Il capo degli studenti di Oxford si dimette: “Qui è

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Il capo degli studenti di Oxford si dimette: “Qui è
ANNO XXI NUMERO 41 - PAG 2
Millennial
L’exploit di Kendrick Lamar ai
Grammy era tutto per gli attivisti
depressi del Black Lives Matter
C
i sono due notizie che
non si toccano ma in
qualche modo si parlano.
Una è la performance di
DI
MATTIA FERRARESI
Kendrick Lamar ai Grammy Award,
l’altra è la depressione che serpeggia fra
gli attivisti di Black Lives Matter. Un
paio di giorni sono pochi per dichiarare
ingressi e uscite nella storia, ma non è
impossibile che lo show del rapper che
ha traghettato il genere in una nuova
generazione diventi una specie di punto
di riferimento a venire. Si ricorderà
sospirando quella volta in cui Kendrick
Lamar si è presentato sul palco in
catene, con i suoi ragazzi di Compton
incatenati anche loro, tutti erano vestiti
da carcerati e i musicisti suonavano
dietro le sbarre, non rimarrà nella
memoria come la notte in cui Rihanna
aveva mal di gola, Nicki Minaj non aveva
voglia e Kanye West era perso nella sua
megalomania. E nemmeno come quella
volta in cui Taylor Swift ha mostrato il
suo corpo eccelso in un abito eccelso,
perché lo fa sempre. Serata storica
oppure no, rimane il fatto che Lamar ha
messo sul palco un’esibizione di potenza
straordinaria, tutto un grido politico e di
denuncia, un’iperbole di disagio razziale
e diritti civili in cui era impossibile non
rimanere trafitti. C’era il cuore ferito di
Lamar su quel palco. Lui è così.
Intelligente, tagliente. Alcuni addirittura
lo considerano troppo secchione,
profondo, troppo legato alla causa
sociale. O meglio: quando fa la pubblicità
delle scarpe è un automa corporate come
tutti, si capisce, ma artisticamente è
quello che canta “The Blacker the
Berry” ai Grammy, punto di riferimento
di una generazione nera che vive il
“nuovo Jim Crow”, come dice Michelle
Alexander, la discriminazione fatta con
perquisizioni arbitrarie e incarcerazioni
preventive. E’ inevitabile accoppiare il
kendrickismo supremo alla storia di
MarShawn McCarrel, raccontata bene dal
Washington Post. McCarrel era un
ragazzo di 23 anni che si era
profondamente coinvolto con il
movimento Black Lives Matter,
diventando un punto di riferimento per
gli attivisti dell’Ohio. McCarrel si è
ucciso e l’episodio, approfondisce il
Washington Post, racconta in realtà di un
fenomeno più allargato all’interno del
movimento di protesta. Ansia, paura,
violenza, aggressioni e depressione si
ritrovano con una certa frequenza
nell’ambiente della protesta
afroamericana, specialmente fra i più
giovani. Uno degli intervistati, Jonathan
Butler, è il ragazzo che ha protestato
contro il rettore della sua università, nel
Missouri, perché non aveva preso le
difese dei manifestanti a Ferguson. Il
rettore si è infine dimesso. Butler dice
che da anni combatte la depressione e
gli istinti suicidi non sono del tutto
estranei. Certo, la paura di essere
arrestato, picchiato, umiliato,
discriminato, violato nella sua dignità o
addirittura ucciso dalla polizia non lo fa
vivere tranquillo, ma c’è anche dell’altro.
Ad esempio la pressione. L’aspettativa
che hanno gli altri, l’inanità degli sforzi,
la paura di non essere all’altezza del
momento, della storia, di chi ha fatto la
storia prima di te, di non meritarsi la
fiducia di chi ti ha messo nelle mani un
tesoro prezioso, il divario fra il mondo
immaginato e quello percepito. Anche
senza un poliziotto che mette le manette,
la vita può diventare una prigione, come
quella dentro la quale cantano Kendrick
Lamar e i suoi compagni di Compton.
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Ho lodato in passato il merito dei librai antiquari che resistono
a curare e spedire i loro cataloghi a
stampa, e più il tempo passa, più il loro merito cresce. La rete è una concorrente esorbitante, per lo più curata come una discarica, benché in alcuni casi bellissima ed efficace. Ogni volta
che ho di nuovo in mano un catalogo
stampato e arrivato per posta ho l’impressione che i suoi autori resistano
per sé e per i propri interlocutori affezionati più che per senso degli affari. Ieri è arrivato il catalogo della libreria Docet bolognese, e nella sezione di apertura, quella della “Scelta di
libri antichi e di pregio”, il primo titolo, per pura ragione di ordine alfabetico, è quello di “ALBONESI, Teseo
Ambrogio degli”. Si tratta della “Introductio ad Chaldaeam lingua, Syriacam, atque Armenicam & decem alias
linguas”, stampata a Pavia, per i tipi di
Giovanni Maria Simonetta, nel 1539. A
proposito delle cose che finiscono, e
che finendo resistono.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 18 FEBBRAIO 2016
I TRE FILONI DEL FESTIVAL: MIGRANTI, GAY E SCRITTORI
E’ il giorno dei film che tirano giù dagli scaffali i grandi della letteratura
S
cavallata la metà del festival, appare
chiaro che i film della Berlinale si dividono in tre filoni. Primo, i migranti, con in
testa il sopravvalutato – e quindi a rischio
BERLINALE 2016 - DI MARIAROSA MANCUSO
premio – “Fuocoammare” di Gianfranco
Rosi. Secondo: i film e i documentari che
un tempo chiamavamo “gay” (ora dovremmo abituarci a dire Lgbtq): storie, spesso a
triste fine, di attivisti e artisti. Quest’anno
si poteva scegliere tra “Mapplethorpe:
Look at the Pictures” o “Uncle Howard”, vita del regista Howard Brookner che girò
“Burroughs: The Movie” (dedicato, va da sé,
allo scrittore più paranoico e sballato della beat generation). Si contenderanno, assieme a molti altri, il Teddy Award, orsetto gay – ma forse ormai transgender – che
da trent’anni premia le pellicole bizzarre
in materia di sesso.
Terzo filone, i film che tirano giù dagli
scaffali i grandi della letteratura. Emily
Dickinson, per esempio: la scrittrice di
Amherst che visse molti anni ritirata nella
sua stanza, sempre di bianco vestita: nonostante le assidue cure e i tentativi di annessione delle femministe resta un poeta di
prima grandezza. Terence Davies le ha dedicato “A Quiet Passion”: due ore fitte di
chiacchiere in controtendenza con il personaggio, che qui spara battute come se fossimo in una commedia sofisticata hollywoodiana (eravamo invece a metà dell’Ottocento, come ricordano le orrende parrucche e
basette, mentre immagini di rara bruttezza
mostrano i soldati durante la Guerra di Secessione). La povera Miss Dickinson lascia
il collegio, battibecca con la sorella, chiede
al genitore la licenza di scrivere nottetempo. Accordata. Sciaguratamente, il tono del
regista britannico, al suo primo film ame-
ricano, sembra raccontare la vita di Jane
Austen nella canonica.
Spike Lee si ispira nientedimeno che a
Lisistrata per il suo “Chi-raq”. Aristofane
è molto bianco e molto morto (per gli standard di un afroamericano fiero di esserlo),
ma lo sciopero del sesso funziona anche
per fermare la guerra tra le gang rivali. “No
peace no piece”, si legge sul manifesto (meglio di “No peace no pussy”, come lo abbiamo visto banalmente trascritto). Non si fa
mancare il coro greco, e manco a dirlo
black – Samuel L. Jackson vestito di lamé
dorato o di rosa confetto, che come quasi
tutti va avanti a rime hip-hop. E ricorda il
giovanissimo Ice Cube, che in “Straight
Outta Compton” di F. Gary Gray scrive i
suoi versi sul quaderno di scuola.
Vincent Perez adatta il romanzo di Hans
Fallada “Nessuno muore solo”. James
Schamus (produttore di “Ritorno a Broke-
back Mountain” e sceneggiatore di “La tigre e il dragone”) adatta “Indignazione” di
Philip Roth: lo si potrebbe ribattezzare
“Tanto rumore per un pompino” (poteva
succedere, siamo nell’Ohio del 1951, non
nel college dove ha studiato Lena Dunham
di “Girls”). Wayne Wang adatta (con lentezza nipponica) il racconto di Javier Marias,
“While the women are sleeping”.
Niente di memorabile, purtroppo. Come
poteva uscir meglio “Genius” di Michael
Grandage, sul geniale editor Max Perkins
che correggeva con la matita rossa Ernest
Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, e
Thomas – non Tom – Wolfe. Sullo schermo,
l’editor che edita è anche meno spettacolare dello scrittore che scrive. Per questo Jude Law (Wolfe) e Colin Firth (Perkins) parlano, parlano, parlano. E recitano sopra le
righe: avrebbero bisogno di un regista severo come un bravo editor.
“UNA PAR TE DELLA SINISTRA HA UN PROBLEMA CON GLI EBREI”
Il capo degli studenti di Oxford si dimette: “Qui è pieno di antisemiti”
Roma. Alex Chalmers è un brillante studente di storia di vent’anni all’Università
di Oxford. E’ anche il presidente dell’Associazione studentesca laburista che esiste
dal 1919, la più influente, quella da cui ha
lanciato la sua carriera politica Ed Miliband, la stessa confraternita che nelle
scorse settimane ha cercato di abbattere la
statua di Cecil Rhodes con l’accusa di “razzismo”. Due giorni fa, Chalmers, che ebreo
non è, si è dimesso con un gesto plateale
di protesta contro quella che ha denunciato come una università piena di antisemiti. E dopo che la sua stessa associazione ha
approvato la “Israel Apartheid Week”.
Chalmers ha detto che “gran parte” dei
membri della “sinistra” in facoltà ha “un
qualche tipo di problema con gli ebrei” e
sfoggia “tendenze intolleranti”. Secondo lo
studente, a Oxford si “molestano gli studenti ebrei” e si “invitano oratori antisemiti”. Ha paragonato questi gruppi di professori e studenti al Ku Klux Klan. “Nonostante l’impegno dichiarato per la liberazione, gli atteggiamenti di alcuni membri
del club verso le minoranze stanno diventando avvelenati”, ha detto Chalmers.
“Spero che la mia decisione in qualche
modo faccia conoscere l’antisemitismo che
è passato inosservato da troppo tempo a
Oxford”. Intanto la sua decisione ha spinto il parlamentare laburista John Mann a
chiedere al suo partito di tagliare ogni legame con l’associazione studentesca. Nelle università di Londra si respira un’aria
di sospetto e intimidazione. Capita che la
Southampton University, una delle più
prestigiose università pubbliche del Regno Unito, organizzi un convegno internazionale in cui a essere in discussione non
è la politica di Israele, ma il suo “diritto all’esistenza”. Capita che la Queen Mary Students’ Union si gemelli con l’Università di
Gaza, che non è una generosa scuola dove
il popolo palestinese si alfabetizza, ma una
delle centrali di Hamas, politiche e logistiche, nella guerra allo stato ebraico. Capita che Marsha Levine, accademica dell’Università di Cambridge esperta in storia
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
Fra tutti i commenti e le
cronache apparse ieri sui
giornali a proposito della agitata seduta del Senato quello
di Mattia Feltri sulla Stampa contiene in
una immagine la possibile morale della
favola. L’immagine è quella dell’andatura euforicamente saltellante del senatore Gaetano Quagliariello, canguro trionfante su quello governativo, abbattuto da
furbi tatticismi leghisti e pentastellati,
sostenuti dall’abile impasto oratorio di
moroteismo e radicalismo del senatore
che non a caso si è fatto un partito in cui
sta più o meno da solo ma lo ha chiamato “Idea”. E l’idea ha funzionato perché
del cavallo, respinga una semplice richiesta di informazioni da parte di una studentessa israeliana spiegando il suo rifiuto come parte del boicottaggio di Israele. “Risponderò alle tue domande quando ci sarà
pace e giustizia per i palestinesi in Palestina”, ha detto Marsha Levine, che ha rincarato dicendo: “Gli ebrei si sono trasformati in mostri, sono diventati i nazisti”.
“Dobbiamo muoverci in gruppo perché
girare da soli all’interno del campus sta
diventando pericoloso”, denuncia Moselle
Paz Solis, a capo della Jewish Society, il
gruppo degli iscritti ebrei. Di recente, l’ex
il punto vero della questione non sta nel
“tradimento” del Movimento cinque stelle, prevedibilissimo, ma nell’egemonia
parlamentare di un’area, che è presente
sia nel Partito democratico sia nella diaspora del centrodestra, sensibile ai richiami della chiesa per abitudini antiche o più recentemente acquisite. Dall’altra parte, diciamo così, si è sbriciolato, insieme alla Prima Repubblica, il
fronte dei piccoli, ma in casi del genere
decisivi, partiti laici, ridotti a simulacri
non solo dal centrodestra ma anche e soprattutto dal Pd. Renzi ora può forse utilmente riflettere su quanto e perché Loris Fortuna rappresentasse qualcosa di
politicamente diverso da Monica Cirinnà.
parlamentare e agitatore George Galloway
si era rifiutato di dibattere in pubblico a
Oxford con uno studente, Eylon AslanLevy, quando aveva scoperto che aveva il
passaporto israeliano. Dal campus di
Oxford arrivano ogni giorno denunce di
antisemitismo: gruppi di studenti che cantano “Razzi su Tel Aviv”, studenti che
chiedono ai loro compagni di studi ebrei
di denunciare pubblicamente il sionismo
e lo stato di Israele, studenti che usano l’epiteto “Zio” (una parola che normalmente si trova sui siti web neonazisti).
Qualche settimana fa, la polizia inglese
è dovuta intervenire al King’s College di
Londra dopo che uno studente pro Israele è stato picchiato da manifestanti. Ospite d’onore Ami Ayalon, attivista per la pace ed ex capo dei servizi segreti israeliani.
E’ finita con lanci di sedie, finestre fracassate e allarmi antincendio disattivati. L’incontro è stato sospeso e l’edificio evacuato. Ieri, l’ambasciata israeliana a Londra
ha diffuso un comunicato che suonava più
come un epitaffio: “Siamo costernati per
l’antisemitismo, l’intimidazione di studenti ebrei e il sostegno al terrorismo contro
Israele a Oxford. Non ci si aspetterebbe
tale attività vergognosa da nessuna persona moralmente decente né in una delle
più prestigiose università del mondo”. Ci
voleva uno studente al secondo anno per
denunciare la saccenza e la violenza di
prof. e universitari.
Giulio Meotti
L A “ C U L T U R E W A R ” P E R T E N E R E A D I S T A N Z A L’ A T T I V I S M O G I U D I Z I A R I O
La crociata di Scalia per salvare la Costituzione dalle manipolazioni liberal
PERCHÉ GLI ORIGINALISTI SONO SPESSO (MA NON SEMPRE) CONSERVATORI? INTERVISTA AL POLITOLOGO KEITH WHITTINGTON
New York. Si è detto, naturalmente, che
Antonin Scalia era un conservatore. Si è detto anche, altrettanto naturalmente, che era
un originalista, cioè propendeva per interpretare la Costituzione così com’era stata intesa dagli uomini che l’hanno scritta. L’esegesi testualista del famoso documento “morto, morto, morto”. Alcuni sostengono che il
giudice larger-than-life da poco scomparso
era un originalista e un conservatore, aggettivi separati e indipendenti; altri, aggiungendo un pizzico di veleno, dicono che era
originalista in quanto conservatore, e il ritorno al testo non era che il modo più sicuro per giustificare costituzionalmente la sua
“culture war” e per tenere a distanza l’attivismo giudiziario di chi faceva e fa una guerra culturale uguale e contraria (non vanno
mai dimenticate le gesta della “Warren
Court”, guidata dal liberal Earl Warren, che
negli anni Cinquanta e Sessanta s’intestò
una campagna politica in toga senza precedenti). Scalia era talmente avverso alle invasioni di campo dei giudici che stava dalla
parte di quel tale secondo cui il presidente
non deve necessariamente sottostare a una
decisione della corte, ma può in certi casi
scavalcarla o aggirarla. E quel tale era
Abraham Lincoln. I due aggettivi applicati a
Scalia – conservatore e originalista – si sono avvicinati a tal punto da diventare sinonimi, e sebbene esistano alcuni giuristi di
simpatie liberal che hanno aderito alla
scuola interpretativa che il pittoresco togato ha sdoganato anche nella cultura popolare, in primis Hugo Black, gli originalisti sono di solito conservatori. Un testo vivente e
cangiante, esposto al “respiro del mondo”,
quello che per il cardinale Newman arrugginiva l’anima, può essere modellato per abbracciare il progresso e le sue passeggere
manifestazioni. Uno morto e sepolto non abbraccia alcunché.
Che non sia una disputa oziosa per specialisti è scritto nel fatto che la Corte suprema ha deciso e deciderà questioni cruciali
del vivere civile: la vita e le sue manipolazioni, la regolamentazione degli affetti e
del matrimonio, il sistema sanitario, la libertà religiosa, la protezione delle minoranze etniche, i finanziamenti delle campagne elettorali, la moltiplicazione dei diritti. La lista è lunga. La scuola interpretativa a cui aderiscono i giudici è questione
gravida di conseguenze, così come lo è il fatto che Barack
Obama difficilmente nominerà un togato di
persuasione originalista o testualista al posto di Scalia. Perché,
esattamente, l’originalismo tenda a star
bene addosso ai conservatori è questione
su cui Keith Whittington ha lavorato a lungo.
Professore della facoltà
di scienze politiche a
Princeton, Whittington studia il rapporto fra politica e
magistratura, e al Foglio
spiega che negli anni Sessanta
i giuristi liberal si sono appellati a una manipolabile “filosofia morale” come chiave
interpretativa della dettato costituzionale.
“L’originalismo si è sviluppato negli anni
Settanta e Ottanta per criticare quello che
la Warren Court aveva fatto in precedenza.
La storia ci dice che molte delle decisioni
di quella corte non erano fondate nelle fonti legali tradizionali. La filosofia è diventata una base alternativa alla storia per legittimare le sentenze della corte”, spiega
Whittington.
C’è poi la questione del diritto naturale.
La concezione – “intent”, dicono gli originalisti – dei Padri fondatori era informata
dal diritto naturale, il testo porta le tracce
di una mentalità in cui l’oggettività della
natura, non solo la volontà o il desiderio,
ha un valore normativo. Per osservare che
nella Costituzione, originalisticamente intesa, non c’è il diritto all’aborto non è necessario essere conservatori. Basta saper
leggere. Dice Whittington: “Trovo che per i
conservatori la visione costituzionale dei
fondatori sia attraente, e questa visione
ha anche a che fare con le
teorie del diritto naturale. Ma sono le idee
costituzionaliste del
Ventesimo
secolo
che hanno cambiato
lo scenario per i liberal”. In che modo?
“Innanzitutto – prosegue Whittington – l’idea della Costituzione
vivente era congeniale
ai liberal perché permetteva di abbandonare
i limiti tradizionali della
Costituzione sul potere dello
stato sviluppate nel secolo precedente”. Significa che la linea di demarcazione del potere dello stato sugli individui
e la società è spostata o resa più sfocata, cosa che s’accorda bene con la mentalità statalista del New Deal e della Great Society.
La Costituzione ha cessato allora di essere
un argine insuperabile.
In concomitanza con la rivoluzione sessuale, poi, “l’idea della Costituzione vivente è stata usata per giustificare il riconoscimento di nuovi diritti e per allineare la legge con nuovi movimenti sociali”. Allineare
la legge con nuovi movimenti sociali doveva
essere una specie d’inferno giuridico per
uno come Scalia: il testo, autorità suprema
e mummificata in cui traluce perfino il divino, improvvisamente si muove, si contorce,
si piega adeguandosi al contesto mentale, si
fa ancella della cultura dominante. Per
questo Scalia ha condotto, con il linguaggio
e l’arguzia che sappiamo, una crociata permanente contro l’attivismo giudiziario: “Un
sistema di governo che subordina il popolo
a una commissione di nove giuristi non eletti non merita di essere chiamata una democrazia”, diceva. Molti che oggi, da posizioni
lontane, piangono sincere lacrime per la
sua morte e intonano inni all’influenza delle sue teorie giuridiche, si sono battuti furiosamente perché quelle teorie diventassero irrilevanti, superate e archiviate dal
progresso. Continua il professore di Princeton: “Certamente Scalia non voleva che i
giudici bloccassero decisioni prese da legislatori eletti, a meno che questi giudici non
avessero un’adeguata base costituzionale
per farlo. Era preoccupato che i grandi
cambiamenti giudiziari degli anni Sessanta e Settanta fossero usati per sostenere una
particolare agenda politica, senza alcun
fondamento nella Costituzione”. Scalia, insomma, temeva che il potere giudiziario
cessasse di essere “il più debole” o “il prossimo al nulla”, come si esprimevano alternativamente alcuni dei fondatori: “Il potere
giudiziario americano è chiaramente più
potente e influente ora di quanto avessero
immaginato i padri fondatori. I giudici hanno sviluppato più forza e più mezzi di quelli che Alexander Hamilton avrebbe potuto
pensare. Ma ci sono ancora limiti a quello
che la corte può fare, e Hamilton sembra
abbia ancora ragione nel suo punto fondamentale, cioè che i giudici non hanno il controllo delle armi politiche che possono essere più pericolose per i cittadini”.
Mattia Ferraresi
DIVAGAZIONI SU UN’INTER VISTA DEL MISTER SPALLETTI
L’arte di autorottamarsi spiegata (coi fatti) da Totti a Grillo e soci
L
a rottamazione migliore è quella che il
saggio pratica su di sé, prima che sia tardi, prima di subire l’onta del tradimento, la
brutalità della congiura, l’abbandono dei paDI
ALESSANDRO GIULI
vidi e la viltà degli indifferenti; ovvero, semplicemente, la condanna cieca del tempo che
non conosce pensa per l’obsolescenza e, quel
che è più oltraggioso, la pelosa vicinanza delle anime compassionevoli.
A Francesco Totti non è richiesto di ben
conoscere la storia antica della sua città: Furio Camillo, Scipione Africano, Cesare stesso… vicende di condottieri freschi di trionfi
ma presto rottamati da Roma in nome di
un’impersonalità implacabile, per lo meno
finché la decadenza non s’impadronì dell’Urbe. Ma esistono senz’altro esempi più modesti e meglio calibrati al caso nostro, e che tuttavia non vengono in mente così su due pie-
di; mentre trabocca, sopra tutto in politica,
l’inventario di chi non ci sa stare, non se ne
fa una ragione. Sulla Stampa di ieri, per dire, si almanaccava ancora sulle responsabilità della caduta di Enrico Letta, sul fatto che
sarebbero stati i piccoli pretoriani del dalemismo (rito bersaniano) a cedere sotto la
pressione di Matteo Renzi e affondare il pugnale nel collo di Letta Jr. Poco lungimiranti, peraltro, parlandone da vivi.
Ecco, al riguardo invece Totti è un modello da studiare. L’intervista con la quale il suo
(?) allenatore Luciano Spalletti l’ha musealizzato definitivamente, alla vigilia di RomaReal Madrid, è suonata di certo più urticante
alle orecchie nostre che non a quelle del (fu)
Capitano. “Se è difficile tenerlo in panchina?
Io alleno la Roma, non solo Totti. Il mio obiettivo primario sono i risultati, e scelgo in funzione di questi, non in funzione della storia di
un giocatore. Come è la mia relazione col Ca-
pitano? Dal mio punto di vista, perfetta”. E come no… Continua Spalletti: “Francesco è un
giocatore che illumina la fase offensiva, ma dipende anche dal rivale se puoi utilizzare le
sue qualità, rinunciando a quelle che non può
darti. Può metterti un pallone perfetto, ma se
la squadra deve pressare per lui è più difficile… in questo momento la Roma non può, non
è capace”. Pietra tombale: “Se Totti lo capisce? Non lo so, io faccio il mio lavoro. Rispetto moltissimo la sua storia e la sua qualità, ma
io ho bisogno di risultati”. Altroché se capisce,
lui, dal 2005-2009 ha avuto più di quattro anni
per capire che con uno come Spalletti non c’era più trippa per Totti. E nel frattempo il Capitano s’è fatto grande, grandissimo, tanto da
diventare vecchio per giocare ancora. Ma essendo sveglio, e ben consigliato, s’è apparecchiato un futuro sereno e un presente da uomo di spettacolo: è uscito di scena gradualmente, senza botti e rumori, cedendo lo scet-
tro di una leadership immaginifica (non quella dello spogliatoio, mai appartenuta a lui fino in fondo) a colui che più gli somiglia e lo
rispetta, cioè Daniele De Rossi, e salvando
per sé l’allure del marchio indelebile che rappresenta. Totti le pubblicità cool, la beneficenza, i libri di barzellette, i sorrisi nei posti
giusti e i figli con la donna perfetta. Che altro? Gesto perfetto, il farsi da parte al momento indicato, segno d’intelligenza rara. E il tramonto di Totti è un’opera d’arte incoronata da
Cristiano Ronaldo in giù. E’ l’arte di autorottamarsi che rende sciroppose le rasoiate di
Spalletti, come a dire: che me frega, io so’ Totti. Se Beppe Grillo serbasse la metà di questo
senso scenico, avrebbe già da mo’ chiuso il suo
circo a cinque stelle, invece di trapiantarlo in
platea per i suoi spettacoli imbolsiti. E se anche Silvio Berlusconi avesse… no, meglio di
no, il Cav. ci ha provato una volta e dalla sua
tela è uscito Alfano.
Stand up, start up
Fare business con un mix di
innovazione, divertimento e tanta
scuola. Parla De Nadai (OneDay)
U
n po’ irriverente come Richard Branson, “perché in
ogni mercato ha rotto le regole
del gioco”, un po’ electro hip
pop come il duo californiano
DI
ELENA BONANNI
Lmfao, “perché la loro OneDay è la nostra
canzone, è il nostro modo di intendere la vita”. Paolo De Nadai, padovano, 27 anni e
una laurea in Economia aziendale, ha fatto del mix tra innovazione e divertimento
la chiave di volta di un business che in sei
anni ha quasi raggiunto il traguardo dei
dieci milioni di euro di fatturato – con una
crescita media annua del 40 per cento, senza finanziamenti di terzi e investitori ma
grazie ai clienti – e che sta facendo lavorare settanta giovani (l’età media è 28 anni),
di cui il 90 per cento assunti a tempo indeterminato. E’ lui la mente dietro ScuolaZoo, nato nel 2007 come blog su cui caricare foto e video di denuncia sulla mala istruzione italiana e poi diventato un brand che
macina idee: un portale per gli studenti,
una società di viaggi evento per i giovani,
un tour operator per community, un’agenzia di comunicazione e uno spazio di
coworking. “Ogni cosa che facciamo ha due
anime: la scuola, cioè fare le cose al meglio
possibile, più lo zoo, ossia farle in modo divertente che rompe gli schemi”, dice De
Nadai, che ha già sperimentato il passaggio
nei salotti televisivi dopo aver inviato nel
2007 a Studio Aperto un video denuncia su
un suo professore che dormiva durante gli
esami di maturità. Oggi su ScuolaZoo.com
gravitano 2,5 milioni di visitatori unici al
mese. “Sul sito, un milione di utenti è attivo tutti i giorni: ci sono 7 milioni di giovani in Italia, significa che uno su sette parla con noi”, fa notare De Nadai, parlantina
brillante e forte attitudine ai numeri.
Nel 2001 è volato a Parigi alle finali delle Olimpiadi della matematica nella delegazione italiana. ScuolaZoo è di fatto un osservatorio sui millennial, un laboratorio sociologico in movimento che riflette bisogni,
desideri e idee di una generazione. E che
oggi diventa a sua volta incubatore con la
creazione della holding “OneDay” che,
spiega De Nadai, “nasce per darci una
struttura più solida e per mettere a disposizione di altri ragazzi in gamba un supporto e una struttura, dagli uffici alla gestione
della contabilità”. Nel perimetro è già finita la start-up calciatoribrutti.com, fondata
da due studenti universitari per parlare di
calcio in modo irriverente, e Made for
School, di due ex rappresentanti di istituto,
che si occupa di valorizzare l’immagine
delle scuole attraverso il loro rinnovamento a livello di logo, sito e merchandising.
“Molte idee nascono dalla scuola, spesso
dalle esigenze reali. E’ incredibile la qualità e quantità, io sono molto ottimista sul
futuro”, dice De Nadai, che è anche membro del board dell’associazione Italia Startup. Non mancano le difficoltà, a partire
dal reclutamento dei talenti. “E’ sempre
più difficile capire nel mondo attuale se
uno è in gamba, soprattutto nel tempo di un
colloquio. Per questo abbiamo creato la job
marathon, 48 ore sul modello delle
hackathon ma con in più la formazione: nel
primo giorno forniamo ai ragazzi gli strumenti per capire le proprie qualità, nel secondo li facciamo lavorare”. Ci sono poi gli
ostacoli legati alla complessità normativa.
“Quando abbiamo lanciato il tour operator
potevamo operare in Lombardia ma non in
Veneto, perché lì la normativa locale obbligava ad avere una vetrina su strada. Ma noi
siamo una realtà digitale”, racconta De Nadai che, cresciuto con gli insegnamenti dei
gesuiti e degli scout, sta reinvestendo tutti
i profitti del gruppo (di cui è azionista di
maggioranza) puntando sull’Italia. “Molti
guardano subito all’estero per crescere –
osserva – ma io penso ci siano ancora moltissimi margini in Italia per crescere, Milano oggi è una piazza ottima per il mondo
del lavoro”. Tra le imprese italiane, guarda a Luxottica per la gestione delle risorse umane e i benefit ma vuole essere un imprenditore alla Richard Branson. “E’ il mio
idolo, perché ogni mercato che ha aggredito lo ha fatto rompendo le regole del gioco
e diventando leader. L’idea di OneDay è il
modello Virgin”.
PREGHIERA
di Camillo Langone
“Vile maschio dove
vai?”. Mi sovviene una
vecchia canzone di Rino Gaetano leggendo delle nomine neomatriarcali in
Rai (Campo Dall’Orto è sordo alla parola di Cristo e non sa che “il Creatore da
principio li creò maschio e femmina”).
I nomi dei nuovi direttori anzi delle
nuove direttrici sono stati annunciati
poco dopo la risposta di Taylor Swift a
Kanye West, volgarissimo rapper che
nella serata dei Grammy Awards non è
stato biasimato in qualità di buzzurro,
come si meritava, bensì in qualità di
maschio, fra gli applausi di tanti uomini appartenenti alla tipologia prefigurata da Nietzsche in “Al di là del bene e
del male”: “Rimbecilliti amici delle
donne”. La guerra contro la virilità è in
pieno svolgimento e nel mio campo non
vedo alcuna volontà di reazione, vedo
soltanto vili maschi bramosi di alzare
bandiera bianca. Che la alzino, che
guardino Rai 2 e Rai 3, che se lo meritino fino in fondo il media dei passivi, la
televisione.
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ESTRATTO BANDO DI GARA - CIG 6470624FD4
A.S.L. Latina, Viale Pierluigi Nervi, Pal. G2, 04100 LT. Oggetto: affidamento
per un biennio, con opzione di rinnovo per un anno del servizio di postalizzazione (presa in carico telematica, stampa, imbustamento recapito e rendicontazione), di comunicazioni periodiche relative a screening per la ASL
di Latina, per una spesa annua stimata in complessive E. 260.000,00+ Iva.
Procedura Aperta. Aggiudicazione: (qualità40 - prezzo 60). Termine ricevimento offerte: 22/03/2016 ora 12.00. Altre informazioni: Gli atti di gara occorrenti sono pubblicati sul sito www.ausl.latina.it. Invio alla G.U.C.E. in data
05.02.2016. Per informazioni tel. 0773 6556471 - Fax 0773 6553361.
IL DIRETTORE UOC ABS
E
PM dott. Salvatore Di Maggio