Paolo Francesco Peloso, Rosalena Guttuso

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Paolo Francesco Peloso, Rosalena Guttuso
Paolo Francesco Peloso, Rosalena Guttuso-Poggi, Panfilo Ciancaglini1
DSM dell'Azienda Sanitaria n. 3 - Genova
Psichiatria di comunità, 3, 1, 2004
Riabilitare il Centro Diurno: problemi, obiettivi e strategie
Rehabilitation in a day-centre: problems, aims and strategies.
Riassunto.
Scopo. L’articolo intende illustrare le attuali problematiche che l’attività riabilitativa presso il Centro Diurno
presenta e proporre al riguardo alcuni obiettivi e le strategie utilizzate per poterli perseguire.
Metodi. I problemi fondamentali identificati sono stati: rapporto tra Centro diurno (CD) e CSM; rapporto tra
domanda e offerta di riabilitazione; ruolo dei pazienti; ruolo dei familiari; riabilitazione psichiatrica e rete
sociale; valutazione dei processi e degli esiti.
Risultati. Per ognuno di essi è stato possibile individuare obiettivi e sperimentare strategie utili a perseguirli.
Conclusioni. Il lavoro al Centro Diurno presenta una marcata necessità di innovazione perché questa risorsa
sia veramente parte di un sistema di salute pubblica, e al riguardo è necessaria la sperimentazione di
soluzioni originali in grado di tener conto delle specificità che il territorio di volta in volta presenta e di
verifica riguardo al loro funzionamento.
Parole chiave: Centro Diurno, riabilitazione, psichiatria di comunità.
Summary
Objectives: Aim of this article is to show the present problems of the rehabilitation in a day-centre and reflects on
connected aims and strategies.
Methods: The main problems are identified in: relations between the rehabilittio day-centre and the outpatient
therapeutic centre in the Mental Health Department; relations between the rehabilitation needs and the
answers of the day-centre; role of the patients; role of the families; relation between psychiatric rehabilitation
and social networks; process and outcome evaluation.
Results:. For each of this problems some aims and the related strategies have been identified.
Conclusions: The work in the Day-Centre needs strong innovations to really play its role in a public health system, and
specific original methods and solutions must be experienced and evaluated.
Key words: Day-centre, rehabilitation, community care
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Il presente contributo rende conto del lavoro e della riflessione svolti con i colleghi Rossella Budicin, Maurizio
Canepa, Marina Caviglia, Mauro Caviglia, Marinella Guglielmi, Rita Toniazzo, Massimo Valeri.
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Quattro anni fa abbiamo avuto l’opportunità di riorganizzare ex novo il Centro Diurno genovese di
via Sestri. I riferimenti per la formulazione del progetto sono stati costituiti:
1. dalla letteratura relativa ai CD (in particolare, AA.VV., 1991; Cocchi e De Isabella, 1999).
2. da alcuni riferimenti culturali da noi condivisi, quali, per diversi aspetti, la tradizione
psicoanalitica della psicoterapia istituzionale, il dibattito intorno alla comunità terapeutica negli
anni '40 e '60, l'organizzazione dei CSM-CD triestini.
3. dalla precedente esperienza dei Centri Diurni maturata dall'interno del CSM e dell'SPDC, che ci
spingeva a trarre un bilancio sostanzialmente negativo del modello rappresentato dai CD degli
anni '80, in gran parte persistente nella nostra regione: filtri e barriere eretti a proteggere dal
sovraffollamento, dalla caoticità e dalla presenza degli aspetti "hard" della psichiatria che
caratterizzano il CSM e il reparto; eccessiva costanza delle équipe e dei (spesso pochi) pazienti,
un'élite che paga il privilegio di evitare scompensi con quello che costituisce una sorta di
"blocco" iatrogeno; insistente riferimento alla "terapia" (lavoro artigianale che diventa sempre
arteterapia, intrattenimento musicale che diventa musicoterapia ecc.); rigidità dei percorsi;
povertà della rete e centralità della struttura (Cocchi e De Isabella, 1999).
4. dall’esigenza di confrontarci con il tema della qualità, e quindi della definizione di nodi
problematici, obiettivi, strategie, indicatori di verifica, imposte dai processi di aziendalizzazione
degli ultimi dieci anni ma anche dalle necessità di maggior chiarezza intorno al proprio operato
avvertita in primo luogo da noi stessi, ma in qualche misura anche dall’utenza e dalle famiglie.
Sono stati così individuati i punti critici e un progetto scritto idoneo ad affrontarli, discusso nei
CSM perché gli operatori disposti a formare l'équipe potessero farlo proprio:
1) rapporto tra Centro diurno (CD) e CSM
2) rapporto tra domanda e offerta di riabilitazione
3) ruolo dei pazienti.
4) ruolo dei familiari.
5) riabilitazione psichiatrica e rete sociale.
6) valutazione dei processi e degli esiti.
1. Centro diurno (CD) e CSM: dalla diffidenza alla partnership.
Il problema.
Il rapporto tra i CD e i CSM, dai quale il più delle volte sono gemmati, è stato spesso caratterizzato
da elementi di sospetto ed eccesso di competizione. Contribuivano a far vivere il CD come luogo
privilegiato il più favorevole rapporto numerico staff/utenti, la possibilità di selezione all'ingresso,
una sostanziale non obbligatorietà della risposta, la maggiore costanza della domanda e conseguente
possibilità di programmazione del lavoro, la meno frequente necessità di confrontarsi con la crisi, la
violenza, la trasgressione grave, il rifiuto delle cure. Tutto ciò contribuiva a farne una sorta di torre
d'avorio dove un numero ristretto di operatori e di pazienti trova rifugio dal caos della realtà del
territorio e dell'imprevedibilità della domanda, ben determinata a difendersi dalla contaminazione e
a perpetuare una cultura spesso permeata di psicanalismo e/o esasperato tecnicismo riabilitativo.
L'obiettivo.
Ci si è posti quindi l’obiettivo di uno sforzo di ricomposizione che partisse da un più adeguato
bilanciamento tra la propria identità di appartenenza al microgruppo dell'équipe del CD e quella di
contemporanea appartenenza alla realtà più complessa, e strutturalmente e culturalmente
eterogenea, del DSM; tra tensioni claustrofiliche e claustrofobiche, nonché da una più evidente
percezione tra i colleghi dell'utilità del CD alla soluzione dei problemi più incombenti sul CSM e
sul reparto (la crisi, la cronicità ecc.).
Le strategie.
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Le leve organizzative idoneee a far sì che davvero, come scriveva Ballerini (1991): “una gestione
tendenzialmente riabilitativa di evoluzioni psicosiche necessiti di strutture e momenti specifici, che
tuttavia devono far parte della organizzazione territoriale della psichiatria e non essere ad essa
contrapposte”, sono state così identificate in:
a) unicità dell'organico: i rischi di scissione che avrebbe potuto comportare l'individuazione di un
gruppo di lavoro autonomo e rigidamente separato da quello del CSM, e quelli di confusione e
disinvestimento insiti nell'ipotesi di rinunciare in toto alla definizione di un gruppo di lavoro
stabile (la semiresidenzialità come compito di tutti e di nessuno in particolare, area di turnazione
burocratica e transito occasionale), sono stati affrontati con l’identificazione di un gruppo
limitato e costante di operatori part-time, appartenente per il resto del proprio tempo a entrambi
i CSM afferenti al CD. In questo modo, gli operatori del CD hanno mantenuto la propria identità
di operatori territoriali, a prezzo di una maggiore necessità di impegno per garantire costanza
dell'intervento e trasmissione dell'informazione.
b) apertura delle porte: sul tema della selezione dell’utenza nei CD esistono pareri contrastanti tra
chi la sconsiglia, pur evidenziando un rischio di autoselezione informale spontanea per pazienti
resi più problematici dalla comorbilità con disturbi di personalità (“disabilità relazionale” di
pazienti e familiari) e problemi di confine (Asioli e Berni, 1991), o pazienti con precedenti
suicidari gravi e famiglie poco accuditive (Galvano e coll., 1991); e chi invece ritiene
indispensabile un “ingresso selettivo e ragionato”, per evitare rischi di afflusso casuale e
spontaneo, di ”invasione” sulla base di pressioni dei familiari o di altri e stanzialità (Pittini,
1991). L’equilibrio tra queste posizioni è stato individuato nell’evitare la definizione di
aprioristici criteri di dentro/fuori (un dentro/fuori che perde significato nella prospettiva
dell’organizzazione dipartimentale), come osserva recentemente Bailly-Salin (2002),
soffermandosi invece, proponenti e riceventi, sulla definizione caso per caso del significato e i
tempi della frequentazione, il cosa fare, gli obiettivi cui tendere, tenendo presenti i rischi di
autoesclusione possibili per garantire, nella corresponsabilità, una distribuzione di risorse
improntata a criteri politico-sanitari di equità. L’abolizione di criteri predefiniti di ingresso ha
determinato un'iniezione di fiducia e di curiosità negli operatori del CSM, che hanno avuto la
sensazione di potersi concretamente appropriare di questa risorsa per la formulazione di progetti
terapeutici complessi. Da ciò un immediato incremento numerico dei pazienti trattati e della
presenza media giornaliera, passata da 9 a 20 - con l'ingresso di utenti "vergini" rispetto ad
esperienze di trattamento semiresidenziale, che ha radicalmente trasformato il clima interno - e
una successiva stabilizzazione spontanea dei numeri su livelli che consideriamo fisiologici per
le dimensioni della popolazione servita (presenza media = 1 ogni 10.000 abitanti),
corrispondenti a quelli stabiliti dal P.O.N. 98-2000. Un’attenzione particolare è stata dedicata ai
pazienti ricoverati in SPDC e soggetti in dimissione dalla residenzialità o dall'OPG.
2. Rapporto tra domanda e offerta di riabilitazione.
Il problema.
In questi quatro anni sono giunte al CD richieste che hanno riguardato persone dai 19 ai 60 anni,
con età media tra i 36 e i 39, in una proporzione maschi/femmine che, pur rimanendo sbilanciata a
favore dei primi, lo è ora in misura minore, con diagnosi rappresentata prevalentemente ma non
esclusivamente in ugual misura da schizofrenia e disturbi psicotici dell'umore. Accanto alla
tradizionale domanda di riabilitazione/risocializzazione per soggetti caratterizzati da sintomatologia
prevalentemente negativa e bassi livelli di autonomia, è emersa e divenuta poi prevalente quella di
una richiesta di contenimento di situazioni di subacuzie, anche protratte nel tempo, e di attenuazione
del carico familiare a seguito o in alternativa al ricovero in SPDC o all'inserimento in strutture
residenziali. L’eterogeneità della domanda ha determinato l'esigenza di individuare un equilibrio tra
i due rischi maggiori per un CD, quello di un iperattivismo non adeguatamente finalizzato e
personalizzato, e quello della caduta nella monotonia e nella noia (Ballerini, 1991).
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L'obiettivo.
L'esigenza di rispondere a questa duplice e per alcuni aspetti contrastante domanda (attivare e
contenere), ci ha spinti a immaginare per il CD contemporaneamente una funzione di luogo e di
snodo - una duplice funzione che sembra riecheggiare il concetto di passaggio dal luogo, che pure
conserva in questo caso la sua importanza, al legame di Bailly-Salin (2002) a proposito del settore,
ma non corrisponde esattamente ad esso perché guarda oltre l’orizzonte della psichiatria - di
percorsi riabilitativi. Luogo cioè del DSM nel quale, in tempi e modi personalizzati, alcuni pazienti
gravi possano trascorre il tempo, alleggerendo la famiglia e ricevendo una risposta professionale.
Ma, contemporaneamente, snodo di percorsi possibili al quale il paziente accede da una pluralità di
strade (dimesso o in dimissione dal SPDC, indirizzato dal CSM, uscito o in uscita dal circuito
residenziale), per intraprenderne altre. Come luogo il CD costituisce uno spazio protetto la cui
specificità rispetto agli altri spazi di vita quotidiana (della famiglia, o del sociale) consiste nella
mobilitazione di risorse professionali utili a mantenere aperta la dialettica tra presa in carico degli
aspetti simbolici e della materialità dell'esistenza (Norcio, 1993), tra eccesso di psicologizzazione e
scotomizzazione delle ricadute emotive del cambiamento (Castelfranchi, 1995), tra dimensione
confidenziale/duale e dimensione gruppale, tra intrattenimento e riabilitazione (Saraceno, 1995) e
quindi tra ipo ed iperstimolazione (il “timing”, altrettanto importante nella riabilitazione che nella
psicoterapia), in un equilibrio mantenuto “artificialmente” corrispondente, in uno spazio definito
come terapeutico, ai bisogni e alla necessità di tolleranza specifici della persona e del gruppo in
quel momento. Come snodo esso si colloca
invece contemporaneamente nel cuore delle
opportunità di riabilitazione del territorio, rispetto alle quali assolve compiti di
ricognizione/promozione e di co-regia in rapporto con gli operatori del CSM e gli altri soggetti
formali ed informali delle pratiche di salute mentale (pazienti, familiari, volontari, altre agenzie di
servizi). Scrive ancora Ballerini (1991): “Un centro non deve tendere a essere autosufficiente
rispetto all’ambiente sociale. Non dovrebbe, credo, costituire un mondo, ma un supporto per
l’esplorazione del mondo circostante”.
Le strategie
a) differenziare le prestazioni: numerose attività, alcune delle quali saranno esaminate in seguito,
sono state proposte in questi anni, alcune poi interrotte per il venir meno della possibilità di
realizzarle o dell'interesse da parte degli utenti. Tra le attività interne agli spazi del CD abbiamo
puntato su una produzione artigianale che si prestasse a essere utilizzata a fini di
autofinanziamento, sull’uso della metodologia dell’autoaiuto, l’ascolto e la produzione di
musica, l’attività di cucina e il pranzo, le pratiche connesse alla cura di sé e dello spazio comune
che hanno rappresentato strumenti indispensabili di coesione del gruppo e assunzione di
responsabilità comuni. Tra le esterne: piscina, spiaggia, palestra, esposizioni di manufatti,
esplorazione di altri CD e realtà attive nel campo della salute mentale, "corsi di formazione alla
qualità della vita" (vedi in seguito) e conseguenti momenti di formazione culturale in
situazione, collaborazione con il mensile del quartiere, passeggiate, gite e soggiorni di più
giornate. Ciascuna di queste opportunità è stata utilizzata da persone diverse, in rapporto alle
proprie possibilità, desideri e necessità, ma il loro numero e la loro eterogeneità hanno fatto sì
che nessuno rimanesse totalmente al palo.
3) Ruolo dei pazienti.
Il problema.
La medicina in generale non costituisce più, oggi, un intervento tecnico sulla malattia da parte di un
professionista della salute (attivo) su un soggetto sofferente (passivo). La situazione si è trasformata
(consenso informato, alleanza terapeutica ecc.) coinvolgendo i diretti interessati; ciò determina
processi di risoggettivazione e restituzione di diritti, ma anche, quand’è possibile, di responsabilità,
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e profonde trasformazioni del contratto di cura e del ruolo professionale. Questi processi investono
la psichiatria e, in modo più significativo, il suo versante più spostato verso la riabilitazione, e
ricollocano il suo paziente - oggi non solo portatore di bisogni ma anche risorsa all’interno del suo
(e altrui) processo di cura - in una posizione che non ne fa solo l’oggetto di decisioni assunte nel
chiuso della stanza “dell’équipe”, ma un interlocutore partecipe e, talora, dialettico.
L'obiettivo.
Il CD, snodo di percorsi riabilitativi sul territorio, è chiamato a fare proprie queste trasformazioni,
arricchendosi con l’assunzione in senso più pieno dei modelli operativi che sono stati all’origine
della cultura della Comunità Terapeutica, con gli elementi di imprescindibile contraddizione e
affermazione/negazione del ruolo che la caratterizzano (Peloso, 1998), e vedere quindi il paziente,
in particolare attraverso i processi connessi all’autoaiuto, concretamente impegnato nella crescita
dell’esperienza collettiva per il tempo che vi partecipa, e spinto a uscirne responsabilizzato.
Le strategie.
a) promuovere la partecipazione: l’assemblea gestionale tra pazienti ed équipe è investita di un
concreto potere di discussione, progettazione e scelta rispetto alle decisioni che riguardano la
vita del gruppo, potere che gradualmente le viene trasferito dalla riunione dell'équipe, che viene
così a ridursi a momento di discussione tecnica delle singole situazioni, coperte tra l’altro dal
diritto alla riservatezza del singolo paziente. Ciò porta i pazienti a superare l'atteggiamento
passivo e "obbediente", al quale la percezione di se stessi in termini di invalidità spesso li
riduce, e costituisce per gli operatori, sempre esposti alla tentazione di “far da soli” per far
prima, una sfida continua che li costringe a ridefinire ogni momento la propria funzione in un
continuo pendolo tra il ruolo di promotore di salute che interroga, stimola, sostiene, e l'erogatore
di salute che distribuisce paternalisticamente le minestrine precotte dei "buoni" comportamenti.
b) autoaiuto: la partenza del nostro lavoro è concisa col radicarsi nella regione, attraverso corsi ai
quali hanno partecipato operatori, pazienti, familiari e volontari, del modello dell’autoaiuto.
Questo vento favorevole ha determinato la nascita di gruppi di autoaiuto tra i pazienti, che
hanno favorito la diffusione dell'abitudine all’ascolto e all'aiuto reciproco, e ha fatto di ciascun
paziente una risorsa in più a disposizione dell’altro e del funzionamento complessivo, anziché
un mero “carico di lavoro” per l’équipe. La cultura dell'autoaiuto ha agevolato l'assunzione di
responsabilità su temi come la pulizia e la cucina, la raccolta e valorizzazione delle proposte di
momenti di socialità, visite a luoghi, iniziative, e incoraggiato la testimonianza diretta dei
pazienti sulla stampa locale portandoli anche a dar vita ad attività di volontariato a favore dei
compagni meno autonomi o di anziani ricoverati in una vicina casa di riposo. Ha inoltre
costretto l’équipe a fare i conti con maggiore attenzione con i rischi connessi al riprodursi, sulla
spinta della stanchezza o di movimenti difensivi, di atteggiamenti di “stigma interno” (Peloso,
2003) - sempre dietro l’angolo anche nei nuovi spazi della psichiatria - dai quali l’identità di
paziente e la “differenza” possano essere inutilmente e inconsapevolmente rinforzati.
c) psicoeducazione: la restituzione di responsabilità e consapevolezza si è tradotta in una insistente
richiesta d'informazione da parte di pazienti e familiari, ai quali l’équipe è stata costretta a
rispondere dotandosi di efficaci strumenti e definendo momenti di psicoeducazione strutturata.
d) il gruppo dei pazienti: l'incremento del numero, del turn-over e della presenza media non ha
impedito il formarsi di un nucleo centrale di pazienti coeso al suo interno e con lo staff, ormai
abituato a "porte aperte" e continue proposte di contaminazione. Tra i momenti più significativi
per la formazione dell'identità gruppale: "uscite" in città e in riviera, soggiorni, celebrazione in
comune delle ricorrenze principali (Pasqua, Natale, capodanno, compleanni), partecipazione a
feste e manifestazioni del quartiere spesso estesa alla sera e al fine settimana (fino
all’organizzazione della giornata mondiale del 7 aprile 2001 come momento di sensibilizzazione
e informazione della cittadinanza volto alla lotta allo stigma), presenza insieme alle altre realtà
del volontariato, ma anche del commercio, in tutti i principali momenti di vitalità della
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circoscrizione. Utile si è dimostrata anche la costante apertura del CD, garantita con particolare
impegno nei periodi di "vacanza". Su alcuni aspetti vorremmo in particolare soffermarci:
i rapporti sentimentali: come ogni luogo vivo, anche il CD è spesso luogo di inizio e di fine di
storie d'amore, luogo di simpatie e di antipatie. Storie che, come per tutti, hanno talora a che
fare con la felicità e talora con la delusione, che sono talora evolute in consonanza col progetto
riabilitativo (chi sarebbe magari restio viene al CD per incontrare una persona), e talora
purtroppo dissonanti ("non vengo più al CD, per non incontrare quella persona").
le leadership: si è osservato nell'utenza l'alternarsi nel triennio di diverse leadership, e
conseguentemente diverse caratteristiche e stile del gruppo, al punto che il succedersi dei diversi
gruppetti egemoni potrebbe essere utilizzato come strumento di scansione tra differenti periodi
della nostra microstoria, come se si trattasse delle "dinastie" all'interno di un impero, pur
permanendo costanti i valori rappresentati da orientamento all'autoaiuto, responsabilizzazione e
attivazione; non sono mancati momenti di contrapposizione dialettica dei “leader” con lo staff o
alcune sue componenti, efficace (e talora sofferta) dimostrazione in determinate fasi di sviluppo
del fatto che reali processi di risoggettivazione stavano concretamente operando.
il tempo libero: il formarsi del gruppo degli utenti ha corrisposto alla nascita al suo interno di
coppie e di piccoli gruppi capaci di promozione spontanea di iniziative serali e nel fine
settimana - iniziative che, in quanto spontanee, presentano tutti i rischi di esclusioni, rotture e
ricomposizioni, e quindi anche inevitabilmente insaturazione e "patogenicità", che pertengono
alla vita reale - conferendo al CD una funzione di volano per un panorama, in gran parte
destinato a rimanere ignoto agli operatori (cfr. in proposito Bailly-Salin, 2002) - che devono
"reggere" il fatto che tale rimanga - di piccole storie ed eventi. L’équipe ha dovuto rassegnarsi
alla riconsegna di questi processi ai movimenti spontanei tra i pazienti, perché ripetuti tentativi
di formalizzare, governare in qualche misura o istituzionalizzare l'organizzazione del tempo
libero per garantire la partecipazione di tutti, hanno sempre avuto breve durata.
il rapporto attivazione/trasgressione: il gruppo dei pazienti ha svolto in questi anni assai spesso
una funzione di autoaiuto e autoterapia che ha favorito la riabilitazione dei nuovi entrati:
abbiamo assistito ad autentici “miracoli”, con pazienti da anni mutacici che sono stati investiti
da garbati ma insistenti processi di coinvolgimento da parte degli altri, persone che avevano
problemi ad uscire di casa che sono state accompagnate e si sono gradatamente riappropriate
della possibilità di farlo da soli, persone afflitte da un’impulsività egodistonica al furto o al
danneggiamento, che sono stati aiutati dall’accompagnamento di altri pazienti a controllarla.
Non sempre però le cose sono andate così lisce e il CD ha incontrato unanime consenso: ci
siamo così trovati a dover rispondere con imbarazzo alle comprensibili critiche di familiari
abituati a trattenere il proprio figlio in quelle situazioni di infantilizzazione ostinatamente
protettiva che Racamier definì “familiasilari”, che hanno incontrato con la frequenza del CD il
fumo, l’alcool, la vita notturna, un aumento delle piccole spese, i problemi prima repressi
connessi alla gestione della propria vita sessuale. Il percorso riabilitativo ha preso allora strade
diverse da quelle che i manuali auspicherebbero: pazienti prima chiusi in se stessi e bloccati che
risvegliandosi hanno scoperto o riscoperto, tra le tante sorprese che la vita poteva loro riservare,
la vita notturna, un aumento delle piccole spese, storie sentimentali problematiche, con ricadute
anche negative sul decorso clinico e l’armonia familiare. L’équipe si è trovata allora in difficoltà
nel rispondere a chi ha cominciato a vivere il luogo di cura cui credeva di aver “affidato” il
proprio figlio come un luogo di perdizione e di “cattive compagnie”, e trovare essa stessa il
giusto equilibrio tra la propria doverosa funzione tutoria nei confronti dei pazienti più
sprovveduti e meno in grado di autogovernarsi, e la necessità di convincere la famiglia, ma a
volte anche se stessa, a rassegnarsi al fatto che, come ebbe a dire intervenendo a L’Aquila nel
1993 Mosher, “l’operatore non può proteggere del tutto il paziente, come il genitore il bambino,
dal rischio che fa parte inevitabilmente della vita, a meno di impedirgli di crescere e di vivere”.
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4) Partecipazione dei familiari.
Il problema.
Esiste un concreto rischio che il CD assuma per le famiglie una funzione di supplenza e di delega,
certo meno della residenzialità, ma più di altre componenti del circuito psichiatrico chiaramente
definite dalla provvisorietà (SPDC) o dal carattere puntiforme (CSM) dell’intervento.
Specularmente, esistono concreti rischi che l'équipe del CD si possa viversi come famiglia "buona"
più tollerante e più disposta a sostenere l'evoluzione del paziente rispetto alla famiglia "cattiva" di
origine, e che venga perciò da questa percepita come concorrente.
L'obiettivo.
Rompere la cultura, talora diffusa nei servizi, della ricerca di una asetticità del setting che porti a
duettare amabilmente col paziente tagliando fuori i familiari.
Le strategie.
a) apertura anche ai familiari delle porte (hanno partecipato a feste, gite, momenti espositivi
esterni quando questo è parso utile, accolti anch'essi come chiunque fosse desideroso di offrire
la sua collaborazione).
b) contatti con singole famiglie: si è tentato di tirare dentro le famiglie, operando per mantenere
comunque aperta la negoziazione sulla distribuzione degli oneri e delle responsabilità con gli
operatori e con gli stessi pazienti: il CD è appunto "diurno" in quanto il paziente è per gran parte
del suo tempo, dei suoi affetti e dei suoi interessi altrove, e spingerlo a procedere senza che il
suo contesto ne accompagni l'evoluzione darà alla lunga luogo a strappi e lacerazioni (Cupello,
1991; Galantini e coll., 1991). La famiglia è stata invitata a rimanere sia quando il paziente
mostrava di non tollerare un'immediata presa di distanza dal familiare (p. es. accogliendo la
richiesta di pazienti che non avrebbero partecipato a iniziative esterne senza accompagnamento,
o non avrebbero accettato nei primi giorni neppure di rimanere al CD), sia quando i familiari
necessitavano di continue informazioni, almeno telefoniche ma anche di persona (informando
ovviamente l'interessato) e tollerando in entrambi i casi che lo “svezzamento” facesse il suo
corso. Il tentativo è stato quello di accompagnare comunque le ansie dei familiari, tanto nei casi
in cui era più facile comprenderle che in quelli in cui potevano sembrare esagerate.
c) contatti col gruppo dei familiari: abbiamo offerto l'opportunità ai familiari di incontrare ogni
due mesi l'équipe e il gruppo dei pazienti, e condividere riflessioni e programmazione a mediolungo termine. Queste riunioni, che hanno superato spesso la cinquantina di partecipanti, hanno
offerto l'opportunità di osservare come sulle cose concrete il punto di vista e gli "interessi" dei
pazienti e dei familiari, intesi anche come gruppi, possa essere divergente. Ci siamo spesso
trovati di fronte a scontri incrociati anche aspri tra i due gruppi (che si facevano particolarmente
interessanti quando un paziente e i familiari di un altro erano coetanei), e a constatare quindi
come quelli dei familiari sull'assistenza psichiatrica siano punti di vista e interessi specifici, che
in nessun caso possono essere sbrigativamente considerati rappresentativi dei pazienti. Ciò ci ha
portato a riflettere su fatto che la funzione di advocacy non è prerogativa né degli operatori né
dei familiari, ma oscilla continuamente dagli uni agli altri, e in ogni caso l'autorappresentazione
degli utenti è un elemento originale del quale non bisognerebbe mai dimenticare di promuovere
l'espressione. Dare voce ai familiari ha significato ovviamente anche consentire l'espressione
della rabbia (verso il parente, o verso l'istituzione) ed essere altrettanto disponibili, come già
abbiamo ricordato, a ricevere le critiche che i complimenti.
d) psicoeducazione: come nel caso dei pazienti, l'emergere di una domanda insistente
d'informazione da parte dei familiari rappresenta un elemento di maturità, al quale occorre
attrezzarsi per dare risposte adeguate e che non bisognerebbe mai lasciare inevaso.
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5) Riabilitazione psichiatrica e rete sociale.
Il problema.
Se una delle scommesse aperte dalla legge 180 è stata persa, è stata senz’altro quella che il lavoro
psichiatrico potesse concretamente trasferirsi “nel” territorio, e individuarvi le risorse “informali”
(Folghereiter, 1991) per stendere una rete di aiuto alla persona che andasse ben oltre i servizi
professionali; hanno coinciso fattori oggettivi, rappresentati dalla fine dell'egemonia della cultura
solidaristica nella quale la legge era maturata, ma anche fattori soggettivi riconducibili a processi di
neoistituzionalizzazione che hanno spesso portato operatori e servizi a proteggersi in un rassicurante
tecnicismo e rinunciare a interrogare la città, cui la cura della malattia mentale era stata restituita.
L'obiettivo.
Interrogare la realtà esterna e individuarvi ogni risorsa utile alla promozione della salute mentale.
Le strategie.
a) contributo di soggetti singoli: singoli soggetti per diverse ragioni motivati sono stati invitati ad
accompagnare dall’interno l'attività del CD, rimanendo con noi in genere qualche mese; si è
trattato di tirocinanti nelle professioni sanitarie o privati cittadini e maestri d'arte. La loro
presenza è stata viziata da discontinuità (e non necessariamente è un danno), ma ha contribuito
ad animare i nostri spazi, e i momenti di più significativa presenza da parte di esterni hanno
sempre corrisposto a quelli di vitalità maggiore del centro.
b) figure di cerniera: importantissima è stata, per l'identificazione di operatori e utenti all'interno
di un ambito comunitario che ha ormai condiviso un segmento sufficiente di storia per sentirsi
portatore di una propria identità, il collante rappresentato dalla funzione di "cerniera" svolta,
durante varie fasi del percorso, da tirocinanti nelle diverse professioni "psi" (dei "quasioperatori") e di "volontari" identificati tra i pazienti meno gravi del CSM (dei "quasi-utenti").
c) rapporto con istituzioni e associazioni: abbiamo avuto la fortuna di muoverci in un contesto
particolare, un quartiere orgoglioso della sua tradizione solidaristica e della sua ricchissima vita
associativa, risorse informali che una volta scelte come terreno di coltura per la nostra
esperienza non ci hanno delusi. Hanno agevolato questo atteggiamento anche le caratteristiche
logistiche del nostro CD, affacciato sulla strada pedonale principale dove hanno sede le più
importanti istituzioni pubbliche, associazioni e realtà commerciali, e caratterizzato da scarso
spazio interno a disposizione - non sempre, per le istituzioni psichiatriche, “grande” equivale a
“meglio” e nella storia della psichiatria genovese il caso del manicomio di Prato Zanino è in
questo senso emblematico (Maura e Peloso, 1999), ed anzi spesso, come scrive Bailly-Salin
(2002), small is beautiful - fattori entrambi che hanno contribuito a spingerci fortunatamente
sulla soglia (Morandini e coll., 1991). E’ stato così possibile costruire progetti comuni con
realtà istituzionali e associative operanti nel territorio, che hanno messo a disposizione
competenze, opportunità e risorse: circoscrizione, parrocchia, mensile di quartiere, Croce Verde,
Università Popolare, società sportive, scuole, ecc. Abbiamo gettato semi in molte direzioni;
qualcuno ha attecchito, e ci ha consentito di procedere per un tratto in compagnia.
d) "Corsi di formazione alla qualità della vita": qualche parola in più su questa esperienza.
Ispirandoci a iniziative realizzate a Trieste, ma allontanandoci da quel modello per adattarlo alle
nostre specificità, abbiamo investito su uno strumento di riabilitazione socioculturale costituito
da conferenze e visite a luoghi carichi di significato culturale della nostra città che:
- anziché parlare tra operatori, come spesso ci accade, della qualità della vita dei pazienti, offrisse
direttamente loro stimoli al riguardo aperti “ a ventaglio” e provenienti dalla vita reale. Gli
insegnanti sono "esperti di diverse discipline tutti coinvolti nell'enigma uomo" (S. Moravia,
2000), che hanno offerto gratuitamente il proprio tempo e sono usciti a loro volta soddisfatti;
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prevedesse un'eterogeneità degli argomenti, delle esperienze e dei linguaggi (abbiamo avuto chi
ha parlato col microfono e chi senza, chi ha utilizzato i lucidi, il video, le diapositive, chi ha
scelto uno stile più confidenziale e chi più quello della classica conferenza);
garantisse una buona qualità del prodotto, appetibile anche per la cittadinanza, che non si
traducesse però mai in complessità o eccessiva specializzazione del linguaggio;
potesse fornire un volano per iniziative itineranti e offrisse la possibilità di proporre il prodotto
pensato e costruito per noi al resto della cittadinanza. Sul mensile di quartiere ci eravamo
presentati con le parole "Centro diurno: una risorsa per il quartiere", e intendevamo mantenere
questo impegno (un gruppo di insegnanti di scuola materna fu autorizzato a partecipare ad
alcuni nostri incontri nel quadro dell'aggiornamento professionale). Si è così creato via via un
buon clima affettivo e sono progressivamente cadute le barriere emotive tra l'uditorio interno e
esterno al CD, che, percepibili al primo incontro ad occhio nudo nella distribuzione spaziale in
sala, si sono andate confondendo, pur avendo purtroppo dovuto constatare tra pazienti e altri
cittadini un'incompatibilità d'orario: più presenti i primi nelle prime ore del pomeriggio, i
secondi nelle ultime. Maria, che rappresenta da dieci anni la "veterana" del centro e ha molte
difficoltà a stare con gli estranei e sostenere la conversazione, ha cominciato a frequentare,
evidentemente incuriosita dai racconti degli altri, intorno alla metà; si è fermata per due o tre
volte non più di un quarto d'ora, e quando le abbiamo chiesto cosa le paresse ci ha risposto: "é
bello, ci sono delle persone molto eleganti", per poi commentare in un'altra occasione "si dicono
delle cose interessanti". Via via ha iniziato a fermarsi di più, e, dopo qualche incontro, a dire
anche la sua nel dibattito. Filippo allieta tutti gli eventi del CD col suono dell'armonica; ha
incominciato durante il ritardo di un relatore a proporre un intervallo musicale, e poi anche
questi intervalli sono diventati un'abitudine. Per Carla, che ha portato molto avanti gli studi
prima di ammalarsi, il corso è un'opportunità di ritrovare dentro se stessa ed esibire con evidente
compiacimento le sue risorse, un tempo costruite con fatica e ora rimaste come congelate. Per
Luigi, la visita al museo di etnomedicina ha offerto l'opportunità di parlare delle proprie voci,
sollecitato dal fatto che il nostro accompagnatore ci stava illustrando lo sciamanesimo, di aprire
a questo proposito un dibattito al quale altri hanno portato le proprie esperienze e ricevere, per
una volta, chiarimenti dall'antropologo e non dallo psichiatra. Giovanni è forse l'unico degli
utenti che frequentano quotidianamente il centro a essersi ostinatamente rifiutato di mettere
piede al corso; nello stesso periodo, però, ha iniziato con successo una borsa lavoro, segno che il
suo scarso interesse per questa opportunità riabilitativa prevalentemente verbale, e non
retribuita, rispondeva a una scelta e non doveva essere interpretata come scarso desiderio di
autonomia e socializzazione. Qualcuno sta per l'intero incontro, qualcuno avverte ogni tanto
l'esigenza di uscire per fumare, qualcuno sceglie ad un certo punto di andarsene. Qualcuno non
si è sentito di partecipare a molti incontri, ma ha preferito inserirsi soprattutto in occasione dei
momenti formativi itineranti. Tutte queste piccole storie di percorsi individuali ci spingono a
una considerazione che può sembrare in controtendenza rispetto all'enfasi, talvolta eccessiva,
che circonda la questione del "progetto" riabilitativo, e ci fanno immaginare la riabilitazione non
tanto come realizzazione di percorsi progettati a priori in modo che può rischiare di diventare
aprioristico, rigido e direttivo (Berti, Mungo e Peloso, 1997), ma piuttosto come offerta - e
costruzione comune - variegata e discontinua di opportunità, apertura continua di prospettive
possibili, diverse e originali, rispetto alle quali ciascuno abbia la possibilità di collocarsi
rispettando i tempi e le inclinazioni che gli sono propri in quel momento. Un progetto quindi
che non si presenti come un contratto rigido e vincolante, ma piuttosto il delinearsi di un
percorso flessibile e leggero nella sua definizione, in grado di ridisegnare e riconsiderare di
momento in momento la possibilità di soste, scorciatoie, trasformazioni della meta o della
velocità, e un impegno a contribuire per quanto possibile a un ribollire incessante di invenzioni
e microrealizzazioni che è quello che tiene vivo il CD, ma anche noi stessi come parte di una
comunità. I cittadini sestresi che hanno partecipato all'iniziativa hanno avuto, l'opportunità di
vedere da vicino chi sono i malati di mente, persone come loro, assolutamente diversi l'uno
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dall'altro, ma anche ai pazienti, forse, dopo quest'esperienza lo stare in mezzo alle persone
"normali" nei luoghi della cultura, del divertimento o del lavoro darà meno soggezione di prima.
e) vendita di manufatti: i mercatini pubblici sono stati un'altra opportunità di interfaccia con la
cittadinanza anche attraverso esibizioni musicali e diffusione di materiale informativo su temi di
salute mentale. Ha dato senso al lavoro del laboratorio artigiano interno (chi fa gli oggetti e chi
li espone non sono spesso le stesse persone) e ha consentito che la gestione di momenti
espositivi esterni, che richiedeva prima una presenza continuativa degli operatori, sia divenuta
autogestita, e garantisca una fonte significativa di autofinanziamento.
f) scrivere sul giornale: la pubblicazione di uno o due articoli al mese sul mensile del quartiere
scritti da operatori o pazienti ha risposto a molteplici funzioni (Peloso e coll., 2002):
- autorappresentazione e integrazione col quartiere: attraverso l'uscita di notizie sull'attività del
CD dal circuito psichiatrico;
- specchio: gli eventi della vita del CD, descritti dai protagonisti e fotografati, sono restituiti dalla
pubblicazione e consolidati nella memoria, contribuendo all'identificazione gruppale;
- lotta allo stigma: anche gli articoli degli utenti e la loro autonarrazione nell'intervista, ma forse
più ancora le fotografie nelle quali distinguere operatori, utenti e volontari è impossibile (e il
pensiero corre a "Corpo e istituzione" (Basaglia, 1967) perché davvero è il corpo, fotografato,
esibito, partecipante, il più efficace "testimonial" nella lotta allo stigma), parlano di persone
come tutti, che fanno le cose che a tutti fan piacere (scuola, lavoro, hobby, gite, soggiorni,
sport), e contribuiscono a trasformare l'immagine del malato di mente nei lettori;
- educazione sanitaria e pubblicità attraverso la divulgazione di notizie su temi di salute mentale
(storia, attualità, articolazione locale dei servizi) e singole iniziative;
- laboratorio attraverso il momento di scrittura e battitura a computer degli articoli e la
collaborazione nella distribuzione del giornale agli abbonati.
Con quest'attività divulgativa ci si propone di riabilitare la persona per la società, ma
contestualmente di assumere come orizzonte un lavoro politicamente trasformativo teso a
riabilitare la società per la persona (Castelfranchi, Saraceno ecc.). Scriveva del resto Ballerini
(1991): “è certo che noi non possiamo, e fortunatamente forse, cambiare il mondo; viene talora
in mente che siamo autorizzati a disturbarlo”.
g) lavoro: rappresenta per molti, anche se non per tutti, i nostri utenti un obiettivo e ci si è
impegnati promuovendo - più che abilità manuali, a proposito delle quali l'utenza non presenta
particolari problemi - abilità di carattere sociale (mantenimento degli impegni o interfaccia col
pubblico); sei pazienti hanno avuto accesso ad attività lavorative e un corso di formazione è
stato attivato, per iniziare un percorso di impresa sociale che potrebbe garantire in futuro lavoro
a una decina di persone e vede coinvolti la Circoscrizione, una coooperativa di fascia B, le
biblioteche della zona, alcuni esperti a titolo personale, una scuola.
6) Valutazione dei processi e degli esiti.
Il problema.
La trasformazione del CD ha coinciso col periodo nel quale subiva un'accelerazione il processo di
aziendalizzazione delle USL, ancora in fase di completamento nella nostra città, processo che
abbiamo scelto di non subire passivamente come una iattura, ma di cogliere come un'opportunità
per la valorizzazione della nostra funzione di servizio pubblico e il miglioramento di quantità e
qualità dell'offerta di salute a disposizione della cittadinanza, attraverso l'enfasi che veniva posta sul
rendere conto e renderci conto maggiormente del nostro operato (Ciancaglini e coll., 1998).
L'obiettivo.
Abbiamo scelto di "lavorare per obiettivi" e ogni sei mesi l'équipe contratta finalità e obiettivi con i
colleghi del CSM, le famiglie e i pazienti e valuta l'andamento rispetto a quelli del semestre
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precedente. Accanto a questo monitoraggio dei processi, si è avvertita la necessità di un
monitoraggio degli esiti attraverso l'utilizzo di scale obiettive di funzionamento clinico e sociale.
Le strategie.
a) organizzazione semestrale per obiettivi e verifiche: ha rappresentato un lavoro "in fieri", nel
quale i documenti di resoconto e programmazione sono stati tentativi di riallineamento di un
gruppo di lavoro desideroso di farsi interrogare dalla realtà più che di predefinirla, e in costante
ricerca del proprio percorso. La loro utilità è stata soprattutto interrogarsi sui processi in atto e,
certo in modo assai aperto, sul prossimo futuro, e offrire un patto "budgettario" virtuale tra un
gruppo di lavoro e un'azienda (il primario, o alternativamente la committenza rappresentata dai
colleghi del CSM o dal gruppo utenti/familiari).
b) confronto col CSM: accanto a una prassi continuativa di contatti sui singoli casi per la verifica
permanente del progetto e l’integrazione tra intervento riabilitativo e interventi farmaco e
psicoterapici, che richiede per mantenersi nel tempo l’impegno soggettivo di tutti, ogni due mesi
la riunione settimanale del CSM è dedicata all’andamento del CD e dei singoli pazienti.
c) valutazione dei costi: con l'aumento della presenza media, il costo della singola giornata è
sceso, collocandosi su dati compatibili con quelli previsti da alcune amministrazioni regionali.
d) valutazione degli esiti: nell'estate del 2000 si è iniziato a proporre la BPRS a 24 item per il
monitoraggio della sintomatologia psicopatologica e, per il monitoraggio degli aspetti connessi
alla qualità della vita, il Quality of life index (QLI), uno strumento di valutazione basato su
punteggi da 0 a 2 e su cinque item: attività, vita quotidiana, salute, supporto, stato d'animo
(Conti, 1999). Nella popolazione oggi afferente al CD possiamo distinguere un primo gruppo
(A) di 17 pazienti per il quale sono disponibili dati relativi agli ultimi 3 anni; un secondo gruppo
(B) di 11 pazienti per il quale sono disponibili dati relativi agli ultimi 2 anni; un terzo gruppo
(C) di 15 pazienti per il quale sono disponibili dati relativi all’ultimo anno (graf. 1). Senza
soffermarci sui risultati specifici dello studio per quanto riguarda il nostro CD (Peloso e coll.,
2002), vorremmo soffermarci sul possibile utilizzo di questo genere di valutazioni, che ci pare
di poter identificare nei punti seguenti:
1. confronto quantitativo e qualitativo tra popolazioni: le popolazioni sottoposte ad osservazione
in occasione delle diverse rilevazioni annuali da noi effettuate non sono, se non in parte,
corrispondenti. La possibilità di confrontare popolazioni diverse in riferimento agli standard
rappresentati dalle due scale - che viene qui utilizzato longitudinalmente per cogliere la
differente situazione di un unico CD, ma potrebbe essere anche utilizzata trasversalmente, ad
esempio per il confronto tra diversi CD - consente pertanto:
a) di confrontare l'impegno quantitativo, in termini di gravità psicopatologica e di bisogni in
riferimento alla qualità della vita, richiesto al CD nei diversi momenti della sua evoluzione;
b) di rilevare gli item, sia di carattere psicopatologico che di qualità della vita, in riferimento ai
quali i bisogni presenti nell'utenza sono più marcati.
2. confronto diacronico all'interno di una stessa popolazione (graf. 2): consente di monitorare, sia
sotto il profilo quantitativo (andamento complessivo del punteggio BPRS e QLI) che qualitativo
(analisi per singoli item):
a) l'andamento clinico e riabilitativo di gruppi costanti di pazienti (gruppi A, B, e C),
b) di approfondire, eventualmente attraverso l'uso di strumenti statistici più sofisticati, o
soffermandosi sul confronto interno tra sottogruppi omogenei per età, sesso, diagnosi, area di
provenienza; o sull'evoluzione di singoli casi, in quanto anche in fasi di miglioramento
medio l'utilità delle scale può essere evidenziare situazioni che si muovono in
controtendenza.
Conclusioni
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Quattro anni di lavoro ci hanno ulteriormente convinto della centralità dei nodi identificati come
problematici all'inizio: per mettersi in condizione di svolgere (e non da solo, ma coinvolgendo le
risorse rappresentate dalle altre agenzie del dipartimento, i pazienti, i familiari, la rete sociale) la sua
funzione di servizio pubblico riabilitativo, il CD deve garantire la risposta a un congruo numero di
richieste e rendere visibili i propri processi e gli esiti ai quali hanno portato, perché attorno ad essi si
possano costruire dei ragionamenti. Alcuni aspetti, non previsti all'inizio, ci hanno rivelato la loro
importanza e hanno costituito in qualche misura una sorpresa: lo stretto rapporto tra corpo e
processi istituzionali anche in una situazione semiresidenziale, per la cui lettura la riflessione di
Franco Basaglia ha rappresentato un riferimento d'inestimabile importanza; il formarsi spontaneo di
leadership nel gruppo dei pazienti, e la loro capacità di condizionare, nel bene e nel male, il
funzionamento del Centro; l'importanza di "figure di cerniera" rappresentate da "quasi operatori" e
"quasi pazienti" per l'avvicinamento dei due gruppi. Tra le attività proposte, il laboratorio ha
costituito la trama lungo la quale la nostra storia si è inscritta, e il pranzo, la palestra, le gite e i
soggiorni, la spiaggia momenti ludici di grande importanza nel cementare il gruppo; altre attività
hanno contribuito a bilanciare le precedenti ed introdurre elementi di discontinuità ed evoluzione,
utili a non ridurre l’offerta a una sorta di “panem et circenses” più utile all’intrattenimento che alla
riabilitazione: riabilitazione socioculturale (corsi e giornalismo), autoaiuto, psicoeducazione,
formazione al lavoro e partecipazione a eventi esterni, in modo particolare.
L’evoluzione dei centri diurni e la loro reale utilità per il perseguimento di obiettivi prioritari di
salute pubblica (riabilitazione dei pazienti gravi, lotta allo stigma, educazione sanitaria per la
cittadinanza…) devono quindi prevedere la sperimentazione di soluzioni originali, sempre
provvisorie e fortemente connesse alle specificità di problemi e di risorse che ciascun territorio
presenta, che tengano presente la necessità di cambiare in riferimento a una pluralità di fronti e
soprattutto di individuare strumenti capaci di restituire un’immagine sintetica ed efficace del
proprio operato per garantire costantemente la riflessione, il dialogo, la ridefinizione dei progetti.
Ma questo rischierà di non incidere concretamente sul destino delle persone senza una continua
problematizzazione dei ruoli che pazienti, operatori e familiari tendono ad assumere e del modo in
cui circolarmente essi si influenzano, e senza un’attenzione costante alle insidie che la
reistituzionalizzazione costantemente ripropone nelle famiglie e nei luoghi della nuova, non meno
che della vecchia, psichiatria.
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LEGENDA: Graf. 1:
Evoluzione dei punteggi delle 2 scale nei tre gruppi.
1 Gruppo A: evoluzione QLI
2 Gruppo A: evoluzione BPRS
3 Gruppo B: evoluzione QLI
4 Gruppo B: evoluzione BPRS
5 Gruppo C: evoluzione QLI
6 Gruppo C: evoluzione BPRS
AA. VV. (1991): Centri diurni in psichiatria, Milano, Franco Angeli.
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