Liber - Comune di Cirié

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Liber - Comune di Cirié
Liber
Notiziario Bibliografico e
cinematografico della
Biblioteca Civica ‘A.Corghi’ e della Cineteca “Ugo
Riccarelli” di Ciriè
Cineteca
“Ugo Riccarelli”
Primo aggiornamento 2016
Luglio 2016
Gentilissimo utente,
ecco il ventiseiesimo numero di Liber con il quale sottoponiamo alla Sua attenzione 205 pagine
dedicate alle nuove acquisizioni della Cineteca “Ugo Riccarelli” di Ciriè, con oltre 200 nuovi
titoli di film in DVD a Sua disposizione.
Rivolgiamo un particolare ringraziamento alla signora Olimpia Remogna e al signor Paolo
Grossi per le interessanti donazioni promosse a favore della nostra cineteca.
Le ricordiamo che Liber potrà essere consultato dagli appassionanti di libri e di cinema in forma
cartacea presso la Biblioteca sia in formato elettronico sul sito internet del Comune di Cirié.
(www.cirie.net).
Pagina 2
A me la libertà
Un film di René Clair. Con Henri Marchand, Raymond Cordy, Paul Olivier, Rolla France, Jacques
Shelly, André Michaud, Germaine Aussey, Léon
Lorin, William Burke, Vincent Hyspa
Titolo originale A nous la liberté.
Commedia, b/n durata 97 min. - Francia 1931.
Émile e Louis tentano la fuga dal carcere. Louis riesce ad evadere, ma Émile è catturato. Anni dopo, i due amici si incontrano all'interno di una fabbrica di fonografi.
Louis - che nel frattempo ha fatto fortuna - ne è il proprietario
ed Émile vi si è affacciato per seguire l'operaia Jeanne della
quale è innamorato. Il ricco offre lavoro al povero e gli spiega
di avere grandi progetti per il futuro: la piena automatizzazione della catena di montaggio gli
permetterà di aumentare a dismisura la produzione senza aggravare le condizioni degli operai,
anzi liberandoli dalla schiavitù dei massacranti turni di lavoro. Ma Louis è perseguitato dai ricattatori che conoscono il suo passato di galeotto ed Émile capisce che la vita in fabbrica non è
adatta a nessuno dei due. Scampati avventurosamente ad un agguato, i due si allontanano felici
di aver riconquistato la libertà dei vagabondi, mentre in fabbrica, dove la meccanizzazione ha
fatto il trionfale ingresso, gli operai trascorrono le ore di lavoro giocando a bocce.
Stilisticamente, il film è l'ultimo e più riuscito tentativo di René Clair di modulare le potenzialità
espressive del cinema muto sulle novità tecniche del sonoro. L'intenzione è di dar forma alle
categorie di un "cinema-poesia" che entri in diretta comunicazione con lo spettatore medio senza passare attraverso i pesanti filtri della riflessione intellettualistica. Convinto che l'immagine
debba immediatamente parlare da sé, Clair fa abbondante ricorso a ritratti caricaturali facilmente
riconoscibili e sviluppa una serie di elaborate e divertenti gag per mantenere desta l'attenzione su
un racconto sostanzialmente drammatico e ammonitorio. Ma - come il regista stesso ebbe poi ad
ammettere - il film sbaglia la scelta dei contenuti spegnendo nel consolatorio populismo da operetta lo spirito anarchico di una satira sociale e politica di grande attualità. L'apprezzamento per
aver posto l'accento sulle dolorose contraddizioni del moderno capitalismo industriale cede, così, alla delusione per un'utopia picaresca (cui non sono estranei, comunque, i più battaglieri germi della successiva fantascienza a sfondo sociologico) e scarsamente critica, rendendo l'opera
pregevole, ma in parte irrisolta.
À nous la liberté - che gli stolidi censori dell'Italia fascista tradussero con il meno sospetto A me la
libertà - fu al centro di una causa legale intentata dalla casa produttrice Tobis contro Charlie Chaplin accusato di aver plagiato le scene della catena di montaggio nel suo Tempi moderni. L'azione
non ebbe seguito per l'intervento personale di René Clair che per il collega inglese nutriva grande ammirazione e al quale, forse, egli stesso era debitore di qualche buona idea.
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Acque del sud
Un film di Howard Hawks. Con Humphrey Bogart,
Lauren Bacall, Walter Brennan, Hoagy Carmichael,
Dolores Moran.
Titolo originale To Have and Have Not.
Avventura, b/n durata 100 min. - USA 1944.
Harry Morgan mantiene se stesso e un vecchio ubriacone che
gli fa da marinaio affittando la sua barca ai turisti per la pesca
in alto mare, senza disdegnare qualche lavoro come contrabbandiere. Nel 1940 l'isola della Martinica è sotto il controllo
del governo di Vichy e Morgan, insofferente delle restrizioni,
non è visto di buon occhio dalle autorità. Questo non gli impedisce di mettere la sua barca a disposizione della Resistenza, per trasportare un leader politico
francese in fuga. Durante il viaggio, l'uomo viene ferito e nascosto in un albergo. Morgan deve
allora sapersi destreggiare tra i rappresentanti del governo filonazista, il fascino della moglie del
francese e l'intensa attrazione per un'americana squattrinata che ha trovato lavoro come cantante. Il contrabbandiere riesce a cavarsi dai guai e a lasciare l'isola, portando con sé il marinaio e,
soprattutto, la bella americana. Si tratta di un film dalla genesi insolita e confusa. Il personaggio
di Morgan nasce in un racconto di gusto hard-boiled che Hemingway pubblica nel '33, primo nucleo di una trilogia ambientata tra Key West e Cuba che uscirà nel '37 come Avere e non avere. Del
libro rimangono il titolo e poco altro: ispirandosi alle vicende belliche di Hemingway, che ha
messo la sua barca da pesca al servizio degli alleati, lo scrittore William Faulkner trasforma Morgan in un eroe di guerra. Visto il successo di Casablanca, ne viene esplicitamente copiata una parte, inserendo nella trama un leader della Resistenza francese accompagnato dalla moglie. Come
se non bastasse, l'amore nato sul set tra Bogart e la Bacall risulta talmente efficace come spunto
narrativo che parte della sceneggiatura ne segue passivamente lo sviluppo. Il risultato finale ha
così poco a che vedere con il punto di partenza, che il libro di Hemingway potrà essere tranquillamente utilizzato per altri film: Golfo del Messico di Michael Curtiz e Agguato nei Caraibi di Don
Siegel. Non si tratta di un capolavoro, ma sicuramente della somma di elementi molto interessanti: Bogart in una variante dell'eroe solo in apparenza cinico, la Bacall in numeri musicali accompagnati dal pianista e cantante Hoagy Carmichael, Walter Brennan nella simpatica caratterizzazione del vecchio alcolizzato sempre al fianco di Morgan. E naturalmente i dialoghi brillanti
tra una coppia di divi che, dopo questo film, avrebbero trascorso insieme molto tempo sullo
schermo e nella vita.
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Addio, Mr. Harris
Un film di Anthony Asquith. Con Michael
Redgrave, Jean Kent, Nigel Patrick, Bill Travers,
Ronald Howard.
Titolo originale The Browning Version.
Drammatico, b/n durata 90 min. - Gran Bretagna
1951.
Il signor Harris ha insegnato tutta la vita in una scuola. Non
è mai riuscito a farsi amare da nessuno, a causa del suo carattere chiuso e spigoloso. A casa le cose non vanno meglio, perché da tempo la moglie ha una relazione con un
suo collega.
Il giorno del commiato prima della pensione Harris, dopo
aver parlato con un allievo, spiega con un nobile discorso quello che non è mai riuscito a far capire in tanti anni.
Colleghi ed ex allievi da quel momento gli saranno vicini.
Anthony Asquith ha subito, negli anni, gli strali e le critiche delle avanguardie cinematografiche
europee, in particolare quelli dei "giovani turchi" della Nouvelle Vague, che individuarono quali
emblemi del «cinema di papà» Claude Autant-Lara in Francia e appunto Asquith per il cinema
inglese. È anche possibile che il regista londinese abbia scontato l'appartenenza alla classe dirigente britannica, visto che il padre era stato anche premier del governo di sua maestà. Oltre a
ciò, va detto che Asquith era stato uno dei registi del tempo di guerra, dei tempi durissimi ma
entusiasmanti dello sforzo bellico in funzione antitedesca. In questo senso, si può dire che, insieme agli altri colleghi del periodo, anch'egli sia rimasto vittima di una sorta di riflusso postbellico,
consistito nell'adozione di copioni teatrali, da adattare al grande schermo.
Se quest'ultimo aspetto può far storcere il naso ai critici cinematografici d'assalto (o che comunque badano più al contenuto che alla forma) e ai giovani registi delle diverse avanguardie, è necessario, alla fine, guardare i film e dare un giudizio su di essi.
Addio Mr. Harris porta il segno dell'autore del dramma originario (La versione di Browning), Terence Rattigan, e del regista: del primo dal punto di vista concettuale e del secondo da quello formale.
Asquith ha saputo organizzare uno spettacolo rigoroso, intelligente ed efficace, stando addosso
ai personaggi principali e non facendo pesare l'origine teatrale del film. Di questo, però, non si
può e non si deve sottovalutare l'aspetto di critica sociale, che emerge ben prima della finale autocritica espressa a chiare lettere dal vecchio "Crock". Una delle cose più scandalose è l'ipocrisia
della stessa istituzione scolastica, incarnata da un preside perbenista, che resta a dare continuità a
un metodo del quale uno dei suoi presunti rappresentanti, il professor Crocker-Harris del titolo
italiano, prendendo coscienza dei propri errori, ha denunciato tutta la vacuità e la disumanità.
Pagina 5
Agente Lemmy Caution, missione Alphaville
Un film di Jean-Luc Godard. Con Eddie Constantine, Akim Tamiroff, Anna Karina, Jean-Pierre Léaud,
Howard Vernon.
Titolo originale Alphaville, une étrange aventure de
Lemmy Caution.
Fantastico, b/n durata 100 min. - Francia, Italia
1965.
Inviato nel futuro, l'agente segreto Lemmy Caution
(Eddie Constantine) si aggira per Alphaville, città/
pianeta, sulla sua Ford Galaxie, automobile/astronave.
La sua missione: ritrovare e forse "liquidare" il professor
Von Braun (Howard Vernon).
Dapprima Caution si imbatte in Henri Dickson (Akim Tamiroff), ex-agente divenuto un
cittadino di Alphaville e nella figlia di uno scienziato pazzo, Natasha (Anna Karina), che
non ha mai sentito parlare di "amore" o "coscienza".
Alphaville è governata da un gracchiante supercomputer che ha dichiarato le emozioni
delitti capitali, e procede a continue e cerimoniose esecuzioni di massa in una strana
piscina. L'eroico Caution, naturalmente, distruggerà il computer (sottoponendogli
delle poesie) e sedurrà involontariamente la fragile Natasha, risvegliando le sue emozioni sopite.
Jean-Luc Godard, fulcro energetico della Nouvelle Vague, si dedica a un film di fantascienza, senza grandi spese in scenografie o effetti speciali. Con una sapiente scelta di esterni
parigini, Godard rintraccia segni di un futuro totalitario nelle hall degli alberghi avveniristici, nelle insegne al neon, nei palazzi di uffici, nelle sale d'attesa della burocrazia.
L'approccio di Alphaville alla fantascienza è inizialmente parodistico, come anche l'affettuoso uso di impermeabili e armi spianate prese in prestito dai film in stile pulp prodotti
in America e in Francia (Constantine aveva già interpretato la parte di Caution, il
"duro" alla Mike Hammer nella serie tratta dai libri di Peter Cheney).
Tuttavia, considerata l'epoca di produzione, il film ha acquisito il sapore di un vero e
proprio classico del genere, avendo peraltro ispirato altri adattamenti fantascientifici
(Fahrenheit 451 , 1966, di Francois Truffaut, tratto da Ray Bradbury, e Blade Runner, 1982, di
Ridley Scott, da Philip K. Dick).
Come molti film di Godard, Alphaville perde deliberatamente di vista la trama dopo
un'ora. I due protagonisti discutono a lungo in una stanza d'albergo e, come in Fino
all'ultimo respiro (1960) e Il disprezzo (1963), questa conversazione informale – in cui Caution
risveglia Natasha dalla sua condizione di apatia – non è un punto morto, ma piuttosto
uno dei momenti culminanti: le scene di dialogo in Godard sono degne del grande Joseph L. Mankiewicz.
Pagina 6
Amami stanotte
Un film di Rouben Mamoulian. Con Charles Ruggles, Charles Butterworth, Myrna Loy, Maurice
Chevalier.
Titolo originale Love Me Tonight.
Commedia musicale, b/n durata 104 min. - USA
1932.
Come molti dei migliori film tristemente sottovalutati di Mamoulian, l'aspetto più felice di questa magistrale variazione sul musical tradizionale è il modo in cui
il regista ridimensiona, attraverso un'idiosincratica
combinazione di humour irriverente e innovazione tecnica, la tradizione del genere.
Qui contribuisce a superare i traguardi dei grandi maestri della forma - Ernst Lubitsch e
René Clair in primo luogo - senza alcuno sforzo apparente: Mamoulian fa sembrare
la scena del tutto naturale, priva di tensioni, e in un certo senso perfetta.
Gran parte del merito della riuscita di questo film va alle canzoni sensibili e orecchiabili
di Richard Rodgers e Lorenz Hart, ma è la coesistenza di divertimento sofisticato e mai
forzato e di inventiva cinematografica a rivelare il tocco di Mamoulian, ben più leggero di quello della maggioranza dei film di Lubitsch.
Jeannette MacDonald e Maurice Chevalier devono essere menzionati per aver interpretato i loro ruoli romantici - rispettivamente la principessa altezzosa ma annoiata (e, sia
detto, sessualmente frustrata) rinchiusa in un castello cadente, e il sarto ("il migliore di
Parigi") abbastanza ammaliato da lei da dimenticare il suo status sociale - con coinvolgimento emotivo e una seducente e delicata ironia parodica.
Anche il resto del cast è eccellente: Myrna Loy, Charles Ruggles, Charles Butterworth e
l'inimitabile Sir. C. Aubrey Smith (gli ultimi tre straordinari quanto improbabili negli
assoli della canzone "Mimi") sono solo i più memorabili. La cosa che colpisce di più
in Amami stanotte è come musica, danza, dialoghi, recitazione, scene, luci, inquadratura,
montaggio ed effetti speciali siano combinati per creare un convincente tutt'uno comico-drammatico in cui ogni elemento è a servizio della narrazione e dei personaggi.
La sequenza di Isn't It Romantic?, per esempio, che inizia a Parigi con Chevalier, continua
a proporre la medesima canzone attraverso personaggi minori (incluso, a un certo punto, un intero plotone di soldati!) per giungere finalmente alla solitaria stanza della MacDonald - primo collegamento tra i futuri amanti che si devono ancora incontrare - è di
grande effetto, così come l'inseguimento finale in crescendo.
Un capolavoro e un esempio molto imitato del cinema di intrattenimento.
Pagina 7
American Sniper
Un film di Clint Eastwood. Con Bradley Cooper, Sienna Miller, Jake McDorman, Luke Grimes, Navid
Negahban.
Azione, durata 134 min. - USA 2015.
Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio,
ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti,
fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal,
Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l'abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è
nato 'pastore di gregge', votato alla tutela dei più deboli contro
i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l'Iraq e diventa in
sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda
le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.
Come il proiettile di un tiratore scelto, "il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in
faccia ad ogni angolo di strada", diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American
Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell'ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell'evento o a funzionare
qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha
anticipato, addestrato e maturato, quello di David O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog
(Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), di Brian De
Palma (Redacted), di Kathryn Bigelow (The Hurt Locker).
Girati prima e dopo l'undici settembre, frattura storica, categoria dell'immaginario e spartiacque
per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale
di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi deglispettatori.
Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell'orrore che si ritrova ad abitare, American Sniper sale
sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l'idiozia della guerra
con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più
che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell'incoerenza attraverso un personaggio che
in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di
fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le
spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un
militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio,
che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Pagina 8
Amore folle
Un film di Karl Freund. Con Colin Clive, Peter
Lorre, Frances Drake, Ted Healy, Edgar Brophy.
Titolo originale Mad Love.
Horror, b/n durata 70 min. - USA 1935.
Il dottor Gogol (Peter Lorre) trapianta le mani di un assassino sui polsi mozzati del pianista Orlac (Colin Clive), vittima di uno spaventoso incidente ferroviario. L'operazione,
coronata dal successo, nasconde, in realtà, il diabolico piano
che il chirurgo ha ordito per possedere Yvonne (Frances
Drake), moglie di Orlac e stella di uno spettacolo di Grand
Guignol, della quale si è perdutamente innamorato. Vestendo i panni del "donatore" e celando le mani sotto una scintillante protesi metallica, Gogol si finge un fantasma vendicatore e perseguita Orlac nell'intento
di condurlo alla pazzia. Al tempo stesso, ubbidendo ad una sua folle filosofia di vita che impone
di uccidere chi si ama, sadicamente riversa tutta la sua sinistra influenza sulla donna, avvinghiandola a sé in un rapporto di amore e di morte.
Fantamedicina e horror si combinano felicemente in questo film che segna il memorabile esordio americano di Peter Lorre e che vede alla regia il prestigioso operatore Karl Freund.
Ispirata liberamente al romanzo Les mains d'Orlac di Maurice Renard, la sceneggiatura centra la
vicenda sul personaggio di Gogol tratteggiandolo come uomo sessualmente represso, la cui fantasia morbosa si accende alle performance della regina del Théâtre des Horreurs. Secondo molti
autorevoli studiosi, il lavoro di Gregg Toland riveste notevole interesse in prospettiva di analoghe soluzioni stilistiche adottate nel 1941 in Citizen Kane.
Pagina 9
Angoscia
Un film di George Cukor. Con Charles Boyer, Joseph Cotten, Terry Moore, Angela Lansbury,
Ingrid Bergman.
Titolo originale Gaslight.
Drammatico, b/n durata 114 min. - USA 1944.
Questa versione hollywoodiana di George Cukor di una
celebre storia gotica inglese (la commedia Angel Street
di Patrick Hamilton) è dominata da un'atmosfera spaventosa e claustrofobica, e ha una trama che tiene davvero sulle spine.
Paula Alquist (Ingrid Bergman) ha sposato Gregory
Anton (Charles Boyer), bello ma stranamente possessivo, apparentemente più interessato
alla casa londinese di Paula che a lei. Mentre di notte rovista sistematicamente la casa,
Anton fa di tutto per convincere la protagonista che i rumori sono frutto della sua immaginazione e dunque della sua progressiva pazzia. Il suo obiettivo è averla completamente in suo potere per setacciare meglio la casa, per motivi legati al suo passato e a
gioielli di valore inestimabile. Il piano di Anton, però, viene scoperto da Brian Cameron (Joseph Cotten), che, innamoratosi della povera Paula, interviene quando ormai la
situazione si è fatta disperata.
Se la trama di Angoscia è alquanto debole, Cukor riesce a ottenere interpretazioni brillanti come quella dell'esordiente Angela Lansbury nel ruolo della cameriera impertinente
che, come tutto e tutti nella casa, sembra complottare contro la sua signora.
Col suo richiamo alla persecuzione e alla paranoia, Angoscia si inserisce a pieno titolo tra i
capolavori del filone noir, così in voga nel cinema hollywoodiano dell'epoca.
Pagina 10
Anna Karenina
Un film di Clarence Brown. Con Greta Garbo,
Fredric March, Basil Rathbone, Freddie Bartholomew, Maureen O'Sullivan.
Drammatico, b/n durata 95 min. - USA 1935.
Tratto da famoso romanzo di Leone Tolstoj, questo film
narra la storia del grande amore della moglie di un funzionario di stato russo per un ufficiale dell'esercito. I due amanti fuggono assieme, ma Anna sente il bisogno di rivedere il proprio figlio.
Tornata a casa viene scacciata dal marito.
L'ufficiale parte per la guerra e la donna si uccide.
Greta Garbo interpretò lo stesso soggetto nel film Love diretto nel 1927 in versione muta da Edmund Goulding con John Gilbert nel ruolo di Vronsky, l'ufficiale. Nonostante la Karenina sia
una delle eroine più "tradotte" in cinema o in televisione o in teatro, l'immagine che prende forma nella memoria dello spettatore è indubitabilmente questa della Garbo.
Tra le tante versioni che hanno rappresentato Anna Karenina al cinema, arriviamo alla prima
dell’elenco che vede la Divina in persona, Greta Garbo nelle vesti della protagonista. Difficile
pensare ad un’attrice più azzeccata per fascino, fama ed età.
Anima del testo s’intende, che la grande attrice andava ad interpretare.
I suoi occhi parlano ed ascoltano, giocano con l’apparenza senza celare la verità interiore che
soltanto chi non sa vedere puo’ ignorare.
La Karenina è una donna che vive di passioni ma al contrario di altre eroine invero più tragiche
e a volte ridicole come Madame Bovary, ella ha piena coscienza di ciò che si appresta a fare per
quanto alla fine, la mente soccomberà innanzi le pressioni esterne di una società ipocrita ma imbattibile ed interne quando la coscienza continua a legarla ai doveri nei confronti del figlio e del
marito che sa di aver amato e che soffre, a modo suo, per lei.
In fondo non scrivo nulla di nuovo ma è importante evidenziare quanto il carattere dell’intero
film dipenda dalla sua protagonista ed in ciò la trasposizione del 1935 rispecchia quanto di meglio si possa ottenere, malgrado in senso stretto, non sia la migliore traduzione del testo.
Basti vedere il folkloristico inizio dove i russi sono rappresentati tra bagordi e canti con una
punta di esotico ridicolo, quasi un cappello a dichiarare che si sta parlando di gente molto, molto
diversa da chi guarda.
Pagina 11
Aria di Parigi
Un film di Marcel Carné. Con Jean Gabin, Arletty,
Folco Lulli, Maria Pia Casilio.
Titolo originale L'air de Paris.
Commedia, b/n durata 110 min. - Francia, Italia
1954.
Nella palestra del vecchio pugile Le Garrec arriva Dedé, giovane operaio. È una promessa e Le Garrec ci conta molto.
Dedé comincia bene, ma dopo un po' si trova a dover decidere tra la carriera sportiva e il suo amore per la giovane Corinne.
Un po' feuilleton, una canzone di Montand e Jean Gabin
(premiato a Venezia): insomma un bel film d'ambiente, solido come i pugni dei suoi protagonisti.
Il film si regge su Gabin e Arletty: quando alla ribalta non ci sono loro, tutto si affloscia. Importante l'ambientazione, nei primi anni '50 si faceva ancora la fame, anche in paesi importanti come la Francia, e il "verista" Carnè l'ha giustamente sottolineato in questo film che ha i suoi pregi
proprio nel suo carattere popolare, nella descrizione di questo mondo di semi-emarginati che ha
poco a che vedere con la classica Parigi dei grandi boulevardes.
Pagina 12
L’aria salata
Un film di Alessandro Angelini. Con Giorgio Pasotti,
Giorgio Colangeli, Michela Cescon, Katy Louise
Saunders, Sergio Solli.
Drammatico, durata 85 min. - Italia 2006.
Fabio lavora in carcere come educatore. Fronteggia ogni giorno, con le sue belle maniere, i volti segnati e gli scatti d'ira dei
detenuti che vanno a colloquio da lui e s'impegna per far loro
trovare la strada giusta, che conduca a un permesso o a uno
sconto di pena.
Un giorno, un collega gli affida il caso di un tizio che è appena
stato trasferito da un altro penitenziario: Luigi Sparti, assassino, dietro le sbarre da venti calendari.
Quello che né il collega né il carcerato sanno è che Sparti (Colangeli) è il padre di Fabio
(Pasotti), sparito da decenni nel nulla per scontare la pena, mentre la sua famiglia, fuori, si ritrovava ugualmente condannata a una vita segnata dal suo gesto.
Nonostante la sorella Cristina si opponga all'idea di cercare il contatto con quell'uomo, Fabio
vuole un padre, per colmare il vuoto del passato ora che si affaccia sulla soglia di una vita adulta
e Sparti desidera un figlio, perché questo è il suo modo di immaginare un futuro. Quello che si
chiedono a vicenda supera apparentemente le loro forze, perché il vecchio non è un modello
d'uomo ma un amaro prodotto del carcere, e il figlio non è pronto ad accettarlo. Però nel momento in cui ci proveranno avranno già vinto, anche se quell'aria salata, che si respira in testa e
in coda, suggerisce una circolarità di contenuto che non lascia scampo.
Disperato, mai eccessivo, scritto con una semplicità che è raffinato risultato, L'aria salata di Alessandro Angelini è un quadrifoglio autentico in un prato artificiale di copioni redatti in serie per
cercare di soddisfare i produttori italiani sempre a caccia di commedie adolescenziali che replichino lo schema di quelle già viste.
Il regista viene dal documentario e sa come non edulcorare la realtà per farla arrivare ai nostri
occhi carica di cruda umanità; ottimo Giorgio Pasotti, in equilibrio con sentimento su registri
diversi, dall'offeso all'arreso all'emozionato; superbo Giorgio Colangeli, fra i migliori interpreti
italiani in circolazione.
Unica debolezza, la figura un po' indistinta di Emma, la fidanzata di Fabio, impersonata da Katy
Saunders.
D'altronde la ribalta è tutta del confronto padre-figlio, ed è giusto così.
Pagina 13
L’arte della guerra
Un film di Christian Duguay. Con Anne Archer,
Donald Sutherland, Wesley Snipes, Maury Chaykin,
Marie Matiko.
Titolo originale The Art of War.
Giallo, durata 117 min. - USA 2000.
Neil Shaw è un agente americano che ha il compito di scoprire e mandare a monte un complotto internazionale che ha,
come scopo, quello di distruggere le Nazioni Unite alla vigilia
dello storico vertice con la Cina. L'omicidio di alcuni rifugiati
politici cinesi di cui Shaw è incolpato lo costringe a darsi alla
clandestinità.
Ottimo film di spionaggio molto indirizzato verso l'action marziale tipo Seagal-Van Damme con
un po' di cura in più nello sviluppo della trama. La pellicola ha tra i suoi punti di forza anche il
protagonista Wesley Snipes in grande forma fisica che si sottopone a diverse ottime scene d' azione e offre una recitazione parecchio carismatica. Oltre a questo il film è sicuramente riuscito
per il genere: trama ben costruita, ritmo serrato, azione costante e anche qualche buon momento di arti marziali, inoltre il finale risulta indovinato. Non sarà il massimo dal punto di vista dell'
intreccio spionistico ma sicuramente è molto godibile. Ha avuto anche due sequel tardivi, il primo sempre con Snipes e il secondo con un altro attore sempre buoni ma meno interessanti.
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As You Like It (Come vi piace)
Un film di Kenneth Branagh. Con Romola Garai,
Bryce Dallas Howard, Kevin Kline, Adrian Lester,
Janet McTeer.
Titolo originale As You Like It.
Commedia, durata 127 min. - USA, Gran Bretagna
2006.
Dopo aver esiliato il legittimo regnante, suo fratello, il duca
Federico bandisce da corte anche la nipote Rosalinda, che s'inoltra nella foresta di Arden, sulle tracce del padre e dei suoi
fedeli. La scortano la cugina affezionata, Celia, e il buffone di
corte. Nel bosco, intanto, ha trovato rifugio anche il suo innamorato Orlando, in fuga dall'odio che gli riserva il fratello minore. Travestita da ragazzo per prudenza, Rosalinda, sotto il falso nome di Ganimede, ha così
l'opportunità di mettere alla prova l'amore di Orlando, scatenando equivoci brillanti e romantiche reazioni a catena.
Kenneth Branagh, che si è da tempo prefisso la missione di far rivivere l'opera Shakespeare con
i mezzi della cinematografia nella probabile convinzione che questa rappresenti il suo luogo naturale, con As You Like It (Come Vi Piace) si confronta con una commedia di ambientazione bucolica, un balletto di personaggi sul tema dell'amore romantico e, in particolare, della coppia.
Spostando l'azione dalla Francia del Seicento al Giappone dell'Ottocento, Branagh ottiene un
risultato visivo superbo, che perfeziona colorando anche i protagonisti, chi color dell'Africa e
chi d'Oriente. Come in un dipinto ispirato all'Arcadia, ogni cosa è elegante, armonica, musicale.
Sfortunatamente, ad un incipit folgorante e dinamico, segue uno sviluppo meno ritmato, quasi
esclusivamente affidato alla garanzia del dialogo.
Pièce di difficile trasposizione, concepita su commissione (as you like it) e meno ispirata di altre,
ha dato comunque vita ad una delle parti femminili più ambite, quella di Rosalinda/Ganimede,
che il regista consegna, con la miglior intuizione, all'ottima Bryce Dallas Howard, rivelandone il
coté brillante, che fino ad ora ci ha tenuto nascosto. Il viaggio nel regno del cinema, non giova,
invece, altrettanto ai personaggi di Jacques e del clown, nonostante Kevin Kline e Alfred Molina
facciano del loro meglio per conferire personalità a due figure molto "scritte", portatrici di idee
più che di azione.
L'epilogo, che segue Rosalinda fino alla roulotte sede del suo camerino, tra cineprese e uomini
della troupe, mette in scena uno dei versi più noti della commedia, secondo cui tutto il mondo è
teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori, nel grande spettacolo della vita.
Pagina 15
Assassini nati - Natural Born Killers
Un film di Oliver Stone. Con Woody Harrelson, Juliette
Lewis, Tom Sizemore, Rodney Dangerfield, Everett
Quinton.
Titolo originale Natural Born Killers.
Drammatico, durata 120 min. - USA 1994
Tratto dal soggetto di Quentin Tarantino, il quale ha poi polemizzato, per via dell'arbitraria sceneggiatura, con Stone.
Due giovani, un ragazzo e una ragazza, seminano il panico e la
morte. Sono serial killer senza scrupoli e senza una vera e propria
ragione. Imprigionati dopo il 54° omicidio, diventano divi della televisione e riusciranno a fuggire.
Divertente la parodia della situation commedy per mostrare l'infanzia della protagonista e l'incontro
tra i due futuri assassini. Il regista dice di essersi ispirato ad Arancia meccanica per la scelta grottesca ma il debito maggiore lo ha con Cuore selvaggo di Lynch. Ciò detto, il film è comunque il migliore che Stone abbia fatto da anni perché smuove lo spettatore, alimenta la discussione, cerca
strade nuove passando da altre già segnate. Sceglie l'iperrealismo rispetto a film dello stesso genere come Henry - Pioggia di sangue e Il cameraman e l'assassino. Fa una denuncia, forse un tantino
retorica, nei confronti dei mass-media. Incarna la violenza spettacolo per far sì che il serpente si
morda la coda. Mischia fumetti a formati di pellicola diversi in maniera suggestiva. Fa dei chiari
riferimenti alla cronaca attuale senza fare del documentarismo. Per contro, necessita di una grande maturità da parte dello spettatore. Soprattutto perché nello spettacolo caleidoscopico, che
scorre come sulle montagne russe, non c'è il tempo per i più giovani di prendere le distanze dai
protagonisti.
La musica è quanto mai varia, spaziando dalle atmosfere di Peter Gabriel al rock di Patti Smith,
a Puccini (come già aveva fatto Kubrick), fino alla voce demoniaca di Diamanda Galas.
Deprecabile il divieto ai minori di 14 anni, anziché di 18.
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L’assassino
Un film di Elio Petri. Con Andrea Checchi, Marcello Mastroianni, Salvo Randone, Micheline Presle, Loris Bazzocchi.
Drammatico, b/n durata 105 min. - Italia, Francia 1961.
L'antiquario Alfredo Martelli viene fermato dalla polizia
con l'accusa di aver ucciso una sua ex amante per motivi di
denaro. La permanenza negli uffici della polizia fa riflettere
Alfredo su alcuni episodi poco puliti della sua vita, e affiora
il senso di colpa.
Poi il vero omicida viene scoperto: Alfredo, rilasciato, finisce per dimenticare l'angoscia di quelle ore e ritorna alla vita
di sempre.
Anche l'innocenza puo' apparire "colpevole",colpevole di cinismo, meschineria e bieco arrivismo.
L'assassino oltre all'allegoria d'un umanità figlia del "boom" economico è l'esordio registico di
Elio Petri. Personalità multiforme e poliedrica,difficilmente assimilabile nella sola categoria dei
"cineasti", da militante radicale e antiautoritario il trentaduenne Petri inscena qui una parabola
umana con più chiavi di lettura.
Noir americano costruito sui binari del "presente passato",un sontuoso meccanismo a
"flashback" che risponde alla vicenda umana di Alfredo Martelli (un ottimo Mastroianni) cinico
e arrivista antiquario della provincia romana. Il Martelli è un giovane senza scrupoli, non esitante
nel cieco egoismo, ma sopratutto rappresenta la modernità del "nuovo italiano", arrampicatore
sociale e truffaldino nella professione,quanto incongruente nel sentimentalismo che passa ovviamente dal meschino interesse personale.
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Asterix e Cleopatra
Un film di René Goscinny, Albert Uderzo, Lee Payant.
Titolo originale Astérix et Cléopâtre.
Animazione, b/n durata 73 min. - Francia 1970.
È il secondo film, dopo Asterix il gallico, tratto dal personaggio
dei fumetti di René Goscinny e Albert Uderzo.
Con un'animazione classica e tradizionale alla Walt Disney
prima maniera, racconta una sfida fra Cesare e Cleopatra in
cui restano coinvolti i guerrieri gallici di Asterix: Cleopatra ha
scommesso che riuscirà a fare costruire un palazzo in tre mesi
dal suo architetto Numerabix, e ce la farà grazie ad Asterix.
"Se hai paura d'ingrassare, fai a meno di mangiare"... canta Asterix ad Obelix durante una scena... che
dire... un altro film d'animazione francese molto carino che s'ispira al fumetto di Asterix. Il ritmo è buono, l'atmosfera è vivace ed ironica come sempre, ma anche ricca di avventura e di un
pizzichino di suspence. Questa volta, a far da padroni nella trama ci sono egiziani, piramidi, pirati, complottatori ed uno sfortunato ed incapace architetto (qui da noi doppiato attraverso l'uso
di un indovinato accento siculo) che viene ricattato da Cleopatra che sta avendo alcuni conflitti
con Giulio Cesare, ma come al solito, Asterix ed Obelix saranno chiamati ad intervenire
per risolvere ogni cosa.
La storyline dunque è interessante e ben sviluppata, i personaggi simpaticamente caratterizzati
(anche quelli cattivi ed in particolar modo risulta accattivante 00-Settete) la grafica e lo stile
dei disegni sono affascinanti nella loro imperfezione, la colonna sonora è irresistibile e trascinante, ricca di pezzi simpatici ed il divertimento è più che assicurato.
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Asterix e le dodici fatiche
Un film di René Goscinny, Albert Uderzo.
Titolo originale Le douze travaux d’Asterix.
Animazione, durata 79 min. - Francia 1976
Giulio Cesare sfida i suoi tradizionali avversari Galli a superare dodici temibili fatiche, quasi come fossero dei nuovi Ercoli. Asterix e l'inseparabile Obelix vengono designati dal
villaggio a raccogliere la sfida e, naturalmente, superano brillantemente ogni ostacolo.
Le trovate divertenti si sprecano, partendo dalla mono ipertrofia del braccio del campione di giavellotto persiano fino
allo scontro con il piccolo goto judoka, passando per la temibile prova dell’isola del piacere, ove
i nostri eroi devono resistere alle màlie di bellissime sacerdotesse danzanti purtroppo rigorosamente vegetariane, per disgrazia e disappunto di Obelix. Probabilmente neanche Eracle avrebbe
superato la prova del non solo pantagruelico ma anche gargantuesco banchetto preparato da
Mannekenpix, il famigerato “cuoco dei giganti”. Fino ad arrivare all’idea più geniale della pellicola, la prova della “Casa che rende folli”: mai rappresentazione del moloch burocratico che affligge la vita di ogni (povero) cittadino perso tra orari d’ufficio impossibili (esperienza personale, mi
capitò tempo fa un ufficio comunale accessibile al pubblico solamente il martedì dalla 09,30 alle
10,30), addetti scansafatiche, porte chiuse e capiufficio goduriosi cullati dalle loro piacenti segretarie, è stata rappresentata in maniera più divertente.
Fatiche sovrumane sempre introdotte dalla flemma e dalla vocina àtona dell’onestissimo arbitro
Caius Pupus e contrappuntate da battute a volte folgoranti. La staticità del tratto e alcune pecche
(il fiacco finale), oltre alla palese anti-modernità del tutto, probabilmente renderebbero indigeribile la visione al pubblico giovanile moderno, al quale però mi permetto di suggerire che “non è
l’abito che fa il druido” e di riportare un ammonimento comportamentale dato nientemeno che
dall’augusto imperatore romano: “Bruto, smettila di giocare con il coltello, finirai per ferire qualcuno !”.
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L’autunno della famiglia Kohayagawa
Un film di Yasujiro Ozu. Con Ganjiro Nakamura, Setsuko Hara, Yoko Tsukasa
Titolo originale Kohayakawan no Aki.
Drammatico, durata 103 min. - Giappone 1961.
Manbei Kohayagawa, anziano vedovo e padre di tre figlie, è
proprietario di una birreria di Kyoto che gestisce insieme al
marito della figlia Fumiko. Akiko e Nuriko, le altre due figlie,
vivono invece a Osaka e, mentre Akiko è vedova, ha un figlio
e dà una mano in una galleria d'arte, Noriko è nubile e lavora
come impiegata. Oltre a preoccuparsi di trovare marito per le
due figlie sole, Manbei continua a vedere anche Sasaki, una
donna di Osaka che frequentava anche quando sua moglie era
in vita.
La vita fugge via con estrema, eccessiva semplicità. Il ricorrere continuo di stagioni e periodi
della giornata nei titoli di Yasujiro Ozu sottolineano con eccezionale parsimonia questa naturalità con cui fluiscono pensieri, parole, azioni e persone, e non negano certo l'imprevedibile e il
nostalgico, ma li conglomerano in una dimensione filmica che appartiene a un altro universo, e
che lo spettatore occidentale accoglie come semplice e candida, serena, rassegnazione - anche se
al loro interno celano tanta complessità culturale che meriterebbero uno studio specializzato.
La natura fa sempre il suo corso, dice la coltivatrice alla fine del film, in quel breve sipario in cui fa la
sua apparizione il feticcio Chishu Ryu a pronunciare il senso ultimo del film e del cinema di Ozu, la contemplazione mai invadente dei sentimenti umani e la loro messa in scena senza pretese
maggiori di quelle esplicitamente rappresentate. Se la natura procede con il suo alternarsi e continuo sostituirsi, con l'accavallarsi quieto e leggero delle stagioni, dei climi, delle generazioni
(l'immagine delle luci cittadine con su scritto New Japan si rivede più volte a sottolineare il perenne senso di placida trasformazione), allora è certo uno dei tanti eventi umani (sempre emblematici, sempre importanti) quello - semplicissimo - che contraddistingue la famiglia Kohayagawa
del titolo, quella che sta per attraversare un periodo autunnale a causa del preannunciarsi della
vecchiaia e della morte. Il padre, Manbei, proprietario principale dell'azienda di famiglia, rimasto
vedovo per molto tempo, cerca di organizzare il nuovo matrimonio della nuora rimasta vedova
del figlio, e della figlia minore, innamorata intanto di un altro uomo trasferitosi in una località
lontana e difficilmente raggiungibile. Il riavvicinamento di Manbei a una sua vecchia fiamma da
cui - forse - ha avuto una figlia - al momento dei fatti raccontati ventunenne - non solo scatena
l'irritazione di una delle figlie, ma genera la curiosità di moltissime altre persone, nonché la paura
che simile comportamento possa in qualche modo incidere sull'onore della famiglia.
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Avanti c’è posto!
Un film di Mario Bonnard. Con Adriana Benetti, Aldo Fabrizi, Andrea Checchi, Carlo Micheluzzi, Virgilio Riento.
Commedia, b/n durata 88 min. - Italia 1942.
La povera cameriera Rosella viene derubata durante un tragitto in filobus dei soldi della pigione appena ricevuti dai padroni di casa, i quali non ritenendola più affidabile la mandano
via. La ragazza viene aiutata dal bigliettaio romano Cesare,
che dopo averla accompagnata al commissariato per denunciare il furto cerca di trovarle un altro posto come donna di
servizio. Ben presto l'uomo se ne innamora e Rosella lo ricambia con l'affetto di una figlia; ma quando lei conosce Bruno, conducente di filobus e amico del bigliettaio, Cesare si rende conto di non essere destinato
all'amore di Rosella e non gli rimane che combinare un ultimo incontro tra i due giovani prima
che Bruno venga richiamato al fronte.
« Amo Fabrizi e sono col popolo, con l'autentico popolo che applaude nei teatri rionali. [..] Mi
diverte, mi sembra genuino e arguto, mi convince più di tanti filosofi. [..] E ora parliamo del suo
primo film. [..] La vicenda di Avanti c'è posto! è carina. Questa volta vivaddio, non siamo tra avventurieri e principesse. Siamo tra gente povera e onesta, inoltre il film è il primo omaggio affettuoso al fattorino dell'autobus, campione della vita moderna, che merita di essere cantato in ottava rima, come Pulci cantava l'Argante... » Diego Calcagno in Film del 19 settembre 1942.
«Una commediola senza molte pretese e senza troppe finezze: che però ci rivela un nuovo attore, fin d'ora assai notevole. Fra i vari tentativi di acclimatare elementi della rivista e del varietà
nei nostri studi cinematografici, questo che ha il suo nome da Aldo Fabrizi, il noto comico romano, mi pare dei più promettenti e forse il più solido. Di solito, quei comici, quegli attori, posti
dinnanzi all'obbiettivo, o esasperano o sono costretti a esasperare la loro solita maniera, con tutte le conseguenze che ben conosciamo. Fabrizi, invece, dinnanzi all'obbiettivo mette ancora più
in luce quella vena umana che si nasconde nella sua comicità; e vi riesce con una misura e una
sobria efficacia assai lodevoli. C'è, dietro a questa maschera di bonario can mastino, un uomo; il
quale ha soltanto bisogno di essere aiutato da sceneggiatori e registi per in breve diventare un
ottimo attore. Già fin d'ora è lui a sorreggere il filmetto, che è piacevole di trovatine, divertente,
di battute, e patetico poi quando occorre.» Mario Gromo sulle pagine de La Stampa.
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Le avventure acquatiche di Steve Zissou
Un film di Wes Anderson. Con Owen Wilson, Bill
Murray, Cate Blanchett, Anjelica Huston, Willem Dafoe.
Titolo originale The life aquatic with Steve Zissou.
Comico, durata 118 min. - USA 2004.
Chi ha amato I Tenenbaum, impazzirà per Acquatici Lunatici.
Anderson ripropone lo stesso umorismo demenzialintellettuale, la stessa moda colorata anni settanta (qui i costumi
sono della genovese Milena Canonero), lo stesso folle gruppo (ieri una famiglia, oggi una troupe)
alle prese con avventure incredibili. Fra gli attori ricompaiono Bill Murray e Owen Wilson.
La novità è la trama compatta, quasi totalmente ambientata in ambiente "acquatico": Steve Zissou è un ricercatore-regista di documentari marini (figura ispirata a Jacques Cousteau) che dal
giorno in cui il suo migliore amico viene divorato da uno squalo giaguaro, ingaggia una spedizione per dare la caccia all'animale. I compagni di viaggio di Murray sono la moglie (Angelica Huston), il figlio (Wilson), una giornalista incinta (Cate Blanchett), la ciurma (fra cui Willelm Dafoe
e Jeff Goldblum) e un bestiario di animaletti fantastici (un cavalluccio marino multicolore, granchi zebrati, meduse luminescenti, ecc.).
Chi invece non sopporta quel certo tocco snob del giovane regista americano, lasci perdere!
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Berlino: opzione zero
Un film di Leo Penn. Con Sean Penn, Martin Sheen,
Sam Wanamaker
Titolo originale Judgement in Berlin.
Drammatico, durata 92 min. - USA 1988.
Nel 1978, Helmut Palmer fugge dallla Germania Orientale
dirottando un aereo di linea polacco. Il giudice americano
Stern è chiamato alla base Nato di Berlino per giudicare lui e
Sigrid, anch'essa rifugiata con la figlioletta Marina, e accusata
di complicità nel dirottamento. Contro le pressioni politicodiplomatiche, Stern appura l'innocenza della donna e ottiene
un processo giusto e regolare per Palmer.
Il meccanismo filmico echeggia abilmente alcuni classici del genere, come Vincitori e vinti, ed è
reso appassionante dalla figura del magistrato votato alla giustizia contro ogni maneggio e ambiguità, ben disegnata da Sheen.
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Big Bang Love, Juvenile A
Un film di Takashi Miike. Con Ryuhei Matsuda, Masanobu Ando, Ryo Ishibashi, Renji Ishibashi, Kenichi Endo
Titolo originale 46 oku nen no koi.
Drammatico, durata 85 min. - Giappone 2005.
Il giovane Jun Ariyoshi viene arrestato per aver ucciso un
uomo durante una rissa nel bar gay dove lavorava. Quel giorno a entrare nel buio della prigione non è solo, il caso o il
destino vogliono che varchi la stessa soglia anche Shiro Kazuki e che i due si conoscano prima e più di tutti gli altri.
Shiro ha carisma e un fascino magnetico, doti che combina
con un talento per la violenza e che lo portano velocemente
in cima alla gerarchia carceraria. Ma un giorno una guardia lo trova a terra privo di vita e tutto
lascia credere che il suo assassino sia il suo unico amico, Ariyoshi.
A porre la sua firma su 46 Oku Nen No Koi (Big Bang Love, Juvenile A), pellicola suggestiva e meritoria, è Miike Takashi, classe 1960, maestro dell'horror d'azione e della vertigine psicologica.
Spiazzante e inventivo sul piano formale, Miike è fedele a se stesso nei temi, indagando di preferenza la questione della ricerca della propria identità in personaggi spesso orfani di tradizioni e
cultura. Questo film non fa eccezione, visto che la domanda che muove e guida le azioni di Jun
è proprio: che uomo voglio diventare? L'autore mette in scena la gioventù, l'unica generazione
che pare interessarlo, e la osserva con grande partecipazione e passione, attitudini che trovano
espressione sullo schermo in immagini violente e oniriche e scelte cromatiche vigorose.
Nel carcere dove le celle sono distribuite come la facce di un diamante, i detective esplorano gli
ambienti e interrogano i presenti in cerca del colpevole dell'omicidio. Ma chi non avrebbe voluto
uccidere quel killer feroce e bellissimo? Ognuno sembra possedere il suo buon motivo. Su ogni
faccia del prisma compare dunque un'ipotesi che viene smentita dalla faccia successiva, mentre
parallelamente, nel montaggio, le inquadrature dialogano fra loro, ripetendosi e acquistando
nuovi significati a seconda della posizione in cui compaiono.
Tra il carcere claustrofobico e un esterno metafisico e inarrivabile in cui un missile è pronto a
portare nello spazio chi non è fatto per il paradiso, si combatte, per Jun e Shiro, una lotta tutta
mentale tra identità e spersonalizzazione. Alla fine, nella rete delle ipotesi, tra un ribaltamento di
prospettiva e un altro, dare l'amore e dare la morte possono arrivare ad assumere uno stesso significato, quello di dare la (nuova) vita.
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Bird
Un film di Clint Eastwood. Con Forest Whitaker,
Diane Venora, Samuel Bottoms, Sam Robards.
Drammatico, durata 163 min. - USA 1988.
Charlie Parker, il più grande sax della storia del jazz, si porta
dietro il soprannome di "Bird" dall'infanzia, da quando non
aveva i soldi per entrare nel club e sentiva la musica dal cortile. Per questo era "yardbird", ovvero uccello da cortile.
In seguito Charlie comprerà un sassofono e in poco tempo
diventerà famoso. La sua musica faceva sognare ma la sua
vita privata era un disastro: droga, alcol, sesso, disperazione.
A trentaquatro anni cominciò a suonare solo per la Grande
Mietitrice.
Charlie Parker è stata la prima rock-star dedita alla distruzione dei codici artistici dei suoi contemporanei e nello stesso tempo impegnata alla distruzione della propria vita. Al cinema ha avuto fortuna incontrando un regista a cui non interessa fare un film solo su sesso droga e jazz, e
non è cosa da poco vista la sorte toccata ad altri artisti maledetti, di cui si è esaltata la sregolatezza con poco genio. Eastwood supera brillantemente il rischio dell'esempio di vita positivo o negativo, restando in equilibrio tra pubblico e privato, musica e famiglia, vizi e virtù.
Equilibrio che convince il regista ad utilizzare registrazioni originali di Bird con l'aggiunta postuma di accompagnatori moderni, per lui che lo aveva ascoltato quindicenne non è ammessa la
possibilità di farlo reinterpretare, come dire che l'efficacia della colonna sonora non può essere
più importante del valore storico e documentale della stessa. La musica si complica, Parker non
sa che farsene del ritmo e della melodia, gira intorno alla base ritmica, la sua musica è un flusso
di emozioni e sensazioni che si reggono anche da sole. Anche la regia si complica, la frammentazione della letteratura beat e l'esuberanza del be-bop sembrano guidare la mano di Eastwood
che si permette un piano-sequenza tra le vie di New York degno del miglior Scorsese.
La narrazione non è mai lineare ma accumulo di ricordi del protagonista, della moglie degli amici e nemici dove la ricerca dell'uomo appare obiettiva se non la più completa possibile.
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Boogie Nights - L’altra Hollywood
Un film di Paul Thomas Anderson. Con Burt Reynolds, Julianne Moore, Mark Wahlberg, Philip Seymour Hoffman, Heather Graham.
Commedia, durata 152 min. - USA 1997.
L'audacia non è esattamente la qualità la qualità che si
tende ad associare al cinema americano, però di quando
in quando si presenta un temerario ad agitare le acque;
per gli anni Novanta è probabile che costui sia Paul Thomas Anderson.
Boogie Nights – L'altra Hollywood, suo secondo film dopo
il sottovalutato Hard Eight (1996), è un'epopea incantata sull'industria pornografica tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta.
Mark Wahlberg è un adolescente della California del sud che grazie alle sue doti fisiche
viene lanciato nel firmamento del porno con il nome di Dirk Diggler. Dopo avere ricreato un'epoca di pantaloni a zampa d'elefante, musica disco, eccessi di sesso e droghe,
Anderson ci stupisce mostrandoci il mondo del porno attraverso la satira e la compassione, con una sorta di storia della società del tempo.
Anderson ambienta il suo film proprio nel momento in cui la pornografia al cinema
cominciava a cedere il passo alle più nuove ed economiche video­cassette, anche se il
cambiamento testimoniato qui non è soltanto quello tecnologico.
Come ha detto una volta Francois Truffaut, il porno negli anni Settanta stava per diventare un altro genere, con film come Gola profonda, Behind the Green Door e The Devil
in Miss Jones che attiravano folle di appassionati appartenenti alla classe media e ai nuovi
intellettuali. Poi sono arrivate le videocassette e improvvisamente lo star system dei
film porno­grafici e le fantasie cinematografiche che esso ispirava sono stati sostituiti
da un'estetica della banalità dei corpi sullo schermo: forse un'anticipazione di che cosa
c'era in serbo per la televisione negli anni Novanta.
Burt Reynolds offre probabilmente la sua migliore prova in assoluto nel ruolo del regista-patriarca di una sconclusionata "famiglia" tutta impegnata nel settore, che comprende Julianne Moore, William H. Macy, John C. Reilly, Phillip S. Hoffman e altri che di qui
a poco diventeranno gli interpreti preferiti di Anderson.
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Boudu salvato dalle acque
Un film di Jean Renoir. Con Michel Simon, Charles
Granval, Marcelle Hainia
Titolo originale Boudu sauvé des eaux.
Drammatico, b/n durata 83 min. - Francia 1932.
Con Boudu salvato dalle acque, Renoir, al suo undicesimo
film, viene scelto da Michel Simon, che aveva deciso di
produrre questo adattamento di una commedia di René
Fauchois. La coppia aveva già lavorato insieme tre volte,
entrambi avevano alle spalle lo stesso numero di anni
di cinema ed erano personalità emergenti con un grande senso di libertà e un desiderio di esplorare territori
sconosciuti.
Come una mostruosa Venere, il vagabondo Boudu rinasce dalle acque, riportato a una vita che voleva abbandonare dalla gentilezza e dalla generosità della ricca famiglia Lestingois.
Viene spontaneo fare paragoni con situazioni simili del più famoso personaggio di
Charlie Chaplin. I due vagabondi hanno molto in comune: il senso di sopravvivenza, la
relazione amorale con le norme sociali, la focalizzazione del divario ricchi-poveri e
l'impellente bisogno sessuale. Ma sono le differenze che rivelano la qualità della ricetta
di Renoir e Simon: il richiamo e la rottura delle regole del teatro borghese, il corpo e la
dizione dello stesso Simon – uno dei più grandi attori francesi dell'epoca, già protagonista
de La cagna un anno prima.
Nel personaggio di Boudu, la voce e la presenza fisica si fondono insieme come un'eruzione di carnalità, un'affascinante dissonanza che disturba il felice quartetto di violini
nella casa piena di bella gente che spera che il mondo continui a girare allo stesso modo. L'estremo ritorno di Boudu a una primavera arcaica non è solo il sorridente ribaltamento di un racconto ma simboleggia anche la faticosa continuità tra il passato più
remoto e il futuro verso cui scorre il fiume.
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Il Bounty
Un film di Roger Donaldson. Con Mel Gibson,
Laurence Olivier, Anthony Hopkins, Edward Fox,
Liam Neeson.
Titolo originale The Bounty.
Avventura, durata 130 min. - USA 1984.
Negli ultimi anni del 700, una bella nave - il Bounty - salpa
dall'Inghilterra. La comanda un maturo ed esperto ufficiale, il
comandante William Bligh, che, da studioso di botanica
qual'é, ha divisato di andare a Tahiti, prelevarvi un grande numero di piantine dell'albero del pane, per recarle nell'isola di
Giamaica, onde alimentare gli schiavi delle locali piantagioni.
Con Bligh parte anche Christian Fletcher, suo giovane amico,
non uomo di mare (e tuttavia destinato al ruolo di secondo), oltre alla consueta ciurma. Il viaggio è lunghissimo ed una prova terribile (rimasta nella storia della marineria di tutti i tempi) attende il "Bounty" al passaggio del Capo Horn, durante una terrificante tempesta ma, alla fine, la
meravigliosa isola di Tahiti è raggiunta. Il "Bounty" vi resterà ben quattro mesi, il re del luogo
accetta di buon grado i doni inviatigli da Sua Maestà britannica e l'equipaggio, mentre attende
all'insolito lavoro concernente la raccolta in vivaio e la successiva sistemazione a bordo delle sullodate pianticelle, cede poco a poco a tutte le seduzioni del luogo, del clima e della gioiosa disponibilità delle donne indigene, tutte fiori e lusinghe. Fletcher stesso stabilisce una intensa relazione con Mautua, la figlia del re. Ma l'inflessibile Bligh decide che ormai é tempo di alzare le
vele, la sua missione non deve fallire e la Giamaica é ben lontana; in più, egli giudica intollerabile
il comportamento dei suoi uomini (Fletcher e gli altri ufficiali compresi), travolti da mollezze e
festini che sembrano non finire mai. Il distacco é un dramma per Fletcher e la sua incantevole
donna (che ormai aspetta un figlio). Durante il viaggio di ritorno, una parte dell'equipaggio, che
già a più riprese ha subito le dure punizioni inflitte dal rigoroso comandante e per la quale la pur
necessaria disciplina a bordo é diventata non più sopportabile, decide di ammutinarsi. Fletcher
viene coinvolto: i ribelli (e, per ovvi motivi, lui stesso) vogliono tornare a Tahiti. Fletcher, pur
consapevole che sull'orizzonte si profila per tutti l'impiccagione in Patria, prende la testa dei rivoltosi, rileva Bligh dal comando della nave...
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Buena Vista Social Club
Un film di Wim Wenders. Con Ry Cooder, Ibrahim
Ferrer, Company Segundo, Omara Portuondo, Eliades Ochoa, Ibrahim Ferrer, Orlando Lopez, Ruben
Gonzales
Documentario musicale, durata 101 min. - Germania 1998.
Il musicista Ry Cooder, invitato da Wenders, va alla scoperta
dei musicisti del Buena Vista Social Club di Havana. I talenti
che ospitava, erano (e sono) enormi, ma sconosciuti (fino a
questo film) al grande pubblico. Wenders, col suo stile rigoroso, reale-espressionista (appunto, è solo suo) racconta la loro storia, lunga, misera e magnifica.
I personaggi sono: Ibrahim Ferrer, cantante, Ruben Gonzalez, chitarrista, Manuel "Puntillita"
Licea, pianista, Omara Portuondo, l'Edith Piaf cubana, Manuel Galban, chitarrista. E altri. Tutti
oltre gli ottanta, qualcuno oltre i novanta. Il regime di Castro, inibendo loro il resto del mondo,
li ha costretti a una vita povera anche se non infelice: lo dicono continuamente "la fortuna di
essere cubano". E comunque, per il successo nel mondo c'è voluto Wenders, che ama queste
iniziative, basti ricordare i Madredeus, diventati internazionali grazie a Lisbon Story. Nella loro
tournée americana i cubani guardano le vetrine della Quinta strada e non riconoscono le effigi di
Kennedy e della Monroe. E tutti raccontano, di quegli anni lontani, del Club in cui si esibivano,
loro, leggende tornate viventi. E naturalmente Wenders non ignora L'Havana, la povertà, i colori, le vecchie Cadillac rimaste lì dai tempi di Batista, gli alberghi lussuosi rovinati dal vento e dal
mare e lasciati a marcire, le prostitute, i mendicanti, i bambini che rincorrono i turisti. Il film comincia col grande concerto di New York del gruppo, e ricordo dopo ricordo ritorna al concerto.
Da allora i musicisti, vitali, eterni, girano i teatri del mondo e vendono milioni di dischi.
Un grande film, il miglior Wenders.
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Bullet in the Head
Un film di John Woo. Con Tony Leung, Jacky
Cheung, Waise Lee, Simon Yam, Fennie Yuen
Titolo originale Die xue jie tou.
Hard boiled, durata 136 min. - Hong Kong 1990.
1967, Hong Kong. Tre amici coinvolti in una storia di gangster decidono di lasciare l'isola e si trasferiscono a Saigon,
dove sperano di fare i soldi con il mercato nero.
La loro avventura diventa un'odissea dopo la cattura da parte
dei Viet Cong.
Grande film di John Woo, il suo capolavoro insieme a The
Killer. Una storia di amicizia tradita che rimanda a Il cacciatore e
Il tesoro della Sierra Madre, passando attraverso un omaggio a Voglio la testa di Garcia.
Questo film è cinema di alta qualità, John Woo riesce a creare un film d'intrattenimento girando
scene d'azione sensazionali, unite ad una forte drammaticità della storia.
La prima mezz'ora è stupenda, e ci introduce in modo frizzante, felice e appassionato la vita dei
tre personaggi, fatta di risse, feste e piccoli espedienti per fare qualche soldo.
È un film sull'amicizia, di quanto è importante, ma anche sulla guerra, che il regista denuncia
violentemente come il male assoluto che riesce perfino a distruggere una cosa così bella come
l'amicizia. E le immagini di cui fa uso il regista sono potenti e crude, come quella del campo di
prigionia vietcong, una scena davvero massacrante, dove gli attori fanno una grande prova di
recitazione.
Il montaggio è perfetto in ogni singola sequenza, la regia è sempre alle stelle, gli attori sono bravissimi, la fotografia è notevole e anche la musica è molto bella.
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Il cacciatore
Un film di Michael Cimino. Con Christopher Walken, John Savage, Robert De Niro, Meryl Streep,
John Cazale.
Titolo originale The Deer Hunter.
Drammatico, durata 183' min. - USA 1978.
Il film si apre su una cittadina mineraria della Pennsylvania: tre minatori Michael (Robert De Niro), Steven (John
Savage) e Nick (Christopher Walken) vengono chiamati
per la guerra. Prima di lasciare i loro amici, tuttavia
Steven si sposa e trasforma la sua cerimonia nuziale in una
festa di addio.
Si passa al teatro del conflitto. I tre cadono prigionieri e
vengono sadicamente torturati dai vietnamiti, riuscendo infine a sfuggire ai loro aguzzini
sebbene a caro prezzo. Steven rimane paraplegico, Nick, ormai incapace di esprimere i propri
sentimenti, vaga per il sud-est asiatico e Michael fa ritorno a casa oppresso dal senso di
colpa per aver lasciato finire così i suoi amici. Il suo dissidio interiore si complica quando
si innamora di Linda (Meryl Streep), un tempo promessa a Nick, mentre lotta per reintegrarsi nella società civile...
Secondo film di Michael Cimino - già noto sceneggiatore di Hollywood - Il cacciatore fu immediatamente acclamato come un capolavoro cinematografico da qualcuno, e accusato di
essere un odioso esempio di manipolazione storica da altri. Tra questi due estremi esso divenne anche un successo commerciale, nonostante fosse incentrato sullo scomodo tema della perdita dell'innocenza americana durante la guerra del Vietnam.
Nel corso delle sue tre ore di durata, Il cacciatore esalta le interpretazioni dei suoi attori principali in scene indimenticabili come quella del matrimonio fino a quella cruenta e molto discussa della roulette russa.
Ironicamente, con una strana nota di patriottismo, i personaggi del fila celebrano i loro deboli legami cantando "God Bless America" poco prima che scorrano i titoli di coda. La sequenza
fornisce un commovente e consolatori, commento al triste stato di cose che vide gli Stati Uniti nel ruolo di aggressore e vittima al tempo stesso, in una guerra che confuse concetti come
eroismo e opportunismo. Irradiando la falsa speranza di un nuovo giorno, Il cacciatore può
essere considerato un classico americano al negativo.
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Cane randagio
Un film di Akira Kurosawa. Con Toshiro Mifune, Takashi Shimura, Yasushi Nagata
Titolo originale Nora inu.
Poliziesco, b/n durata 95 min. - Giappone 1949.
Un giovane poliziotto (Toshiro Mifune) si lascia rubare la rivoltella che serve a commettere vari delitti, ma che gli permette infine di ritrovare l'assassino. Più che d'un film poliziesco a
suspense si tratta però d'una descrizione di Tokyo nell'atmosfera di smarrimento e di miseria creata dalla disfatta, coi suoi
disoccupati, i suoi banditi, le sue prostitute, gli occupanti, le
rovine. Bellissima la sequenza finale: un combattimento tra i
fiori d'una palude. Il protagonista, interpretato dall'attore preferito di Kurosawa, è un tipo inquieto e di carattere assai complesso, che insegue continuamente se stesso. È un film d'una certa
importanza, benché non tra i preferiti del regista, che affermò di aver voluto fare" un film alla
Simenon".
Non credo di esagerare dicendo che se questo film fosse uscito in Italia quando doveva (194950) la storia del cinema sarebbe cambiata. L'opera decima del regista giapponese poteva ridare
fiato e slancio al neorealismo italiano, in quegli anni in netto calando, oppure poteva gettare nello sconforto più totale i nostri registi che raramente avevano visto venti minuti più puri e realistici di quelli della discesa nei bassifondi del poliziotto Mifune travestito da povero. Nella realtà
il film non verrà recuperato ne dopo Rashomon ne dopo il Leone d'oro e nemmeno dopo la sua
scoperta francese degli anni sessanta. Il senso dell'affermazione perentoria di Sadoul che avrebbe scambiato cento Rashomon con un Cane Randagio sta, a mio avviso, nella capacità innovativa
del film per quegli anni. Capacità rimasta solo potenziale ma che dimostra come Kurosawa aveva appreso la lezione neorealista potendo facilmente andare oltre. In altre parole la modernità di
Rashomon è vera oggi come sessant'anni fa, mentre la visione di questo film nel suo giusto contesto temporale sarebbe stata destabilizzante, oggi o negli anni ottanta quando si vide in Italia un
pò meno. Queste stesse sconnessioni distributive tra Giappone e Italia ci dicono che Ladri di
Biciclette usci nel paese di Kurosawa dopo Cane Randagio, sarebbe stato quindi impossibile per il
regista più copiato della storia del cinema copiare dal film del regista italiano. I punti di contatto
tra i due film comunque ci sono, la bicicletta vale come la pistola di Murakami, serve ad affermare il proprio posto nel mondo, la propria funzione sociale. La forza morale del protagonista fa la
differenza, la disperazione di De Sica-Zavattini è quella di un popolo la cui etica privata non è
mai superiore a quella pubblica, nella disperazione di Kurosawa accade l'esatto contrario.
La morale del poliziotto riesce ad essere più forte dell'ambiente circostante e aiutato dall'esperienza di un collega anziano capisce che un crimine è sempre un crimine e se si ha fiducia nella
società umana e nelle sue regole come tale deve essere punito. L'etica privata deve essere sempre
superiore a quella pubblica anche nel Giappone del dopoguerra sconfitto e americanizzato, anche se il movente del ladro era quello di soddisfare i desideri della ragazza amata.
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Carnage
Un film di Roman Polanski. Con Jodie Foster, Kate
Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly
Titolo originale Carnage.
Drammatico, durata 79 min. - Francia, Germania,
Polonia, Spagna 2011.
In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i
loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel
parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli
animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del
BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri
d'arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L'imprevisto 'dare di stomaco' sbriglia
le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un'esilarante carneficina dialettica.
Non è la prima volta che Roman Polanski 'costringe' e isola i suoi protagonisti a bordo di una
barca, dentro un castello, oltre il ghetto di Cracovia, sopra un'isola (in)accessibile. Da sempre
nella filmografia del regista polacco la separazione è necessaria per mettere ordine e avviare un'
'inchiesta'. Accomodati tre premi Oscar (Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz) e un candidato eterno non protagonista (John C. Reilly) in un appartamento di Brooklyn, ambientazione
dichiarata dalla prima inquadratura e trattenuta da due alberi che dietro le fronde rivelano lo
skyline 'alterato' di Manhattan, Polanski denuncia ancora una volta il riferimento al (suo) maestro inglese. In particolare un capolavoro di Hitchcock palpita sotto la superficie, un omaggio
che dopo molte risate lascia un 'nodo alla gola'. Trattenuto in un'unica location e svolto in tempo reale, Carnage è 'scenograficamente' prossimo al Rope hitchcockiano che, girato a Los Angeles,
apriva le finestre del suo appartamento su una Manhattan in scala, ricreata attraverso un ciclorama di quattrocento metri quadrati e illuminato da un'abbondanza di lampadine e insegne al neon. Il richiamo non si limita allo spazio esterno, ma ancora e di più a quella maniera unica di tradurre un'idea in un movimento, in movimenti invisibili quanto mirabili di macchina. Versione
cinematografica della piéce teatrale di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice con Polanski, Carnage
coniuga il piacere della forma al valore della storia, una storia che ancora una volta suggerisce
l'illusione della trasparenza. La maschera linda dei quattro protagonisti insinua presto un malessere sordo, un orrore che c'è e si vede. Così progressivamente le tempeste dialettiche restituiscono alla superficie i 'corpi' nascosti nei bauli dalla stessa vanità e gratuità degli studenti hitchcockiani.
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Cattivissimo me
Un film di Pierre Coffin, Chris Renaud, Sergio Pablos. Con Steve Carell, Jason Segel, Miranda Cosgrove, Dana Gaier, Elsie Fisher.
Titolo originale Despicable Me.
Animazione, durata 95 min. - USA 2010.
C'è qualcuno che ha rubato i più importanti monumenti del
mondo sostituendoli con copie. In un tranquillo quartiere fatto di villette unifamiliari vive Gru, grosso e sgraziato ma con
la fissazione di voler compiere il più grosso colpo possibile:
rubare la Luna. A Gru non manca un armamentario supertecnologico per raggiungere il proprio scopo così come è dotato
di un esercito di minuscoli esseri gialli bi o monoculari, i
Minion (in inglese tirapiedi/adulatori) un po' fracassoni ma al suo servizio. Finché un giorno fa
l'incontro che gli cambia la vita con tre orfanelle (Margo, Edith e Agnes) che vuole sfruttare ai
suoi fini e che invece vedono in lui un possibile papà.
Ad ogni film di animazione che compare sugli schermi gli esperti del settore traggono indicazioni sulla lotta in corso tra le major per conquistarsi quella fetta di pubblico che è sembrata essere
per lungo tempo dominio quasi assoluto della Pixar. Il pubblico invece, nella sua stragrande
maggioranza, si chiede se il film sia o meno pensato per un pubblico adulto che vuole trovare
una miriade di ammiccamenti a cinema e televisione pregressi o, molto più semplicemente, si
rivolga al più tradizionale (e 'vecchio'?) target costituito dai bambini. Nel caso di Cattivissimo me il
pubblico dei più piccoli può trovare occasione di divertimento (anche se qualche inevitabile citazione non manca). Perché senz'altro la sceneggiatura si rivela debitrice di 'classici' della letteratura tout court come Racconto di Natale di Dickens (se Scrooge significa spilorcio Gru sta come abbreviazione di gruesome= orrendo/macabro) e Le streghe di Roald Dahl (anche lì c'era un orfano
e le streghe si camuffavano da persone qualunque come fa Gru). Le orfanelle poi hanno letteralmente invaso la letteratura dell'Ottocento così come sono state protagoniste della simpatica ma
a tratti dark animazione tedesca di Tiffany e i tre briganti . Anche lì i cattivacci si scioglievano dinanzi al calore e alla vivacità della piccola protagonista.
Consapevole com'è della simpatia che sempre si portano dietro i bad guy (soprattutto se alla cattiveria uniscono un po' di goffaggine) la sceneggiatura punta tutta la prima parte sulla malvagità
del protagonista dal naso adunco (ma osservate come quel naso diverrà utile nella narrazione di
una fiaba) per poi trasformarlo in un cuore tenero. Se inizialmente abbondano le tecnologie alla
007 così come l'iperattività dei Minion (che sembrano parenti stretti degli Oompa Loompa di
Willywonkiana memoria con la variante che qualche diversità tra loro ce l'hanno) la storia lascia
progressivamente spazio alle dinamiche di relazione per giungere a una morale forse scontata ma
poco praticata in una società globale che si basa sul pre-giudizio: mai dire mai.
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Il cattivo tenente
Un film di Abel Ferrara. Con Harvey Keitel,
Frankie Thorn, Victor Argo, Zoe Lund, Frank
Adonis.
Titolo originale The Bad Lieutenant.
Drammatico, durata 96 min. - USA 1992.
Sullo sfondo della vicenda c'è la finale di baseball tra Dodgers e Mets.
LT (Harvey Keitel) ha scommesso sui Dodgers. LT, tra le
altre cose, è un tenente di polizia, ma passa tutto il suo tempo a portare i figli a scuola (quando deve), a sequestrare
droga per poi rivenderla (quando può), a sequestrare droga
per poi usarla (quasi sempre). L'unica volta che fa un'azione
buona è anche l'ultima azione della sua vita.
Scritto senza l'ausilio del collaboratore abituale Nicholas St. John, un noir metropolitano che si
trasforma in una parabola cattolica sospesa tra sublime e osceno. Visionario ed eccessivo (dopo
molte violenze, ad un certo punto appare un Cristo coloratissimo e muto), ossessionato dal tema
della violenza e della redenzione, è tra i migliori film di Ferrara. Impressionante Harvey Keitel,
che mostra tutta la pesantezza della carne e le ferite dello spirito. Splendido il finale, girato con
la macchina da presa nascosta.
Abel Ferrara fa un film dove un linguaggio crudo,una ostentazione di perversione e cupa disperazione si amalgamano con l’aspirazione alla redenzione e al perdono dei peccati. In una caotica New York, un tenente di polizia, tossicodipendente, pervertito, dedito a loschi traffici e pesanti scommesse, passa il suo tempo in questo modo inserendoci, quando può, qualche suo
compito, compreso quello di padre. Modi duri, una robusta nudità esibita con un certo rivoltante compiacimento,il personaggio è interpretato alla perfezione, senza esagerare nell’uso di mezzi
espressivi che le sue caratteristiche gli avrebbero permesso, da un memorabile Harvey Keitel.
L’uomo viene descritto nella sua squallida esistenza fin quando un fatto grave non travolge la
sua mente già sconvolta dalle droghe pesanti, che si fa iniettare da un’amica disgraziata come lui:
in una chiesa viene stuprata da due ragazzi una giovane suora con estrema efferatezza che il
film non ci risparmia. La vittima, però, non vuole fornire alcun particolare per avere giustizia e
perdona i suoi carnefici e a nulla vale l’ostinata preghiera del tenente, che in un delirio di giustizia e di perdono arriva a vedere il Cristo sanguinante sceso dalla croce. Ormai distrutto dalla
droga e dai sensi di colpa,il cattivo tenente andrà incontro al suo destino. L’ottima sceneggiatura
e tutti gli elementi, dalle ambientazioni, alla colonna sonora contribuiscono alla riuscita del film
di grande potenza visiva e ideologica.
Uno dei migliori film di Abel Ferrara.
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Cavalleria
Un film di Goffredo Alessandrini. Con Amedeo
Nazzari, Anna Magnani, Mario Ferrari, Enrico Viarisio, Elisa Cegani.
Commedia, b/n durata 88 min. - Italia 1936.
Torino 1901.
Il conte di Frasseneto rischia la rovina economica a causa di
alcuni investimenti andati male. La figlia Speranza rinuncia
all'amore del sottotenente di cavalleria Umberto Solaro per
sposare un barone austriaco e salvare così la famiglia.
Il matrimonio comporta il dolore aggiuntivo di lasciare Torino.
L'ufficiale che tenta inutilmente di dimenticare il suo amore diventa campione di equitazione,
ma, alla morte del cavallo Mughetto avvenuta durante una gara, si arruola nell'aviazione.
Scoppia la prima guerra mondiale Umberto Solaro è ormai un asso dell'aeronautica. Troverà la
morte durante una difficile missione in cui il suo aereo viene abbattuto. Il grande dolore dei
compagni di reggimento che lo hanno sempre ammirato si unisce al pianto di Speranza Frasseneto.
«Tentare una visione ciclica in un film, con una vicenda che abbracci più epoche, e ad ognuna
conceda quasi lo stesso respiro, significa per lo più affidare il racconto a parecchi episodi, cronologicamente ordinati. I novanta minuti di proiezione se ne fuggono molto rapidamente; per contenervi un ciclo bisognerà necessariamente ricorrere allo scorcio e all'incastro. Soggetto e sceneggiatura di Cavalleria non sempre rispondono a tutto ciò. Mi pare questa la sola e non fondamentale riserva da farsi al film; riserva che però molto facilmente si dimentica per una ricchezza
e una accuratezza rare, per un gusto che presiede quasi a ogni inquadratura, per una interpretazione complessivamente lodevole, per una salda regia di parecchi episodi […]; il nostro vecchio
Piemonte […] è ritratto con mano attenta e delicata; parecchie visioni di guerra sono fortemente
scorciate; e le ultime inquadrature, quelle del lento trasporto della salma di Solaro, compiuto da
uno squadrone dei "suoi" cavalleggeri, danno un altro momento di commozione, forse il più
intenso, ben dominato da un regista di schietto ingegno» (M. Gromo, La Stampa, 29 agosto
1936).
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Che fine ha fatto Baby Jane?
Un film di Robert Aldrich. Con Bette Davis, Joan
Crawford, Maidie Norman, Victor Buono, Anna Lee.
Titolo originale What ever Happened to Baby Jane?.
Drammatico, b/n durata 132 min. - USA 1962.
Baby Jane è una bambina prodigio che si esibisce sui palcoscenici dei teatrini e del varietà. Il successo però la fa diventare
viziata e prevaricatrice nei confronti della sorella Blanche. Le
parti si invertono quando, da adulte, è Blanche ad avere successo come stella del cinema, mentre Jane viene dimenticata.
Un incidente interrompe la carriera di Blanche, costringendo
le sorelle a una convivenza forzata piena di rimpianti, di odio
e di acredine. Ottima interpretazione di Bette Davis e di Joan
Crawford, dirette da un grande regista, Robert Aldrich, in una
cruento duello sadomaso tra personaggi femminili.
Lezione di cinema in soli dieci minuti, firmato Robert Aldrich. Dopo arrivano i titoli di testa,
eppure con veloci stacchi di ripresa, un montaggio di scansioni temporali di mezzo secolo, minando già alla radice la certezza dello spettatore sulla contemporaneità della vicenda, il film ha
già raccontato moltissimo. Ovviamente, dieci minuti e non solo, il regista capace di rivisitare generi diversi offrendo una approfondita e spietata analisi della psicologia dei suoi personaggi, riesce in poche sequenze a ridefinire il contesto esteriore e ambientale nel quale le due protagoniste
hanno vissuto, ed ora invecchiano rinchiuse e protette nella casa di famiglia. Jane, prima bambina prodigio, poi attrice fallita e alcolizzata, odia la sorella a cui provvede, Blanche, attrice dal
passato di successo, paralizzata e costretta sulla sedia a rotelle dopo un incidente del quale è ritenuta responsabile Jane, grazie ai guadagni ottenuti in carriera mantiene la sorella malgrado
l’avversione che l’altra manifesta. Aldrich costruisce con due personaggi un formidabile ritratto
di un corpo unico nel quale convivono i bisogni, i desideri la colpa, le verità che le due sorelle
custodiscono. Baby Jane (Bette Davis) vestita e acconciata ancora come quando era un oggetto
di pubblico successo, simile alla bambola di grandezza naturale, venduta con la sua fugace apparizione sui palcoscenici, è in preda al delirio e avviata alla follia. Blanche (Joan Crawford) ridotta
a difendersi dalle angherie della sorella e dalla quale però dipende anche la sua esistenza è la maschera della bontà e della generosità, combattuta fra l’affetto che la porta a sottovalutare la crudeltà di Jane e il desiderio di una condizione di vita migliore che inevitabilmente escluderebbe la
presenza della sorella. Ma potrebbe non essere quel che sembra, anzi nel cinema e nella realtà
non lo è quasi mai.
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Che cosa ho fatto io per meritare questo?!
Un film di Pedro Almodóvar. Con Carmen Maura, Verónica Forqué, Ángel De Andrés López, Gonzalo Suarez,
Luis Hostalot.
Titolo originale ¿Qué he hecho yo para merecer esto?.
Commedia, durata 99 min. - Spagna 1984.
Gloria è disperata: lei lavora come donna delle pulizie in un palestra, suo marito Antonio vive nel ricordo di Ingrid, la sua amante
tedesca; dei due figli, Toni fa lo spacciatore e Miguel, omosessuale,
fa "la vita". Per di più, deve sopportare in casa anche la madre di
Antonio. Per fortuna c'è Cristal, prostituta ma vera amica. In una
lite, Gloria finirà per ammazzare Antonio con un osso di prosciutto, ma non per questo le cose andranno a posto...
Pedro Almodovar scatenato, in uno dei suoi film migliori, quando ancora la sua fama oltrepassava a fatica i confini spagnoli e il suo nome non era ancora una firma destinata ai circuiti internazionali. Narrazione tumultuosa e vetriolo a ruota libera.
Ci sono già tutti i temi cari al regista (omosessualità, passione, attenzione per le figure femminili...) e la maniera inusuale con cui tratta i suoi personaggi e le sue storie è già compiuta.
Le bellissime interpretazioni di tutti gli attori (Carmen Maura su tutti) rendono il film un piccolo
capolavoro che vale la pena di riscoprire.
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La chiave di vetro
Un film di Stuart Heisler. Con Brian Donlevy, Alan
Ladd, Veronica Lake, William Hendrix
Titolo originale The Glass Key.
Poliziesco, b/n durata 85 min. - USA 1942.
Ed Beaumont (Ladd) è amico e factotum del potente affarista
Paul Madvig (Donlevy), che corrompe il procuratore distrettuale Farr e influenza buona parte dell'opinione pubblica. Per
ripulire la propria immagine in vista delle elezioni, alle quali
intende appoggiare Ralph Henry come governatore, Madvig
liquida lo scomodo legame col gangster Nick Varna, per interessarsi dell'attraente Janet, figlia del candidato. Ma il giornale
The Observer, controllato da Varna, accusa Paul di un delitto e
il procuratore Farr si mostra pronto a cambiare bandiera. Ed,
avvicinato da Varna, rifiuta di fornire prove a carico dell'amico e per questo viene brutalmente
pestato dai picchiatori Jeff e Rusty.
Uscito dall'ospedale, Ed riuscirà a scagionare l'amico. La giustizia può trionfare anche in un
mondo corrotto, così come l'amore tra Ed e Janet.
Solo Dashiell Hammett, autore del romanzo e padre del poliziesco hard-boiled, poteva descrivere
senza mezzi termini il mondo in putrefazione del potere. Solo lui poteva concepire un eroe che
si mantenesse così leale al valore dell'amicizia di fronte alle tentazioni del denaro e del successo.
Beaumont è più simile al Sam Spade de Il falcone maltese, avvezzo alla falsità ma fedele al proprio
codice etico, che all'ironico Nick Charles de L'uomo ombra, entrato col matrimonio in una classe
sociale superiore. Qui, senza perdere il gusto della narrazione, il giallo diventa specchio di quella
società che Hammett aveva esplorato nel suo lavoro di investigatore. E, come i suoi personaggi,
durante il maccartismo Hammett si manterrà fedele ai suoi princìpi, pagando con il carcere il
diritto di denunciare ipocrisia e corruzione.
Pochi come il romanziere Jonathan Latimer, abile nel portare opere altrui sullo schermo, potevano scrivere una simile sceneggiatura senza tradire il soggetto. Anche il pestaggio di Ed viene presentato con una durezza che soltanto Sergio Leone nel suo primo western (costruito sulla trama
di Piombo e sangue di Hammett) oserà rappresentare al cinema. L'unico spazio al sentimento è aperto dalla collaudata coppia Ladd-Lake, cui è affidato il compito di chiudere con un lieto fine.
Pagina 39
Chiedi la luna
Un film di Giuseppe Piccioni. Con Sergio Rubini,
Roberto Citran, Margherita Buy, Giulio Scarpati.
Commedia, durata 80 min. - Italia 1991.
Il giovane Marco, serio e laborioso, sposato con Cristina e
padre di un bambino, dirige a Verona, dopo la morte del
padre, l'agenzia di noleggio di autovetture, che lui e il fratello maggiore Giacomo hanno ereditato. Giacomo, dopo una
vita molto disordinata, scompare improvvisamente, portandosi via la vettura migliore e cinque milioni. Marco, che è il
vero capo-famiglia, parte subito per andarlo a cercare a Perugia dove risiede Elena, la fidanzata. La ragazza, che non sa nulla del fidanzato da mesi, l'accompagna da un'amica di lui, Daniela, che ha un ristorante di lusso presso Viterbo, ma neanche
lei ha notizie di Giacomo. I due riprendono perciò il viaggio, durante il quale si mostrano spesso
ostili l'uno all'altra, perchè hanno temperamenti diversissimi, ma intanto fanno strani incontri,
come quello con un autostoppista disperato per amore, che accompagnano inutilmente a Gubbio, e più tardi salvano dal suicidio. Recatisi in una casetta in un bosco, dove potrebbe, secondo
Elena, trovarsi Giacomo, incontrano invece Francesco, un ex fidanzato di lei, il quale si nasconde dagli strozzini. I due viaggiatori pernottano nella casetta, Elena va a letto con Francesco,
mentre Marco finisce col dormire all'aperto. Poi Marco ed Elena ripartono: dopo un burrascoso
incontro con l'ex marito di Elena, il quale le deve dei soldi, che lei finisce col rifiutare per orgoglio, i due giovani proseguono il viaggio, andando a trascorrere una notte d'amore in albergo
dove lui le confida le delusioni del suo matrimonio. Intanto hanno saputo che Giacomo ha telefonato, e lo raggiungono subito dopo che si è sposato, con una ragazza incinta, che non conoscono. Marco riparte, senza voler vedere il fratello ed offre ad Elena di vivere con lui, ma la ragazza rifiuta. Tornato dalla moglie, nell'ufficio, dove ora lavora anche l'autostoppista, Marco è
triste, mentre Elena viaggia malinconicamente verso la Sicilia. La vita di Elena e Marco non potrà più essere quella di prima.
Pagina 40
Il cimitero del sole
Un film di Nagisa Oshima. Con Masahiko Tsugawa, Kayodo Honoo, Yusuke Kawazu
Titolo originale Taiyo no hakaba.
Drammatico, durata 90 min. - Giappone 1960.
Sesso e violenza sono gli elementi essenziali del cinema perché sesso e violenza servono ad aprire le vie dell’inconscio.
(…) I miei film hanno spesso proprio il delitto come tema
principale; il criminale costretto a perpetrare il proprio delitto giunge a compierlo per piacere o senza conoscere il
motivo che lo spinge. Non sono un criminale nella realtà,
bensì nei miei film. I delitti si sviluppano, le scene di delitto
affiorano nei miei sogni sempre più forti, più delineate. Immancabilmente questo tipo di sogno si apre con una scena di massacro, con un atto sessuale da
maniaco. (…) E poi ci sono i giovani, o meglio la giovinezza che ho raccontato in molte delle
mie opere e che corrispondeva, per lo meno agli inizi della mia carriera, a quella degli studenti
impegnati nell’opposizione politica nel paese. Il 15 di giugno, quando davanti al Palazzo della
Dieta una ragazza venne uccisa dalla polizia, io ero in albergo e stavo scrivendo proprio la sceneggiatura di questo Taiyo no hakaba (Il Cimitero del sole, appunto) e non riuscii a trattenermi
dall’accorrere nel luogo dove si era consumata la violenza, di essere presente e solidale. C’era
pioggia, sangue e fanghiglia tutt’intorno. Raccolsi un’asta e la diedi agli studenti che venivano
scacciati dalla polizia. (…) Come si può ben capire vedendoli, già da allora nei miei film cominciavano ad aleggiare toni di amarezza e di morte che fin dall’infanzia mi è stata familiare…(…)
Consapevole di non poter diventare un rivoluzionario, diciamo che mi sono avvicinato alla rivoluzione con il mio cinema. (Nagisa Oshima, da Il rito, la rivolta: il cinema di Nagisa Oshima, Di Giacomo Editore, 1984 – progetto realizzato dalla Cooperativa “Nuovo Cinema” con la collaborazione di Enrico Magrelli e Emanuela Martini e la prefazione di Lino Micciché).
Pagina 41
La città nuda
Un film di Jules Dassin. Con Barry Fitzgerald, Howard Duff, Dorothy Hart, Don Taylor, Ted De Corsia
Titolo originale The Naked City.
Poliziesco, b/n durata 96 min. - USA 1948.
New York nell'immediato dopoguerra una giovane donna viene trovata uccisa. L'ispettore di polizia Dan Muldoon (Barry
Fitzgerald) e il suo assistente Jimmy Halloran (Don Taylor)
iniziano le indagini sulla vita della ragazza, figlia di due profughi cecoslovacchi, scoprendo che la vittima era coinvolta in
una serie di furti. Il colpevole verrà alla fine identificato e tenterà una disperata fuga a piedi per le strade di New York, finendo la sua corsa tra i tralicci del ponte di Brooklyn.
Si può dirigere un noir armati di un raffinato senso estetico e di un brillante lume intellettuale.
E si può dirigere un noir semplicemente col cuore, animati dall’amore per una città e per
l’umanità che la popola. Un amore che si estende, con generosità, anche allo spettatore, che, di
fronte a questo film, si sente immediatamente accolto nel caldo abbraccio della narrativa popolare, dove tutto appare naturale, e tutto viene pazientemente spiegato, illustrato con esempi e
commenti, senza richiedere alcun ulteriore sforzo interpretativo. In questo modo si scopre
quanto sia gratificante lasciarsi catturare da un’atmosfera, anche quando questa è estranea alla
poesia del sogno o all’incanto della fantasia, ed è invece composta della fredda e rarefatta aria del
realismo. Il crimine, le vicende quotidiane, le mille solitudini che abitano l’anima di una metropoli come New York sono un amalgama di tante trascurabili banalità, in cui anche un omicidio
può passare inosservato, finendo archiviato tra le pratiche di ordinaria amministrazione. Spetta
agli investigatori strappare il caso all’indifferenza della normalità, per fare emergere, insieme alla
verità, il dramma individuale di cui il delitto è la tragica ed estrema espressione. Il film di Jules
Dassin ci parla della fatica di ricostruire una storia chiusa dal terribile sigillo della morte violenta;
il nulla, che in un attimo inghiotte l’identità e il passato della vittima, è il buio in cui si brancola
in cerca di indizi, di informazioni, di prove che, anzitutto, rendano giustizia alla vita dell’ucciso,
restituendole quella complessità ed irripetibilità che contraddistinguono ogni esistenza umana.
L’indagine condotta dalla squadra del tenente Dan Muldoon è come un percorso della memoria,
che interroga le persone conosciute dalla povera Jean Dexter richiamandole al dovere di ricordare, di testimoniare, di impedire che quella giovane donna, con le sue vicissitudini, cada irrimediabilmente nell’oblio.
Girato quasi come un documentario, imparentato secondo parte della critica con il neorealismo
italiano, il capolavoro di Dassin costituisce un violento atto d'accusa verso le contraddizioni della vita metropolitana, arricchito dalla fotografia da Oscar di William Daniels capace di esaltarsi
negli esterni metropolitani.
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La città proibita
Un film di Zhang Yimou. Con Chow Yun-Fat, Gong
Li, Jay Chou, Liu Ye, Chen Jin.
Titolo originale Curse of the Golden Flower / Man cheng
jin dai huang jin jia.
Drammatico, durata 111 min. - Cina, Cina 2006.
C'era una volta, nella Cina del decimo secolo, la grande dinastia dei Tang. Nella città imperiale lo sfarzo e la ricchezza si
respirano in ogni dove. L'imperatore, l'imperatrice e i loro figli
sono serviti e riveriti da uno stuolo di servitori adoranti. Ogni
minima azione quotidiana avviene nel rigore e nel rispetto di
rituali millenari, nella magnificenza quasi surreale di un mondo estetizzato e dorato. Ma, come in ogni famiglia e favola
che si rispettino, il male, il segreto, l'intrigo sono dietro l'angolo. La famiglia imperiale nasconde
segreti inconfessabili fino al giorno in cui, durante la festa del Chong Yang, la festa dei crisantemi legata alla famiglia e alla sua solidità, ogni minimo intreccio verrà disvelato. Un'epica battaglia
metterà fine a tutti i misteri.
Il grande Zhang Yimou conclude così la sua trilogia dedicata ai wuxiapan, ovvero il genere cinematografico "cappa e spada" alla cinese; la trilogia, iniziata nel 2002 con Hero, proseguita nel
2004 con La foresta dei pugnali volanti, termina con questo straordinario affresco corale, una sorta
di tableau vivant, in cui infinite masse umane prendono lentamente il sopravvento sulla scena
fino a sovrastare magnificamente il grande schermo.
Niente è risparmiato in questo sconfinato ritratto in cui Zhang Yimou sembra davvero concedere tutto se stesso: pennellando sarcasticamente e causticamente l'amata Cina, omaggiando ma
insieme deridendo una serie di ataviche tradizioni, con una bellezza visuale davvero rara. In un
perfetto connubio tra racconto e forma artistica: mentre infatti emerge fortissima la critica all'assoggettamento incondizionato dell'essere umano in virtù di un'impellente urgenza interna di ribellione e autodeterminazione (esemplare è la figura della musa Gong Li, qui in stato di grazia,
nei panni dell'imperatrice ribelle e della donna libera), contemporaneamente regia, fotografia,
effetti speciali si fondono soavemente per rendere l'opera cinematografica un importante esempio di arte, con la A maiuscola.
Realista e insieme onirico, Zhang Yimou ancora una volta, ancora di più, dimostra quanto immenso sia il suo cinema, nella sua immaginifica e poetica essenza.
Pagina 43
I compagni
Un film di Mario Monicelli. Con Marcello Mastroianni, Bernard Blier, Folco Lulli, Annie Girardot, Renato
Salvatori.
Drammatico, b/n durata 128 min. - Italia 1963.
Alla fine del secolo scorso, in un'industria tessile torinese, un
grave incidente è la scintilla che fa scoppiare le prime proteste
operaie contro le inumane condizioni di lavoro. La protesta si
trasforma in un durissimo sciopero, guidato del professor Sinigaglia, durante il quale un operaio muore. Gli operai rientrano
in fabbrica, sconfitti, ma con un filo di speranza.
Fallimentare al botteghino, resta il capolavoro di Monicelli
nonostante alcuni eccessi patetici. Forse troppo in anticipo sui tempi, fu un interessante tentativo di virare la commedia all'italiana verso l'impegno sociale e la ricostruzione storica.
Sceneggiatura di Monicelli, Age e Scarpelli (che ottenne la nomination).
La realizzazione de I compagni esprime la visione del regista riguardo alla rappresentazione di
momenti storici individuali o collettivi sotto forma di commedia. Nella Torino di fine Ottocento
gli operai di una fabbrica tessile iniziano uno sciopero per ottenere la riduzione dell’orario di
lavoro a tredici ore, la loro protesta sarà in parte orientata dall’intervento di un professore già
ricercato dalla polizia per le sue posizioni politiche filo socialiste. Monicelli compie un accurato
lavoro di ricerca, di ricostruzione e di difficile testimonianza sulle lotte operaie di inizio secolo,
animato dalle sue idee e dal tentativo poco sfruttato di prendere in esame quel periodo storico e
di tradurlo in immagini cinematografiche. Nella rappresentazione ritroviamo non solo la visione
classista della società, ma soprattutto l’atmosfera spettacolarizzata delle condizioni di vita dei
lavoratori sfruttati dell’epoca. Il film non fu accolto positivamente alla sua uscita, nel 1963, nel
pieno del boom economico con le masse degli occupati alle prese con nuovi miti, moderne chimere e le sue scorciatoie ideologiche. Per stessa ammissione del regista, I compagni “fu rifiutato
dai borghesi perché parlava di scioperi, e dagli operai politicizzati perché temevano che l’ironia
con la quale si raccontava la vicenda potesse gettarli nel ridicolo”. Pur trattandosi di una rappresentazione corale del contesto proletario, la vicenda contiene diverse storie interne che contribuiscono ad arricchire gli aspetti di vita e gli spaccati sociali che emergono, tuttavia spiccano due
figure fondamentali nella storia, quella del professore Sinigaglia (interpretato da M Mastroianni)
e quella del giovane Raul Bertone (interpretato da Renato Salvatori). Entrambi manifestano nei
loro personaggi caratteri compresi fra il dramma e la commedia, come con gli altri Monicelli ne
sviluppa un ritratto non privo di uno sguardo accorato e romantico, ma sono loro due che assumono simbolicamente valenze ideologiche e sociali molto rilevanti. L’irruzione dell’insegnante
nella povera comunità fornisce la consapevolezza, canalizza la forza della lotta, fa collimare le
rivendicazioni con la cultura delle idee e della ragione.
Pagina 44
Il corvo
Un film di Henri-Georges Clouzot. Con Pierre Fresnay, Pierre Larquey, Ginette Leclerc
Titolo originale Le corbeau.
Drammatico, b/n durata 93 min. - Francia 1943.
All'ospedale civile di una piccola cittadina francese di provincia presta servizio, come medico ostetrico, il severo dottore
Rémy Germain (Pierre Fresnay) coadiuvato dall'infermiera
Marie Courbin (Héléna Manson), che tratta con modi bruschi
e poco professionali i malati del suo reparto e dalla sorella e
assistente sociale Laura Vorzet (Micheline Francey), moglie
dello psichiatra Michel Vorzet (Pierre Larquey).
Tra Rémy e Laura è nata una simpatia segreta,che non è sfuggita all'occhio vigile dell'infermiera, che rimprovera severamente la sorella, accusandola di essere
"una adescatrice".
Anche i rapporti con il dottor Germain sono burrascosi: Marie lo controlla e fruga nelle sue tasche alla ricerca di una lettera dimenticata, mentre il medico l'accusa di avere sottratto parecchie
fiale di morfina dalla farmacia, forse per rivenderle.
Il dottor Germain viene spesso chiamato con dei pretesti a casa di Denise Soillens (Ginette Leclerc), una bella ragazza dal temperamento sensuale e provocante, che cerca nelle numerose avventure la conferma del suo fascino, nonostante una menomazione causata da un incidente, che
la l'ha resa zoppa.
Benché attratto, Rémy cerca di resistere alla seduzione di Denise e la rimprovera duramente di
fingere malesseri inesistenti.
Una mattina Laura informa Rémy di aver ricevuto una lettera anonima, firmata "Il Corvo", con
cui la si accusa di essere la sua amante, e Germain, a sua volta, ne trova un sulla scrivania con le
stesse accuse oltre a quella, ignobile, di praticare aborti clandestini…
Secondo, magnifico lungometraggio di Henri-Georges Clouzot, dopo L'assassin habite ou 21
(1942), sceneggiato in collaborazione con Louis Chavance (anche se in fase finale lo script fu
oggetto di numerose modifiche e rifacimenti da parte dello stesso regista) si ispira a fatti realmente accaduti nel 1917 a Tulle, in Francia, dove numerose lettere anonime accusarono la giunta comunale e gli imprenditori locali di speculazioni e affari sporchi. Allora l'anonimo mittente si
era firmato "The eye of the tiger".
Con una superba padronanza del plot narrativo, Clouzot costruisce sapientemente un'atmosfera
torbida e ambigua, secondo un'implacabile progressione drammatica, che fa di ogni personaggio
un probabile colpevole e affonda la lama nell'ipocrita perbenismo di facciata della piccola borghesia francese, che nasconde oscure passioni e turbanti segreti.
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Cous Cous
Un film di Abdel Kechiche. Con Habib Boufares,
Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouraouïa Marzouk.
Titolo originale La Graine et le Mulet.
Drammatico, durata 151 min. - Francia 2007.
Beiji, 60 anni, lavora alla riparazione delle imbarcazioni nel
porto di Sète, vicino a Marsiglia. Poco disposto alla flessibilità
che la nuova organizzazione impone, viene licenziato. Beiji è
divorziato e ha una nuova compagna ma non ha perso i contatti con la famiglia. Ora l'uomo vuole realizzare un sogno:
ristrutturare una vecchia imbarcazione e trasformarla in un
ristorante in cui proporre come piatto forte il cuscus al pesce.
Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l'aiuto di tutti i familiari e l'impresa pare destinata al successo.
Abdel Kechiche, dopo quel film particolarmente interessante e 'nuovo' che è stato La schivata,
torna a parlare del mondo che conosce meglio e cioè di quello degli arabo-francesi integrati da
decenni nella società dell'area marsigliese ma comunque, in qualche misura, visti sempre come
'diversi'. Non c'è però alcun pietismo buonista nel suo cinema. C'è piuttosto, in particolare in
questo film, la voglia di raccontare le dinamiche familiari in un ambito in cui gli uomini pongono
problemi ma non li risolvono. Sono le donne, pur con le loro invidie reciproche e le frustrazioni
più o meno espresse, a prendere in mano le situazioni anche nei momenti di maggiore crisi cercando una via d'uscita, talvolta traumatica e talaltra propositiva.
Kechiche si muove in un contesto sociale che è già stato ampiamente analizzato da Robert Guediguian (il porto in area marsigliese) ma lo fa con una grande leggerezza che non permette di
avvertire la lunghezza del film offrendo un racconto corale che parla di uomini e donne, della
loro fatica di vivere ma anche del desiderio di riscatto e dell'imprenditorialità familiare che lega
le persone con i sentimenti e con un obiettivo da raggiungere insieme nonostante i contrasti personali. Nello sguardo di Beniji si può leggere un'intera vita fatta di lavoro, un passato che però
non conta più nulla dinanzi ai nuovi ritmi produttivi e alle esigenze del 'mercato'. Ma Beniji non
vuole,come gli suggerisce il suo capo, 'avere più tempo per i nipotini' (che pure adora). Vuole
sentirsi un uomo che ha ancora da dare qualcosa alla società. Il cous cous potrebbe essere la soluzione. Potrebbe.
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Crash
Un film di David Cronenberg. Con James Spader,
Holly Hunter, Elias Koteas, Deborah Kara Unger,
Rosanna Arquette.
Drammatico, durata 98 min. - USA 1996.
James Ballard (Spader) di professione fa il regista pubblicitario, e grazie a un incidente d'auto impara ad associare il piacere sessuale agli scontri automobilistici e al rischio di morire su
un'autostrada. James inizia una relazione pericolosa con la
dottoressa Helena Remington (Hunter), che in un sinistro ha
perduto il marito e riesce a coinvolgere la moglie in complessi
scambi di coppia. L'uomo incontra e subisce il fascino di Vaughan (Koteas), autore di ricostruzioni di famosi incidenti.
È circolare, lucidamente torbido e ossessionato, il film che il regista canadese ha tratto da Crash,
libro cult di James Ballard scritto nel 1973. I personaggi, in continua attività sessuale, sono sospesi in un universo psichico che lega l'idea del piacere (e dell'amore) a quella della morte, e che
si protende senza soluzione di continuità tra un oggi meccanico e impersonale e un immediato
futuro di mutazioni. Il taglio impresso da Cronenberg alla materia ha "scandalizzato" parte della
critica a Cannes, dove il film ha ottenuto il premio per la migliore regia.
Crash è il film più pessimista di David Cronenberg. Non solo: è il suo film più cerebrale, più ostico e, come scrive Gianni Canova nel Castoro dedicato al regista, più «sovversivo». È il film di
Cronenberg che, maggiormente, ha sconvolto e diviso critica e pubblico. Chi ha tentato di affibbiargli etichette, anche spicce, ha dovuto rassegnarsi: Crash è un film totalmente sfuggente, unico, che non ha (e non può) avere paragoni all’interno della storia del cinema. Non è nemmeno la
summa del pensiero cronenberghiano (per riprendere un modo di dire tipico della critica cinematografica): Crash sembra, piuttosto, un parto anomalo, un errore, un corpo estraneo (al cinema),
espulso e rigettato dalla mente del regista – giusto per evocare atmosfere famigliari al cinema di
Cronenberg. Un film di corpi e di macchine immobili – come il film stesso -: di rituali vuoti e di
simulacri assenti. L’unico perno su cui ruota Crash è essenzialmente, e paradossalmente, il nulla;
un nulla non solo ed esclusivamente cinematografico, ma esistenziale: la morte, così inseguita e
desiderata dai catatonici protagonisti del film. James Ballard (nome che richiama direttamente
l’autore del libro a cui Crash si ispira), la moglie Catherine e l’enigmatico Vaughan: personaggi
che copulano fra loro, senza amore (il grande assente del film), e senza piacere, un piacere negato anche allo spettatore, che non prova alcuna empatia per questi esseri distanti, lontani, cristallizzati.
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David Copperfield
Un film di George Cukor. Con Lionel Barrymore,
Basil Rathbone, Roland Young, Freddie Bartholomew, Maureen O'Sullivan.
Drammatico, b/n durata 133 min. - USA 1934.
Il padre di David muore prima della sua nascita e quindi il
giovane è costretto a trascorrere l'infanzia senza la presenza
di una figura paterna. Trova quindi un valido appoggio nella madre e nella governante Peggotty. La madre di David
tuttavia sente la necessità di avere un marito e quindi si risposa con Mr. Murdstone, un uomo severo e insensibile e
accoglie in casa la sorella di quest'ultimo che si dimostra
essere addirittura più insensibile del fratello. Entrambi cercano di allontanare David dalla famiglia mandandolo in collegio. Qui David conosce Steerforth,
che stimerà e sarà il suo più grande amico, il compagno Taddles e il severo preside Creakle. Tornato dal college David trova un fratellino nuovo e una madre oppressa dal marito, questa sua
condizione la porterà alla morte e David quindi verrà mandato a lavorare nella fabbrica di bottiglie di Murdstone. Durante questo periodo è assistito presso la famiglia Micawber e stringe una
profonda amicizia con i suoi componenti. Mr. Micawber, dal linguaggio aulico e con la testa un
po' per aria, non è in grado di badare alle spese di casa e si indebita; a questo punto David decide di scappare via da Londra. Raggiunge a piedi, dopo mille avventure, Dover, dove risiede una
sua prozia, Betsie Trotwood. La zia lo accoglie insieme con il coinquilino Sig. Dick e insieme gli
pagano gli studi presso Canterbury e l'affitto di una stanza presso l'avvocato Wickfield dove David stringe un'amicizia sincera con la figlia di quest'ultimo, Agnes. Terminati gli studi David incomincia il tirocinio presso lo studio legale Spanlow e Jorkins dove conosce la figlia di Spanlow,
Miss Dora, finendo per innamorarsene ma incrocia la strada con il perfido Uriah Heep, aiutante
di Wickfield, che subito prova gelosia e rancore per il nuovo arrivato...
"Dal classico di Dickens, una bella versione celebre soprattutto, per i grandi attori che vi compaiono. Memorabile la ricostruzione d'epoca. Una rara occasione di vedere W.C. Fields
(Micawber): tra i comici preferiti dagli americani, in Italia è praticamente sconosciuto." (Francesco Mininni, Magazine italiano tv)
"Prodotto di maniacale e britannica precisione sia per la scenografia, che per gli attori. Poche
variazioni nei dialoghi e nelle situazioni rispetto all'originale letterario di Dickens". (Teletutto)
"Con l'efficiente macchina della Metro alle spalle, Cukor realizza un perfetto film inglese a Hollywood con un'ottima direzione degli attori e una cura maniacale del particolare. Da non perdere." (Laura e Morando Morandini, Telesette)
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The Dead - Gente di Dublino
Un film di John Huston. Con Dan O'Herlihy, Anjelica
Huston, Donal McCann, Marie Kean, Donald Donnelly.
Titolo originale The Dead.
Drammatico, durata 82 min. - USA 1987.
Le ragioni di scelta di questo film sono molte. La prima è, naturalmente, la qualità del film. La seconda è Huston, che lo diresse
pochi giorni prima di morire, sapendo di morire e rappresentando, con un coraggio più che umano, il mistero che andava incontrando. La terza ragione è James Joyce, uno dei massimi scrittori
del Novecento, che nessuno aveva mai tradotto in film.
Joyce è la letteratura. Col suo celeberrimo Ulisse, e ancora di più
col successivo Finnegan's Wake, aveva stravolto i concetti del racconto, non più logico e conseguenza di fatti ma conseguenza di parole, con assonanze, analogie, memorie improvvise e atemporali. In tutto questo c'era davvero poco spazio per le immagini. Ma Joyce nel 1906 aveva scritto i racconti Gente di Dublino, diciamo secondo lo stile tradizionale. Un libro straordinario. Il cinema aveva già attaccato monumenti inattaccabili, come Mann, Kafka e Proust, riuscendo faticosamente ad aderire a storie e significati. Autori cinematograficamente difficili, specie gli ultimi
due. Furore può anche essere condiviso da Steinbeck e Ford, e Il gattopardo da Lampedusa e Visconti, ma Il processo è di Kafka non di Welles, e Un amore di Swann è di Proust, non di Schlondorff.
Huston riprese l'ultimo dei racconti di Dublino, dal titolo I morti. A Dublino, nel 1904, le sorelle
Morkan danno un ballo annuale. È invitata la buona borghesia. Ci va Gabriel, con sua moglie
Gretta. Si fa musica, c'è una cena, si parla di tutto: pettegolezzi, arte, il tempo, politica. Prima di
lasciare la casa Gretta sente una canzone che letteralmente la sconvolge. La donna ammutolisce,
chiude gli occhi, dolorosissimamente. Il marito se ne accorge. Lei gli racconta che quella canzone era cantata da un ragazzo, Michael Furey, morto a diciassette anni di polmonite, perché era
rimasto sotto la pioggia per salutare lei che stava per partire. Gabriel è a sua volta sconvolto:
non ha mai conosciuto davvero sua moglie, era all'oscuro di una vicenda tanto importante.
Di notte, con Gretta che dorme, Gabriel pensa alla morte. Parla a se stesso guardando il buio
oltre la finestra. Joyce conclude il racconto così: "Neve cadeva su ogni punto dell'oscura pianura
centrale, sulle colline senz'alberi; cadeva lieve sulle paludi di Allen e più a occidente cadeva lieve
sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, su ogni angolo del cimitero deserto in
cima alla collina dov'era sepolto Michael Furey. S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle
tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli. E l'anima gli svanì mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l'universo, stancamente come se scendesse la loro ultima ora, su tutti i
vivi e i morti". Ma Huston non se la sente di far morire il protagonista e queste parole le fa dire
a lui. Il film dunque interviene sulle straordinarie parole di Joyce con due licenze: un finale diverso e soprattutto le immagini. Huston mostra il buio, la neve sui vetri, un campanile nero, il
ghiaccio sul fiume. La morte secondo le immagini del cinema.
Grande cinema e grande letteratura: un soccorso reciproco e tempestivo.
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Il diavolo è femmina
Un film di George Cukor. Con Katharine Hepburn,
Cary Grant, Brian Aherne, Edmund Gwenn, Natalie
Paley
Titolo originale Sylvia Scarlett.
Commedia, b/n durata 97 min. - USA 1935.
Henry Scarlett è un vedovo che dopo aver sottratto dei soldi al
suo datore di lavoro non trova di meglio che scappare da Marsiglia, dove vive, fino in Inghilterra. Con sé porta sua figlia
Sylvia che, per sviare la polizia, si traveste da ragazzo e diventa... Sylvester.
Questo travestimento proseguirà anche in Inghilterra, dove,
unitisi ad un'altra coppia di abili furfanti, Jimmy e Maudie, decidono di guadagnarsi da vivere girando di città in città allestendo spettacoli come saltimbanchi/
attori e raggirando chiunque capiti loro a tiro.
Quando incontrano il pittore Michael Fane, Sylvia se ne innamora. Ma lui è fidanzato e lei continua a vestire i panni di un ragazzo... Quando le rivela la sua vera identità e il suo amore, fa ritorno la sua fidanzata Lily, e Sylvia col cuore spezzato fugge via cercando di dimenticarlo.
Il padre di Sylvia muore in una disgrazia e quando Sylvia si rivolge a Jimmy, questi fugge con
Lily. Nell'inseguirli, Sylvia e Fane si scoprono vicendevolmente innamorati e li lasciano andare
via.
Terzo film della Hepburn con Cukor, che la eleggerà sua attrice preferita, e prima volta con Cary
Grant.
All'epoca fu accolto freddamente dal pubblico. Questo forse a causa della modernità narrativa
(salti di ambientazione frequenti e improvvisi) e anche di contenuti, visto l'insistito giocare
sull'ambiguità dei sessi e sulla facilità di confondere i sentimenti per chi, da attore/bugiardo, è
abituato a simulare. Temi tutt'altro che banali, al di là della leggerezza complessiva che può suggerire la visione della pellicola.
In definitiva, una commedia sentimentale "alla Cukor", dal soggetto originale e con una Katherine Hepburn strepitosa nei panni di un ragazzo.
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Distretto 13: le brigate della morte
Un film di John Carpenter. Con Austin Stoker, Darwin
Joston, Laurie Zimmer, Martin West, Henry Brandon.
Titolo originale Assault on precinct 13.
Drammatico, durata 90 min. - USA 1976.
Periferia di Los Angeles, il Distretto 13 sta per essere trasferito a
causa di un ordine pubblico sempre più compromesso dalla violenza. Mentre il tenente Bishop si reca sul posto con l'incarico di
supervisionare il trasloco, un cellulare della polizia che sta traducendo tre pericolosi criminali è costretto a fermarsi lì per via del
malore di uno di loro. Ma il vero pericolo viene dall'esterno: una
banda ha accerchiato il distretto per vendicare i compagni uccisi
sia dalla polizia, la notte precedente, sia da un padre, ora rifugiato nella centrale in stato catatonico, che ha risposto al barbaro
assassinio della propria figlioletta freddando uno dei delinquenti.
Subito dopo Dark Star, irriverente saggio di fine corso universitario, Carpenter firma il lavoro
che meglio identifica la sua idea di cinema: parafrasi sciolta, ma fedele dell'amato Un dollaro d'onore di Howard Hawks, Distretto 13: le brigate della morte mette in scena quella tipica situazione di assedio che il cineasta americano riproporrà nei suoi maggiori successi, compreso quel Fantasmi da
Marte non a torto considerabile come una versione fantascientifica del titolo in esame.
Si potrebbe parlare, come hanno fatto in molti, dell'influenza dei modelli western oppure delle
tantissime citazioni disseminate nel testo (tra tutte: il regista firma il montaggio con lo pseudonimo di John T. Chance, che è il nome del personaggio di John Wayne nel film di Hawks), sebbene si finirebbe col tralasciare l'importanza di un film realmente seminale, che ha segnato la nascita di un mood cinematografico in bilico tra il poliziesco, il carcerario e l'avventuroso con infiltrazioni fantastiche. Una metropoli ai limiti del collasso, l'eroe negativo e già vinto (il condannato a
morte Napoleone Wilson è protagonista come e anche più del tenente Bishop), la mancanza di
qualsiasi forma di eroismo come la giusta carica di romanticismo perdente (l'intesa tra Wilson e
la segretaria Leigh), non a caso, saranno gli ingredienti fondamentali di molti thriller urbani a
venire. Con il suo carico di violenza prima iperrealista, l'esecuzione della bambina suscitò le ire
della stampa americana, e poi sempre più rarefatta fino a raggiungere l'astrazione, la pellicola
denota l'insolita capacità del regista di dare vita a situazioni che, pure al limite con l'allucinazione, riescono a mantenere uno stretto legame con la realtà. E forse sta proprio in quest'aspetto la
sua carica più innovativa.
«Ideale ponte di collegamento tra il romeriano La notte dei morti viventi e il successivo I guerrieri
della notte di Walter Hill, Distretto 13: le brigate della morte è stato sottovalutato dal pubblico e soprattutto dalla critica, forse perché la violenza dipinta nel film era inquietantemente troppo vicina a quella della vita reale» (Fabrizio Liberti, John Carpenter, Il castoro cinema).
Rifatto nel 2005 da Jean-François Richet con Laurence Fishburne ed Ethan Hawke.
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Dodes’Ka-den
Un film di Akira Kurosawa. Con Yoshitaka Zuschi,
Kin Sugal, Kyoko Tange
Drammatico, durata 140 min. - Giappone 1970.
Il film narra alcune storie ambientate in una bidonville alla
periferia di Tokyo. Un barbone lascia morire il figlio, rifiutando l'aiuto dei vicini. Due operai passano il tempo a sbronzarsi
e a scambiarsi le donne. Un uomo tradito dalla moglie si prende cura di tutti i figli avuti dalla donna con altri uomini. Un
vecchio vende saggezza. Una fanciulla viene violentata dallo
zio. Un impiegato ha una moglie arpia che gli rende la vita un
inferno. Tra un episodio e l'altro, appare un ragazzo ritardato
che imita continuamente lo sferragliare del tram: "Dodes' kaden, dodes' ka-den".
È il film più angoscioso di Kurosawa.
Dodés'ka-dén é il film degli anni più difficili per la storia personale e artistica del regista, ma forse
é proprio questo a farne un’opera così innovativa e acuminata, che travalica di parecchie misure
il cinema di quegli anni, anticipando scenari di deprivazione,violenza,vuoto morale ed esistenziale, vite underground del cinema degli anni successivi.
Si capisce allora la diffidenza di fronte ad un linguaggio così inusitato, disturbante al punto che
si tentò perfino di eliminare dalla storia uno dei suoi momenti più belli, la parte dell’homeless visionario col piccolo figlio che muore.
Del resto, é condanna e grandezza del genio anticipare i tempi, e le “schiere di ammiratori odierni” di cui parla Tassone gli rendono giustizia.
Una bidonville di Tokyo, Horie-cho, é ricostruita sul set con scenari dipinti a colori,
(“antinaturalistici e fantastici” li definisce Bernard Cohn).
Il contrasti sono forti, il commento sonoro di Takemitsu ne accentua la ruvidezza, storie minime di convivenza fra “dannati della terra” s’intrecciano in uno spazio claustrofobico che ha il
suo centro nella piazzetta.
Le comari bivaccano in cerchio intorno ad una fontanella dove si lava e ci si lava, si commentano i rari passanti, fioriscono pettegolezzi e si trascina il giorno fra rifiuti di archeologia industriale, mentre passa sferragliando di tanto in tanto il minus habens Rokuchan.
Convinto di guidare un tram scandisce a voce il rumore metallico delle lamiere in corsa su fantastici binari:
Dodés'ka-dén, Dodés'ka-dén ...
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La donna del giorno
Un film di Jack Conway. Con William Powell,
Myrna Loy, Spencer Tracy, Jean Harlow, Walter
Connolly.
Titolo originale Libeled Lady.
Commedia, b/n durata 98 min. - USA 1936.
In seguito ad una campagna di stampa diffamatoria, la figlia
di un miliardario americano, intenta una causa al giornale
colpevole chiedendo 5.ooo.ooo dollari per risarcimento di
danni.
La causa è bene avviata e il giornale, nella tema di dover
soccombere, affida ai suoi migliori reporter l'incarico di tentare qualunque salvezza. Uno di costoro, che è fidanzato
con una brava ragazza, pensa di farla sposare "pro forma" al suo collega della cronaca mondana,
il quale - introdottosi nell'intimità della miliardaria - sarà sorpreso dalla moglie 'posticcia'. Ne
verrà fuori una contro causa di danni e soprattutto uno scandalo che, investendo la ricca ereditiera, salverà il giornale.
Il piano porta a impreviste conseguenze: il reporter mondano si innamora della miliardaria, ne è
ricambiato, e tenta di salvarla dall'intrigo…
Ufficialmente inaugurato da Frank Capra e dal suo Accadde una notte nel 1934 ma ufficiosamente
iniziato sin dai primi anni '30 da registi come Ernst Lubitsch e Lewis Milestone, il sotto-genere
della screwball comedy americana toccò le sue vette proprio nel periodo che va dagli anni del New
Deal ai primi del decennio successivo.
Una di queste vette è La donna del giorno, diretto da Jack Conway che si ispira ad un racconto di
Wallace Sullivan e costruisce una commedia incentrata su un quadrangolo composto da William
Powell, Myrna Loy (qui al loro quinto film insieme - e ne verranno ancora altri undici!), Jean
Harlow e il sopra menzionato Spencer Tracy, un quadrangolo sentimentale che, in continuazione, si troverà sconvolto dagli avvenimenti che porteranno ad innamoramenti veri, finti e presunti e a matrimoni altrettanto veri, finti e presunti. La ritmatissima andatura della narrazione non
lascia scampo allo spettatore, costretto a sfiatarsi a furia di risate, provocate ora da una freddura,
ora da una gag slapstick, ora da un imbarazzante equivoco, ora da un siparietto irresistibile.
La ricchezza di situazioni esilaranti è senz'altro uno dei principali punti di forza del film. La sceneggiatura di Maurine Watkins, Howard Emmett Rogers e George Oppenheimer (quest'ultimo
fu pure collaboratore dei grandissimi fratelli Marx) è ironica, dinamica, frizzante, ma è indubbiamente di valore anche il lavoro dell'affiatato cast attoriale: i quattro protagonisti sono eccezionali, sebbene vince di poco Powell, seguito a ruota da Tracy che inanella almeno un paio di gag
divertenti.
Pagina 53
La donna del tenente francese
Un film di Karel Reisz. Con Jeremy Irons, Meryl
Streep, Leo McKern, Lynsey Baxter, Peter Vaughan.
Titolo originale The French Lieutenant's Woman.
Drammatico, durata 123 min. - USA 1981.
Nell'Inghilterra vittoriana la governante Sarah Woodruff è
bandita dalla comunità ed evitata da tutti per essersi macchiata di vergogna con un tenente francese. Tutti la ritengono
pazza, ma proprio per questo può vagare da sola a tutte le
ore, contrariamente alle altre donne. Quando un giorno
Charles la salva dal mare in tempesta, ha inizio la storia d'amore che si intreccia con quella degli stessi due interpreti del
film.
È un film metalinguistico, quasi un saggio sulla tecnica narrativa, e teoretico, sul rapporto di osmosi e contrappunto tra realtà e finzione o virtualità; interpretato da attori dotati di un fascino
speciale; tratto da un testo raffinato e tradotto in una messinscena alla sua altezza. La parte del
film nel film è intenzionalmente caricata in senso ironico – per esempio: la Toccata e fuga di Bach
che irrompe in scena a ritrarre una sorta di feuilleton gotico.
Il racconto spinge a chiedersi continuamente quale sia il confine tra verità e falsità, tra realtà e
falsificazione destandoci, ogni volta, dal piacere consolatorio dell'immedesimazione. È reale; è
sincero, vero o è solo un inganno, una recita, finzione? E fino alla fine e su vari livelli di realtà. E
intanto fornisce una serie di informazioni sull'ambiguità dei comportamenti umani – il numero
delle prostitute pro capite della popolazione maschile a Londra.
Piacere intellettuale non privo di momenti di calore umano.
Il finale mette in chiaro la differenza tra finzione narrativa ed esperienza esistenziale nonché la
sua ragione.
Pagina 54
Donne
Un film di George Cukor. Con Norma Shearer, Joan
Crawford, Rosalind Russel, Mary Boland, Paulette
Goddard.
Titolo originale The Women.
Commedia, b/n durata 132 min. - USA 1939.
Il film, ambientato nell'alta borghesia americana, narra le vicende di Mary, moglie felice e madre di una bambina. Per la
perfidia di due sue amiche pettegole, viene a sapere che il marito la tradisce.
La donna ne rimane turbata profondamente e ottiene il divorzio. Ma il secondo matrimonio dell'uomo fallisce sia per l'intervento di Mary, sia per la spregiudicatezza della nuova moglie. Mary e l'ex marito si riconciliano.
Un film di sole donne, che ruota attorno agli uomini, cercati o rifiutati, traditi o traditori; acuta
ironica analisi degli atteggiamenti delle donne nei confronti degli uomini e delle amiche; tutt'altro
che "protofemminista" (Mereghetti), è fra i più cattivi nei confronti delle donne; ne deride le
scelte e gli atteggiamenti in modo più pungente del solito, nella reciproca malignità, nel sopportare e nel rifiutare, nella dolcezza e nella aggressività; c'è sempre l'equilibrio e la benevolenza di
fondo, ma qui Cukor sembra più acre del solito; chi si salva nella simpatia del regista è la figlia,
vittima, forse un po' convenzionale e meno sottilmente indagata, delle separazioni e dei divorzi.
Ottima la sfilata di moda, che pure sarebbe imposta dalla produzione (Mereghetti).
Pagina 55
Il dottor Mabuse
Un film di Fritz Lang. Con Lil Dagover, Alfred Abel,
Rudolf Klein-Rogge, Anita Berber, Aud Egede Nissen, Gertrude Welcker.
Titolo originale Dr. Mabuse, der Spieler.
Horror, b/n durata 185 min. - Germania 1922.
Questo film epico in due parti fu un grande successo
commerciale nella Germania del 1922, senza dubbio a
causa del suo carattere multiforme: horror, politica, satira, sesso (incluse scene di nudo!), magia, psicologia, arte,
violenza, commedia ed effetti speciali. Se da un lato le
avventure di Fantómas (e anche di Fu Manchu) appartengano al mondo intermedio tra surreale e concreto,
dall'altro Il dottor Mabuse era stato pensato non solo come un thriller rocambolesco ma
anche come una critica pungente, utilizzando la figura del supercriminale maestro in
travestimenti per rappresentare i veri malvagi della sua epoca.
Il Dottor Mabuse si serve dei poteri della sua mente per soggiogare il prossimo.
I sottotitoli di ognuna delle due parti del film, che insistono su "i nostri tempi", enfatizzano l'idea palesatasi già nella scena d'apertura, nella quale la banda di Mabuse si appropria di un accordo commerciale svizzero-olandese per creare un momentaneo panico
in borsa che permetta a Mabuse (Rudolf Klein-Rogge), vestito come un plutocrate da
cartone animato, con cilindro e pelliccia, di fare una rapida fortuna. Egli impiega anche
un gruppo di ciechi come falsari, enfatizzando la sensazione, nel pubblico tedesco dell'epoca, che la moneta tedesca non valesse più nulla (il diaboloco dottore infatti ordina ai
suoi uomini di fabbricare valuta statunitense).
Il malvagio Mabuse sceglie la sua identità del giorno tra vari travestimenti, ma passeranno due ore prima che il pubblico scopra chi è: fino a quel momento Mabuse era stato un rispettabile psichiatra, uno scommettitore incallito, persino un direttore d'hotel.
Nella seconda parte, appare come un illusionista con un braccio solo e, quando verrà
catturato, perderà il controllo e diventerà folle, tormentato dagli spettri di coloro che ha
ucciso e, in un momento che ancora colpisce, dall'animarsi di macchinari e di statue
grottesche.
Fritz Lang sarebbe ritornato a Mabuse, ancora incarnazione delle infermità della sua epoca, nel sonoro Il testamento del dottor Mabuse (1933) e nel dramma del 1960 Il diabolico dottor Mabuse.
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Dr. Akagi
Un film di Shohei Imamura. Con Akira Emoto, Kumiko Aso, Jyuro Kara, Masanori Sera, Jacques Gamblin
Titolo originale Kanzo Senseï.
Commedia, durata 129 min. - Giappone, Francia
1998.
Estate 1945. Alla vigilia della sconfitta giapponese, in un clima
di crescente tensione, il cinquantenne dottor Akagi fa il medico condotto nella cittadina di Tamano. A causa del suo zelo
eccessivo il coscienzioso dottore è diventato ben presto lo
zimbello della città e si è guadagnato il soprannome di Dottor
Fegato perché secondo lui tutti i suoi pazienti soffrirebbero di disturbi epatici. E in effetti la
maggior parte della popolazione soffre di epatite.
Il film riesce a coniugare un tema imponente e inquietante come quello della mutazione, della
malattia con il ritmo e i toni surreali della commedia. In un mondo che corre sull'orlo dell'abisso,
la comunità del dottor Akagi ha una resistenza e una solidarietà paradossali e commoventi. E
non è un caso che, quando l'abisso si spalanca, avvenga in poesia.
Prima ancora di Kitano,il discepolo di Kurosawa a pieno diritto dovrebbe essere considerato
Imamura, e non solo per l'età. Il film in questione è una "bomba", è un ordigno di commedia e
dramma insieme come pochi saprebbero fare senza risultare verbosi o banali, questo è un film
completo, ricco di suggestione di fascino esotico e umanità, girato con intelligenza da un grande
maestro di cui si fa fatica a trovare del materiale.
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Dracula
Un film di Tod Browning, Karl Freund. Con Bela
Lugosi, Helen Chandler, David Manners, Dwight
Frye, Edward Van Sloan.
Horror, b/n durata 75 min. - USA 1931.
Sebbene il romanzo originale del 1897 di Bram Stoker
fosse già stato trasposto sullo schermo da F. W. Murnau
nel 1922 con Nosferatu, e il regista Tod Browning avesse
scelto Lon Chaney per interpretare un falso vampiro nel
film muto London After Midnight (1927), questo film sonoro – girato nel 1930 e uscito il giorno di San Valentino
del 1931 – fu il vero inizio del film horror come genere a
sé e del film di vampiri come suo sottogenere più popolare.
Il cineasta Karl Freund aveva una solida esperienza nei toni e nelle ombre dell'espressionismo
tedesco, mentre Browning era il re del grottesco americano; il film rappresenta quindi
una sintesi tra le due maggiori correnti del brivido ai tempi del muto. Come alcuni
dei maggiori risultati dell'horror americano (The Bat, 1926, Il gatto e il canarino, 1927),
questo Dracula arrivò sul grande schermo non dalle pagine di un classico della letteratura gotica ma direttamente dal palcoscenico: le prime fonti della sceneggiatura, infatti,
sono un paio di adattamenti teatrali del romanzo di Stoker.
La star emergente del nuovo genere è Bela Lugosi, che dopo aver interpretato Dracula a
Brodway entra finalmente nel cast del film, dopo la morte prematura dell'attore favorito di Browning, Chaney. Forse proprio la perdita di Chaney tolse brillantezza alla regia di Browning, assai meno ispirata di quella di George Melford, intento a girare
simultaneamente la versione spagnola del film (persino sugli stessi set).
Preistorico nella sua tecnica cinematografica e ingessato da una sceneggiatura incentrata
sul dialogo, il film di Browning mantiene comunque gran parte del suo fascino sinistro
illuminando (letteralmente, per mezzo di piccole luci rivolte sugli occhi malvagi del
protagonista) la trasformazione in vampiro di Bela Lugosi, che pronuncia ogni sua battuta con un minaccioso accento ungherese. Il film si apre sontuosamente con un brano
de Il lago dei cigni e una sgangherata diligenza che porta l'ignaro Renfield (Dwight Frye)
al castello di Lugosi (dove un armadillo si fa la tana in una cripta). Il vampiro accoglie
l'ospite spuntando da una tenda di ragnatele e, durante la cena, fatica non poco a non
avventarsi sul giovane quando si accorge che questi si ferisce ad un dito tagliando del
pane. Assistono alla scena le tre inquietanti spose-vampiro del conte...
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Due lettere anonime
Un film di Mario Camerini. Con Andrea Checchi,
Clara Calamai, Carlo Ninchi, Otello Toso, Peppino
Spadaro.
Commedia, b/n durata 90 min. - Italia 1945.
Bruno torna a casa in licenza dal fronte russo e scopre, dopo
aver ricevuto una lettera anonima, che Gina, la ragazza che
voleva sposare, si è messa con Tullio, il quale gestisce una
tipografia in collaborazione coi tedeschi.
Dopo il proclama Badoglio dell'8 settembre 1943, Gina inizia
a collaborare con la Resistenza italiana contro l'occupazione
nazista. Lo stesso fa Bruno, che viene assunto nella tipografia
successivamente all’indicazione del vecchio proprietario, che
ora guida un gruppo di partigiani. Ma Tullio, che si sente estraneo alle questioni politiche, non
esiterà a tradire la fiducia dei vecchi amici.
La seconda lettera anonima è quella inviata al covo dei partigiani, dopo la cattura di Bruno, per
chiedere un riscatto. Gina capisce che questa lettera, come la prima, è opera di Tullio, quindi va
a chiedergli spiegazioni ed infine gli spara.
Finita la guerra, Gina è ancora in prigione, ma Bruno le dice che, se c'è giustizia, potrà uscire
presto.
È un compatto e vigoroso dramma di guerra, ma della guerra nelle retrovie, e poi della Resistenza. Al centro vi è il tema del collaborazionismo, che spesso non era un appoggio dato ai tedeschi
per convinzione ideologica, ma una scelta frutto di calcolo e di opportunismo, che portava con
sé pesantissimi compromessi con la propria coscienza. Il collaborazionista del film è infatti interessato unicamente ai vantaggi economici (effimeri e temporanei) che gli dà la sua attività, e finisce per calpestare tutto il resto: affetti, amore, e ogni sentimento di lealtà e giustizia.
Davvero ottima la prova della Calamai, che si rivela versatile e - devo dire - molto simpatica.
Camerini, spesso regista di commedie, è qui in piena forma col genere drammatico e rende molto bene il clima di oppressione e vessazione dato dall'occupazione, come pure trovo fatte bene
tutte le scene tra i partigiani che iniziano ad organizzarsi.
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Duello a Berlino
Un film di Michael Powell, Emeric Pressburger.
Con Deborah Kerr, Anton Walbrook, Roger Livesey, John Laurie
Titolo originale The Life and Death of Colonel Blimp.
Commedia, durata 103 min. - Gran Bretagna
1943.
Nella Berlino del 1902, due ufficiali - il britannico Clive
Candy e il prussiano Theo Kretschmar-Schuldorff - si misurano in un duello originato dall'amor di patria e dal senso
dell'onore. Non basteranno né due conflitti mondiali combattuti su fronti contrapposti né la passione per un'unica
donna a scalfire la profonda amicizia e il rispetto reciproco
che ne scaturiranno.
Primo film dei due geni Powell & Pressburger (primo anche con la loro casa di produzione "The
Archers"), nonché uno dei loro capolavori.
Il film narra, sotto un aspetto romantico,l' amicizia tra Clive Candy, generale inglese, e il tedesco Theo Kretschmar-Schuldorff, entrambi innamorati della stessa donna. I due si troveranno
uniti nell' arco delle tre guerre (anglo-boera, prima e seconda guerra mondiale) mantenendo sempre fede alle loro idee...
Il film oltre ad essere un' intensa storia d' amicizia e d' amore (il triangolo amoroso ricalca quello
presente ne I dolori del giovane Werther), racconta l' amarezza di chi, come Candy, rimane fedele ai
propri ideali, nonostante i cambiamenti (non solo di mentalità) che porterà il '900.
Celebre la scena del duello tra Clive e Theo, che esibisce in maniera originale la spettacolarità e
visionarietà dei due registi, componenti che contraddistingueranno il loro cinema nel panorama
europeo.
La parte di Candy era originariamente pensata per Olivier, che all'epoca non poté abbandonare il
servizio militare.
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Duello al sole
Un film di King Vidor. Con Gregory Peck, Joseph
Cotten, Jennifer Jones, Lionel Barrymore, Lillian
Gish.
Titolo originale Duel in the Sun.
Western, durata 138 min. - USA 1948.
Nel Texas, intorno al 1880, un uomo uccide la moglie sorpresa con l'amante. Condannato a morte, affida la figlia Pearl a
una famiglia amica, facendole giurare che non farà mai soffrire un uomo. Ma Pearl, di natura impetuosa e turbata dalla
tragedia familiare, diviene ben presto amante di un cowboy,
Lew, e altrettanto rapidamente lo tradisce. Furioso, Lew uccide il rivale e anche il suo stesso fratello che tentava di fermarlo, poi fugge nella prateria. Il fratricidio sconvolge Pearl che,
decisa a vendicarsi dell'uomo che l'ha portata alla rovina, si
mette alla sua ricerca. Lo scova nella boscaglia e inizia con lui un lungo e drammatico duello, nel
quale restano entrambi mortalmente feriti. Alla soglia della morte si trascinano l'uno accanto
all'altro e la fine li coglie uniti in un ultimo abbraccio.
Il melodramma fiammeggiante riserva sempre spazio a vizi e virtù entrambe espresse in questo
film amplificate alla massima potenza.
In Duello al sole sono infatti le passioni che finiscono per travolgere tutti i personaggi, a cominciare dal Perla, la sensuale protagonista dal sangue caliente (una Jennifer Jones in splendida forma)
aspramente contesa fra i due "fratelli rivali" Joseph Cotten e Gregory Peck.
Il primo (il "buono") le riserva le attenzioni tenere e gentili dell'amore; il secondo (il "cattivo")
più brutale e aggressivo, il fuoco della passione.
Lei ovviamente è più attratta dall'odio-amore che prova (un masochismo femminile davvero
espanso, il suo) verso il cattivissimo bel tenebroso Gregory (qui in un ruolo abbastanza insolito
per lui).. e naturalmente.. sarà tragedia..
La conclusione è affidata infatti a un "duello al sole" (quello del titolo appunto) che ha fatto
epoca... talmente kitch da diventare sublime: un atto d'amore e di vendetta portato alle estreme
conseguenze che vede fronteggiarsi la Jones e Peck in uno scontro all'ultimo sangue fra le rocce
a colpi di fucile, che nasconde però una potenza attrattiva.
Lei ucciderà l'uomo per cui palpita ancora pur detestandolo, ma sarà a sua volta ferita mortalmente. Strisciando fra la sabbia e il sudore, lei tenta così di raggiungere l'uomo prima che arrivi
davvero la fine, ma tra i due, ormai stremati e agonizzanti, non rimarrà altro che una disperata
stretta di mano sotto un sole cocente che sembra voler tingere col colore del sangue.
Davvero Imperdibile per chi ama le tinte forti ed esasperate della passione: sceneggiatura di David O'Seiznick e Oliver Garret dal romanzo di Nives Busch; regia di King Vidor impeccabile e
professionalemte asservita ai desideri del produttore intenzionato a rinverdire così i fasti e il successo di Via col vento; magnifici interpreti (oltre a quelli già citati, ci sono anche Lilian Gish, Lionel Barrymore, Herbert Marshall, Charles Bickford, Walter Huston e Harry Carey; colonna sonora adeguata di Dimitri Tiomkin; strepitosa fotografia a colori che esalta i paesaggi ed i contrasti con le sue tinte accese .. insomma un western di altri tempi che ha fatto storia!
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...E ora parliamo di Kevin
Un film di Lynne Ramsay. Con Tilda Swinton, Ezra
Miller, John C. Reilly, Jasper Newell, Rocky Duer.
Titolo originale We Need to Talk About Kevin.
Drammatico, durata 110 min. - Gran Bretagna,
USA 2011.
Eva ha messo da parte le sue ambizioni professionali e il suo
amore per New York per crescere Kevin in provincia e in
tranquillità, ma il rapporto tra madre e figlio è sempre stato
complicato, fin dal principio. Da neonato non smetteva mai
di piangere, da bambino non parlava, poi non ha mai fatto
altro che disobbedire. Tutto contro la madre, per provocarla
e addolorarla. A 16 anni, infine, Kevin ha premeditato e commesso il peggio: una strage, a scuola.
Due anni dopo, Eva ripercorre i ricordi, in cerca delle proprie mancanze, delle proprie responsabilità e di un perché.
Per il suo terzo film, la regista Lynne Ramsay ha trovato ispirazione nel controverso romanzo di
Lionel Shriver, ovvero di un'altra donna, nonostante il nome. D'altronde al centro del dramma
ci sono alcune tra le domande che più scuotono l'identità femminile: come gestire la responsabilità della maternità, per esempio, il suo essere, da un preciso momento in poi, per sempre e nonostante tutto. E il cuore del film è sicuramente nella storia d'amore tra madre e figlio, un amore
-odio, pieno di ambiguità e di non detti, fatto non si sa bene se di troppa remissione, di eroica
resistenza o di incontrollabile destino. Lo porta in superficie Tilda Swinton, con la rigidità che è
corazza del personaggio, in verità esploso dentro, ma anche con una varietà di emozioni ben
impressionanti. Non la si vedeva così convincente dalla prova di Michael Clayton.
Sul fronte estetico il film è molto insistito. Troppo. Il colore del sangue è declinato e ripreso in
tutti i modi possibili, con la sequenza dedicata e disturbante dei corpi imbrattati e annegati nel
pomodoro - che setta immediatamente gli assi cartesiani della tragedia in corso, quello lirico e
quello quotidiano, famigliare - e poi con la vernice, la marmellata, la stampa sulla T-shirt, le ferite, i bersagli. Anche il montaggio è studiatissimo, rimescolato al millimetro, costruito per la tensione. A questa estrema eleganza di modi e di temi del girato corrisponde e al contempo sfugge
il tappeto sonoro, magnificamente lavorato, dal quale passa, senza soluzione di continuità, il
flusso sentimentale del film: il dolore, la paura, la rabbia, lo sprazzo di felicità e la disperazione
della protagonista.
Non tutto convince, in ... E ora parliamo di Kevin, ma il colpo arriva comunque allo stomaco, perfettamente assestato, come tirato con l'arco da un professionista.
Pagina 62
E’ ricca, la sposo, l’ammazzo
Un film di Elaine May. Con Walter Matthau, Elaine
May, Jack Weston, George Rose, James Coco.
Titolo originale A New Leaf.
Commedia, durata 102 min. - USA 1971.
Henry Graham, personaggio indimenticabile nella lunga carrellata di quelli interpretati dal grande Walter Matthau. Scapolo di famiglia ricchissima, non ha mai lavorato un giorno in
vita sua, ha un maggiordomo, un avvocato di fiducia e una
Ferrari che lo rimane costantemente a piedi per via delle valvole incrostate. Un bel giorno, la triste scoperta: il suo stile di
vita ed il suo desiderio di vivere spendendo 200.000 dollari
l’anno nonostante la rendita del suo capitale fosse solo di
90.000, lo hanno ridotto alla bancarotta e senza più un soldo
in tasca. Appena saputa la notizia, il suo fedele maggiordomo, non prima di avergli consegnato
cinicamente il preavviso di dimissioni, gli suggerisce di fare “ciò che ogni gentiluomo di analoga
educazione e temperamento farebbe nella sua situazione”. “Suicidarmi?” ribatte sconsolato
Henry. “No, non intendevo il suicidio, intendevo suggerirle il matrimonio”. L’idea è questa: trovare, entro il più breve tempo possibile e prima che scada l’ipoteca sul prestito concessogli dallo
zio, una donna con una dote ricchissima, farla innamorare e sposarla. E poi, preferibilmente,
liberarsi di lei. La prescelta è Henrietta Lowell (Elaine May), ricca ereditiera che scrive articoli di
botanica, sola, bruttina, maldestra e incredibilmente imbranata. “E’ perfetta”, sospira imperturbabile Henry. Una volta raggiunto lo scopo, a Henry non resta che sbarazzarsi di lei, perché
“quella donna è una minaccia non solo per la salute, ma per la civiltà occidentale come noi la
concepiamo: non ha il diritto di vivere!”
E’ ricca, la sposo e l’ammazzo è una strepitosa commedia nera, dal ritmo scoppiettante ed esilarante.
Scritto e diretto dalla stessa Elaine May che interpreta la parte di Henrietta, è un susseguirsi di
battute fulminanti e di eventi dissacranti, condotti con una cattiveria ed un cinismo impagabili.
Grandissimo merito, però, è soprattutto di un magistrale Walter Matthau: perfido, freddo, sprezzante, magnificamente accigliato. Indimenticabile quando, scoperto che è ormai in bancarotta, se
ne va triste in giro per i luoghi abituali ai quali dovrà rinunciare; quando osserva imperturbabile
tutti i guai combinati dalla sua promessa sposa; quando, per farle una esilarante proposta di matrimonio, ingurgita senza sosta bicchieri di vino per trovare il coraggio, o ancora quando progetta di ucciderla mentre lei è appesa con una corda ad un dirupo per trovare foglie non ancora
classificate. Peccato soltanto per il finale buonista imposto dalla produzione, che scontentò la
stessa regista. Ma anche così, è un’opera spassosissima ed una tra le commedie più riuscite del
cinema americano degli anni Settanta.
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Les enfants du Paradis
Un film di Marcel Carné. Con Arletty, Pierre Brasseur, Jean-Louis Barrault, Marcel Herrand, Pierre
Renoir.
Titolo originale Les enfants du paradis.
Drammatico, b/n durata 95 min. - Francia 1945.
Parigi, metà del Diciannovesimo Secolo.
Lungo il Boulevard du Temple si ergono alcuni teatri.
Al Funamboles si esibisce il mimo Jean-Baptiste Debureau,
mentre l'attore tragico Frederick Lemaître calca le scene del
Grand Théâtre. Entrambi amano l'attrice Garance che è però concupita anche dal bandito Lacenaire e dal conte di
Montray. Sette anni dopo Garance reincontrerà JeanBaptiste. Le loro condizioni sociali sono cambiate ma l'amore è rimasto intatto.
Amanti perduti (termine che letteralmente significa "gli spettatori del loggione" ) è un film che
resta a pieno diritto nella storia del cinema per una molteplicità di motivi. Marcel Carné e Jacques Prévert giungono a quest'opera dopo aver collaborato su sette titoli e costituendo quindi
una coppia decisamente affiatata. L'idea nasce da un colloquio con Jean-Louis Barrault il quale
racconta degli episodi della vita di un mimo famoso: Jean-Baptiste Debureau. I due autori, sotto
stretta sorveglianza del regime collaborazionista di Vichy, vedono in un possibile soggetto che
tratti del teatro un modo per sfuggire a una censura che impediva qualsiasi riferimento alla realtà
sociale contemporanea.
Il film viene girato tra il luglio 1943 e l'agosto 1944 e completato nel gennaio 1945. Nella lettura
di Carné e Prévert gli episodi della vita del grande mimo si inseriscono in un grande affresco
(l'edizione originale durava 204') sul teatro popolare dell'Ottocento che aveva nel boulevard du
Temple (ribattezzato all'epoca 'boulevard du crime' per le storie intrise di elementi di malavita
che vi si rappresentavano) il suo cuore pulsante. È l'occasione per muoversi su un duplice piano
di lettura con un mondo visto shakesperianamente come un grande palcoscenico in cui c'è il
pubblico che recita la vita e gli attori che la rappresentano. Nonostante le numerose difficoltà
incontrate nel corso della lavorazione e il rischio costante costituito da spie naziste infiltrate nella troupe, il film riesce ad evocare quel cinema legato alla letteratura che aveva ottenuto il successo negli Anni Venti in Francia, anche se qui l'origine è di carattere diverso.
L'accento posto sul personaggio di Debureau, con la sua entrata in scena da Pierrot lunaire, evidenzia bene il connubio tra cinema e poeticità trasformandolo in un grido di libertà dalla costrizione di un presente fatto di morte e di sopraffazione.
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Un eroe borghese
Un film di Michele Placido. Con Michele Placido, Fabrizio Bentivoglio, Omero Antonutti, Philippine LeroyBeaulieu, Laura Betti.
Drammatico, durata 93 min. - Italia 1995.
L'avvocato Giorgio Ambrosoli, sposato e padre di tre figli, viene
nominato liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, il
finanziere legato alla mafia. Il compito del legale è estremamente
difficile, sia per la situazione interna alla banca, che per le numerose implicazioni che, inevitabilmente, interferiscono col suo
lavoro. Ambrosoli è determinato a compiere il proprio mandato
al meglio possibile, senza lasciarsi fuorviare o intimidire, pur avendo l'esatta percezione dei pericoli ai quali si espone. Non lo
fermano le minacce, i consigli "amichevoli": l'avvocato vuole
mettere in luce tutto il marcio che sta dietro il finanziere siciliano, le complicità, le connivenze, a
qualsiasi livello e a qualsiasi titolo. E Sindona, resosi conto della statura morale di un antagonista
intemerato e incorruttibile, lo fa uccidere. Ma anche lo Stato è corresponsabile del delitto.
Michele Placido (regista, oltre che interprete nel sobrio ruolo del maresciallo Novembre, della
Finanza) affronta con serietà e misura (salvo qualche raro momento poco controllato) uno dei
"casi" più infami, più vergognosi della nostra storia recente: quello di un uomo divenuto "eroe"
solo per aver voluto fare il proprio dovere. Un uomo che lo Stato avrebbe dovuto appoggiare e
proteggere e che invece, attraverso i suoi canali più sordidi, contribuì ad assassinare.
Ottima prova di interprete per Fabrizio Bentivoglio, ma anche le figure minori sono delineate
con attenzione e vigoria.
L'eroe più inconsapevole che borghese rispondeva al nome di Giorgio Ambrosoli, avvocato civilista che un giorno ebbe la sventura di essere nominato curatore fallimentare di una banca facente parte dell'impero finanziario dell'avvocato Sindona. E se voler fare onestamente il proprio
lavoro basta per diventare eroi (e Ambrosoli è un eroe e martire crollato sotto i colpi di un sicario per essersi rifiutato di ridimensionare il proprio lavoro giusto per far comodo al potente di
turno) ebbene questo ci dice a che punto di non ritorno era(è) arrivata la nostra Italietta.
Perché se è vero che la storia di Ambrosoli è consumata tutta negli anni '70 è inevitabile accostare questi avvenimenti a quelli che accaddero negli anni '90 (quando uscì il film nelle sale) ed è
altrettanto inevitabile vedere quanto simili a quelli siano gli scandali finanziari che hanno riempito le pagine dei quotidiani in questi ultimi mesi. Ricorsi storici per dirla con Vico. O semplicemente un gruppo di potere che pervicacemente perpetra i suoi crimini. Basta sostituire i nomi,ma cambiando gli addendi come mi insegna mia figlia il risultato non cambia(proprietà commutativa dell'addizione).
Il film di Placido è un film antideologico,è un film di civile indignazione e di denuncia come se
ne facevano negli anni 70, alla maniera di Rosi. Vibrante ma allo stesso tempo con quell'aria di
mesta rassegnazione che ci fa capire che i tempi non sono maturi per il cambiamento.
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L’età acerba
Un film di André Téchiné. Con Elodie Bouchez, Gaël
Morel, Stéphane Rideau
Titolo originale Les roseaux sauvages.
Drammatico, durata 113 min. - Francia 1994.
Nel collegio maschile di un picolo paese arriva Henri, un giovane
"pied-noir" che ha il dente avvelenato con i compatrioti che hanno mollato l'Algeria, e che è mal visto dai compagni. Fra questi,
ha rapporti con Serge e François. Il fratello di Serge muore nella
guerra coloniale, François vive malissimo le sue tendenze omosessuali. Poi c'è Maïté, figlia di un'insegnante e militante comunista...
Il bel film di Téchiné fa parte di una serie prodotta dalla Tv e a diversi registi ("Toutes les garçonnes et les filles de mon age"): un ripensamento collettivo nel quale questo episodio ha il pregio di un contesto raccontato benissimo e di personaggi credibili, senza le trappole delle sdolcinature nostalgiche.
Sorprende che ancora manchi in commercio una edizione di uno dei migliori film di André Téchiné, per altro eccellente regista immeritatamente poco noto agli italiani. Speriamo in un'ottima
edizione a breve.
Les roseaux sauvages, prodotto dalla tv francese, è un gioiello di sopraffino equilibrio di turbamenti
sociali e intimi, soprattutto una purissima auscultazione dell'anima e di un'età critica, quella della
formazione intellettuale e fisica, quella terra bombardata dalle passioni e dalle indecisioni, dai
contrasti e dalla ricerca. I suoi quattro magnifici protagonisti sono appunto come canne al vento,
giunchi selvaggi tormentati dalla Storia, dal proprio essere e dall'essenza dell'altro.
Téchiné ammalia per la dolcezza, il candore, l'asciuttezza che porta fertilità al suo sguardo capace di avvicinare idillio e cupi fantasmi interiori, purezza naturale immediata e lontani massacri. Il
paragone col romanzo di formazione, tanto citato per il suo cinema, calza al massimo grado in
questo commovente intreccio di amori e soprattutto di grande umanità e amicizia, dignità e rispetto anche nei contrasti, che appaiono quasi paradossali nella loro sincerità. L'astrattezza impalpabile della forma fluidissima come un ruscello si sposa ad una sensazione di carnalità immacolata, esempio di "cortigiana" sprezzatura; l'apparente distanza svela inoltre la propria partecipazione grazie anche al sostegno del magnifico Adagio per archi di Samuel Barber (trascrizione
dell'autore molto nota dell'adagio del suo Quartetto per archi, anche in versione per coro col
titolo Agnus Dei), una lama che affonda lenta e inesorabile nel più profondo dell'anima, scelto
nelle sezioni in cui il discorso melodico è in fieri, non ancora al culmine, come è in progressione
la vicenda del film, appunto in formazione e dal finale aperto.
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Il fantasma del palcoscenico
Un film di Brian De Palma. Con Paul Williams, William Finley, George Memmoli, Jessica Harper, Sissy
Spacek.
Titolo originale Phantom of the Paradise.
Drammatico, durata 92 min. - USA 1974.
Swan è il Dio della produzione discografica mondiale e sta per
inaugurare il suo tempio: il Paradiso, una sala concerti come
mai se ne sono viste. Per la serata d'apertura, però, ha bisogno
di una musica all'altezza. La trova quando Winslow Leach, un
musicista disgraziato, si infiltra di soppiatto alle audizioni e
suona la sua cantata per piano e voce ispirata al Faust di Goethe. Nella più triste tradizione, Swan gli ruba la musica e riarrangia lo spartito in toni horror-rock, dando il ruolo principale a Beef, un trogloditico rocker.
Winslow nel frattempo evade dalla prigione in cui con un inganno Swan è riuscito a farlo rinchiudere: pazzo di rabbia fa irruzione nella sala delle presse discografiche dove si stanno stampando i vinili del "Faust" e distrugge tutto ma, a causa di un incidente resta sfigurato. Winslow si
introduce nel Paradiso, dove vive nascosto e mascherato, e inizia la sua vendetta uccidendo gli
scritturati per il "Faust". Swan lo scopre e gli propone un accordo: Winslow finirà la musica e
Swan, in cambio, darà una parte a Phoenix, bella e brava cantante che Winslow avrebbe voluto
come prima voce. Winslow accetta, e firma il contratto col sangue...
De Palma aveva realizzato pochi film all'epoca di The Phantom - sebbene avesse già avuto modo
di lavorare con Orson Welles e Robert De Niro (che allora era poco più che un ragazzo promettente...) - ma erano stati sufficienti a dargli una certa credibilità. Fu così in grado, dopo il fortunato Sisters, di tornare su un progetto che risaliva a cinque anni prima e a cui teneva particolarmente: una rock opera che evidenziasse gli aspetti più grandguignoleschi e glamour del rock dei
tardi anni '60. La sorte volle che Paul Williams, abile songwriter di successo, ottenesse il compito
di scriverne le musiche e insieme di interpretare il diabolico e sofisticato Swan. Quest'incontro
consegnò alla Storia del cinema un gioiello tanto ricco di colpi di genio, trovate originali, citazioni ed autocitazioni colte e ironiche, da porlo un gradino sopra gli altri film del "genere" dello
stesso periodo, quantomeno dal punto di vista strettamente cinematografico. Meno irriverente
del Rocky Horror, lontano dalla mistica di Hair, meno lisergico di Jesus Christ Superstar, ma anni
luce avanti a tutti in quanto a padronanza registica e bellezza delle musiche, quello di De Palma
può essere considerato a pieno titolo IL musical rock degli anni '70. Ma se, come chi scrive, amate il rock, l'horror, Goethe e il cinema da cardio(De)palma, potreste trovare ne Il fantasma del
palcoscenico anche di più: il film della vostra vita.
Pagina 67
Fantastic Mr. Fox
Un film di Wes Anderson.
Animazione, durata 88 min. - USA, Gran Bretagna
2009.
Il signor e la Signora Fox vivono pacifici col figlioletto Ash e
il nipotino Kristofferson, loro ospite, dentro un grande albero
in cima alla collina che fronteggia gli stabilimenti dei più cattivi contadini della zona: Boggis, Bunce e Bean. Ma la natura
selvatica del signor Fox gli impedisce di trovare soddisfazione
come giornalista e lo spinge a cercare di far fessi i tre uomini e
a saccheggiare i loro depositi. La vendetta è veloce e spietata e
mette a repentaglio non solo la sua amata famiglia ma tutti gli
animali del sottosuolo. Mr Fox dovrà elaborare dunque un
nuovo e geniale piano per trarre tutti d'impaccio.
Il signor Volpe, il protagonista del primo lungometraggio d'animazione di Wes Anderson, è elegante, intraprendente, selvatico. Un intelligente e vanitoso americano (la voce originale e l'ispirazione di fondo sono quelle di George Clooney) che di quando in quando parla francese e da solo è capace di rivoluzionare come nessun altro lo statico quadro della campagna inglese.
Mentre la moglie dipinge, assecondando una vocazione artistica che in Anderson è spesso associata al femminile, lui incarna lo spirito dell'avventura. Stanco di vivere in un buco, noncurante
del fatto che i buchi altro non sono che le abitazioni standard delle volpi come lui, si sistema in
grande stile in un appartamento esagerato e in una posizione pericolosissima e tentatrice. C'è
qualcosa di Mr. Ocean in Mr. Fox, ladro gentiluomo, capo della banda, e qualcosa del supereroe
che non può non rispondere alla chiamata identitaria, alla missione (vedi Zissou) e dunque mascherarsi e tornare ad essere chi realmente è, un professionista del furto.
A leggere idealmente il fumetto di questo supereroe è il figlio Ash, schiacciato dal mito del padre
e goffamente alla ricerca della sua perenne approvazione. Come sempre nei film dell'americano,
padre e figlio cresceranno insieme e non certo da soli, ma con la complicità di una famiglia allargata che li ama per quello che sono: fantastici o semplicemente piccoli, in ogni caso umanamente animali.
La sceneggiatura del regista in coppia con Noah Baumbach crea quasi dal nulla -tanto è sottile il
racconto di Roal Dahl-, o probabilmente giusto da uno spunto affettivo (Anderson sostiene che
quello fosse il primo libro da lui mai posseduto), un universo di brulicante vitalità, intensa pittoricità ed emozionante musicalità. Ancora una volta senza sponda alcuna, che sia un genere di
riferimento o una trama archetipica, l'autore segue (anche a distanza) con sincera partecipazione
la fuga dei suoi personaggi verso un destino apparentemente ignoto (ad un certo punto non resta che scavare e scavare, il più velocemente possibile e senza tregua) ma di fatto puntato verso
la rivendicazione del diritto alla diversità, alla libertà e alla condivisione di entrambe con i pochi
amici. Che aumentano, però, strada facendo.
Pagina 68
Febbre di vivere
Un film di George Cukor. Con Katharine Hepburn,
John Barrymore, David Manners, Billie Burke
Titolo originale A Bill of Divorcement.
Commedia, b/n durata 75 min. - USA 1932.
Respinto dalla moglie dopo anni di matrimonio, un uomo
trova amore e comprensione nella giovane figlia che non aveva mai visto prima.
Dalla commedia Solitudine (1921) di Clemence Dane, esordio
al cinema di Katharine Hepburn ancora inesperta ma già capace di dimostrare personalità, temperamento e talento: ruba
la scena al bravo John Barrymore in una delle sue migliori
interpretazioni.
Il remake del 1940, con la regia di John Farrow, è inedito in Italia.
Dramma teatrale, che risente nella messa in scena del recente passaggio dal muto, nel senso fotografia molto espressionista ed impostazione attoriale fortemente sottolineata, anche dallo stesso trucco. Meno male che alla regia c’è un grande come Cukor che rimase fulminato dal provino
fatto dalla Hepburn, ed sottrasse diverse atmosfere drammaticamente esagerate.
Certo la provenienza teatrale del dramma è ancora presente e gli sceneggiatori si sono troppo
adagiata sulla storia, ma la presenza deal Hepburn riesce a dare un certo equilibrio, pur rimanendo la storia fortemente inquadrata.
Pagina 69
La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky
Un film di Mike Leigh. Con Sally Hawkins, Alexis
Zegerman, Eddie Marsan, Andrea Riseborough,
Samuel Roukin.
Titolo originale Happy-Go-lucky.
Commedia, durata 118 min. - Gran Bretagna 2008.
Londra non è solo pioggia e toni cupi ma ha anche un lato
solare e colorato, quello rappresentato alla perfezione da Pauline, una giovane maestra elementare che solo a guardarla
mette allegria. Poppy, così la chiamano tutti, è uno spirito libero, ama i vestiti kitsch e vive con l'amica del cuore, anche
lei insegnante, in un piccolo delizioso appartamento nel nord
della città. Passa le sue giornate preoccupandosi più del presente che del futuro e tra lezioni a scuola, lezioni di guida e lezioni di flamenco, Poppy ha raggiunto il perfetto equilibrio con se stessa e con gli altri. Non vive nelle fiabe ma tiene i piedi saldamente per terra senza mai perdere di vista la realtà, affrontando la vita quotidiana con un pizzico di ottimismo, con autoironia e spontaneità.
Si sa, cuor leggero, Dio l'aiuta.
A quattro anni dal pluripremiato Il segreto di Vera Drake il regista torna a parlare di donne e vita
vissuta con un personaggio a tinte forti, adorabile e goffo allo stesso tempo, che probabilmente
in mano ad un'altra attrice avrebbe finito per risultare eccessivo. Sally Hawkins invece è straordinaria, e rapisce l'attenzione dal primo all'ultimo secondo, saltando insieme ai suoi rumorosi braccialetti da un siparietto ad un altro senza pause. La sua interpretazione, fatta di buffe smorfie e
battute a raffica, strappa più di qualche applauso e rimarrà certamente nella memoria e nella storia di questo festival. Si ride, e anche molto, ma i momenti seri sono in agguato dietro l'angolo,
narrati da Leigh con il suo solito humor e con una saggezza fuori dal comune.
Un film contemporaneo Happy-Go-Lucky, realista e che invita al buonumore e alla riflessione, la
storia di un piccolo universo di felicità che riconcilia con il Cinema.
Definirlo eccezionale sarebbe poco.
Pagina 70
La figlia del vento
Un film di William Wyler. Con Henry Fonda,
George Brent, Fay Bainter, Bette Davis
Titolo originale Jezebel.
Drammatico, b/n durata 106 min. - USA 1938.
Nella New Orleans di metà XIX secolo, la orgogliosa e ribelle
Julie Marston entra in conflitto con la mentalità conservatrice
dell'alta società locale. La sua apparizione al tradizionale ballo
di debutto in un provocatorio scollato vestito rosso porta alla
rottura del suo fidanzamento con Pres Dillard che, per quanto influenzato in senso modernista dalle frequentazioni della
borghesia finanziaria e industriale del Nord, non riesce a sottrarsi alle pressioni del suo ambiente di origine.
Si ritroveranno tre anni dopo nella residenza di campagna dei Marston, mentre in città infuria
"Yellow Jack", la febbre gialla. Ma, al ricevimento organizzato da Julie nella certezza di poter
riconquistare il perduto amore, la giovane viene a sapere del suo matrimonio con Amy, una sobria ragazza newyorchese. I suoi successivi intrighi porteranno all'uccisione in duello dell'amico
Cantrell per mano del fratello di Pres.
Espierà la sua colpa ottenendo da Amy di poter accompagnare Pres, che nel frattempo è stato
contagiato dall'epidemia, nel lazzaretto dell'Isola dei Lebbrosi.
Il titolo originale inglese Jezebel fa riferimento ad un passaggio biblico del Primo Libro dei Re
letto a Julie dalla zia: "...una donna che si chiama Gezabel e commette il male al cospetto di Dio...". Acab, re di Israele, fu indotto dai suggerimenti della moglie Gezabel ad abbandonare la
religione dei padri, costruendo templi al dio Baal e compiendo vari delitti.
La figlia del vento, prodotto in esplicita concorrenza con Via col vento e terminato un anno prima di
quest'ultimo, presenta diverse affinità con l'altro melodramma sudista. L'irruzione di immani
catastrofi - la pestilenza con le apocalittiche scene di massa o la Guerra di Secessione - in un tessuto di quotidiana meschinità, con una funzione catartica, quasi salvifica. Ma anche il confronto
tra due anime dell'America: un Nord progressista, tecnologicamente e socialmente illuminato ed
un Sud arcaico, vittima di codici d'onore e pregiudizi, con una struttura sociale fossilizzata, ma
ricco di vitalità e risorse.
È questo l'aspetto cui si rivolge l'attenzione di William Wyler. Ciò che lo preoccupa è soprattutto seguire i moti dell'anima di Julie, tanto da lasciare in secondo piano l'esito della vicenda. Esemplare al proposito l'episodio del ballo, sia per il sottile conflitto psicologico tra i due quasi
fidanzati, sia per la contrapposizione tra l'entusiasmo e il desiderio di autorealizzazione di Julie e
il muro di ostilità e diffidenza oppostole da rigide convenzioni sociali, evidenziato nel contrasto
del b/n dalla fotografia di Ernest Haller, tra lo sgargiante vestito rosso e i costumi bianchi delle
altre debuttanti. Anche nel confronto tra le due donne di Pres interpretate da Bette Davis
(vincitrice del Premio Oscar per la miglior attrice) e Margaret Lindsay non vi è dubbio che la
simpatia e l'interesse di Wyler sono rivolte alla prima.
Pagina 71
Il figlio
Un film di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne.
Con Olivier Gourmet, Morgan Marinne, Isabella
Soupart
Titolo originale Le fils.
Drammatico, durata 103 min. - Belgio, Francia
2002.
Olivier è un falegname che insegna in una scuola di avviamento alle professioni.
Da quando suo figlio è stato ucciso da un undicenne e sua
moglie lo ha lasciato l'uomo si dedica totalmente al lavoro.
Un giorno arriva nella scuola Francis, l'assassino del figlio,
scarcerato dopo alcuni anni di detenzione e ora immesso in
un percorso di recupero. Olivier, dopo qualche incertezza, chiede di averlo nella sua classe. Lui
sa bene chi è mentre il ragazzo ignora di essere di fronte al padre della propria vittima.
Ancora una volta i Dardenne decidono di utilizzare la tecnica del pedinamento che in questa
occasione assume il valore simbolico di una ricerca. Olivier, anche se ancora lacerato da un desiderio di vendetta, di fatto sta cercando quel figlio che non ha più proprio in chi glielo ha sottratto e Francis in fondo ha bisogno di un padre. Potrebbe sembrare innaturale e troppo
'cinematografica' la decisione di Olivier di rinunciare a vendicarsi di chi gli ha devastato la vita.
Ma i Dardenne ne sono consapevoli e costruiscono (e seguono) il tormento dell'uomo senza
forzature. Non è un caso che ci sia un dialogo con la ex moglie (ora incinta di un altro) che gli
chiede che senso abbia comportarsi così nei confronti dell'omicida del figlio. La risposta di Olivier non è immediata proprio perché si sta ancora sviluppando un percorso.
La forza del cinema dei due registi belgi sta proprio in questo: nel non offrire mai soluzioni facili
e che non provengano dallo sviluppo di un pensiero che finisce col farsi azione. Si osservi con
attenzione la sequenza in cui Olivier entra nell'abitazione di Francis di nascosto e si sdraia sul
suo letto e ci si chieda quale intenzione nasconda. Si vedrà che quell'intenzione sta al centro di
tutto il cinema dei Dardenne: cercare di comprendere (che non significa affatto semplicisticamente 'giustificare') l'altro. La confidenza tra i due si sviluppa per quasi impercettibili passi in
avanti dove non c'è qualcuno che vuole educare anche perché l'altro non vuole essere educato.
C'è piuttosto una convergenza sulla messa a disposizione di competenza e passione che finisce
con il trasmettersi dall'uno all'altro divenendo poi fisicità in cui può riemergere l'odio ma finisce
con il prevalere una possibilità: quella che i Dardenne non negano mai ai loro personaggi senza
per questo adagiarsi su facili happy end.
Pagina 72
La folla
Un film di King Vidor. Con Bert Roach, James
Murray, Eleanor Boardman, Estelle Clark, Daniel G.
Tomlinson, Dell Henderson.
Titolo originale The Crowd.
Drammatico, b/n durata 90 min. - USA 1928.
“Devi essere in gamba in quella città, se vuoi battere la folla”.
Così dice il giovane John vedendo per la prima volta la città di
New York, spaventosa metropoli dove è sicuro che le sue qualità lo innalzeranno al di sopra del volgo.
Le cose andranno però diversamente per l'eroe de La Folla, che
non si può veramente chiamare tale, visto che l'intenzione
del regista King Vidor era quella di ritrarre un uomo così dolorosamente ordinario da apparire
come un esempio della moltitudine urbana che dà il titolo al film.
La storia inizia quando egli è un neonato, indistinguibile da tanti altri, e finisce ritraendolo
come un borghese di New York, uguale a tutti gli altri. Nel frattempo attraversa esperienze
così banali che solo una casa di produzione avventurosa come la MGM, sotto la direzione di
Irving G. Thalberg, avrebbe potuto considerarle a tutti gli effetti adatte al dramma hollywoodiano. Né ci sarebbe stato il film se Vidor non gli avesse trasmesso il suo sconvolgente immaginario dalla scena stilizzata in cui John apprende della recente morte di suo padre - girata in un corridoio che enfatizza la prospettiva - fino alla ripresa finale di John e sua moglie
Mary. I due protagonisti, dal nome generico quanto il titolo del film, si ritrovano intrappolati
in un'impensabile ressa di gente che va al cinema, una folla che appare come un gregge, rispecchiando inesorabilmente anche il pubblico.
Vidor era agli apici della sua carriera hollywoodiana quando diresse La folla, fresco del successo dell'epopea sulla Prima guerra mondiale La grande parata (1925).
Per il ruolo di Mary scelse l'affascinante star Eleanor Boardman, attrice nonché moglie del regista, ma per quello di John scommise sull'inesperto James Murray, la cui erratica carriera finì
col suicidio.
Sebbene entrambi siano splendidi, è Murray a risplendere maggiormente grazie al tocco esperto di Vidor: si veda tra tutte la sequenza in cui la tragedia della morte della secondogenita
avviene davanti agli occhi dei genitori, che unisce una recitazione ispirata, un montaggio
che spacca il secondo e un lavoro di ripresa perfetto.
Pagina 73
Le follie dell’imperatore
Un film di Mark Dindal. Con David Spade, John
Goodman, Eartha Kitt, Patrick Warbunton, Wendie
Malick.
Titolo originale The Emperor's New Groove.
Animazione, durata 78 min. - USA 2001.
L'imperatore Kuzco sta per compiere 18 anni ma è troppo
pieno di sé per trovare una sposa 'adeguata'. Compie però
l'errore di licenziare l'anziana consigliera Izma che si vendica
con l'aiuto del fusto Kronk che le fa da chaperon. Il proposito
è quello di avvelenarlo ma, per un errore, di Kronk, la pozione non lo uccide, ma lo trasforma in un lama (parlante ovviamente). L'imperatore lama finisce così sul carro del campagnolo Pacha col quale avvia un rapporto amichevolmente conflittuale. La loro alleanza porterà
comunque alla sconfitta di Izma e al ritorno dell'Imperatore a un'umanità completa (anche in
rapporto agli altri).
La Disney ormai non può rinunciare al confronto con le rivali Warner, Fox e Dreamworks.
Questa volta torna all'animazione disegnata (dopo la non positivissima esperienza di Dinosauri) e
prova anche a modificare in parte la propria linea di tendenza. Un po' più di bizzarria, più comicità e meno zucchero sono gli ingredienti di una ricetta che fa di questo film una simpatica occasione di divertimento. Con tanto di canzoni scritte da Sting.
Pagina 74
Follie d’inverno
Un film di George Stevens. Con Fred Astaire, Ginger
Rogers, Victor Moore, Helen Broderick, Eric Blore
Titolo originale Swing Time.
Musical, b/n durata 105 min. - USA 1936.
Follie d'inverno, la fantasia di canzoni e ballo di George Stevens, è uno spettacolo ambientato dietro le quinte di un
musical.
Pietra miliare del cinema della metà degli anni Trenta, il
film è anche un assaggio dei gioielli prodotti dalla coppia
Fred Astaire-Ginger Rogers.
Messo insieme dal leggendario produttore della RKO, Pandro S. Berman, Follie d'inverno è la storia di Lucky Garnett
(Fred Astaire), un affermato ballerino fidanzato con Margaret Watson (Betty Furness).
Quando viene obbligato ad assicurare una dote consistente per continuare a vedere la
sua fidanzata, i progetti matrimoniali vengono sospesi e Lucky va a cercare fortuna a New
York. Una volta giunto nella metropoli incontra Penny (Ginger Rogers), il suo vero amore, e da questo momento in poi il film non sarà altro che un'attesa del momento in cui cadranno uno nelle braccia dell'altra.
Naturalmente ci sono diversi equivoci, qualche svolta melodrammatica, e un happy end, nonostante brevi momenti di sofferenza e qualche stretta al cuore. Lo scopo del film è senza
dubbio mostrare i suoi numeri musicali, alcuni dei quali sono divenuti dei veri e propri classici. Jerome Kern scrisse la musica, Dorothy Fields quasi tutti i testi delle canzoni. La loro
combinazione è il pilastro della colonna sonora, nonostante l'energia, la verve e il perenne
sorriso di Astaire e della Rogers siano ciò che rende brillante ogni numero con i movimenti
di danza e le scarpe da tip-tap.
I momenti migliori sono i due assoli di Lucky in "The Way You Look Tonight", un classico
da nightclub, e "Never Gonna Dance". Due duetti con Astaire e la Rogers allargano la tavolozza del grande schermo: "Waltz in Swing Time" e la loro famosa versione di "A Fine Romance".
Il gran finale dello show potrebbe comunque essere "Bojangles of Harlem". In questo
pezzo, Lucky inizia la sua performance con il volto dipinto di nero, all'interno del coro che
lo accompagna: sicuramente un accenno alla sua formazione, ma anche un vecchio, e forse
offensivo frammento di storia culturale.
Il numero va avanti in crescendo fino al momento in cui Astaire danza con varie proiezioni di se stesso.
Pagina 75
Forza bruta
Un film di Jules Dassin. Con Yvonne De Carlo, Burt
Lancaster, Charles Bickford, Ella Raines, Hume
Cronyn
Titolo originale Brute Force.
Drammatico, b/n durata 98 min. - USA 1947.
Il film inizia in una mattina piovosa alla prigione di Westgate.
I prigionieri, stipati in ambienti minuscoli, osservano dalle
finestre Joe Collins che viene riportato in cella dopo il periodo trascorso in isolamento. Joe è infuriato, e vuole in tutti i
modi fuggire dal carcere. Il direttore della prigione, assediato
da tutti i fronti, è sotto pressione delle autorità per ripristinare
la disciplina. Il responsabile della sicurezza, il capitano Munsey, è un sadico che manipola i prigionieri per avere informazioni e per metterli uno contro l'altro, in modo da creare problemi che verranno sanzionati dalle sue punizioni.
Il medico della prigione, spesso alticcio, nel corso di una riunione avverte i suoi superiori che la
prigione è sul punto di esplodere, e lo farà se non verrà cambiato qualcosa nella gestione. Denuncia anche il comportamento di Munsey e si lamenta del fatto che l'opinione pubblica e i funzionari del governo non comprendono come il carcere debba servire come riabilitazione per i
detenuti…
Vigoroso dramma carcerario, teso e ben compaginato, che mostra come in una prigione, dove
pure la vita è dura, basta un carceriere sadico e megalomane per trasformarla in un inferno. Non
basta che il medico e il direttore stesso cerchino di rendere ai galeotti meno penosi possibile i
lunghi anni di galera, specie se il direttore non è in grado di imporsi sul crudele e ambizioso secondino. Dassin gira un film duro e con alcune scene forti (come il detenuto schiacciato sotto la
pressa per metalli), ma non giunge a eccessi ai livelli di far stringere lo stomaco, come mi è accaduto per il successivo Rififi. Gli attori sono tutti bravi ed efficaci, e sono guidati da una regia
precisa, che non lascia sbavature. La sceneggiatura di Richard Brooks, poi, offre alcuni interessanti e pertinenti riferimenti biblici.
La rappresentazione dei rapporti tra detenuti fa vedere da una parte un ammirevole cameratismo
e solidarietà, dall'altra l'immancabile presenza dei traditori e le pene francamente troppo crudeli
a cui gli altri detenuti li condannano una volta scoperti. La scena del pestaggio del galeotto giornalista vuole quasi far vedere che non è obbligatorio fare le soffiate all'aguzzino, ma si può resistere senza troppe conseguenze. Buona è anche la definizione dei personaggi, ciascuno dei quali
ha la sua umanità, le sue debolezze, e gli errori che lo hanno condotto tra le sbarre. L'ambientazione in una prigione angusta e opprimente contribuisce a fare di questo film un disperato anelito di libertà.
Pagina 76
Funny Games
Un film di Michael Haneke. Con Naomi Watts, Tim
Roth, Michael Pitt, Devon Gearhart, Brady Corbet.
Thriller, durata 111 min. - Gran Bretagna, USA,
Francia, Austria, Germania, Italia 2007
Una famiglia borghese in automobile.
La cavalleria rusticana di Mascagni e Atalanta di Handel nell'autoradio. Il figlio ascolta sorridendo dal sedile posteriore. La casa
al lago: con il prato ben curato, la barca a vela e i vicini gentili.
Niente di più stabile, tranquillo e banale.
Non fosse che Haneke usa la macchina da presa come a volerne (vivi)sezionare la vitalità. Con piani totali, dall'alto a volo
d'uccello e dettagli minimali. La musica lirica e John Zorn che
irrompe sui titoli di testa.
Spinto dal produttore Chris Cohen a portare negli Stati Uniti la sua opera austriaca del 1997,
Michael Haneke ricalca ogni piano dell'originale in un'operazione che non può non ricordare, e
lo fa volutamente, lo Psycho di Gus Van Sant. Si sa, negli Stati Uniti, senza il remake, i film stranieri hanno scarsa visibilità. Haneke ne approfitta e, nel clonarsi, sfrutta la bravura dei suoi attori, Naomi Watts, Tim Roth, Micheal Pitt e Brady Corbet, per dare maggior valore alla pellicola
grazie all'interpretazione.
Non è tutto. Sbarcato in America, Funny Games, che già offriva una varietà di possibili letture, si
fa ancora più stratificato. Lasciando dunque spazio alle logiche di ri-produzione, identico all'originale eppur diverso, mostra, tra le altre innumerevoli cose, come un film sia un fatto sociale e
contestuale. Nel giro produttivo americano, Funny Games sfrutta le logiche di genere per rendere
ancora più potente una sadica critica della società dello spettacolo ai danni di uno spettatore inconsciamente e irrimediabilmente colpevole. Sia ben chiaro, la differenza è talmente minima tra
l'originale e il remake, da essere portatrice di senso: ma è lo spettatore a costituire lo scarto, a
non poter non vedere il film sotto altre prospettive, anche solo per la presenza degli attori protagonisti.
Funny Games è un horror, in quanto mette in scena la perversione dello spettacolo dell'orrore.
Ma lo fa in maniera estrema, al punto da divenire parodico, beffa grottesca del cinema e delle
sue logiche, dello spettatore e delle sue certezze. I ragazzi vestiti di bianco, sadici e col viso pulito da figli di papà, ricordano i drughi di Arancia Meccanica. Le uccisioni e la dilatazione del tempo,
sono una messa in questione del nostro modo di osservare oltre che di quello di rappresentare la
violenza.
Aggressivo, estenuante, critico e parodico contro le stesse critiche che mette in scena, Funny Games nel suo essere remake di se stesso è un'opera contemporanea che acquista valore e senso
nella ripetizione.
Pagina 77
Il fuorilegge
Un film di Frank Tuttle. Con Alan Ladd, Robert Preston, Veronica Lake, Laird Cregar, Tully Marshall.
Titolo originale This Gun for Hire.
Poliziesco, b/n durata 80 min. - USA 1942.
San Francisco, 1942. Raven, killer solitario e nevrotico, sopprime un uomo e la sua segretaria per impadronirsi di carte compromettenti, che consegna a Will Gates. Questi, manager di
un'industria chimica e impresario a tempo perso, lo paga con
biglietti che risultano rubati. Appena Raven tenta di spenderli,
si scopre ricercato e decide di seguire Gates per farla pagare a
lui e al suo mandante. Nel frattempo la cantante e illusionista
Ellen Graham, fidanzata del tenente di polizia Crane, viene
assunta da Gates per un locale di Los Angeles. Subito dopo
Ellen viene incaricata da un senatore di indagare su Gates, sospettato di spionaggio a favore dei
giapponesi. Il caso vuole che Ellen salga sullo stesso treno preso da Gates e che Raven si sieda
accanto a lei…
La sceneggiatura, cui collabora lo scrittore W. R. Burnett, parte da Una pistola in vendita dell'inglese Graham Greene, autore guardato sempre con molto interesse dal cinema, da Carol Reed a J.
L. Manckievicz. L'epoca in cui il film è girato impone tuttavia alcune modifiche. La guerra, che
nel romanzo era solo una minaccia, è in quel momento una realtà. Il senso patriottico degli spettatori viene dunque mobilitato dal fatto che una cantante accetti di diventare agente segreta e
che anche un criminale come Raven si sacrifichi per il suo paese.
Per la prima volta Veronica Lake estrinseca il suo fascino al fianco di Alan Ladd, al quale viene
affidato un personaggio complesso e interessante. Questo Raven con il polso spezzato, dal volto
innocente e dallo sguardo gelido, uccide per liberarsi dei traumi della sua infanzia e si fa uccidere
per riscattarsi. Anni dopo James Cagney dirigerà Scorciatoia per l'inferno, un buon remake in chiave
"gangster", scegliendo però interpreti molto meno incisivi.
Pagina 78
Furia
Un film di Fritz Lang. Con Sylvia Sidney, Bruce
Cabot, Walter Abel, Spencer Tracy.
Titolo originale Fury.
Drammatico, b/n durata 94 min. - USA 1936.
Chicago. Joe Wilson è un giovane operaio che deve lasciar
partire la fidanzata Katherine per la lontana città dell'ovest
Capitol City: lei ha trovato un lavoro d'insegnante pagato bene e i maggiori guadagni le serviranno per metter su casa e
sposarsi con lui. La prima sequenza del film è il malinconico
addio dei due fidanzati alla stazione. Nell'anno in cui stanno
lontani anche Joe migliora le sue condizioni economiche.
Con i fratelli, Tom e Charlie, gestisce una stazione di servizio
e riesce a comperarsi un'automobile con la quale decide di raggiungere Capitol City e sposare
Katherine.
In viaggio nel mid-west Joe viene fermato ad un posto di blocco nei dintorni della cittadina di
Strand. Il numero di serie di una banconota da cinque dollari e il sale delle noccioline di cui va
pazzo lo collegano al sequestro di una bambina, avvenuto nella zona. La notizia si diffonde nella
cittadina e di voce in voce diviene un rumore assordante. Gli indizi vengono trasformati in prove certe di colpevolezza e una folla ebbra di alcol e odio si reca alla prigione per fare giustizia
sommaria. Lo sceriffo, cui, per motivi di convenienza politica, il governatore dello stato ha fatto
mancare l'aiuto della Guardia nazionale deve soccombere e l'edificio viene dato alle fiamme...
« ... l'unico film che conosco per cui ho voluto usare l'epiteto di 'grande'.[...] Il potere che ha
Lang di catturare vividamente il dettaglio veritiero rende il linciaggio di un orrore quasi insopportabile. Sto cercando di non esagerare, ma il cervello trasalisce ad ogni colpo di frusta di queste immagini come al grind-grind di un trapano elettrico che perfora la strada: la risata orribile e la
gonfia presunzione dei buoni cittadini, il giovane che afferra una sbarra gridando 'Facciamo
qualcosa di divertente', il reggimento di uomini e donne, ripresi dalla telecamera di fronte, che
marciano a braccetto lungo la strada e ridono eccitati come reclute il primo giorno di guerra, il
ragazzo che, fuori dell’ufficio dello sceriffo, lo canzona apostrofandolo "Sono Popeye, Braccio
di Ferro", il lancio della prima pietra, l'edificio in fiamme, l'uomo innocente che sta soffocando
dietro le sbarre e la donna che alza il bambino per fargli vedere il fuoco. Qualsiasi altro film di
quest'anno rischia di essere sminuito dalla straordinaria opera di Lang: nessun altro regista controlla così completamente il suo mezzo né è così costantemente attento al contrappunto di suoni
e immagini» (Graham Greene, The Spectator, 3 luglio 1936.)
Pagina 79
Furia selvaggia - Billy Kid
Un film di Arthur Penn. Con Paul Newman, Lita
Milan, John Dehner, Hurd Hatfield, James Congdon.
Titolo originale: The Left-handed Gun.
Western, b/n durata 102 min. - USA 1958.
William Bonney è un cowboy senz'arte né parte. Quando il
suo amico e protettore Tunstall viene ucciso da quattro uomini, tra cui uno sceriffo, per ragioni venali, con un paio di
soci dà la caccia agli assassini. Ne liquida due, ma è ferito e
deve fuggire. Riuscirà a eliminare anche gli altri, ma la sua
folle sete di vendetta lo isola.
Braccato, è ucciso da un vecchio amico divenuto sceriffo.
Opera prima di Arthur Penn ricavata da The Death of Billy The Kid, dramma teatrale televisivo di
Gore Vidal, Furia Selvaggia stravolge il mito western del giustiziere implacabile e lo pone di fronte ad una crisi di identità generata da una ferita primordiale mai sanata. Praticamente ignorato al
momento della sua uscita negli Stati Uniti nel 1958, il film venne giustamente acclamato dalla
critica europea, soprattutto da quella francese che riconobbe immediatamente la portata innovativa di uno sguardo introspettivo sul genere western, sul filo dell'equilibrio tra mito e realtà.
Tralasciati i sottointesi omosessuali del testo di Vidal, il regista di Philadelphia sottolinea la componente edipica del rapporto di William Bonney Billy The Kid con i sostituti della figura genitoriale paterna: prima l'”inglese” Tunstall e poi lo sceriffo Pat Garrett, gli unici a comprendere l'evento primario che ha scatenato il disagio psicologico di Billy, l'uccisione a soli 11 anni di un
molestatore della madre. L'immagine iniziale che presenta il giovane protagonista (interpretato
in “overacting” da Paul Newman in un ruolo che era originariamente destinato a James Dean) è
simbolica dello stato interiore del personaggio: sperduto nel deserto del New Mexico, stremato,
quasi muto alle domande di Tunstall e soci che ne reclamano l'identità. È analfabeta, è un fuggitivo che non sa che direzione prendere, un bambino cresciuto troppo in fretta che porta dentro
di sé la nevrosi di un complesso di inferiorità rispetto al mondo circostante. Tunstall legge la
Bibbia a Billy (San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi) e cerca di fargli capire come gran parte della
nostra esistenza sia guardare attraverso un vetro scuro, spesso impotenti di fronte al precipitare
degli accadimenti.
La leggenda raccontata da King Vidor (Billy the Kid 1930) , da David Miller (Terra Selvaggia 1941)
e da Howard Hughes (Il mio corpo ti scalderà 1943) si sta lentamente disintegrando e Furia Selvaggia
è il film seminale che getta le basi per tutto il western crepuscolare degli anni 60-70 (un esempio
per tutti Pat Garrett e Billy The Kid di Sam Peckinpah 1973).
Pagina 80
Il gabinetto del dottor Caligari
Un film di Robert Wiene. Con Conrad Veidt, Werner Krauss, Friedrich Feher, Lil Dagover
Titolo originale Das Kabinett des Dr. Caligari.
Horror, b/n durata 65' min. - Germania 1920.
Il film inizia con uno dei personaggi, Francis, che racconta,
in flashback, ad un vecchio seduto di fianco a lui una storia
sinistra: 1830, nel piccolo paese di Holstenwall in Germania,
un signore poco raccomandabile di nome Caligari, giunge
alla fiera del paese per presentare il suo sonnambulo, Cesare, che tiene sotto ipnosi in una cassa da morto. Il dottor
Caligari sostiene che il sonnambulo, una volta svegliato,
predica il futuro. Contemporaneamente al suo arrivo cominciano ad avere luogo nel paese delle
morti sospette...
Il gabinetto del dottor Caligari è la chiave di volta di quello strano, bizzarro e fantastico movimento cinematografico che fiorì in Germania negli anni Venti, legato, anche se in
modo superficiale, all'espressionismo.
Se gran parte dell'evoluzione dei film tra i primi due decenni dipendeva dallo stile
"finestra sul mondo" dei Lumière, con storie inventate o documentaristiche presentate
in un modo profondamente emotivo di modo da far dimenticare al pubblico di essere
al cinema, Caligari torna alla maniera di Georges Méliès presentando continuamente effetti teatrali magici e stilizzati che esagerano o sovraccaricano la realtà.
In questo film, i contabili sono appollaiati su ridicoli e altissimi sgabelli, le ombre sono
dipinte sulle pareti e sui volti, le forme dai contorni sghembi predominano nei set, ovviamente dipinti, i fondali sono irreali e le interpretazioni sono stilizzate fino all'isteria.
Gli sceneggiatori concepirono il film come un luogo autonomo fuori dal mondo ordinario: il regista e gli scenografi fecero in modo che ogni scena, e persino ogni sottotitolo, confermassero quest'idea. In modo controverso Fritz Lang, regista scelto dal
produttore Erich Pommer all'inizio delle riprese (che rifiutò il compito ma diede comunque un contributo decisivo alla realizzazione del film), asserì che lo stile radicale
di Caligari sarebbe apparso eccessivo al pubblico senza fornire alcuna "spiegazione".
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Garage Olimpo
Un film di Marco Bechis. Con Dominique Sanda,
Chiara Caselli, Antonella Costa, Carlos Echevarria,
Luca Giordana
Drammatico, durata 98 min. - Italia, Argentina
1999.
Argentina fine degli anni Settanta. La diciottenne Maria insegna a scrivere agli abitanti delle favelas di Buenos Aires e simpatizza per un'organizzazione che si oppone alla dittatura militare. Prelevata da una squadra di poliziotti, viene rinchiusa al
Garage Olimpo, un bunker sotterraneo in cui viene torturata
insieme ad altri prigionieri. Tra i suoi carnefici, Maria ritrova
Félix, un ragazzo segretamente innamorato di lei che vive proprio a casa sua, in una delle stanze affittate per far fronte alle
difficoltà economiche.
Nelle note di regia del suo secondo lungometraggio dopo l'affascinante Alambrado (1991), Marco
Bechis chiarisce l'impianto di un lavoro necessario qual è Garage Olimpo: «il film non punta alla
ricostruzione storica, ma all'attualizzazione della violenza dello Stato contro i cittadini, violenza
che alla fine del secolo continua a devastare il mondo. Ho voluto raccontare la storia dei desaparecidos di vent'anni fa come se avvenisse oggi in qualche parte del mondo».
La storia di Maria è, dunque, quella di ogni vittima della violenza statale, in ogni luogo o tempo,
così come l'esercizio di quest'ultima, sempre legato ad un grigia burocrazia, richiama chiaramente l'intuizione della "banalità del male" di Hannah Arendt: la routine dei turni, i protocolli da
seguire, le riunioni cui si dà ampio risalto.
Scegliendo di lasciare la tortura fuori dalla porta del visibile, il regista italo-argentino dipinge un
quadro se possibile ancora più livido, dolente e disperato che fa riferimento all'Argentina, come
attesta l'ultima agghiacciante didascalia, per denunciare invero il meccanismo sotteso a tutti gli
orrori militari rimossi o dimenticati degli ultimi decenni, Bosnia compresa: è del 1994 la sua sceneggiatura di Il carniere, poi affidata alla regia di Maurizio Zaccaro. In quest'opera importante,
vibrante passione civile, il coinvolgimento è più riferibile all'interno che all'esterno (si pensi anche alle riprese aeree di una città ignara di quello che accade sottoterra), potremmo dire, più sensibilmente emotivo che visivo, nonostante la macchina da presa sia sempre ben attaccata ai corpi
dei personaggi, li segua dappresso.
Dopotutto, Bechis sta "rivelando" quello che ha vissuto in prima persona nel 1977 quando, prima di essere espulso grazie alla nazionalità italiana, fu incarcerato dal regime militare. Ottima
l'idea di cominciare con un flashforward che verrà sciolto, grazie ad un buona intuizione di regia
e montaggio - di Jacopo Quadri - soltanto un attimo prima dell'agghiacciante finale.
Davvero bravi e vibranti gli attori, con in testa Antonella Costa, un po' accessorie le presenze di
Dominique Sanda e Chiara Caselli. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di
Cannes del 1999, Garage Olimpo è un film che lavora dentro, che scava, che mette in guardia.
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Ginger e Fred
Un film di Federico Fellini. Con Marcello Mastroianni, Giulietta Masina, Franco Fabrizi, Frederick Ledenburg, Martin Maria Blau.
Commedia, durata 92 min. - Italia 1985.
Amelia e Pippo, in arte Ginger e Fred, avevano avuto successo sui palcoscenici di provincia nei lontani anni Quaranta.
Si ritrovano, dopo decenni, per partecipare a un varietà di
vecchie glorie organizzato da una televisione privata.
Un'esperienza da incubo, ma ai due resterà il piacere di essersi
ritrovati per un momento.
Opera che segna un deciso attacco all'immagine (per non dire
altro) della televisione, una rappresentazione che diventa vera e propria testimonianza della deriva del “piccolo” mondo dello spettacolo caratterizzato da una galleria di maschere raramente
dotate della pur minima qualità, ma chiaramente poi questo si può tranquillamente leggere in
un’ottica di ampiezza superiore.
Certo che la variegata “umanità” che transita all’interno dello show “Ed ecco a voi …” se da un
lato offre alcune immagini che rinverdiscono il genio felliniano dall’altra parte quando il loro
spazio diviene eccessivo (e questo si verifica anche prima dello spettacolo tra l’arrivo all’albergo
e nella sala pranzo dello studio) si avverte la sensazione di un’eccessiva pesantezza.
Per fortuna c’è però anche la vena malinconica espressa magicamente dall’inossidabile coppia
costituita da Marcello Mastroianni e Giulietta Masina (più la seconda per come solca con classe
l’opera dalla prima all’ultima inquadratura disponibile) che trova lungo lo show finale, e non solo, il momento di gloria, d’altronde quando con un regista due interpreti si intendono con uno
sguardo questo poi si “sente” chiaramente.
Tra le altre cose funziona molto bene l’incipit, con l’arrivo della protagonista alla stazione di Roma attraversando svariate icone pubblicitarie invasive e poco edificanti, uno slancio di fantasia e
figurazione di grande impatto.
Infine sono di assoluto rilievo le musiche di Nicola Piovani, così come i tanti diversi costumi
impiegati realizzati da Danilo Donati.
In definitiva si tratta di un’opera dai toni contrastanti, a tratti un po’ affannosa, ma con alcuni
picchi notevoli ed una vena rappresentativa di buon valore.
Pagina 83
Giovane e innocente
Un film di Alfred Hitchcock. Con Mary Clare, Derrick De Marney, Nova Pilbeam, Percy Marmont, Edward Rigby, John Longden.
Titolo originale Young and Innocent.
Giallo, b/n durata 80 min. - Gran Bretagna 1937.
Notte tempestosa. Una casa sulla scogliera. Un uomo e una
donna litigano. Scambio reciproco di accuse. La donna schiaffeggia l'uomo. I lampi del temporale rischiarano ad intermittenza i primi piani dei loro volti. L'uomo ha uno strano tic
nervoso, un irregolare battito delle palpebre.
Mattino luminoso e sereno. Le onde del mare lambiscono la
sabbia dell'insenatura sotto la scogliera, ma sulla battigia giace
riverso un corpo di donna. Un giovane sceneggiatore, Robert Tisdall, camminando sul sentiero
sovrastante la baia, dall'alto vede il corpo, si avvicina, e con stupore nei tratti della donna riconosce una attrice, Christine Clay, che aveva conosciuto tre anni prima in America e alla quale aveva
venduto un soggetto cinematografico. Robert si allontana correndo per cercare aiuto, ma due
ragazze, giunte anch'esse sulla spiaggia, vedendolo correre via, credono che sia l'assassino e che
stia scappando e chiamano la polizia...
Giovane e innocente è certamente uno dei punti più alti che Hitchcock ha toccato durante il periodo
anglosassone. La trama ripercorre uno dei temi preferiti dal maestro del brivido, ovvero l'accusa
di omicidio (o altri reati) che travolge un innocente. In questo caso ad essere accusato ingiustamente di omicidio è Robert Tisdall, giovane scrittore emergente che si dà alla macchia non appena scopre di essere ricercato dalla polizia. Durante la sua fuga conosce Erica, la figlia del commissario, che lo aiuterà a cercare il vero colpevole dell'omicidio. Un impermeabile e un tic agli
occhi sveleranno la vera identità dell'assassino.
Una sceneggiatura solida ed una regia con l'argento vivo addosso, sempre piena di inventiva,
sono certamente i motivi per cui dovremmo apprezzare questo film di Hitchcock. La solidità
dell'impianto narrativo è davvero notevole e si fa notare soprattutto nel modo in cui riesce a creare in modo equilibrato e preciso la suspense e in alcune trovate narrativamente interessanti, come il gioco della mosca cieca durante un ricevimento e il modo in cui l'assassino viene scoperto.
Hitchcock supporta le idee narrative con una regia come sempre eccezionale, capace non solo di
ricreare perfettamente l'equilibrio instabile in cui si trova il protagonista, ma anche di esaltare
ancora di più le due scene già citate sopra. La scena della scoperta dell'assassino poi è la vera
perla registica della pellicola: la macchina da presa con un carrello frontale, avanza verso l'assassino mascherato da batterista jazz, fino a fermarsi con un primissimo piano davanti ai suoi occhi
che irrimediabilmente si deformano nel tic nervoso che lo incastrerà.
Penalizzato purtroppo da interpreti poco carismatici, Giovane e innocente rimane comunque un
film in cui l'impronta del suo autore è stata fondamentale per la sua buona riuscita.
Pagina 84
Giovani aquile
Un film di Tony Bill. Con James Franco, Jean Reno,
Martin Henderson, Jennifer Decker, Tyler Labine.
Titolo originale Flyboys.
Azione, durata 140 min. - Francia, USA 2006.
All'inizio del 1916 la Prima Guerra Mondiale aveva seminato
distruzione e morte in tutta l'Europa. Nonostante gli aeroplani fossero stati inventati solo di recente, vennero presto adattati per diventare delle macchine da guerra.
Giovani aquile racconta la vicenda di un gruppo di ragazzi americani che, ancor prima che gli Stati Uniti si interessassero al
conflitto, decisero di unirsi alla Squadriglia Lafayette come
volontari per combattere il nemico divenendo i primi piloti di
aerei da caccia della storia.
L'attore, regista, produttore oltre che pilota e collezionista di cimeli della Prima Guerra Mondiale, Tony Bill, firma uno dei pochi film sull'argomento dopo anni che il cinema non se ne interessava. Lo fa con un senso di profonda devozione nei confronti di quei giovani volontari, mettendo in luce i loro conflitti personali e la loro forza d'animo. Giovani aquile non è solo un film di
guerra. È una storia d'onore, d'amicizia e amore (immaginate un Top Gun ambientato nel 1916).
È un dramma d'azione corale che vuole rendere giustizia a quegli uomini eroici - tutti ispirati a
veri piloti da caccia - capitanati dal francese Georges Thenault (l'eccellente Jean Reno). Tra loro
c'è Blaine Rawlings (James Franco), un ex proprietario terriero che si unisce alla squadriglia perché costretto ad abbandonare la sua città, William Jensen (Philip Winchester), figlio di un ufficiale di cavalleria, Briggs Lowry (Tyler Labine), spinto a partire in guerra dal padre facoltoso ed
Eugene Skinner (Abdul Salis), un pugile di colore che si è unito alle forze francesi in segno di
gratitudine verso un paese che si è dimostrato tollerante con coloro che in America venivano
considerati ancora schiavi. Le differenze che li dividono sul suolo sono annullate in volo nei
duelli all'ultimo sangue che combattono contro i tedeschi. Il contrasto tra la ferocia delle battaglie e la cornice color pastello che vede i Nostri sospesi tra la bellezza della campagna francese e
l'infinito blu cosparso di nuvole è pura suggestione. Gli effetti speciali realizzati dalla Double
Negative (Batman Begins, I figli degli uomini) - i bombardamenti, le pallottole che infilzano il cielo, i
velivoli, trivellati dai colpi, che precipitano in fiamme, le esplosioni - sono talmente realistici da
togliere il fiato. Coinvolgente nella trama e travolgente nella messa in scena, Giovani aquile si inserisce tra i migliori film di genere della recente storia del cinema.
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La giuria
Un film di Gary Fleder. Con John Cusack, Gene
Hackman, Dustin Hoffman, Rachel Weisz, Bruce
McGill.
Titolo originale Runaway jury.
Drammatico, durata 127 min. - USA 2003.
New Orleans. Una giovane vedova intenta un processo contro una potente società d'armi che ritiene responsabile dell'omicidio di suo marito. Una causa difficile da vincere ma alla
quale crede il suo avvocato Rohr (Dustin Hoffman).
È altrettanto convinta di vincere la parte avversaria grazie ai
metodi poco ortodossi del consulente Fitch (Gene Hackman)
per selezionare la giuria perfetta frugando negli angoli più nascosti della vita dei potenziali giurati. Con la complicità di Nick Easter (John Cusack) selezionato nella giuria, si intromette una donna misteriosa Marlee (Rachel Weisz) che propone alle due
parti di 'vendere' loro la giuria ad un prezzo però altissimo.
Un thriller a sfondo giudiziario ricco di sorprese e di suspense con un ritmo estenuante accentuato - ma senza fastidio - dall'utilizzo sottile della camera a mano per molte scene. Un cast prestigioso con il duello Hackman - Hoffman riuniti per la prima volta sullo schermo, presenti per
tutto il film ma con un solo scambio di battute insieme nel bagno degli uomini (ma ragazzi che
scena!)
Dei personaggi né buoni né cattivi con una sfumatura di natura umana: Fitch (un grande Gene
Hackman) spregiudicato ed inquietante ma che riesce a mettere il pubblico nella sua ottica, Rohr
un avvocato del vecchio stampo con un forte senso morale però messo alla prova, Nick e Marlee con una morale ambigua fino alla fine del film. Fanno difetto un contenuto forse troppo moralista con una presa di posizione contro le armi presentata come un sermone e una fine deludente con Nick e Marlee che perdono la loro deliziosa ambiguità. Comunque più che mettere in
scena il classico confronto tra due avvocati, questo thriller ad alta tensione denuncia come sia
possibile manipolare e controllare una giuria. Anche se si tratta solo di una finzione ispirata dal
best-seller 'Runaway Jury' di John Grisham, ci si può chiedere fino a che punto non si sia vicini
alla realtà.
Pagina 86
Gravity
Un film di Alfonso Cuarón. Con Sandra Bullock,
George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen,
Phaldut Sharma.
Fantascienza, durata 92 min. - USA, Gran Bretagna
2013.
Gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky lavorano ad alcune riparazioni di una stazione orbitante nello spazio quando
un'imprevedibile catena di eventi gli scaraventa contro una
tempesta di detriti. L'impatto è devastante, distrugge la loro
stazione e li lascia a vagare nello spazio nel disperato tentativo
di sopravvivere e trovare una maniera per tornare sulla Terra.
Lo spazio non è più l'ultima frontiera, nel nuovo film di Cuaròn non c'è nulla da esplorare, si
rimane a un passo dal nostro pianeta ma lo stesso la profondità spaziale continua a non essere
troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l'ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa
accadere, in cui si avverte la presenza dell'ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l'essenza
stessa dell'essere umani.
C'è tutto questo nel blockbuster con Sandra Bullock e George Clooney che Alfonso Cuaròn è
riuscito a realizzare senza muovere un passo dalle convenzioni hollywoodiane, quelle che impongono l'inevitabile coincidenza dell'avventura personale con un mutamento interiore e il superamento del solito trauma radicato nel passato. Eppure dietro i dialoghi ruffiani e dietro una
tensione obbligatoriamente costante (tenuta con una padronanza della messa in scena, tutta in
computer grafica, che ha del magistrale ma non sorprende dall'autore di I figli degli uomini) non è
nemmeno troppo nascosto uno dei film più umanisti di un'annata che ha visto il cinema statunitense proporre, a Cannes, anche la straordinaria storia di sopravvivenza individuale contro gli
elementi (marittimi) di Robert Redford in All is lost.
La visione prettamente americana dello spazio, un luogo d'avventure in cui l'uomo deve combattere contro ogni avversità naturale, stavolta è fusa con quella promossa dallo storico rivale, il
cinema sovietico degli anni '70, in cui lo spazio è il posto più vicino possibile alla metafisica, terreno di visioni interiori che diventano realtà e di incontro con il sè più profondo, fino a toccare
anche l'idea di origine (o ritorno) alla vita di 2001: Odissea nello spazio in un momento di struggente bellezza, in cui il corpo di Sandra Bullock pare danzare con meravigliosa lentezza.
Per Cuaròn lo spazio può essere tutto questo insieme, allo stesso modo in cui il suo film può
essere sia un blockbuster sia un'opera che cerca di toccare la profondità dell'animo umano, realizzata con una sceneggiatura densa di dialoghi e molto fondata sulla recitazione (come un film a
basso budget) animata da una messa in scena interamente in computer grafica (da grande film di
fantasia), un lungometraggio che più che essere di fantascienza pare d'avventura (nel senso classico del termine), in cui l'essere umano lotta in scenari naturali mozzafiato, nel quale anche solo
un raggio di sole che entra dall'oblò al momento giusto può far battere il cuore.
Pagina 87
Grindhouse - A prova di morte
Un film di Quentin Tarantino. Con Kurt Russell,
Sydney Tamiia Poitier, Vanessa Ferlito, Jordan Ladd,
Tracie Thoms.
Titolo originale Grindhouse - Death Proof.
Horror, durata 116 min. - USA 2007.
Per la dj più al top di Austin, Jungle Julia, l'ora che si avvicina
al tramonto costituisce il momento migliore per cercare un
po' di relax insieme alle sue due migliori amiche Shanna e Arlene.
Le tre ragazze non passano inosservate quando si lanciano alla
conquista della notte da Guero's al Texas Chili Parlor.
Non tutti però si limitano a guardarle e magari a desiderarle
più o meno a distanza. Tra chi le osserva c'è anche Stuntman Mike, un ormai non più giovanissimo ribelle carico di cicatrici e dallo sguardo lubricamente ammiccante. Mike è seduto al volante
della sua possente auto da stuntman e attende solo di poterle attirare nella propria trappola fatta
di lamiere contorte e sangue schizzato. Molti mesi dopo lo ritroveremo ancora in azione, come
sempre in cerca di giovani vittime.
Gli incassi statunitensi parlano chiaro: l'accoppiata Tarantino/Rodriguez ha fallito ed è stata costretta a una repentina separazione. Ne è nato così questo Grindhouse - A prova di morte (versione
allungata del Death Proof che originariamente conviveva con il rodrigueziano Planet Terror).
Che dire dell'esito della separazione? Che ci offre un film sicuramente tarantiniano ma che risente di una struttura anomala.
Il Tarantino cinefilo appassionato dei B-movie si regala la possibilità di girare un film in cui si
utilizzano i-pod e cellulari ma i colori, le rigature, gli stessi salti di fotogramma sembrano quelli
di un film del 1977 non troppo ben conservato. Fin qui tutto bene perché il godimento è elevato. Lo è anche nelle esplosioni di violenza che trovano il loro spazio nel terzo finale di ognuna
delle due parti in cui è diviso il film.
La coreografia tarantiniana qui si differenzia obbligatoriamente da quella divenuta ormai classica
di Kill Bill (che viene ironicamente citato), trovando come sempre iperboli visive assolutamente
geniali. Solo che per giungere a ciò si devono sorbire lunghe chiacchierate che, per quanto messe
in scena da apprezzabili fanciulle, restano sempre tanto, troppo lunghe. Anche in questo caso
nulla da ridire sulle citazioni colte che infarciscono i dialoghi di giovani donne destinate ad acquisire finalmente un ruolo non più solo passivo di vittime predestinate, ma il diluvio di parole è
davvero da uragano Katrina. Si tratta senza dubbio dell'ennesima provocazione del luciferino
Quentin (che compare anche in un cameo role): volete l'azione? Volete lo splatter? Aspettate,
aspettate. I tarantiniani doc sono pronti a tutto e quindi apprezzeranno.
Pagina 88
La guerra dei mondi
Un film di Steven Spielberg. Con Tom Cruise, Dakota Fanning, Miranda Otto, Justin Chatwin, Tim
Robbins.
Titolo originale War of the Worlds.
Fantascienza, durata 116 min. - USA 2005.
Nelle sue linee essenziali La guerra dei mondi è notevolmente
fedele al racconto di H.G. Wells, tenendo anche conto che
essendo stato pubblicato nel 1898, ogni forma di attualizzazione era legittima, se non necessaria.
Che si tratti di uno spettacolone domenicale, privo di messaggi, tanto cari a chiunque non sia in grado di abbandonarsi
ad un racconto travolgente, sia pure fine a se stesso, è altrettanto vero. Pertanto il film potrebbe essere liquidato, aggiungendo malignamente una nota sul
presunto declino di Steven Spielberg. In realtà, è sufficiente accostare questa versione alle due
che lo hanno preceduto, quella di Byron Haskin e la più recente: Independence Day, per comprendere quale forza narrativa sa esprimere Spielberg, semplificando il messaggio, se proprio non se
ne può fare a meno, contenuto nel suo impressionante La guerra dei mondi.
Siamo una società fragile, con le sue strutture in disfacimento e l'operaio specializzato Tom
Cruise è a disagio con il cambiamento repentino di fattori tradizionali, come la famiglia, la società in genere e la sottocultura cui siamo condannati. Ed ecco che l'attacco alieno, assimilabile a
quanto accadde il fatidico 11 settembre o a Pearl Harbour, ricompatta lo stato famigliare, riconsegna il senso della vita, fino a trovare nel proprio inconscio, ormai depurato, l'antidoto per
combattere con successo chiunque attenti all'esistenza e all'orgoglio di un popolo. Semplice, lineare, ma strepitosamente avvincente sul piano narrativo e spettacolare, il film di Spielberg sarà
forse meglio compreso quando si saranno acquietate le falangi di critici professionisti e no, autentiche creature aliene, che stanno ammorbando il cinema, privandoci del piacere di assistere a
spettacoli di grande dignità professionale, come è appunto questa versione di La guerra dei mondi.
Interessante notare come non si vedano transitare nel racconto scienziati sentenziosi o giornalisti petulanti. Spielberg si pone dalla parte del pubblico con la sua capacità favolistica, nella quale
il divo Cruise è perfettamente a suo agio. Tim Robbins rappresenta appunto le storture di chi
deve ad ogni costo interpretare gli avvenimenti attraverso una visione paranoica. La scomparsa
del personaggio è un sollievo per gli spettatori. Per quanto sia impressionante ciò che mostra,
Spielberg, suo grande merito, evita di trasformare il film in uno dei soliti stupidi horror. L'arrivo
degli alieni (tripodi) è strepitoso, la conclusione della vicenda, che qualcuno ha trovato sbrigativa, è degnamente priva di enfasi. Appaiono per alcuni istanti i due canuti protagonisti del film di
Byron Haskin, realizzato 52 anni prima: Gene Barry e Ann Robinson, ma è un'apparizione quasi
subliminale, per accaniti cinefili.
Pagina 89
La guerra dei Roses
Un film di Danny DeVito. Con Kathleen Turner,
Michael Douglas, Danny DeVito, Marianne Sägebrecht, G.D. Spradlin.
Titolo originale The War of the Roses.
Commedia, durata 116 min. - USA 1989.
Dopo diciotto anni di matrimonio, coronati dalla presenza
di due figli, Barbara Rose si accorge che qualcosa non funziona nella sua vita: il marito, Oliver, che pure le ha assicurato un'esistenza di alto livello, non l'ha mai gratificata.
Il mondo perfetto che Oliver ha saputo allestire per loro in
tutti quegli anni le pare privo di senso e quando la coppia va
in crisi gli effetti sono devastanti.
Film velenosissimo diretto da un De Vito in gran forma. La vicenda si sviluppa cinicamente votata al più feroce humour nero: il bersaglio contro cui si spara senza pietà (a tratti con una facilità perfino eccessiva) è costituito dall'istituzione familiare e dal perbenismo americano.
Commedia di culto paradossale, pungente e a tratti grottesca la cui trama ruota intorno allo stereotipo di due coniugi che si fanno la guerra per il divorzio attraverso il quale lei vuole ottenere il lascito della casa. E' proprio lei a volersi separare dal marito senza neppure voler o poter
fornire un motivo valido dato che lui, uomo in carriera, bello e perfettino, sembra non averle
mai fatto mancare nulla e prova Dio solo sa perché, addirittura ancora amore fino alla fine per
lei che invece vorrebbe vederlo morto. Infatti tenta più volte di ucciderlo mentre lui si difende
come può finchè non iniziano entrambi a farsi dei dispetti molto pesanti che li porteranno a perdere insieme la vita. E proprio le sequenze in cui i due coniugi si fanno la guerra cercando di
uccidersi a vicenda sono le più divertenti e paradossali, ma tirando le somme, questo film, seppur coinvolgente e riuscito, lascia con l'amaro in bocca. L'epilogo è davvero triste ed acerbo
mentre mostra che perfino quando entrambi stanno per morire lei lo maltratta e lo rifiuta quando lui invece le aveva teso la mano forse pentito... sarcasmo nero? Ironia pungente ed intelligente sulle classiche crisi di coppie longeve? Può darsi, ma io speravo che almeno verso la fine la
trama prendesse una piega diversa, ma tutto scorre in maniera imprevedibile e finisce miseramente. Lo script, nonostante non sia estraneo ad un po' di piattezza narrativa è scritto bene perchè farcisce il film di un'originale miscela di thriller ed umorismo davvero efficace che sottolinea
pure la morale che chi troppo vuole nulla stringe alla fine e che a volte, l'amore è veramente così
cieco come dicono, eppure si ha una sensazione generale di mal-contento e che manchi qualcosa...
Pagina 90
Il gusto del sakè
Un film di Yasujiro Ozu. Con Chishu Ryu, Shima
Iwashita, Keiji Sata, Nakabura Nobuo, Kyoko Kishida
Titolo originale Sanma no aji.
Drammatico, durata 114 min. - Giappone 1962.
Ultimo film di Yasujiro Ozu e sua seconda opera a colori
(il primo era stato Tardo autunno, 1960), Il gusto del sakè è lo
splendido lascito di una carriera caratterizzata da una personalissima uniformità stilistica (dopo alcune opere, Ozu si dedicò unicamente a drammi e commedie di sobria
ambientazione familiare, girati quasi esclusivamente con
una macchina fissa, piazzata a circa ottanta centimetri dal suolo) e dagli straordinari risultati dell'applicazione di una tecnica così limitante. Ozu avrebbe ripercorso più volte gli stessi
temi e le stesse storie: Il gusto del sakè è in effetti il remake di un suo film del 1949, Tarda
primavera, con lo stesso protagonista, Chishu Ryu (l'attore preferito da Ozu), nei panni di
un vedovo intento a convincere la figlia, ormai adulta, a sposarsi.
La consapevolezza, da parte di entrambi, che in questo modo il padre dovrà affrontare la
solitudine è controbilanciata dall'affetto fra i due. Il dilemma, banale nella sua umana universalità, sarà profondamente significativo per padre e figlia. Ozu conduce questo gioco di
delicati equilibri con la solita maestria e un'attenzione infallibile per i dettagli più significativi, alleggerendo l'azione con un sottile umorismo. I colori vengono usati per indurre uno
stato d'animo di radiosa tranquillità, una malinconia appena suggerita.
Pagina 91
Hollywood Homicide
Un film di Ron Shelton. Con Harrison Ford, Josh
Hartnett, Lena Olin, Bruce Greenwood, Isaiah
Washington.
Azione, durata 111 min. - USA 2003.
Uno dei classici del cinema americano, quindi per esteso della
sua peculiare cultura dominante, è la commedia poliziesca.
Caratteristiche tipiche di questo genere sono la coppia di sbirri che scoppia, ovvero che sono uno antitetico all’altro, non si
sopportano o se si sopportano sono diametralmente opposti
uno all’altro, ma nonostante questo si vogliono bene e si aiutano; il caso a cui indagano è sempre qualcosa di sensazionale,
tipo un riccone sfondato che vuole dominare il mondo o almeno la città; c’è sempre di mezzo una donna, a volte femme fatale per entrambi i partner o comunque fatale per uno dei due; tanti inseguimenti, tante macchine distrutte, molti nasi rotti a
pugni, un cattivo fumettistico e molte battute sboccate.
In Hollywood Homicide c’è molto di questo, ma non necessariamente tutto. A tratti la commedia di
Ron Shelton sembra voler distinguersi dal prototipo giocando carte nuove, come lo spiazzamento di situazioni al limite del comico indies, tipo l’imbarazzante scena a casa di Martin Landau, oppure i dialoghi sul filo della commedia d’autore. Purtroppo non è una commedia d’autore, e oltre ai vari passi falsi di sceneggiatura, e ad alcune gag azzeccate sparse qua e là - Hartnett che fa
Brando, Ford che va di pelvica - non propone nulla di memorabile.
Il film si vede e si rivide come passatempo. Lo si rivede per amore dei due attori protagonisti
che comunque vadano le cose, e giocando Hartnett di sottrazione e Ford di istrionismo, sono
simpatici, irresistibili e ben amalgamati tra loro. Lo si rivede perché compie il suo dovere fino in
fondo: sviluppa una storia senza sussulti, dove i cattivi sono marci e cattivi davvero e tutto poi si
incastra con tutto, e dove gli snodi narrativi sono semplificati apposta per una visione vegetale.
Shelton, fa di tutto per essere cool e distinguersi dai film tipici del genere comico poliziesco, ma
le sceneggiatura gli rovina i piani e gli regala solo due bei attori, un po’ sopra le righe, ma sempre
apprezzabili.
Pagina 92
L’imperatrice Caterina
Un film di Josef Von Sternberg. Con Marlene Dietrich, John Lodge
Titolo originale The Scarlet Empress.
Drammatico, b/n durata 110 min. - USA 1934.
Sofia Federica, figlia di un principe tedesco, fin da piccola è
destinata a un grande matrimonio e viene educata con estrema
severità. In età da marito, le si annuncia che diventerà la sposa
di Pietro, granduca russo, erede al trono. Per lui, lascerà la
Germania, accompagnata alla corte di Pietroburgo dal conte
Alessio, un bellissimo ufficiale da cui Sofia resta affascinata.
Credendo di trovare un marito altrettanto bello, la giovane
principessa tedesca resta profondamente delusa nel trovarsi
davanti, invece, a un ometto dai comportamenti infantili e oltremodo offensivi nei suoi confronti. Ribattezzata Caterina dalla zarina Elisabetta, la giovane
viene umiliata dal marito che la tradisce con la sua vecchia amante, la contessa Elisabetta. Caterina cerca rifugio nell'amore di Alessio, ma anche lui la delude, quando scopre che è l'amante
dell'imperatrice che se lo fa portare in camera da letto proprio da lei. Cercando di reagire, Caterina si concede a un ufficiale della guardia, il primo uomo che incontra. Finalmente resta incinta e
così acquista potere alla corte russa. Morta Elisabetta, Pietro congiura per togliersi di torno la
moglie. Ma Caterina, ormai abile negli intrighi di corte, prende il potere appoggiata dalla chiesa e
dall'esercito, facendo uccidere Pietro sale al trono acclamata da tutto il popolo.
Secondo il Dizionario Mereghetti, è «forse il più affascinante film di Sternberg [...] interamente dominato dalla presenza dell'eros», dalle «scenografie espressionistiche, barocche, angoscianti [...]
di una magnificenza visiva ai limiti del delirio».
Per il Dizionario Morandini è «un film delirante, onirico, eccessivo, ornamentale, dominato dall'Eros, da una visione del potere come esperienza orgiastica e da una M. Dietrich inafferrabile ed
estatica [...] È il più ermetico e complesso dei 7 film di Sternberg con Marlene Dietrich, e uno
dei più bizzarri mai usciti da Hollywood».
Pagina 93
Incantesimo
Un film di George Cukor. Con Edward Everett
Horton, Katharine Hepburn, Cary Grant, Lew
Ayres, Doris Nolan.
Titolo originale Holiday.
Commedia, b/n durata 93 min. - USA 1938.
Prototipo di commedia romantica, Holiday (titolo originale) espone una Katharine Hepburn insolitamente
introversa, pensierosa, malinconica. Il giovane Johnny
(Cary Grant), promettente uomo d'affari, è fidanzato
con la brillante e mondana Julia (Doris Nolan), figlia di
un riccone abituato a comandare e che mira al sodo, vedovo e despota dei figli. Soprattutto di quelli che gli somigliano meno, gli altri due che sono
Linda (appunto Hepburn) e un maschio dedito al sarcasmo e all'alcol. Johnny conosce la
famiglia e conosce Linda, avvertendo subito una forte sintonia con lei, ma continua a comportarsi lealmente verso la promessa sposa. Il velo cadrà la notte di Capodanno. Quando,
secondo un cerimoniale fastoso imposto dal capofamiglia e preferito alla proposta di Linda (altrettanto leale verso la sorella, malgrado il feeling ricambiato con Johnny) di fare
una riunione intima, deve essere annunciato ufficialmente il matrimonio. Johnny, che al
carrierismo antepone la propria felicità, finisce col condividere l'isolamento di Linda nella sua "stanza dei giochi", angolo di nostalgia infantile. Dove si troveranno meglio che
nei ricchi saloni anche i coniugi Potter (Edward Everett Horton, Jean Dixon), la più anziana
coppia di amici che Johnny considera la sua famiglia, persone semplici e spontanee, ricche
non di beni materiali ma di interiorità e cultura che piacciono subito molto anche a Linda. Il dado è tratto. A partire con Johnny per una lunga vacanza (ecco il perché del titolo),
prima che la vita sia stritolata dal lavoro e dai soldi, saranno loro e, naturalmente, Linda.
Cukor non è pungente come Hawks o Lubitsch (basti vedere la diversa resa del grande caratterista Edward Everett Horton, qui professor Potter), ma è anche questa una testimonianza di come la commedia americana anni trenta sia stata espressione di spirito libero.
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Incontriamoci a Saint-Louis
Un film di Vincente Minnelli. Con Margaret
O'Brien, Mary Astor, Judy Garland, Lucille Bremer,
Leon Ames.
Titolo originale Meet Me in St. Louis.
Commedia musicale, durata 113 min. - USA 1944.
Una ragazzina di nome Tootie (Margaret O'Brien), arrabbiata e in lacrime, disubbisce ai genitori ed esce sulla neve. Una volta fuori, distrugge il suo amato pupazzo di neve - simbolo di tutto ciò che è stabile e rassicurante nella
sua esistenza familiare - con una forza e una veemenza
davvero inquietanti. Chi avrebbe pensato che Judy Garland, cantando "Have Yourself a Merry Little Christmas"
potesse avere un effetto talmente devastante sulla delicata psiche della bambina e anche sulla
nostra?
Incontriamoci a Saint Louis di Vincente Minnelli è uno dei musical più insoliti ed eccessivi
della storia di Hollywood. Il film mescola i due generi più amati dal regista, il musical e il
dramma sentimentale, ma nei suoi momenti più cupi (come nella sequenza sulle paure di
Halloween), si avvicina anche all'horror. È un'opera che si presta, allora come oggi, ad essere
letta in modi contrastanti: come perfetta celebrazione, innocente e ingenua, dei tradizionali
valori della famiglia, o come una minacciosa riflessione su tutto ciò che mina dall'interno
l'unità familiare. Detto altrimenti: il film è una confortante "valvola di sicurezza" che permette il divertimento solo per appianare e rafforzare lo status quo, o è - quasi suo malgrado
- un gesto sovversivo nel cuore del sistema di Hollywood? Un urlo di rabbia non repressa
come la strage di immaginarie persone di neve ad opera di Tootie?
Il progetto di Minnelli è abbastanza ambizioso: non solo raccontare la vicenda di un'amabile famiglia "media", e i cambiamenti che affronta stoicamente, ma anche delineare la storia dell'orgogliosa società del XX secolo, definita da eventi fondamentali come il conflitto
mondiale.
La sensibilità artistica di Minnelli risponde bene al desiderio femminile e all'ansia maschile, e
un eccesso di entrambi rende questo musical decisamente melodrammatico. La figura patriarcale prende la forma di Leon Ames, che valorosamente tenta di affermare la sua autorità
di fronte alla soverchiante podestà femminile. La sfilata dei possibili fidanzati delle ragazze,
allo stesso modo, è spronata e manipolata per il loro "giusto" destino in coppia.
Riguardo ai cambiamenti estetici del musical, Minnelli e i suoi collaboratori presero la difficile via dell'integrare il canto e la danza in un bizzarro e fantastico flusso di connessioni. Le
canzoni iniziano a mezza frase, parlando o canticchiando per la strada, e si dissolvono
immediatamente quando fanno capolino gli intrighi della trama.
Dietro all'elegante stile cinematografico e alle apparenze, è solo Tootie che sa esprimere
emozioni selvagge e indomabili, come indica in modo gioviale il suo esotico duetto con la
Garland, "Under the Bamboo Tree".
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Infedeltà
Un film di William Wyler. Con David Niven, Mary
Astor, Ruth Chatterton, Maria Ouspenskaja.
Titolo originale Dodsworth.
Commedia, b/n durata 90 min. - USA 1936.
L'irresistibile adattamento di William Wyler del romanzo di Sinclair Lewis Dodsworth sulla dissoluzione del
matrimonio di una facoltosa coppia americana rappresenta l'apice della cinematografia più raffinata di Hollywood.
Walter Houston interpreta Dodsworth, un magnate
dell'auto che, dopo aver ceduto la sua attività, deve fronteggiare la noia del suo ricco pensionamento e decide di fare un viaggio in Europa con la
moglie Fran (Ruth Chatterton). Qui, la coppia scopre che entrambi desiderano qualcosa di diverso dalla vita, sebbene concordino nel voler allontanare la vecchiaia. Fran si lascia coinvolgere da alcuni corteggiatori e diventa sempre più intollerante nei confronti dei modi provinciali del marito. Dodsworth non riesce a riconciliarsi con Fran e ha una paura disperata
di diventare inutile. Durante il viaggio incontrano Edith Cortright (Mary Astor), un'espatriata americana che ha trovato una rinnovata voglia di vivere e che si offre di aiutare Dodsworth.
Gli aspetti più interessanti del film sono la sua complessità morale e il suo tono dolceamaro.
Wyler si preoccupa di non far apparire Fran come un personaggio completamente negativo,
anzi, lo spettatore è portato a comprendere e a giustificare entrambi i coniugi. Alcuni dei
momenti salienti di Infedeltà hanno luogo quando Fran capisce che la vita illusoria che aveva
cercato di creare cade a pezzi intorno a lei.
Huston è perfetto al millimetro in questo personaggio complesso che si trasforma da ricco
uomo che "si è fatto da solo" a vecchio avvilito e pensieroso. L'attore esprime questi mutamenti con un'interpretazione introspettiva e commovente. La Astor, un giovanissimo e
brillante David Niven e Maria Ouspenskaya sono meravigliosi nei loro ruoli secondari.
In un'epoca in cui la corrente cinematografica americana sembra rivolgersi a un pubblico di
eterni adolescenti, Infedeltà ci ricorda che Hollywood ha prodotto anche film pensati per
gli adulti.
Pagina 96
Inside out
Un film di Pete Docter.
Titolo originale Inside Out.
Animazione, durata 94 min. - USA 2015.
Riley ha undici anni e una vita felice. Divisa tra l'amica del
cuore e due genitori adorabili cresce insieme alle sue emozioni
che, accomodate in un attrezzatissimo quartier generale, la
consigliano, la incoraggiano, la contengono, la spazientiscono,
la intristiscono, la infastidiscono. Dentro la sua testa e dietro
ai pulsanti della console emozionale governa Joy, sempre positiva e intraprendente, si spazientisce Anger, sempre pronto
alla rissa, si turba Fear, sempre impaurito e impedito, si immalinconisce Sadness, sempre triste e sfiduciata, arriccia il naso
Disgust, sempre disgustata e svogliata. Trasferiti dal Minnesota a San Francisco, Riley e genitori provano ad adattarsi alla nuova vita. Il debutto a scuola e il
camion del trasloco perduto nel Texas, mettono però a dura prova le loro emozioni. A peggiorare le cose ci pensano Sadness e Joy, la prima ostinata a partecipare ai cambiamenti emotivi di
Riley, la seconda risoluta a garantire alla bambina un'imperturbabile felicità. Ma la vita non è mai
così semplice.
Il segreto della Pixar non risiede nell'abilità tecnica, sempre raggiungibile o perfezionabile, ma
nella forza drammatica delle loro storie. Storie che non abdicano mai l'originalità narrativa. Prima un bel soggetto, a seguire la scelta grafica, sempre coerente con quella narrativa che tende a
semplificare la superficie e mai la sostanza.
La bellezza delle loro sceneggiature è costituita poi dai risvolti teorici, che dopo aver esplorato il
mondo oggettuale e indagato i sogni delle cose, reificano le emozioni umane, in altre parole
prendono per concreto l'astratto. Inside Out visualizza ed elegge a protagonisti della vicenda la
gioia, la tristezza, la rabbia, la paura e il disgusto, emozioni che guidano le decisioni e sono alla
base dell'interazione sociale di Riley, che a undici anni deve affrontare sfide e cambiamenti. Se
Up svolgeva l'avventura di fuori, Inside Out la sviluppa di dentro, attraversando in compagnia di
Joy e Sadness la memoria, il subconscio, il pensiero astratto e la produzione onirica di una bambina che sta imparando a compensare la propria emotività e ad assestarsi in una città altra.
Diretto da Pete Docter, Inside Out impersona le voci di dentro con un radicalismo che impressiona
e commuove.
Pagina 97
Invictus
Un film di Clint Eastwood. Con Morgan Freeman,
Matt Damon, Tony Kgoroge, Patrick Mofokeng,
Matt Stern, Julian Lewis Jones.
Titolo originale Invictus.
Drammatico, durata 134 min. - USA 2009.
Nelson Mandela è il presidente eletto del Sud Africa. Il suo
intento primario è quello di avviare un processo di riconciliazione nazionale. Per far ciò si deve scontrare con forti resistenze sia dalla parte dei bianchi che da quella dei neri. Ma
Madiba, come lo chiamano rispettosamente i suoi più stretti
collaboratori, non intende demordere. C'è uno sport molto
diffuso nel Paese: il rugby e c'è una squadra, gli Springboks,
che catalizza l'attenzione di tutti, sia che si interessino di sport sia che non se ne occupino. Perché gli Springboks, squadra formata da tutti bianchi con un solo giocatore nero, sono uno dei
simboli dell'apartheid. Mandela decide di puntare proprio su di loro in vista dei Mondiali di
rugby che si stanno per giocare in Sudafrica nel 1995. Il suo punto di riferimento per riuscire
nell'operazione di riunire la Nazione intorno alla squadra è il suo capitano François Pienaar.
Negli Stati Uniti all'uscita del film c'è chi ha affermato che il nome del protagonista si scriveva
Mandela ma si pronunciava Obama. Chi la pensa così evidentemente non conosce nulla di Clint
Eastwood. Clint è un repubblicano nel DNA, ha fatto campagna per McCain e attende gli esiti
dell'Amministrazione democratica con una fiducia guardinga. Eastwood però è un conservatore
illuminato e con il suo cinema ormai da tempo persegue una ricerca nel profondo degli elementi
che possono, senza che nessuno perda la propria identità di base, provare a conciliare gli opposti. Lo ha fatto (solo per stare nel breve periodo) con Million Dollar Baby , con Flags of Our Fathers
e Lettere da Iwo Jima e, in modo ancor più esplicito e rivolto al grande pubblico, con Gran Torino .
In Invictus trova in Mandela (e in un totalmente mimetico Morgan Freeman) una sorta di supporto storico alla sua ricerca. Ciò che racconta non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore ma
trae origine dai fatti narrati nel libro di John Carlin "Playing the Enemy: Nelson Mandela and
the Game That Made a Nation". Eastwood ne trae un film assolutamente classico sia per quanto
riguarda lo stile visivo sia per quanto attiene ai due generi consolidati (biografia e cinema e
sport) a cui fa riferimento. Si sente in lui e in Freeman la profonda ammirazione per Mandela
con la consapevolezza (lo si dice anche a un certo punto facendo riferimento a una gaffe di una
sua guardia del corpo a proposito della famiglia) del rischio dell'agiografia. Che viene sfiorato ma
poi in definitiva evitato nel momento in cui si mostra come il desiderio di superare il devastante
clima dell'apartheid parta dal cuore ma sia filtrato da uno sguardo razionalmente strategico.
Pagina 98
Johnny Stecchino
Un film di Roberto Benigni. Con Roberto Benigni,
Nicoletta Braschi, Paolo Bonacelli, Franco Volpi,
Ivano Marescotti.
Comico, durata 117 min. - Italia 1991.
Dante è un tipo particolarmente ingenuo, spontaneo, e ha
per amico Lillo, un ragazzo handicappato. Conosce Maria e
immediatamente se ne innamora. Ma purtroppo Dante non
immagina neppure lontanamente a cosa lo porterà questa
storia d'amore.
La donna infatti lo invita a Palermo e lo ospita in una lussuosissima villa, dove gli presenta un presunto "zio", un personaggio un po' ambiguo: si tratta difatti dell'avvocato del pericolosissimo Johnny Stecchino, temuto boss mafioso che, guardacaso, è anche il marito di Maria.
Dante è il sosia perfetto del terribile Johnny, tanto uguale da poter servire a quest'ultimo come
sosia.
Brillante commedia degli equivoci firmata da un Roberto Benigni quarantenne, nel momento
migliore della sua parabola artistica. La storia dell'ingenuo (ma comunque ladro, truffatore e bugiardo) Dante che per uno scherzo del destino risulta la copia identica del boss mafioso Johnny
Stecchino è ormai entrata nel novero delle invenzioni comiche più riusucite del nostro cinema.
Benigni occupa tanto spazio, tantissimissimo, e se c'è qualche vuoto lasciato dalla sceneggiatura
lo riempie proprio la sua incontinente verve. Molto divertente e (leggermente) graffiante a livello
sociale.
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Jona che visse nella balena
Un film di Roberto Faenza. Con Juliet Aubrey, JeanHugues Anglade, Jenner Del Vecchio, Francesca De
Sapio.
Drammatico, durata 100 min. - Italia, Francia 1993.
Jona Oberski ha quattro anni e vive ad Amsterdam con i genitori quando, dopo l'occupazione della città da parte dei tedeschi, la sua famiglia finisce nel campo di Bergen-Belsen.
Qui Jona passerà tutta la guerra, in una baracca separata dai
suoi genitori e costretto a crescere subendo angherie e violenze, e non solo dai suoi carcerieri.
Dopo la morte del padre nel lager e quella della madre in un
ospedale sovietico, Jona viene affidato dapprima alle cure di
una ragazza e infine adottato da una matura coppia di Amsterdam. Il film è tratto dal libro autobiografico dello stesso Oberski, Anni d'infanzia e vi si attiene fedelmente. Faenza ha il pregio di
mantenersi su un tono di asciutto realismo che non esclude la partecipazione emotiva. Non è
tanto l'ennesimo film sull'Olocausto quanto la storia di una seconda nascita, come trapela dal
titolo biblico, raccontata attraverso il punto di vista del bambino. Vibrante commento musicale
di Ennio Morricone.
Se si guarda il film con l'occhio critico di chi già suppone cosa gli riserverà la pellicola, lo troverà
brutto, inconsistente e già visto.
Non siamo davanti ad una pellicola eccezionale ma stiamo guardando l'angoscia e l'orrore visti
con gli occhi di un bambino: il pregio del film sta proprio nel vedere il tutto con lo sguardo disincantato ed infantile di Jonah che racconta l'intera vicenda in prima persona.
Il profeta Giona visse tre giorni dentro un grande pesce dove rivolge a Dio un'intensa preghiera
che costringe il pesce a vomitarlo su una spiaggia dove divulgherà il suo credo ai popoli che vi
abitano: Jonah fa più o meno la stessa cosa perché passa la sua infanzia (il momento più delicato
per un bambino) in un lager per poi riuscire a capire cosa gli è successo e avere la forza di ricominciare.
La sua fortuna è, forse, quella di stare con la madre: una donna forte e furba, pratica e risoluta, è
lei che prende le decisioni e sgrida sia il marito che il figlio quando sbagliano; riesce a discutere
con il fruttivendolo che le aveva impedito di fare la spesa perché ebrea e contro la legge; è sempre lei che per far sopravvivere Jonah, lo spinge ad unirsi ai ragazzi grandi che vanno alla mensa
delle SS per mangiare i resti del loro pasto (più nutriente di quello riservato ai prigionieri); riesce
ad incontrare il marito e ad amarlo fisicamente per l'ultima volta anche se le circostanze non gli
permettono di fare l'amore con atmosfera e soprattutto con la privacy dovuta.
Jonah riesce a prendere gli insegnamenti della madre per un verso tutto suo (come di solito fanno i bambini): nel campo diventa disincantato tanto che non riesce neanche a piangere quando
vede il padre spirare e chiede alla madre il motivo per il quale piange e parla al capezzale del padre quando lui non potrà mai sentirla e riesce persino ad essere guardato con sospetto dai ragazzi grandi quando, entrando nell'obitorio del lager per una prova di coraggio, asserisce di aver visto il
padre avvolto in un lenzuolo ed invita i compagni ad entrare per accertarsene.
Pagina 100
Kiki consegne a domicilio
Un film di Hayao Miyazaki.
Titolo originale Majo no Takkyuubin.
Animazione, durata 102 min. - Giappone 1989.
Pur non nascondendo mai la sua natura di opera minore
nell'ambito del corpus miyazakiano, Kiki - Consegne a domicilio è
quantomai indicativo per comprendere le tematiche fondanti
della poetica dell'autore nipponico. È spesso dalle opere minori, inclini alle semplificazioni e talvolta allo stereotipo, che
si coglie con maggiore esattezza l'essenza di un grande artista
e dei suoi topoi: Kiki non fa eccezione in questo senso.
Nella parabola della streghetta dagli umili abiti rivive il consueto viaggio iniziatico di Miyazaki, spesso condotto tra i cieli
(in precedenza ne Il castello nel cielo, mentre Porco rosso innalzerà ai massimi livelli il feeling eroico con l'aria) e spesso con una ragazzina come protagonista. Kiki raggiunge la fatidica età di passaggio, quella dei quattordici anni, per abbandonare
la dimora natia e scoprire la vecchia Europa, ancora una volta coacervo ideale di stilemi miyazakiani. Modellata su Stoccolma e Lisbona, la città in cui Kiki approda a cavallo della sua scopa
volante è il luogo dello smarrimento e dell'emancipazione, in cui l'eroina è da un lato costretta
ben presto a una necessaria e dura introspezione, ma può anche sentirsi accettata nonostante la
sua diversità; il luogo in cui, attraverso il duro lavoro, conquistare la propria matura autonomia.
Terzo film dello Studio Ghibli e primo successo commerciale - sarà ugualmente il primo ad essere doppiato e distribuito dalla Disney - diretto da Hayao Miyazaki, Kiki mostra il lato più verista del Miyazaki-pensiero, limitando la sfera del magico a un ruolo di contrappunto nel percorso
di crescita, totalmente umano, della protagonista. La perdita dei poteri magici, che comporta
passaggi anche narrativamente traumatici - Jiji, gatto nero parlante e inseparabile compagno di
Kiki, ritorna a essere un gatto qualsiasi, privando il film di un elemento caratterizzante - è del
tutto assimilabile, in tutt'altra epoca e contesto, a quella che colpisce in Spider-man 2 il supereroe
della Marvel. Pubertà come chiusura di una breve epoca felice di magia e ingresso nel mondo,
meno accattivante ma capace di gratificare concretamente, delle responsabilità e dell'autonomia.
Forse è proprio l'eccesso di chiarezza nei segni disseminati da Miyazaki il principale punctum
dolens di Kiki - Consegne a domicilio, quello sfiorare l'apologo che ha reso il film un prodotto più
esportabile di altre opere del sensei, ma lontano dai vertici - non a caso oscuri ed ermetici, quasi
esoterici, nelle loro allegorie - de Il castello errante di Howl o La città incantata.
Pagina 101
Il ladro di Bagdad
Un film di Raoul Walsh. Con Douglas Fairbanks,
Anna May Wong, Julianne Johnson
Titolo originale The Thief of Bagdad.
Avventura, b/n durata 115 min. - USA 1924.
Il ladro di Bagdad segna il culmine della carriera di Douglas Fairbanks come protagonista per antonomasia del
genere cappa e spada. è inoltre uno dei film visivamente più sensazionali mai realizzati, un'idea unica e integrale del genio della scenografia William Cameron Menzies.
Nel costruire la sua Bagdad su una superficie di venticinquemila metri quadrati (la più grande scenografia mai utilizzata nella storia di
Hollywood), Menzies creò un mondo magico e scintillante, inconsistente quanto la
realtà e incantevole come un sogno, con pavimenti riflettenti, vertiginosi minareti,
tappeti volanti, draghi e cavalli alati.
Nel ruolo di Ahmed il Ladro, alla ricerca della sua Principessa, Fairbanks – petto nudo e
attillati abiti di seta – esplora con il suo personaggio un nuovo sensuale erotismo, e trova
un'adeguata coprotagonista in Anna May Wong, la schiava mongola. Nonostante sulla
carta il regista fosse l'abile Raoul Walsh, l'ideazione de Il ladro di Bagdad era stata dello
stesso Fairbanks, produttore, sceneggiatore, protagonista, stuntman e uomo di spettacolo dalle infinite ambizioni.
Nota a margine: nel film il Principe persiano è interpretato da una donna, Mathilde Comont, che non compare nei titoli.
Pagina 102
Legge 627
Un film di Bertrand Tavernier. Con Didier Bezace, Jean
Paul Comart, Charlotte Cady, François Levantal, Frédéric Pierrot
Titolo originale L. 627.
Poliziesco, durata 145 min. - Italia 1992.
"Siamo a Parigi; l'investigatore di polizia Lucien Marguet, detto
Lulù, finisce alla brigata stupefacenti. Insieme ai suoi nuovi compagni di lavoro, affronta i rischi e le frustrazioni di un lavoro
massacrante e in fondo ben poco esaltante, tra appostamenti,
perquisizioni, catture, botte. Lulù coltiva una strana amicizia con
la tossicodipendente Cécile: un filo di speranza quando lei esce
dal giro...
Bel film di Tavernier; teso e drammatico, riprende moduli hollywoodiani trasferendoli nella realtà parigina. Vita da poliziotti descritta senza gratuite spettacolarizzazioni; gran lavoro sulle sfaccettature psicologiche e ottime interpretazioni."
Un poliziesco girato quasi con la tecnica di un documentario di impressionante verosimiglianza
che prende il titolo da una legge che obbliga l'autorità di pubblica sicurezza a far visitare ogni
drogato sotto la propria custodia almeno una volta ogni 24 ore.
Tavernier è molto coinvolto e si vede dalla passione con cui gira il film:lo dedica a suo figlio Nils
che ha avuto gravi problemi di tossicodipendenza e che qui recita in una piccola parte. E il ritratto che viene fuori della polizia è tutto meno che agiografico. È un documento di grande e
circostanziata amarezza, uno sguardo impietoso sulle deficienze del sistema, fa scoprire la Parigi
nascosta, quella dei vicoli bui e degli spacciatori ad ogni angolo di strada, quella delle prostitute e
degli informatori (che qui hanno molta importanza per il lavoro dei poliziotti).
Il film di Tavernier non racconta una storia vera e propria ma racconta la vita di un gruppo di
poliziotti sui generis (quelli della brigata stupefacenti) dal punto di vista di Lulu, retrocesso in
questa squadra un po’ particolare per un litigio con un superiore che non vuole sentire le sue
ragioni. La loro vita è fatta di interminabili appostamenti, di lotte impari contro la cronica mancanza di attrezzature e di sostegno da parte dei superiori, di pedinamenti. Quando non sono impegnati nella varie attività i poliziotti si ritrovano nella sede centrale, nome abbastanza pomposo
per un prefabbricato di dimensioni infime in cui si fanno gavettoni l'un l'altro distaccato anche
dalle altre sedi, a testimonianza ulteriore di quanto siano randagi questi poliziotti. Lulu ha una
relazione platonica con la prostituta sieropositiva Cecilie (a cui la gravidanza inaspettata concederà il modo per riscattarsi) dietro al suo aspetto ordinario si nasconde un segugio di gran razza
eppure le operazioni di questa squadra o per un motivo o per un altro vanno sempre a finire
male.
Pagina 103
Lettera a tre mogli
Un film di Joseph L. Mankiewicz. Con Linda Darnell,
Ann Sothern, Jeanne Crain, Kirk Douglas.
Titolo originale A Letter to Three Wives.
Commedia, b/n durata 103 min. - USA 1949.
Tre signore che stanno per fare una gita in campagna, ricevono
una lettera da una comune amica, Eva Ross, che annuncia di essere scappata con il marito di una di loro. Le tre donne fingono
di non dare importanza alla cosa, ma durante la giornata si dimostrano preoccupate e timorose della notizia che hanno ricevuto.
Alla più giovane delle tre viene in mente che suo marito Bill un
tempo era stato innamorato di Eva. Rita, moglie di un professore di lettere, si dimostra ansiosa ricordando un episodio della sua
vita coniugale. A poco a poco si compone dunque uno spaccato
di meschinità, inquietudini, piccole tragedie.
Mankiewicz, che vinse l'Oscar come sceneggiatore e regista di questo film, realizza un gioiello di
raffinatezza e cattiveria, una delle commedie più amare sulla borghesia americana.
Esempio di sceneggiatura costruita intersecando le storie di tre coppie apparentemente felici ma
in realtà minate dal dubbio e dalle differenze socio economiche, Lettera a tre mogli sancisce il definitivo successo di Mankiewicz nel firmamento Hollywoodiano, consacrato con due oscar pesantissimi (Migliore regia e migliore script 1950). Gli espedienti usati dal regista originario della Pennsylvania sono la voce narrante di Eva Ross, donna fatale che è il motore degli avvenimenti ma
verrà tenuta sempre nascosta agli occhi della mdp e la possibilità di utilizzare la storia delle tre
mogli, Deborah Lora e Rita per parlare dei tanti vizi privati (e delle poche pubbliche virtù) della
società americana del suo tempo. Mankiewicz usa il flashback come strumento spettroscopico
capace di rivelare le diverse sfumature dei protagonisti. Si va dal complesso di inferiorità di Deborah (Jeanne Crain) ragazza campagnola che si trova a disagio nell’ambiente alto borghese in
cui la inserisce il marito Brad, alla scalatrice sociale Lora (Linda Darnell) che utilizza il proprio
fascino seduttivo per fare abboccare Porter (Paul Douglas) il maturo imprenditore di successo
che sbava sul suo fondoschiena e sulla sua calza di nylon sapientemente sfilacciata. Tra questi
due estremi, la signora della middle class Rita (Ann Sothern), autrice radiofonica che si confronta con il sarcasmo e il cinismo del marito George (Kirk Douglas), che al contrario vede nella radio un mezzo di pubblicità occulta e di omologazione della massa. Mankiewicz pone in contrasto la cultura del professore George con la grettezza e l’avidità dei proprietari della radio: il suo
disco di vinile del Concerto n 2 di Brahms (il vinile era una novità per quei tempi) viene spezzato dalla goffaggine e dalla volgarità dilagante. Con l’accumularsi dei flashback appare evidente
come sia possibile che Eva Ross possa essere scappata con uno dei mariti, approfittando di rancori repressi e risentimenti nascosti. A un livello più profondo di lettura possiamo dire che Eva
Ross non esiste ma è semplicemente la proiezione delle insicurezze delle tre donne, figura fantasmatica che minaccia l’istituzione del matrimonio, ombra spettrale che rappresenta una lussuriosa alternativa di vita, però poco praticabile nella realtà quotidiana.
Pagina 104
Lincoln
Un film di Steven Spielberg. Con Daniel Day-Lewis,
Sally Field, David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt,
James Spader.
Biografico, durata 150 min. - USA, India 2012.
Negli ultimi quattro mesi della sua vita, Abraham Lincoln
cambiò la storia dell'umanità ponendo legalmente fine alla
schiavitù dei neri d'America. L'ottenimento dell'approvazione
del 13° Emendamento in discussione alla Camera dei Rappresentanti richiese una battaglia ardua ed estenuante, condotta
contro il tempo e nell'ambito di una devastante guerra civile:
una guerra nella guerra che lo coinvolse totalmente, come
Presidente, come padre, marito e come uomo.
Al cinema, come nella letteratura, esistono due grandi strade:
da un lato ci sono le pellicole che si lasciano impressionare, evitando il più possibile d'intervenire
sulla realtà, e dall'altro ci sono le pellicole che impressionano, costruendo una narrazione ad hoc.
Che il cinema di Spielberg appartenga a questa seconda categoria non è un mistero, eppure questa volta, più che in precedenza, quest'appartenenza è ribadita apertamente. "Noi siamo balenieri", dice Lincoln, citando uno dei maggiori romanzi americani, quel "Moby-Dick" che narra appunto di una missione che non dà scampo, che non si può abbandonare nemmeno di fronte alle
richieste più razionali (qui neppure davanti all'ipotesi della cessione immediata di un conflitto
che ha già versato una quantità disumana di sangue). Inoltre, nel caso non fosse abbastanza chiaro, Spielberg fa di Lincoln un racconta storie, ovvero un narratore, qualcuno che, per analizzare
la realtà, ha bisogno di passare dal filtro dotato di ordine e di senso del racconto.
Con l'aiuto fondamentale della sceneggiatura di Kushner (già autore del meraviglioso Munich), il
regista ci invita dunque dentro un grande romanzo, dove ogni personaggio ha il suo momento
ma tutti convergono come falene verso un'unica luce, emanata dal protagonista. L'impresa, tentata e superata, è quella di rendere intima e interiore una questione di giustizia e di politica universale. Man mano che il film si dipana, infatti, appare sempre più evidente come per Lincoln,
che all'epoca dei fatti era già un leader molto amato, far passare l'emendamento non fosse un
obiettivo accessorio né il frutto di una fortunata coincidenza: ne andava della sua identità storica
e privata, dice il film, che sovrappone alla perfezione i piani.
Come un dagherrotipo, che richiede un certo tempo di esposizione, Lincoln abbisogna di tutta la
sua durata per restituire un ritratto integro, che, prima che di un uomo, è soprattutto il ritratto di
una visione politica. Una visione che combina idealismo e realpolitik, illuminando due fattori
fondamentali: da un lato, la statura eccezionale dell'essere umano (che in termini cinematografici
si traduce nella scelta di un attore come Daniel Day-Lewis), dall'altro la capacità di guardare al di
là delle convenienze (è suo figlio forse diverso dagli altri figli, che sta sacrificando sul campo come mosche?) e di usare quasi ogni mezzo, se il fine è di natura superiore.
Non si può, perciò, pensare che il film di Spielberg non parli, oltre che del passato, anche al presente e al futuro.
Pagina 105
Il lungo addio
Un film di Robert Altman. Con Sterling Hayden,
Elliott Gould, Nina Van Pallandt, Mark Rydell.
Titolo originale The Long Goodbye.
Drammatico, b/n durata 112 min. - USA 1973.
Il detective Philip Marlowe accetta di portare un amico,
Terry, al confine con il Messico dopo che questi gli ha chiesto aiuto per sfuggire alle ire della moglie e di non meglio
specificati inseguitori. Non trascorrono molte ore e Marlowe viene fermato dalla polizia che lo accusa di aver favorito
la fuga di un omicida: la moglie di Terry è stata uccisa. Ma
la detenzione dura poco perché dal Messico giunge la notizia che Terry si è suicidato. Ora il detective inizia ad occuparsi di un nuovo caso: la scomparsa di uno scrittore alcolizzato. Ma Terry non è del tutto uscito dalla sua vita.
Raymond Chandler creò il personaggio del detective Philip Marlowe nel romanzo Il grande sonno
nel 1939 e nel 1946 Humphrey Bogart ne indossò i panni sul grande schermo. Da allora numerosi attori si sono confrontati con questo ruolo (da Robert Montgomery a Robert Mitchum) ma
l'interpretazione di Elliott Gould sotto la guida di Altman si colloca in uno dei vertici, basandosi
sul racconto in cui il personaggio esce definitivamente di scena. Con una macchina da presa costantemente in movimento e lasciando la libertà all'attore di improvvisare alcune scene (vedi
quella in cui Philip si impiastriccia il volto con l'inchiostro utilizzato per le impronte digitali) Altman offre una lettura contemporanea del detective il cui comportamento è un misto di ironia
spavalda e di profonda e malinconica solitudine esistenziale. Sul piano stilistico poi sono innumerevoli le invenzioni: dalla moltiplicazione di superfici, che riflettono e quindi mettono in gioco più collocazioni spaziali, agli interventi in post produzione per ammorbidire l'intensità di alcuni colori. In definitiva il film si rivela come una ricerca di senso da parte del protagonista il
quale, nonostante la professione e a differenza del suo gatto, non fiuta immediatamente l'inganno ma è costretto a prenderne dolorosamente atto. Un'annotazione per i cinefili più curiosi: nel
film compare, non accreditato, Arnold Schwarzenegger nel ruolo di uno dei guardaspalle del
gangster Augustine.
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Il maggiordomo
Un film di Leo McCarey. Con Charles Laughton,
Mary Boland, Charlie Ruggles, Zasu Pitts.
Titolo originale Ruggles of Red Gap.
Commedia, b/n durata 92 min. - USA 1935.
Durante una partita di poker il conte di Burnstead perde al
gioco il devoto maggiordomo Marmaduke Ruggles, che
deve lasciarlo per il nuovo padrone, Egbert Floud, un facoltoso allevatore di bestiame. Ruggles si trova quindi catapultato nella società americana interclassista e deve trovare
il modo di sopravvivere.
«Lei crede nell’amore a prima vista?» «No.» «Ecco perché
intendo fermarmi un po’.» Charles Laughton è un colto e ligio maggiordomo perso a poker dal
suo padrone francese e vinto da un americano arricchito che lo tratta alla pari. Giunto nello stato di Washington, scopre le possibilità della democrazia. Commedia d’ambiente che gioca abilmente su stereotipi e luoghi comuni, Ruggles of Red Gap parte con uno sguardo sarcastico sulla
decadente nobiltà europea primo novecentesca immolata alla formalità, lo fa scontrare con la
ruspanteria della profonda America (i caratteristi fanno il loro bel lavoro) e poi si sposta nel
nuovo mondo, con un atteggiamento tra il sarcasmo e il melodramma. Memore del periodo muto, Leo McCarey non rinuncia ai gags fisici (la carrozza) ma sa gestire anche la dimensione buffa
della voce (le storpiature del nome di Effie) e soprattutto apre un ragionamento tutto personale
sul patriottismo: il celebre monologo in cui Laughton recita il discorso di Lincoln a Gettysburg è
il primo tassello sulla celebrazione delle possibilità del Grande Paese, una parabola sul riscatto
sociale, sulla parità tra gli uomini, sui meriti e i bisogni. Perfetto Laughton, un maggiordomo
grande quanto l’Anthony Hopkins di Quel che resta del giorno, votato alla missione di servire il proprio padrone per generazioni.
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Mai di domenica
Un film di Jules Dassin. Con Melina Mercouri, Titos
Vandis, Georges Foundas, Jules Dassin
Titolo originale Pote tin kyriaki.
Commedia, , b/n durata 97 min. - Grecia 1960.
Homer (Dassin), turista americano amante di filosofia e appassionato della cultura della Grecia classica, sbarca al Pireo
per scoprire il motivo della decadenza della Grecia e più in
generale di tutto il mondo attuale; conosce la radiosa prostituta Illia (Mercouri) e cerca di "redimerla" ma non ne ha i mezzi
economici; Mister X, un potente boss che sfrutta tutte le altre
prostitute del Pireo, gli offre di finanziare per un mese i suoi
sforzi perché desidera allontanare Illia che gli sobilla contro le
altre prostitute. Ma Illia viene a saperlo. Lo rifiuta, lo deride e
forse alla fine quasi lo converte… Il tutto su toni leggeri di commedia, dominati dalla figura luminosa di Illia e da canti e balli folkloristici, che rendono il film molto gradevole nonostante una
vicenda modesta, banale e poco coerente.
La critica ha parlato spesso di Pigmalione, che non c'entra proprio niente, ma trascura l'accordo
fra Homer e Mister X, causa del fallimento di Homer (che Mereghetti definisce addirittura
"ricco"), ed evita di collegare il film al fatto che Dassin era stato messo nella lista nera di Hollywood, che il film è girato in Grecia e che solo più tardi la Mercouri diventerà moglie di Dassin.
Né sottolinea il fatto che la cultura filosofica e storica di Homer è piuttosto superficiale e convenzionale; il suo moralismo ricorda tanto quello del maccartismo e la sua cultura approssimativa fa pensare a quella di chi si era schierato dalla parte di MacCarty, facendo gli interessi del capitale mafioso sotto l'aspetto di intenzioni moralizzatrici, a volte ingenuamente sentite. Rientra
nella parodia delle imposizioni del maccartismo, e in particolare del lieto fine, anche il delizioso
racconto delle tragedie greche fatto da Illia, che ne è appassionata cultrice, non se ne perde uno
spettacolo, le conosce a memoria, e le racconta tutte come commedie che concludono con i
protagonisti che fanno pace e vanno tutti al mare; come Medea, che dopo aver fatto finta di uccidere i figli e di averli dati da mangiare a Giasone, poi gli lascia capire che era tutto uno scherzo:
infatti alla fine, tra gli applausi, riappaiono sulla scena i due sposi con i due figli, tutti sorridenti…
La Mercouri è carina e simpatica e sempre sorridente e piena di vita, ma non è una attrice eccezionale e da sola non reggerebbe il film; Dassin forse non è un buon attore, ma a me pare che il
suo ruolo nel film sia azzeccato e serva a sostenerlo e a rendere più affascinante la figura di Illia;
perfino il fatto che lui sia anche il regista, e presumibilmente già innamorato della sua attrice, che
poi diventerà sua moglie, giova al film: ha un'aria imbranata e innamorata e intimidita nei suoi
timidi ma ostinati sforzi di correggere Illia e di insegnarle cose in cui lui stesso finisce per credere sempre meno: sembra quasi che anche come regista rinunci a dirigere la sua attrice e se ne
lasci prendere la mano; ma forse sembra solo… perché il risultato è ottimo… anche se d'ora in
poi Dassin non farà più film di grande rilievo, a parte la propria parodia in Topkapi.
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Mano pericolosa
Un film di Samuel Fuller. Con Thelma Ritter, Richard Widmark, Jean Peters
Titolo originale Pickup on South Street.
Poliziesco, b/n durata 83 min. - USA 1953.
A Candy, impiegata nello studio di Joy, sedicente avvocato,
che in realtà fa parte di una combriccola di spie, viene affidato il delicato incarico di recapitare un microfilm, contenente
formule atomiche segrete. La ragazza naturalmente ignora il
contenuto del documento affidatole. Per sua sfortuna la borsetta con il prezioso microfilm le viene sottratta nella metropolitana da uno scippatore.
Splendido noir con meravigliosi interpreti. La sinergia tra le capacità del regista e la bravura degli
attori rende ogni aspetto della visione appagante. Da un lato la storia di spionaggio che funziona
ed avvince pur se tra qualche ingenuità (es. perché mandare una donna indifesa e poi insistere su
quella strada?), con buon ritmo e discreta suspance. Dall'altro lato una storia d'amore che convince e commuove ed un personaggio, quello di Moe, che trasmette un'infinita tenerezza. Il finale è quasi telefonato ma non per questo banale, tutto sommato qualche colpo di scena ben collocato rende traballanti le certezze dello spettatore. Consigliato, solido e senza tempo.
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Margherita Gauthier
Un film di George Cukor. Con Lionel Barrymore,
Robert Taylor, Greta Garbo, Elizabeth Allan, Jessie
Ralph.
Titolo originale Camille.
Drammatico, b/n durata 108 min. - USA 1936.
La cortigiana Margherita (Garbo) s'innamora, ricambiata, del ricco Armando Duval (Taylor). Ma quando
il padre (Barrymore) di lui la supplica di lasciarlo si
sacrifica: minata dalla tisi, quando si ricongiungerà
all'amato sarà troppo tardi.
Da La signora delle Camelie di Alexandre Dumas figlio
sceneggiata da Frances Marion, James Hilton e Zoe Akins, uno dei più riusciti melodrammi di Cukor, e una delle migliori interpretazioni della Garbo.
Dietro lo splendore formale (la fotografia, tutta giocata sui contrasti luce-ombra sul volto
di Camille, è di William Daniels e Karl Freund) c'è un senso autentico di sofferenza e di
amara ironia quasi ophulsiano. Vero ispiratore del film fu però il produttore Irving
Thalberg, che mori a 37 anni senza fare in tempo a vedere l'opera finita.
Il romanzo di Dumas ispirò una decina di film muti (tra cui La signora delle Camelie con Alla
Nazimova e Rodolfo Valentino); tra i successivi, Traviata di Gallone e Traviata '53 di Cottafavi.
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Marocco
Un film di Joseph Von Sternberg. Con Gary Cooper,
Adolphe Menjou, Marlene Dietrich
Titolo originale Morocco.
Drammatico, b/n durata 97 min. - USA 1930.
La cantante di cabaret Amy Jolly (Marlene Dietrich), amante di
un ricco pittore, arriva in una città del Marocco spagnolo dove è
di stanza la Legione Straniera, riscuotendo grande successo in
un frequentato cabaret. Da tutti corteggiata, la donna si innamora invece di un semplice legionario, Tom Brown (Gary Cooper),
amante della moglie del comandante della guarnigione. La donna, per vendicarsi di Tom, convince il marito ad affidargli una
pericolosa missione nel deserto. Amy decide allora di abbandonare il suo protettore e di seguire scalza i legionari nel Sahara
pur di stargli vicina.
Marocco è il secondo film dell'astro nascente Marlene Dietrich (nome d'arte di Maria Magdalena
von Losch) assieme al regista ebreo viennese Josef von Sternberg (Jonas Sternberg), appartenente alle migliori personalità artistiche mitteleuropee emigrate negli Stati Uniti, per alcuni aspetti
biografici simile al concittadino Erich von Stroheim.
Il film riprende un romanzo di Benno Vigny, una storia piuttosto banale e comune di cui però
Sternberg si serve allo scopo di esaltare gli aspetti formali e seduttivi della sua messinscena, la
ricostruzione artificiosa e posticcia di un Marocco da cartolina, un ambiente falsificato negli studi di Hollywood che paradossalmente la regia rende magicamente verosimile oltrepassando il
realismo oggettivo. L'obiettivo infatti è quello della resa atmosferica, la calura e l'odore del deserto, esplicitamente chiamato in causa in un dialogo tra il legionario Tom Brown e la cabarettista Amy Jolly, il contrasto tra un barocchismo oppresso dall'aria esterna e dalle cose degli interni e una soffusità psicologica evidenziata dalla modellazione luministica, aspetti che vengono
ben còlti dalla mdp nella sequenza dello spettacolo al cabaret: costumi esotici, fumi, folla numerosa e la Dietrich che appare vestita con un frac nero in una rappresentazione all'interno della
rappresentazione cinematografica, una figura diventata icona e simbolo universale di ambiguità
erotica, oggetto del desiderio ribaltato sia maschile che femminile.
L'andamento lento quindi fa parte del paesaggio e della ricostruzione ma è anche la proiezione
delle insicurezze dell'innamoramento di Amy e di Tom, una donna e un uomo dal passato che
vorrebbero dimenticare e timorosi del futuro. Il finale che inquadra l'allontanarsi della legione e
di Amy nel deserto è emblematica della sospensione temporale, una speranza ma anche una incognita, con i suoni diegetici degli strumenti che svaniscono e il fruscio del vento.
La coppia Cooper/Dietrich è tra le più belle della storia del cinema in quanto ad estetica ed intesa seduttiva, mentre Adolphe Menjou tratteggia con portamento distinto il pittore che vorrebbe
fidanzarsi con Amy, ma che per amore la lascia libera di decidere
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Master & Commander
Un film di Peter Weir. Con Russell Crowe, Paul Bettany, James D'Arcy, Bill Boyd, Edward Woodall.
Titolo originale Master & Commander: The Far Side of
the World.
Avventura, durata 140 min. - USA 2003.
Costa del Brasile, 1805: a migliaia di leghe lontano dall'Europa, infuria un'epica battaglia che può cambiare le sorti della
guerra di Napoleone alla conquista dell'Inghilterra.
La Surprise, vascello della Royal Navy guidato dal Capitano
Jack "Lucky" Aubrey, e la Acheron, nave francese di stazza e
potenza di fuoco estremamente superiori, si sfuggono e si
inseguono, a viso aperto o col favore della nebbia, si scambiano di ruolo da preda a predatore. A bordo della Surprise, la patriottica devozione di Aubrey si
scontra con l'etica scientifica del suo amico e medico di bordo Maturin, ma sapranno trovare
una nell'altra la chiave per il successo dei propri scopi.
Mettete una montagna di soldi in mano ad ognuno dei registi di Hollywood e state certi che, dopo averla resa poco più che una collinetta per onorare i cachet dei maggiori divi del momento,
nove su dieci faranno un film mediocre, che farà storcere il naso ai critici, che avrà il sapore del
"già visto", eccetera. Peter Weir è il decimo tra questi registi. La sua montagna d'oro si trasforma
nel sontuoso Master & Commander, un film compatto come un megalite. Sebbene realizzato interamente a mollo nell'Oceano, Master & Commander non fa acqua da nessuna parte e non sono
necessari grandi giri di parole per spiegarne la grandiosità: gli attori sono eccellenti (ad essere
sinceri, Bettany sembra un candidato più credibile di Crowe alla statuetta più ambita del mondo,
anche se quale attore non protagonista); la regia è essenziale e di stile, lasciando parlare tutta la
serie di meravigliosi elementi scenografici: dalle navi ai costumi passando per le isole Galapagos,
mai viste al cinema, che lasciano intontiti per la loro bellezza; la fotografia riesce a virare con
piacevole disinvoltura da una prima parte grigia e nebbiosa ad una seconda soleggiata e splendente, con nel mezzo una tempesta da cineteca dei sogni.
Non bastasse, in Master & Commander c'è anche il sentimento - e non certo l'amore, visto che la
presenza delle donne è ridotta ad una ventina di secondi di bellezze caraibiche. Cuore e testa
(quello del Capitano Crowe che si fa travolgere dall'orgoglio e dal fervore patriottico e questa del
dottor Maturin che sacrificherebbe la sua stessa vita nel nome della scienza) possono convivere
senza dover sacrificare il "terzo incomodo", l'amicizia: e come, se non traendo forza l'uno
dall'altra e viceversa? Connubio creativo meravigliosamente sottolineato, in chiave metaforica,
da Capitano e Dottore che, al riparo della cabina, danno vita col mescolarsi dei loro strumenti da
camera ad una creatura armoniosa e magica come solo la musica è. E quando i due si scambiano
le partiture, cambia la musica ma la magia resta la stessa. Anzi, si fa più bella di prima.
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Memories of Murder
Un film di Bong Joon-ho. Con Kang-ho Song, Sangkyung Kim, Roe-ha Kim, Song Jae-ho, Hie-bong
Byeon.
Titolo originale Salinui chueok.
Poliziesco, durata 129 min. - Corea del sud 2003.
Gyeonggi, 1986. Il cadavere di una ragazza violentata scatena
le indagini dell'inadeguata polizia locale, intenta più a cercare
un capro espiatorio che a trovare il vero colpevole. Gli omicidi si susseguono inarrestabili e un ispettore arriva da Seoul
per fare luce sul mistero. Il volto di Song Kang-ho, uno dei
migliori attori della sua generazione, guarda in camera attonito e si rivolge direttamente a noi, smarriti e confusi, pieni di
"perché". Come è possibile che l'uomo possa compiere atti
simili? O forse, se una nazione intera vive all'insegna della violenza e dell'ingiustizia, quanto avviene non è che una naturale conseguenza?
In mezzo a tanto cinema autocritico sugli anni bui della Corea del Sud, Memories of Murder si staglia come l'exemplum ideale per restituire il clima di ignoranza e violenza sotto il regime militare
nella provincia più sperduta, mantenendo sullo sfondo - anziché giudicando in maniera didascalica - le aberrazioni del governo. Tanto la politica è nei gesti, nelle scelte, nel coprifuoco, nella
paura della gente, ormai priva di fiducia nei confronti della polizia e dei suoi abusi; sfiducia guadagnata sul campo dai tutori della legge, che nel proprio modus operandi prevedono prove falsificate e confessioni estorte a suon di calci e pugni. Anche nei confronti di ritardati come Kwangho o di innocui pervertiti, evidentemente innocenti sin da subito. La narrazione del talentuoso
Bong Joon-ho (The Host, Mother) adotta un registro quasi comico per sottolineare il clima farsesco della polizia di regime, ma non ne nasconde incompetenza e brutalità; l'autorità come manganello del potere, che manca degli uomini necessari per impedire un omicidio perché sono tutti
impegnati a reprimere una rivolta studentesca.
Nemmeno l'ispettore proveniente da Seoul, presentato da Bong come un infallibile indagatore
da libro giallo, riesce a districare la matassa, finendo per farsi trascinare dall'esasperazione figlia
dell'impotenza. L'assassino non si può catturare perché invisibile, perché espressione della cattiva coscienza di un Paese malato, perché è ovunque, tanto nella disperazione disumana della baraccopoli quanto nello sciagurato distretto di polizia, dove l'elemento più brillante, in quanto
donna, serve al più da cameriera. La fotografia di Kim Heong-gyu sottolinea il clima malsano di
Gyeonggi: un abisso di pessimismo sulla natura umana dove è bandita ogni forma di redenzione
ma soprattutto di comprensione.
Uno dei capolavori della Corea di inizio millennio, oltre che un clamoroso successo di pubblico.
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Il mercante delle quattro stagioni
Un film di Rainer Werner Fassbinder. Con Hanna
Schygulla, Hans Hirchmuller, Irm Hermann, Ingrid
Caven
Titolo originale Der Händler der vier Jahreszeiten.
Drammatico, durata 89 min. - Germania 1972.
Hans si era arruolato nella Legione Straniera per sfuggire alla
tutela della madre. Tornato in Germania da una moglie che
non lo ama e che gli ha chiesto il divorzio, si scontra con la durezza della realtà e si mette a vendere frutta nei cortili delle case.
Uno dei primi film di rilievo di Fassbinder; un'analisi spietata
dei rapporti fra sessi nella società borghese.
Uno dei primi melodrammi di Fassbinder a ricevere una certa attenzione dalla critica, resta un
buon esempio della sua prima maniera in cui già aveva assorbito il meglio della lezione del suo
maestro Douglas Sirk (la disperazione di Hans credo fosse per lui estremamente autobiografica, con un suicidio per alcolismo che purtroppo anticipa quello reale per overdose dello stesso
Fassbinder che avverrà circa dieci anni dopo l'uscita di questo film).
Il film è narrato con sicurezza e robustezza di linguaggio e si avvale di un ottimo cast in cui spiccano soprattutto il protagonista, il poco noto Hans Hirschmuller, la musa abituale Irm Hermann (che nella vita privata ebbe un rapporto intenso ma estremamente contrastato col regista,
di cui si trovano alcune tracce anche nei rapporti fra i personaggi del film) e in ruoli minori Hanna Schygulla e Klaus Lowitsch. Il critico del Village Voice Jonathan Hoberman lo considera addirittura il capolavoro di Fassbinder, ma io, pur apprezzandolo, non arriverei così in alto: oltre ai
pregi elencati, vi sono anche alcune incertezze di scrittura (ad esempio un infarto che coglie il
protagonista, a un certo punto della storia, in maniera piuttosto inverosimile e fin troppo meccanica e calcolata).
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Michael Clayton
Un film di Tony Gilroy. Con George Clooney, Sydney Pollack, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Austin
Williams.
Drammatico, durata 125 min. - USA 2007.
Michael Clayton è un ex pubblico ministero che lavora da anni per un importante studio legale. Il suo compito è quello di
'aggiustare' la verità coprendo i guai dei clienti più facoltosi.
La falsificazione dei fatti è la sua specialità. Pur lavorando per
lo studio da 15 anni non ne è diventato socio ma è legato a
filo doppio al suo impiego a causa anche della sua passione
per il gioco d'azzardo e dei debiti che deve saldare per un investimento nel settore della ristorazione fallito non per colpa
sua.
Il giorno in cui si trova a dover affrontare il caso di una grossa società che opera nel settore dei
prodotti chimici, che è stata chiamata in causa per l'immissione sul mercato di un prodotto altamente cancerogeno, per lui giunge la resa dei conti con se stesso.
Michael Clayton è l'opera prima di uno degli sceneggiatori più in vista di Hollywood. Solo per citare alcuni titoli ricordiamo i tre film dedicati alle vicende di Jason Bourne, L'avvocato del diavolo e
Armageddon. Una garanzia quindi sulla pagina scritta che trasferisce le proprie credenziali dietro
la macchina da presa.
Ne nasce un film dall'impianto estremamente classico: l'eroe stufo del proprio lavoro sporco che
cerca un'occasione di riscatto e, forse, la trova. Potrebbe trattarsi dell'ennesimo deja vu. Ma ha
due frecce al suo arco che lo rendono un'opera interessante. Innanzitutto lo sfruttamento della
documentazione (anche aneddotica o rivelata da 'gole profonde') raccolta da Gilroy mentre preparava lo script per il già citato L'avvocato del diavolo. Il regista ha toccato con mano vicende processuali in cui l'occultamento di documenti compromettenti è stato fondamentale per far vincere
cause a grandi corporation. Se a questo si aggiunge la presenza di Clooney il gioco è fatto.
Dopo questo film ci sentiamo di poter affermare che solo un attore come lui può affrontare il
ritorno del legal thriller più ancorato a schemi talvolta abusati (che le serie tv hanno ampiamente
destrutturato e ricomposto in nuova veste) offrendogli una credibilità da altri non raggiungibile.
Godetevi il lungo piano sequenza che accompagna parte dei titoli di coda. È bloccato su un suo
primo piano. Nei piccoli mutamenti del suo volto si condensano i pensieri non detti che attraversano la sua mente. Clooney in quell'epilogo condensa tutto il crescendo di umanizzazione che
ha offerto al suo personaggio, trasformandolo, step by step, in un essere umano con le sue sofferenze e i suoi dubbi.
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Millenium Mambo
Un film di Hou Hsiao-Hsien. Con Shu Qi, Jack Kao,
Tuan Chun-hao, Yi-Hsuan Chen, Jun Takeuchi.
Drammatico, durata 119 min. - Taiwan, Francia
2001.
Taipei, 2001. Bella e inquieta, Vicky si occupa delle pubbliche
relazioni in un night club vivacchiando con Hao-hao, un dj
allergico al lavoro, dedito alla droga e a piccoli furti, che controlla ogni suo movimento, ogni sms, ogni spesa. Nel locale in
cui lavora, inoltre, la ragazza è oggetto delle dolci attenzioni di
Jack, un uomo maturo che sembra averla a cuore.
Quasi avesse la stessa consistenza dei ricordi, Millennium Mambo seduce con piani, ravvicinati nel buio e dai contorni evanescenti, ancora più attenuati dai bassi di una musica perfetta,
incantando con un perpetuo flusso di emozioni gridate a bassa voce. La prima sequenza, con
Vicky che cammina sotto ad una pensilina con la sigaretta perennemente tra le dita, descrive già
tutto: alle immagini di un racconto indicativamente ambientato al cambio del Millennio si sovrappone la voce della ragazza, di dieci anni più grande. Proprio il suo commento dà forma al
passato, manipola il tempo, anche nell'incastro dei tre macro-episodi che costituiscono la sceneggiatura: il contrastato rapporto con Hao-hao, il tenero legame con Jack, la fuga verso il Nord
del Giappone.
Da grande regista qual è, Hou Hsiao-hsien miscela insieme i diversi piani come fossero suoni,
senza cercare né una concatenazione attendibile né una scansione cronologica, ma favorendo
uno stato di ipnosi ottenuto attraverso il magistrale uso dei piani sequenza, il ricorso alla luce
artificiale (splendida fotografia di Pin Bing Lee), il montaggio, la capacità innata di sospendere
l'attimo. Una visione selettiva, profonda e mai ambigua perché rispondente alle regole del ricordo, del sogno, del cinema prima di ogni cosa. Non bisogna arrivare alla strada innevata e zeppa
di manifesti cinematografici di un villaggio del Nord del Giappone per capire quanto Millennium Mambo voglia anche rendere omaggio alla magia del cinematografo, inteso come mezzo
attraverso il quale catturare un presente che può essere manipolato, reinventato, allontanato di
dieci anni soltanto con la sovrimpressione di una voce.
Dopo aver raccontato la propria infanzia nei primi titoli e la storia di Taiwan in quelli della maturità, Hou Hsiao-hsien firma una vibrante opera sul presente di una gioventù bruciata dall'abulia, dalla mancanza di progettualità e di responsabilità. Quello di Vicky, interpretata dalla bellissima Shu Qi, è un dolore ovattato, sordo, ma non per questo meno profondo.
Le musiche elettroniche di Lim Giong e Yoshihiro hanno vinto il Grand Prix tecnico al Festival
di Cannes 2001.
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Mio fratello è figlio unico
Un film di Daniele Luchetti. Con Elio Germano,
Riccardo Scamarcio, Diane Fleri, Alba Rohrwacher,
Angela Finocchiaro.
Commedia, durata 100 min. - Italia, Francia 2007.
Negli anni '60 a Latina la vita non era facile. Le famiglie dovevano far crescere i figli con quello che avevano, dando loro
una buona educazione. Accio è il più giovane di tre fratelli, e
la sua vita si svolge fra ideali ora vivi e poi dimenticati. Lottando con il fratello con il quale condivide gioia e miseria.
Uno sguardo, un primo piano. Il movimento degli occhi, ora
persi, ora accesi per reagire a una situazione che in quel momento è la più importante. Luchetti sa che il suo cinema è
personale, tocca la politica, la affronta, ma ciò che gli importa
veramente sono le persone, perché sono loro che fanno il mondo. Ieri, oggi, domani. Quei volti,
quindi, che lui approccia nei dettagli, a volte con la camera a mano, per dare ai protagonisti quel
qualcosa di incerto, sono l'anima dei suoi film. Mentre racconta la storia dell'Italia del '68 (che a
Latina non arriva) fra nero e rosso, due uomini legati dallo stesso sangue si confrontano, e Accio, sempre alla ricerca di una fede, da quella cristiana a quella fascista, per poi quasi perdersi
nella sinistra, è la rappresentazione unica di un'incertezza manifesta di un paese allo sbando.
Elio Germano è superlativo, e tiene testa a Scamarcio che buca lo schermo con i suoi occhi verdi e il timbro vocale sicuro. Intorno a loro si muovono la Finocchiaro, magnifica madre, e Zingaretti, fedelissimo al Duce, perfetti comprimari di un dramma estremamente personale. La crescita di un uomo, forse non era mai stata così profonda nel cinema italiano attuale e, se superiamo gli ultimi venti minuti, troppo didascalici, scopriamo come l'umanità può essere raccontata
con la forza delle immagini e delle parole.
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Il mio piede sinistro
Un film di Jim Sheridan. Con Brenda Fricker,
Daniel Day-Lewis, Ruth McCabe, Cyril
Cusack, Hugh O'Conor.
Titolo originale My Left Foot.
Drammatico, durata 100 min. - Irlanda 1989.
Christy Brown (Day-Lewis) è colpito da una paralisi
che gli preclude i movimenti e la parola. Malgrado
questa tremenda menomazione, la sua famiglia, numerosissima e di modeste condizioni economiche, lo accoglie con grande amore. Christy riesce a comunicare
mediante i movimenti del proprio piede sinistro.
Opera prima del regista irlandese Jim Sheridan. Grande la serietà con cui la storia viene affrontata, senza concessioni a facili sentimentalismi e addirittura con ironia. Premi Oscar a Daniel Day-Lewis e a Brenda Fricker.
Questo film di Jim Sheridan, tratto dal libro omonimo, racconta la storia di Christy Brown, ragazzo quasi del tutto paralizzato ad eccezione della gamba sinistra e divenuto famoso come pittore e scrittore dopo esser cresciuto in una famiglia decisamente larga quanto povera in canna.
Subito amato dalla madre e dagli 11 fratelli e sorelle, Christy verrà davvero accettato anche dal
padre, il classico irlandesone un po' tonto e brontolone da Irish pub, solo una volta che il piccolo
è riuscito a dimostrare di non essere anche del tutto ritardato mentale, prendendo un gesso col
piede sinistro e scrivendo e facendo di conto sul pavimento. Intanto, la madre sacrifica la fame
sua e della famiglia per risparmiare segretamente un po' di sterline con cui comprare una sedia a
rotelle per il figlio menomato…
Mentre via via impara anche a parlare, Christy da grande si rivela un vero talento nel campo pittorico, cimentandosi poi anche con la macchina da scrivere per imprimere su carta la sua storia,
in modo inoltre da guadagnare i soldi necessari al benessere dell'indigente famiglia.
Sheridan, come nel successivo Nel nome del padre, nonostante una storia strappalacrime, riesce a
non essere banale e non cerca sentimentalismi inutili. La storia è fedele, il ritmo, per quanto un
po' lento, è ben cadenzato e tale da lasciar percepire la sofferenza di Christy nel compiere le azioni più quotidiane (da notare la difficoltà con cui beve dalla cannuccia), gli interpreti sono eccellenti, con Brenda Fricker e un immenso Daniel Day-Lewis premiati con l'Oscar.
Un film interessante e non molto ricordato, che porta con sé anche un aneddoto particolare sul
suo happy ending, purtroppo poco fedele alla realtà: da una biografia autorizzata di Brown, sembra
che Mary Carr, la donna che Christy sposerà, fosse un'ex-prostituta bisessuale e forse anche responsabile, per non meglio precisate negligenze, della morte del marito nel 1981. Ma così il film
avrebbe preso tutt'altra piega...
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I miserabili
Un film di Riccardo Freda. Con Gino Cervi, Andreina Pagnani, Valentina Cortese, Giovanni Hinrich, Nino Marchetti.
Drammatico, b/n durata 187 min. - Italia 1947.
Jean Valjean ha rubato per fame ed è stato imprigionato.
Poi ha cercato più volte di evadere, ma è sempre stato ripreso dal poliziotto Javert. Quando il suo tentativo riesce,
cambia zona e a poco a poco si costruisce un'enorme fortuna diventando un uomo rispettabile. Braccato da Javert,
Jean Valjean si rifugia a Parigi sotto falso nome. È diventato ricco e potrebbe salvarsi se la figlia adottiva Cosetta non
si innamorasse di Marius, uno dei capi dell'insurrezione. La
sommossa fallisce e Valjean sottrae Marius all'arresto, ma
viene riconosciuto e ucciso.
Negli anni quaranta le grandi case di produzione che si risvegliavano dopo la guerra ebbero l’intuizione di rispolverare il genere del grande feuilleton cinematografico. Film dai
costi non eccessivi, eppure dignitosi nella realizzazione e
pieni di attori di prima fascia, in larga maggioranza suddivisi
in due puntate.
Il prototipo è il dittico Noi vivi e Addio Kira di Goffredo Alessandrini, uscito in piena guerra. Esemplari sono i casi de
Il fiacre n. 13 di Mario Mattoli (le cui scenografie e costumi
furono riciclati da I due orfanelli con Totò, di maggiore successo), Eugenie Grandet e Daniele Cortis di Mario Soldati, La
figlia del capitano di Mario Camerini, I fratelli Karamazoff, Resurrezione, fino al mastodontico Fabiola di Alessandro Blasetti.
L’intento è semplice: riportare al cinema le masse popolari
servendosi dei testi della grande letteratura popolare, che
vuol dire rischiare poco (sono storie che vivono della capacità di presa sul pubblico), investire non troppo (scene di cartapesta, costumi via via riadoperati,
attori e registi già sotto contratto), incassare tanto (i circuiti provinciali e parrocchiali).
Non fa eccezione la trasposizione de I miserabili, suddiviso in Caccia all’uomo (dramma umano) e
Tempesta su Parigi (dramma storico). Cinema popolare all’ennesima potenza, che pur non rinunciando alle lezioni morali del testo d’origine privilegia l’azione spettacolare alla fedeltà al testo,
giocando quasi tutto sulla dualità manichea tra l’ex galeotto Jean Valjean e il poliziotto Javert,
cioè tra l’astuzia al servizio della bontà e l’applicazione ottusa della legge, una caccia all’uomo
che ha più di una problematica (sono entrambi due disperati, ma se Valjean è l’incarnazione della speranza, Javert ne è la negazione).
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Molti sogni per le strade
Un film di Mario Camerini. Con Anna Magnani,
Massimo Girotti, Checco Rissone, Enrico Glori, Peppino Spadaro.
Commedia, b/n durata 90 min. - Italia 1948.
La musica che accompagna i titoli di testa sembra prepari lo
spettatore ad una vivace commediola dal titolo comunque che
echeggia una vena drammatica. poi veniamo introdotti nelle
problematiche comuni di una delle tante famiglie che a pochi
anni dalla fine della guerra cerca di riemergere a vita. Il marito
non trova un lavoro e a casa moglie e figlio patiscono la fame.
Dopo una brusca lite con la moglie, il marito esce e va dall'amico-commilitone a cercare un po’ di pace fuori dal focolare
(spento) domestico. Qui nel garage, il marito viene presentato
ad un ricco industriale a cui la ricostruzione sta portando fortuna che però allunga cento lire solo per disfarsi dall'impiccio. Il marito depredato dell'ultimo o quasi briciolo di dignità, da
quell'atto di spregiativa carità, viene convinto da un individuo che lavora nel garage a rubare la
lussuosa decapottabile. Da quando la moglie, il giorno dopo, esce di casa per andarsene da parenti, il film si trasforma in un road movie in cui la moglie obbliga la poco allegra combriccola a
farne parte per paura che il marito abbia una tresca con una poco di buono. Devono arrivare da
un tizio in campagna che ricicla le auto per farsi dare i soldi, che risolverebbero le cose. la moglie è convinta che sia un affare lecito e il viaggio si trasforma in una scampagnata domenicale.
Ovviamente le cose non vanno per il verso giusto. Ci si mette di mezzo pure una tardiva conversione mistica e l'auto, dopo una sosta forzata ad un commissariato in cui Paolo consegna dati
suoi e dell'auto alle forze dell'ordine, diviene un ingombrante oggetto di cui disfarsi magari a
pezzi. anche se il film si accartoccia male in un finale un pò affrettato e troppo fortunato, è una
buona commistione tra commedia popolare neo-realista e dramma-melò che se la sfanga in una
maniera un pò troppo sfacciata. Soprattutto la parte in cui la moglie è all'oscuro del furto e del
reato, si mescola la comicità della mattatrice con le ombre fosche di un dramma negli occhi del
marito, perennemente sotto pressione. aldilà della boccata d'ossigeno che quelle centomila lire
donerebbero all'economia famigliare, la moglie riscopre la gioia di antichi piaceri come una sana
gitarella al mare col marito e il figlioletto.
Camerini ha saputo giostrarsi i vari generi narrativi per quasi tutto il film, con in più l'ausilio di
due attori di razza come la Magnani e Girotti , con una preferenza in più per la tensione emotiva
continua a cui è sottoposto il personaggio maschile.
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Mommy
Un film di Xavier Dolan. Con Anne Dorval, Suzanne Clément, Antoine-Olivier Pilon
Drammatico, durata 140 min. - Francia, Canada
2014.
Diane è una madre single, una donna dal look aggressivo,
ancora piacente ma poco capace di gestire la propria vita.
Sboccata e fumantina, ha scarse capacità di autocontrollo e
ne subisce le conseguenze. Suo figlio è come lei ma ad un
livello patologico, ha una seria malattia mentale che lo rende
spesso ingestibile (specie se sotto stress), vittima di impennate di violenza incontrollabili che lo fanno entrare ed uscire da
istituti. Nella loro vita, tra un lavoro perso e un improvviso
slancio sentimentale, si inserisce Kyle, la nuova vicina balbuziente e remissiva che in loro sembra trovare un inaspettato complemento.
C'è spazio per una persona sola nei fotogrammi di Mommy. Letteralmente.
Il formato scelto da Xavier Dolan per il suo nuovo film infatti è più stretto di un 4:3. Inusuale e
con un altezza leggermente maggiore della larghezza, costringe a prevedere una persona sola in
ogni inquadratura o a strizzarne due per poterle guardare da vicino. Come un letto a una piazza.
Attraverso questa visione simile a una gabbia, Dolan racconta di nuovo di un figlio e una madre,
cercando di cogliere una complessità inedita nella storia della rappresentazione di questo rapporto al cinema e finendo per creare tre personaggi lontani da qualsiasi paragone o altri esempi già
visti, che si presentano come destinati all'infelicità sebbene condannati a provare a sfuggirgli.
Intrappolati in un formato claustrofobico, non gli rimane che sognare la libertà e serenità di un
irraggiungibile 16:9.
Nonostante infatti un inizio di gran ritmo e divertimento, lentamente i medesimi eccessi che suscitano risate diventano una catena. Le battute e le interazioni non cambiano ma dal ridicolo si
passa alla compassione quando da un livello superficiale di osservazione si entra dentro alla famiglia e ciò che ci appariva divertente si trasforma in un inferno. E' solo una delle tante piccole
raffinatezze di questo quinto film di Xavier Dolan, sempre caratterizzato dalla volontà di non
negarsi il piacere della sottolineatura (i consueti ralenti, il gioco con i formati, l'uso di musiche
molto note) in storie che nulla hanno di normale. La grande dote del cineasta ragazzino è di immaginare archi narrativi diversi da quelli cui siamo abituati, storie che cercano il coinvolgimento
senza ricorrere al consueto ma anzi stimolando curiosità nuove, e di saper condire tutto ciò con
una capacità di generare immagini come pochi altri sanno inventare. Steve che zittisce la madre
mettendole una mano sulla bocca e poi bacia il dorso della mano stessa frapposta tra le loro labbra è un momento di inusitata forza, perfetto per chiarire d'un colpo il loro rapporto fatto di
soprusi e violenza che alimentano e rendono difficile comunicare amore.
Dolan ha il merito indubbio di cercare le sensazioni forti unito al pregio di trovarle, fa di tutto
per strappare lacrime ed è quindi molto difficile non commuoversi di fronte ad un certo pietismo per l'illusoria ricerca di un'impossibile felicità che anima le speranze dei personaggi.
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Un mondo perfetto
Un film di Clint Eastwood. Con Kevin Costner, Clint
Eastwood, Laura Dern, T.J. Lowther, Keith Szarabajka.
Titolo originale A Perfect World.
Drammatico, durata 135 min. - USA 1993.
Nella notte di Halloween del 1963, i due detenuti Butch Haynes e
Terry Pugh riescono ad evadere dal carcere di Huntsville, Texas. In
cerca di un'auto con cui fuggire, Terry, il più pericoloso e perverso
dei due, fa irruzione in casa di una famiglia di testimoni di Geova
composta solo da madre e tre figli. Nel tentativo di molestare la
donna, attira le attenzioni del vicinato e costringe Butch a scappare
trattenendo in ostaggio il piccolo Phillip. Ad occuparsi del caso è il
capo della polizia Red Garnett che, a un anno dalle nuove elezioni e
a poche settimane dalla visita del presidente Kennedy a Dallas, viene investito, assieme allo sceriffo locale, al tiratore scelto dell'FBI Bobby Lee e all'esperta criminologa Sally Gerber, di poteri speciali e di un furgone all'avanguardia con il quale dare inizio alla
caccia agli uomini.
Per Clint Eastwood attuare una riflessione sui generi cui ha contribuito a formare la storia, significa parlare non solo al cinema ma all'intera coscienza culturale degli Stati Uniti. Dopo un (post)
western decadente (Gli spietati), un ritorno al cinema d'azione che fa i conti con la recente storia
americana (Nel centro del mirino) e un'inedita attenzione per i rapporti intergenerazionali (La recluta), con Un mondo perfetto, Eastwood riprende in mano uno ad uno i grandi temi etici e narrativi
che più paiono essergli a cuore e li inserisce in una piccola storia tanto avventurosa quanto
struggente.
All'interno della vastità dei territori texani, c'è abbastanza spazio per un racconto di evasione, di
epica paesaggistica, di caccia all'uomo, di violenza e di redenzione, e al contempo per nessuno di
questi. Perché Un mondo perfetto, per quanto sviluppi parallelamente sia la storia del fuggiasco e
del suo piccolo ostaggio, sia quella dei suoi inseguitori, è visibilmente alla prima che è più interessato, alla costruzione del rapporto sia fraterno che paterno fra Butch e il piccolo Phillip, fatto
di affetti ed esperienze di vita, di amicizia e complicità. Ritagliandosi il ruolo di capo della polizia
burbero e solitario nella cornice della storia e limitandosi a qualche scambio di sentenze e di battute d'ingegno con la criminologa Laura Dern, Eastwood esalta la centralità del rapporto affettivo fra l'evaso e il ragazzino e il reciproco processo di formazione e di scoperta delle libertà delle
emozioni.
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Monster House
Un film di Gil Kenan.
Animazione, durata 91 min. - USA 2005.
È’ la notte di Halloween e tre ragazzini incuriositi da una tetra
casa al di là del viale, decidono di avventurarsi nella sinistra
dimora alla ricerca dei mostri che la abitano.
Una semplice trama da "teen horror movie", sulla falsa riga di
film come Amityville Horror, con la classica "haunted house",
non è solo il pretesto per fare sfoggio delle potenzialità dell'animazione 3D (che sorprendono fin dall'incredibile volo iniziale di una foglia d'albero), ma è anche la dimostrazione di
come l'ironia dei dialoghi si possa fondere con una sana paura
dei fantasmi. Trascorsi, infatti, i primi cinque minuti a strabuzzare gli occhi di fronte alla meraviglia della messa in scena
(dalla fluidità dell'animazione alla naturalezza delle inquadrature e delle sequenze), si distingue dai film di genere per l'intelligenza di una sceneggiatura in cui
ogni dettaglio si prende gioco degli stereotipi dell'intera serie di film horror che raccontano di
una casa posseduta da qualche sconosciuta presenza.
Ci sono tre teenager, una sorella maggiore, i soliti poliziotti convinti di risolvere tutto, alberi animati e "dolcetti o scherzetti". L'animazione, inoltre, consente di trasformare il tipico terrore condito di sangue (che qui non c'è), in visionarietà e in quella, già citata, sana paura adatta ai più giovani, che avranno più di un'occasione per sobbalzare sulla poltrona. Probabilmente, come i loro
genitori.
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La mosca
Un film di David Cronenberg. Con Jeff Goldblum,
Geena Davis, John Getz, Joy Boushel, Leslie Carlson.
Titolo originale The Fly.
Horror, durata 95 min. - USA 1986.
Il "teletrasportatore" inventato da Seth Brundle trasferisce da
un luogo all'altro la materia, disintegrandola all'origine e ricostituendola al punto di destinazione. Lo scienziato ne spiega il
funzionamento alla giovane Veronica Quaife, redattrice di una
rivista scientifica.
La ragazza, intelligente e intraprendente, è affascinata dalle
teorie di Brundle e dopo alcuni incontri tra i due nasce una
reciproca attrazione. Lo scienziato non trascura, tuttavia, i
suoi studi e, ossessionato dalla smania di perfezionare l'invenzione, decide di sperimentarla su se stesso. Entra nella macchina, avvia i comandi e comincia
l'esperimento ... senza accorgersi che insieme a lui nell'abitacolo è entrata anche una mosca. Le
molecole dell'uomo e quelle dell'insetto si mescolano con effetti spaventosi.
Dapprima l'uomo vive in uno stato di ebbrezza e di esaltazione sfrenata (e Veronica si accorge
con spavento della sua iperattività anche sul piano sessuale), poi, il suo corpo prende progressivamente a trasformarsi in un essere mostruoso. Quando il destino di Brundle è segnato, Veronica si rende conto con orrore di aspettare un figlio. In un momento di follia il mostro chiede alla
donna di fondersi in un nuovo unico corpo e tenta di trascinarla con sè nel teletrasportatore.
Poi, ridotto ad un ammasso informe, la supplica di ucciderlo.
Nonostante sia un remake dell'Esperimento del dottor K del 1958, il film è di Cronenberg "al cento
per cento". Il soggetto offre al regista l'occasione di reinterpretare l'incubo kafkiano della Metamorfosi e di aggiungere un nuovo capitolo alla sua visionaria filosofia del corpo come tassello di
una realtà solo apparentemente leggibile e sicura. La rottura della linea di demarcazione tra uomo e animale, ragione e istinto, scienza e libertà, si traduce qui nell'angoscioso delirio di Seth
Brundle - uomo di scienza - che rivendica una impossibile confusione con la materia primigenia.
Attraverso le nuovissime emozioni tattili che si accompagnano alla nuova identità del protagonista, la sensazione di onnipotenza, la sete insaziabile di sesso, l'allucinante cosa in cui si trasforma
(mai effetti raccapriccianti sono tanto essenziali e funzionali al racconto) Cronenberg descrive le
tappe di un viaggio fisico e spirituale verso le certezze della follia.
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Nausicaä della valle del vento
Un film di Hayao Miyazaki. Con Sumi Shimamoto,
Goro Naya, Yôji Matsuda, Yoshiko Sakakibara, Akiko Tsuboi.
Titolo originale Kaze no Tani no Nausicaa.
Animazione, durata 116 min. - Giappone 1984.
Uno dei più grandi successi di Miyazaki, sia per popolarità che
per incassi. Il film mostra la Terra nel futuro, dopo le terribili
guerre che l'hanno devastata (in questo il plot di partenza è
molto simile alla serie animata Conan ragazzo del futuro) e che
hanno dato vita a una giungla tossica che copre quasi tutto il
pianeta, eccetto alcune "isole felici". In una di queste "isole"
vive Nausicaa, principessa della Valle del vento. L'eroina si
trova in mezzo ad una guerra combattuta tra due imperi nemici che mettono a repentaglio l'esistenza della Valle del vento e il futuro della terra. Coinvolgente, emozionante, struggente in molti momenti, Nausicaa è il più famoso film del regista e in esso troviamo tutte le tematiche a lui
più care: dai temi naturalstici ed ambientalisti, alla critica del progresso senza freni, all'antimilitarismo più tenace e convinto. Pietra miliare dell'animazione giapponese.
Mille anni dopo il crollo della Grande Civiltà Industriale, la Terra è coperta da una putrida foresta fungina esalante miasmi venefici chiamata Mar Marcio. Nella civiltà umana regredita ai primordi, Nausicaä è la giovane principessa di un piccolo e pacifico regno chiamato Valle del Vento, che si ritrova però intrappolato nello scacchiere bellico delle più grandi potenze vicine. Ma il
destino di Nausicaä sembra marcato da un ben più vasto orizzonte, che andrà a intrecciarsi con
un'antica profezia.
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Nodo alla gola
Un film di Alfred Hitchcock. Con James Stewart,
Farley Granger, John Dall, Cedric Hardwicke, Constance Collier.
Titolo originale Rope.
Giallo, durata 80 min. - USA 1948.
Nonostante la sua fama derivasse dai thriller, Alfred Hitchcock è sempre stato un regista tra i più sperimentali.
Ispirandosi molto all'opera teatrale di Patrick Hamilton
(famoso per Angoscia, 1944), basata sul caso Leopold e Loeb (affrontata in maniera più convenzionale nel film del
1959 Frenesia del delitto), Nodo alla gola richiama l'attenzione
per la sua scena teatrale fissa, resa in lunghi piani sequenza raccordati in maniera quasi invisibile, tanto che il film pare non avere montaggio.
Nel 1948, però, pochi spettatori sapevano che i film venivano realizzati attraverso brevi frammenti di girato uniti in fase di montaggio; del resto, persino oggi molti film sul
cinema sembrano suggerire che le scene vengano girate come su un palcoscenico.
È forse per questo che Hitchcock, nel mostrare un modo alternativo di raccontare una
storia cinematografica, sembrò più intenzionato a rivolgersi ai sui estimatori.
A parte gli espedienti tecnici, come la cinepresa che segue continuamente i personaggi
per cogliere i fatti "in tempo reale", Nodo alla gola risulta interessante per la storia inconsueta che racconta: due scapoli che vivono insieme in un grande appartamento di
New York (John Dall e Farley Granger) provano a farla franca dopo un omicidio compiuto solo per amore del gesto e giustificato attraverso disquisizioni filosofiche quanto
mai astratte.
Intenso dramma psicologico e insieme black comedy nello stile di Arsenico e vecchi merletti
(1944), il film diviene un gioco del gatto col topo quando gli assassini invitano il loro
professore (James Stewart) per impressionarlo con la loro intelligenza.
La tecnica di ripresa, forse meno efficace del previsto, dà modo a Stewart e Dall di confrontarsi in una schermaglia sui temi dell'omicidio e della rettitudine morale. Forse l'attenzione ai piani sequenza non fece cogliere ai censori l'insolita e chiara rappresentazione di una relazione omosessuale tra i due personaggi giovanili, mai esplicitata nei dialoghi nonostante il fatto che nell'appartamento ci sia una sola camera da letto. L'insicurezza di Granger è sottolineata dall'impietosa lunghezza delle riprese, ma Dall e Stewart
sono all'altezza della situazione, con interpretazioni eccellenti.
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Noi siamo infinito
Un film di Stephen Chbosky. Con Logan Lerman,
Emma Watson, Ezra Miller, Mae Whitman, Kate
Walsh.
Titolo originale The Perks of Being a Wallflower.
Commedia, durata 103 min. - USA 2012.
Charlie Kelmeckis è un nerd che legge tanto e parla poco.
Sguardo triste, due dolori, due perdite scavano dietro quel
sorriso dolce di chi forse non sa aprirsi alla vita, ma ci prova
con tutte le sue forze. Charlie è intelligente, ma la sua testa, a
volte, vaga. Forse per non tornare dov'è stata. Charlie è soprattutto un adolescente, uno che sta vivendo un'età in cui
tutto è drammatico ed entusiasmante. Soprattutto se davvero
hai una tragedia che ti cova dentro mentre stai vivendo qualcosa di meraviglioso.
Della prima, non vi diremo. Potreste saperla solo se aveste letto The Perks of Being a Wallflower,
romanzo cult oltreoceano uscito nel 1999 a firma di Stephen Chbosky. Struggente racconto epistolare di un anno vissuto pericolosamente che diventa tredici anni dopo un film. E a dirigerlo è
quello scrittore che sapeva far vibrare ogni corda, dell'animo e musicale, dei suoi lettori. Risultato: un gioiello, un film che aderisce a tutti e cinque i sensi, perché ti porta, se sei stato Charlie, al
profumo della tappezzeria delle feste come a quello del tuo primo amore, alla vista terribile e
straordinaria di quella scuola che è tutta contro di te, al gusto che hanno le prime esperienze,
anche e soprattutto quelle proibite. All'ascolto della tua musica (da Bowie agli Smiths), quella
che tu, ragazzo nato negli anni '70 hai riunito o regalato nelle compilation su audiocassetta, perché eri costretto a scegliere, selezionare, amare non avendo la playlist infinita e troppo facile di
un iPod. E aderisce al tatto: perché un tappeto può essere troppo soffice in certe serate. E se sei
fortunato, in un tunnel, tutto questo si riassume in pochi, indimenticabili secondi di una canzone
che dovrete indovinare senza Shazam. E che è la hit della colonna sonora della vita di questo
ragazzo, uno che lega la sua vita precedente e quella attuale con un vinile dei Beatles. Uno giusto, insomma.
Charlie vive i suoi 16 anni alla grande e lo deve a Patrick e Sam. Loro sono all'ultimo anno: lui è
gay, lei quand'era matricola ha provato ogni esperienza, stupefacente e non. Insieme sono una
squadra meravigliosa. In tutti i sensi: perché vuoi loro bene da subito, così fragili e coraggiosi,
divertenti e improvvisamente sensibili. Perché i tre attori che li interpretano sono il meglio della
loro generazione: l'anticarisma di Logan Lerman (lo sapevamo che Chris Columbus non poteva
essersi sbagliato a sceglierlo per Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo) è frutto di un talento che passa
per i suoi occhi e la sua postura, che magari sbocciano in una festa in cui decide di ballare, eroe
di tutti gli sfigati del mondo perché vince la paura, e lo fa perché con lei ci convive ogni giorno.
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Norma Rae
Un film di Martin Ritt. Con Pat Hingle, Beau Bridges, Sally Field, Ron Leibman
Drammatico, durata 113 min. - USA 1979.
In una filanda che è l'unica fonte di vita di un villaggio
dell'Alabama, nell' assenza di un sindacato gli operai sono
completamnte alla mercè dei datori di lavoro. Norma Rae,
dal carattere indipendente, riuscirà a far nascere una coscienza di classe tra i suoi colleghi di lavoro, ma dopo aver
dovuto subire angherie di ogni tipo.
Un'episodio vero che Ritt racconta con robusta efficacia,
ottenendo dagli interpreti una recitazione di eccezionale
credibilità, prima fra tutti una sensazionale Sally Field, che
vinse sia la Palma d'oro a Cannes che l'Oscar come miglior
attrice
Norma Rae è un film di alto impegno civile, fieramente schierato dalla parte della classe operaia e
del sindacato che lotta per sostenerla contro le prevaricazioni esercitate dai cosiddetti padroni.
Va detto, però, che la contrapposizione fra operai e padroni proposta dalla pellicola appare eccessivamente manichea: ma quando l’intento è nobile, proprio come in questo caso, è un difetto
che si perdona volentieri. La cinepresa di Martin Ritt si muove sicura all’interno della fabbrica,
dove il regista riesce a trasmettere allo spettatore, con una messa in scena realistica che sovente
impressiona per la sua efficacia, tutta la fatica, lo stress e l’alienazione che i lavoratori sono costretti a subire, e sopportare, quotidianamente.
Altrettanto incisiva risulta la descrizione della squallida e monotona vita che gli operai conducono al di fuori del loro luogo di lavoro: nel paesino rurale in cui abitano, il tempo sembra scorrere
lentamente, tanto da apparire immoto; pare che le uniche cose che si possano fare, nel suddetto
paesino agreste, siano quelle di bere una birra, combattere le zanzare e sopportare il caldo infernale.
La pellicola, poi, si giova della notevole interpretazione di Sally Field, che nel ruolo della fiera e
combattiva Norma è in grado di far vibrare tutte le corde drammatiche di cui è dotato il suo personaggio. Per questo ruolo la Field vinse, meritatamente, come miglior attrice a Cannes e, soprattutto, il premio Oscar.
Bravi anche Beau Bridges (Sonny) e Ron Leibman (Reuben). Insomma, Norma Rae è un’opera
seria, onesta, realizzata con grande professionalità: probabilmente, assieme a I cospiratori, è il miglior film che Martin Ritt abbia mai diretto in vita sua..
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Una notte d’estate - Gloria
Un film di John Cassavetes. Con Gena Rowlands, John
Adames, Basilio Franchina, Julie Carmen, Buck Henry,
Lupe Garnica, Jessica Castillo, Saul Rubinek
Titolo originale Gloria.
Drammatico, durata 121 min. - USA 1980.
Jack Dawn è un mafioso che non ha saputo tacere. Prima che gli
arrivino in casa i killer consegna il piccolo Phil e un quadernomemoriale alla vicina di casa, Gloria. Il rapporto tra la non più
giovane Gloria e il giovanissimo Phil, rimasto ormai senza famiglia, è piuttosto difficile. Senza contare che la mafia vorrebbe
mettere le mani sul quaderno lasciato da Jack. Per difendere il
ragazzo, Gloria diventa un'abile pistolera e, alla fine, riesce a rifugiarsi a casa di Tony, un boss di cui era stata amante.
Ma proprio lì trova ad aspettarla lo stato maggiore del clan mafioso.
Con quella faccia da perdente Buck Henry è un Jack Dawn "naturale". Con quel viso da cattiva
tormentata, Gena Rowlands non fa fatica a trasformarsi in "donna dagli occhi di ghiaccio". Del
resto il connubio Rowlands/Cassavetes è sempre stato una sicurezza.
Ritratto di donna con bambino portoricano che porta in dote un sacco di problemi.
Gloria è una donna indipendente, una volta bella ora non più giovane che si trova a prendere
una decisione fondamentale per la sua vita in pochi attimi. E si lascia prendere dal sentimento. Il
suo vicino, mafioso di mezza tacca prima che gli ex compari lo vengano a prendere per farlo
fuori con tutta la sua famiglia, fa fuggire il figlio di 7 anni con un prezioso quaderno memoriale
a cui sono interessati parecchi signori non proprio raccomandabili e lo affida alla sua vicina,
Gloria appunto,un tempo donna di un importante esponente delle cosche. Da questo momento
l'incubo: sia per fuggire da tutti quelli che sono interessati al bambino e al quaderno, sia per costruire un rapporto degno di questo nome con un bambino di 7 anni ritroso e incostante (del
resto pure giustificabile visto quello che gli è successo). E i momenti in cui lei dialoga col bambino cercando di costruire un rapporto sono la parte migliore del film.
Sicuramente riesce difficile credere che la donna e il bambino riescano a fuggire anche abbastanza facilmente alla caccia senza sosta a cui sono sottoposti e anche le scene d'azione si vede che
non sono il pane quotidiano di Cassavetes. Il quale però riesce a costruire un personaggio memorabile come quello di Gloria, un classico personaggio maledetto tipico del noir e riesce a ricostruire un inferno metropolitano pieno di insidie che mette discretamente paura, in cui bisogna
sospettare di tutti.
Non è un film tipico di Cassavetes,è un film dove c'è anche molta azione e i dialoghi non sono
la parte preponderante. Il lieto fine appare un pò forzato ma alla fine chissenefrega i due reciteranno la parte di nonna e nipote in un altra città e avranno giocato la mafia.
Magari fosse sempre così....
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La notte di San Lorenzo
Un film di Vittorio Taviani, Paolo Taviani. Con Omero Antonutti, Claudio Bigagli, Margarita Lozano,
Massimo Sarchielli, Graziella Galvani.
Drammatico, durata 105 min. - Italia 1982.
Una voce femminile fuori campo racconta. In una notte di San
Lorenzo (10 agosto) del '44, nel paese di San Miniato nella
campagna toscana, i tedeschi, che stanno evacuando, convincono il vescovo a raccogliere la gente nella chiesa con la promessa di lasciare tutti in vita. Ma una parte della popolazione
dà retta a Galvano, che preferisce la fuga (con ragione perché
la chiesa salterà in aria). I fuggitivi, dopo un percorso di paura
con poche parentesi di serenità, riusciranno a raggiungere la
libertà. Un bellissimo film dei fratelli Taviani premiato a Cannes. Un film corale, con momenti
di alta poesia, dovuta anche alla bravura degli attori fra cui spicca Omero Antonutti nel ruolo di
Galvano.
Insieme a Padre padrone, probabilmente il miglior film dei fratelli Taviani e una delle più significative pellicole italiane che raccontano la Seconda Guerra Mondiale. La carriera dei Taviani in seguito ha riservato parecchie delusioni, ma qui la loro ispirazione era ancora sincera e limpida.
Nel raccontare la fuga nelle campagne degli abitanti di San Miniato, in Toscana, per sfuggire alle
atrocità dei fascisti, scelgono una narrazione di stampo epico-popolare che si rivela singolarmente adeguata alla materia narrata, in cui non stona l'ottica fiabesca e sognante della bambina che
assiste agli eventi, e poi li rievoca molti anni dopo davanti al figlioletto ancora in fasce. Anche
qui abbiamo a che fare con i ricordi personali dei due registi, naturalmente, ma la scelta di una
bambina come loro "alter ego" mi sembra sia stata efficace, in quanto garantisce un certo distacco dalla materia ed evita un coinvolgimento personale troppo scoperto. Si tratta di un film corale con molti personaggi, strutturato in maniera episodica come in Paisà: alcuni si sono lamentati
che certi personaggi minori sono soltanto abbozzati e che la struttura polifonica risulta dispersiva, ma a mio parere questi difetti restano ininfluenti, in quanto il nocciolo del dramma emerge in
immagini di forte pregnanza espressiva. Fra le varie sequenze, memorabile la battaglia nei campi
di grano fra contadini e fascisti che conferisce un adeguato risalto figurativo alle campagne toscane, con l'immagine onirica, divenuta famosa, del corpo di un fascista trafitto dalle lance di
alcuni contadini che la bambina sogna come dei soldati romani (immagine che, a dire il vero,
non è tra le mie preferite, in quanto mi sembra un po’ troppo "Grand-guignol"). L'ampio cast è
diretto con attenzione e scrupolo degni del Neorealismo: fra i tanti volti, spiccano soprattutto
Omero Antonutti, la spagnola Margarita Lozano, Claudio Bigagli, Massimo Bonetti e Paolo
Hendel, ma anche gli attori non professionisti risultano spontanei e abbastanza credibili. Una
menzione d'onore anche alla coinvolgente colonna sonora di Nicola Piovani, che coi Taviani
avrebbe prodotto ottimi risultati anche nel successivo Kaos. Un film che merita di essere riconsiderato, anche perchè all'estero non ha avuto forse tutta la fortuna che meritava: nell'ambito della
produzione italiana degli anni Ottanta, resta una pellicola di notevole spicco.
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Notte italiana
Un film di Carlo Mazzacurati. Con Marco Messeri,
Giulia Boschi, Remo Remotti, Roberto Citran, Tino
Carraro.
Drammatico, durata 93 min. - Italia 1987.
Otello, avvocato padovano, si reca nella zona del delta del Po
per fare una stima su un terreno da espropriare. Sul posto
conosce molte persone e scopre, più o meno involontariamente, malefatte e connivenze di un signorotto locale. Sconvolto e deluso, torna in città con Daria, una dolce ragazza del
Polesine.
Buonissimo esordio per Carlo Mazzacurati che alla sua prima
prova regala agli spettatori un film di qualità superiore alla media. In questo il regista è stato ben
coadiuvato dagli attori coinvolti nel progetto, in primis il bravo Marco Messeri. Questo è
un attore che non è mai riuscito a conquistarsi un posto di primissimo piano nel nostro cinema
e ha finito per essere relegato (o per relegarsi) nei ruoli del caratterista mentre per le sue capacità
recitative avrebbe meritato ben di più. Messeri, che con Mazzacurati ha avuto più collaborazioni
sia al cinema (citiamo Vesna va veloce e Il Prete Bello) che a teatro, dà vita al personaggio dell'Avvocato Otello Morsiani, chiamato alle foci del Po da un politico locale per effettuare una stima di
terreni. All'inizio la vicenda fila via liscia, il posto in cui Otello si trova a lavorare è tranquillo e
più piacevole di quanto forse si era immaginato, e fa conoscenza con la bella Daria, con la quale
nasce una storia d'amore. Ma il lato oscuro è in agguato: nel corso del suo lavoro Otello/Messeri
si imbatte in reticenze, silenzi, cose sussurrate. E alla fine salta fuori una vicenda poco chiara di
speculazioni edilizie e sfruttamenti illeciti delle risorse naturali, e a completamento di ciò anche
lo spettro di un omicidio avvenuto tempo prima. Dietro a tutto si allunga l'ombra di Tornova,
classico "padrone del vapore", ras locale che detta legge su tutti e con cui lo scontro sarà inevitabile. Parallelamente anche dal passato di Daria emergono ombre inquietanti che sembrano togliere al nostro povero avvocato punti di riferimento preziosi…
Quello che stupisce di questo film è la capacità di raccontare la bellezza del paesaggio naturale e
al tempo stesso stigmatizzarne i difetti: la palude del polesine diventa anche la palude (morale) in
cui il protagonista si trova impantanato e contro cui deve lottare per mantenere fede ai propri
principi. Da rilevare che per il ruolo del villain troviamo un altro attore assolutamente di qualità
come Mario Adorf e anche questa si rivela una scelta azzeccata.
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L’onore dei Prizzi
Un film di John Huston. Con Jack Nicholson, Kathleen Turner, Robert Loggia, John Randolph, William
Hickey.
Titolo originale Prizzi's Honor.
Commedia, durata 129 min. - USA 1985.
Brooklyn, New York, 1985.
Charley Partanna, caporegime e uomo fidato dell'anziano boss
mafioso Don Corrado Prizzi, al matrimonio di Teresa Prizzi
nipote di Don Corrado, s'imbatte in Irene Walker, in apparenza un'ingenua e innocente consulente finanziaria ma in realtà
una killer, rimasta coinvolta con suo marito Marxy Heller, in
una gigantesca truffa ai danni della famiglia Prizzi al casinò di
Las Vegas, dove rimase ucciso Louis Palo, uomo di fiducia di Dominic.
Charley s'innamora perdutamente di Irene, contraccambiato, ma per un ordine di Dominic, suo
superiore e figlio di Don Corrado, ne uccide il marito Marxy, reo d'aver architettato la truffa di
Las Vegas. Malgrado ciò, Charley e Irene si sposano, ma gravi problemi interferiscono nella loro
relazione: l'ipocrisia e la gelosia di Maerose, altra nipote di Don Corrado, ex fidanzata di Charley
e ancora innomorata di lui e il cattivo rapporto di Charley con il padre di Maerose, Dominic,
anziano, iracondo, ma sofferente figlio di Don Corrado, nonché suo vice, che si convince che
Charley sia il vero artefice della truffa.
La situazione si complica irreversibilmente quando, in seguito a una truffa attuata dal direttore di
banca Finley, falso nome dell'astuto azionista napoletano Rosario Filargi, questi viene abilmente
fatto rapire da Charley per ordine di Don Corrado, per ricevere i soldi dell'assicurazione antirapimento, consapevole che il pagamento sarà effettuato dalla stessa assicurazione perché, come
spiegato a Charley dalla stessa Irene, i soldi dell'assicurazione sono detraibili dalle tasse...
È la prima vera satira di mafia eccentrica, nera e grottesca. La retorica dell' onore è sbeffeggiata,
i costumi italo americani dissacarati fino a rendere odiosi l'uso della violenza, il cinismo, l'ottusità sempre scambiata per determinazione o passionalità. In un concertato strettissimo e plurivocale di recitazione che lavora sulla caricatura quasi fino allo straniamento (Nicholson e la Huston
sono, in questo senso, notevoli) il regista conduce la massa di protagonisti e gregari ad alimentare ininterrottamente un clima surreale quanto paradossale e spietato, immerso in ambienti opulenti e potere illimitato. L'altra faccia del Padrino, un virtuosistico esercizio d'eleganza da parte di
un regista ottantenne che ci mostra come si possano mescolare anche la commedia nera e il gangster film. Se si è registi sul serio: tanto da far vincere un oscar al padre (Walter Huston, per Il
tesoro della Sierra Madre) e alla figlia (Anjelica, migliore attrice non protagonista, per questo).
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Othello
Un film di Orson Welles. Con Fay Compton, Orson
Welles, Suzanne Cloutier, Michael McLiammoir,
Robert Cook.
Titolo originale The Tragedy of Othello: The Moor of Venice.
Drammatico,
b/n durata 91 min. - USA, Francia
1952.
Il moro Otello, generale della Serenissima, sposa Desdemona
nonostante l'opposizione del padre di lei. Dopo aver sconfitto i
Turchi, torna a Cipro dove Jago, suo aiutante, gli fa credere che
sua moglie Desdemona sia l'amante del giovane capitano Cassio. Otello fa uccidere Cassio e soffoca Desdemona ma, avuta la prova della loro innocenza, si
uccide. Jago pagherà con la vita il suo tradimento.
Macbeth è l’ultimo film americano (del decennio 1947-1957) di Orson Welles che per ragioni fiscali è costretto ad abbandonare l’America. Nel 1948 arriva in Europa e a parte brevi parentesi
in patria, vi resta fino al 1957.
In questi dieci anni sostiene incredibili ritmi di lavoro: dirige tre film (Othello nel 1952; Don Chisciotte nel 1953 che resta misteriosamente incompiuto e Rapporto confidenziale nel 1955), ne interpreta dodici (tra i quali Il terzo uomo nel 1949 di Carol Reed e L’uomo la bestia e la virtù di Steno nel
1953), realizza sei regie teatrali, tre serie radiofoniche, spettacoli di danza e un numero di magia
alla Corte d’Inghilterra, pubblica due romanzi, (uno dei quali è Mr. Arkadin), due commedie,
racconti di fantascienza, articoli su riviste, prefazioni a libri. Riesce così con dura fatica a guadagnare denaro per realizzare i suoi progetti.
Finalmente nel 1952 porta a termine Othello, girato in tre faticosi anni tra l’Italia (Studi Scalera a
Roma con esterni a Venezia, in Toscana, Viterbo, Perugia, Isola di Torcello) e il Marocco
(Mogadir, Sali, Mazagan). Il film presentato il maggio di quell’anno al Festival di Cannes ottiene
il Grand Prix ex aequo con Due soldi di speranza di Renatò Castellani. Il film-Odissea Othello anche se risente delle difficoltà di produzione, quanto a omogeneità è un capolavoro ispirato. Welles si circondò di collaboratori molto capaci fra cui Michael Mac Lammoir (vecchio amico e maestro) che diede vita a uno Jago straripante e feroce la cui diabolica natura è originata da
un’irrisolta sessualità malata. Sazanne Cloutier (Desdemona) in alcune scene è sostituita da Betsy
Blair e da Lea Padovani; Joseph Cotten appare nelle vesti di un senatore. Le musiche della colonna sonora sono affidate a Francesco Lavagnino.
La critica più recente parla di Othello come di opera imprevedibile “dove (Welles) mette insieme
in un montaggio che è un fuoco d’artificio inquadrature girate in tempi e luoghi diversi.” (Adriano Aprà), mentre Enzo Ungari in polemica con André Bazin e i difensori del “cinema
-cinema” afferma che “i piani-sequenza di Orson Welles sono soltanto alcuni dei mezzi prodigiosi e molteplici con cui il personaggio ha lavorato per avvolgere il caos della sua esistenza nella
logica di un’opera d’arte, la stessa che permette di legare rigorosamente un piano americano di
Othello girato a Venezia con il suo contro-campo girato in Marocco.”.
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Un’ottima annata
Un film di Ridley Scott. Con Russell Crowe, Albert
Finney, Marion Cotillard, Abbie Cornish, Didier
Bourdon.
Titolo originale A Good Year.
Commedia, durata 118 min. - USA 2006.
Max Skinner è un abile banchiere specializzato in transazioni
finanziarie. Consacrato al denaro nella City londinese, Max ha
pochi amici e molti rivali, una vita pubblica in "piazza", una
privata inesistente. La morte improvvisa del vecchio zio
Henry lo distrae dai guadagni a sette cifre e lo conduce in Provenza nei luoghi della sua infanzia. Tra le vigne della tenuta
Max ritrova i sapori del suo passato, gli amici della fanciullezza e il fedele vigneron di zio Henry, e scopre quelli del suo futuro, l'illegittima figlia del defunto
e la deliziosa locandiera, Fanny Chenal, che lo inebrierà più di un vino "da boutique". Deciso a
rientrare a Londra e ai suoi affari, Max cede la tenuta e l'azienda vinicola al miglior acquirente,
quello che corrisponde gli interessi del cuore. Perché niente scalda come il sole e il vino della
Provenza.
Se la pioggia e l'acqua sono stati a ragione gli elementi naturali della filmografia "bagnata" di Ridley Scott, da Blade Runner al Soldato Jane, se le atmosfere noir e i marciapiedi umidi hanno circondato o segnato il passo dei suoi replicanti e dei suoi soldati declinati al femminile, Un'ottima
annata è rivelatore di un identico istinto a correre su piste assolate. Un eccesso di luce che recupera la luminosità dell'esordio "duellante". Niente passaggi scivolosi dunque se non quello galeotto che getta Russell Crowe nella piscina prosciugata della tenuta, mollato e poi ammollato dalla ripicca della bella locandiera. Sotto il sole della Provenza matura l'uva e l'idea di una commedia sentimentale che rinnova il sodalizio artistico tra Ridley Scott e Russell Crowe, dopo il kolossale successo del Gladiatore. Russell Crowe, metà uomo e metà "androide" della finanza sottomesso al capitale, sveste peplum e armature per vestire camicie inamidate e occhiali da nerd.
Eppure i due generi, fantastorico e commedia, sembrano corrispondersi nel protagonista, nel
nome che lo definisce Max/Massimo, nella terra che calpesta e raccoglie nei filari come il condottiero degradato nei Campi Elisi. Coincidenza o riferimento diretto, la morte e il ritorno a casa
sono motivi mutuati dal Gladiatore per confezionare una commedia esistenziale che affronta il
tema della reincarnazione, intesa come rinascita ideale e spirituale. Fuggiasco come Thelma &
Louise, Max Skinner fa un giro lunghissimo prima di tornare: vede cose e metropoli in rovina,
affoga "squali" in naumachia, scende nelle arene sporche della City, salta nel vuoto con una
Smart a noleggio ma è la terra rossa e fertile della Provenza, non quella sterile del Grand Canyon, ad ammortizzare la caduta. È ancora l'amore a muovere e agitare i personaggi di Scott e il
broker Max Skinner non fa eccezione: Fanny, la donna aliena (intendi anche francese/straniera),
soffia sul replicante lavoratore artificiale e lo fa uomo e vignaiolo.
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Pacific Rim
Un film di Guillermo Del Toro. Con Charlie Hunnam, Idris Elba, Rinko Kikuchi, Charlie Day, Ron
Perlman.
Fantascienza, durata 131 min. - USA 2013.
Da una breccia inter-dimensionale creatasi nel profondo
dell'Oceano Pacifico emergono i kaiju, mostri alieni giganteschi, con il solo scopo di cancellare l'umanità dalla faccia della
Terra. Al fine di sopravvivere, le varie nazioni uniscono le
proprie forze, cercando di contrastare l'invasione con il progetto Jaeger, che consiste nella creazione di enormi robot in
grado di combattere ad armi quasi pari i terribili invasori; a
comandarli due piloti, le cui menti vengono connesse da un
ponte neuronale. Dopo aver perso il proprio fratello e co-pilota in un conflitto e aver lavorato
alla costruzione di una muraglia di difesa, Raleigh Becket sembra essere l'ultima risorsa per sventare una vera apocalisse.
A cinque anni da Hellboy: The Golden Army, Guillermo Del Toro torna alla regia con un film smisurato almeno come le battaglie che mette in scena. Eccessivo, rutilante, perfetto per i nostalgici
di un certo tipo di fantascienza - il genere "mostri giganti contro robot giganti" - che arriva fino
a Neon Genesis Evangelion e oltre, Pacific Rim offre due ore di intrattenimento a colpi di scontri e
immagini titaniche, di paesaggi devastati e prevedibilissimi percorsi di riscatto. Eppure sotto al
rumore, l'autore di Il labirinto del fauno si sente, ben al di là dell'enfasi emotiva di cui sono imbevute molte situazioni e di un meccanismo narrativo che non riserva alcun tipo di sorpresa. Anche in un blockbuster in piena regola come questo si avverte, infatti, il desiderio di sprofondare
nella fascinazione per il meraviglioso, nella sfida all'ordinario, nella stilizzazione propria del fumetto. Riscrittura del genere kaijū eiga portata avanti con spirito appassionato, il soggetto di
Travis Beacham fila liscio su binari prestabiliti, senza deviazioni o imprevisti, innalzandosi dalla
propria intrinseca medietà grazie ad un occhio più attento a ciò che accade intorno ai pur pregevolissimi combattimenti tra mostri e robot: non tanto nelle dinamiche e nello sviluppo dei personaggi, quasi tutti monodimensionali in realtà, ma nell'inusuale attenzione all'aspetto dato a un
pianeta in ginocchio, in cui le città sono cumuli di macerie tra rifugi e postriboli nei quali i resti
dei kaiju sono oggetto di un organizzatissimo mercato nero; tra i personaggi più memorabili
spicca proprio Hannibal Chau, trafficante di organi alieni cui presta il volto Ron Perlman, attore
caro al regista sin dai tempi di Cronos. Quelli che potrebbero sembrare i maggiori difetti del titolo, l'alternarsi tra ignizioni di testosterone e massicce dosi di retorica (mai patriottica, piuttosto
sentimentale, di genere potremmo dire), sono in parte ribaltati da una maturità di fondo assente
in simili prodotti: la spiegazione della venuta dell'apocalisse, di fatto, inchioda l'uomo ai suoi
stessi comportamenti, a una diffusa mancanza di saggezza. E non è poco. Nella mente del cineasta messicano, che firma la sceneggiatura insieme a Beacham, il progetto a lungo inseguito di
una riduzione del lovecraftiano Le montagne della follia ha comunque sedimentato.
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Il padre della sposa
Un film di Vincente Minnelli. Con Elizabeth Taylor, Spencer Tracy, Joan Bennett, Don Taylor, Billie
Burke.
Titolo originale Father of the Bride.
Commedia, b/n durata 93 min. - USA 1950.
Momenti di panico per Stanley Banks, un tranquillo avvocato della media borghesia, che deve fronteggiare l'improvviso matrimonio della figlia. Mentre la ragazza progetta una
fantastica cerimonia, il genitore è combattuto fra la gioia
per l'avvenimento e la presa di coscienza dell'inarrestabile
passare del tempo.
Forse la commedia più divertente di Minnelli, che si avvale della sceneggiatura di Albert Hackett
e Frances Goodrich, acuta nelle notazioni sociali e psicologiche. Il risultato è esilarante e serrato,
con uno straordinario Spencer Tracy. Del film fu fatto un sequel l'anno dopo (Papà diventa nonno), e in anni più recenti un remake con lo stesso titolo, a sua volta seguito da un numero 2.
Che delizia! Ancora oggi, alla centoventesima visione, conserva tutta la fresca spontaneità del
primo impatto. Una commedia di quelle che non se ne fanno più perché si è perso lo stampino,
un irresistibile concentrato di ironia e semplicità: la mano di Vincente Minnelli è felice e pertinente, orchestra con simpatia un film di evasione tutt’altro che usa-e-getta. Merito di una sceneggiatura oliatissima e pressoché perfetta, no? Certo. Ma non si può tacere sulla prova misurata
e tenerissima di uno Spencer Tracy che raramente è stato così sobrio ed equilibrato – a cui la
dolce metà nella finzione, Joan Bennett, chiede se egli sia alcolizzato: un po’ di sarcasmo, data la
facilità di alzare il gomito che aveva l’attore. Il quale riveste i panni del padre della sposa in modo strepitoso. E poi la cosa curiosa è che la di lui figlia, Liz Taylor, di lì a qualche anno avrebbe
infilato sette matrimoni di fila (di cui due con Richard Burton). Qui la ragazza spera di vivere
ogni giorno della sua esistenza con l’uomo che ama, essendo il matrimonio vincolo che ti lega
vita natural durante. Insomma, questo ruolo è stato per la Taylor tutt’altro che profetico. Memorabile l'incubo notturno a sfondo matrimoniale.
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Palcoscenico
Un film di Gregory La Cava. Con Adolphe Menjou,
Katharine Hepburn, Ginger Rogers, Andrea Leeds,
Lucille Ball.
Titolo originale Stage Door.
Drammatico, b/n durata 92 min. - USA 1937.
New York, 1937.
In un pensionato femminile, alcune giovani attrici vedono
intrecciarsi i loro destini.
Si mette in scena una nuova commedia e una delle ragazze
diventa l'amante dell'impresario. Un'altra, Terry, è un'attrice
terribile, ma vuole intraprendere quella carriera a tutti i costi.
Una terza è l'attrice più dotata di tutte quante, ottiene la parte
principale ma il padre di Terry, uomo ricco e facoltoso, fa in modo che sua figlia ottenga la parte
sapendo che non possiede alcun talento affinché la smetta con il tentativo di fare l'attrice. Kay,
l'attrice più dotata, ne soffre al punto di suicidarsi, ma prima di farlo dà un consiglio a Terry su
come tenere le calle tra le braccia nella scena iniziale... come fossero un bambino.
Terry prende il suo posto e la sera del debutto, commossa dalla fine dell'amica, recita finalmente
con tutta l'emozione che riesce a esprimere, diventando - così - una grande attrice.
Classicissimo del genere dietro-le-quinte-in attesa-della-prima. Ebbene sì, la matrix di Eva contro
Eva, La sera della prima e perfino del recente e trionfante Birdman. C’è già tutto qui, in questo film
all women e all stars collocato in una pensione per giovani attrici, mentre, ovvio, fervono le prove di una importante commedia a Broadway. E sono gioie, dolori, apprensioni, rivalità, attese,
paraculaggini, colpi bassi, speranze, delusioni. Soprattutto rivalità, con al centro una Katharine
Hepburn giovanissima, arrogante figlia dell’upper class (come in Scandalo a Philadelphia) che si è
messa in testa di fare l’attrice pur non dimostrando particolari talenti (ed è incredibile che ci sia
lei, l’immensa Hepburn, nel ruolo di una intalentuosa che però, va detto, si redime nella scena
finale). La aiuterà il babbo ricco ad avere la parte, rubandola a una brava che se la sarebbe meritata, e che si ucciderà per la disperazione. Se questo è l’asse narrativo principale, intorno altre
trame e sottotrame, e altre ragazze in corsa per la gloria, costi quel che costi. Come la ballerinaattrice interpretata da una Ginger Rogers qui senza Fred Astaire (con cui aveva già girato Carioca
e Cappello a cilindro). Non dirige George Cukor, specializzato in affreschi al femminile di micro e
macrocosmi, ma Gregory La Cava. Nel cast pure Adolphe Menjou, Lucille Ball, Andrea Leeds.
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Una pallottola per Roy
Un film di Raoul Walsh. Con Humphrey Bogart,
Alan Curtis, Ida Lupino, Joan Leslie.
Titolo originale High Sierra.
Poliziesco, b/n durata 100 min. - USA 1941.
Roy Earle, un pericoloso rapinatore, viene graziato e rimesso
in libertà dopo aver scontato un lungo periodo di detenzione.
Uscito dal carcere, riprende i contatti con altri malviventi progettando un nuovo colpo: lo scassinamento della cassaforte di
un grande albergo della città.
Uno dei quattro giovani complici è una ragazza, Marie, che
presto si innamora, non corrisposta, di Roy. Egli infatti ama
un'altra donna, Velma, alla quale ha pagato un'operazione chirurgica per aiutarla a guarire da una grave malformazione a un
piede. Dopo il colpo alla cassaforte, durante la fuga, Roy uccide due persone. Inseguito dalla
polizia, abbandona per strada i complici, si reca da Velma, che ignora il suo passato di gangster,
scoprendo che essa ha un fidanzato e sta per sposarsi.
Ormai alla disperazione, Roy riprende la fuga braccato dalle auto della polizia, si allontana a piedi arrampicandosi in una zona di montagna, ma rimarrà ucciso durante una sparatoria.
Nessuno dei film ispirati a John Dillinger supera Una pallottola per Roy (High Sierra), non il recente
Public Enemy di Michael Mann, pallido esito di un regista che si consegna al manierismo, non I
Died a Thousand Times (Tutto finì alle sei, 1955), pessimo film di un bravo artigiano come Stuart
Heisler, con Shelley Winters e Jack Palance nelle parti che furono di Ida Lupino e Humphrey
Bogart; fiacco anche Dillinger - Lo sterminatore di Max Nosseck con Lawrence Tierney; non Young
Dillinger (Io sono Dillinger, 1965) di Terry Morse, con Nick Adams; fa cilecca anche Don Siegel
con Baby Nelson (Faccia d’angelo, 1957); ci prova nel 1973 John Milius con Dillinger ma scrive una
sceneggiatura non tra le sue migliori e non controlla l’esagitata recitazione di Warren Oates, un
grande attore anarchico che solo Sam Peckinpah era in grado di domare.
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Pane, amore e...
Un film di Dino Risi. Con Antonio Cifariello, Vittorio De Sica, Sophia Loren, Mario Carotenuto, Tina
Pica.
Commedia, durata 100 min. - Italia 1955.
Ormai in congedo, il maresciallo Carotenuto è convocato nella
natia Sorrento per dirigere la stazione dei vigili urbani. Accolto
dal fratello parroco, viene informato che quella casa di sua
proprietà in cui pensava di potersi sistemare è, da tempo, occupata da Sofia, detta "smargiassa", un'avvenente pescivendola. In attesa che lo sfratto diventi effettivo, va a vivere, insieme
alla governante Caramella, nella casa di donna Violante, signora benestante e timorata di Dio non immune dal suo fascino.
Neanche a dirsi, l'attempato seduttore preferisce Sofia, sentimentalmente legata all'aspirante vigile Nicolino.
Giunte al terzo capitolo, dopo Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia, le avventure del maresciallo Carotenuto passano dalle mani di Luigi Comencini a quelle di Dino Risi. Con un gusto
per la messa in scena già personale e una precisa idea di cinema, il regista si distacca dal passato
quanto basta per inaugurare un nuovo corso senza deludere i vecchi ammiratori della saga. Fatto
salvo per una frase della governante Caramella, la straordinaria e qui più presente Tina Pica, che
fa riferimento alla levatrice del capitolo precedente, Pane, amore e... si muove in ambienti differenti (la casa borghese di donna Violante), coinvolge personaggi impensabili nel piccolo e immaginario paesino di Sagliena (la turista svedese), punta su una maggiore varietà degli spazi scenici.
Se a livello di intrigo siamo ancora al medesimo canovaccio - con l'iniziale invaghimento del maresciallo per una giovane che, alla fine, spingerà tra le braccia del "legittimo" pretendente -, la
trasferta a Sorrento dà nuova linfa al vecchio schema, quasi volendolo nascondere, in virtù di
una maggiore articolazione narrativa e di un tono ancora più disteso e rilassato.
Ulteriori motivi di novità e interesse sono la fotografia a colori firmata da Giuseppe Rotunno e,
soprattutto, la sostituzione di Gina Lollobrigida, secondo alcuni diventata troppo costosa, con la
"rivale" Sofia Loren, fulgida negli abiti della pescivendola. Celebre la sequenza in cui la
"smargiassa" e il maresciallo ballano il mambo sotto gli sguardi attoniti della giunta comunale. In
quello stesso 1955, Risi firmava anche Il segno di venere, in cui compaiono ancora la Loren e De
Sica. Da Sorrento, il quarto capitolo si sposta in Spagna con Pane, amore e Andalusia.
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Paper Moon
Un film di Peter Bogdanovich. Con Madeline Kahn,
Ryan O'Neal, Tatum O'Neal, John Hillerman, P.J.
Johnson.
Commedia, b/n durata 102 min. - USA 1973.
Nell'America della grande depressione un uomo e una bambina
(che forse è sua figlia) si arrangiano come possono mettendo a
segno piccole truffe.
Deliziosa operazione nostalgia verso un'America e un cinema
che non ci sono più, con uno splendido bianco e nero di Laszlo
Kovacs.
La piccola Tatum O'Neal (vera figlia di Ryan) vinse l'Oscar.
"Mi devi duecento dollari!" Con questa frase inizia l'idillio tra Moses
ed Addie e lascia anche che il film abbia un finale aperto... forse Moses e la piccola Addie di nove anni sono padre e figlia e non appena si conoscono iniziano un po' per caso, un po'
per ricatto e un po' per gioco, un lungo viaggio attraverso il quale per sopravvivere e per racimolare quanti più soldi possibili, trufferanno con diversi stratagemmi il loro prossimo. Vinte le antipatie iniziali, i due si affezioneranno molto, ma inconfessatamente, l'uno all'altra, solo che è la
bambina ad essere più furbetta ed in gamba, tanto da riuscire molto più di lui a cavarsela anche
nelle situazioni più disparate. Ne facessero ancora commedie di questo livello, il cinema ne godrebbe molto! Ovvio che questo film sia perfetto e molto simpatico nel suo insieme: ottima trama ricca di situazioni irresistibili, buone interpretazioni, risate garantite e tanta, tanta tenerezza
offerta dall'impeccabile prova di un'allora giovanissima Tatum O'Neal che riuscì a rubare quasi
del tutto la scena al padre, vincendo anche l'oscar.
Commedia in definitiva brillante, è un piccolo capolavoro del suo genere.
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Il paziente inglese
Un film di Anthony Minghella. Con Ralph Fiennes,
Juliette Binoche, Willem Dafoe, Naveen Andrews,
Kristin Scott Thomas.
Titolo originale The English Patient.
Drammatico, durata 160 min. - USA 1996.
"Ogni notte tagliavo il mio cuore, ma al mattino era
pieno di te".
L'epico adattamento di Anthony Minghella del romanzo di Michael Ondaatje, ha dominato la notte degli
Oscar vincendone nove e uguagliando così il primato
del 1987 de L'ultimo imperatore. Un successo di particolare soddisfazione per il regista-sceneggiatore che pensava di non riuscire a realizzare il film. "Intossicato" dalla poeticità del romanzo, Minghella ha impiegato tre anni per rielaborarlo, sviluppando in modo considerevole la
storia d'amore raccontata.
Un pilota gravemente ustionato e sfigurato (Ralph Fiennes) viene trovato fra i rottami del suo biplano nel nord Africa verso la fine della Seconda guerra mondiale.
Sembra soffrire di amnesia, non è stato identificato ma si pensa sia inglese, sta morendo e viene assistito dall'infermiera franco-canadese Hana (Juliette Binoche) in un
monastero italiano distrutto. I due vengono raggiunti da un canadese vittima di torture (Willem Defoe) e da due artificieri: da qui ha inizio un'analisi profonda di ricordi,
perdite e guarigioni. Il misterioso paziente, che scopriamo essere il conte ungherese Laszlo Almàsy, a poco a poco ricorda il suo passato fra la fine degli anni Trenta e il 1945
che lo ha visto in Toscana, al Cairo e nel deserto del Sahara. La storia d'amore di Almàsy
con Katherine Clifton (Kristin Scott Thomas), sposata, riaffiora nei tragici ricordi del
conte.
Il film possiede due elementi che lo rendono affascinante: la storia, contorta ma classica, appassionata e romantica, e la messa in scena meticolosa e artistica, più volte paragonata allo stile di David Lean, con sequenze aeree fantastiche, una drammatica tempesta
di sabbia, sensuali scene d'amore e immagini di puro effetto (i dipinti nella grotta esaminati alla luce di una torcia, gli affreschi della chiesa illuminati da un razzo).
La potenza de Il paziente inglese e la sua imponenza sul grande schermo meritano un sicuro riconoscimento per i risultati artistici e tecnici conseguiti.
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Playtime
Un film di Jacques Tati. Con Jacques Tati, Barbara
Dennek, Rita Maiden
Titolo originale Playtime.
Comico, durata 108 min. - Francia 1967
Monsieur Hulot (Jaques Tati) vaga in un quartiere parigino
dalle architetture avveniristiche e dopo aver tentato invano di
farsi ricevere da un impiegato dei pubblici uffici in un palazzo
enorme e ultramoderno, rimane invischiato in mezzo a un
gruppo di turisti statunitensi e coinvolto nell'inaugurazione di
un ristorante moderno che si trasforma in un susseguirsi di
guai e disfunzioni. Per la verità noi diciamo di trovarci a Parigi
perchè questo c'è scritto sull'insegna all'aeroporto dove arrivano i turisti e perchè questo dicono gli stessi turisti venuti dalla lontana America con la loro frenetica voglia di scattare fotografie. In realtà di Parigi non si vede un bel niente, solo le fugaci
immagini riflesse nel vetri delle vetrine della Torre Eiffel e dell'Arco di Trionfo. Il resto è tutto
un ammasso di edifici moderni, simmetrici e incolori, con le persone che sembrano muoversi
come dei tarantolati e la sensazione che questo mondo ipertecnologizzato stia collassando sempre nell'aria. In realtà stiamo a "Tativille", nel quartiere voluto da Jaques Tati alla periferia di Parigi, che doveva servire come centro di produzione per il suo genio creativo e reso fruibile per
l'intera collettività e che, invece, si rivelò essere un vero e proprio disastro economico a causa
dello scarso successo al botteghino di “Play Time”, che di quell'idea doveva rappresentare la
punta di diamante e il volano per futuri progetti.
“Play Time” è il film in cui Jacques Tati porta all’estremo la sua critica contro la società dei consumi, e lo fa aumentando la carica surreale della sua comicità e particolareggiando ancora di più
aspetti stilistici a lui tanto cari : facendo del suo corpo dinoccolato quell’agente estraneo che si
insinua in un mondo che non gli appartiene, diventandone così l’elemento che ne fa risaltare
tutto il carattere disfunzionale, e portando al limite il suo spirito di osservazione critica attraverso l’ampio utilizzo di campi lunghissimi (il film è stato girato in 70mm e “sarebbe” inadatto al
piccolo schermo) che, racchiudendo in una sola inquadratura un cospicuo numero di informazioni, accrescono la percezione di trovarci di fronte a un teatro comico dell’assurdo.
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Pranzo alle otto
Un film di George Cukor. Con Edmund Lowe,
Lionel Barrymore, Lee Tracy, Wallace Beery.
Titolo originale Dinner at Eight.
Commedia, b/n durata 113 min. - USA 1933.
La moglie di un armatore sull'orlo del fallimento organizza un
fastoso pranzo. A tavola dovrebbe raccogliersi un campionario d'umanità alquanto variegato, ma diversi inconvenienti
mettono fuori gioco alcuni commensali.
Feroce ritratto della borghesia statunitense sotto la consueta
atmosfera della sophisticated comedy, è uno dei migliori film
del grande regista americano, retto da un cast straordinario e
con una sceneggiatura aorologeria.
La Grande Depressione americana colpì chiunque, anche la cosiddetta alta società, ma non solo.
Una crisi economica che comportò una degenerazione morale e sociale profonda e irrecuperabile, nascosta sotto lo strato esibizionista di una nobiltà povera (anche dal punto di vista economico), che arraffa più che può. È impossibile rinunciare alle serate di gala, al buon nome, all'ostentazione della ricchezza. Così Cukor - che mai sarà altrettanto crudele e impietoso - ci dà uno
spaccato di umanità intenso e memorabile, un altmaniano "America 'ieri' (e oggi)" ante litteram,
sgradevole, ripugnante, esteticamente ripulito come i suoi personaggi.
Incredibile che un film del genere risalga al '33. La sceneggiatura è brillante, ma cela dialoghi
spinti e irriverenti. Un incontro fra una passata gloria sul viale del tramonto - gli attori hanno
cattiva fama -, un passato che si ritrova davanti un oblio, e un futuro tutt'altro che promettente,
figlio della ricchezza, viziato e volenteroso di una libertà sfruttata sfacciatamente. Ma questi stessi giovani rincorrono scherzosamente sentimenti che sono giochi, e i vecchi si accorgono di
quanto gli stessi sentimenti si siano svuotati di significato. Una girandola di caratteristi grandiosi,
in cui l'amore è ostacolato dai rapporti di classe, è indirizzato verso un'elevazione sociale impertinente e squallida.
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Pranzo di nozze
Un film di Richard Brooks. Con Ernest Borgnine,
Bette Davis, Rod Taylor, Barry Fitzgerald, Debbie
Reynolds
Titolo originale The Catered Affair.
Commedia, , b/n durata 93 min. - USA 1956.
La figlia d'un tassista newyorkese è fidanzata con un giovanotto piccolo borghese. I due decidono di sposarsi con una
cerimonia molto semplice, ma la madre di lei, timorosa che
i vicini possano giudicarla avara o povera, impone un matrimonio sfarzoso che crea immense difficoltà a tutti i membri
della famiglia. Finalmente il tassista troverà le parole giuste
per far comprendere alla moglie l'assurdità delle sue pretese. Non solo i due giovani potranno
sposarsi, ma anche la coppia più anziana instaurerà un rapporto diverso.
Interessante dramma familiare, che presta attenzione ai personaggi e alle loro psicologie. L'evento del matrimonio della figlia di una famiglia popolare di New York è l'elemento perturbatore
che innesca una serie di tensioni e di attriti, che portano tra l'altro alla luce sofferenze nascoste
ed eventi del passato su cui si preferisce tacere. Non è tanto il matrimonio in sé a provocare il
terremoto, quanto la dinamica che si installa tra madre e figlia. La prima, infatti, si sente in colpa
per averla sempre un po' trascurata rispetto ad un fratello (morto in Corea) e vuole lenire questo
sentimento facendole avere un signor matrimonio con festa di lusso. La seconda, invece, d'accordo col fidanzato, vuole delle nozze semplici celebrate alla chetichella con pochissimi invitati.
Ma, per non contristare la madre, accetta di malavoglia il matrimonio di prima classe, che costerà alla famiglia tutti i risparmi faticosamente accumulati. Sia madre che figlia sbagliano.
La sceneggiatura sembra voler riflettere sulle incomprensioni e sulle tensioni che possono nascere in seno ad una famiglia, come pure sul senso del matrimonio. I genitori di lei, ad esempio, si
sono sposati senza amore pare su pressioni (anche economiche) del padre di lei. Per questo hanno condotto una vita piuttosto grama e frustrante, nella quale hanno solo tirato avanti. Il film
riflette anche sull'importanza esagerata che si attribuisce al matrimonio sfarzoso, per paura dei
commenti della gente, la quale a sua volta i commenti li fa sempre. In particolare si collega troppo la dignità delle persone con le loro possibilità economiche, sicché il non potersi permettere
un grande pranzo o un vestito elegante viene percepito come una tremenda vergogna. Ma ci sarebbe altra carne al fuoco di cui parlare, perché è un film ricco di idee e di particolari. Bette Davis è sempre brava; comunque l'aspetto sfiorito serve bene il suo personaggio di moglie infelice
che soffre la solitudine, tanto che l'attrice finisce per molto credibile. Il migliore è forse Ernest
Borgnine, il quale dà vita ad un personaggio complesso e sfumato, che si cerca di inquadrare per
tutto il corso del film. E anche Debbie Reynolds e Rod Taylor sanno il fatto loro.
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Il prigioniero di Zenda
Un film di John Cromwell. Con David Niven, Raymond Massey, Douglas Fairbanks jr, Mary Astor.
Titolo originale The Prisoner of Zenda.
Avventura, b/n durata 101 min. - USA 1937.
In Ruritania, uno staterello dei Balcani, giunge in vacanza il
maggiore Rudolf Rassendyll, lontano parente del sovrano
locale, Rudolf V. I due, quando si incontrano a palazzo,
scoprono di essere uno la copia dell'altro: parlando delle
loro comuni origini, brindano alla loro parentela. Ma il vino
che beve il re è stato drogato da Black Michael, il suo fratellastro che aspira al trono e che vuole togliere di mezzo Rudolf. Il re, incosciente, si trova nelle cantine mentre si svolge la cerimonia dell'incoronazione nella quale viene sostituito dal suo sosia, il maggiore Rassendyl. Tutto sembra filare liscio. Ma Rassendyl, quando la conosce, si innamora della principessa Flavia, la promessa sposa del cugino che, ignara della sua vera identità, ne ricambia il sentimento, trovando in lui un uomo finalmente diverso da quello che ha conosciuto fino a quel momento…
È un buon esempio di cinema hollywoodiano anni '30, quando i film commerciali erano ben
fatti e sapevano intrattenere bene, senza quell'aria ambiziosa o di studiato a tavolino di molti
blockbuster di oggi. Vediamo infatti una riuscita miscela di avventura, storia d'amore, azione,
intrighi di palazzo, ambientazione storica (per quanto molto vaga, ma che importa?). Vi è inoltre
la presenza di due registri, quello drammatico e quello di commedia. Quest'ultimo è costituito da
alcuni indovinati passi ironici ed umoristici.
Gli attori sono bravi; da segnalare sono specialmente Raymond Massey nella parte di un vero
cattivo, e un giovanissimo David Niven, che al solito dà un piglio lievemente ironico alla sua
interpretazione. Colpisce anche la storia d'amore a margine della vicenda della ragazza buona (e
ingenua) perdutamente innamorata del malvagio personaggio di Massey, per il quale ovviamente
conta come il due di coppe.
John Cromwell dirige bene e con agilità. Il produttore è David O. Selznick, uno dei più invadenti produttori americani - al pari di Carlo Ponti in Italia - il quale si spinge fino a firmarsi per ultimo dopo il regista. In un altro caso strappò di mano sediola e megafono, e il film lo diresse lui
(Duello al sole).
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Il processo di Giovanna D’Arco
Un film di Robert Bresson. Con Florence Carrez, Jean-Claude Fourneau, Roger Honorat
Titolo originale Procès de Jeanne d'Arc.
Storico, b/n durata 95 min. - Francia 1962.
Giovanna d'Arco è prigioniera da molti mesi, in una cella del
castello di Rouen. Il film ne segue il processo, la condanna a
morte e l'esecuzione sulla base dei testi dell'epoca, delle cronache minuziose degli eventi. L'imputata si ritrova progressivamente smarrita in un labirinto fatto di burocrazia e di malevola persecuzione, al termine del quale l'attende la sconfitta ineluttabile. Bresson non cerca la ricostruzione storica, ma vuole
mostrare come l'ingenua sensibilità di Giovanna possa aprire
le porte di un mondo misterioso, chiuse per la maggior parte
delle persone.
Di solito i film "processuali" (sono talmente tanti che potrebbe parlarsi di genere a se) hanno un
punto di forza nella spettacolarizzazione dell'impianto narrativo, in quelle cose come la ricerca
studiata del colpo ad effetto, espedienti che servono a tenere desta l'attenzione dello spettatore
che altrimenti rischia di inabissarsi nella monotona reiterazione di lunghi soliloqui forensi. Niente di più diverso da questo schema per Bresson, che ancora una volta si pone in una dimensione
altra rispetto ai canoni consueti, confermandosi come un capofila di un modo di fare cinema
che, per chi scrive, può essere eguagliato ma difficilmente superato. L'antispettacolarità è un credo a cui il maestro francese non si è mai sottratto, mostrando una coerenza che non è mai stata
il frutto della stupida incapacità di saper rivedere posizioni date, ma la logica conseguenza di una
tensione morale più attenta alle cose dell'arte che a quelle del mero intrattenimento. Per Il processo di Giovanna d'Arco, il suo obiettivo è fisso sullo sguardo della Pulzella d'Orleans (interpretata
da Florende Delay), fiero e sofferente insieme, un'entità aliena in un un mondo che non può
intendere la valenza morale della sua misteriosa missione. Lei, una contadina analfabeta, confessa candidamente di aver avuto conversazioni con Santa Caterina e Santa Margherita e di essere
stata spinta da Dio a combattere gli inglesi oppressori per ridare la Francia ai francesi. Le ragioni
della fede e quelle della politica si intrecciano ma a Bresson interessa condurci dentro l'agonia
delle sue ragioni, farci intendere la nitidezza di dialoghi che palesano la contrapposizione tra chi
agisce in buona fede in virtù di un credo che si è disposti a difendere fino al martirio, e chi, invece, condanna in ragione di un pregiudizio imposto dalla ragione del più forte. La Giovanna d'Arco di Bresson si pone oltre la sua posizione contingente, oltre la descrittività di un evento particolare per assurgere a simbolo di tutte le battaglie contro la volgarità del senso comune. Le catene su cui Bresson indugia continuamente, prim'ancora di essere quelle che chiaramente tengono
legata una condannata a morte, rappresentano la prigione della ragione, la chiusura mentale di
un mondo ammalato di oscurantismo, incapace di comprendere tanto i connotati di un mistero
di natura eminentemente religiosa quanto lo spirito patriottico di una missione dalla forte valenza temporale.
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Quando la moglie è in vacanza
Un film di Billy Wilder. Con Marilyn Monroe, Tom
Ewell, Evelyn Keyes, Sonny Tufts, Robert Strauss.
Titolo originale The seven year itch.
Commedia, durata 105 min. - USA 1955.
Nell'afa di Manhattan, mentre moglie e figlio sono in vacanza, Richard Sherman conosce la vicina del piano di sopra.
Richard non è insensibile al fascino della ragazza, ma è anche
un americano medio, per di più geloso della moglie che nel
luogo di villeggiatura ha ritrovato un vecchio corteggiatore.
Tra sanissime tentazioni e insane gelosie, Richard decide alla
fine di partire per raggiungere la famiglia.
Uno dei capolavori di Wilder, un'indagine geniale sulla psicologia del maschio occidentale e sui desideri indotti dai mass-media. Ritmo tra i più perfetti che
abbiano abitato lo schermo. Marilyn con la gonna che si alza sulla grata della metropolitana è
entrata a far parte delle immagini-simbolo di questo secolo.
Come satira sui costumi dell'americano medio degli anni 50 e le sue ossessioni sul sesso e l'adulterio è ben riuscita, spesso graffiante e intelligente e porta ben visibile il tipico "Wilder touch".
Probabilmente non è sullo stesso livello di altri capolavori del regista perché un pò troppo debitore verso la sua origine teatrale, dunque meno inventivo del solito nella messa in scena e nella
costruzione dell'immagine, ma i pregi restano comunque considerevoli, a partire dalle gag quasi
sempre azzeccate e divertenti sul tema dell'inibizione e della repressione sessuale, con tutta una
serie di citazioni e rimandi ad altri film, da Il mostro della laguna nera a Da qui all'eternità alla colonna sonora di Breve incontro, che accrescono lo spasso dello spettatore e rendono ancor più pungente e affilata la satira del "prurito del settimo anno", che sarebbe la traduzione esatta del titolo
originale. Marilyn Monroe recita con brio e risulta a suo agio, come quasi sempre, nell'ambito
della commedia leggera: qui recita praticamente se stessa e la cosa le riesce naturale, ma secondo
me in altri film come A qualcuno piace caldo, Fermata d'autobus o Gli spostati riuscirà ad offrire performance più complesse e probabilmente migliori. Tom Ewell è molto simpatico e possiede i
tempi comici giusti, anche se forse si può in parte rimpiangere il fatto che Wilder non abbia potuto girare con Walter Matthau, che sembra fosse la sua scelta originaria, non accettata dai produttori. La scena in cui la Monroe si fa sollevare la gonna dall'aria che proviene dal passaggio
della metropolitana è divenuta un'icona potentissima, ma, sullo schermo, dura solo una manciata
di secondi.
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Quando volano le cicogne
Un film di Mikhail Kalatozov. Con Tatiana Samojlova, Alexei Balatov, Vassili Mercuriev, Aleksandr Shvorin
Titolo originale Letjat Zuravli.
Drammatico, b/n durata 97 min. - URSS 1957.
Negli ultimi anni del governo stalinista il cinema sovietico si era ormai praticamente estinto.
La devastazione economica lasciata in eredità dalla guerra perdurava, così come le paure ossessive che minavano
la vita di tutti i giorni: il risultato fu che le case di produzione, una volta prolifiche, dovettero chiu­dere i battenti.
Dopo la morte di Stalin, nel 1953, si cominciò a rivedere una lenta rinascita del cinema
sovietico e il film simbolo di questa ripresa fu Quando volano le cicogne di Michail Kalatozov.
Nonostante si tratti di una classica storia d'amore in periodo di guerra tra Boris (Aleksej
Batalov) e Veronika (Tatjana Samojlova), due innamorati che vengono separati poco
dopo l'inizio del conflitto, questo film sfida apertamente quasi tutti i cliché del genere.
Invece di celebrare le gloriose vittorie dell'Armata Rossa, Quando volano le cicogne si sofferma sui momenti più bui della guerra, quando l'esercito tedesco, ben più efficiente e inesorabile, spazzava via senza fatica quello russo, disorganizzato e mal equipaggiato.
Il pubblico sovietico accolse con il cuore aperto questo specchio della propria esperienza bellica, forse perché stanco della solita propaganda: sapeva fin troppo bene che la
guerra aveva prodotto ben pochi eroi. Anche se i due giovani innamorati, Balatov e la
Samojlova, sono coinvolgenti e sensuali, la vera star del film è il lavoro alla cinepresa del
direttore della fotografia Sergej Urusevskij. La sue riprese delle cicogne tolgono il fiato, così come le sue ampie panoramiche e l'emozionante cinepresa a mano. Urusevkij
(che aveva lavorato con Dovzenko in uno splendido documentario di guerra sulle battaglie in Ucraina) riesce a trasmettere il senso di un mondo che va alla deriva e che ha
perso ogni punto di riferimento, sia esso morale o politico. Urusevskij lavorò ancora
con Kalatozov nel controverso Soy Cuba (1964), che molti reputano un esercizio di
stile eccessivamente barocco, ben lontano da Quando volano le cicogne, in cui non si indugia
mai in effetti visivi fini a se stessi.
Questo film divenne anche la prima opera sovietica in epoca di Guerra fredda a essere
distribuito su larga scala da una casa di produzione americana, la Warner Bros.
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Il quarto angelo
Un film di John Irvin. Con Jeremy Irons, Forest
Whitaker, Charlotte Rampling, Briony Glassco, Lois
Maxwell.
Titolo originale The Fourth Angel.
Thriller, durata 100 min. - USA 2001.
Il prestigioso giornalista Jack Elgin, direttore di un periodico e
vincitore di un premio Pulitzer, decide di stupire la propria
famiglia organizzando per loro una vacanza in India. Nel corso del viaggio, tuttavia, durante un dirottamento aereo, la moglie e le sue due figlie vengono uccise. Tornato in Inghilterra
Jack viene ulteriormente mortificato quando - mentre sta facendo compagnia al figlio superstite - scopre che i terroristi
sono stati rilasciati. Dopo aver utilizzato, senza successo, tutte le sue conoscenze per ottenere
giustizia, Jack decide di vendicarsi da solo.
"L'interesse per questo thriller risiede principalmente nello scenario, tragicamente attuale, legato
agli avvenimenti in corso, alimentati dai media con crudele puntualità. (...) Le ragioni che possono condurre lo spettatore al film non sono poche, a cominciare dagli interpreti, fin troppo prestigiosi per un giochetto del genere. In una sorta di contrapposizione Jeremy Irons, fisicamente
prosciugato, e Forest Whitaker, monumentale e sornione agente della Cia, ruberebbero la scena
a chiunque. E nel duetto si consuma il meglio di questa vicenda d'azione, diretta con anonima
correttezza da John Irvin, regista discontinuo del discreto 'I mastini della guerra' e dell'ambizioso
'Hamburger Hill'. Charlotte Rampling, fisicamente sull'orlo della terza età, tenta disperatamente
di spacciare quello sguardo che ha costituito la sua massima cifra stilistica: ecco un'attrice amata
smodatamente dai cinefili solo per i suoi tratti così difformi dal cinematograficamente corretto e
così poco incline all'ironia. (...)". (Adriano De Carlo, 'Il Giornale', 19 novembre 2001)
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Quasi amici
Un film di Olivier Nakache, Eric Toledano. Con François Cluzet, Omar Sy, Anne Le Ny, Clotilde Mollet,
Audrey Fleurot.
Titolo originale Intouchables.
Commedia, durata 112 min. - Francia 2011.
La vita derelitta di Driss, tra carcere, ricerca di sussidi statali e
un rapporto non facile con la famiglia, subisce un'impennata
quando, a sorpresa, il miliardario paraplegico Philippe lo sceglie come proprio aiutante personale. Incaricato di stargli
sempre accanto per spostarlo, lavarlo, aiutarlo nella fisioterapia e via dicendo Driss non tiene a freno la sua personalità
poco austera e contenuta. Diventa così l'elemento perturbatore in un ordine alto borghese fatto di regole e paletti, un portatore sano di vitalità e scurrilità che
stringe un legame di sincera amicizia con il suo superiore, cambiandogli in meglio la vita.
Il campione d'incassi in patria (con cifre spaventose) è anche un campione d'integrazione tra i
più classici estremi. La Francia bianca e ricca che incontra quella di prima generazione e mezza
(nati all'estero ma cresciuti in Francia), povera e piena di problemi. Utilizzando la cornice della
classica parabola dell'alieno che, inserito in un ambiente fortemente regolamentato ne scuote le
fondamenta per poi allontanarsene (con un misto di Mary Poppins e Il cavaliere della valle solitaria), i
registi Olivier Nakache e Eric Toledano realizzano anche un film tra i più ottimisti sulle tensioni
che attraversano la Francia moderna.
Mescolando archetipi da soap (anche i ricchi piangono), la favola del vivere semplice e autentico
come ricetta di vera felicità e un pizzico di "fatti realmente accaduti", a cui gli autori sembrano
tenere molto (l'autenticità viene ricordata in apertura e di nuovo in chiusura con i volti dei veri
personaggi), Quasi amici riesce a mettere in scena un racconto che scaldi il cuore e rischiari l'animo a furia di risate liberatorie (l'uinca possibile formula che porti incassi stratosferici) senza procedere necessariamente per le solite vie.
La storia di Philippe e Driss non segue la canonica scansione da commedia romantica, non procede per incontro/unione/scontro/riconciliazione finale ma ha un andamento più ondivago,
che fiancheggia la crisi del rapporto e le sue difficoltà senza mai forzare il realismo.
Pur concedendo molto a quello che piace pensare, rispetto al modo in cui realmente vanno le
cose, il duo Olivier Nakache e Eric Toledano riesce nell'impresa non semplice di infondere un'aria confidenziale ad un film che poteva facilmente navigare le acque del favolismo.
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Quattro passi tra le nuvole
Un film di Alessandro Blasetti. Con Adriana Benetti,
Gino Cervi, Guido Celano, Carlo Romano.
Commedia, b/n durata 97 min. - Italia 1942.
Paolo Bianchi è un «viaggiatore di commercio» (cioè un rappresentante) per una ditta di dolciumi, la sua vita familiare è
come quella di tanti altri: una moglie casalinga e due figli da
crescere. Un giorno, sul treno che prende quotidianamente
per lavoro, incontra un collega, Magnaschi (anch'egli piazzista, ma di prodotti medicinali). Il treno è particolarmente affollato, ma Magnaschi riesce a trovare un posto a sedere per
sé e per Paolo. I due si mettono a parlare vicino al finestrino.
Mentre conversano, una giovane donna occupa per sbaglio il
posto a sedere di Paolo. L'uomo la fa alzare ma poi, vedendo che la giovane è alquanto provata,
cambia idea e glielo cede spontaneamente. Magnaschi si diverte a commentare la situazione.
All'arrivo del controllore, la ragazza non trova il biglietto e cade nel panico. Il bigliettaio si innervosisce ma Paolo interviene subito in difesa della ragazza. Durante una vivace discussione la ragazza finalmente trova il suo biglietto. Quando è la volta di Paolo, il controllore gli chiede di
mostrare l'abbonamento, ma egli non riesce a trovarlo. Il controllore gli intima di scendere con
lui alla fermata successiva, per fare le opportune verifiche. Nella stanza del capostazione, Paolo
mostra la sua irritazione, deve ripartire per lavoro, ma i controllori prendono tempo per gli accertamenti. Appena arriva, via telefono, la conferma che Paolo possiede veramente un abbonamento, viene lasciato andare, facendogli perdere però tempo prezioso. Arrivato troppo tardi per
prendere la solita corriera, sale su di un'altra che arriva a Castelpiano, e si ritrova casualmente
vicino alla stessa ragazza incontrata in treno…
Al di là dell'esaltazione forse un po' ingenua del mondo rurale, nel film «il senso del reale è recuperato in forme diverse e a vari livelli». Questo recupero è però realizzato in modo discontinuo,
perché se «tutta la sequenza che si svolge in ferrovia è vista con insolita precisione e novità di
osservazione», dove «con quei caseggiati urbani, con la moglie intristita, con quelle albe che vedono le fatiche degli uomini chiusi nelle grandi città», con «le loro levatacce ed il loro coraggio,
sono qualcosa che va al di là del solito racconto cinematografico per toccare una zona più sensibile, con riflessi addirittura sociali», si deve però anche rilevare come «la seconda parte del film,
quella che si svolge in campagna abbia molto meno naturalezza.»
Taluni critici ritengono che il lungometraggio anticipi, insieme ad altre creazioni di Blasetti (1860
e Vecchia guardia), alcuni aspetti del neorealismo italiano.
Per il ruolo di protagonista venne scelto Gino Cervi che fu, alcuni anni prima, il doppiatore di
Clark Gable nel road movie di Frank Capra Accadde una notte, film che ha diversi punti in comune con Quattro passi fra le nuvole.
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Le quattro piume
Un film di Shekhar Kapur. Con Heath Ledger, Kate
Hudson, Wes Bentley, Djimon Hounsou, Alex
Jennings.
Titolo originale The Four Feathers.
Avventura, durata 125 min. - USA 2002.
1884. Harry Feversham fa parte, insieme ad altri quattro amici, di un reparto di elite dell'esercito britannico. Quando i ribelli attaccano gli inglesi a Khartoum viene decisa una spedizione in Sudan. Harry, che è figlio di un generale e ha da poco annunciato le sue nozze con la bella Ethne, decide di rassegnare le proprie dimissioni dall'esercito. In breve tempo
riceverà quattro piume simbolo di codardia. Tre provengono dai commilitoni e una dalla promessa sposa che lo lascia. Solo l'amico Jack non ha creduto che Harry sia un vigliacco. Feversham, colpito nella dignità, decide di recarsi in incognito in Sudan dove darà prova del suo coraggio.
Ispirandosi all'omonimo romanzo di A.E.W. Mason e consapevole dei sei precedenti film (più
un tv movie) di cui quello di Korda del 1939 resta il più noto, Shekhar Kapur cerca la dimensione spettacolare. Riesce a trovarla grazie agli ampi spazi forniti dal deserto e ad inquadrature che
ricordano da vicino i quadri del paesaggista David Roberts nonché alla propensione (che potrebbe sembrare alquanto innaturale in un regista indiano) all'apprezzamento, nonostante tutto, per
il senso dell'onore britannico. Harry Feversham è tanto folle dal dimettersi dall'esercito nel momento in cui sta per avere inizio la prima vera missione a difesa dell'Impero così come lo è per
affrontare le insidie del deserto sotto mentite spoglie. Gli ostacoli da superare non mancano così
come non manca al regista la capacità di portare sullo schermo le battaglie con rigore filologico.
Il film finisce però con l'incespicare, come i cavalli e i cammelli abbattuti dalle fucilate, nell'iterazione di ostacoli che il protagonista è costretto a superare. Quando sembra che la misura sia colma ecco una nuova prova profilarsi all'orizzonte, descritta con dovizia di particolari. Questo dilata la lunghezza del film e finisce con lo svuotare, almeno parzialmente, il finale che mira a sottolineare il rapporto di lealtà instauratosi tra Harry e Jack.
Pagina 152
Queen Kelly
Un film di Erich Von Stroheim. Con Gloria Swanson, Walter Byron, Seena Owen
Drammatico, b/n - USA 1928.
In un immaginario reame della Mitteleuropa la regina resa
folle dalla passione per il principe Wolfram si aggira nuda per
le stanze del palazzo. Ma Wolfram si è innamorato di una collegiale e la rapisce, incendiando il convento che la ospita.
Scacciata da palazzo, Patricia si rifugia in Africa come cameriera di un bordello, quindi sposa un vecchio che poco dopo
muore. La regina muore e Wolfram può tornare con Patricia.
Realizzato a cavallo dell'avvento del sonoro, il film, finanziato
da Joseph F. Kennedy (padre del futuro Presidente) venne
interrotto. Nel 1932 uscì (solo per il mercato europeo e sudamericano) una versione sonorizzata del film, che la produttrice Gloria Swanson massacrò ulteriormente eliminando l'intera parte africana e facendo girare a Gregg Toland le sequenze di un
nuovo finale. La versione originale è stata restaurata e messa insieme solo in età recente. Resta
un'opera che esemplifica bene il talento delirante del suo autore: una storia d'amore crudele e
sadomasochista, un vero film maledetto.
La lavorazione travagliata, le insormontabili traversie produttive, la sua incompiutezza (forse il
più incompiuto tra i film incompiuti), il fascino perverso e malato emanato da ogni fotogramma
della pellicola hanno contribuito nel tempo ad accrescerne la fama di capolavoro "maledetto"
e come tale, per interi decenni, è stato considerato Queen Kelly, penultima regia dell'austriaco Erich Von Stroheim. Anche lui, ovviamente, "maledetto", anzi il "maledetto" per antonomasia tra
i grandi maestri della storia del cinema. L'avventura di Queen Kelly ha inizio quando Gloria Swanson, diva all'apice della celebrità hollywoodiana, decide di fondare una casa di produzione (la
Gloria Productions Inc.) insieme al suo amante dell'epoca, Joseph P. Kennedy (padre del futuro
presidente statunitense): contatta, quindi, Erich Von Stroheim, che le propone un suo soggetto,
The Swamp. Seppur consapevole delle eccentricità e delle rigorose abitudini del regista, l'attrice sposa entusiasticamente il progetto ed avvia la lavorazione del film: le riprese iniziano l'1 novembre 1928, segnate sin dai primi giorni dalla meticolosità di Von Stroheim, dalla sua
maniacale cura di ogni dettaglio, dalla sua proverbiale "crudeltà" nei confronti degli attori, dalla
continua ripetizione dei ciak fino al raggiungimento della "perfezione" e, infine, dalla decisione
del regista di girare il film quasi interamente in sequenza. I costi, perciò, iniziano a lievitare: nel
suo progetto iniziale Queen Kelly avrebbe dovuto superare le quattro ore di durata, per le quali
la produzione stanziò un budget di 800.000 dollari, che, a poco più di un terzo delle riprese
(quando Von Stroheim aveva appena iniziato a girare la parte africana), era già stato dimezzato.
Terrorizzata dall'avvento del sonoro ed infastidita fino all'esasperazione dalle continue discussioni col regista, Gloria Swanson, il 21 gennaio 1929, decide di interrompere la lavorazione e licenziare Von Stroheim (il pretesto fu una famigerata sequenza in cui il viscido Jan sbavava sulla mano di Patricia).
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Racconto crudele della giovinezza
Un film di Nagisa Oshima. Con Yusuke
Kawazu, Miyuki Kuwano, Yoshiko Kuga, Fumio Watanabe, Kei Sato.
Titolo originale Se ishun zankoku monogatari.
Drammatico, durata 97 min. - Giappone 1960.
Makoto è una studentessa universitaria dai facili costumi, abituata ad abbordare gli automobilisti di passaggio. La passione che la lega a Kiyoshi si dimostra però ben più forte. Il ragazzo
decide di trasferirsi nella piccola stanza in cui Makoto abita.
Ben presto però, l'unica maniera per venire a capo della loro misera situazione finanziaria, è
quella di riportare Makoto a prostituirsi.
Nel ’60 Oshima è al secondo film, ha 28 anni, la Shöchiku rischia con lui, Oshima è un cavallo
di razza che non accetta compromessi, ma la casa di produzione ha bisogno di registi, la concorrenza con le altre sei grandi case è forte e in Giappone si va molto al cinema.
Questo film fu la puntata giusta, e il successo clamoroso, dopo l’accoglienza tiepida di Ai to kibo
no machi (Il quartiere dell’amore e della speranza), ne fece la bandiera del Nuovo Cinema Giapponese
chiudendo la partita con i seishun eiga, equivalente giapponese degli Heimatfilme tedeschi, zuccherose storie sentimentali ambientate fra montagne e villaggi austro-tedeschi (bisognerà aspettare
Reitz per definire, molti anni dopo, il vero senso dell’Heimat in Germania).
Ma i film di Oshima non potevano durare a lungo alla Shöchiku, la casa di produzione più tradizionalista del Giappone, e dopo Nihon no yoru to kiri, Notti e nebbie in Giappone, ritirato dalle sale a
quattro giorni dall’uscita, Oshima dovrà creare una sua casa di produzione autonoma, nel ’65, la
Sôzôsha, sostenuta dalla catena di sale specializzate dell’ Art Theater Guild (ATG) che divenne,
a partire dal 1964, il sostegno del nuovo cinema giapponese.
La critica alla società era ormai senza quartiere, mettere il dito nelle piaghe nascoste dietro la facciata di nazione tranquilla, laboriosa e florida era impegno irrinunciabile e il tema centrale, quello
giovanile, era un grumo irrisolto di contraddizioni e tensioni che, nel grande sincretismo culturale oggi rintracciabile, a ritroso, attraversò la cinematografia mondiale in quegli anni.
La gioventù crudele di Oshima, o, meglio, la crudeltà di quella giovinezza, che non si offre a pietà né a prospettive salvifiche di alcun tipo, fa infatti pensare al mondo di Accattone e Mamma Roma di Pasolini.
Con tutte le differenze sul piano delle scelte di stile, fatti salvi i rimandi ad altri autori, e non solo
di cinema, che si avvertono nel background culturale di Oshima, quei giovani, che “non vengono presentati né come tristi vittime della società né come coraggiosi ribelli” (Tadao Sato, Il film giapponese dagli anni
sessanta agli anni ottanta, in Cinemania, 1983), hanno la stessa capacità dei borgatari romani di respingere.
Pagina 154
Il racconto dei racconti
Un film di Matteo Garrone. Con Salma Hayek, John
C. Reilly, Christian Lees, Jonah Lees, Alba Rohrwacher.
Fantasy, durata 125 min. - Italia, Francia, Gran Bretagna 2015.
Seicento. Una regina non riesce più a sorridere, consumata dal
desiderio di quel figlio che non arriva. Due anziane sorelle
fanno leva su un equivoco per attirare le attenzioni di un re
erotomane sempre affamato di carne fresca. Un sovrano organizza un torneo per dare in sposa la figlia contando sul fatto
che nessuno dei pretendenti supererà la prova da lui ideata,
così la figlia non lascerà il suo fianco e i confini angusti del
loro castello.
Matteo Garrone attinge a piene mani, e con grande libertà creativa, a tre racconti de "Lo cunto
de li cunti", la raccolta di fiabe più antica d'Europa, scritta fra il 1500 e il 1600 in lingua napoletana da Giambattista Basile. Il risultato è un caleidoscopio di immagini potenti ed evocative, ma
anche un carnevale di umani sentimenti, pulsioni e crudeltà, nonché una riflessione profondissima sulla natura dell'amore, che può (dovrebbe) essere dono e che invece, per quelle fiere che
sono (ancora) gli esseri umani, è spesso soprattutto cupidigia.
Ognuna delle vicende singolarmente narrate contiene qualcosa di ognuna delle altre: un doppio,
un riflesso, una citazione, uno scambio di sguardi. La brama con cui la regina vuole per sé (e solo per sé) un figlio annulla il sacrificio del marito e soffoca il desiderio di essere amato (per sé)
del nuovo nato, che una volta cresciuto incontra il suo "gemello" più povero ma infinitamente
più libero. La lascivia insaziabile del re erotomane, archetipo predongiovannesco, è una sfida
inesauribile alla morte e alla decadenza del corpo, così ben incarnata (perché di carne, pelle e
sangue sempre si parla ne Il racconto dei racconti) dalle due anziane sorelle impegnate in una corsa a
ritroso nel tempo che finirà per dividerle, "separando ciò che è inseparabile": come l'unione fra i
due "gemelli" dell'episodio precedente, come il legame fra un padre immeritevole e una figlia
degna di ereditare un regno nell'episodio successivo.
La struttura circolare della narrazione è, a tutti gli effetti, olistica (anche perché guidata da figure
femminili), il che è particolarmente sorprendente perché i tre episodi sono stati girati separatamente, e non c'è stato tempo, né denaro, per effettuare il consueto lavoro di rifinitura cui Garrone è abituato. Ma la tessitura dell'arazzo era già insita nella scrittura (degli sceneggiatori Edoardo
Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, oltre allo stesso Garrone, ma ancora prima di Basile) e
nell'immaginario cinematografico e pittorico del regista, che ripropone temi a lui cari - la trasformazione del corpo, la passione accecante, l'inganno - attraverso la codifica narrativa archetipale
della fiaba e la crittografia visiva del genere fantasy, usato ad altezza autoriale senza dimenticare
il pop delle sue origini e dei suoi intenti.
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Ragazzi fuori
Un film di Marco Risi. Con Francesco Benigno, Alessandro
Di Sanzo, Roberto Mariano, Alfredo Li Bassi, Maurizio
Prollo.
Drammatico, durata 116 min. - Italia 1990.
I ragazzi del carcere palermitano di Malaspina sono usciti e devono
ricostruirsi una vita.
L'omosessuale Mery si prostituisce per i vicoli della città, Antonio
cerca di vendere patate per strada, ma viene arrestato perché non ha
la licenza. Natale ricomincia a frequentare cattive compagnie, Cin
Ciong trova la morte in seguito a una rapina e Claudio che tenta di
cambiare vita viene ucciso per vecchi rancori.
Risi trova nel neorealismo l'ispirazione per girare un film forse non
completamente risolto nella struttura narrativa, ma vibrante di un amore sincero per le vite perdute che insegue per le strade della città. Tratto da un libro di Aurelio Grimaldi, anche sceneggiatore.
Seguito di Mery per sempre.
Anche qui la regia è stata affidata a Marco Risi, che vuole dare una visione troppo pessimistica
di questi giovani ragazzi che una volta usciti dal carcere minorile di Malaspina (Palermo) faticano
a trovare una stabilità nella vita.
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Le regole del caos
Un film di Alan Rickman. Con Kate Winslet, Matthias Schoenaerts, Alan Rickman, Stanley Tucci,
Helen McCrory.
Titolo originale A Little Chaos.
Drammatico, durata 112 min. - Gran Bretagna
2014.
Sabine De Barra, donna e non nobile, è in lizza per un incarico alla corte di Luigi XIV. Il sovrano e la sua cerchia stanno
per trasferirsi a Versailles e l'artista di corte André le Notre,
nonostante il disappunto iniziale, sceglie proprio Madame De
Barra per realizzare uno dei giardini principali del nuovo palazzo. Mentre lei cerca di fare i conti con una tragedia del
passato, Le Notre li fa con il disagio del suo presente. La malinconia di lui, attrae Sabine, mentre
la tenacia di lei, e la sua sincerità, le avvicinano André.
Il titolo originale, A Little Chaos, non fa il paio con quello normativo che ha scelto la distribuzione italiana: in fondo, Alan Rickman non voleva probabilmente dettar legge in campo cinematografico, bensì confezionare un piccolo film originale, nel quale vestire "modestamente" i panni
del Re Sole. E se suona contraddittorio, è perché Le regole del caos è un progetto che si regge da
cima a fondo su un balletto di contraddizioni, a partire dalla manciata di grandi attori anglofoni
che giocano a fare i massimi francesi. La corte di Versailles, poi, non si direbbe certo lo sfondo
ideale di un film di (relativamente) piccolo budget, ma in questo senso la scommessa è vinta,
perché, pur girando esclusivamente in Inghilterra, il regista e la sua troupe tecnica sono riusciti a
ricreare le dinamiche estetiche e relazionali della corte con gusto e autenticità (meravigliose le
pantofoline di seta che affondano nel fango, a riprova di un'esistenza spesa nel nome dell'ideale,
contro ogni buon senso).
Teatrale nell'impostazione, come da scena madre tra Sabine e il re nel frutteto, esplicito nel sottotesto, con la protagonista nobile d'animo di contro ad una nobiltà di sangue meschina e capricciosa, e comoda nei suoi abiti senza corsetto perché lavora e non sta a guardare, il film di
Rickman è effettivamente, nonostante tutto, un oggetto originale, in virtù principalmente del
suo soggetto: la sfida sociale e creativa di una paesaggista alla corte del Re Sole. Peccato che la
sceneggiatura non si accontenti di essere un gioco che si prende sul serio, come una danza a
Versailles, ma si carichi del peso di fantasmi familiari e drammi ingombranti, fuori tema e fuori
stile.
Kate Winslet da sola ha la forza di farci credere qualunque cosa, ed è senza dubbio lei a salvare
dall'annegamento Matthias Schoenaerts, anche se il film racconta il contrario. Solo Stanley Tucci
è in grado di rubarle la scena: nell'interpretare il Duca D'Orleans, fratello del re, è evidentemente
il più felice della compagnia, nonché il più à l'aise.
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Rio Bravo
Un film di John Ford. Con Victor McLaglen, Maureen O'Hara, John Wayne, J. Carrol Naish, Chill
Wills.
Titolo originale Rio Grande.
Western, b/n durata 105 min. - USA 1950.
Nel 1880, un colonnello della cavalleria americano è frustrato perché non può inseguire i predoni apache oltre il
confine messicano. L'ufficiale è sposato e ha un figlio, ma
da quindici anni non vede la famiglia perché durante la
guerra civile è stato costretto a bruciare la piantagione della
moglie, simpatizzante sudista, e questa non l'ha più perdonato. Ora, però, scopre che suo figlio si è arruolato nel reggimento e ben presto giungerà la moglie per riaverlo indietro. Il colonnello riuscirà infine a
sconfiggere gli indiani, a riappacificarsi con la moglie e a scoprire che il suo ragazzo è diventato
un uomo, mentre la banda suona Dixie, l'inno del Sud.
Terzo film della Triologia della cavalleria di Ford. Nonostante alcuni lo ritengano il meno riuscito,
costituisce un'indimenticabile rassegna di personaggi e un'ottima ricreazione dell'atmosfera militare come era stata dipinta dal pittore Frederic Remington. La pellicola è una specie di seguito
de Il massacro di Fort Apache: il colonnello interpretato da Wayne si chiama infatti Kirby Yorke,
come il personaggio da lui interpretato nell'altro film.
L'ultimo capitolo, dopo Il massacro di Fort Apache e I cavalieri del Nord Ovest, della trilogia fordiana
sulla cavalleria: tratto dallo sceneggiatore James Kevin McGuinness (e sarà il suo ultimo
script) da un racconto (Mission with No Record) di James Warner Bellah pubblicato nel 1947 sul
Saturday Evening Post, ne completa l'epico affresco nella serenità di toni ed atmosfere di un epilogo dimesso e malinconico. Il ritorno al bianco e nero dopo il magico Technicolor di I cavalieri del
Nord Ovest, l'avvicendamento tra padri e figli, l'ultimo, commovente saluto di Wayne alla Monument Valley (nella meravigliosa sequenza in cui passeggia sulla riva del fiume, ammirando l'imponenza dei canyon che si stagliano davanti ai suoi occhi mentre nell'accampamento i
soldati cantano la struggente My Gal Is Purple), il dolore e l'ammirazione che, allo stesso tempo,
trapelano dagli sguardi che Maureen O'Hara rivolge all'uomo che ama e che, nonostante tutto,
non riesce a disprezzare per averla abbandonata in nome dell'onore e della carriera, la muta rassegnazione con cui Wayne è costretto ad ammettere alla moglie ed a se stesso le proprie colpe di
marito e genitore, il polveroso viale del tramonto di un eroico combattente che si anima improvvisamente di fronte al pericolo, si lascia alle spalle il glorioso passato e si prepara con fierezza ad
un nuovo futuro, senza il furore epico di Il massacro di Fort Apache e la poesia crepuscolare di I
cavalieri del Nord Ovest, ma con la disincantata leggerezza di una metaforica vecchiaia travestita
da nuova giovinezza.
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Il ritorno di Cagliostro
Un film di Daniele Ciprì, Franco Maresco. Con Robert Englund, Luigi Maria Burruano, Franco Vito
Gaiezza
Commedia, durata 103 min. - Italia 2003.
Sicilia, anni'50. I fratelli Carmelo e Salvatore La Marca fondano una casa di produzione cinematografica, la Trinacria cinematografica, per fare concorrenza a Cinecittà. I due fratelli
riescono a trovare i finanziatori per un kolossal, Il ritorno di
Cagliostro. Ciprì e Maresco devono essersi in qualche modo
stancati di continuare a provocare scandalo ma di non fare
incassi. Hanno allora deciso di conservare il loro tradizionale e irriverente sarcasmo applicandolo a una struttura narrativa in grado di provocare la risata bassa in sala. Perché questo film è di
sicuro un omaggio al cinema ma è soprattutto l'abile contaminazione di una farsaccia di serie B
(chi è del Nord può pensare ai Legnanesi ma ogni area del nostro Paese ha le sue compagnie
vernacolari che sanno che basta nominare le parti basse per suscitare la risata) con una struttura
narrativa alla "Ed Woood". Se poi si aggiungono i critici che rifanno se stessi con grande autoironia (spicca nel terzetto Gregorio Napoli) si sono accontentate differenti fasce di pubblico. Ognuno ricorderà (e ne parlerà agli amici) ciò che più lo ha interessato. Forse l'epoca dello scandalo ricercato e gratuito è finita. Per sempre, speriamo.
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Romanzo popolare
Un film di Mario Monicelli. Con Ugo Tognazzi, Ornella
Muti, Michele Placido, Pippo Starnazza, Alvaro Vitali.
Commedia, durata 110 min. - Italia 1974.
Giulio Basletti, operaio milanese ormai piuttosto avanti nell'età,
sposa la sua figlioccia, Vincenzina, da cui ha un figlio. Con mille
sacrifici Giulio cerca di assicurare alla sua famiglia tutti i confort
possibili. Divenuto suo amico nonostante il diverso schieramento
politico-sociale, un poliziotto, Giovanni, comincia a frequentare la
casa di Giovanni e ben presto ne seduce la mogliettina.
Il film è una dichiarazione di amore verso il cinema degli anni 70
da parte del regista. Una dichiarazione forte e chiara a cominciare
dalla solita frase che Giulio dice in gran parte del film
"Tanto siamo negli anni 70".
Non a caso anche il film è uscito negli anni 70 e fu uno dei maggiori successi in quella stagione.
Gli anni 70 sono uno dei periodi più belli che l'Italia ha attraversato per quanto riguarda produzioni cinematografiche e questo film lo dimostra. Quel decennio è stato anche un decennio felice per la popolazione intera italiana. Oramai la guerra era finita da tempo e tutti erano contenti.
Si trovava più facilmente lavoro e tutti erano contenti. Aver vissuto in quel decennio lo considero un pregio per quelli che sono nati nei primi anni 60. Al cinema si andava in tanti a vedere anche un film d'essai. Insomma è stato un bel decennio. Peccato che non ho avuto minimamente
l'opportunità di viverlo. Cosa che mi sarebbe piaciuta molto.
Un forte senso di grandezza è presente nel film e quello che lo manifesta di più è il protagonista,
Giulio, che dopo ogni volta che ferma il fotogramma si elogia a più non posso. Lo sguardo che
emette è quello di un povero metalmeccanico milanese costretto a lavorare in una fabbrica che
non paga molto e poco esigente, soprattutto con le vacanze. Il senso di grandezza lo manifesta
per piacere suo o della moglie, quando sono felici, quando ridono insieme al loro bambino, Ciccio, figura molto presente nel film, da quando era neonato fino all'eta di otto anni si vede nel
film. La grandezza viene influenzata anche dall'umore che il protagonista ha in quel momento.
Se è in conflitto con la moglie non si elogia perchè non trova parole e viceversa quando è contento. Il suo carattere sembra forte, lo si può notare nella scena dove il carabiniere viene a casa e
vuole portare in prigione un amico di Giulio per quella storia del sasso tirato in testa e, per molti
motivi, Giulio riesce a cacciare il carabiniere con molte prove, anche molto astute.
In verità Giulio possiede un carattere debole, non riesce a sopportare l'idea che sua moglie lo
abbia tradito, così prova a tirare avanti, anche se è dura ma non riesce nel suo scopo. E allora
qui ritorna il senso di grandezza che, se si mischia con il carattere debole che manifesta quando
viene tradito, non ha praticamente valore nel suo modo di fare. Il modo di fare che ha Giulio è
quello di manifestare involontariamente i propri rancori alla persona che gli ha fatto un torto, in
questo caso la moglie che lo ha tradito.
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Il sale della terra
Un film di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado.
Titolo originale The Salt of the Earth.
Documentario, durata 100 min. - Brasile, Italia,
Francia 2014.
Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di
Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo
brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista, Il sale della terra è un'esperienza estetica
esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e
sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro malickiano,
intimo e cosmico insieme, è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la
natura e Dio.
Quella di Salgado è un'epopea fotografica degna del Fitzcarraldo herzoghiano, pronto a muovere
le montagne col suo sogno 'lirico'. Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal
figlio, l'artista si racconta attraverso i reportages che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e
gli orrori che hanno oltraggiato quella dell'uomo. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l'avidità di milioni di ricercatori d'oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo
industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e
'ricomposti' nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Un lavoro scritto con la luce
e da ammirare in silenzio.
Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, da cui parte ancora adolescente, spetta al
figlio Juliano documentarne la persona attraverso foto e home movies, ricordi e compendi affettivi
di incontri col padre, sempre altrove a dare vita (e luce) al suo sogno. Un sogno che per potersi
incarnare deve confrontarsi appieno col reale. A Wenders concerne invece la riproduzione dei
suoi scatti, che ritrovano energia e fiducia nella natura, le sue foreste vergini, le terre fredde, le
altezze perenni. Il regista tedesco, straordinario 'ritrattista' di chi ammira (Tokyo-Ga, Buena Vista
Social Club, Pina Bausch), converte in cinema le immagini fisse, scorre le visioni e la visione di un
uomo dentro un mondo instabile. In una scala di grigi e afflizioni, nei chiaroscuri che impressionano il boccone crudo dell'esistere (l'esodo, la sofferenza e il calvario dei paesi sconvolti dalle
guerre e dalle nuove schiavitù), Salgado racconta le storie della parte più nascosta del mondo e
della società.
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Scene da un matrimonio
Un film di Ingmar Bergman. Con Bibi Andersson,
Erland Josephson, Liv Ullmann, Jan Malmsjö, Anita
Wall.
Titolo originale Scener ur ett äktenskap.
Drammatico, durata 155 min. - Svezia 1973.
Marianne e Johan sono una coppia sulla quarantina con due
figlie. Il loro mènage matrimoniale che dura da dieci anni
sembra apparentemente procedere senza scosse a differenza
di quello di due amici.
Fino a quando, del tutto inattesa almeno per Marianne, scoppia la crisi.
Diviso in sei capitoli: 1) "Innocenza e panico"; 2) "L'arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto"; 3) "Paola"; 4) "Valle di lacrime"; 5) "Gli analfabeti"; 6) "Nel pieno della notte in una casa
buia in qualche parte del mondo" ha un impianto che si potrebbe quasi definire radiofonico se
non fosse che Bergman scava fino nel più piccolo recesso delle espressioni di due attori (Ullman
e Josephson) che gli offrono una gamma infinita di variazioni. Girato in tempi strettissimi vede
ancora una volta dominare una figura femminile che non ha però le caratteristiche di nevrosi di
altre protagoniste bergmaniane.
La Ullman lo ritiene il film migliore da lei girato con il Maestro svedese e ha ragione. Il non detto di una coppia apparentemente felice finisce con l'esplodere con violenza in seguito alla decisione di Johan di abbandonare la famiglia (le figlie sembrano contare poco o nulla per lui) per
una studentessa. Si rivela però come una persona estremamente fragile, vittima delle proprie pulsioni e di un perbenismo fino ad allora autoimposto.
Chi in definitiva riesce ad avere una tenuta più a lungo termine (nonostante l'ansia, le suppliche
e gli incubi) finisce con l'essere Marianne nei confronti della quale l'ormai ex marito vorrebbe
continuare a mantenere una forma assurda di possesso non concedendole il divorzio ed essendo
geloso dei rapporti con altri uomini da lei a sua volta instaurati. All'epoca consentì a un vasto
pubblico di verificare come il dizionario delle gioie e delle difficoltà della vita coniugale finisse
con l'utilizzare termini comuni a tutte le latitudini.
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Scrivimi fermo posta
Un film di Ernst Lubitsch. Con James Stewart, Margaret Sullivan, Sara Haden, Frank Morgan, Felix
Bressart
Titolo originale The Shop Around the Corner.
Commedia, b/n durata 97 min. - USA 1940.
Ci sono pochi film che riescono a mantenere viva l’attenzione
dall’inizio alla fine, senza alcun calo di interesse, ma piuttosto
con la curiosità sempre allerta di spulciare, fotogramma dopo
fotogramma, immagini e parole, che così perfettamente combinate di rado si trovano. Solo nei romanzi, forse, laddove
l’immagine è lasciata all’occhio del lettore e la parola all’abilità
dello scrittore.
Alfred (James Stewart) e Klara (Margaret Sullavan) non si sono mai visti, tra loro un fitto e palpitante scambio di lettere
attraverso le quali si sviluppa, si accresce dialetticamente l’interesse reciproco. “L’attesa è un delirio” scrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. Il soggetto e l’oggetto d’amore, facce della stessa medaglia, si rincorrono, si ricercano, come il cacciatore suole fare con la preda.
Lubitsch, trasforma l’attesa in gioco per i protagonisti, che pur lavorando nello stesso negozio e
mal sopportandosi reciprocamente, non immaginano neppure di essere l’uno l’oggetto d’amore
dell’altro. Il discorso d’amore ripreso dal regista, si svolge “nella bottega dietro l’angolo” gestita
dal signor Matuschek (Frank Morgan), uomo di sani principi e di buon cuore.
Alfred e Klara si danno appuntamento una sera ad un caffé, porteranno entrambi, in segno di
riconoscimento, un garofano rosso e Klara il romanzo di Tolstoj Anna Karenina. Klara è seduta
ad un tavolino ed Alfred, riconoscendola da lontano, non si presenta come l’uomo misterioso
della corrispondenza, bensì come se stesso. Delusa Klara, riversa nel mal capitato tutta la sua
rabbia e la sua frustrazione. Una sera, il signor Matuschek scopre di essere tradito dalla moglie e
licenzia il suo migliore impiegato, Alfred, nutrendo su di lui profondi dubbi. L’intervento di Pepi, riporterà Alfred in negozio, e non come semplice addetto alle vendite, bensì come direttore
del negozio e la notte della vigilia di Natale sarà per tutti un giorno indimenticabile.
Lontana dall’essere una tragedia shakesperiana, il lungometraggio pullula di dialoghi esilaranti e
di personaggi indimenticabili come il fattorino Pepi interpretato dall’attore William Tracy, il signor Matuschek e Alfred, interpretato da un giovane James Stewart.
La pellicola è un concentrato di buon umore e buone maniere, gli attori si muovono completamente a loro agio nei rispettivi ruoli, confezionati da un esperto dell’haute couture cinematografica, quale è Lubitsch. La sua carriera cinematografica iniziò come attore prima e solo dopo dietro
la macchina da presa. Uno dei primi ruoli fu il commesso in un negozio di scarpe, figura tanto
cara al regista. Che Alfred sia l’alter ego del cineasta nel film, la sua firma all’interno della pellicola? Ciò che è certo è che non a caso si parla di "tocco alla Lubitsch", per quella sua capacità di
saper dosare umorismo e seduzione, e se, come disse qualcuno “l’intrattenimento puro è merce rara”,
allora The shop around the corner non solo lo è, ma rimane inimitabile e di incredibile attualità.
Pagina 163
Il secondo tragico Fantozzi
Un film di Luciano Salce. Con Paolo Villaggio, Anna
Mazzamauro, Gigi Reder, Nietta Zocchi, Piero Palermini.
Comico, durata 105 min. - Italia 1976.
A un anno da Fantozzi, Paolo Villaggio e Luciano Salce ci riprovano, e adattano (anche stavolta con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi) altri dieci episodi tratti dai libri del comico
genovese.
La comicità brillante/grottesca/tragicomica/surreale colpisce ancora nel segno, e a tratti appare addirittura più crudele.
La struttura è un pochino più compatta, le situazioni di puro
divertimento (come l'apertura della caccia o l'esilarante party a
casa della contessa) hanno più spazio e quell'amarezza che
riconduce il primo capitolo al filone della commedia all'italiana è anche qui presente, anche se
meno sottile e ricorrente.
Lo stile narrativo è invece pressappoco lo stesso, così come gli attori principali, che bissano la
bravura già dimostrata. E i vari direttori sono spassosi forse più che nel precedente: in particolare, memorabile Antonino Faa' di Bruno nei panni di Semenzara e anche Ugo Bologna. Formula
che vince non si cambia: e a conti fatti, questo seguito risulta essere né inferiore né superiore al
prototipo.
Ormai di culto la sequenza del cineforum aziendale, ironica condanna di coloro che impongono
agli altri le proprie opinioni.
Pagina 164
Il segno della croce
Un film di Cecil B. De Mille. Con Claudette Colbert, Fredric March, Charles Laughton, Dorothy
Granger.
Titolo originale The Sign of the Cross.
Storico, b/n durata 120 min. - USA 1932.
Schiavo della sua stessa pazzia, l'imperatore Nerone incendia Roma e, compiaciuto, canta con la sua lira dinanzi al
terribile spettacolo della città in fiamme. Pur di evitare
complicazioni ordina al fedele Tigellino, capitano dei pretoriani, di arrestare i cristiani e far credere al popolo che siano
essi fautori dell'incendio.
La giovane Marzia, un'orfana i cui genitori sono stati uccisi
per difendere il proprio credo, vive col piccolo Stefano, anch'egli orfano, sotto la tutela del precettore Favio, anch'egli cristiano. Quest'ultimo, mentre accoglie Tito, un predicatore venuto da
Gerusalemme e stretto collaboratore dell'apostolo Paolo, viene catturato da alcuni energumeni
desiderosi di accaparrarsi la taglia destinata a chi denuncia i cristiani, avendolo riconosciuto come tale a causa del segnale dato a Tito, un segno di croce. Marzia corre a difendere il vecchio
precettore e in suo aiuto sopraggiunge il prefetto della città di Roma, Marco Superbo, che libera
i due cristiani per compiacere la giovane, della quale si è invaghito…
Il cast manifesta subito le doti di talent scout di Cecille de Mille: oltre al già affermato Fredric
March, Cecille fece esordire Charles Laughton , un attore inglese che aveva conosciuto a Londra
e qui alla sua prima apparizione importante in un film: una scelta che si rivelerà profetica.
Claudette Colbert, anche lei nella sua prima parte importante, mette a punto il suo ruolo di donna maliziosa e seduttrice, qui in una parte che le diede grande notorietà, alla quale non è estraneo
il famoso bagno nel latte. Con la figura di Poppea, interpretata da Claudette viene messo a punto un tipo femminile che si ripresenterà in altri film di De Mille: se Poppea cerca di distogliere
Marco dalla casta cristiana Marzia, se Dalila (Hedy Lamarr) vuole vendicarsi di Sansone in Sansone e Dalila (1949), anche ne I dieci comandamenti del 1956 Nefertiti (Anne Baxter) cerca di distrarre
con le sue armi femminili Mosè (Charlton Heston ) dalla sua missione divina.
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Segreti e bugie
Un film di Mike Leigh. Con Timothy Spall, Brenda
Blethyn, Marianne Jean-Baptiste, Phyllis Logan, Claire
Rushbrook.
Titolo originale Secrets and Lies.
Commedia, durata 144 min. - Gran Bretagna 1996
Hortense, una giovane di colore, che fa l'optometrista, ha da
poco perso il padre e sente il bisogno di cercare la sua madre
naturale. Le viene suggerito di rivolgersi ad un'assistente sociale
che accetta di darle la sua pratica. La donna, costernata scopre
che sua madre è una bianca, si chiama Cynthia è una donna triste, che lavora in fabbrica e abita in una malandata villetta bifamiliare con la figlia Roxanne, spazzina. Hortense trova il coraggio di telefonarle e di fissare un appuntamento.
Un Leigh (Palma d'oro al Festival di Cannes) quintessenziale, che qui (a differenza di Belle speranze e Naked) non si preoccupa troppo degli arricchiti arroganti: anche nella media borghesia ci
sono buoni diavoli, che soffrono e riescono a un certo punto a guardarsi dentro. Commovente
fino allo strazio, dilata il realismo fino all'astrazione, con piani lunghissimi dove le battute si mutano in lacrime e queste in risate. La Blethyn, miglior interprete a Cannes, è capace di farci star
male recitando, al telefono, di schiena.
È un dramma corale che propone una versione aggiornata agli anni Novanta delle miserie della
working class, e che probabilmente va più a fondo rispetto ai film coevi di Ken Loach (tranne
forse Raining stones e Ladybird Ladybird). La storia di Hortense, optometrista nera che vuole conoscere la storia della sua madre biologica, senza arretrare di fronte a scomode verità, è quanto di
più sincero sia venuto fuori dalla cinepresa del regista britannico, pur con qualche scena che potrebbe sembrare troppo melodrammatica ad un primo sguardo. Il rapporto fra Hortense e
Cynthia, la donna che l'ha messa al mondo che vive una vita frustrante con un misero lavoro e
una figlia che non la sopporta, è reso in modo vivido, coinvolgente e molto del merito va
senz'altro alle due attrici Marianne Jean-Baptiste e Brenda Blethyn, quest'ultima premiata anche
come migliore attrice al festival di Cannes; anche il sub-plot riguardante la vita di Maurice, fratello di Cynthia con una moglie frustrata per il fatto di non aver potuto concepire dei figli, è altrettanto efficace e porta alla scena madre nel sottofinale con il compleanno di Roxanne in cui tutte
le verità verranno a galla in modo traumatico. Anche se piuttosto lungo e con alcune digressioni
che potrebbero apparire superflue, il film di Leigh è un riuscito esempio di cinema sociale con
personaggi solidamente costruiti, dialoghi credibili e attori infallibili, tra cui vanno menzionati
anche il sempre bravo Timothy Spall e Claire Rushbrook nel ruolo della figlia Roxanne. A Cannes vinse la Palma d'oro assegnata da una giuria presieduta da Francis Ford Coppola che lo preferì a Fargo e Le onde del destino; agli Oscar ebbe diverse nomination ma fu battuto nelle categorie
principali da Il paziente inglese, ennesima riprova dei gusti commerciali dell'Academy.
Pagina 166
Shine
Un film di Scott Hicks. Con Geoffrey Rush, Noah
Taylor, Armin Mueller-Stahl, Lynn Redgrave, John
Gielgud.
Drammatico, durata 100 min. - Australia 1996.
David Helfgott (Geoffrey Rush) è un pianista di talento, ma le sue doti promettenti non hanno mai raggiunto
i livelli auspicati dagli esperti, fra i quali il padre.
Il film del regista Scott Hicks ne illustra i motivi, permettendo alla storia di Helfgott di svilupparsi in modo angosciante.
Come un incidente d'auto al rallentatore, il film è a volte quasi troppo doloroso da guardare. Da ragazzino Helfgott (Alex Rafalowicz) era indicato come il miglior pianista della sua generazione e
la astro nascente del pianoforte classico. Il suo talento, però, andò guastandosi a
causa della presenza opprimente del padre musicista (Armin Mueller-Stahl), un uomo
che aveva perso i genitori nei lager nazisti e che, nonostante ami davvero il figlio, non
ha la minima idea di come gestirne il talento ed incorrerà in errori che distruggeranno definitivamente la sua carriera.
Le doti prodigiose del fragile Helfgott emergono nelle occasioni più diverse. Malgrado la
sua tristezza di fondo, Shine presenta alcuni dei momenti cinematografici più splendenti di sempre, benché giustapposti ad altri ben più cupi. Basato su una storia vera, questo
dramma intenso rafforza in modo inquietante l'idea che la sofferenza debba essere fondamentale per i geni artistici. Mettendo da una parte questo cliché, però, Shine diventa uno
sguardo elegiaco e imparziale sulla vera vita di un genio tormentato che ha combattuto
i suoi demoni e trovato la redenzione malgrado le stranezze emotive e mentali. Gran
parte della colonna sonora include musica del "vero" David Helfgott.
John Gielgud interpreta il suo insegnante londinese.
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Si alza il vento
Un film di Hayao Miyazaki. Con Hideaki Anno, Jun
Kunimura, Mirai Shida, Shinobu Ohtake, Hidetoshi
Nishijima.
Titolo originale Kaze Tachinu.
Animazione, durata 126 min. - Giappone 2013.
Jiro Horikoshi, si presenta al pubblico in sogno, a bordo di un
aereo di fantasia in un idillio minacciato da un bombardiere, è
un ragazzo con la passione degli aeroplani che nelle sue proiezioni oniriche incontra il proprio idolo, il conte Caproni, grande progettista italiano, a cui confida di voler diventare anch'egli progettista. Durante l'università assisterà al terribile terremoto del '22 e poi troverà lavoro alla Mitsubishi. Studiando la
più avanzata tecnologia tedesca cercherà di mettere a punto qualcosa di ancora più innovativo,
in grado non solo di colmare il gap che separa il Giappone dagli altri paesi ma anche di superarli.
In questi viaggi incontrerà l'amore della sua vita, la donna che lo accompagnerà nel processo
creativo.
Nonostante siano evidenti i temi che da sempre dominano il suo cinema è una trama insolita,
impegnativa e coraggiosissima quella che Hayao Miyazaki imbastisce nel suo decimo lungometraggio, un biopic sul grande progettista di aerei che diede vita ai rivoluzionari modelli Mitsubishi A6M Zero, tristemente noti per essere stati utilizzati dai kamikaze durante la seconda guerra
mondiale. Un film il cui linguaggio e la cui grammatica audiovisiva ricordano più la messa in scena dal vivo che quella animata.
Le contraddizioni non sono certo una novità nel cinema del regista che ha superato il concetto
di buono e cattivo, che ama i motori ma è un fervente ecologista e che adora gli aerei da guerra
pur inneggiando alla pace, ma stavolta le affronta di petto. The Wind Rises mostra che le contraddizioni non sono barriere ed è possibile al tempo stesso amare e odiare. La sua forza è farlo senza usare le parole ma con la forma di uno straordinario cartone di due ore, un film-fiume che
racconta attraverso un uomo l'epica di una nazione e del suo spirito, la sua dignità, la sua etica
del lavoro, in un tour de force che segna il ritorno del maestro a una produzione per nulla pigra
o ripiegata sui soliti topoi, lontana dai grandi capolavori del passato e audace.
C'è un'evidente identificazione tra il progettista di aerei e il disegnatore, il creatore di macchine e
il creatore di sogni, un binomio che in Miyazaki, figlio di un ingegnere aereo, è particolarmente
forte (spesso nei suoi cartoni vediamo meccanismi o veicoli volanti da lui inventati) e che trova
momenti di rara bellezza nel sogno di Jiro e del conte Caproni (avendo le stesse aspirazioni i due
si incontrano sempre nei medesimi sogni) ma forse anche dell'autore, di poter camminare liberamente sugli aerei mentre sono in volo. Jiro Horikoshi, è probabilmente il miglior personaggio
maschile mai scritto dal regista, e non a caso appare come un alter ego di Miyazaki (a doppiarlo
in originale è Hideaki Anno, l'autore di Neon Genesis Evangelion), amante del volo ma schifato dalla guerra, sostenitore del fatto che gli aerei non debbano avere mitragliatrici ma autore dei modelli poi affidati ai kamikaze, un uomo che sogna un bombardiere caricato con famiglie invece
che armi.
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Si può fare
Un film di Giulio Manfredonia. Con Claudio Bisio,
Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Giorgio Colangeli, Bebo Storti.
Commedia, durata 111 min. - Italia 2008.
Milano, primi anni '80. Nello è un sindacalista dalle idee troppo avanzate per il suo tempo. Ritenuto scomodo all'interno
del sindacato viene allontanato e "retrocesso" al ruolo di direttore della Cooperativa 180, un'associazione di malati di mente
liberati dalla legge Basaglia e impegnati in (inutili) attività assistenziali. Trovandosi a stretto contatto con i suoi nuovi dipendenti e scovate in ognuno di loro delle potenzialità, decide
di umanizzarli coinvolgendoli in un lavoro di squadra. Andando contro lo scetticismo del medico psichiatra che li ha in cura, Nello integra nel mercato i soci della Cooperativa con un'attività innovativa e produttiva.
"La follia è una condizione umana" dichiarava Basaglia, psichiatra. "In noi la follia esiste ed è
presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare
tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in
malattia allo scopo di eliminarla". Prima dell'introduzione in Italia della "legge 180/78", detta
anche legge Basaglia, i manicomi erano spazi di contenimento fisico dove venivano utilizzati
metodi sperimentali di ogni tipo, dall'elettroshock alla malarioterapia. Il film di Giulio Manfredonia si colloca proprio negli anni in cui venivano chiusi i primi ospedali psichiatrici e s'incarica
di raccontare un mondo che il cinema frequenta raramente, non tanto quello trito e ritrito della
follia, quanto quello dei confini allargati in una società impreparata ad accoglierne gli adepti. Attenzione però. Il regista evita accuratamente qualunque tipo di enfasi, sfiorando appena la drammaticità senza spettacolarizzarla, in favore di un impianto arioso, ridente, talvolta comico, letiziando lo spettatore con una commedia (umana) che diverte e allo stesso tempo fa riflettere.
Se Pippo Delbono nel documentario Grido mostrava una via alternativa alla pazzia attraverso il
teatro, Manfredonia tramuta episodi reali - e nello specifico la storia della Cooperativa Sociale
Noncello - in fiction, trattando con la dovuta discrezione un argomento tanto delicato che appartiene alla storia dell'Italia, nel rispetto di chi convive con l'infermità mentale e di chi ci lavora.
La sceneggiatura scritta a quattro mani insieme all'autore del soggetto Fabio Bonifacci non ha
falle e permette agli attori di immergersi nella condizione dei loro personaggi con grazia. Sebbene Claudio Bisio dia un'ottima prova recitativa nei panni di Nello, Si può fare è il frutto di un lavoro collettivo che vede tutti gli interpreti (compreso il regista) impegnati a ricreare un ambiente
credibile nel quale far muovere a piccoli passi un ensemble di "matti" talmente autentici da
strappare un applauso.
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Signora per un giorno
Un film di Frank Capra. Con Walter Connolly, May
Robson, Warren William, Guy Kibbee, Glenda
Farrell.
Titolo originale Lady for a Day.
Commedia, b/n durata 88 min. - USA 1933.
Apple Annie (May Robson) è una barbona che si guadagna
da vivere vendendo mele a Times Square; con i suoi rispiarmi provvede a far studiare sua figlia Louise presso un collegio spagnolo. Nella corrispondenza che Annie tiene con la
sua figliuola, utilizzando la carta intestata di un albergo di
lusso fornitale da un portiere, Annie si è creata un'immagine di appartenenza ai livelli alti della società newyorchese,
attribuendosi il nome di Mrs E. Worthington Manville. Un giorno Louise le scrive che verrà presto a trovarla col suo futuro marito e famiglia a seguito. Annie è disperata al pensiero che sua
figlia possa scoprire la verità sul suo conto. A tirarla benevolmete fuori da questa situazione è un
gangster convinto che le sue mele portino fortuna, Dave lo Sciccoso. Egli procura ad Annie una
stanza di lusso in cui alloggiare, mentre la sua fidanzata Missouri Martin si occupa di vestire e
acconciare la vecchia da vera signora; il giudice Blake, espertissimo giocatore di biliardo dai modi distinti, prenderà le parti di suo marito. Per concludere, i membri della gang dello Sciccoso e
le loro compagne verranno tutti impiegati per impersonare amici di Annie, appartenenti all'alta
società. Ma all'arrivo di Louise, del fidanzato e del suocero, il conte Romero, l'esuberante messa
in scena si complica: insospettita per la scomparsa di alcuni giornalisti della stampa mondana, la
polizia si mette alle calcagna di Dave lo Sciccoso, e lo trattiene proprio quando doveva aver luogo il ricevimento di Apple Annie. Mentre la gang di Dave è bloccata nel nightclub di Missouri,
egli racconta la storia di Annie al commissario, poi al sindaco e al governatore i quali, commossi
decidono di partecipare al ricevimento di Annie. La nave con Louise, il suo fidanzato e il conte
Romero riparte, mentre per Annie l'indomani la favola sarà finita.
Signora per un giorno rappresenta nel cinema di Frank Capra il punto del raggiungimento di una
piena maturità di stile, attraverso la sapiente commistione di realismo e tono da fiaba che caratterizzerà di qui in poi molti dei suoi film; nel '74 D. C. Willis descriveva Lady for a Day come il
film perfetto mai realizzato dal regista; esso quando uscì ebbe un enorme successo e conquistò
quattro nomination all'Oscar, come miglior film, migliore regia, miglior sceneggiatura, e migliore
attrice protagonista. Nel '61 lo stesso Capra ne realizzò un remake dal titolo Angeli con la pistola.
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Il Signore e la Signora Smith
Un film di Alfred Hitchcock. Con Gene Raymond,
Robert Montgomery, Carole Lombard, Jack Carson,
Philip Merivale.
Titolo originale Mr. and Mrs. Smith.
Commedia, b/n durata 95 min. - USA 1941.
Che cosa c'entra Hitchcock con le disinvolture e gli ammiccamenti, con le sfacciate allusioni sessuali della commedia sofisticata? Niente, sembrerebbe, ed egli stesso dichiarerà a Truffaut la propria estraneità a questo suo terzo
film in terra americana.
Ma c'è da scommettere che un po' mentisse. E che invece
certe atmosfere e certe irresistibili provocazioni femminili
— in questo caso l'eleganza bionda di Carole Lombard al
suo penultimo film (l'ultimo sarebbe stato Vogliamo vivere, Ernst Lubitsch, 1942) prima
dell'incidente aereo che ne stroncherà la vita a trentaquattro anni mentre cerca di raggiungere
il marito Clark Gable — lo tentassero e molto. Come confermerà inseguendole ancora, attraverso le fattezze di Grace Kelly, in La finestra sul cortile (1954) o in Caccia al ladro
(1955). È una delle tante variazioni del periodo sul tema del ri-matrimonio. I coniugi Smith
(Robert Montgomery, Carole Lombard) si amano così tanto che, dopo ogni litigio, si rinchiudono in camera per giorni e notti interi, dimenticando tutto e tutti. Per "fare pace", ma
questo fare pace si lascia intuire molto denso di irripetibili e irrappresentabili intimità.
All'emergere da uno di questi ritiri ricevono entrambi, lui in ufficio e lei a casa, la visita di
un notaio che rivela loro la nullità del matrimonio a causa di un vizio di forma. Lei si aspetta che lui si precipiti a proporle nuove nozze, lui non lo fa ma solo per gioco, lei si
offende e per ingelosirlo prende a frequentare il socio in affari Jeff Custer (Gene Raymond) e
miglior amico del marito (con lo stesso ruolo del terzo incomodo un po' gonzo di La signora
del venerdì, di Howard Hawks, 1940), il quale perde la testa e attacca a perseguitarla, lei è
irremovibile anche se in realtà non desidera altro. Fino allo scioglimento del garbuglio che
ha per sfondo una località sciistica. Superficie tranquillizzante, come si conviene, messa in
dubbio da sottili inquietudini che serpeggiano tra le convenzioni.
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Il socio
Un film di Sydney Pollack. Con Tom Cruise, Jeanne
Tripplehorn, Gene Hackman, Hal Holbrook, Terry
Kinney.
Titolo originale The Firm.
Thriller, durata 150 min. - USA 1993.
Dal romanzo di John Grisham. Mitchell si sta laureando in
legge ad Harvard col massimo dei voti ed è corteggiato da importanti studi del paese. Un prestigioso gruppo di Memphis
gli fa un'offerta che davvero non può rifiutare: un mucchio di
soldi, villa, Mercedes. D'accordo con la moglie si trasferisce a
Memphis da Boston e comicia a lavorare. Si accorge ben presto che ci sono strani misteri; un paio di soci dello studio
muoiono in un incidente, girano strane parcelle. Mitch viene contattato dall'Fbi. Viene a sapere
che lo studio che lo ha assunto è in sostanza il riciclatore dei capitali di un boss mafioso. La sua
vita da quel momento è in pericolo. Tutto gli crolla intorno. La sua casa è controllata, viene ricattato da due parti: l'Fbi vorrebbe che tradisse, che consegnasse le pratiche dei mafiosi. Va in
crisi il rapporto con la moglie, appaiono killer, comincia a morire gente. Mitch ha un piano complicato, ma l'unico possibile. Incastrerà lo studio, i mafiosi e l'Fbi tutti insieme, con un trucco
legale, grazie a delle banali fatture gonfiate. Ci riesce.
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Soffio al cuore
Un film di Louis Malle. Con Michael Lonsdale, Daniel Gélin, Lea Massari, Ave Ninchi.
Titolo originale Le souffle au coeur.
Commedia, durata 119 min. - Francia 1971.
Louis Malle amava definire Soffio al cuore il suo primo
film; in effetti, si tratta dell'ottavo, ma per la prima volta
Malle firma anche il soggetto. L'autore affermò inoltre
di aver finalmente realizzato un'opera "felice, ottimistica".
Liberamente ispirato ai suoi ricordi di adolescente, il film
descrive il mondo attraverso gli occhi del quindicenne
Laurent Chevalier (Bencat Ferreux).
La trama, suddivisa in episodi, riserva poche sorprese: Laurent prova risentimento nei
confronti del padre, adora la giovane madre, oscilla fra atteggiamenti da adolescente e
da adulto ed è sconvolto e affascinato dall'emergere della propria sessualità.
L'atmosfera frizzante del film si deve alla rievocazione della vita dell'alta borghesia della
provincia francese negli anni Cinquanta e all'immediatezza della vita famigliare, in un
vortice di scherzi, baruffe, imbarazzo, giochi sfrenati, liti e alleanze.
Il momento chiave del film - che causò qualche problema con la censura -è l'incesto
consumato tra madre e figlio, girato da Malle con grande delicatezza e discrezione.
Lontano da traumi e sensi di colpa, l'evento è vissuto come un liberatorio atto d'amore,
da ricordare teneramente, senza rimorsi, come chiarito dalla stessa madre di Laurent,
interpretata da una bellissima Lea Massari.
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Sogni proibiti
Un film di Norman Z. McLeod. Con Fay Bainter,
Boris Karloff, Virginia Mayo, Ann Rutherford.
Titolo originale The Secret Life of Walter Mitty.
Commedia, durata 105 min. - USA 1947.
Walter Mitty, impiegato in una casa editrice specializzata nella
pubblicazione di riviste di varie specie, sogna ad occhi aperti
in continuazione, prendendo spunto da ciò che gli accade durante il giorno. Tra i personaggi ricorrenti che popolano i suoi
sogni vi sono il suo antagonista in amore e una ragazza bionda. Walter vive con una madre oppressiva e, per via della scarsa memoria, segna tutto su un piccolo libretto nero. Un giorno, mentre prende un treno che lo porta al lavoro, incontra
una ragazza identica a quella dei suoi tanti sogni. La donna, infastidita da un uomo che sembra
seguirla, finge di essere fidanzata con Walter e lo bacia. Più tardi, prima di prendere un taxi, si
presenta come Rosalind van Hoorn (Rossana nel doppiaggio italiano), e si scusa di aver chiesto
aiuto a Mitty per sfuggire all'inseguitore. Lui inizialmente rifiuta di aiutarla, ma poi raggiunge la
donna perché aveva dimenticato la sua borsa all'interno del taxi.
Raggiuntala al molo, qui incontrano un parente della ragazza che, mentre aspetta nel taxi, viene
pugnalato. I due decidono di recarsi subito alla polizia per denunciare l'accaduto, ma Rosalind si
nasconde dentro una cabina telefonica ed il taxi con il morto dentro scompare lasciando Walter
solo e pieno di dubbi. La sua vita riprende normalmente con la promessa sposa Gertrude Griswald, ma l'anziano parente di Rosalind, prima di essere ucciso nel taxi, aveva lasciato un piccolo
libriccino nella borsa di Mitty, contenente informazioni che un criminale zoppo sta cercando e
per il quale non esita ad uccidere. La vita di Walter è in pericolo. Il pomeriggio stesso, infatti, un
certo Dr. Hollingshead, dall'aspetto spaventoso, giunge sino all'ufficio di Walter e tenta invano
di gettarlo dalla finestra. Dopo aver compreso l'accaduto, Walter e Rosalind recuperano il libretto e stanno per consegnarlo a colui che si dichiarava lo zio della ragazza, che si scopre essere in
realtà lo zoppo stesso. L'uomo, con il falso nome di Peter (Pietro), per non farsi riconoscere fingeva di essere paralizzato e costretto su una sedia a rotelle.
Almeno in Italia, è il film più conosciuto di D. Kaye che, comunque, era all'apice della sua fama
negli USA quando lo girò. Lo prova l'alto costo del film, prodotto da Samuel Goldwyn, insolito
per una commedia. In sé stessa la commedia è fiacca e ha poco da spartire con l'umorismo di
Thurber. Contano le sequenze oniriche, parodie dei vari generi di Hollywood, in cui si sbriglia il
talento mimico di Kaye. Per chi può, da vedere in edizione originale.
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Sogno di prigioniero
Un film di Henry Hathaway. Con Ann Harding, Gary
Cooper, Donald Meek, Ida Lupino, Douglas Dumbrille Titolo originale Peter Ibbetson.
Fantastico, b/n durata 88 min. - USA 1935.
L'architetto Peter Ibbetson viene assunto dal conte di Towers
per il progetto di un edificio quando scopre che Mary, la duchessa di Towers, non è altro che il suo amore d'infanzia ormai cresciuto. Con i sentimenti che si riaccendono, Peter finisce per essere condannato all'ergastolo per via di un omicidio
accidentale. I due sfortunati amati potranno ritrovarsi ogni
notte solo nei sogni.
Il lavoro di Hathaway sull'illuminazione è senz'altro sbalorditivo: i passaggi alle sequenze oniriche sono scanditi da lievi dissolvenze, impercettebili, fumose, fluide, che non spezzano il racconto pur essendo le une molto simili alle altre. Gary Cooper scalza le sbarre della sua cella avvalendosi di una ripresa sovrapposta; la Harding s'incarna in un fascio di luce parlante, è tutta
aura, sogno, sospinta dalla luna letargica che si fa largo tra le inferriate per sollecitare all'incontro
i due amanti, così lontani eppure così vicini. Non mi sorprende che in clima di avanguardia anche il cinema americano non abbia resistito alla tentazione: prodotto succulento, al pari delle
esperienze psichiche estreme di Robert Desnos, o dei deliri esistenziali di Jacques Vaché.
Bellissimo.
Pagina 175
Speriamo che sia femmina
Un film di Mario Monicelli. Con Catherine Deneuve, Giuliano Gemma, Stefania Sandrelli, Bernard
Blier, Philippe Noiret.
Commedia, durata 120 min. - Italia 1986.
In un casale della campagna toscana vive Elena, moglie separata del conte Leonardo. Con lei sono la figlia minore, un
vecchio zio, l'amministratore e la domestica Fosca con la
figlioletta. Il conte Leonardo, sempre a caccia di soldi, si
presenta al casale con l'amante per chiedere l'ennesimo prestito alla ex moglie. Anche la figlia maggiore raggiunge il
casale con il fidanzato. In un incidente d'auto muore Leonardo ed Elena vuole vendere la tenuta. Ma quando il contratto è già pronto, la figlia maggiore lascia il fidanzato, la
minore torna da Roma, Fosca rinuncia a raggiungere il marito in Australia, perché scopre che
laggiù si è già rifatto una famiglia.
Il film più intimista di Monicelli, perfetto contrappunto ad Amici Miei, con protagonisti tutti
femminili. Senza mai lasciarsi sopraffare dalla deformazione caricaturale, il Maestro nel suo ennesimo film corale ci presenta personaggi "veri", con i quali lo spettatore può facilmente identificarsi, tanto nei vizi quanto nelle virtù. Delusioni amorose, la scomparsa di un ex-marito trascurato e (forse) mai amato, le memorie di un passato che non vuole essere dimenticato, l'incubo
della solitudine nonostante il successo mediatico, amanti maschi opportunisti e superficiali, attività in debito, figlie trascurate: si distingue soltanto la giovane Malvina, spettatrice come noi delle tragedie della famiglia e il picchiatello zio Ugo, perso nel suo mondo fantastico di "fili" del
telefono e dell'uncinetto, che aggiunge quell'immancabile tocco naif a cui il Maestro non rinuncia mai.
Splendide attrici, tra i personaggi maschili un inedito Giuliano Gemma e un giovanissimo Paolo
Hendel.
Pagina 176
Sui mari della Cina
Un film di Tay Garnett. Con Clark Gable, C. Aubrey
Smith, Lewis Stone, Wallace Beery.
Titolo originale China Seas.
Avventura, b/n durata 90 min. - USA 1935.
Su un piroscafo che fa servizio tra Hong-Kong e Singapore
s'imbarcano i più svariati tipi di passeggeri. Comanda la nave
un giovane capitano che, nonostante la presenza a bordo di
una sua gelosissima amante, si fidanza con una distinta vedova. La ragazza allora, per vendicarsi pone a disposizione di un
bandito, che è sulla nave, le chiavi dell'armeria. La nave viene
abbordata dai pirati i quali, pur depredando i passeggeri non
riescono, per l'eroismo del capitano, a rintracciare il carico
d'oro che è a bordo e per il quale hanno tentato il colpo. Allontanatisi, vengono distrutti dal fuoco immediatamente aperto dall'equipaggio della nave. In seguito all'inchiesta, subito aperta dal
capitano, viene identificato il bandito complice (che si suicida) e chiariti il movente dell'azione
commessa dalla ragazza per gelosia. Dinnanzi a questa prova d'amore il capitano scioglie il proprio fidanzamento e promette alla ragazza di sposarla mentre ella si consegna alla polizia.
"Scoppiettante melodramma marinaro, ampiamente datato ma ancora in grado di mantenere la
rotta della simpatia e del buonumore. Le acque orientali sono attraversate da una fauna piuttosto
banale, pirati malvagi, donnine allegrotte, passeggeri dal whisky facile, ufficiali incorruttibili. L'affascinante Clark Gable tiene a bada con disinvoltura la bionda e la bruna, ma il finto burbero di
complemento Wallace Beery è simpatico almeno quanto lui". (Massimo Bertarelli, Il giornale, 13
dicembre 2002)
Pagina 177
Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street
Un film di Tim Burton. Con Johnny Depp, Helena
Bonham Carter, Alan Rickman, Timothy Spall, Sacha
Baron Cohen.
Titolo originale Sweeney Todd: The Demon Barber of
Fleet Street.
Musical, durata 116 min. - USA, Gran Bretagna
2007.
Benjamin Barker è un uomo realizzato e smisuratamente felice. È un barbiere eccellente, un padre affettuoso e un marito
devoto. Accusato e condannato ingiustamente dal giudice
Turpin, Barker viene deportato lontano da Londra. Diversi
anni dopo, mutato il nome in Sweeney Todd, il barbiere torna a chiedere soddisfazione all'uomo
che gli ha "usurpato" la vita, insediando il suo talamo e crescendo la sua prole. Affittata una bottega in Fleet Street, Sweeney Todd affila i rasoi e torna ad esercitare la professione del barbiere.
Turpin e gli ignari avventori scopriranno che la vendetta per Mr.Todd è un piatto da servire caldo, cotto e sfornato.
All'origine di un film di Tim Burton c'è quasi sempre un disegno. Questo disegno è spesso la
raffigurazione di un personaggio che è insieme creativo e distruttivo e che ha bisogno per agire
di protesi meccaniche o di oggetti che alterano la sua capacità fisica. Se le mani di forbice di Edward sono l'esteriorizzazione simbolica della sua incapacità interiore di toccare, se gli occhiali
di Ichabod esprimono il tentativo di un razionalista di 'vedere meglio' un avversario senza testa, i
rasoi di Sweeney Todd sono "gadget da guerra" mutuati da Batman per vendicare la perdita delle
persone amate. Come l'eroe pipistrello di Bob Kane, il barbiere gotico di un anonimo autore
inglese (probabilmente più di uno) indossa una "maschera" e ha una personalità divisa, dissociazione risolta con l'espediente della duplice identità: Batman/Wayne, Todd/Barker.
Diversamente dal mostruoso e incolore personaggio letterario, assassino senza ragione, il protagonista di Burton è prossimo al barbiere musicale di Stephen Sondheim. Sweeney Todd si muove alla volta di Londra introdotto, anticipato e avvolto dalla musica, da un'aria che disegna il paesaggio acustico della sua anima, desiderosa di esorcizzare la realtà tragica attraverso il canto.
Sweeney Todd è un musical ma non si esaurisce nel musical. La sua dimensione musicale non è
sovrimposta forzatamente alla storia ma come nell'opera è costitutivamente innestata nel protagonista, dal quale si dipana una linea melodica struggente, un requiem che spaventa perché carico di sventure e presagi. Il diabolico barbiere di Fleet Street nasce dal buio melodrammatico di
un ouverture e a quel buio ritorna, cercando, e finendo sempre per perderla, la conciliazione con
il dolore.
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Il testamento del Dottor Mabuse
Un film di Fritz Lang. Con Theodor Loos, Oscar Beregi, Rudolf Klein-Rogge, Camilla Spira
Titolo originale Das Testament des Dr. Mabuse.
Fantastico, b/n durata 122 min. - Germania 1933.
Prima di cader vittima di un attentato che lo condurrà alla follia, Hofmeister, collaboratore della centrale di polizia, comunica al commissario Lohman di avere scoperto una banda di
falsari capeggiata dalla più pericolosa mente criminale che abbia mai minacciato l'umanità. L'indizio lasciato da Hofmeister
- un nome appena graffiato sul vetro di una finestra - che porterebbe al tristemente celebre dottor Mabuse (Rudolf KleinRogge), lascia perplesso il commissario poiché l'uomo che voleva dominare il mondo è internato da anni in un manicomio e - come conferma il professor
Baum, suo medico curante - vive in un irreversibile stato di alterazione psichica. Ma il susseguirsi di delitti, rapine e sabotaggi dimostrano che Mabuse è tuttora in grado di guidare le fila della
sua organizzazione: sfruttando le eccezionali facoltà della sua mente, Mabuse ha soggiogato la
personalità del dottor Baum e per suo tramite ha ripreso ad architettare la strategia del terrore.
Fritz Lang torna a raccontare le gesta del Dottor Mabuse calandole nella cupa realtà di una società inesorabilmente avviata al collasso economico, politico e morale. Creando con ritmo incalzante un sapiente contrappunto tra sonoro e immagine in bianco e nero così da trasformare dialoghi e rumori in strumento di causa-effetto tra il susseguirsi delle scene, Lang confeziona un'opera di forte impatto emotivo assimilando di fatto, e, forse, oltre le sue stesse intenzioni, il genio
del Male - che senza parlare, con la sola fissità del suo sguardo magnetico, cattura lo spettatore
dallo schermo profetizzando l'avvento della violenza eretta a sistema - alla metafora di un potere
eversivo che cresce vampirescamente nell'ombra per scagliarsi ed imporsi su una umanità smarrita e disperata.
Il regime nazista proibì la proiezione del film e il regista, dopo essere stato convocato dal sospettoso Goebbels, si decise ad abbandonare in fretta e furia la Germania (e la moglie Thea von
Harbou, di idee filonaziste) per riparare in Francia e poi negli Stati Uniti.
A titolo di curiosità ricordiamo che Lang, quasi a sottolineare una continuità di contesto socionarrativo, riprende il personaggio del commissario Lohman dal suo precedente M - il mostro di
Dusseldorf, affidandolo per la seconda volta all'interpretazione di Otto Wernicke.
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Il testamento del mostro
Un film di Jean Renoir. Con Jean-Louis Barrault,
Jean Topart, Michel Vitold, Teddy Billis, Teddy Bilis, Sylviane Margollé, Jacques Dannoville, André
Certes, Jean-Pierre Granval, Céline Sales, Ghislaine
Dumont, Madeleine Marion.
Titolo originale Le testament du Docteur Cordelier.
Horror, b/n durata 95 min. - Francia 1959.
Jean Renoir si ispira liberamente al racconto The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson trasferendone l'ambientazione nella Parigi contemporanea
(una analoga modernizzazione l'aveva tentata nel 1951 anche Mario Soffici con il suo Dottor Jekyll). Il protagonista, questa volta, non si chiama Jekyll ma
Cordelier ed invece del sadico alter-ego Hyde c'è Mousieur Opale. La storia segue nelle linee
essenziali l'intreccio reso familiare al pubblico dalle precedenti versioni cinematografiche, raccontando la tragica metamorfosi psico-fisica della quale è vittima volontaria un eminente scienziato, ma se ne allontana significativamente nel descrivere la personalità del protagonista. Cordelier non è quel genio generoso e altruista che potrebbe sembrare: le sue scelte sono imposte dal
calcolo razionale, freddo e spregiudicato, di liberare l'irrefrenabile brutalità dell'istinto naturale.
Mai come in questa occasione Cordelier ed Opale sono la stessa persona: una persona nella quale convivono conflittualmente bene e male, rispettabilità e inconfessate pulsioni alla trasgressione.
Se la sorprendente interpretazione di Jean-Louis Barrault nei panni di Cordelier/Opale domina
il film dal principio alla fine, un peso rilevante per la riuscita dell'opera lo ha anche la tecnica televisiva usata nelle riprese. Progettata per la distribuzione in TV e pensata, insieme, per il grande
schermo, la pellicola è girata con l'impiego simultaneo di più macchine da ripresa e con la recitazione in diretta: il risultato, per certi aspetti innovativo, è un racconto dal ritmo sostenuto, coinvolgente e visivamente allusivo. Una soluzione assai personale che permette a Renoir di rendere
omaggio alle atmosfere inquietanti delle pagine di Stevenson e di proseguire l'indagine sulla natura umana nell'ambito di quel discorso coerente che caratterizza l'intera sua filmografia.
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Tirate sul pianista
Un film di François Truffaut. Con Charles Aznavour, Marie Dubois, Nicole Berger, Michèlle Mercier, Serge Davri.
Titolo originale Tirez sur le pianiste.
Giallo, b/n durata 85 min. - Francia 1960.
Col suo secondo lavoro, Tirate sul pianista, François
Truffaut aveva tutte le intenzioni di fare un film completamente diverso da quello dell'acclamato debutto, I
quattrocento colpi (1959).
Quanto la prima opera è sensibile, realistica e intensamente autobiografica, così Tirate sul pianista è farsesco,
irriverente e ambientato in un mondo da B-movie, affettuosamente infarcito di stili e
personaggi diversi, sfortunati perdenti e duri d'acciaio.
"Volevo chiudere con la narrazione lineare", spiegò in seguito Truffaut, "e fare un film
in cui mi soddisfacesse ogni scena. Ho girato senza alcun altro criterio".
La trama, tratta liberamente da un romanzo giallo di David Goodis, Sparate sul pianista è un classico noir.
Il protagonista, un tempo famoso concertista (interpretato con charme da un triste
Charles Aznavour), ha abbandonato la carriera dopo la scoperta del tradimento della
moglie e ora suona in uno sfarzoso bar parigino. A causa dei suoi fratelli attaccabrighe
viene coinvolto in una disputa fra bande per il controllo del territorio e si trova, in
compagnia della cameriera di cui è innamorato, nel mezzo di una vicenda comicamente
letale di rapimenti e sparatorie.
Non avendo fondi per un set in studio, Truffaut e la sua troupe effettuarono le riprese
per le strade, modificando spesso il soggetto durante la lavorazione, tanto che il finale
venne deciso in base al numero di attori disponibili per l'ultima sfida. Un approccio allegramente aleatorio, che genera una serie di imprevedibili sbalzi d'atmosfera e dialoghi al limite dell'assurdo, anticipando il Quentin Tarantino de Le iene (1992).
I "cattivi" sono rappresentati come personaggi dei fumetti, mentre i fratelli del pianista
hanno nomi che ricordano quelli dei fratelli Marx: Chico, Momo e Fido. Truffaut si diletta maliziosamente nell'uso di giochi cinematografici d'ogni tipo: un ladro giura sulla
vita della madre di dire la verità e improvvisamente vediamo un'anziana signora cadere in
preda a un attacco cardiaco; una scena d'azione è commentata da un nonsense cantato al
bar che dice: "Oltraggi e fragole sono le mammelle della vita".
Tirate sul pianista ebbe successo tra i cinefili, ma il grande pubblico rimase confuso dalla
mescolanza di generi e il film fu un fiasco commerciale. Colpito, Truffaut fece retromarcia verso stili narrativi più convenzionali: nella lavorazione dei film successivi, l'approccio divenne particolarmente serio e il regista non si lasciò più prendere la mano dal divertimento.
Pagina 181
Titanic
Un film di James Cameron. Con Leonardo DiCaprio,
Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates, Frances Fisher.
Drammatico, durata 194 min. - USA 1997.
Rose ha diciassette anni, una madre egoista, un fidanzato facoltoso e una vita pianificata. Imbarcata sul Titanic e insoddisfatta
della propria subalternità al futuro sposo incontra Jack, romantico disegnatore della terza classe che ha vinto a poker un biglietto per l'America.
Contro le convenzioni e il destino, che chiederà il conto in una
notte senza luna, Rose e Jack si innamorano, spiegando il loro
spirito come i motori del più grande transatlantico del mondo.
Lanciato nella sua prima traversata oceanica il Titanic è colpito al cuore da un iceberg,
'affondando' millecinquecento persone e il futuro dei due giovani amanti.
Ottantaquattro anni dopo l'ultracentenaria Rose, scampata al naufragio e sopravvissuta a Jack,
racconterà a un gruppo di scienziati la meraviglia di un amore interclassista e la stupidità di un
mondo diviso in classi.
Un mondo che il Titanic inabisserà in un oceano nero il 15 aprile del 1912.
Ogni film di James Cameron è un viaggio e insieme un processo di apprendimento.
Una 'traversata' che coniuga spettacolarità, azione, emozione e precipitazione struggente.
Del movimento, inteso come atto ma soprattutto come attitudine mentale e disposizione dello
spirito, Titanic è l'esempio più compiuto, che sposta acqua, corpi e intelligenze, che eleva due
adolescenti sopra o sotto il livello a cui vivono gli altri, superando i divieti del censo e della cultura edoardiana. Film smisurato nel budget, nell'ispirazione kolossale, nella generosità sentimentale, nella costruzione di un universo fantastico che rievoca la realtà ma il cui senso eccede i limiti materiali, Titanic 'riprende' il mare.
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La tomba delle lucciole
Un film di Isao Takahata.
Titolo originale Hotaru no haka.
Animazione, durata 90 min. - Giappone 1988.
Kobe, 1945. Seita e la piccola Setsuko vivono con la madre,
mentre il Giappone sta perdendo la guerra e gli americani
bombardano sempre più frequentemente l'isola. Durante un
raid aereo il napalm devasta il loro quartiere e la madre dei
ragazzi soccombe. I due trovano rifugio presso la zia paterna,
ma ben presto le risorse limitate hanno la meglio sullo spirito
di misericordia di quest'ultima. Seita sceglie di andarsene e
porta con sé Setsuko in un rifugio abbandonato, che trasforma in una rudimentale nuova dimora. Ma nonostante la guerra stia per finire, la s carsità di cibo a disposizione si fa sempre più grave.
Alla fine degli anni Ottanta lo Studio Ghibli, all'apice creativo, vede i suoi due autori principali
cimentarsi con opere destinate a rimanere impresse in maniera indelebile nella memoria del pubblico. Proprio quando Miyazaki Hayao sta lavorando alla più gioiosa e genuinamente infantile tra
le storie Ghibli, Il mio vicino Totoro, Takahata Isao realizza l'opera più tragica dell'epopea dello
Studio, se non del cinema di animazione nel suo complesso.
Adattando il romanzo semi-autobiografico di Nosaka Akiyuki, autore distrutto dal senso di colpa per aver perso la sorella minore nel Giappone del 1945, Takahata, con enorme coraggio, rigore e sobrietà, trasforma quella vicenda in un film di animazione. Il conflitto che si genera tra la
naïveté con cui sono ritratti i personaggi - occhi smisuratamente grandi e bocche dall'estensione
impossibile, come è tipico negli anime giapponesi - e il crudo realismo della narrazione è solo
uno degli elementi che rendono unico La tomba delle lucciole.
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Il traditore
Un film di John Ford. Con Victor McLaglen, Wallace Ford, Preston Foster, Margot Grahame, Una
O'Connor.
Titolo originale The Informer.
Drammatico, b/n durata 91 min. - USA 1935.
Irlanda, anni '20. Gypo è un ex militante dell'Ira, cacciato
dall'organizzazione terroristica per la sua vita poco lineare.
Da allora vive di stenti. La sua compagna vorrebbe emigrare
come tanti compaesani in America e per i due biglietti gli servono 10 sterline. Gypo così tradisce un ex compagno dell'Ira
ricercato, la cui taglia è di 20 sterline. Ottenuti quei soldi però
vive nel rimorso e li spreca nell'alcool e in buone azioni.
John Ford traspone un romanzo di Liam O' Flayerthy del 1925, riportando su pellicola la storia
di un moderno Giuda. Non lo colpevolizza ma anzi lo presenta come uomo sofferente meritevole di perdono. La scena finale è frutto di qualche forzatura, ma di alto impatto emozionale.
Gli inglesi sono oppressori e dominatori del popolo irlandese, che è anche povero, affamato, e
costretto all'emigrazione. Il traditore, tuttavia, non è un giuda vero e proprio, cioè perfido e calcolatore, ma uno zoticone che si lascia tentare dalla taglia in un momento di fame e per piacere
alla donna che ama. A tradimento consumato, lo vediamo dibattersi tormentato dal rimorso, che
cerca di soffocare con fiumi di whisky e scialacquando il denaro della taglia. Aiuta anche chi ha
bisogno e dà da mangiare agli affamati, ma la molla interiore è il disfarsi di una somma che è
prezzo di sangue. La prospettiva di Ford non è cioè quella di puntare il dito sul cane traditore,
ma mostrare il dramma di un individuo che si lascia andare a una tragica sbandata, decisa ed eseguita nell'arco di pochi minuti. Gli unici che sono tutti negativi sono i poliziotti inglesi, e dal
quadro complessivo non è certo azzardato affermare la simpatia del regista per gli indipendentisti cattolici irlandesi
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I tre moschettieri
Un film di George Sidney. Con Reginald Owen, Vincent Price, Keenan Wynn, Van Heflin.
Titolo originale The Three Musketeers.
Avventura, durata 125 min. - USA 1948.
È forse la più famosa storia d'avventura del mondo insieme a
Robin Hood, e naturalmente il cinema ne ha preso più volte
possesso. Fra tutte le edizioni questa è la più preziosa e importante, tradizionale: nessun D'Artagnan è stato all'altezza di
Gene Kelly, nessuna Milady lo è stata di Lana Turner e così
via. D'Artagnan lascia il suo villaggio col sogno di diventare
moschettiere del re. Ambizioso, esuberante e litigioso (del
resto è il più classico dei guasconi), incontra senza saperlo
proprio i moschettieri più famosi e li sfida a duello in virtù di
una sua particolare idea sull'onore. Quando al loro fianco si batte contro le guardie del perfido
cardinale Richelieu, viene adottato dai tre eroi. Il cardinale intriga contro i sovrani con l'aiuto
della terribile Milady. I moschettieri, con eroismi fra Parigi, Calais e l'Inghilterra riescono a sventare i suoi ignobili progetti. E Milady, che tanto aveva fatto soffrire Athos, viene giustiziata.
Si trattava di un classico prodotto della Metro Goldwyn Mayer, accurato, competente e soprattutto divertente. Affidato alla regia di George Sidney, specialista di musical, il film si vale di una
struttura armoniosa nei tempi e nell'equilibrio dei caratteri: a Kelly, esuberante e irresistibile, si
contrappone Heflin, un po' drammatico; per una Lana Turner, cupa e maledetta, c'è Morgan,
che fa un re maldestro e simpatico che quasi sembra uscire da un film musicale. Successivamente, come detto, il grande romanzo di Dumas ha ispirato altri film. Ricordiamo la versione dell'inglese Richard Lester, regista legato alla pratica della smitizzazione. Convinto com'è che gli eroi
siano improbabili e noiosi e che i vigliacchi e i cialtroni debbano essere i veri protagonisti, Lester
ha capovolto tutto, tramandandoci una versione inutile e inopportuna. Fortuna che Lester passa
e... Kelly rimane. Una menzione per il più recente Tre moschettieri, realizzato dalla Disney, edizione dimenticabile, con attori inadeguati. I veri moschettieri sono quelli della MGM, del 1948.
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Il treno per Derjeeling
Un film di Wes Anderson. Con Owen Wilson,
Adrien Brody, Jason Schwartzman, Anjelica Huston,
Amara Karan.
Titolo originale The Darjeeling Limited.
Commedia drammatica, durata 91 min. - USA
2007.
India. Un malinconico uomo di mezza età scende frettolosamente da un taxi e insegue un treno in partenza. Durante la
corsa si accosta a lui un individuo allampanato, più giovane,
che gli lancia un'occhiata fugace e lo supera riuscendo a salire
al volo sul treno.
Da questa pittoresca corsa al ralenti inizia il viaggio del
"Darjeeling Limited", lo sgangherato convoglio che ospita i tre fratelli Whitman durante il loro
tragicomico viaggio indiano. Dopo uno sguardo di rammarico verso l'uomo rimasto a terra, Peter (Adrien Brody), fuggito di casa un mese prima della nascita di suo figlio, raggiunge infatti i
due fratelli in un colorato scompartimento, dopo un anno di silenzio seguito alla morte del padre: Francis (Owen Wilson), il maggiore, è la mente che ha ideato il viaggio dopo un brutto ma
illuminante incidente stradale di cui porta ancora i segni sul corpo (in particolare sul viso, perennemente avvolto da bende), mentre Jack (Jason Schwartzman), il minore, è un buffo aspirante
scrittore col cuore a pezzi, di ritorno da un prolungato, ozioso soggiorno parigino in un hotel di
lusso (l'Hotel Chevalier che dà il titolo al cortometraggio con Natalie Portman, ideale prologo del
film).
Un viaggio in un'India colorata e pittoresca, autentica (drammatica perfino) e surreale al tempo
stesso, si trasforma nell'ennesimo confronto familiare all'interno del cinema di Wes Anderson:
tre fratelli immaturi, aristocratici e dispettosi (un po' come i capricciosi fratelli Tenenbaum) si
ritrovano a distanza di tempo a fare i conti col presente, cercando di guardarsi dentro e provando a confrontarsi con la figura genitoriale. Ma oltre al padre, figura da sempre ingombrante nel
cinema di Anderson, questa volta diventa fondamentale il confronto dei tre fratelli con la figura
materna (la sempre raffinata Anjelica Huston, "mater familias" andersoniana fin dai tempi de I
Tenenbaum), diventata suora attivista e ciononostante madre immatura e codarda. Significativa
eccezione tra le donne forti e determinate dipinte da Wes Anderson, costanti guide di uomini
immaturi e poco affidabili.
Ancora una volta il regista texano d'adozione newyorkese si confronta con una famiglia problematica e disfunzionale, affetta da una noia aristocratica e da uno spleen salingeriano curato con
gocce e pozioni indiane, shopping tra spezie e serpenti velenosi, e fugaci rapporti sessuali consumati frettolosamente nella toilette di un treno.
Il treno per il Darjeeling inizia là dove finiva I Tenenbaum, dopo la morte del padre, e porta avanti
l'elaborazione del lutto da parte dei figli con spirito comico e funerario, una surreale commistione di dolore e divertimento degna di Harold e Maude.
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Il trono di sangue
Un film di Akira Kurosawa. Con Toshiro Mifune,
Isuzo Yamada
Titolo originale Kumonosu-Jo.
Drammatico, b/n durata 110 min. - Giappone
1957.
Riedizione in ambiente giapponese del Macbeth di Shakespeare. Due nobili nipponici incontrano in una foresta uno spirito
che predice loro la conquista del potere. Cosa che effettivamente si avvera, tramite delitti ed usurpazioni. Il paese però si
ribella ai due tiranni e uno di essi torna dallo spirito per aver
consiglio: questi gli assicura che resterà invincibile finché la
foresta non si muoverà contro di lui. Ed è proprio quello che
accade, quando gli assalitori per avvicinarsi al castello si mimetizzano da alberi.
Giappone, XVI secolo. Uno spirito profetizza a Taketoki Washizu, un nobile guerriero di ritorno da una spedizione vittoriosa, la conquista del potere e l'invincibilità fino a quando la foresta
non si muoverà verso il Castello del Ragno. L'oracolo si avvera: l'uomo, attraverso una serie di
usurpazioni ed efferati delitti, diventa estremamente potente. Quando l'esercito nemico si avvicina al castello, utilizzando i rami tagliati degli alberi per mimetizzarsi, la previsione sarà compiuta.
Uno degli adattamenti cinematografici più felici dell'opera di Shakespeare e senz'altro la migliore
versione del Macbeth, molto amata da grandi scrittori come Thomas S. Eliot e critici letterari come Harold Bloom. Il genio del regista consiste nel visualizzare il dramma dell'ambizioso e crudele Macbeth attraverso un'atmosfera da incubo, estremamente ieratica e stilizzata, che ritroviamo soprattutto nelle scene dell'incontro con la Parca che rivela la Profezia dell'ascesa al Trono,
nell'allucinazione che coglie Macbeth/Wahizu ad un banchetto, nella scena della "Foresta che si
avvicina al Castello" e nel finale in cui Washizu viene ucciso con un'imponente scarica di frecce
avvelenate. La fedeltà allo spirito del Bardo è indubbia anche se vi sono, naturalmente, diverse
infedeltà alla lettera, ossia la trama non coincide del tutto con quella di Shakespeare; c'è anche
una forte influenza del teatro No, soprattutto nella presenza spettrale della moglie di Washizu,
Asaji, interpretata dalla grande Isuzu Yamada, attrice prediletta da Mizoguchi negli anni Trenta.
La tecnica registica di Kurosawa è controllatissima in ogni elemento della composizione, dai
movimenti di macchina alla resa espressiva del bianco e nero, mai fine a se stessa ma sempre
rivolta all'impatto complessivo delle diverse sequenze che compongono l'opera. Toshiro Mifune
in una delle sue più grandi interpretazioni di sempre contribuisce in maniera determinante, insieme alla Yamada, alla bellezza di un film che secondo il critico Aldo Tassone "ispira più ammirazione che simpatia", e che insieme al successivo Ran dell'85, ispirato al Re Lear, si pone come
una pietra miliare nel rapporto fra l'opera del drammaturgo inglese e il cinema.
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Ucciderò un uomo
Un film di Claude Chabrol. Con Jean Yanne, Michel
Duchaussoy, Caroline Cellier
Titolo originale Que la bête meure.
Drammatico, durata 113 min. - Francia 1969.
Un bambino muore dopo essere stato investito da un pirata
della strada: il padre, da quel momento, vive solo per rintracciare il colpevole. Ci riesce e scopre di avere dei potenziali ottimi complici. Il colpevole muore, infatti, avvelenato, ma nessuno saprà mai chi veramente ha messo il veleno nel bicchiere.
Ucciderò un uomo è uno dei film più belli di Claude Chabrol, che
“filosofeggia” sul caso e sulla natura della colpa sullo sfondo
solito della provincia francese e degli ambienti alto borghesi. Attorno al dramma umano della
perdita di un figlio, Chabrol elabora un congegno di morte che rasenta la perfezione : per la precisa e variegata caratterizzazione psicologica dei personaggi e la grande abilità con cui viene tenuta alta l’attenzione cognitiva dello spettatore nonostante che l’esito finale del film sia contenuto nelle sue stesse premesse iniziali. "Ucciderò un uomo. Non ne conosco il nome, nè l'indirizzo, nè il suo aspetto, ma lo troverò e lo ucciderò". Queste sono le prime impressioni che Charles
annota sul suo diario, parole che suonano come una promessa solenne, veicolate da un lancinante dolore e indirizzate contro un ossessione, che vestono di freddo calcolo l'unico scopo per cui
vale ancora la pena continuare a vivere e che armano di pazienza la speranza di portarlo a compimento.
"Mi rendo perfettamente conto che il terreno delle mie ricerche non ha limiti, che sono solo un
essere sulla terra alla ricerca di un altro essere. L'unica mia arma è la pazienza. Ho tutto il tempo.
Ho tutta la mia vita. E tutta la sua. A meno che la sorte non interferisca, è meravigliosa la sorte,
ed esiste, anche questo esiste. Il punto della penna sul mio foglio, è come ogni cosa al mondo,
una coincidenza".
L’elemento straordinario di questo magnifico film sta nel fatto di muoversi su un doppio binario
narrativo : quello della pacifica esteriorità di Charles, che gli consente di nascondere bene i tumulti dell'animo e di preparare con calma il suo piano, e quello delle sue confessioni assassine,
cariche di lucida razionalità e pregne di un odio pronto ad esplodere. Binari che si incontrano
all'epilogo inevitabile ma scambiandosi sorprendentemente i connotati qualitativi : per architettare in gran segreto il piano di morte quando volutamente pubbliche erano state rese le intenzioni.
E per restituirci un finale di sorprendente bellezza, con una barca in alto mare in balia
dell’infinito e un campo lungo a scrivere un’altra coincidenza possibile.
Capolavoro.
Pagina 188
L’uomo che verrà
Un film di Giorgio Diritti. Con Alba Rohrwacher,
Maya Sansa, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Stefano Bicocchi.
Drammatico, durata 117 min. - Italia 2009.
Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri territori occupati
dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi
in una brigata partigiana. Per una delle più giovani abitanti del
luogo, la piccola Martina, tutte quelle continue fughe dai
bombardamenti e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno
poca importanza. Da quando ha visto morire il fratello neonato fra le sue braccia, Martina ha smesso di parlare e vive
unicamente nell'attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il concepimento avviene in una mattina di
dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima che le SS diano inizio al rastrellamento di tutti
gli abitanti della zona.
L'eccidio di Marzabotto è uno di quegli episodi che premono sulla grandezza della Storia per
stringerla dentro alla dimensione del dolore del singolo. Per raccontare quella strage degli ultimi
giorni del nazifascismo nella quale vennero uccisi circa 770 paesani radunati nelle case, nei cimiteri e sui sagrati delle chiese, Giorgio Diritti si affida a un proposito simile a quello del suo precedente Il vento fa il suo giro : partire dalla lingua del dialetto per raccontare una comunità e dal
linguaggio del cinema per costruire un messaggio sull'identità culturale. Rispetto al lungometraggio d'esordio, L'uomo che verrà si confronta direttamente con la memoria storica e tende a ricostruire la storia del massacro in modo strategico ma senza risultare affettato, puntando sul lato
emozionale ma mai ricattatorio della messa in scena. Non più il punto di vista di uno straniero
che tenta di confondersi e integrarsi con quello di una comunità ostile, ma quello di un piccolo
membro di una collettività, Martina, che si congiunge e si scambia con quello di tutte le vittime
della strage. Per rendere questa idea, Diritti riscopre la fluidità delle immagini e, lontano dal facile realismo delle immagini sgranate girate con macchina a mano, costruisce scene a volte statiche
e a volte in movimento, inquadrature fisse e piani sequenza, ma sempre modulati in funzione dei
movimenti e delle emozioni della comunità rurale.
Pagina 189
L’uomo dal braccio d’oro
Un film di Otto Preminger. Con Frank Sinatra,
Kim Novak, Darren McGavin, Arnold Stang
Titolo originale The Man with the Golden Arm.
Drammatico, b/n durata 119 min. - USA 1955.
A Chicago, un abilissimo giocatore d'azzardo è schiavo
dell'eroina e succube della moglie rimasta paralizzata in un
incidente da lui provocato. Il tenero amore di una ragazza
potrebbe redimerlo, ma l'uomo viene accusato di omicidio.
Tratto dal romanzo di Nelson Agren sulla vita di un tossicomane, il film venne fortemente voluto dal regista Otto
Preminger, che sfidò i duri dettami di quel Codice Hays,
che vietava espressamente al cinema di occuparsi di droga, contribuendo alla sua modifica. Con
un occhio al cinema espressionista e con una notevole attenzione ai personaggi di contorno,
Preminger realizzò "un'opera in cui era presente una vigorosa lezione morale", avvalendosi di un
Frank Sinatra in stato di grazia, della partitura jazz composta appositamente da Elmer Bernstein
e dei titoli firmati da Saul Bass.
Da ricordare in particolare la lacerante sequenza della disintossicazione di Frankie in un minuscolo monolocale.
Pagina 190
L’uomo ombra
Un film di Woody Van Dyke. Con William Powell,
Nat Pendleton, Cesar Romero, Myrna Loy.
Titolo originale The Thin Man.
Giallo, b/n durata 93 min. - USA 1934.
Era così forte l'alchimia tra Myrna Loy e William Powell
nel film del 1934 Le due strade che il regista W. S. Van Dyke
li volle di nuovo insieme quello stesso anno. Nel ruolo di
Nick e Nora Charles, essi sono due icone della storia del cinema. La prima coppia famosa di coniugi detective non
solo si ama, ma si piace anche senza essere insipida, irrispettosa, o sciocca.
La trama di L'uomo ombra è abbastanza complicata. Nick
Charles è ufficialmente un detective in pensione ma si
interessa a titolo personale alla scomparsa di un capriccioso inventore – l'uomo ombra del
titolo – la cui figlia (Maureen O'Sullivan) è una vecchia conoscenza di Nick. La salvezza
dell'inventore viene posta in dubbio quando sorgono complicazioni che coinvolgono la
sua amante sospettosa, l'avida ex moglie e il marito di lei assetato di soldi (Cesar Romero).
Con l'aggiunta di svariati gangster, delle loro donne e dei poliziotti, sembra che tutto l'universo criminale arrivi prima o poi alla lussuosa suite d'hotel dei Charles.
Cercando di far luce, la storia si sofferma su ciò che veramente sta a cuore ai realizzatori del
film: il continuo scambio di battute passionali tra la ricca e sofisticata Nora e il suo acuto ed
elegante marito. Dette senza enfasi, le loro parole sono divertenti senza volerlo essere a tutti
i costi. Talvolta Nick potrebbe sembrare un alcolizzato, ma passa in un istante da un rilassato
stordimento a una sobrietà assai attiva. Le sbronze felici della coppia sembrano non avere
effetti sulle loro azioni; sono più che altro un sostegno elegante, un elemento vitale per un
paese che sta uscendo dalla crisi economica.
Tratti da un romanzo scritto lo stesso anno da Dashiell Hammett, Nick e Nora ricalcano probabilmente alcuni tratti della relazione di Hammett con la commediografa Lillian
Hellman. Girato in due settimane, questo brillante giallo incassò più di due milioni di dollari e ottenne quattro nomination agli Oscar. Com'era prevedibile, il successo generò altri
cinque film (Dopo l'uomo ombra, 1936; Si riparla dell'uomo ombra,1939; L'ombra dell'uomo ombra,
1941, L'uomo ombra torna a casa, 1944; Il canto dell'uomo ombra, 1947), oltre a ispirare serie radiofoniche e telefilm come McMillan e signora, Cuore e batticuore e Moonlighting.
Pagina 191
Vaghe stelle dell’orsa
Un film di Luchino Visconti. Con Claudia Cardinale,
Jean Sorel, Michael Craig, Renzo Ricci, Fred Williams.
Drammatico, b/n durata 100 min. - Italia 1965.
Sandra torna alla natìa Volterra con il marito Andrew Dawson.
Qui ritrova il fratello Gianni e l'anziana madre ricoverata in
una clinica psichiatrica, dove viene accudita dal secondo marito. Il primo è morto in un campo di concentramento. Andrew
oltretutto scopre che Gianni e Sandra sono stati uniti da un
torbido legame.
Sicuramente non uno dei migliori film di Visconti, vinse comunque il Leone d'oro a Venezia nel '65. Notevole comunque
il fascino torbido di una splendida Cardinale, e l'ambientazione
dannunziana a Volterra.
Nella straordinaria filmografia di Luchino Visconti, Vaghe stelle dell'orsa non può non apparire
come un titolo minore. Un dramma che affronta il disfacimento di una famiglia borghese, come
in molte altre opere del regista milanese, e che non manca di pregi nell'analizzare il torbido intreccio di sentimenti che sta alla base della trama, ma dove non si ritrova la stessa lucidità di analisi dei grandi capolavori viscontiani e vi sono degli sbandamenti verso una matrice letteraria fin
troppo ricercata, di gusto dannunziano. Anche le immagini sono molto raffinate grazie alla pregevole fotografia in bianco e nero di Armando Nannuzzi e all'ambientazione nella città di Volterra, ma il film scivola soprattutto nel preziosismo estenuato e manieristico dei dialoghi fra
Gianni e Sandra, dove si affronta uno dei temi più spinosi per la cultura occidentale, quello
dell'incesto. Nel cast spicca la prova di buon livello drammatico della Cardinale, espressiva al
punto giusto anche se un pò incerta nella dizione (Tullio Kezich parlò nella sua recensione delle
"imbarazzanti afonie di Claudia", forse esagerando un pò); fra i caratteristi ho apprezzato molto
Marie Bell nei panni della madre e Renzo Ricci come avvocato Gilardini, mentre Jean Sorel e
l'inglese Michael Craig mi sono sembrati un pò sfocati, soprattutto il primo che non sembra disporre delle adeguate risorse drammatiche per rendere la complessità del personaggio di Gianni.
Il Leone d'oro, come tutti sanno, fu una ricompensa tardiva per quelli che non erano stati assegnati, scandalosamente, a La terra trema, Senso e Rocco e i suoi fratelli: meglio tardi che mai, comunque...
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Vecchia guardia
Un film di Alessandro Blasetti. Con Gianfranco Giachetti, Franco Brambilla, Mino Doro, Andrea Checchi.
Drammatico, b/n durata 88 min. - Italia 1935.
Italia Centrale (il film fu girato prevalentemente a Viterbo),
1922. Nel clima arroventato del primo dopoguerra Roberto,
un attivista fascista reduce della Grande Guerra e ora disoccupato, si distingue nella lotta contro i lavoratori in sciopero.
Suo padre, Claudio, è un medico che dirige un manicomio paralizzato dai boicottaggi e dalle rivendicazioni del personale
infermieristico. Mario, il fratello minore di appena 12 anni è
smanioso di entrare in azione al fianco di Roberto. La giovanissima età non gli consente però di
armarsi e partecipare agli scontri con gli odiati avversari, come vorrebbe. Una notte, tuttavia,
senza essere visto, riesce finalmente a salire a bordo di una camionetta e a partecipare a una spedizione punitiva nella quale perde la vita, colpito da una fucilata sparata da un operaio "rosso".
Lo sdegno che provoca in città la morte del ragazzo convince anche molti antifascisti ad aderire
al PNF e a partecipare successivamente alla marcia su Roma, accompagnati da Roberto e da suo
padre Claudio. Alle prime luci dell'alba i fascisti, raggruppatisi ad Orte, si avviano a piedi e con
altri mezzi verso la Città eterna.
Alla sua uscita il film riesce a riscuotere un discreto successo di pubblico e una accoglienza in
linea di massima positiva da parte della critica del tempo che ne mette in rilievo i pregi stilistici e
alcune impostazioni innovative. Fra queste ultime il taglio realistico di molte scene e lo stesso
linguaggio usato dagli interpreti, sempre naturale e in sintonia con la classe socio-culturale di
appartenenza.
Sotto un profilo più propriamente formale va sottolineata la superba fotografia di Otello Martelli utilizzata dal regista con una valenza simbolica di grande impatto visivo, con le luci accese su
tutto ciò che incarno il fascismo e che ad esso si ricollega (spedizioni punitive e pestaggi compresi) e le ombre, che invece avvolgono le forze "antinazionali". La critica contemporanea è portata a vedere nel film il momento di massima adesione di Alessandro Blasetti al regime fascista
con alcune scene di retorica squadrista che ne abbasserebbero il livello qualitativo spezzando il
ritmo drammatico che pur il regista riesce ad imprimere alla vicenda. Un film pertanto tutt'altro
che disprezzabile, ma giudicato discontinuo e, in linea di massima, girato con chiari intenti apologetici.
Pagina 193
Vera Cruz
Un film di Robert Aldrich. Con Ernest Borgnine,
Gary Cooper, Cesar Romero, Burt Lancaster, Sara
Montiel.
Western, durata 94 min. - USA 1954.
Finita la guerra di Secessione, Ben si reca in Messico dove lo
scontro tra i rivoluzionari seguaci di Juarez e le truppe regolari agli ordini di Massimiliano d'Austria è cruento e spietato.
Incontra il bandito Joe e con lui cerca di impadronirsi di una
carrozza piena d'oro. Stupendo affresco di due uomini alle
prese con un grande evento storico che supera gli avvenimenti di tutti i giorni.
Grandi scene en plein air, energiche star, barocco Aldrich.
La fiducia che Robert Aldrich poneva nella natura umana non era infinita, è risaputo, e quasi
sempre nei suoi lavori il contesto è quello di una crudeltà spontanea dei personaggi per trarre il
meglio per il proprio profitto o convenienza, ma è sbagliato etichettare il cineasta di Quella sporca
ultima meta come un cinico. Infatti, se l'atmosfera spesso è impietosa, il suo cinema è fatto anche
di gesti inconsultamente eroici, in cui va letta una fiera resistenza a non lasciarsi annichilire da un
mondo barbaro e senza sentimenti, quasi un tema portante della sua opera,un monito ed appello
a scuotersi e cercare un barlume di Giustizia.
Vera Cruz è un western molto atipico per i propri tempi, che deve esser stato amato non poco
da Sergio Leone, in quanto vi si ritrovano molti motivi delle sue storie, dalla caccia all'oro, all'imperante mancanza di scrupoli della gente del West, all'evitare che il mondo sia diviso in buoni e
cattivi, anche se qualcuno sarà, quasi contrariando se stesso, capace di un atto di coraggio o di
umanità. I due alleati per forza Cooper e Lancaster diffidano uno dell'altro, si tengono braccio in
alcuni momenti, pianificano a scapito del prossimo, fino ad affrontarsi all'inevitabile duello conclusivo: Aldrich realizza in un'ora e mezza scarsa un gran racconto d'avventure, sullo sfondo di
un evento storico come la revoluciòn messicana, con due interpreti che rappresentano un vago
idealismo il primo, e una ribalda grinta il secondo. Un'altra prova dell'importanza di un regista
purtroppo mai troppo celebrato dalla critica. Basti vedere la sequenza dell'imboscata al reggimento nel paesino, un gioiello di montaggio e respiro cinematografico, con ogni personaggio
inquadrato in momenti salienti, e l'apertura finale della scena con la cavalcata libera dalle trappole delle viuzze abitate. A mio parere,forse il più grande dei sottostimati tra i registi.
Pagina 194
Viaggio a Kandahar
Un film di Mohsen Makhmalbaf. Con Ike Ogut, Nelofer Pazira, Hassan Tantai, Sadou Teymouri, Hoyatala Hakimi.
Titolo originale Safar e Ghandehar.
Drammatico, durata 90 min. - Francia, Iran 2001.
C'è un momento deliziosamente surreale in Viaggio a Kandahar, quando alcune gambe artificiali vengono lanciate
da un aereo che sorvola un ospedale da campo situato
nel mezzo del deserto afgano.
La vista degli arti di plastica lanciati col paracadute che
lentamente scendono tra le nubi è al tempo stesso divertente e sconvolgente, oltre che stranamente bella.
Contaminazione e contraddizione definiscono questo film.
Nafas (Niloufar Pizira), nata in Afghanistan, è fuggita in Canada da ragazza ed è poi
divenuta una reporter di successo. Nonostante la sua nuova vita Nafas ha mantenuto i
contatti con la terra d'origine attraverso una lunga corrispondenza con la sorella, la quale
ha potuto descrivergli l'esistenza da incubo sotto il regime talebano. Una realtà tanto
crudele che porta la sorella, già amputata alle gambe in seguito all'esplosione di una mina, a progettare di suicidarsi durante un'eclissi imminente. L'occidentalizzata Nafas, in
preda al panico, decide allora di introdursi clandestinamente nel paese per tentare di salvarla,
in una corsa contro il tempo.
Il regista e sceneggiatore iraniano Mohsen Makhmalbaf unisce vero materiale documentaristico a scene di fantasia, mostrando gli orrori di una società controllata da pazzi che hanno distorto la religione e la tradizione culturale per adattarla alla loro ristretta
visione del mondo.
La grande forza di Viaggio a Kandahar consiste nell'abilità di far coesistere su uno stesso
piano dramma, tragedia e anche umorismo, organicamente fusi in modo da valorizzarsi
e complementarsi l'un l'altro.
Pagina 195
Viaggio a Tokio
Un film di Yasujiro Ozu. Con So Yamamura, Chishu Ryu, Chiyeko Higashiyama, Kuniko Miyake
Titolo originale Tokyo Monogatari.
Drammatico, b/n durata 136' min. - Giappone
1953
“Non è deludente la vita?" chiede una ragazzina alla cognata vedova durante il funerale di sua madre; "Sì", risponde la donna con un sorriso. Questo breve scambio di battute, proprio alla fine del capolavoro di Yasujiro Ozu,
Viaggio a Tokyo, rende esplicito il tono non sentimentale
della rassegnata accettazione che contraddistingue il suo
lavoro.
Le interpretazioni, l'ambiente - la casa di classe media che la ragazza ha condiviso, fino a
quel momento, con entrambi i genitori - e il dialogo hanno toni completamente naturalistici, e non si ha nemmeno per un momento la sensazione che le parti siano messe insieme ad
arte per creare un climax: ogni parola che viene pronunciata è carica di un enorme peso
emotivo e filosofico. I film di Ozu affrontano in modo meraviglioso eventi minimi e illusori, e rappresentano principalmente il quotidiano e i rituali professionali della vita della
classe media giapponese con una singolare mancanza di enfasi drammatica e stilistica. In
questo film, due anziani genitori lasciano a casa la figlia minore per visitare gli altri figli a
Tokyo; non sono mai stati nella capitale, ma fanno uno sforzo sapendo che non resta loro
molto tempo. I figli, però, hanno ormai delle famiglie, e spediscono i genitori in villeggiatura, nascondendo appena il bisogno di continuare a condurre le loro frenetiche vite nel
Giappone del dopoguerra. Solo la cognata, che ha perduto il marito in guerra, sembra avere
abbastanza tempo per loro.
Tutto ciò è osservato, com'era abitudine di Ozu, con una macchina da presa statica, piazzata
a mezzo metro da terra; nel film c'è solo una ripresa in movimento, e anche quella è estremamente lenta, sugli anziani che decidono di tornare a casa. Come fa Ozu a mantenere l'attenzione del pubblico quando quello che si vede e si sente è così poco modulato su temi insoliti
o drammatici? Tutto sta nella qualità contemplativa del suo sguardo, che implica che ogni
attività umana, sebbene "non importante", vale la nostra attenzione. In contrasto con il
suo peculiare stile cinematografico (e con la sua originale illuminazione), le esperienze,
le emozioni e i pensieri dei suoi personaggi sono "universali" quanto ogni altra cosa nel
cinema: un paradosso che ha giustamente consegnato a questo film la sua grande fama.
Pagina 196
Vita di Pi
Un film di Ang Lee. Con Suraj Sharma, Irrfan Khan,
Tabu, Rafe Spall, Gérard Depardieu.
Titolo originale Life of Pi.
Avventura, durata 127 min. - Cina, USA 2012.
Il giovane Pi Patel è cresciuto con la famiglia a contatto con lo
zoo paterno, mescolando fin dall'infanzia sogno e realtà.
Quando il padre ha esigenze di denaro e sceglie di trasferirsi
in Canada per vendere lo zoo, Pi ancora non può intuire cosa
lo attenderà nelle vastità oceaniche. Di fronte a una tempesta
terrificante, la nave affonda, lasciando in breve tempo Pi con
un'unica compagna di viaggio: la tigre Richard Parker, l'animale più temuto dello zoo paterno. Pi potrà solo fare affidamento alla propria intelligenza per poter sopravvivere e convivere
con la tigre.
Ci deve essere qualche ragione recondita per cui il Pi - abbreviazione di un curioso nome di battesimo, Piscine Molitor - Patel di Vita di Pi sia indiano come il Jamal Malik di The Millionaire.
Il racconto di formazione del terzo millennio sceglie l'India, forse per il suo contrasto tra i drammi legati alla realtà di vite difficili e il tasso di magia e sogno legato indissolubilmente a quella
terra, come paese simbolo per vite distrutte, sofferte, sottoposte a prove indicibili, prima di poter giungere alla necessaria illuminazione/realizzazione. Per guardare al basso, al particulare
dell'uomo comune e delle sue vicissitudini, e insieme all'alto, per rispondere a domande che ossessionano l'umanità fin dai suoi albori.
Vita di Pi si candida ad essere, riuscendoci pienamente, film-happening, blockbuster per buongustai, momento di incontro tra il pubblico forse meno smaliziato, ma certamente assetato di
storie che invitino a riflessioni più approfondite, e la sua controparte cinéphile, parimenti conquistata dalla visionarietà di Lee o inebriata dal vortice di citazioni che confluisce in una vicenda
paradigmatica (il disaster movie di Titanic, rivisitato con la potenza del 3D e l'angoscia di una macchina da presa obliqua e instancabile, una visione disneyana della natura, nei suoi lati meravigliosi e in quelli feroci). Guardare a Vita di Pi come a un romanzo di avventura, tra Conrad, Gordon
Pym e Mowgli, o come a un'allegoria sospesa tra mondo sensibile e parabola filosofico-religiosa,
non muta il senso di una visione che si presta a una polivalenza e una polisemia proprie di un'epoca sì di semplificazione del linguaggio, ma soprattutto di diversificazione del medesimo. Tutti
accontentati: gli orfani di Shyamalan e del finale spiazzante con dubbio fideistico, gli amanti del
3D duro e puro come quelli dell'on the road (o dell'on the sea).
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La vita privata di Sherlock Holmes
Un film di Billy Wilder. Con Colin Blakely, Christopher Lee, Geneviève Page, Robert Stephens.
Titolo originale The Private Life of Sherlock Holmes.
Commedia, durata 125 min. - Gran Bretagna 1970.
A casa di Holmes si presenta una sera una donna disperata
per la scomparsa di suo marito, un ingegnere belga. Insieme al
fido Watson, il celebre investigatore parte per la Scozia e va a
finire in una locanda sulle rive del lago di Loch Ness. È a quel
punto che Watson crede di vedere un mostro, che in realtà è
un sottomarino. Così come la donna affranta che li ha
"ingaggiati" si rivela poi una spia tedesca. Atipico sia come
film su Holmes, sia come film di Wilder. Troppo privato, con
allusioni alla misoginia e alla droga, rispetto all'iconografia classica holmesiana. Troppo romantico rispetto alla proverbiale cattiveria wilderiana. Un grande film.
Dissacrante già nell'incipit (una ballerina propone ad Holmes un incarico inconsueto: metterla
incinta!) e con la tensione ed il ritmo giusto, come si addice ad un bel giallo. Watson non è quello che ci si immagina dopo le letture di Doyle, ha un carattere molto più vispo, da viveur e compagno di brigata e se la sua ottusità non è stata intaccata, sicuramente lo è stata la sua simpatia.
Il mansueto e quasi ovino personaggio di Doyle lascia il posto ad un concentrato di energia che
tiene talvolta testa ad Holmes e si presta a simpatiche gaffe con la sua logorrea dilagante e le sue
domande indiscrete. La misoginia di Holmes è invece stemperata dallo strano interesse verso
l'intrigante straniera che bussa alla sua porta ed i suoi connotati di drogato vengono presentati
senza calcarvi troppo la mano. È un Holmes più umano e fallibile quello di Wilder, che si lascia
ingannare dalle apparenze e prendere dalle emozioni ma che al momento opportuno tira fuori la
proverbiale arguzia per districare una matassa alquanto ingarbugliata. La trama è interessante, il
mistero si svela poco alla volta attraverso dettagli accennati e personaggi misteriosi e non c'è mai
una caduta di tono o di ritmo. I dialoghi sono simpatici e sempre frizzanti, gli attori bravi, le scenografie fascinose. Buon lavoro davvero, non un capolavoro magari ma da gustare con avidità.
Gli anni passano ma questo film non li sente minimamente. Consigliatissimo
Pagina 198
Vital
Un film di Shinya Tsukamoto. Con Tadanobu Asano, Nami Tsukamoto, Kiki, Ittoku Kishibe
Drammatico, durata 86 min. - Giappone 2004.
Takashi sopravvive ad un incidente d'auto ma perde la memoria. Peggior destino ha Ryoko, la sua ragazza, che muore
nell'incidente.
Con l'aiuto dei genitori Takashi inizia la risalita e torna a
frequentare i corsi di medicina. Al corso di dissezione gli
capita di dover operare proprio sul cadavere di Ryoko, assieme ad un'altra studentessa che lo corteggia, Ikumi. I ricordi
cominciano a riaffiorare, ma non è sempre facile distinguere
il reale dall'immaginario.
Tsukamoto è un regista dotato di temperamento creativo geniale. Avere tale dote non sempre
significa essere un grande regista, ma il giapponese, autore di più di qualche film di culto, si merita un posto anche in questa categoria. Ce lo dimostra con un film che in pochi avrebbero potuto prevedere dopo il torbido A snake of June. Anziché adagiarsi su una comoda rivisitazione (in
termini di stile e temi) di quest'ultimo, Tsukamoto vira bruscamente e realizza un film che mette
all'ordine del giorno tutta una ridda di questioni inedite nel suo cinema. Prima di tutto la virata è
in senso strettamente cromatico: l'opaca tonalità metallica dei film precedenti lascia il posto ad
un colore pieno e morbido, sebbene tutt'altro che rassicurante, visto che gran parte del film si
svolge in una camera per la dissezione di cadaveri. Ma è soprattutto l'agenda dei temi che rende
Vital un'opera di grande fascino e complessità. Al centro c'è il rapporto che intercorre tra la
"coscienza" e il corpo, ma tutto intorno c'è una vasta serie di sottotesti che meriterebbero ognuno ulteriori approfondimenti. Tsukamoto grande regista, dunque, perché capace di fare un cinema intelligente e destabilizzante, con la naturalezza e il coraggio un po' folle dei samurai di un
tempo.
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Vivere
Un film di Akira Kurosawa. Con Takashi Shimura,
Shinichi Himori, Haruo Tanaka, Minoru Chiaki, Miki Odagiri.
Titolo originale Ikiru.
Drammatico, b/n durata 143 min. - Giappone
1952.
Conosciuto più per i suoi film epici di samurai (I sette Samurai, 1954, Yojimbo, 1961), Akira Kurosawa non filmò solo
scene cruente, anche se si può dire che nessun altro regista
ha esplorato così profondamente il potenziale dell'immaginario violento sullo schermo. Kurosawa è stato anche
un grande umanista del cinema, e ciò è evidente soprattutto
in Vivere.
Il film ruota attorno a Kenji Watanabe (l'attore prediletto da Kurosawa, Takashi Shimura),
un sarariman ("impiegato" o burocrate di livello medio), e alla sua vita ottusa e insoddisfacente. Il suo più grande successo – che egli prende molto seriamente – è di non aver mai
saltato un giorno di lavoro all'Ufficio municipale in trent'anni di carriera. Non si pente
della pochezza della sua vita, solo non conosce un'altra possibilità.
Tutto ciò cambia quando scopre di avere il cancro, e che gli rimane pochissimo da vivere. Negli ultimi mesi della sua vita, Watanabe riconsidera le sue soddisfazioni (nessuna) e le
sue priorità (nessuna), e decide che non è troppo tardi per migliorare il mondo. Rivolge allora tutte le proprie energie alla costruzione di un parco pubblico: un piccolo gesto che
assume un grande significato per Watanabe, così come per Kurosawa.
Shimura dona in Vivere la migliore interpretazione della sua vita. Dopo che Watanabe apprende della sua malattia, il volto dell'attore comunica tutto quello che dobbiamo sapere.
Egli si muove nel film con l'aspetto di un uomo che ha vissuto i peggiori tormenti, ed è
impossibile che lo spettatore non ne avverta il dolore.
Nonostante sia colmo di tristezza, Vivere è un film dai solidi risvolti spirituali. La convinzione di Kurosawa era che per ottenere qualsiasi cosa, soddisfazione o felicità, occorra soffrire. Anche la sofferenza, però, fa parte della vita e può essere sfruttata al meglio.
Vivere è una grande affermazione della vita, anche se i suoi temi sono la morte e il dolore.
L'arte di Kurosawa mostra come questi due aspetti non siano contradditori, ma uniti
come parti del ciclo della vita. La sua sincera convinzione che le piccole cose possano fare
la differenza risolleva e commuove, specialmente nel mondo turbolento e paradossale di
oggi.
Pagina 200
Voglio danzar con te
Un film di Mark Sandrich. Con Edward Everett
Horton, Fred Astaire, Ginger Rogers, Eric Blore
Titolo originale Shall We Dance.
Commedia musicale, b/n durata 116 min. - USA
1937.
Petrov (Astaire), famosissimo ballerino russo, è perdutamente innamorato di Linda Keene (Rogers), una ballerina
di rivista americana che egli è disposto a seguire per il mondo pur di riuscire a conquistarne il cuore. Alcuni rivali spargono la voce di un loro matrimonio segreto, che Petrov,
nonostante gli sforzi, non riesce a smentire. Per metter fine
ai pettegolezzi e riconquistare la tranquillità perduta Petrov
e Linda decidono allora di sposarsi sul serio per poi divorziare.
Classica vicenda da "commedia del rimatrimonio", frequentissima negli anni '30, è un pretesto
per belle esibizioni sulle musiche di Gershwin, tra cui "Let's Call the Whole Thing Off" su pattini a rotelle.
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Vuoti a rendere
Un film di Jan Sverak. Con Zdenek Sverak, Tatiana
Vilhelmová, Daniela Kolarova, Alena Vránová, Jirí
Machacek.
Titolo originale Vratné lahve.
Commedia, durata 100 min. - Repubblica ceca,
Gran Bretagna 2007
Joseph è un insegnante di sessantacinque anni che non va più
d'accordo con la scuola e si ritira, ma, incapace di starsene
tutto il giorno in casa con la moglie, si ricolloca prima come
corriere su due ruote e poi come responsabile del ritiro delle
bottiglie vuote in un supermercato. Nonostante lo scetticismo
della consorte, il lavoro non solo non lo umilia ma, al contrario, lo appassiona e i clienti lo incuriosiscono al punto che - complice una naturale predisposizione alla fantasticheria - Joseph comincia ad intromettersi nelle loro vite.
I Vuoti a rendere di Jan Sveràk, ultimo atto della trilogia scritta ed interpretata da suo padre Zdenek, non sono tanto i pensionati dell'età di Joseph, ai quali talvolta non resta che aspettare la
resa al Creatore, ma gli onesti (trasparenti) personaggi che lo circondano e che il destino pare
aver dimenticato di riempire di occasioni, offrendo un inatteso quanto gratificante secondo lavoro a Joseph, che s'improvvisa a sua volta creatore di storie e di relazioni.
Il doppio ruolo di attore e sceneggiatore di Zdenek Sveràk si unifica in questo modo anche
all'interno del film, non senza autoironia (spunta ad un certo punto un enorme pallone gonfiato)
e non senza piacevoli scorrettezze (giustificato anagraficamente nella sua crescente disinibizione,
Joseph quasi solidarizza con l'uomo che ha lasciato sua figlia e suo nipote per accasarsi con una
nuova e insaziabile compagna).
La trasgressione vera non è un colore di questa tavolozza, ma l'umorismo è efficace e intelligente, il ridicolo evocato e brillantemente dribblato, il patetico pienamente dominato e non più
sfruttato.
Gli autori superano così i difetti ancora presenti in Kolja e consegnano un film dall'assunto sentimentale e dallo sviluppo semplice, che sembra rubato alla vita e invita a fare esattamente questo:
vale a dire a non limitarsi ad attendere l'estate perché fa caldo e poi l'inverno perché non ci sono
le mosche, ma ad impossessarsi del timone della propria esistenza e a farne un piccolo film, anche inverosimile o grottesco, l'importante è che lo suggerisca il desiderio.
Pagina 202
The Wolf of Wall Street
Un film di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio,
Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey,
Kyle Chandler.
Biografico, durata 180 min. - USA 2013.
Jordan Belfort è un broker cocainomane e nevrotico nella
New York degli anni Novanta. Assunto dalla L.F. Rothschild
il 19 ottobre del 1987 e iniziato alla 'masturbazione' finanziaria
da Mark Hanna, yuppie di successo col vizio della cocaina e
dell'onanismo, è digerito e rigettato da Wall Street lo stesso
giorno in seguito al collasso del mercato. Ambizioso e famelico, risale la china e fonda la Stratton Oakmont, agenzia di
brokeraggio che rapidamente gli assicura fortuna, denaro,
donne, amici, nemici e (tanta) droga. Separato dalla prima moglie, troppo rigorista per reggere gli eccessi del consorte, Jordan corteggia e sposa in seconde
nozze la bella Naomi, che non tarda a regalare due eredi al suo regno poggiato sull'estorsione
criminale dell'alta finanza e la ricerca sfrenata del piacere. Ma ogni onda cavalcata ha il suo punto di rottura. Perduti moglie, amici e rotta di navigazione, Jordan si infrangerà contro se stesso,
l'inchiesta dell'FBI e la dipendenza da una vita 'tagliata' con cocaina e morfina.
Alla fine di un film di Scorsese ci si convince ogni volta che non si possa andare più in là, che
non ci sia più spazio per un'altra inquadratura dopo l'immersione subacquea de Le royaume des fées
(Hugo Cabret), che non ci sia un altro sguardo ammissibile dopo gli occhi celesti di un orfano dietro agli orologi e aggrappati alle lancette che scandiscono l'unico tempo che può vivere. Poi vedi
The Wolf of Wall Street, commedia nera e stupefacente senza redenzione, e ti accorgi che è possibile. Navy Seal del cinema, Martin Scorsese si spinge daccapo oltre e questa volta negli angoli
oscuri dove vivono le cose (molto) cattive e dove ingaggia una battaglia ad alto volume con gli
avvoltoi di Wall Street, immorali gangster ma socialmente più accettabili di un gangster.
Jordan Belfort, trader compulsivo impegnato a consumare (letteralmente) il mondo, è in fondo
il fratello di quel bravo ragazzo di Henry Hill (Ray Liotta in Goodfellas), che proprio come lui non è
frutto dell'immaginazione ed è materia prima su cui si edifica il film. Recitato in prima persona
da Leonardo DiCaprio, imperiale nella performance e imperioso nel film, The Wolf of Wall Street
afferra in piena e frontale autarchia un personaggio incontinente e talmente brillante che non
smette di rilanciare e sperimentare i suoi limiti. Alla maniera del suo 'eroe' le immagini di Scorsese, brillanti e smaniose, sature e vuote, si rigenerano con la costanza di un moto perpetuo, svolgendo l'oscenità bestiale del mondo della finanza e proseguendo la sua analisi antropologica
sull'avidità attraverso l'economia americana. Scrupoloso studioso di ambienti, di cui L'età dell'innocenza è il vertice incomparabile, Scorsese introduce in un'ouverture rapida e vorticosa l'universo
degli operatori finanziari, un regno delirante e fuori controllo che fa fortuna a colpi di bluff e di
transizioni più o meno legali, che pratica il piacere e il cinismo dentro un programma quotidiano
di feste decadenti popolate da spogliarelliste, puttane, nani volanti e bestie da fiera.
Pagina 203
Youth
Un film di Paolo Sorrentino. Con Michael Caine,
Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda.
Drammatico, durata 118 min. - Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna 2015.
Fred e Mick sono due amici da moltissimo tempo e ora, ottantenni, stanno trascorrendo un periodo di vacanza in un
hotel nelle Alpi svizzere. Fred, compositore e direttore d'orchestra famoso, non ha alcuna intenzione di tornare a dirigere un'orchestra anche se a chiederglielo fosse la regina Elisabetta d'Inghilterra. Mick, regista di altrettanta notorietà e fama, sta invece lavorando al suo nuovo e presumibilmente
ultimo film per il quale vuole come protagonista la vecchia
amica e star internazionale Brenda Morel. Entrambi hanno una forte consapevolezza del tempo
che sta passando in modo inesorabile.
Paolo Sorrentino era atteso al varco con questo film che arriva dopo l'Oscar de La grande bellezza
e la sua estetica così personale tanto da aver diviso critica e pubblico in estimatori e detrattori
molto decisi. Per di più il regista tornava in competizione a Cannes dove solo due anni fa la giuria non aveva degnato del benché minimo riconoscimento il film ricoperto successivamente da
molteplici allori. Il rischio maggiore però, che era più che lecito paventare da parte di chi amava
il suo cinema ma non era impazzito di gioia dinanzi al suo ultimo lavoro, era quello di ritrovare
un Sorrentino ormai divenuto manierista di se stesso. Il trailer del film seminava più di un indizio in tal senso ma, fortunatamente, i trailer non sono i film. Perché il Sorrentino regista è tornato a confrontarsi con il Sorrentino sceneggiatore. Se entrambi avevano deciso di convivere senza
intralciare il lavoro dell'altro dando così luogo a ridondanze e compiacimenti oltremisura, in
questa occasione l'uno non ha concesso all'altro (e viceversa) più di quanto fosse giusto concedergli. Ne è nato così un film compatto a cui non nuocciono neppure le molteplici sottolineature del finale. Perché questa volta il modello di Sorrentino torna ad essere se stesso, senza più o
meno consci confronti con i maestri che, anche quando citati, vengono metabolizzati nel suo
universo creativo. Non mancano anche qui personaggi più o meno misteriosi che appaiono e
scompaiono e a cui ora è comunque lo spettatore a poter assegnare la valenza simbolica che preferisce. Perché Fred e Mick sono persone che sono state personaggi nella loro vita ma che su
questo schermo tornano a presentarsi come persone. Con le loro angosce, con le loro attese,
con i loro segreti e, soprattutto, con la consapevolezza di una memoria destinata a perdersi nel
tempo come le lacrime del Roy Batty bladerunneriano.
Sorrentino non ne fa due vecchie glorie più o meno coscienti delle proprie attuali forze fisiche e
intellettuali ma offre loro anche i ruoli di genitori che conoscono luci ed ombre di un'arte altrettanto difficile: quella che i figli pretendono che venga esercitata nei loro confronti, non importa
in quale età essi si trovino. In tutto ciò, ci si può chiedere, che ruolo viene assegnato alla giovinezza del titolo? Quello di specchio riflettente (e deformante al contempo) di passioni, desideri,
fragilità. Su tutto questo e su molto altro ancora Sorrentino torna a trovare la profondità, la leggerezza ma anche la concentrazione che permettono al film di levitare. Chi lo vedrà capirà il senso del verbo.
Pagina 204
Zorba il greco
Un film di Michael Cacoyannis. Con Irene Papas,
Anthony Quinn, Lila Kedrova, Alan Bates, Georges Foundas
Titolo originale Zorba the Greek.
Drammatico, b/n durata 146 min. - Grecia 1964.
Basil, scrittore inglese, si reca a Creta dove ha ereditato una
miniera in disuso. Stringe amicizia con Zorba, un greco dai
mille mestieri. Arrivati sul posto, Zorba si lega a Hortensia,
ex ballerina francese, mentre Basil è attratto da una giovane
vedova a cui aspirano anche i maschi locali. Il tentativo di
rimettere in funzione la miniera si risolve in un fallimento,
mentre le due storie d'amore finiscono in dramma. Ma la vitalità di Zorba è trascinante e inesauribile.
Un film non troppo amato dalla critica, anche se i riconoscimenti sono piovuti lo stesso. Distribuito anche male, pur anche se il titolo è rimasto nell'immaginario cinematografico e non solo,
parlando della musica. Vedendolo diciamo subito che la cosa che più lo penalizza è l'impianto
teatrale e non per niente fu portato con successo in teatro dallo stesso Quinn, che poi era anche
produttore.
Tornando al film la storia conta, ma più che altro rimane in mente l'interpretazione degli attori,
che donano ai loro personaggi davvero l'anima, che arriva fino a noi; il popolo è un coro greco
che si aggancia alle tragedie greche. Il personaggio di Zorba strabilia per la sua vitalità virile e
umana ed è quello che affascina di più, naturalmente, ma non si possono escludere gli altri, dato
che ognuno ha una sua peculiarità nella storia. La musica completa alla perfezione l'operazione e
pur avendo una vita sua, ha qui una funzione narrante che affascina.