricettiva di immagini, colori, forme, ci arricchisce delle loro vibrazioni, mentre noi contraccambiamo caricando di coscienza gli oggetti che si osservano. Tutti i pensieri si ripercuotono nel corpo, non solo sulla respirazione, ma anche sui muscoli e sulla pelle. E, all’inverso, tutte le tensioni muscolari che abbiamo in atto, stimolano ricordi specifici; tutte le ipersensibilità cutanee apportano ricordi ed associazioni di idee. E’ per questo che la decontrazione muscolare profonda e la pace mentale vanno di pari passo. Non si possono ottenere separatamente. La sensazione ci ricollega alla natura L’uomo non è vittima solo dell’ambiente, ma anche dei suoi sensi. E’ attraverso i sensi che l’uomo ha la conoscenza di ciò che lo circonda, e l’interpretazione che gli offre il suo cervello è l’immagine che egli ha del mondo esterno. Chi ha il potere di modellare a suo piacimento questa composizione mentale, può diventare padrone del suo “mondo”. Quando i sensi sono scossi e frastornati anche l’elaborazione cerebrale è falsata. I numerosi ostacoli e le resistenze mentali che ci bloccano nella nostra vita quotidiana possono venire più facilmente superati attraverso un corretto uso dei sensi. Uno dei primi passi per riparare la divisione che si è verificata tra l’uomo e la natura, è infatti la sensorialità cosciente, cioè le sensazioni ricevute consapevolmente. Possiamo farne l’esperienza diretta ogni volta che, posando le piante dei piedi bene a piatto sul suolo, mettiamo tutto noi stessi nella percezione di questo contatto. Per poco che ci impegniamo in ciò, saremo sorpresi della intensità di questo momento presente. Il nostro universo sensibile è a predominanza visiva, seguita da quella auditiva; cioè, applichiamo prevalentemente la vista e l’udito, i due sensi più “intellettuali”, quelli attraverso i quali si forma il linguaggio, la comunicazione corrente. Oggi ci si esprime solo in modo audiovisivo. Non sappiamo più toccare, fiutare, gustare. Siamo stati educati a studiare la natura ma non a vivere la natura stessa. E immergersi nelle cose è ben diverso dal vedere come sono fatte. Coscienza intellettuale e coscienza fisica Molti di coloro che sono abituati al pensiero hanno soprattutto una coscienza intellettuale. Essi pensano di essere molto coscienti, ma questa loro coscienza è stretta, limitata ai loro pensieri, alle loro immagini. Essi sanno comunicare più facilmente i loro pensieri, ma 23 hanno molte difficoltà a sapere ciò che rappresentano e ad esprimerli. Parlano delle loro emozioni, ma non le sentono. Essi sono coscienti solo dell’idea dell’emozione. Si può dire che questi non vivono la loro vita, ma che la pensano. Vivono solo nella loro testa. Alla facilità di pensare si contrappone una difficoltà nel sentire. La coscienza del corpo si colloca al polo opposto di quella intellettuale. E’ la caratteristica dei fanciulli. C’è una grande differenza tra l’essere coscienti del proprio corpo ed avere coscienza del proprio corpo. Si può essere coscienti del corpo solo con una coscienza intellettuale. Il corpo, in questo caso, è considerato come uno strumento dell’io e non come il vero Sé. La coscienza fisica occupa una posizione intermedia fra la coscienza intellettuale e l’inconscio, mentre la coscienza intellettuale non ha un legame diretto con l’inconscio. L’inconscio è quell’aspetto del nostro funzionamento fisico che noi non percepiamo o non possiamo percepire. Perciò, allargando la coscienza verso il basso, verso il centro vitale ci si avvicina all’inconscio. Lo scopo non è di rendere conscio l’inconscio, ma di rendercelo più familiare. L”inconscio è la nostra for- 24 za, il conscio è il nostro orgoglio” è stato detto. Ma il superconscio sarà la nostra gloria. Allargare il campo di coscienza Esiste uno stretto legame tra la coscienza e l’attenzione, perché più noi facciamo attenzione a qualche cosa e più ne siamo coscienti. L’attenzione che noi prestiamo ai nostri vari centri psicofisici, e in primo luogo al centro di gravità sul quale tutti gli altri si reggono stabilmente quando l’individuo è perfettamente equilibrato, ci dà una chiara coscienza del nostro intero essere. Infatti, questa attenzione posata sui vari centri li ravviva, li tonifica, li stimola; e poiché essi rappresentano le parti più essenziali e vitali della persona, intesa nella sua globalità, ecco che l’attenzione li mette in maggior relazione tra loro ricostruendo nella nostra mappa mentale l’individuo completo. E preparando il livello supercosciente. L’attenzione, quindi, genera coscienza. Ma se consideriamo l’attenzione come una funzione e non come uno stato, ci si spiega perché è possibile essere coscienti di qualcosa oppure di non esserne coscienti; allo stesso modo come si può guardare o non guardare, ascoltare o non ascoltare. L’attenzione, che è radice della coscienza, è infatti una facoltà che siamo liberi di usare o non usare. La coscienza, quindi, è l’attitudine a essere coscienti. Spostare l’attenzione da una cosa all’altra non allarga la coscienza, perché mentre si vede una cosa nuova non si può vedere quella vecchia. L’attenzione cosciente è come un proiettore che illumina una zona ma, nello stesso tempo, mette in ombra il resto. Tuttavia, la mobilità della luce, cioè della attenzione, è uno degli aspetti della coscienza. Chi può spostare il suo sguardo su più cose ha una coscienza meno limitata di chi lo fissa invece su un solo aspetto. Ma non c’è solo la mobilità; l’intensità e la qualità di coscienza sono ancora più importanti. La coscienza si rafforza esercitando, come si è detto prima, gli organi di senso, cioè gli strumenti dell’attenzione. Come una luce vivida rivela più cose di una luce debole, così la coscienza si ravviva con una migliore attitudine sensoriale. C’è l’attitudine ad allargare o restringere il campo di percezione, a essere capace di spostarsi liberamente dalle percezioni esteriori a quelle interne. La coscienza del corpo è il livello di coscienza più profondo e più esteso; ed è a questo livello che noi sentiamo la nostra identificazione con la natura, il cosmo, la vita. Più la coscienza sale verso livelli intellettuali, meno essa si allarga, perché acutizza le sue capacità di analisi. Mentre quando si approfondisce e scende verso i sentimenti, le sensazioni e i processi fisiologici che li generano, essa si allarga e diventa cosmica. E tutto questo senza coinvolgere l’intelletto, la razionalità. Anzi, mettendo a tacere la nostra “vecchia mente” abituata a spaziare in lungo e in largo nel chiacchierio dei pensieri che si susseguono ripetitivi e inutili. É’ quello che ci richiedono le varie discipline orientali. “Vendi l’intelletto e acquista l’intuizione” dice un maestro di zen. Il sonno della ragione genera mostri, ma anche l’insonnia della ragione può crearne altrettanti. Quella che ci viene proposta è, invece, soltanto una sospensione. Quando la nostra piccola mente si ferma incantata di fronte al proprio spettacolo. Benvenuti nella quarta dimensione. L’intuizione creatrice. Far tacere la vecchia mente per far parlare la nuova coscienza. Mirta Serrazanetti Gli enigmi nell’arte Il trionfo di Venere ovvero il piacere della lusinga La raffinata tavola, dipinta ad olio intorno al 1545 da Agnolo Bronzino, pittore fiorentino al servizio del duca di Toscana Cosimo I dei Medici, costituisce l’affascinante oggetto di questa nostra mensile dissertazione. Dal punto di vista stilistico l’opera si presenta di facile lettura: la purezza delle forme gelide e marmoree, le tonalità smaltate e innaturali, l’atmosfera sensuale e lasciva, che sarà poi così tipica della scuola francese di Fontainebleau, ci portano in modo inconfondibile al clima elegante e rarefatto del Manierismo. Piu’ suggestiva diventa invece l’analisi del dipinto se si prende in considerazione il suo significato. Si tratta indubbiamente di un’allegoria mitologica. Al centro c’è Venere, dea della bellezza e dell’amore, con i suoi tradizionali attributi: la mela, dono di Paride alla piu’ bella dell’Olimpo, e la colomba. A lei allacciato in un torbido abbraccio è Cupido, dio degli innamorati, alato e munito, secondo la tipica iconografia, di frecce e faretra. Le due figure centrali concentrano su di loro l’attenzione, sia per l’innaturale candore dell’epidermide, sia per l’atteggiamento lascivo e un po’ equivoco (Cupido, ricordiamo, è figlio di Venere), atteggiamento che certo dovette turbare non poco gli animi nei secoli passati, tanto che nell’Ottocento si avvertì il bisogno di rivestire il corpo della dea con un panno giallo, eliminato poi negli ultimi restauri. A un secondo esame si notano altri personaggi: un puttino sorridente, con dei campanellini alla caviglia sinistra, che avanza spargendo i petali di rosa che tiene in mano, identificato dai critici nella Gioia, e una figura di donna afflitta, raffigurata nell’atto rabbioso di prendersi la testa tra le mani, che presumibilmente rappresenta la Gelosia o la Disperazione. In alto una figura di vecchio alato, con la tipica clessidra, chiara rappresentazione allegorica del Tempo, copre i personaggi con una tenda scura. Il significato della raffigurazione appare ora abbastanza chiaro: si tratta di un’allegoria dell’amore sensuale con le tipiche sensazioni che accompagnano il gioco amoroso: il piacere, la gioia, la gelosia e la disperazione. Alla fine il tempo interviene a spegnere ogni passione. C’è però una figura, che appare in secondo piano a destra, parzialmente nascosta dalle altre che non è ancora stata identificata: un avvenente volto femminile si accompagna a un corpo che solo fino alla vita è di donna, mentre dalla vita in giù si presenta orripilante e squamoso e termina con una lunga coda da serpente munita di pungiglione e con zampe di leone. Le mani, altro particolare curioso, sono invertite: la mano destra è al posto della sinistra e quest’ultima al posto della destra. Una mano tiene tra le dita un favo di miele e l’altra il pungiglione della coda. Chi è mai dunque questo personaggio mostruoso? Presumibilmente l’Inganno, che alletta con la dolcezza del miele e punge dolorosamente con il veleno. Si spiega allora anche la presenza, ai piedi della figura, delle maschere, attributo tipico dell’inganno: chi si maschera, infatti, nasconde la vera realtà. Anche la frode fa parte, purtroppo, del gioco amoroso ed è costei forse la chiave di lettura dell’intera composizione. Guardiamo con rinnovata attenzione i gesti che compiono i due personaggi centrali: mentre Venere e Cupido, abbracciandosi, stanno in realtà Bronzino – Il trionfo di Venere – Londra National Gallery ingannandosi a vicenda. Venere cerca di portar via dalla faretra di Amore le frecce e Cupido, a sua volta, sta sottraendo a Venere il diadema di perle che reca sul capo! Come mai tanta insistenza sul tema della frode e dell’inganno? Forse la spiegazione definitiva del dipinto non è di carattere allegorico ma politico! Sappiamo che questo quadro era stato commissionato da Cosimo I per essere offerto in dono a un potente personaggio del tempo: Francesco I re di Francia! Cosimo I si trovava infatti, come duca di Firenze, in una posizione alquanto delicata. Nella prima metà del Cinquecento la presenza degli stranieri in Italia era ormai una realtà di fatto. Sui piccoli ducati, come Mantova e Firenze, incombeva il rischio di venire annessi ai domini spagnoli, come già era accaduto nei primi decenni del secolo al ducato di Milano. Ogni espediente era quindi valido per mantenere l’autonomia; un’abile politica matrimoniale e l’adulazione a volte risultavano carte vincenti. Anche l’arte aveva ampio spazio in questo abile gioco diplomatico. Il duca di Mantova, pochi lustri prima, aveva ottenuto l’appoggio di Carlo V di Spagna dedicandogli una sala affrescata con elementi allusivi al suo potere, nel mantovano Palazzo Te. Non ci deve stupire quindi che Cosimo I cercasse in modo analogo di accattivarsi le simpatie e l’appoggio di Francesco I di Francia, l’unico sovrano europeo in grado di contrapporsi allo strapotere spagnolo. L’opera di Bronzino a lui dedicata può essere così letta come professione da parte del duca fiorentino di lealtà politica, un invito a diffidare delle false alleanze, apparentemente vantaggiose ma in realtà fraudolente e a saper riconoscere, invece, i sinceri alleati. 25 Renzo Bracco Dopo il pane e il formaggio, il salame! Ai tre lettori – di manzoniana memoria – che avranno avuto la bontà di seguire i precedenti articoli, che trattavano di pane e di formaggio, concludiamo questo breve excursus con qualche notizia, e qualche curiosità, sul “principe” dei companatici: il salame. (Ricordiamo che “companatico” trae origine dal latino “cum panem” – ndr). In verità anche “salame” ci arriva dal latino: sal, salis, dato che il sale ne è stato, da sempre, l’ingrediente fondamentale. Infatti già al tempo dei romani si insaccavano carni di vario tipo per produrre la lucanica, ossia una sorta di salsiccia – l‘odierna luganega: come conservante, si usava il sale, da cui il termine latino salsamenta, per indicare i salumi in genere. Non a caso a Roma le salumerie ancor oggi si chiamano “salsamenterie”. Prima di addentrarci nella trattazione del salame, è opportuna una breve premessa. Il salame, come lo intendiamo oggi, fa parte della grande famiglia dei salumi, categoria che comprende i prodotti ricavati dalla lavorazione di carni suine o di altro tipo, trattati con sale e arricchiti l’aggiunta di spezie e di altri ingredienti. I salumi, vanto alimentare tutto italiano, come si evince da ogni fiera o sagra regionale, com- 26 prendono tra gli insaccati, oltre al salame, salsiccia, mortadella, filzetta, zampone, cotechino, sanguinacci, wurstel, schiacciata, soppressata, finocchiona, capocollo, fino ai coglioni di mulo (sic), tipico salame di Umbria e Abruzzo. Tra i non insaccati citiamo: prosciutto, pancetta, bresaola, speck, e il più nobile dei salumi: il culatello. Tra i suoi derivati, ve n’è uno particolarmente apprezzabile: lo “strolghino”, un insaccato lungo e sottile fatto con i pezzetti di magro che avanzano quando si dà forma al culatello. Viene impastato con piccole parti di lardo e leggermente salato. Da consumare “ancora morbido al tatto”, affettato rigorosamente a coltello e accompagnato da pane bianco e un bicchiere di buon vino. La carne impiegata nei salumi è in prevalenza quella di maiale, ma vengono utilizzate anche carni bovine, equine, ovine, di volatili, di cinghiale, e altro ancora. Gli ingredienti, con l’evoluzione del mercato e del gusto, sono oggi i più vari: oltre al sale, fondamentale per la conservazione, troviamo il grasso di suino, in quanto di sapore più gradevole, e di consistenza pastosa e morbida. Le ricette sono praticamente infinite: si differenziano per composizione, ingredienti, speziatura, finezza dell’impasto (grana grossa o grana fine), e soprattutto, per la lavorazione, meglio se artigianale. Per avere un’idea della varietà dei salumi regionali italiani, basterà citare alcuni tra i più comuni additivi: aglio, pepe, chiodi di garofano, zafferano, rosmarino, finocchio, peperoncino, tartufo, vino rosso, anice, cannella, noce moscata, alloro, pistacchio, rapa(!),salvia; per favorire la conservabilità si possono aggiungere acido ascorbico, zuccheri ( saccarosio, glucosio, lattosio, fruttosio); polvere di latte magro, sali di sodio e potassio per dare consistenza e omogeneità all’impasto e starter microbici per favorire la stagionatura e migliorare le caratteristiche organolettiche. C’è infine il capitolo additivi (autorizzati dalla legge), che si trovano sopratutto nei prodotti industriali: per apprezzarli appieno si dovrebbe ricorrere almeno al Piccolo chimico, il ben noto bignami molto in uso nelle scuole superiori. Eccone alcuni: conservanti (nitrati e caseinati di sodio e di potassio), antiossidanti (acido ascorbico, tocoferoli), addensanti e gelificanti (polifosfati), colorante E301, etc. Da evitare i nitriti, tendenzialmente cancerogeni. Ma niente paura: ormai abbiamo sviluppato gli anticorpi per sopravvivere a tutto ciò; naturalmente si tratta di elementi che ci dicono essere utili per favorire l’appetibilità, la conservazione, una corretta maturazione dell’insaccato, per superare i problemi della distribuzione, tipici dei prodotti freschi, e altro ancora. Vogliamo crederci!? Parafrasando una famosa battuta, che si fa risalire a Humphrey Bogart nel film cult “Casablanca” - ma ripresa spesso in varie circostanze - oggi si potrebbe dire, con una buona dose di realismo ( o di cinismo?) “questo è il mercato, bellezza!” . Ma tutto ciò che precede non toglierà mai il piacere di un panino col salame! Basterà citare una famosa canzone di Albano & Romina: “Felicità è….tenersi per mano e andare lontano….felicità è un bicchiere di vino con un panino…. “ Quindi, per chi ne abbia la possibilità, si consiglia l’approvvigionamento direttamente da piccole aziende artigianali, che ancora praticano lavorazioni tradizionali: da non perdere il cosiddetto “salame ignorante”, o “salame del contadino”, che altro non è se non un prodotto genuino, che conserva un aspetto e un sapore inconfondibili. C’è poi da dire che la lingua italiana, ricca di diminutivi e vezzeggiativi, ci ha messo del suo: ecco allora nascere i salametti, le salamelle, i salamini, questi ultimi portati all’onore del palcoscenico da Ettore Petrolini, re del teatro comico del Novecento. Fu attore, drammaturgo, sceneggiatore ma soprattutto massimo esponente di quel “teatro minore” che comprendeva il Varietà, la Rivista e infine l’Avanspettacolo. Ne riportiamo una famosa strofetta: “Ho comprato i salamini “del dì nel quale mi maritai “con mia moglie non feci questione mai “ma qualche volta la porto sul tramvai. “Questa mattina i salamini le comprai “e me ne vanto assai….. Certamente, un umorismo e un candore di altri tempi. Petrolini fu uno spirito libero: divenne famosa una sua battuta quando, ricevuta una onorificenza dal regime, dichiarò: “E io me ne fregio!” Ma torniamo al salame, e al suo nemico: il colesterolo. Anche se la qualità di ciò che si trova oggi sul mercato è nettamente migliorata, riducendo il contenuto in grassi e quindi anche l’apporto calorico, il salame rimane un alimento molto energetico, con un elevato contenuto proteico, talvolta superiore anche a quello della carne. I salumi in genere sono anche ricchi di ferro, zinco e sodio, oltre alle vitamine B1, B6, B12. Tutto bene dunque? Ahimè no, perché i salumi in quanto ricchi di sale sono sconsigliati agli ipertesi, e a coloro che non tollerano alcuni ingredienti tipici, come spezie e grassi. Naturalmente, vale sempre il tipico avvertimento che ci viene propinato per i cibi di cui siamo più golosi: consumare con moderazione. Abbiamo sin qui parlato dei prodotti nazionali: ma come stanno le cose all’estero, in particolare nel resto d’Europa? Senza voler fare del campanilismo, diciamo pure che le cose non stanno molto bene: nessuno può vantare la qualità e la varietà dei salumi italiani. Certo, qua e là si trovano prodotti di pregio. Vogliamo citarne alcuni, iniziando dalla vicina Francia? La regione di Lione, orgoglio dei buongustai dell’Oltralpe, offre ottimi salami di montagna e in particolare una buona varietà di prosciutti (cotti): alle erbe, al porto, con cotenna, tipo Praga. Nell’Auvergne - regione cantata con passione da George Brassins, padre spirituale del compianto Fabrizio de Andrè - si producono dei buoni salumi (e formaggi di pecora), così come in Alta Savoia; ancora, si trova qualche prodotto interessante sui Pirenei, ma tutto finisce qui. La Spagna invece, nella regione dell’Estremadura, produce un ottimo, e carissimo - da 18 a 30 Euro l’etto - prosciutto crudo disossato (il “Serrano”), paragonabile, per le sue caratteristiche, al prosciutto toscano. La sua qualità viene attribuita a una particolare razza di maiali, detta “Pata negra”, ovvero “Zampa nera”, e all’acido oleico contenuto nelle ghiande di cui si cibano. La sua lavorazione è molto complessa, e la stagionatura è di norma superiore ai tre anni. Altro prodotto della regione, meno pregiato, un salame a grana grossa, il “Chorizo”, colorato e insaporito con paprica dolce o piccante: come da sempre viene prodotto il salame calabrese. Un buon prosciutto crudo, dal nome impronunciabile, fatto di sole consonanti, detto “prst”, è prodotto nella vicina Slovenia. Rimane la Germania che, come si sa, è una grande produttrice di insaccati (oltre un milione di ton/anno), a cominciare dai wurstel e dai frankfurter, e di una grande varietà di salumi macinati e cotti. Spiccano il prosciutto cotto, tipico della Westfalia, il weisswurst, detto anche salsiccia bianca, composto da carne di vitello, pancetta e cotica di maiale finemente macinate, prodotto tipico della Baviera e della Slesia. Vi sono tuttavia molti altri tipi di wurstel, anche se non tutti sono distribuiti in Italia: di lingua, di cervella,di sangue di maiale e lardo, di vitello, d’oca, di pollo, al formaggio etc. Ma per il gusto italiano, si tratta di…un’altra cosa. In chiusura, trattando di salame, non si può non citare una sorta di “contaminazione” del nome salame: in molte regioni italiane ormai si è diffuso il “salame di cioccolato”. Si tratta di un’altra ghiottoneria, che nulla ha a che vedere con i salami di cui si è parlato, ma che ha i suoi amatori, specialmente nelle festività natalizie. È un dolce che si prepara facilmente anche in casa: richiede poco più di mezz’ora, e nessuna particolare attrezzatura. Gli ingredienti sono molto comuni: cacao ( o cioccolato fuso), tuorli d’uovo, zucchero, rhum, biscotti secchi o amaretti, frutta secca; nessuna cottura o bollitura, ma un semplice raffreddamento per qualche ora nel frigorifero. Ne esiste anche una variante più chic: il salame di cioccolato bianco. Per il contenuto calorico, il colesterolo, i trigliceridi, la glicemia etc etc, ahimè, nulla è cambiato rispetto ai salumi propriamente detti. Quindi: moderazione, anche per coloro che se li possono permettere! 27 Ercole Pollini El guarnasc I battelli mettono le ali …….1964…… Aliscafi serie pt 20 Dal lontano 1905, quando l’ing. Enrico Forlanini provò sul lago Maggiore “l’idrottero”, (l’aliscafo dei nostri giorni), si sono fatti passi da gigante nella ricerca “dell’alta velocità” sull’acqua. Come ho già scritto sul n° 74 della nostra rivista, sempre sul lago Maggiore, nel 1953 entrò in servizio passeggeri l’aliscafo FRECCIA D’ORO, realizzato dall’ing. Federico Löbau presso il cantiere Supramar di Zug (Svizzera). In quegli anni, l’ing, Löbau iniziò una stretta collaborazione con i Cantieri Rodriquez di Messina che, già alla fine del decennio, erano pronti a fornire alle società di navigazione interna un mezzo avveniristico e sufficientemente affidabile: l’aliscafo serie PT 20. Lo spirito dell’alta velocità sull’acqua aveva pervaso sia le menti delle compagnie di navigazione che quelle dell’utenza giovanile, sempre attratta dal “correre” – dove, non lo so ancora adesso -. I battelli allora in servizio, avevano una velocità media commerciale di 22 km/ ora, solo alcuni battelli a vapore e a ruote raggiungevano i 26 km/ora, più che sufficienti a soddisfare le esigenze dell’utenza turistica concretizzate da ampi “ponti sole” e confortevole ricovero in caso di cattivo tempo. Da notare che una velocità superiore ai 26 km/ora risulta fastidiosa ai passeggeri sui ponte sole. Da allora, l’architettura dei battelli cominciò a trasfor- marsi dal “tutto aperto” al “tutto chiuso” trasformando i natanti in scatoloni, veri e propri vagoni passeggeri. Per fortuna, specie sui laghi svizzeri, è in atto una controtendenza dell’utenza turistica che esige spazi aperti e che ha portato alla rivalorizzazione (e al conseguente salvataggio dalla demolizione) dei vecchi battelli a ruote, come sta avvenendo specie sul Lago dei Quattro Cantoni o di Lucerna, sul Lemano, di Brienz, di Thun e di Costanza. Sul lago di Como è sintomatica che la preferenza dei turisti è per il piroscafo a ruote CONCORDIA e per l’ultracentenario MILANO che offrono ampi spazi aperti e confortevoli posti al coperto. Fig. 1 - 1905 – l’ing. Enrico Forlanini prova il suo idrottero sul lago Maggiore. 28 Il 4 agosto 1964, arriva a Lecco, proveniente da Venezia, l’aliscafo FRECCIA DEL LARIO, il primo dei nove che solcheranno le cerulee acque del nostro lago. Dopo il varo, effettuato con una potente gru, viene trasferito nel cantiere di Dervio per gli ultimi allestimenti. Il 15 agosto, compie il viaggio inaugurale e, come da copione, sulla tratta: Como – Tremezzo – Bellagio – Menaggio, richiamando la curiosità dei lacuali e dei numerosi turisti che in quel periodo affollano le rive del lago. Mi ricordo,come se fosse ieri... mi trovavo in barca a pescare al largo di Bolvedro, con la cavedenera, quando lo Stefano Lingeri, l’arcipelago Toscano. Fig. 2 -luglio 1974 – l’aliscafo FRECCIA DELLE AZALEE accosta a Menaggio. In conseguenza dell’introduzione degli aliscafi sul Lario, dovettero essere allungate le passerelle d’imbarco dei pontili per permettere l’attracco del mezzo data la sporgenza delle ali di sostentamento anteriori. Vennero adeguati alle nuove esigenze solo i principali scali a interesse turistico. Sino all’entrata in servizio della seconda serie di aliscafi, la RHS 70, la FRECCIA DEL LARIO e la FRECCIA DELLE AZALEE, furono adibite al servizio turistico, solo in un secondo tempo, al servizio di linea. Caratteristiche tecniche Si può definire l’aliscafo un mezzo di trasporto bivalente, cioè: nelle condizioni di staticità e a bassa velocità si comporta come una comune imbarcazione sostenuta dalla spinta idrostatica (a dislocamento) mentre, a velocità più elevate (40 ÷ 60 e oltre) è sostenuta dinamicamente sopra l’acqua da una serie di ali portanti. Fig. 3 - luglio 1974 – l’aliscafo FRECCIA DLLE AZALEE, lasciato il pontile di Tremezzo comincia a prendere velocità. mio inseparabile compagno di avventure lacustri, richiama la mia attenzione sulla comparsa dalla punta del Balbianello di un insolito natante che di primo acchito sembrava un idrovolante dell’idroscalo di Como in fase ammaraggio ma che ben presto si rivelò uno scafo che volava sull’acqua sospeso su trampoli che sollevavano ai lati due enormi baffi d’acqua... Cinque anni dopo, il 9 giugno 1969, alle ore 19,30 giunge allo scalo merci di Como, proveniente da Venezia, il secondo aliscafo: la “FRECCIA DELLE AZALEE”. Varato con due potenti autogrù, viene trainato al cantiere di Tavernola per l’allestimento definitivo. Già il 28 giugno, compie il viaggio inaugurale sulla solita tratta Como – Tremezzo – Bellagio – Menaggio. Solo il 24 novembre del 1982, dopo l’entrata in servizio, negli anni settanta, dei tre aliscafi “serie RHS 70”, fu trasferito dal lago di Garda, ove era entrato in servizio nel 1965, la FRECCIA DEGLI ULIVI. Questo aliscafo risentiva dei diciassette anni di intenso utilizzo e il suo stato di usura lo rendeva poco affidabile tale che già nel 1985, venne posto in disarmo e alato nel cantiere di Dervio, in fianco allo scalo, ove rimase sino al 1994, anno della sua demolizione. A titolo di cronaca, nel 1964, anche la C.G.N., la Compagnia Generale di Navigazione sul Lemano (CH), in occasione dell’Esposizione Nazionale, mise in servizio l’aliscafo ALBATROS serie PT 20 costruito anch’esso dai Cantieri Rodriquez di Messina. Purtroppo questa unità restò in servizio sino al 1968 indi fu venduta, in un primo tempo in Francia e, poi, a una compagnia italiana che lo ribattezzò FRECCIA DEL GIGLIO per il collegamento fra Livorno e Scafo Un tradizionale tre punti, costruito con lamiere in duralluminio, chiodate, una struttura robusta ed elastica atta a sopportare le notevoli sollecitazioni di un mezzo veloce (60 ÷ 65 km/ ora). Analizzando gli schemi costruttivi si evince che il progetto risente della tecnica costruttiva aeronautica, allora ancor ben conosciuta dai nostri ingegneri. Basti pensare che dopo quarant’anni di intenso utilizzo non si verificarono cedimenti di alcun genere nelle strutture attive. Dei cosiddetti “impennaggi”, vere e proprie ali, non sono in grado di esprimere commenti, se non un doveroso ricordo alla memoria dell’ing. Forlanini e dell’ing. Löbau che ne perfezionò le applicazioni. Ali portanti 29 Fig. 4 - 1964 , lago Lemano (Suisse) – l’aliscafo ALBATROS in piena velocità. Le ali sono disposte a prua e a poppa e hanno rispettivamente la forma di “W” e di “V”. Il loro profilo è quello tipico di un’ala. Motorizzazione In quegli anni, la realizzazione dei motori cosiddetti “diesel veloci”, stava progredendo velocemente anche se permaneva il problema della rumorosità e, in alcuni casi, delle vibrazioni. Queste ultime, sono state solo in piccola parte imputabili al motore, bensì alla mancanza di sistemi di appoggio debitamente ammortizzati. Il motore installato, Mercedes mod 820 DB da 1250 C.V., costruito su licenza dalla FIAT, era assai affidabile e dai consumi contenuti ~ 2,50 kg/km di nafta. Sovrastrutture La loro linea sfuggente, conferiva al mezzo un’aria borsaiola, come risultava in pratica. Le sovrastrutture erano divise in tre sezioni: saletta anteriore, corpo centrale sopraelevato comprenden- 30 te la plancia di comando, il locale di disimpegno dell’equipaggio, le due porte di accesso dei passeggeri, le scalette di accesso alle salette anteriore e posteriore. Il W.C., limitato ma funzionale, era posto nel corpo centrale e vi si accedeva al termine della scaletta destra di accesso alla saletta posteriore. L’allestimento interno, realizzato con comode poltroncine, pur essendo sobrio, era abbastanza confortevole. Un impianto di ventilazione sopperiva all’impossibilità di aprire i finestrini. Navigabilità Con lago calmo, al massimo col tivano mattutino e la breva pomeridiana, la stabilità era buona, diventava assai problematica con lago mosso tale che, in alcuni casi, veniva sospesa la navigazione. La FRECCIA DEL LARIO nel 1987 viene posta in disarmo, ormeggiata alla diga foranea di Como ove rimase sino al 1994 quando fu trainata al cantiere di Dervio e ivi demolita. Riassumiamo di seguito i dati caratteristici degli aliscafi serie PT 20: DATI CARATTERISTICI DEL BATTELLO Propulsione Motore diesel Trasmissione del moto n° 1 Elica a pale fisse con inversione al motore Lunghezza entro le pp. m Lunghezza fuori tutto m Larghezza ord. maestra m Larghezza fuori tutto m 4,95 Immersione media m 1,045 Motore Modello Potenza Consumo Numero motori CV Kg/km N° Fiat su licenza Mercedes 820 DB 1255 2,50 gasolio 1 Velocità max. Km/h 60 Dislocamento a vuoto t Dislocamento a carico t 31,63 Stazza lorda t 53,39 Portata passeggeri N° 80 (solo seduti) Equipaggio N° 3 La FRECCIA DELLE AZALEE, nel 2001 viene posta in disarmo presso il cantiere di Dervio ove rimase sino al settembre 2003 ove fu demolita, malgrado l’interessamento del dott. Zanoletti, 21,05 deus ex machina del Museo della Barca Lariana, che intendeva acquistarla come reperto statico assieme al BALILLA e altri numerosi reperti storici. Ercole Pollini L’angolo del vecchio ingegnere 1938 La nuova FIAT “2800” La Fiat 2800. (Foto di repertorio FIAT) Mussolini, Duce del fascimo, all’apice della sua potenza, desiderava una macchina di grande rappresentanza e non trovò di meglio che rivolgersi al sen. Giovanni Agnelli il quale, volente o nolente, fu quasi costretto a soddisfare il desiderio del capo. Infatti, un’auto del genere poteva avere un mercato interno ristretto (fascia alta) e pressoché nullo all’estero, ove la facevano da padrone le auto americane, inglesi e tedesche. La “Berlina 2800” completa la serie dei fortunati tipi creati dai valenti tecnici della Fiat, alla guida dell’ing. Giocosa, in quegli anni che vanno dalla Topolino alla prestigiosa 1500. Quest’auto conferma che la forma nata dalla considerazione dei calcoli aerodinamici è ormai propria della carrozzeria moderna e appare come il conseguimento d’un risultato per molto tempo cercato. L’imponen- za della vettura riceve, dal profilo composto di curve ampie e ben modulate, una sagomatura che la rende agile e slanciata. I fanali, indipendenti dalla carrozzeria, persuadono molto di più di quelli della 1500, inesplicabilmente incassati nei parafanghi, la coda ha una compostezza suadente, come è suadente la curvatura del pararadiatore con le bacchette orizzontali. Il complesso della carrozzeria obbedisce a una euritmia di forme che chiariscono la logica e serena ponderazione del disegnatore, in un momento in cui la carrozzeria, specie in America, è tur- Schema di alimentazione. 31 stico, brillante nelle riprese, impeccabile nella marcia al minimo, è fornito di tutti i più moderni dispositivi automatici per l’avviamento e per la regolazione della temperatura. Capacità del serbatoio 74 litri; lubrificazione forzata con doppio filtro; regolazione termostatica della temperatura dell’acqua nel radiatore; il gruppo motore cambio sospeso elasticamente. La frizione monodico a secco su mozzo elastico. Il cambio di velocità a quattro rapporti e retromarcia, con seconda e terza silenziose, sincronizzate per l’innesto della terza e della quarta; imbocco rapido per la seconda silenziosa. La sospensione anteriore a ruote indipendenti; la posteriore con molle a balestra molto flessibili; barra stabilizzatrice trasversale evitante il coricamento nelle curve. I freni idraulici sulle quattro ruote hanno ceppi indipendenti comandati ciascuno da un cilindro proprio. Il passo della macchina è di 3,20 m; carreggiata anteriore 1,45 m, posteriore 1,46 metri. Nel suo complesso. I freni idraulici sulle quattro ruote hanno ceppi indipendenti comandati ognuno da un cilindro proprio. bata dalla stravaganza con tendenza al goffo. Il motore è un sei cilindri, con cilindrata 2853 cc, con una potenza effettiva di 85 cavalli a 4000 giri, le imprime una velocità massima di 130 km/ora. Il gruppo dei Schema del telaio. 32 cilindri è fuso in ghisa al fosforo manganese; testata in alluminio con sedi valvole riportate; valvole in testa; albero a gomiti si quattro supporti; carburatore rovesciato con doppio silenziatore sull’aspirazione. Il motore ha un consumo di benzina relativamente limitato. Privo in modo assoluto di vibrazioni, grazie anche al perfetto equilibrio dell’albero a gomiti fucinato dal blocco assieme ai contrappesi, silenziosissimo, ela- Una vettura ben proporzionata alla funzione a cui era destinata, con nuovi impianti di novità costruttive, che la mettono in pari con i più recenti progressi d’allora. Ne vennero prodotte 620 dal 1938 al 1944, anno in cui ne cessò la produzione. Poca cosa per un’auto di serie! Ercole Pollini Repertorio Gastronomico Valtellinese I pizzoccheri Scrive il prof. dott. Gianluigi Garbellini, insigne storico della Valtellina: ...contraddistinguono la gastronomia della Valtellina i pizzoccheri, sicuro vanto di Teglio, paese in cui si ritiene abbiano avuto origine e abbiano avuto la massima diffusione... anche se, oggi, sono diffusi in tutta la Valtellina e ne hanno valicato i confini conquistando le regioni limitrofe, i pizzoccheri di Teglio sono tuttavia comunemente considerati i soli autentici e, a detta dei buongustai, i migliori. Non per niente la loro ricetta ufficiale è stata di recente (2002) scrupolosamente codificata dall’ Accademia del pizzocchero, un sodalizio appositamente nato per la tutela e la promozione del più famoso piatto tellino, incontrastato “re” della cucina. Ingredienti (per quattro persone) 400 g di farina di grano saraceno (furmentum – fraina) 100 g di farina bianca 200 g di burro 250 g di formaggio feta stagionata o di Valtellina Casera dop 150 g di formaggio grana da grattugia 200 g di verze 250 g di patate uno spicchio di aglio, pepe nero. Preparazione Mescolare le due farine, impastarle con acqua e lavorare per circa cinque minuti. Con il matterello tirare la sfoglia fino a uno spessore di 2-3 millimetri dalla quale si ricavano delle fasce di 7-8 centimetri. Sovrapporre le fasce e tagliarle nel senso della larghezza, ottenendo delle tagliatelle larghe circa 5 millimetri. Cuocere le verdure in acqua salata, le verze a piccoli pezzi e le patate a tocchetti, unire i pizzoccheri dopo cinque minuti (le patate sono sempre presenti, mentre le verze possono essere sostituite, a seconda delle stagioni, con coste o fagiolini). Dopo una decina di minuti raccogliere i pizzoccheri con la schiumarola e versarne una parte in una teglia ben calda, cospargere con formaggio con formaggio di grana grattugiato e la feta o il Valtellina Casera dop, a scaglie, proseguire alternando pizzoccheri e formaggio. Friggere il burro con l’aglio lasciandolo colorire bene, prima di versarlo sui pizzoccheri. Senza mescolare servire i pizzoccheri bollenti con una spruzzatina di pepe. (Da “ La voce dell’Accademia dei pizzoccheri di Teglio”, ottobre-dicembre 2002) . 33 Antonio Aràneo Zanzare Zanzare sulla pittura I miei quadri sono così ricchi di luce, che è meglio guardarli al buio o chiudendo gli occhi. La mia tavolozza è molto ricca di colori e di sfumature, tanto che non riesco più a imbroccare i pochi colori adatti ai miei quadri. Spesso nel dipingere sbaglio i colori per il timore di sbagliare. I miei quadri sono molto facili per i bambini, ma difficili per gli adulti. Anzi, per i pittori professionisti sono praticamente incomprensibili. Per capire un quadro è necessario conoscere le regole; per dipingere un quadro basta dimenticarle. Per essere pittori non è necessario essere ignoranti, però aiuta molto. Grazie alla mia lunga esperienza nel campo dell’arte, ho scoperto che non ho alcun talento per la pittura. Perciò pensavo di non dipingere più. Purtroppo però, non posso smettere di dipingere perché adesso i miei quadri riscuotono un successo imprevedibile. Il direttore di una galleria ha rifiutato i miei quadri dicendo: - Lei è già un pittore classico. Noi facciamo solo mostre di pittori contemporanei. Un amico mi ha detto: - Ho ricevuto il catalogo dei tuoi 34 quadri, che mi è stato molto utile. L’ho messo sotto il piede del tavolo, che adesso non balla più. La pittura è la capacità di portare la fantasia su una tela. Anticamente però la pittura era l’arte di proteggere superfici piane dalle intemperie. Ogni arte, ogni stile ha la sua preistoria. Quanto tempo ha richiesto il mio ultimo quadro? Tremila anni. La pittura moderna invecchia immediatamente. L’incomprensibilità è la caratteristica dominante delle divinità e della pittura moderna. Se questa è la pittura di oggi, come sarà la pittura di domani? E la pittura di dopodomani? La pittura del futuro: quadri sonori e ritratti parlanti. Molti quadri avveniristici hanno dovuto aspettare il loro tempo abbandonati in pessime condizioni. Non tutti sanno guardare i quadri del futuro. Che cosa è la pittura moderna, lo si saprà col passare del tempo. Purtroppo, ormai è impossi- bile tornare a dipingere sulle pareti delle caverne. Siamo in troppi. Un quadro è una fotografia evitata. Molti quadri sarebbero meno costosi se fossero fatti con la macchina fotografica. La pittura è la riproduzione a due dimensioni di ciò che a tre dimensioni interessa poco o niente. Le norme della pittura sono leggi della fisica. Il peso di un’opera d’arte va calcolato al lordo, compreso l’autore. Si può chiudere un occhio sulla realtà, ma non su un quadro. Che differenza c’è tra un quadro surrealistico e un quadro reale? Con pennelli e acquerello non si fa scultura. E’ daltonico e non vuole fare il pittore? Peggio per lui. Ma faccia almeno il critico. Mi domandi come dipinge quel pittore? C’è qualcosa di molto umano nei suoi quadri: macchie, spruzzi e scarabocchi. Dipinge ad acquerello, ma con troppa acqua. E’ un pittore che, anche prima di dipingere, ha le mani sporche. Anche quando non dipinge, sbaglia le prospettive. E’ vero che tra una donna bella e una donna brutta al buio c’è poca differenza, però le notti senza luna sono troppo scure per un dipinto ad acquerello. Per un pittore, l’astratto è molto più vario e più ricco del concreto. Triste il pittore che è maestro di molti allievi. Più triste il pittore che è allievo di molti maestri. Un imbratta-tele è un pittore professionista le cui idee sono in netto contrasto con le nostre. Anche i quadri sembrano più importanti se vengono esposti nella capitale. Le tele dipinte, quando si afflosciano, diventano stracci. Non ogni Tizio diventa un Tiziano. Granarolo Fres.co Salumificio F ratelli Beretta Bel Italia Ferrero spa Kellog Italia San Carlo Gr are Lindt & Sprü ngli Gruppo Zamp arini i Citterio Dolcissimo Firma Italia Gastronomia A&D Gruppo Sogem Cida A-27 spa uppo Aliment Castelli Panem Roscio Com.al Grossisti Ort omercato Mil GA.BOR ano Brandazzi M ario Puglia Food Brios Robo Viko Internatio nal Sanofi Aventis Sant’Agostino G & C. Wuber Coca Cola HB C Italia Antica Paste ria Caterline Medici Volon Aromatica tari Italiani Rinaldo Fran Lavazza Galbusera & C co Pai Trentinalatte