rivista foedus n. 11

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rivista foedus n. 11
SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Undici, 2005
Borderline
Pag. 03
Il dibattito sul federalismo e i poteri delle regioni nella scuola di Mario Quaranta
Il Faro
Pag. 23
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione in Italia di Mariarosa Dalla Costa e
Dario De Bortoli
Passaggio a Nord - Est
I progetti di territorio di 42 comuni in provincia di Padova, Verona e Vicenza tra
imperativi economici e sviluppo sostenibile di Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
Il Sestante
Pag. 36
Pag. 86
Il concetto di distretto industriale marshalliano in Becattini di Alessandra Grespan
La costituzione mista nel De Magistratibus et Republica Venetorum di Gaspero
Contarini a cura di Dario Ventura
Focus: Norberto Bobbio
Pag. 97
Pag. 112 Politica e cultura di Norberto Bobbio cinquant’anni dopo di Mario Quaranta
Schede
Pag. 125 ELIO FRANZIN, LUIGI PICCINATO E L’URBANISTICA A PADOVA 1927-1974. CON ALCU
NI SCRITTI PADOVANI DI LUIGI PICCINATO, PREFAZIONE DI LIONELLO PUPPI, PADOVA, IL
PRATO, 2004.
Asterischi
Pag. 126 DEVI SACCHETTO, IL NORDEST E IL SUO ORIENTE. MIGRANTI, CAPITALI E AZIONI UMA
NITARIE, OMBRE CORTE, VERONA 2004.
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Mario Quaranta
Il dibattito sul federalismo e i poteri
delle regioni nella scuola
Borderline
1. Premessa
Il progetto di riforma della costituzione in senso
federalista, già approvato in seconda lettura dal
Parlamento italiano, ha posto all’ordine del giorno,
fra i vari problemi, quale deve essere, e come deve
essere esercitato, il potere della regione nella
gestione della scuola. Un problema di notevole
importanza, dal momento che in questo campo si
sono rivelati più nitidamente gli effetti molto negativi del centralismo amministrativo e culturale
dello Stato. Peraltro, occorre riconoscere che tale
problema non è stato a tutt’oggi oggetto di un adeguato dibattito da parte delle forze culturali del
Paese, mentre esso ha una particolare urgenza,
dettata dalle decisioni che il governo ha preso, e
altre si accinge a prendere sull’ordinamento della
scuola, i programmi, il nuovo stato giuridico degli
insegnanti, e così via.
Il nuovo Titolo V della Costituzione ha introdotto
alcune importanti novità nella direzione di una
decentralizzazione della scuola; inoltre, ora dal
punto di vista giuridico la regione ha la stessa
dignità del centro, e pertanto può esercitare pienamente i suoi poteri nella gestione della scuola.
L’ultimo comma dell’articolo 2 (“Sistema educativo di istruzione e formazione”) della legge delega
n. 53 del 28 marzo 2003 è, a tale proposito, inequivoco; “I piani di studio personalizzati, nel
rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo fondamentale, omogeneo su base nazionale, che rispecchia la cultura,
le tradizioni e l’identità nazionale, e prevedono
una quota, riservata alle regioni, relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse. Anche collegata con le realtà locali”.
Ci sembra una formulazione che impegna il
Governo, prima di tutto, ma anche la scuola, a una
progettazione nuova del proprio ruolo nella società, tenendo presente la collocazione regionale, e il
fatto che il progetto culturale-educativo deve coinvolgere la cultura delle regioni, cultura che in Italia
ha caratteri specifici che la contraddistingue da
altri Paesi europei, come avremo modo di sottolineare.
Da ciò l’opportunità di sollevare e discutere questo
problema, il quale è parte integrante di un disegno
federalista dello Stato che, comunque realizzato,
verrà a modificare una direzione estremamente
centralizzata della scuola, sia sul piano burocraticoamministrativo, sia su quello dei programmi e dei
controlli. Ci soffermeremo a chiarire, prima di
tutto, i termini storici e attuali in cui si è posta la
scelta federalista, quali problemi ha sollevato e
quali pone oggi, nel momento in cui assistiamo alla
nascita dell’Europa politica unita con una propria
costituzione. Il problema è estremamente complesso, perché impone, fra l'altro, una concezione
nuova della scuola, un allargamento della sua autonomia e interventi sempre più ampi e decisivi degli
insegnanti nella fase dell’elaborazione dei programmi e del controllo dei risultati raggiunti.
2. Origini e sviluppi del dibattito sul federalismo
Prima di affrontare questo problema, chiariamo la
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distinzione fra federalismo antropologico e federalismo istituzionale o territoriale, enunciata e discussa da Giuseppe Gangemi (Giuseppe Gangemi,
La questione federalista. Zanardelli, Cattaneo e i
cattolici bresciani, Torino, Liviana-Utet, 1994),
un'idea che è alla base della sua successiva analisi
delle forme regionali che storicamente hanno
assunto i diversi modelli di federalismo elaborati
nella storia d'Italia dell'Otto e Novecento. Il primo
modello scaturisce da una considerazione complessiva della storia d'Italia, del suo territorio, delle
diverse e spesso divergenti esperienze storiche,
politiche, culturali, e dalla conseguente necessità
di considerare queste diversità non un ostacolo
allo sviluppo del Paese, ma semmai una ricchezza
da salvaguardare attraverso un'adeguata strumentazione istituzionale e giuridica.
La storia dei diversi modelli di federalismo è
approdata, con l'ultimo progetto, a una forma di
federalismo che non si può richiamare a quello
antropologico ma a quello istituzionale, dal
momento che non è stato il punto d'approdo di
una lunga, meditata discussione cui abbiano partecipato le forze culturali e politiche del Paese, ma il
risultato di molte mediazioni non sempre compatibili fra loro, e soprattutto da una congiuntura
politica quasi di emergenza.
Il dibattito sul federalismo è esploso improvvisamente in Italia all'indomani della disintegrazione
‘etico-politica’ della “prima Repubblica”, e nella
transizione a una cosiddetta “seconda Repubblica”.
Anche se l’attuale governo, pur nella varietà di posizioni al suo stesso interno, ha progettato una
nuova costituzione che prevede un assetto federale dello Stato italiano, non si può dire per questo di
essere già passati alla realtà di uno Stato-Nazione
nuovo nella forma politico-istituzionale, rispetto
all’antecedente, le cui linee essenziali sono delineate dalla riforma della costituzione del 1948.
L'odierno assetto è storicamente il prodotto dell’unificazione nazionale compiuta nel 1860 con la proclamazione del Regno d'Italia, e della sua centralizzazione politico-territoriale e amministrativa,
secondo un modello francese-napoleonico, definito nel quinquennio 1861-1865, e rimasto sostanzialmente tale fino alla formazione della prima
Repubblica in età post-fascista, attraverso cui lo
schema centralista dello Stato nazionale unitario si
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è tramandato, sia pure con alcune varianti.
Nel secondo dopoguerra si istituirono delle regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Val d' Aosta,
Trentino Alto - Adige), che configurarono delle
eccezioni periferiche al modello dello StatoNazione che continuava dal Regno d'Italia. In
seguito, si istituirono le regioni in tutta la penisola,
che nelle intenzioni dei governanti avrebbero
voluto essere anche una concessione a un principio di decentramento amministrativo, ma che
nella realtà, di fatto, ebbero piuttosto la funzione
politica di consolidare tacitamente un “compromesso storico”, ripartendo sfere rispettive di sottogoverno di maggiore influenza elettorale, per
aree regionali “bianche” e aree “rosse”, dove già
tali influenze politiche elettorali preesistevano,
come, esemplarmente, agli opposti estremi: il
Veneto centrale (Vandea d'Italia, con Bergamo), e
l’Emilia-Romagna comunista. Ma con tale intesa
compromissoria, il modello centralista dello StatoNazione non fu superato.
Quanto alle regioni, il risultato pratico, secondo
alcuni storici, è stato quello non di attenuare ma
piuttosto di duplicare lo statalismo centralista, dilatando la burocrazia e aumentando, e non diminuendo, le distanze tra la gestione della cosa pubblica e la ‘società civile’. A tale proposito Zeffiro
Ciuffoletti afferma: “La riforma fiscale del 1971-73,
azzerando l’autonomia fiscale degli enti locali, trasformandoli in centri di spesa irresponsabili e trasferendo tutto il potere fiscale allo Stato centrale ha
generato un circuito perverso in parte responsabile dello spaventoso debito pubblico italiano, di
gran lunga il maggiore dei paesi dell’Unione
Europea. Gli sviluppi recenti del ‘regionalismo
cooperativo’, sommati alla mancata riforma degli
apparati centrali, hanno finito per produrre altre
disfunzioni con la duplicazione delle competenze,
l'ulteriore dispersione delle risorse e la fuga delle
responsabilità. In sostanza, l’esperienza regionale
italiana è nata e si è concretizzata secondo un
modello di deresponsabilizzazione finanziaria. Lo
stesso può dirsi delle autonomie comunali, dove da
un ventennio sono in vigore le pratiche di governo
che esaltano quasi esclusivamente la capacità di
spesa e di intervento” (Ciuffoletti, cit., p. 273).
Alcuni critici affermano che il risultato principale
del decentramento regionale è stato l’incremento
Mario Quaranta
dell’assistenzialismo; in ogni caso, nè l'ordinamento regionale attuale, né un federalismo fiscale, di
per sè, attuerebbero un modello federale di StatoNazione, potendone anche costituire delle premesse di fatto, ma non necessariamente. D’altra parte,
una cosa sono i modelli politico-giuridici e altra
cosa i processi storici da cui e attraverso cui essi
sorgono, dapprima come progetti (“ideologie”),
trasformandosi più o meno lentamente, a volte
anche rapidamente in relazione a determinate circostanze e occasioni favorevoli, in modelli realizzati, ossia in stabili ordinamenti istituzionali. Le esperienze storiche degli Stati moderni ci insegnano
che un ordinamento costituzionale di Stato, o istituzionale diverso, non può essere altro, sempre e
comunque, che la formalizzazione e generalizzazione di tendenze economico-sociali, politiche, culturali, etniche, e a volte anche ‘religiose’ (normalmente connesse strettamente a quelle etniche)
preesistenti. Tali tendenze naturalmente continuano, essendosi imposte come maggioritarie o altrimenti decisive di una certa scelta e soluzione politico-giuridica, in una determinata congiuntura storica favorevole. E naturalmente, come alcuni ordinamenti costituzionali, e altri politico-istituzionali
diversi, sono nati e si sono consolidati nelle condizioni favorevoli in un certo periodo più o meno
ampio e prolungato, rispondendo a funzioni storiche varie per cui risultavano adeguati. Così, anche
con quelle funzioni, una volta che siano state esaurite, superate da necessità economiche, sociali e
politiche nuove, le istituzioni di fatto si esauriscono
e sono sostituite da nuovi modelli.
Tutto ciò non avviene mai automaticamente e
linearmente, ma attraverso periodi di transizione,
che sono anche di estrema confusione, in cui ordinamenti vecchi sono giunti a un tramonto che
dovrebbe precedere la loro scomparsa. Essi tuttavia sopravvivono più o meno bene, mentre si affacciano e si propongono modelli diversi e alternativi
per un nuovo ordinamento, il cui avvento sembra
imminente, ma che intanto non è ancora nato e
consolidato. Ci sono sì, oggi, parecchi modelli e
progetti di diverse forze politiche, i quali convergono in un punto, nel rifiuto parziale o totale del
vecchio, mentre sono in disaccordo sul progetto
del nuovo che deve nascere. Questa è la situazione
in cui è esploso in Italia, nell’ultimo decennio del
Il dibattito sul federalismo
Novecento, il dibattito sul federalismo, in rapporto
al centralismo politico-territoriale e amministrativo
dello Stato-Nazione unitario di origine risorgimentale e monarchica piemontese.
La confusione di termini, generalmente ideologici,
storico-istituzionali, politico-giuridici, è intrinseca
alla diversità, eterogeneità e ambiguità di tendenze,
indissociabili dal dibattito attuale sulla trasformazione dello Stato nazionale unitario e centralista, in
un altro ordinamento a sfondo federale, già definito nell'attuale schema politico-giuridico. Esso è
stato posto all’ordine del giorno da una pluralità di
forze politiche discordanti nei rispettivi campi (di
centro-destra e di centro-sinistra), e si riflette ovviamente anche nella retrospettiva storica, che da esso
scaturisce.
Ciò si è portato appresso la ricerca di antecedenti
ideali e di paradigmi diversi e alternativi, che precorsero nell'età risorgimentale l'unità nazionale,
realizzata istituzionalmente sulla base del modello
monarchico-centralista, e che continuarono anche
nell'età post-risorgimentale, sia pure come tendenze prive di peso politico, nella critica all'ordinamento statale esistente. È pertanto comprensibile la confusione, anche nella retrospettiva storica, che induce a sovrapporre tematiche, problematiche, categorie ideologiche attuali, proprie
della fine avvenuta del ‘secolo breve’ (1914-1991) a
quelle dell’Ottocento, risorgimentali e post-risorgimentali, alla riscoperta di una continuità sommersa dal 1860 al 1991, e che ora sembra riemergere.
In particolare, si tende a contrapporre in modo
indifferenziato, allo schema centralista dello StatoNazione realizzato nel Regno d'Italia, una pluralità
di modelli diversi ma irrealizzati. Essi hanno in
comune solo l’elemento negativo dell’opposizione
e della critica al progetto e alla realtà storica effettuale dello Stato nazionale unitario, ossia l'organizzazione secondo uno schema di rigido centralismo
politico-territoriale e amministrativo messo in atto
nel quinquennio 1861-1865 e rimasto sostanzialmente inalterato. Anzi, esso si accentuò nella transizione dalla Destra storica liberal-moderata (18611876) ai governi della Sinistra liberale, in particolare
con Crispi, dal 1888, irrigidendosi al massimo con il
regime dittatoriale fascista, per cui lo schema centralista di un modello cesarista-napoleonico non
poteva che risultare congeniale.
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Dalla continuità storica accennata, sarebbe arbitrario vedere in una concezione politica generale
della Destra storica liberal-moderata post-cavouriana le premesse dottrinarie e pratiche degli sviluppi di esse in una concezione e in una prassi dello
Stato totalitario fascista, che è un fenomeno nuovo
del XX secolo, il quale emerge dalla crisi della
prima guerra mondiale. I suoi antecedenti ideologici più diretti sono piuttosto nelle concezioni
nazionalistiche, organicistiche, corporativistiche,
sorte nell'età giolittiana, a ridosso della guerra di
Libia del 1911, con le elaborazioni politiche dottrinarie di Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Scipio
Sighele e vari altri.
Il centralismo, come forma di organizzazione politico-territoriale e amministrativa dello StatoNazione moderno, di per sè, non definisce teoricamente né storicamente alcuna concezione politica
generale, così, d’altra parte, come lo schema federale in quanto modello politico-istituzionale. In
altri termini, centralismo e federalismo sono, dal
punto di vista storico-istituzionale, due variabili
nella formazione dello Stato-Nazione moderno.
Questo si basa in entrambi i casi sul principio di
sovranità popolare, che sostituisce il principio di
sovranità per diritto divino delle Monarchie assolute dell'antico regime pre-modeno. Il popolo
sovrano, o l'universalità dei cittadini aventi diritto a
suffragio di fatto, può essere circoscritto dal criterio di classe censitario all'1% della popolazione
nazionale, come in Francia nell'età della Monarchia
liberale Orléans dal 1830 al 1848, o al 2%, di cui il
50% non votava, come in Italia nell'età della Destra
storica. Ma queste restrizioni non annullano il
principio di sovranità popolare nè il corrispondente modello rappresentativo parlamentare, e tanto
meno il principio delle garanzie dei diritti individuali (o della libertà civile) nell'ordinamento dello
Stato-Nazione moderno, che può essere comune,
per tali aspetti fondamentali, sia allo Stato nazionale unitario centralizzato, sia allo Stato federale.
Tali premesse sono invece vanificate dalle concezioni e dalla prassi dello Stato totalitario (di destra
e di sinistra), originario del XX secolo, che si caratterizza storicamente, di fatto, nelle varianti delle
sue dottrine, per la subordinazione del potere
legislativo e giudiziario al potere esecutivo di
governo. Tale modello si concretò nei regimi di
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dittatura permanente, quali che siano state le giustificazioni ideologiche di essi per autolegittimarsi
nell'esercizio del potere. Ma lo Stato-governo totalitario non è necessariamente una conseguenza
storica del centralismo politico-territoriale e amministrativo, ma piuttosto di conflitti inter-imperialistici di potenze e di rivoluzioni e contro-rivoluzioni sociali e politiche, che sono state combattute
come guerre civili, sfociando in regimi dittatoriali
permanenti. In altri termini, guerre civili rivoluzionarie e contro-rivoluzionarie sono sorte e sviluppate indipendentemente da un assetto centralista
o federale dello Stato-Nazione, il centralismo estremo essendo stato, però, lo sbocco di regimi dittatoriali.
Storicamente, il centralismo politico-territoriale e
amministrativo è stato, in Europa occidentale,
anzitutto il risultato della formazione degli Stati
nazionali, conseguente alla centralizzazione militare e burocratica imposta dalle Monarchie assolute
tra i secoli XVI e XVIII, contro l'anarchia dei particolarismi territoriali dell'ordine feudale. Il suo
schema modernizzato è stato continuato dalla
Rivoluzione francese attraverso la democrazia giacobina degli anni 1792-1794, contro le tendenze
federaliste girondine, e i governi del Direttorio,
che sono seguiti alla reazione termidoriana antigiacobina fino al cesarismo napoleonico, dal
Consolato all'Impero. È perciò la Francia che per
prima ha offerto (anche al Regno d'Italia nel 18611865) il paradigma storico-istituzionale più esemplare di centralismo politico-territoriale e amministrativo di Stato-Nazione moderno nell’Ottocento,
che per ambedue gli aspetti è stato opera, agli inizi
del secolo XIX, del cesarismo napoleonico.
Il modello storico-istituzionale federale di StatoNazione moderno deriva invece dalla rivoluzione
anti-coloniale da cui, con la nuova nazione degli
“Inglesi d'America”, nascono gli Stati Uniti. Il
modello federale nord-americano è stato poi recepito, nella formazione politico-territoriale di alcune
nuove Repubbliche dell’America ispanica, ma con
diverse varianti, a cominciare dal Venezuela e dalla
Nueva Granada (odierna Colombia), dal 1811 (a cui
fece seguito, dal 1819, il centralismo bolivariano
della ‘Grande Colombia’ o ‘Unione Colombiana’,
rovesciato nel 1830), e dall'Argentina, nel congresso di Tucumán del 1816.
Mario Quaranta
Come abbiamo già accennato, il centralismo e il
federalismo sono stati storicamente una variante
nella formazione dello Stato-Nazione moderno,
non per quanto riguarda i principi fondamentali
della sovranità popolare, della rappresentanza parlamentare, della divisione ed equilibrio dei poteri,
delle garanzie dei diritti individuali o della ‘libertà
civile’, che sono comuni a entrambi i modelli, ma
per quanto si riferisce all'organizzazione politicoterritoriale e amministrativa.
Il sistema federale del modello nordamericano
attua un decentramento orizzontale (sul territorio
dello Stato-Nazione) di poteri agli Stati federati, cui
corrisponde una concentrazione di poteri esecutivi supremi nel governo centrale ai vertici
dell’Unione Federale, nella figura del Presidente (e
capo del Governo), come necessario correttivo e
riequilbrio verticale del decentramento orizzontale. Lo schema storico-istituzionale dello Stato federale moderno, determinato dalla rivoluzione anticoloniale americana, si distingue da quello confederale, con cui nel linguaggio politico comune talvolta si può confondere, come si osserva, ad esempio, in riferimento a modelli federalisti irrealizzati
dell’età risorgimentale in Italia, in cui si include il
progetto neo-guelfo, perché la confederazione è
un’unione di Stati sovrani fondata sull'accordo di
una reciproca limitazione di poteri sovrani, ma
non di rinuncia alla sovranità assoluta all’unione di
Stati federati. (Aa.Vv., Luigi Marco Bassani,
“Federazione e confederazione. Una falsa opposizione?”, Federalismo tra filosofia e politica, a cura
di Ugo Collu, Nuoro, Fondazione Costantino
Nivola, 1998, pp. 51-76).
3. Federazione/confederazione: una distinzione necessaria
Un contributo chiarificatore su tale problema l'ha
portato Luigi M. Bassani il quale, riprendendo precedenti dottrine, afferma che la distinzione nella
teoria politico-giuridica tra confederazione e federazione è alquanto labile e dubbia, in quanto essa
sarebbe “tutta interna alla costruzione (ideo)logica
dello stato moderno”, elaborata da giuristi francesi
e germanici che “hanno sistematizzato la storia
della comunità politica americana spiegando agli
stessi americani che cosa era accaduto loro”. Ma
Il dibattito sul federalismo
essa sarebbe sconosciuta, nei termini in cui si è cristallizzata, al pensiero giuridico e politico americano classico, ossia quello del periodo che va dalla
dichiarazione d'Indipendenza (1776) alla guerra
civile (1861-1865), e quindi sarebbe fallace, in
quanto “i pensatori americani e quelli europei
maneggiavano due diversi concetti di sovranità,
che a loro volta sottendono due differenti concezioni del rapporto fra comunità politica e società,
fra stato e libertà e così via”.
La paronimia e la omonimia, afferma Bassani, non
devono quindi trarre in inganno. Infatti, “suprema
autorità legislativa” è la definizione di sovranità più
ardita che si riscontra nelle riflessioni americane
utilizzata da John Caidwell Calhoun (1782-1850)
per difendere la “sovranità dei singoli stati” nella
prima metà dell'Ottocento, una definizione che da
quasi tutti i giuristi europei sarebbe considerata
riduttiva rispetto agli “attributi necessari della
sovranità”.
Il punto è evidentemente fondamentale: la dottrina
costituzionale della sovranità, per come si è sviluppata in Europa dal Cinquecento in poi, è eminentemente giuridica, e richiede l'illimitata e illimitabile concentrazione del potere, ossia l'opposto del
federalismo. Quando si pongono domande sulla
sovranità e sulla sua localizzazione, viene da chiedersi, allora, se non ci si collochi ipso facto in un
orizzonte 'altro' rispetto a quello della teoria politica del federalismo. Se la sovranità rimanda necessariamente a concentrazioni di potere sul territorio
potenzialmente illimitate, come può essere utile
per una trattazione del federalismo? In altri termini,
dentro la gabbia di ferro della “sovranità” non si
rischia di perdere di vista il tema cruciale del federalismo, l'argine al consolidamento del potere centralizzato?
La centralizzazione del potere, infatti, è il dato permanente, la caratteristica ineliminabile che ha
accompagnato lo sviluppo storico degli stati europei e che ha favorito il sorgere di quel modello che
gli studiosi del federalismo chiamano di “stato reificato” (Bassani, cit., p. 54). (Sulla distinzione fra
federazione e confederazione fra Stati, vds.
Bassani, cit., pp. 55-62). Sotto lo stesso nomen
“sovereignity”, conclude Bassani, si nascondono,
quindi, due concezioni profondamente diverse del
potere in Nordamerica e in Europa. Sintetizzando,
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con un apparente paradosso, si può affermare che
in America il concetto di sovranità ha una funzione
eminentemente anti-statalista (sovranità delle
comunità politiche originarie come argine al consolidamento dell'unione), mentre in Europa la
sovranità è il puntello della costruzione statale e
statalista, la quale afferma la politicità della sintesi
“Stato”.
4. Il modello federalista americano e quello
europeo
In queste osservazioni però non ci si addentra in
questioni interne a teorie politico-giuridiche, ma ci
si limita a constatare empiricamente le diverse
tipologie di formazioni storico-istituzionali e dei
rispettivi modelli. Ora, in questa prospettiva storica, è evidente e macroscopico il fatto originario
che connota la nascita dello Stato-Nazione moderno di forma federale con gli Stati Uniti d'America.
Lo Stato-Nazione moderno nasce come una realtà
nuova, sia come nazionalità (degli “Inglesi
d'America”, come poi degli “Spagnoli d'America”),
sia come formazione statale dalla rivoluzione anticoloniale contro la metropoli europea. Nei territori coloniali non sussisteva affatto la nozione di
‘Stato’, mentre vigeva una realtà istituzionale di
self-government locale, nelle ex tredici colonie
anglosassoni, e di autonomie municipali nelle colonie ispano-americane.
Il federalismo prodotto dalla rivoluzione anti-coloniale, nelle sue varianti, ha origine anzitutto da una
reazione al centralismo militare-burocratico della
metropoli europea esterna. La continuità di un ordine istituzionale, nel crollo di quello coloniale, si
attuò nel self-government locale e nelle autonomie
municipali. Questi due fatti determinarono la nascita di una pluralità di stati federati di ambito regionale (maggiore o minore), la cui differenziazione si
definì fondamentalmente in base a quelle economiche e connesse, già esistenti nell'età coloniale.
Nessuna delle ex regioni storiche coloniali poteva
far valere la propria egemonia sulle altre. Il modello dell'Unione federale, alle origini dello StatoNazione moderno, nascente in America dalla rivoluzione anti-coloniale, doveva perciò risultare il
più congeniale a una realtà sociale, politica e territoriale pluralistica, di fatto già preesistente come
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‘costituzione materiale’. Tale equilibrio pluralistico, intrinseco alla formazione storico-istituzionale
di tipo federale, fu inoltre favorito dal fatto che
nell'America anglosassone la rivoluzione anti-coloniale non fu caratterizzata alle origini e non fu
seguita da violenti conflitti sociali di classe, come
avvenne in Europa nel corso della Rìvoluzione
francese, e oltre, ma anche in alcune aree
dell'America ispanica, in cui perciò s'imposero dittature e centralismi.
Una volta crollato il dominio coloniale della metropoli, gli Stati Uniti godettero del vantaggio di una
frontiera continentale aperta dall'Atlantico al
Pacifico (dal 1803, in seguito alla cessione della
Luisiana o dei territori che si trovavano lungo il
Missisipi fino al Golfo del Messico, da parte di
Napoleone), in continua espansione, con la trasformazione di territori colonizzati in nuovi Stati
federati, senza più la minaccia di conflitti con
grandi potenze esterne confinanti. Il caso della formazione storico-istituzionale degli Stati-Nazione
moderni in Europa è l'opposto.
In Europa iI modello confederale è pre-moderno;
storicamente ha origine da Stati (o principati, o
città-stato) o altre formazioni politico-territoriali
preesistenti, che si aggregano in un patto di
cooperazione, ma senza rinunciare alla propria
sovranità in quella superiore di una unione, come
nel caso esemplare della Svizzera (che soltanto
dopo il 1848 evolve verso il modello di unione
federale). Ma la Svizzera costituì un'isola in
Europa, per il fatto che il gioco d'equilibrio tra
grandi potenze le garantì una neutralità permanente. I modelli del federalismo nordamericano e
confederale elvetico furono presenti in tendenze
politiche risorgimentali italiane. Il paradigma confederale fu proprio del progetto dei monarchici,
cattolici-liberalmoderati piemontesi, dell'abate
Gioberti, di Balbo, D'Azeglio, e dei loro associati,
trovando una breve fortuna ideologica tra il 1844 e
i primi quattro mesi del 1848.
Per una penisola italiana (“espressione geografica”,
secondo il principe di Metternich) divisa da secoli
in una pluralità di principati, tra cui lo Stato pontificio al Centro, e da profonde differenziazioni economico-sociali tra Sud e Nord mai superate, una
formula confederale poteva sembrare la più idonea a una sua “costituzione materiale”. E di questa,
Mario Quaranta
infatti, fu espressione storica il programma neoguelfo, rimasto un'ideologia politica irrealizzata (e
tuttavia significativa) dell'età risorgimentale.
Paradossalmente, proprio una costituzione materiale antitetica storicamente allo schema di Stato
nazionale unitario centralizzato, secondo il modello francese-napoleonico, fu determinante della
recezione per il nuovo Regno d'Italia.
Il centralismo adottato negli anni 1861-1865 per
l'organizzazione politico-territoriale e amministrativa fu la conseguenza di un'unificazione della
penisola maturata improvvisamente e imprevedibilmente dal 1859 al 1860, per il concorso dell'iniziativa garibaldina di liberare il Regno delle Due
Sicilie con la spedizione dei Mille, e, come conseguenza immediata, per la conquista militare piemontese attraverso i territori pontifici dell'Italia
centrale, cui seguirono i plebisciti che sanzionarono con grandissime maggioranze le annessioni.
In questo modo, il nuovo Stato-Nazione unificatore di una pluralità molto eterogenea di regioni storiche della penisola, nacque indipendentemente
da un Congresso costituente, come continuità del
Regno di Sardegna, ossia, in pratica, come il risultato di una sua improvvisa espansione politicomilitare. Il rigido centralismo del modello francese-napoleonico fu, quindi, uno strumento adottato
per consolidare autoritariamente l'espansione
monarchica piemontese, contro le resistenze al
nuovo ordine statale che potevano provenire sia
dall'alto, ossia dai legittimismi monarchici, soprattutto borbonico e lorenese, e sia anche da ondate
di sovversivismo popolare spontaneo insorgente
dal basso, come si manifestò dal 1866 con le proteste diffuse contro la tassa sul macinato, a causa
della quale, nel 1876, cadde il governo della Destra
storica liberal - moderata.
Il centralismo nell'organizzazione politico-territoriale e amministrativa definita negli anni 1861-1865
appare dunque, in Italia, la risultante fondamentalmente di una necessità politica superiore di difesa
dell'ordine pubblico che, nelle valutazioni dei
governi delle oligarchie liberal-moderate, poteva
essere minacciato, con l'unità nazionale, non solo
da un ordinamento federale, ma anche da un semplice decentramento amministrativo. Su tali valutazioni dovette pesare, in particolare, la paura esercitata dalla reazione di un legittimismo borbonico
Il dibattito sul federalismo
che nei territori meridionali si associò, strumentalizzandolo, a un sovversivismo popolare spontaneo, intrecciatosi con il brigantaggio, contro cui fu
condotta per alcuni anni una campagna di repressione militare altrettanto violenta.
5. Verso il superamento degli Sati nazionali
Del federalismo però, oltre le nozioni storico-istituzionali e politico-giuridiche accennate, che nell'età di formazione degli Stati-Nazione moderni
sono derivate dai paradigmi anzitutto degli Stati
Uniti, e quindi subordinatamente da quelli di
Repubbliche ispano-americane, costituitesi
anch'esse con la rivoluzione anti-coloniale tra il
1811 e il 1830, sono state date altre diverse nozioni, definibili meta-storiche e meta-giuridiche, ossia
di “una dottrina sociale di carattere globale, al pari
del liberalismo e del socialismo, che non si riduce
quindi all'aspetto istituzionale, ma comporta un
atteggiamento autonomo, verso i valori, la società,
il corso della Storia, e così via” (Lucio Levi,
“Federalismo”, Dizionario di politica, Torino,
Tea, 1990, pp. 374-385).
In altri termini, si tratta di una “visione globale
della società” così come un'ideologia totalitaria,
che corrisponde a filosofie della politica, dell'etica,
del diritto, della storia, e il cui il riferimento prioritario obbligato, sotto il profilo storico, va alla concezione cosmopolitica del federalismo nel pensiero di Kant, che influenzò successivamente l'utopia
di Saint-Simon, di Proudhon e anche, più moderatamente, Mazzini e Cattaneo. Il federalismo kantiano è, in tale senso, un’ideologia politica utopica la
cui teoria postulava (e postula) il superamento
degli Stati nazionali in “un governo democratico
sopranazionale, come strumento politico per
instaurare relazioni pacifiche tra le nazioni e di
garantirne nello stesso tempo l'autonomia attraverso la loro subordinazione a un potere superiore” (Levi, cit., p. 379).
L'utopia federalista di Kant del superamento degli
Stati nazionali in un governo sopranazionale
democratico, è stata storicamente contraddetta dal
fatto che proprio tra Otto e Novecento la spirale
dei conflitti di potenza tra Stati nazionali moderni,
provocati dalle lotte per la nazionalità e per la conquista dei mercati, dalle guerre doganali di ritor-
9
n.11 / 2005
sione reciproca, in un processo di sviluppo economico sempre più diseguale, corrispondente a una
ineguale distribuzione di potere politico tra Stati,
ha raggiunto l'apice. Essa ha esasperato e moltiplicato i fattori di anarchia e di rottura dell’equilibrio
internazionale, determinando rapporti imperialistici tra i Paesi più forti e quelli più deboli. Per conservare o rovesciare tale ordine di rapporti, gli Stati
nazionali non hanno trovato altra soluzione decisiva che due guerre mondiali, le quali hanno determinato un'eclissi dell'Europa come centro del
mondo.
Oggi, ciò che appare determinante di una tendenza al superamento degli Stati nazionali, non è tanto
il fatto che si sia pervenuti a un effettivo governo
democratico sopranazionale (che dovrebbe essere
costituito dall'organizzazione delle Nazioni Unite),
quanto piuttosto da altri due ordini di fattori. (1)
Dal 1945 una nuova guerra mondiale è divenuta
praticamente impossibile, almeno direttamente,
tra grandi potenze, e tanto più da quando, con
l'autodisintegrazione per implosione, dal 1989 al
1991, dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti sono
rimasti l'unica potenza globale; (2) i processi di
globalizzazione economica mondiale, ora accelerati, spingono gli Stati nazionali a una reciproca integrazione, prima di tutto economico-politica, per
blocchi continentali, come nel caso dell'Unione
europea, che può prefigurare, embrionalmente,
una federazione (punto d’arrivo peraltro lontano).
Ciò che caratterizza storicamente la sostanziale differenza di premesse e implicazioni economicosociali e politico-istituzionali, nel dibattito generale
sul federalismo-centralismo, oggi, in Italia, e ieri, tra
età risorgimentale e post-risorgimentale, è il fatto
macroscopico che alla vigilia del terzo Millennio gli
Stati nazionali moderni sono giunti al tramonto,
mentre tra il 1860 e il 1870 nascevano nella penisola italiana e nel Paesi germanici (con l'Impero di
Bismarck, nel 1871). Tale nascita corrispondeva
anche alla formazione di due nuovi grandi mercati
nazionali in Europa (il primo era stato preceduto
agli inizi del secolo dall'Unione doganale), che inizialmente si aprivano al liberoscambismo commerciale, ma per volgere molto presto al protezionismo; in Italia dagli anni 1876-1878 con l’avvento
della Sinistra liberale al governo.
Nell’odierno dibattito sul federalismo, si sovrap-
10
pongono, in Italia, due piani molto diversi di prospettive: quello dell’integrazione degli Stati nazionali in una comunità politica europea, e quello
della trasformazione istituzionale dello Stato nazionale unitario e centralista italiano in uno Stato
federalista. Su nessuna delle due prospettive sussiste attualmente certezza di orientamenti precisi;
ciò che sembra abbastanza sicuro finora è che,
dopo le recenti elezioni per il Parlamento europeo, il processo d’integrazione continentale europea si prospetta in modo ormai irreversibile, anche
se non potrà essere del tutto “armonico” e senza
contraccolpi negativi su settori interni più deboli
degli Stati nazionali, i quali potranno imporre delle
battute d'arresto a una evoluzione della nuova
organizzazione politica unitaria europea sopranazionale, che potrà configurarsi, a nostro avviso,
secondo un modello federale.
È prevedibile, pertanto, che il processo d'integrazione continentale europea si attuerà e si connoterà in forme di tipo federale indipendentemente
dalle trasformazioni istituzionali interne allo Stato
nazionale italiano, che potrebbero avvenire
seguendo modelli diversi. Da una parte, si potrebbe innovare nella continuità dello Stato nazionale
unitario con un sostanziale decentramento amministrativo e con un cosiddetto federalismo fiscale;
dall'altra si potrebbe evolvere verso un autentico
ordinamento di tipo federale attuando, ad esempio, un modello proprio, come quello delineato
nel progetto approvato in prima lettura dal
Parlamento. (Peraltro, permane un'incertezza di
fondo, determinata dall'esplicita affermazione
dell'Ulivo, ora all'opposizione, di modificare il
progetto del Polo, attuale maggioranza, qualora
vincesse le elezioni del 2006; un obiettivo che in
questo momento ha un'indubbia possibilità di
essere raggiunto).
In ambedue le eventualità, o in un'altra ipotesi
ancora di trasformazione istituzionale, l'evoluzione
interna allo Stato nazionale italiano non sarà determinante di quella continentale europea. Al contrario, questa ha già condizionato e condizionerà
ancora l'evoluzione istituzionale interna dell'Italia,
che da oggi per il domani non potrà non dimensionarsi sui blocchi di forze economico-sociali predominanti e decisive, e quindi dal blocco sociale e
politico del Nord nel suo complesso. D’altra parte,
Mario Quaranta
il blocco degli interessi del Nord è sempre stato
determinante delle tendenze seguite dalle origini
dell'unità nazionale in poi, ma con alcune variazioni sostanziali nel suo assetto economico-sociale e
politico e in rapporto al Sud.
6. Nord e Sud nella storia d’Italia
Il blocco dominante del Nord si è identificato, dall'unità nazionale al fascismo, con quello del cosiddetto ‘triangolo industriale’ piemontese-ligurelombardo. Esso ha deciso sia la politica economica
liberoscambista della Destra storica fino al 1876,
sia quella protezionista iniziata dalla Sinistra, poi.
In entrambe le varianti, i settori regionali più svantaggiati nel loro complesso sono stati quelli meridionali. Ciò però non significa, ovviamente, tutto il
Meridione come blocco indifferenziato, tanto è
vero che, paradossalmente, le tendenze federaliste
sono state prevalentemente centro-settentrionali,
mentre le oligarchie del Sud sono state preferibilmente unitarie. L'applicazione del liberoscambismo commerciale, già dagli inizi dell’unità nazionale, provocò la rovina di una nascente industria
meridionale, che era stata sviluppata con il protezionismo doganale, e che di fronte all’improvvisa
invasione di merci inglesi, francesi, belghe, non
trovò più la capacità di reggere la concorrenza.
L'unità nazionale fin dalle sue origini ebbe, dunque,
per conseguenza economica immediata, la deindustrializzazione del Meridione. Successivamente, il
blocco protezionista integrale ripercosse i suoi contraccolpi più negativi ancora sul Sud. La guerra
commerciale che esso provocò con la Francia, e le
ritorsioni doganali di questa contro le importazioni
di vini italiani colpirono rovinosamente la viticoltura meridionale. Tuttavia, del blocco protezionista
integrale del Nord furono componenti sociali e
politiche fondamentali anche i grandi proprietari di
latifondi cerealicoli del Sud, soprattutto della Sicilia
e delle Puglie. Non è d'altra parte un caso che il leader politico più rappresentativo di tale blocco sia
stato il siciliano Francesco Crispi.
Il rapporto Nord-Sud, fondato sull'alleanza decisiva dei proprietari di latifondi cerealicoli meridionali con il blocco protezionista settentrionale, è
venuto meno con la trasformazione capitalistica
industriale, la globalizzazione e l'integrazione con-
Il dibattito sul federalismo
tinentale europea. Di fronte a questa, è ancora
l'Italia settentrionale che impone i criteri e i modi
alla penisola, in cui la divaricazione del Meridione,
nello sviluppo diseguale in rapporto al Nord, in
proporzione si è ancora accentuato, nonostante le
migliaia di miliardi che sono stati drenati dallo
Stato, con la politica creditizia per il Mezzogiorno.
L'integrazione continentale europea, così come la
globalizzazione economica mondiale, di cui la
prima è un aspetto, provocando il tramonto degli
Stati nazionali ha però come contraccolpo negativo di accentuare ed esasperare all'interno di questi
i settorialismi economici regionali, che operano
come nuovi fattori aggravanti di uno sviluppo diseguale tra aree diverse, con maggiore asprezza, in
linea generale, dove tale divaricazione preesisteva
da più lungo periodo. E questo è il caso esemplare
dell’Italia, che tra tutti gli Stati-Nazione dell’Europa
occidentale è quello in cui il fenomeno dello sviluppo diseguale tra aree regionali interne, nel
nostro caso, tra Nord e Sud, è stato più accentuato, dal momento che la divaricazione non si è prodotta con l'unità nazionale, che l'ha soltanto
ampliata, ma è durata da secoli, praticamente da
dopo il Mille.
La gravità del fenomeno dello sviluppo diseguale
tra Nord e Sud nella penisola italiana (che è un
aspetto europeo-regionale di un analogo rapporto
che si ripropone ampliato su scala inter-continentale; per esempio, tra America anglosassone e
America latina, e in quella mondiale) spiega come
il dibattito sul federalismo si sia improvvisamente
generalizzato ed esasperato, in Italia, investendo
tutti i settori politici, e allo stesso tempo abbia
creato un’estrema confusione di idee e di prospettive, in modi che non hanno riscontro in nessun
altro Paese dell'Europa occidentale. Infatti, uno
squilibrio interno di sviluppo diseguale altrettanto
accentuato non esiste, mentre d'altra parte, la formazione politico-istituzionale dello Stato nazionale avvenuta da molto più lunga durata è assai più
consolidata; oppure, il problema politico delle
autonomie regionali ha già trovato una soddisfacente soluzione all'interno dei rispettivi StatiNazione, come ad esempio nella Germania e nella
Spagna. La grandezza dello squilibrio di sviluppo
economico tra regioni italiane, ma soprattutto tra
Nord e Sud, si può riassumere nel fatto che quat-
11
n.11 / 2005
tro regioni settentrionali, Lombardia, Veneto,
Piemonte, Emilia-Romagna, assicurano da sole il
52,3% delle entrate fiscali complessive dello Stato,
ricevendo in cambio da esso un 33,9% della redistribuzione statale.
Zeffiro Ciuffoletti osserva, in proposito, che tra i
Paesi della Comunità europea, l'Italia è quello che
presenta i più ampi divari nella capacità di produrre reddito ed entrate fiscali. Il fenomeno dello squilibrio fiscale ha soprattutto esasperato la polemica
contro il centralismo, che ha avuto nella minaccia
secessionista della Lega lombarda la proiezione
ideologica più estrema. Ma la secessione è rimasta
il motivo di un populismo demagogico che, nonostante gli appelli ai popoli “celtici” padani contro
Roma, ha connotato un movimento minoritario
che si è andato via via ridimensionando.
L’idea di secesione non ha trovato credito in nessuna forza sociale e politica decisiva, e avendo
piuttosto fatto perdere che guadagnare consensi
alla Lega, è stata alla fine abbandonata. Il motivo
secessionista è apparso consistente quanto l'invenzione di una nazionalità neoceltica padana, che
non ha fondamenti storico-culturali. Piuttosto ne
hanno semmai le differenziazioni regionali tra le
aree geo-storiche dell'ex Repubblica di Venezia
(che includeva le province di Brescia e Bergamo,
nei cui centri municipali, non a caso, si sono registrate le affermazioni elettorali più consistenti
della Lega), dell'ex Ducato di Milano, del
Piemonte, dell' Emilia-Romagna, ex-pontificia e poi
ex-comunista.
Il secessionismo o l’invenzione della nazionalità
neo-celtica padana non sono state, in conclusione,
che le proiezioni di una mitologia demagogica
popolana, i cui fondamenti sostanziali sono invece
nella esasperata protesta contro l'eccessivo fiscalismo, diffusasi tra i nuovi ceti imprenditoriali cresciuti con la media e più ancora con la piccola industria. Questi motivi si associano, poi, a vecchi risentimenti contro la burocrazia identificata con “i meridionali”, con il sistema dei partiti, con la sinistra,
con il dirigismo economico, con il sindacalismo, a
cui si connettono le reazioni istintive e ovvie verso
le conseguenze patologiche di un'immigrazione
extra-comunitaria incontrollata, il dilagare della
micro-criminalità e dell'insicurezza.
E poiché, come sempre, occorre un ‘capro espia-
12
torio’, e tanto più quanto maggiori si manifestano
le difficoltà di conseguire soluzioni soddisfacenti e
rapide, sia su base nazionale sia su base autonoma
regionale e municipale, capro espiatorio migliore
non si poteva trovare che nel centralismo statale
prevaricatore e inefficiente di Roma, dall’unità
nazionale a oggi. Centralismo oggi rivisitato da una
nuova storiografia che peraltro dimentica che esso
è sempre stato uno strumento politico degli interessi predominanti del blocco del Nord, seppure
con il supporto di settori subordinati del Sud.
Si ha l’impressione che un carattere peculiare dell'odierno dibattito sul federalismo sia determinato
da una convergenza negativa di critica generalizzata al centralismo, la quale, essendo fin troppo facile e condivisibile, ha anche l’effetto di creare un
altrettanto facile mito politico di un federalismo
generico, o elevato a cospirazione politica globale,
o immaginato usato come un toccasana per tutti i
mali economici e sociali della penisola, mentre si
protraggono confusione e incertezza su progetti
politici precisi e risolutivi. Come ha osservato l'ex
ministro Giulio Tremonti, è certo che senza federalismo fiscale è difficile parlare di federalismo. Ma
è anche vero che non necessariamente si perviene
a un nuovo ordinamento federale sulla base di un
progetto, delineato dallo stesso Tremonti, di un
forte municipalismo che arrivi al solidarismo al vertice, “passando per le Regioni concepite come
strumenti di autogoverno” (G. Tremonti-G.
Vitaletti, Il federalismo fiscale, Roma-Bari, Laterza,
1994).
La preoccupazione di salvaguardare il solidarismo
contemperando un forte municipalismo e un autogoverno regionale, è l’ovvia conseguenza del fortissimo squilibrio nello sviluppo economico diseguale
che ha caratterizzato il rapporto Nord-Sud in Italia,
come in nessun altro Paese europeo. Ciò ha indotto a ipotizzare soluzioni agli opposti estremi: (1) alla
minaccia secessionista della Lega in quelle aree provinciali lombardo-venete che per essere meglio
inserite, con una diffusa piccola e media industria
esportatrice nel mercato europeo (e particolarmente germanico), individuano nel Meridione un ostacolo al proprio sviluppo, da cui ci si dovrebbe, e ci
si potrebbe per sempre liberare con una separazione statale, che consentirebbe la migliore integrazione continentale; (2) alla tendenza a garantire il “soli-
Mario Quaranta
darismo” nazionale a favore del Mezzogiorno (che
in realtà significherebbe l’assistenzialismo, come
non a torto denunciano i “nordisti”) nella continuità di un ordinamento di Stato unitario che, corretto
da autonomie municipali e regionali, sostanziali e
non più nominali, consenta ancora a un forte potere di governo centrale di prolungare prelievi e trasferimenti di surplus dal Nord al Sud.
Questa seconda tendenza è apparsa favorita dalla
circostanza che il personale politico, che ha diretto l’Italia con la coalizione governativa di centrosinistra, si è identificato praticamente con i gruppi
post-comunisti e post-democratici cristiani, in prevalenza meridionali, integrati da quelli minori
dell'Italia centrale. Ma la forza politica di tale tendenza proviene, non tanto da una forza elettorale
di sinistra, che in realtà non ha superato, allora, il
30%, quanto piuttosto da un abile rapporto di
compromesso che essa interpretò con settori decisivi del grande capitale finanziario-industriale del
Nord, ai quali sarebbe nuociuto un improvviso e
aggravato collasso del Meridione lasciato andare a
se stesso, una volta privato del tutto del cosiddetto solidarismo assistenziale dello Stato. Inoltre,
questo rapporto compromissorio si saldò, allora,
ancora più fortemente a un altro fattore economico più decisivo, quello della continuità di un capitalismo di stato, seppur molto ridimensionato
rispetto all'enorme e anomala espansione avvenuta dal 1933, quando in età fascista fu creato l’I.R.I.
(Istituto per la Ricostruzione Industriale) a tutta
l’età post-fascista, fino al 1988, quando iniziò il processo di privatizzazione.
Per quanto non siano mancati portavoce di interessi del grande capitale finanziario-industriale che
hanno elogiato i politici di sinistra come più convinti e coerenti liberisti di quelli liberal-moderati di
centro-destra, ciò non sembra fondato che settorialmente e traversalmente. La questione fondamentale e decisiva consiste, ancora oggi, sotto la
direzione dello schieramento di centro-destra, nel
fatto che il settore privato del capitalismo in Italia,
dall'avvento della Sinistra liberale al governo nel
1876, non è mai stato tanto forte e maturo da poter
prescindere, in perfetto o quasi regime liberista, da
un sostegno statale sotto varie forme, che da allora
all'età della prima Repubblica si è dilatato sempre
di più, e che neppure oggi, di fronte al processo di
Il dibattito sul federalismo
integrazione continentale europea e alla sfida della
globalizzazione, si può lasciare perdere improvvisamente del tutto.
l capitalismo di stato, pur ridimensionato, resta
quindi uno strumento utile per alcuni settori del
capitalismo privato; del resto, in Europa non è un
fenomeno peculiare soltanto dell’Italia, essendolo
anche della Francia, dove oggi è ancora più accentuato. L’intreccio è stato implicitamente riconosciuto da qualche esponente del centro-sinistra,
quando dichiarò che il capitalismo in Italia ha bisogno della Sinistra. Ciò implica che neppure la
destra liberal-moderata può in blocco prescindere
dal ruolo di un sostegno statale al settore privato.
Il solidarismo per il Mezzogiorno, combinandosi a
tale prospettiva, si è presentato, oggi, come una
piattaforma sociale e politica preferenziale di un
programma tendenzialmente bipartisan, volto ad
attenuare e diluire il progetto federalista in quello
di un federalismo fiscale sulla base di un decentramento municipale e regionale. Questa convergenza ha fatto esasperare la protesta populista della
Lega, che è stata e resta un fattore oggettivo decisivo per il Polo, anche se il suo consenso resta
localizzato fondamentalmente in aree municipali
lombarde e venete. È venuta meno in modo definitivo l’ipotesi secessionista, in seguito a una revisione degli stessi dirigenti intransigenti della Lega,
che con quell’agitazione estremistica si sono circoscritti al ruolo di movimento protestatario minoritario di destra populista, la cui incidenza politica
effettuale rimane peraltro rilevante. D’altra parte la
Lega non è in grado di arrivare ad essere forza
decisiva di una soluzione fondamentale, se non
attraverso l’accettazione di mediazioni all’interno
stesso dello schieramento politico in cui si è stabilmente collocata.
A tutt’oggi la proposta federalista del Polo è sottoposta a tentativi di revisione perché si ritiene, dall’opposizione del centro-sinistra e da forze interne
alla maggioranza, che abbia dato alle regioni troppi poteri. Si profila una situazione in cui si tenta di
trovare una via compromissoria intermedia tra una
tendenza favorevole a un federalismo attenuato
nel decentramento municipale e regionale, ossia a
un federalismo fiscale che salvaguardi una politica
economica solidaristica per il Mezzogiorno, e una
tendenza federalista più radicale, rappresentata
13
n.11 / 2005
dalla sola Lega.
Comunque, la soluzione finora indviduata ha retto
alle prime prove parlamentari, ma qualsiasi possa
essere la linea vincente, non saranno le teoriche
costituzionali, le filosofie politiche di per sè, e
tanto meno le retrospettive storiografiche a produrla. Saranno le necessità nuove imposte dal tramonto degli Stati nazionali, prodotto dal duplice
processo concomitante dell'integrazione continentale europea e della globalizzazione economica
mondiale.
Il tramonto degli Stati nazionali non significa la dissoluzione delle loro realtà storico-istituzionali, ma
piuttosto un ridimensionamento funzionale e adeguato a una realtà nuova nascente, quella di una
Unione espressa nella Costituzione europea, che
non ha alcun antecedente storico cui riferirsi. Il suo
modello non è quello dell'Unione federale degli
Stati Uniti d'America, sebbene questo paradigma
storico risulti fondamentale per intendere che la
dottrina costituzionale della sovranità sviluppatasi
in Europa dal secolo VI al XX, è stata la proiezione
storica di un tipo di formazione dello Stato-Nazione
moderno, ma non l’unica. Un'altra è stata quella del
federalismo nord-americano alla fine del secolo
XVIII; ma una terza ancora può essere quella
nascente con una Unione federale europea, che
conseguentemente potrà produrre, a sua volta, una
nuova e originale teoria politico-giuridica.
7. Il ruolo delle regioni nella gestione della
scuola
Alla ricerca di un “asse culturale”
Fra i molti dubbi che ha sollevato l’attuale progetto di federalismo, incentrati sui poteri affidati alle
regioni, non c’è quello che riguarda la gestione
della scuola da parte delle regioni, perché essa fa
già parte del nostro ordinamento, ma i modi e i
tempi sono ancora da definire. Da ciò l’opportunità di aprire un dibattito, dal momento che si tratta
di un aspetto decisivo all’interno del progettato
federalismo che, comunque definito, si contrappone a una tradizione centralistica che è all’origine
del nostro Stato nazionale. Uno dei leitmotiv dell'opposizione parlamentare contro la gestione della
scuola da parte delle regioni, è che essa comprometterebbe l’unità del Paese, con la legittimazione
14
dei “localismi” e conseguenti conflitti inter-regionali. Questa assunzione di nuove competenze e attribuzioni della regione nel campo dell'istruzione, ha
sollevato problemi nuovi come quelli dell'equità
nella scuola, di un insegnamento diversificato,
interculturale, ecc.; problemi su cui ci soffermeremo brevemente e in termini problematici.
Va subito detto che il ruolo delle regioni all’interno
di un’Europa unita è un problema su cui discutono
studiosi di tutta Europa. A tale proposito basterà fare
un riferimento al convegno di alcuni anni fa (gli atti
sono stati curati da Enzo Sciacca, L'Europa e le sue
regioni, Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, 1999)
per renderci conto dell’importanza di tale problema
negli Stati federali e non, e del ruolo che ha avuto e
ha tuttora la cultura, in particolare la scuola, nella
costruzione del tessuto connettivo di ogni Stato. La
situazione italiana presenta una caratteristica che la
contraddistingue da altri Paesi europei, sia perché
l’odierno Stato unitario è stato unificato solo da 130
anni, e in modi e tempi imprevisti, allora, da tutte le
forze politiche, con interventi decisivi di Paesi stranieri (Inghilterra e Francia), sia perché le regioni
hanno costituito per secoli dei veri e propri Stati,
per cui l’unificazione politica è avvenuta attraverso
l’imposizione di un modello statale, quello piemontese, che ha provocato conflitti prolungati nel
Nord e soprattutto nel Sud.
Da ciò il rilievo decisivo che è stato assegnato alla
“cultura” come tramite di un’unificazione intellettuale, considerata essenziale al fine di dare una
ben definita fisionomia unitaria all’Italia. In altri
termini, il centralismo politico e amministrativo è
stato integrato da un centralismo culturale, e la
scuola è stata il tramite fondamentale nella formazione dell’“italiano”, tanto che si potrebbero agevolmente delineare i tre modelli culturali che sono
stati proposti, ma più spesso imposti, dai tre fondamentali regimi che si sono succeduti in Italia dall'unità nazionale a oggi: liberale, fascista-autoritario, liberal-democratico.
Una delle discussioni che ha coinvolto il personale
culturale dell’Italia unita è stato proprio quella per
individuare, fra le molte componenti del nostro
patrimonio storico, quale considerare l’asse culturale del Paese. A titolo esemplificativo, si può dire
che nel campo della tradizione letteraria, centrale
e prioritaria nella formazione dell’“italiano”, sia
Mario Quaranta
stata la Storia della letteratura italiana di
Francesco De Sanctis, il quale ha delineato il paradigma di tale tradizione letteraria, rimasta pressochè inalterata nella cultura e nella scuola italiana
fino ai nostri giorni (ovviamente con le integrazioni e gli aggiornamenti resi via via necessari). Nel
campo della filosofia il positivismo ha dato la sua
impronta ai programmi scolastici di questa disciplina; e il discorso può estendersi anche a discipline scientifiche; basterebbe ricordare quale dibattito e quali scelte sono state compiute nell’insegnamento della matematica, un campo in cui i matematici italiani hanno dato rilevanti contributi in
Europa. Ora, l’attribuzione alle regioni di una parte
del curriculum scolastico, cosa comporta? A questo punto si apre la discussione, avendo presente
che la situazione italiana è caratterizzata da un policentrismo culturale, opposto, ad esempio, al
monocentrismo francese, dove Parigi costituisce il
centro dominante pressochè esclusivo della cultura, seppure oggi in forme meno esclusive.
D’altra parte, non siamo all’anno zero; nel corso
del Novecento, ad esempio, le culture regionali
sono state valorizzate in vari momenti della nostra
storia culturale; dalla “scoperta” delle città e delle
regioni italiane compiuta dalla rivista “La Voce”,
sorta nel 1908, abbiamo assistito a periodiche
riscoperte di scrittori, scienziati, poeti, riviste, la
cui incidenza è stata rilevante nell’ambito delle singole regioni; una cultura non adeguatamente
conosciuta, e soprattutto non entrata nel circuito
culturale nazionale, e perciò rimasta, di fatto, estranea al patrimonio conoscitivo comune, a un ethos
condiviso. Basterebbe citare, a tale proposito, il
fenomeno dei poeti cosiddetti “dialettali”, che solo
molto tardi sono stati, per così dire, legittimati culturalmente, mentre fenomeni di utilizzo geniale di
dialetti, come l’esempio rappresentato da Gadda,
costituiscono dei “casi” alti e circoscritti. Esso attesta come il radicamento nel patrimonio linguistico
“dialettale” sia un motivo non di arretratezza o di
mero ossequio a un mondo arcaico, ma di vera e
propria creatività culturale. (Un'altra, analoga
esperienza è rappresentata dall'attività letteraria di
Pier Paolo Pasolini).
Non solo: nel 1967 fu pubblicato dall’Einaudi un
libro di saggi di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana in cui l'autore, riser-
Il dibattito sul federalismo
va una particolare un'attenzione “ai propositi e
successi degli uomini nelle condizioni proprie in
cui si trovarono a scrivere, piuttosto che all’intimità e alle risonanze lontane o, come si usa dire,
all’universalità delle loro scritture”. Da ciò il privilegiamento accordato alla presenza e al radicamento regionale della letteratura, alla storia delle
scuole, delle biblioteche, degli editori, degli sviluppi linguistici e filologici. Un testo, questo, che
ha aperto nuove vie all’indagine e alla ricostruzione critica della nostra tradizione letteraria.
Un capitolo a parte è rappresentato dal “problema
della lingua”, del suo insegnamento nella scuola e
del ruolo dei dialetti. Tullio De Mauro pubblicò nel
1969 brevi antologie rivolte alla scuola su Lingue e
dialetti di tutte le regioni italiane (I nove volumetti, ciascuno di 28 pagine, sono stati pubblicati
nel corso del 1969 da La Nuova Italia di Firenze); il
Gischel di Bologna organizzò nel 1976 un convegno su Lingua, dialetti e scuola (Bologna,
Consorzio provinciale pubblica lettura, 1976). Già
allora fu espressa l’idea che la conoscenza del
patrimonio dialettale del nostro Paese non era un
rêpechage di tradizioni in via di estinzione o spente, ma un modo per rendere consapevoli gli italiani della loro cultura che continuavano ad usare,
per poterla arricchire acquisendo gli strumenti linguistici, ossia conoscitivi, forniti dalla lingua italiana. Ma altri potrebbero essere i riferimenti a un
dibattito e a una produzione editoriale su tali problemi che è continuata nel tempo, e che ha caratterizzato una stagione nel rinnovamento della “cultura scolastica”. Un discorso analogo potrebbe
essere fatto per la storia, dove la produzione di
testi, ricerche, antologie, riviste di storia delle singole regioni italiane conosce un enorme, ininterrotto sviluppo. Infine, numerose sono ormai le
enciclopedie e le collane di storia delle città e delle
regioni.
La giustizia nel sistema scolastico
D'altra parte, prima della riforma odierna della
Costituzione, in cui alle regioni sono assegnati in
modo inequivoco nuovi poteri nel campo dell'istruzione, abbiamo assistito a trasformazioni dell'assetto istituzionale delle competenze riguardante
l'istruzione e la formazione; il decentramento
amministrativo e l'autonomia scolastica è il punto
15
n.11 / 2005
d'approdo di tali trasformazioni. In un primo
momento, la legittimazione è stata individuata nell'articolo 5 della Costituzione, di cui il nuovo Titolo
V è stato considerato un ulteriore potenziamento.
Un ruolo decisivo, in tale prospettiva, hanno
assunto le leggi e i regolamenti sull'autonomia,
che dal 1993 (legge n. 537) al 1999 (legge n. 559)
sono state emanate e integrate dal Regolamento
sull'autonomia, regolamento che dal settembre
2000 è stato applicato nella scuola italiana. In conclusione, il Titolo V è stato preceduto da una serie
di atti legislativi i quali hanno via via assegnato un
ruolo sempre più ampio all'amministrazione locale
e regionale, nel segno di una visione decisamente
anti-centralistica.
Oggi, il tema della qualità ed equità del servizio
scolastico è abbastanza nuovo, in Italia, e si intreccia a quello, strettamente connesso, della decentralizzazione e del ruolo della scuola nelle regioni.
Un primo problema riguarda l'atteggiamento che
si riscontra in Italia sul problema della giustizia del
sistema scolastico. La giustizia scolastica, si afferma, non è riducibile al problema dell'accesso agli
studi superiori, ma va allargato includendovi quello della distribuzione del cosiddetto “bene educativo” fra categorie diverse di studenti.
La risposta è condivisibile; storicamente la riforma
della scuola, come quella compiuta da Giovanni
Gentile (ma il giudizio vale anche per la prima di
Casati) è ispirata essenzialmente da un obiettivo
“politico” (in senso lato), in cui centrale è il problema della mobilità sociale. Uno dei suoi obiettivi
fondamentali è stato, come è noto, la diminuzione
dell’offerta di forza lavoro intellettuale; obiettivo
sostanzialmente raggiunto, perché il numero degli
iscritti all’università diminuì sensibilmente, riducendo o comunque ridimensionando il fenomeno
della disoccupazione intellettuale. Il fascismo ha
pertanto scelto la riforma della scuola Gentile, consapevole di dover pagare un certo prezzo politico
e sociale, in termini di intensità ed estensione
dello sviluppo, pur di mantenere la stabilità dell’ordine attraverso il consenso e l’appoggio dei ceti
medi, fra cui fondamentale quello degli insegnanti.
Tale equilibrio tra scuola e società non è durato a
lungo, perché non è stato mantenuto un rapporto
fisso tra i posti di lavoro e il numero dei laureati e
abilitati. La disoccupazione intellettuale rimase
16
fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; le
disfunzioni fra la scuola e il mercato del lavoro
diventarono più profonde nel corso degli anni
Trenta, in seguito allo sviluppo industriale e quello, conseguente, dei servizi.
L'articolo 34 della Costituzione del 1948 fa dell'equità dell'acceso agli studi superiori l'obiettivo
strategico di una politica scolastica; esso afferma:
“I capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi”. E’ il modello dell’opportunità o dei punti di
“partenza” che Rawls ha radicalmente criticato.
Inoltre, il secondo dopoguerra è stato caratterizzato da una molteplicità eccezionale di proposte di
riforma della scuola da parte sia dei governi che si
sono succeduti nel corso degli anni, sia dei partiti
dell'opposizione. Le diverse soluzioni che sono
state via via avanzate risultano ora del tutto sorpassate; in questo momento si tende soprattutto a
una distribuzione equa del “bene educativo” fra
categorie diverse di studenti; bene che non è dato,
ovviamente, dal solo diploma ma da una serie di
interventi educativi perlopiù personalizzati che
consentono un'integrazione dei giovani nella
società a un livello quantomeno accettabile.
A questo proposito, il riferimento teorico d'obbligo è stato e continua largamente ad essere la posizione espressa dal filosofo John B. Rawls nell'opera del 1971, Una teoria della giustizia, opera che
ha avviato un dibattito internazionale sulla giustizia
nei vari campi della vita sociale (ma ora sono discussi e utilizzati anche altri modelli, come quello di
Sen o di Walzer). Il modello rawlsiano ha avviato
un nuovo approccio nella gestione della scuola, su
cui si sono soffermati alcuni studiosi: Denis
Meuret, Sophie Morlaix, e Luciano Benedusi.
Decentralizzazione e unità nazionale
Un altro problema riguarda il rapporto che secondo
alcuni studiosi esiste fra la decentralizzazione della
scuola e l'unità nazionale, unità cui la scuola italiana
è stata, per così dire, deputata istituzionalmente a
garantire. Indubbiamente si tratta di un problema
centrale, specie nel nostro Paese, ove la scuola ha
sempre svolto un ruolo “ideologico” per assicurare
l'unità culturale del Paese, premessa essenziale per
l'unità nazionale. I tre modelli di scuola che si sono
avvicendati dal 1859 (legge Casati) ad oggi, sono
Mario Quaranta
caratterizzati dall'essere fondati su un ben determinato modello culturale (rispettivamente liberale,
autoritario, democratico). Oggi l'identità culturale
non è più raggiungibile attraverso un modello statico di cultura; essa si costruisce attraverso il confronto più o meno conflittuale fra modelli diversi e
idee differenti all'interno di uno stesso modello. E
non c'è una cultura “prima”, originaria da tutelare,
né una cultura “superiorie” da difendere. La cultura
come complesso di valori, di credenze, di tradizioni, è sempre stata, ed è particolarmente oggi in
una situazione di globalizzazione, il prodotto di
scambi culturali. È intercultura. “L'identità, afferma
Franco Remotti, viene sempre, in qualche modo,
‘costruita’, ‘inventata’” (Contro l'identità, Laterza
1999, p. 5), e costantemente ricostruita, reinventata. Essa è il risultato di ibridazioni, rielaborazioni,
cambiamenti dei propri paradigmi culturali. Chi,
invece, difende o ha difeso in periodo storici precedenti, un'identità statica, fondata, appunto, su
un presunto primato del proprio popolo o del proprio Stato o della propria razza, è stato o è votato
al fallimento.
Il dialogo interculturale è il nuovo terreno delle
sfide di questo secolo; un dialogo inteso non solo
come un ovvio scambio di opinioni, ma come
incontro in cui ogni Paese mette in discussione i
presupposti stessi della propria cultura, le identità
consolidate da tradizioni, dimostrandosi disposto
a rivederli e modificarli. In questo modo cesseranno le identità statiche storicamente consolidate,
con l'arricchemento della propria attraverso apporti nuovi.
Ebbene, se si accoglie questa nuova concezione
dell'identità culturale, la decentralizzazione politica
ed anche quella culturale, che ha nella scuola il suo
“luogo” naturale, privilegiato, sarà necessaria. Essa
consentirà la difesa e l'allargamento dell'autonomia
della scuola, in cui le regioni avranno un preciso,
codificato spazio d'intervento e gli insegnanti un
ruolo essenziale nella progettazione culturale.
Infine, un ultimo problema concerne il fatto se una
politica dell'equità educativa comporti o meno la
necessità di gestire la diversità con criteri differenti
di giustizia, tenendo conto delle diversità geo-politiche e culturali del Paese. Siamo di fronte a una
generosa utopia scolastica o a un problema che
esige una risposta, sia pur provvisoria, aperta a con-
Il dibattito sul federalismo
ferme ma anche a rettifiche? Non ci dobbiamo
nascondere che questa questione è oggi ampiamente dibattuta, in modo diverso e più spesso radicalmente diverso. Secondo alcuni studiosi, oggi
siamo di fronte a un processo di globalizzazione
che tendenzialmente porta all'esaurimento delle
differenze fra le culture, ossia all'eliminazione delle
loro identità. La globalizzazione tenderebbe a stabilire un unico codice culturale, ossia il modello occidentale, capace di uniformare i comportamenti.
Di fronte a questa tendenza, i difensori del “glocalismo” avrebbero un ruolo se non marginale, tollerabile nella misura in cui questa tendenza rimane residuale, altrimenti verrebbe bloccata e resa inoffensiva. Gli antidoti alla globalizzazione, alla sua tendenza “naturale” all'omologazione culturale sarebbero
stati finora inefficaci, insufficienti. (Giangiorgio
Pasqualotto, Intercultura e globalizzazione, in
Incontri di sguardi, Padova 2002). Questi i termini
della questione secondo un orientamento interpretativo che individua nei processi di globalizzazione il
pericolo dell'affermazione di un “pensiero unico”,
premessa per l'emergere di una forma di totalitarismo. A tale proposito, sono del parere che la teoria
della complessità, su cui ci soffermiamo nell’ultimo
paragrafo, abbia dato una convincente risposta a
questi timori, peraltro fondati.
Sul terreno della scuola si può affermare, sulla
scorta di un'esperienza europea, che il modello
centralizzato sia oggi al capolinea: esso non è in
grado di esercitare un controllo della scuola, né sul
piano ideologico né su quello schiettamente “scolastico”. I problemi sollevati dalla presenza di studenti di altri Paesi, specie quelli dei Paesi arabi, con
tradizioni culturali molto diverse dalle nostre, non
si possono affronare con i vecchi, obsoleti modelli
ideologici autoritariamente imposti, ma predisponendo un complesso di strumenti (culturali e istituzionali) in grado di gestire le diversità. È questo
il problema che va affrontato da questa sfida epocale, cui la scuola deve contribuire ad avviare a una
soluzione, tenendo conto che i due modelli finora
adottati, quello della legittimazione ed equiparazione di tutte le culture e quello dell'integrazione
culturale, sono sostanzialmente falliti.
Dall'ineguaglianza all'equità
In un recente convegno organizzao dall'ADi
17
n.11 / 2005
(Associazione docenti italiani) di Bologna, il problema dell'equità scolastica è stato affrontato sia a
livello di studio, sia a quello di una valutazione di
esperienze condotte nella scuola; segnaliamo alcuni dei risultati più interessanti (gli atti saranno
pubblicati dall'editore trentino Erickson). Denis
Meuret dell'università di Borgogna, ha discusso
principi d'equità applicati alla scuola. Egli ha notato che l’idea di misurare l'equità dei sistemi educativi è in generale bene accolta, ma ben presto è
abbandonata perché, fra altre ragioni, il carattere
indefinito del concetto, le divergenze su che cosa
sia un sistema equo, la possibilità stessa che alcuni
sistemi siano più equi di altri, costringono ad
indietreggiare davanti all'impresa. Nel tentativo di
giustificare e fornire un quadro ragionevole e realistico per un'impresa di questo genere, Meuret ha
delineato alcuni principi fondamentali. Gli indicatori d'equità devono permettere di argomentare
nel quadro delle diverse concezioni della giustizia
e non ìnscriversi all'interno di una soltanto.
Inoltre, le diseguaglianze scolastiche possono
essere raggruppate in tre grandi categorie: a) le
differenze tra individui, b) le disuguaglianze fra
gruppi, c) la proporzione di soggetti che si trovano
al di sotto di una soglia minima.
Tra le ineguaglianze, le più rilevanti sono quelle
cui l'individuo non può sottrarsi: origine sociale,
origine etnica, sesso; tra i beni forniti dai sistemi
educativi, dobbiamo concentrarci su quelli la cui
giusta distribuzione è più importante per gli individui e la società; è importante non soltanto misurare le disuguaglianze di risultati sul piano dell'apprendimento o su quello della carriera scolastica,
ma anche le disuguaglianze che si situano a monte
del sistema educativo, e quelle che influiscono
sullo stesso processo d'insegnamento
Secondo lo studioso francese, i sistemi educativi
non forniscono solo conoscenze e abilità, ma sono
anche una parte importante della vita degli studenti. Equità non significa soltanto che i beni legati all'istruzione devono essere distribuiti in maniera equa, ma anche che gli alunni debbono essere
trattati in maniera equa dall'istituzione, dai suoi
operatori o dai compagni. Ora, poiché un sistema
equo è anche un sistema che favorisce l'equità
sociale, gli indicatori devono riguardare non soltanto le disuguaglianze educative, ma anche gli
18
effetti sociali e politici di queste disuguaglianze. In
conclusione, il sistema di indicatori deve misurare
delle ineguaglianze, ma deve anche rilevare il giudizio dei cittadini e degli utenti sull'equità del
sistema educativo in vigore e i criteri che fondano
tale giudizio.
Anche per Sophie Morlaix, dell'università della Val
di Marna, l'equità dell'educazione costituisce un
nodo politico fondamentale. La studiosa, fra i vari
modelli di teorie della giustizia, ha scelto quello elaborato da Sen, tenendo conto delle applicazioni
concrete che può avere nel campo dell'educazione.
La prospettiva adottata da Sen permette dì misurare la giustizia essenzialmente sulla base della proporzione di individui al di sotto d'una certa soglia.
Se ci si riferisce al sistema educativo, collocarsi al di
sotto d'una data soglia di competenze costituisce
senza dubbio una condizione che può avere per
l'individuo gravissime conseguenze sociali.
Partendo dai dati di PISA 2000, un indice ricavato
dai lavori di Sen adattato al sistema educativo ci
consente di compiere una serie di riflessioni
riguardo alla giustizia dei diversi sistemi educativi
europei. Esso ci permette, appunto, di analizzare
la situazione di alunni (numero, intensità della
debolezza e dispersione) al dì sotto d'una soglia
ritenuta minimale di competenze. In maniera complementare, esso offre la possibilità di misurare la
distanza che separa gli alunni “sotto soglia” dagli
alunni che si collocano all'altra estremità della distribuzione delle competenze, ossia dagli alunni
che hanno i risultati più elevati.
Uno dei contributi più innovativi è stato quello di
Luciano Benedusi, dell'università La Sapienza di
Roma, un antesignano degli studi su questo argomento in Italia. Egli sottolinea che il concetto di
equità sta diventando, a livello internazionale, un
elemento di riferimento fondamentale per le politiche pubbliche in molti settori, compresa l'educazione. Esso si affianca a quelli di efficienza, efficacia
e qualità, che sono stati i concetti portanti degli
anni Novanta, e prende il posto di quello di eguaglianza che, dopo essere stato sulla cresta dell'onda nei venti anni precedenti, era andato mano a
mano perdendo di smalto e, in qualche caso, sembrò addirittura essere stato relegato in soffitta. Ma
che cosa significa equità e che cosa vi è di nuovo
nel sempre più frequente uso che se ne fa in vari
Mario Quaranta
contesti e, in particolare, nell'educazione?
Nell'opera del 1971 di Rawls, Una teoria della giustizia, ha ricordato Benedusi, la parola equità,
affiancata a quella di giustizia ("la giustizia come
equità"), serve a marcare il distacco dalle teorie
utilitaristiche e del welfare allora prevalenti negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna. L'equità non si
oppone così all'eguaglianza, che anzi in qualche
modo rilancia rinnovandone e differenziandone i
significati, ma all'efficienza-efficacia nelle versioni
dei filosofi e degli economisti dell'utilitarismo e del
welfare. Secondo Rawls, giustizia è quell'insieme di
regole relative alla distribuzione dei “beni”, intesi
in senso lato, che permette o favorisce la convivenza sociale. Nell'approccio di Rawls, la giustizia
richiama I'eguaglianza, che deve però essere contemperata dalla libertà individuale, assunta come
valore irrinunciabile e quindi come vincolo fondamentale. La mediazione tra eguaglianza e libertà, o
fra eguaglianza e differenza, si configura in vari
modi a seconda degli autori, quali Rawls, Dworkin,
Walzer, Sen.
“Uguaglianza di che?” si domanda Sen. Distribuire
in modo egualitario un “bene” implica necessariamente accettare come giuste delle disuguaglianze
nella distribuzione di altri “beni”, anche se non di
tutti. Ma quali sono nell'educazione le diverse prospettive da cui si può guardare all'equità o alla giustizia? Ve ne sono diverse; una, per esempio, è
quella più direttamente collegata all'idea rawlsíana
di “vantaggio per gli svantaggiati”, che è stata tradotta nello specifico scolastico da Denis Meuret.
Ma altre se ne possono indicare; c'è la prospettiva
storicamente più consolidata, che va sotto il nome
di “eguaglianza delle opportunità” o di “eguaglianza dei punti di partenza”.
Ciò che distingue tale prospettiva è la mediazione
tra due principi rivali: l'eguaglianza e il merito.
Secondo alcuni studiosi, questa prospettiva ha
limiti e debolezze: è troppo radicale, è insufficiente e per certi aspetti crudele. Un secondo approccio muove dal presupposto che l'educazione non è
soltanto un “bene posizionale” ma ha un valore in
sé. Questo modello è stato definito in vari modi:
come “eguale cittadinanza”, o “eguaglianza dei
risultati fondamentali”, teorizzato in modo particolare da alcuni economisti francesi. Un limite di
questa prospettiva, presente peraltro anche in
Il dibattito sul federalismo
quella dell'“eguaglianza delle opportunità”, è,
secondo Benedusi, l'insufficiente rilevanza accordata alla questione delle differenze, sia tra i singoli
sia tra i gruppi, che la giustizia richiede di riconoscere e valorizzare.
Il terzo modello può essere definito dell'“eguale
rispetto"; esso riguarda non solo gli svantaggiati, i
perdenti nella competizione scolastica, ma tutti,
dal momento che nelle nostre società pluralistiche
sono presenti molteplici differenze, di valori, culture, motivazioni, stili cognitivi e di apprendimento, che vanno tutte riconosciute dalle istituzioni
educative.
8. La teoria della complessità applicata alla
scuola
Per comprendere la novità rappresentata dall'attribuzione della gestione della scuola alle regioni, ci
soccorre la teoria della complessità, la quale ci fornisce un modello esplicativo per giustificare l'abbandono del centralismo della cultura che è stato
dominante nella scuola italiana, cui è stato storicamente demandato, come abbiamo accennato, il
compito di assicurare una omogeneità culturale
nella formazione “dell’italiano”. Nella cultura italiana odierna la teoria della complessità è largamente
presente in pressochè tutti i campi del sapere; l'idea centrale di questo nuovo paradigma, espresso
da uno dei teorici più noti, Mauro Ceruti, è che la
scienza classica è la scienza del ripetibile, atemporale, invariante, pertanto il residuale (il non-razionale) è solo apparente, mentre invece, ciò che era
residuale è ora risultato decisivo: da ciò la necessità di ridefinire, attraverso la nozione di complessità, i criteri della razionalità.
In altri termini, il modello della “ragione classica” è
fondato su un'idea di legge scientifica come luogo
in cui si svela l'ordine nascosto, e a questa concezione causalistica dei fenomeni, in cui la legge ha
un carattere prescrittivo, la teoria della complessità contrappone una concezione “vincolistica”,
secondo cui “la storia naturale si delinea come una
storia di produzione reciproca di vincoli e di possibilità attraverso la coevoluzione di sistemi viventi
(autonomi) e dei loro ambienti, e dei differenti
sistemi viventi (autonomi) all'interno di particolari
ecologie” (Mauro Ceruti, Il vincolo e la possibili-
19
n.11 / 2005
tà, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 18). In altri termini,
i vincoli sono regole di un gioco che indicano ciò
che non può accadere, non ciò che necessariamente succederà.
Così, la teoria della complessità costituisce un'alternativa al modello positivistico e neopositivistico
di razionalità; “le nuove strategie costruttive della
conoscenza contemporanea hanno messo in crisi,
dichiara Ceruti, l'idea che l'universo categoriale
della scienza sia unitario, omogeneo al suo interno, fissato una volta per tutte” (Ceruti, cit., p. 32).
Il problema conoscitivo fondamentale non è più
quello di trovare un momento di unificazione dei
diversi punti di vista, ma piuttosto di legittimare
differenti punti di vista, nella persuasione che tutti
siano produttivi di nuove idee e nuove ipotesi.
All'immagine classica di una razionalità capace,
attraverso sintesi sempre più ampie, di esaurire la
comprensione del mondo, si contrappone, ora,
quella di una ragione “plurale”.
La teoria della complessità consente, dunque, di
legittimare sia l'abbandono di un modello unitario,
omologante della cultura sia, conseguentemente,
una nuova impostazione del problema dell'apprendimento, con l'utilizzazione non più delle
categorie della pluridisciplinarità o dell'interdisciplinarità che, di fatto, fornivano strumenti più sofisticati per l'apprendimento di una cultura il cui
impianto unitario non era messo in discussione,
ma di quella della transdisciplinarità, la quale mira
alla comune costituzione degli oggetti di ricerca, e
degli strumenti del pensiero che questi oggetti
richiedono. Il nuovo modello di apprendimento
consente non un mero accostamento tra le diverse
discipline, né un loro uso plurimo su uno stesso
oggetto di conoscenza, ma una costruzione della
conoscenza in cui il soggetto ha un ruolo attivo e
produttivo.
Oggi siamo di fronte a sfide in diversi campi (della
tecnologica, dell'ecologica, della globalizzazione,
ecc.); la sfida della complessità costituisce, in un
certo senso, la base conoscitiva di tutte le altre
sfide; essa richiede l’individuazione degli ostacoli
che ci impediscono la progettazione di questa
nuova forma di conoscenza, imponendoci “uno
sforzo trandisciplinare e interculturale per un’educazione della complessità umana” (Mauro Ceruti et
alii, Pensare la diversità. Per un’educazione alla
20
complessità umana, Roma, Maltemi, 1998). Non
solo: le idee prodotte dalla teoria della complessità
possono essere usate nella progettazione di una
nuova scuola saldamente ancorata al proprio territorio: “Le sfide ai nostri sistemi educativi, afferma
Mauro Ceruti, dipendono in buona parte da intensi cortocircuiti fra le dimensioni locali e le dimensioni globali” (Gianluca Bocchi-Mauro Ceruti,
Educazione e globalizzazione, Milano, Cortina,
2004, 25).
Oggi, continua Ceruti, le diversità culturali, regionali, urbane, sono considerate da ogni Stato non
più un ostacolo ma una risorsa; inoltre, ogni conoscenza e valutazione dei grandi temi sollevati dalla
globalizzazione, come ad esempio quelli ecologici,
possono essere compresi adeguatamente attraverso “una buona fruizione degli ecosistemi locali”. In
conclusione, “oggi non si tratta più di prosciugare
l’identità delle culture locali. Si tratta, al contrario,
di supportare l’unicità (e la complessità, cioè molteplicità) degli itinerari costitutivi di quelle particolarissime culture locali che stanno diventando gli
individui del nostro mondo, esponendoli alla
comunicazione reciproca con quelle culture altrettanto originali (singolari e complesse) che sono
costituite da altri individui” (G. Bocchi e M. Ceruti,
cit., p. 77). Ora, solo una profonda conoscenza del
“locale” ci consente di comprendere il “globale”, e
ciò vale particolarmente oggi, nel momento in cui
assistiamo all’eclissi dello Stato moderno, e alla
scuola spetta l’arduo compito di formare il cittadino del mondo.
Con l’attribuzione di poteri alle regioni nel campo
della scuola, viene ora offerta un’occasione unica e
irripetibile per creare un'effettiva unità culturale
del Paese in termini sostanzialmente diversi da
quelli “centralistici”, finora adottati da tutti i governi che si sono succeduti dall’unità d’Italia ad oggi.
Prima di tutto, occorre precisare che ogni regione
non deve abdicare a questo intervento, demandandolo ad altre istituzioni; è un campo in cui essa
può intervenire con un proprio progetto, e sottoporlo al confronto con tutte le forze culturali della
regione. Se la regione disporrà di una propria
quota di ore da usare autonomamente, quale sarà
il contenuto culturale dei programmi proposti da
ogni regione?
A questo proposito abbiamo presente l’esperienza
Mario Quaranta
della Spagna, la cui Legge organica di ordinamento generale del sistema educativo del 1990, stabilisce che le amministrazioni scolastiche promuovano l’autonomia pedagogica e organizzativa delle
scuole, ritenendo che si tratti di una strategia efficace per rafforzare la qualità dell’istruzione pubblica. La successiva normativa, ossia la legge del 1995,
pone l’autonomia pedagogica, organizzativa e
gestionale al Primo Titolo, prescrivendo che “le
istituzioni scolastiche avranno autonomia per definire il modello di gestione organizzativa e pedagogica, che si dovrà concretizzare, in ogni caso, nei
corrispondenti progetti educativi, curricolari e, se
del caso, norme di funzionamento”. Il rilievo dato
alle regioni, all’interno di insegnamenti minimi
comuni stabiliti a livello statale, che costituiscono
pur sempre la base del curricolo, è molto ampio.
Tanto ampio da prevedere che le regioni gestiscano il 35% dell’orario scolastico (che sale al 45% per
le regioni autonome).
Pur in una situazione non ancora compiutamente
definita, non possiamo formulare ora un’ipotesi
conclusiva. Ci sono diverse, possibili opzioni: da
quella di una conoscenza della propria regione nel
contesto della storia nazionale, a quella di un uti-
Il dibattito sul federalismo
lizzo delle ore disponibili nelle discipline in cui si
riscontra un ritardo generalizzato rispetto a uno
standard comune, e così via. Ci sono esigenze a
volte confliggenti, e ai dirigenti delle scuole delle
singole regioni spetta il compito di scegliere e
decidere le linee di intervento, tenendo presente
lo sfondo odierno in cui si colloca l'attività d'insegnamento. Infatti, in una situazione di mondializzazione e globalizzazione, c'è l'esigenza di dare
spazio a una conoscenza diretta della propria
regione, del proprio territorio, delle proprie tradizioni, e di tutti quegli aspetti che caratterizzano l’identità prima di ogni italiano. Solo se tali conoscenze sono oggetto di analisi, si può vivere in un
mondo globalizzato dove le identità territoriali si
integrano, appunto, con le nuove dimensioni della
cultura e delle esperienze di ognuno di noi.
Stabilire un rapporto equilibrato fra “locale” e
“globale” è senz'altro difficile, nel momento in cui
la globalizzazione fa emergere tendenze a una
omologazione culturale. In questo caso, il radicamento culturale territoriale può costituire un efficace antidoto o correttivo, tale da assicurare un
rapporto dinamico e aperto alle esigenze diverse e
anche conflittuali fra “locale” e ”globale”.
Questo saggio è stato discusso con Antonio Borio, Giuseppe Gangemi, Emilio Vendramini.
([email protected])
21
22
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra
alimentazione in Italia.
Luigi Veronelli é morto nel novembre 2004. I siti recanti il suo nome non costituiscono più un riferimento
per il proggetto “Terra e Libertà/Critical Wine” che continua attraverso il sito www.criticalwine.org
Il Faro
La novità nel mondo agricolo in Italia identificabile nel passaggio da un sindacalismo classico, che contrattava le condizioni di lavoro ma restava indifferente a
cosa e come si produceva, al movimento per un’altra agricoltura, che pone al
centro l’interrogarsi sulle finalità e il senso del lavoro contadino, la riflessione a
tutto campo sul mestiere di agricoltore, può apparire un fatto tardivo se paragonato ad altre esperienze in paesi a capitalismo avanzato. Anzitutto in Francia ove
Paysans Travailleurs già negli anni ’80 e poi Conféderation Paysannne con J.Bové
e F. Dufour (2001) aprono con molto anticipo tematiche che, nei paesi a capitalismo avanzato, si sarebbero imposte solo negli anni recenti con il dibattito sull’agricoltura sviluppatosi nella discussione sulla globalizzazione neoliberista. Il
passaggio non riguarda per il momento i sindacati agricoli, Coldiretti, Cia,
Confagricoltura (in Italia tra piccoli e medi contadini il primo è stato senz’altro
in posizione dominante e tradizionalmente legato alla Democrazia Cristiana),
organizzazioni che storicamente non hanno adottato strategie di coinvolgimento dei soci nelle discussioni di politica agricola. Il passaggio riguarda invece contadini, allevatori e cittadini non solo consumatori che nella comune volontà di
dire basta ad un’agricoltura e a un allevamento fonti di un cibo sempre più portatore di malattia e rischio di morte si sono autorganizzati costruendo nuove
associazioni anche sindacali, nuove reti, nuovi momenti di denuncia, di battaglia,
di messa a punto di alternative. E hanno indicato altre strade possibili. Alcune
associazioni si sono formate molto di recente, all’interno del movimento dei
movimenti, germinate durante la manifestazione di Genova del 2001 contro il G8
e la globalizzazione neoliberista, tra queste Foro Contadino – Altragricoltura,
AltrAgricoltura NordEst, mentre Co. Sp. A. (Comitato spontaneo produttori agricoli), costituito da allevatori di mucche da latte, si era formato nel 1996 attorno
alla questione delle quote latte e dei superprelievi (comunemente denominati
multe). Altre ancora, orientate, più che a un sindacalismo nuovo, a diffondere
una diversa cultura agricola, a costruire e divulgare pratiche e criteri alternativi,
già esistevano da più lunga data. Erano rimaste comunque piuttosto separate e
in sordina rispetto ad un dibattito del movimento in Italia polarizzato su altre
questioni.
23
n.11 / 2005
Menzioniamo in proposito Centro Internazionale Crocevia, Associazione rurule
italiana (Ari), Civiltà contadina (di cui fanno parte anche i Seed savers),
Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), Associazione italiana agricoltura integrata, Mondo biologico italiano, Associazione agricoltura biodinamica,
oltre naturalmente alla galassia delle associazioni specificamente dedite alla salvaguardia della biodiversità vegetale e animale, e quindi della materia prima per
un’agricoltura diversificata, che spesso costruiscono isole di coltivazione e di
allevamento di specie rare. In tutto ciò che si avvicendò sulla scena politica dei
movimenti in Italia negli ultimi 35 anni, si diede scarso rilievo alle esperienze di
alternativa agricola vedendole piuttosto come fughe (pensiamo anzitutto alle
comuni agricole degli anni ’70), mancò quindi un impegno a scandagliare le problematiche di cui erano portatrici. E’ altrettanto vero, se dobbiamo ancora fare
un confronto con la Francia, che qui l’agricoltura è stata caratterizzata da una
presenza dominante di aziende medie (10, 20 ettari) con tutto il portato quantitativo e qualitativo che questo significa, da una struttura produttiva più consolidata con agricoltori che hanno sempre partecipato fortemente alla vita associativa, e hanno visto in genere, in un paese che li tiene in grande considerazione,
supportate economicamente e socialmente le loro rivendicazioni. In Italia il quadro è stato notevolmente differente, a partire da una scarsa considerazione nei
confronti dei contadini, poca ricezione delle loro istanze per una vita dignitosa,
grave impoverimento delle campagne e forte destinazione del territorio agricolo
a fornire forza lavoro prima per l’emigrazione poi verso i grandi poli industriali.
Nel contesto di associazioni che abbiamo poco sopra delineato gli allevatori del
Cospa (o Co. Sp. A.) con una stagione di lotte che dal 1996 al 2002 li vede costruire blocchi autostradali, occupare l’aeroporto di Malpensa, manifestare presso
grandi emittenti televisive portando sempre i trattori e la mucca Ercolina, hanno
costituito, fuori dai sindacati, l’associazione più numerosa e battagliera. Facendo
ricorsi contro i superprelievi hanno ottenuto circa 6000 sentenze a favore. Dal
2002 il Cospa si articola in tre filoni, Cospa Cobas, Liag costituitasi come sindacato e Cospa Nazionale. Il decreto Alemanno n. 119 del 2003 con il meccanismo
che istituisce per il pagamento dei supreprelievi e la scadenza del 31 marzo 2004
apre un momento particolarmente drammatico.
Lasciando sullo sfondo questa significativa battaglia ancora aperta dopo tanti
anni di lotte e riprendendo le considerazioni sull’emergere anche in Italia di un
movimento per un’altra agricoltura possiamo ribadire che, nonostante la presenza di varie esperienze agricole alternative presenti sul territorio da decenni,
solo in questi ultimi anni, a partire dalla manifestazione di Genova, e quindi dall’incontro con le realtà agricole in movimento provenienti da altri paesi, esso
comincia a prendere più vigore e visibilità, ponendosi come anello di Via
Campesina e condividendone l’insegna della sovranità alimentare in tutte le sue
implicazioni, anzitutto quella di altre relazioni tra produttori agricoli e tra produttori agricoli e cittadini. Guardando in particolare alla vicina esperienza francese di Conféderation Paysanne, di contro al modello industrial produttivista, si
vuole un’agricoltura contadina, locale, sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale.
Ma l’Italia è un paese dove il prezzo della terra è altissimo, se confrontato ad
altri paesi europei. Il primo ostacolo allora è proprio questo prezzo, in sempre
24
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
più aree della penisola non ammortizzabile all’interno di un processo agricolo.
Inoltre, a causa delle politiche neoliberiste che appoggiano la produzione dei
grandi gruppi c’è una continua chiusura di piccole e medie aziende agricole, 50
al giorno1, circa una ogni mezz’ora , per cui molti terreni restano incolti, e nel
contempo, per operazioni di speculazione finanziaria o di privatizzazione, si nega
il diritto a lavorare la terra a chi vorrebbe farlo. Non a caso allora ritroviamo tra
le prime forme di lotta da menzionare le occupazioni di terra per lavorarla e
la loro difesa in vari modi quando, dopo tempo che i contadini la lavorano, altri
cercano nuovamente di sottrargliela. E’ il caso dei soci della cooperativa
Eughenia in provincia di Grosseto che da cinque anni conducono un progetto di
valorizzazione di un’azienda agricola e del vicino borgo che era ormai sull’orlo
dello spopolamento. Erano riusciti a rivitalizzare l’una e l’altro in base ad un progetto di agricoltura locale a ciclo corto diversificata e sostenibile sotto ogni aspetto che aveva trovato anche dei finanziamenti. Trattandosi di mille ettari, poteva
rappresentare possibilità di occupazione e reddito adeguato per molti e quindi
possibilità di rivilitalizzazione del borgo stesso. Volevano acquistare la terra ma la
proprietà ha alzato il prezzo e, nel contenzioso che ne è nato, ha ottenuto lo
sfratto anche se non ancora eseguito. Ora la partita è aperta e un gregge di pecore è stato messo dai contadini a guardia del cancello2.
In una posizione molto simile si trova la Cooperativa Le Terre della Grola Ottomarzo di Sant’Ambrogio di Valpolicella3 tra le colline veronesi che coltiva da
oltre vent’anni con metodo biologico tredici ettari di vigneti recuperando tecniche tradizionali di coltivazione di terre marginali e attivando nel contempo l’azienda come fattoria didattica, gestendo un agriturismo e un piccolo caseificio,
mettendo anche a disposizione della cittadinanza per giochi e scampagnate o iniziative culturali e di beneficenza lo spazio esterno e i terreni. E fornendo lavoro
a gente in difficoltà.
La Provincia che è proprietaria di queste terre ora le vuole vendere per fare cassa
ma la cooperativa vuole acquistarle ed ha promosso una raccolta di fondi. La
positiva risposta alla raccolta testimonia come la cittadinanza sia ben consapevole di quanti valori aggiunti vi siano in un altro modo di gestire la terra, valori beni
comuni cui la stessa città può attingere nel nuovo rapporto con la campagna.
Certamente i soldi raccolti non potrebbero competere con altre offerte se la
Provincia mettesse i terreni all’asta. Anche qui la partita è aperta.
Sono solo due esempi ma se ne potrebbero fare molti altri nella stessa direzione.
Per supportare vicende come queste ma, più largamente, per generalizzare la
rivendicazione del diritto all’accesso alla terra per valorizzarla facendo agricoltura come diritto fondamentale dei contadini l’associazione Foro Contadino Altragricoltura ha promosso sul territorio nazionale la “Campagna per il diritto
alla terra”. Pur nella differenza di contesto rispetto ai paesi dove Via Campesina
ha una più lunga storia, questa campagna intende articolare per l’Italia il diritto
all’accesso alla terra quale domanda fondamentale di questa rete di cui l’associazione è parte. Si rivendica anzitutto un modello agricolo contadino diversificato
localmente che possa diffondersi e articolarsi su tutto il territorio creando larga
occupazione, coltivando le specie tipiche delle varie zone salvaguardando così la
biodiversità che caratterizza i vari contesti. Sarebbe inoltre necessaria, secondo
quanto varie associazioni chiedono, una riformulazione del credito e della poli-
Cooperativa
Eughenia: “le ragioni
di una battaglia del
Foro Contadino Altragricoltura”,
http//www.altragricoltura.org/dirittoallaterra/eughenia6feb04.htm
1
2
Da La Nazione, edizione di Grosseto,
“Sfratto respinto.
Resistenza passiva con
le pecore”, www.altragricoltura.org/dirittoallaterra/images/lan
azione-jpg
“Le terre della Grola”
pamphlet informativo.
3
25
n.11 / 2005
Per la documentazione complessivamente citata vedi
www.altragricoltura.org
4
26
tica fiscale che favorisca questo tipo di agricoltura, il suo radicarsi e perdurare in
modo da garantire una rivitalizzazione durevole del territorio. Tenendo anche
presente che le varie misure di sostegno economico che già ci sono non reggono a fronte del prezzo del terreno in zone in cui c’è la pressione di attività industriali e alberghiere, come sottolinea Guglielmo Donadello di AltraAgricoltura
Nord Est. Un insieme di aspetti che riconducono ad un problema di gestione
oltre che di accesso alla terra.
Foro Contadino - Altragricoltura nel documento “Il cibo non è una merce” afferma: “Nell’interesse di tutti i cittadini, della loro salute, del loro territorio, della
giustizia sociale… noi vogliamo un’agricoltura contadina che abbia una dimensione sociale basata sul lavoro, sulla solidarietà tra produttori e consumatori ma
anche tra regioni e contadini del mondo, altrimenti le regioni più ricche e gli
agricoltori più forti lederanno il diritto alla vita degli altri, e questa logica non ha
futuro… ogni giorno in Europa chiudono 600 aziende agricole, entro quattro
anni 750.000 lavoratori agricoli italiani corrono il rischio di scomparire.” Proprio
sul problema della terra che diviene sempre più drammatico questa associazione ha lanciato “L’appello per il diritto alla terra” ove si afferma: “Su tutte le difficoltà torna ad essere gravissimo un problema che l’Italia sembrava aver archiviato con le conquiste delle lotte contadine del secolo scorso ma che è sempre
più drammaticamente urgente: l’accesso alla terra da parte di chi vuole lavorarla
negato dagli altissimi costi dei terreni produttivi sempre più vincolati a scelte
speculative e sempre meno al valore agricolo reale… Così capita sempre più
spesso di vedere aziende contadine affittuarie sotto sfratto perché la proprietà
preferisce realizzare la speculazione finanziaria piuttosto che garantire la conduzione agricola del terreno, aziende che gestivano proprietà pubbliche che vedono privatizzare la proprietà a prezzi inaccessibili ad un’attività contadina, giovani
che vorrebbero lavorare la terra e che vedono chiedersi prezzi per ettaro inaccessibili, anziani che l’abbandonano senza che i loro terreni possano essere
rimessi al servizio di una funzione sociale … La morte delle aziende contadine
con l’abbandono del territorio si può e si deve contrastare.”
A tal fine l’associazione ha istituito il Soccorso contadino e il Coordinamento
nazionale contadino per il diritto alla terra con cui si propone di “far uscire le
singole vertenze dall’isolamento e dal disinteresse coordinando le iniziative di
difesa tecnica e legale, costruendo mobilitazione, aprendo tavoli negoziali per il
diritto alla terra e chiedendo alle istituzioni risposte nell’interesse dei cittadini
che dovrebbero rappresentare.” Molto concretamente l’associazione si propone
di aprire una vertenza nazionale per il diritto alla terra articolata in quattro punti:
per il blocco urgente degli sfratti e delle azioni che hanno come effetto l’espulsione dalla terra, per l’uso del patrimonio di terre pubbliche che assicuri la priorità della produzione contadina, per un piano di riordino dell’assetto fondiario
che garantisca l’accesso alla terra, per l’istituzione di una banca della terra che
garantisca l’uso delle terre dimesse4.
Un altro ordine di problemi, che ha visto la mobilitazione di associazioni e reti,
ha a che fare con la delocalizzazione delle produzioni da parte dei grandi gruppi alimentari e connessa maggiore insicurezza del cibo oltre che riduzione
dei livelli di occupazione. La produzione di latte costituisce un campo particolarmente pieno di problemi che oggi, nel crac della Parmalat, si trovano espo-
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
sti ad un ventaglio di soluzioni molto diverse fra loro. Come illustrato nel documento “Oggi di cibo si può morire” di AltraAgricoltura NordEst – Co. Sp. A.
Nazionale del febbraio 2003, la prima assurdità, relativamente alla questione
latte, è stato il subire l’imposizione dell’abbattimento di molti capi di bestiame in
nome delle quote latte per poi trovarsi nella condizione di avere il 46% del
nostro latte fresco che è latte importato. Anzi, in base ai dati di Assolatte5, il quadro sarebbe ancora peggiore. Come si legge nel documento citato, del latte
importato il consumatore non sa la provenienza, ma proviene anche da zone con
minori standard sanitari dell’est europeo. Il che significa per il cittadino la lesione del diritto a poter conoscere l’origine e che tipo di latte sta consumando, del
diritto a poter scegliere e per di più, contrariamente alle promesse del neoliberismo, uno svantaggio economico. Infatti, se quattro anni fa, come Luciano
Mioni, esponente di AltrAgricoltura Nord - Est fa presente, un litro di latte costava 980 lire alla stalla e 1600 lire al consumatore, che voleva dire circa il 50 % al
produttore e il resto a chi lo commercializzava, oggi si paga un litro di latte fresco l’equivalente di 2000 o 2300 vecchie lire di cui 620 lire come prezzo alla stalla in Italia che è il punto ove in Europa costa di più. Per cui al consumatore oggi
costa in media 400 lire di più e il prezzo alla stalla è calato del 30 %. All’interno
di un quadro così negativo vi è anche la particolare vicenda del latte microfiltrato FrescoBlù prodotto e distribuito dalla Parmalat che, al di là del nome che
porta, non è fresco in quanto trattato per scadere a dieci giorni anziché quattro
(attualmente portati a sei) come il latte fresco. Stranamente questo latte nei
supermercati viene spesso collocato negli scaffali del latte fresco determinando
nel consumatore ulteriore confusione oltre a quella generata dal suo nome e
pregiudicando i termini della concorrenza con il latte fresco. Per cui vi sono stati
frequenti momenti di protesta presso la grande distribuzione per una corretta
collocazione di questo latte negli scaffali. Ma le recenti vicende della Parmalat,
come sottolineano gli allevatori del Cospa, possono costituire l’occasione per la
grande svolta. Invece di una redditività dell’azienda basata su meccanismi finanziari, una redditività basata sul ripristino di un modello produttivo alimentare
che, riconoscendo come il cibo non sia una merce qualunque, e più che mai il
latte, alimento di base per tutti e in particolare per fasce deboli, ne assicuri anzitutto genuinità e freschezza reale e quindi privilegi il ciclo corto. Nel loro comunicato “Aprire una nuova stagione per la zootecnia italiana dopo i disastri colposi di Parmalat e del decreto Alemanno” gli allevatori scrivono che la vicenda di
questa impresa ha “seppellito per sempre nel nostro paese la storia delle quote
latte e messo fine alla chimera delle rateizzazioni tanto cara alla politica
dell’Unione europea”. Dopo 25 anni di fallimentare politica lattiero casearia, prosegue il documento, lo stato e le forze politiche devono recepire la politica della
sovranità alimentare, del ciclo corto e delle produzioni finalizzate alla valorizzazione delle Dop italiane nel mondo, e quindi devono cambiare modello agricolo. Si tratta, si scrive ancora nel testo citato, di recuperare un’economia reale,
non fittizia, di salvaguardare una zootecnia che adotti metodi rispettosi degli animali e dell’ambiente, confermando l’importanza del ruolo multifunzionale di
questo settore, soprattutto in zone di collina
e di montagna che sono state particolarmente danneggiate dalle politiche neoliberiste, sposando il ciclo corto e quindi il legame della produzione con il terri-
In base a tali statistiche la produzione
nazionale di latte
bovino 2003 è stata di
oltre 105 milioni di
q.li. L’importazione di
latte bovino da paesi
terzi è stata di
31,1 milioni di q.li. La
trasformazione e consumo interno di latte
bovino: 131,7 milioni
di q.li. Di questo
quantitativo, 100,7
milioni di q.li (76,2%)
sono stati destinati
alla produzione industriale (formaggi Dop
e non, latte Uht) e 31,1
milioni (23.8%) all’alimentazione diretta
(latte fresco).
5
27
n.11 / 2005
Ambedue i comunicati citati sono stati
diffusi senza specificazione di data da
Cospa Nazionale.
6
7
Rimandiamo a
quanto già specificato
poco sopra per il
“diritto alle produzioni”
28
torio, la tracciabilità di tutta la filiera per offrire garanzia a un cittadino consumatore che, sempre più allarmato dagli scandali alimentari, si orienta quando
può a produzioni locali più trasparenti e garantite. E per restituire orgoglio,
aggiungiamo noi, a un produttore che vuole essere fiero del suo mestiere e aprire altri rapporti fra produttori e con i consumatori. Si ribadisce il diritto dei cittadini ad avere un latte salubre, espressione di una filiera corta, libera da Ogm,
con animali alimentati senza sottoprodotti industriali. Si conclude chiedendo il
ritiro del summenzionato decreto, l’assegnazione del diritto alle produzioni (in
altre parole il diritto di vedersi assegnate le quote corrispondentemente al
numero di mucche da latte che realmente si posseggono e alla loro capacità produttiva), di rafforzare la filiera a ciclo corto, di cambiare radicalmente le politiche
lattiero casearie nel nostro paese e in Europa. In un altro comunicato stampa6 la
stessa organizzazione richiede di “avere riconosciuto il diritto come aziende ad
esistere, sapere con certezza cioè se si potrà continuare a lavorare e tenere aperte le aziende anche dopo l’applicazione del decreto Alemanno, di avere le assegnazioni alla produzione in base alle produzioni7, di avere una vera politica agricola nazionale e regionale che dia precise indicazioni sulla tracciabilità del prodotto da monte a valle della filiera”. E’ evidente come da questo complesso di
richieste emerga una nuova visione del cibo e del lavoro, una diversa concezione dell’agricoltura, la volontà di voler esercitare una contadinità responsabile e
si chiede alla politica di assumersi le sue responsabilità affinché anche contadini
e allevatori possano assumersi le loro. Come scriveva anche Bové (Bové e Dufour
2001, pag. 179) “Per andare in questo senso l’azione deve svolgersi a due livelli…da parte dello stato…da parte del contadino”. Forse proprio per essere portatrici di una progettualità diversa in agricoltura queste associazioni a carattere
sindacale non sono state invitate il 6 febbraio a Roma al tavolo di discussione dal
Ministro dell’Agricoltura che pure aveva convocato sul caso Parmalat le organizzazioni storiche del settore e gli assessorati regionali dell’agricoltura. E questo
nonostante che tali associazioni già fossero state riconosciute dallo stesso
Ministro come interlocutrici per la questione avicola. Eppure il caso Parmalat
costituisce indubbiamente la grande occasione per porre anzitutto la questione
di una svolta, del cosa e come si produce, questioni che rendono subordinati i
riferimenti agli investimenti e all’occupazione. A seconda di come questa occasione sia colta od elusa si apre o si chiude la strada per un futuro alimentare, di
sviluppo e di vita diverso in Italia e in Europa.
Analoghe problematiche emergono con la delocalizzazione e importazione
della produzione di carne. Come ancora ci informa il documento “Oggi di cibo
si può morire” che invita allo stesso tempo i cittadini a opporsi a tali politiche e
a prendere contatto con le associazioni firmatarie per contribuire ai momenti di
protesta e mobilitazione, da Brasile, Thailandia, Cina, Argentina provengono
grandissime quantità di carne che si consumano in Italia, anzitutto polli trattati
con cloramfenicolo e nitrofurani (sostanze vietate in Europa dal 1966). Ma bacitrina, spiramicina, virginiamicina e tilosina, sostanze pericolose, riconosciute
potenzialmente cancerogene, vietatissime in Europa, sono utilizzate normalmente in quei paesi oltre che nell’allevamento dei polli, in quello dei suini e dei
bovini che finiscono nella nostra alimentazione. E, secondo quanto si denuncia
nel documento in questione, approfittando delle maglie larghe del diritto com-
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
merciale internazionale voluto dal Wto si permette alle multinazionali produttrici di carne il raggiro dei controlli e del pagamento dei dazi, determinando un’enorme offerta di cibo scadente e pericoloso a prezzi molto bassi per le centrali
di acquisto delle catene di distribuzione nazionali che genera un notevole guadagno dato che il prezzo per il consumatore resta comunque elevato. Si consente il controllo quasi monopolistico del mercato europeo.
Per di più, mentre nel settembre del 2002 tutte le partite di carne avicola e derivati della stessa provenienti dal Brasile e diretti all’Unione Europea erano state
controllate rispetto alla presenza di residui di nitrofurano, perché la sostanza era
stata trovata in prodotti importati da questo paese, il Comitato permanente sulla
catena alimentare e sulla salute ha dato l’assenso ad una proposta della
Commissione europea di ridurre la frequenza dei controlli nei paesi membri al
20% delle partite. La proposta sarà adesso adottata dalla Commissione ed entrerà in vigore nelle settimane prossime. Nei luoghi ove questi vari tipi di carne non
sana che noi importiamo vengono prodotti vi è lo sfruttamento selvaggio della
manodopera, il depauperamento del territorio, l’inquinamento dell’ambiente
derivante dalle modalità dell’allevamento intensivo con le sue ingenti dosi di
prodotti farmaceutici e chimici, e dalle modalità delle monocolture intensive
spesso altrettanto presenti e caratterizzate da un massiccio impiego di concimi
chimici e pesticidi. E c’è ovviamente, come già dicevamo, l’assenza o la debolezza o l’inosservanza di regole sanitarie. La destinazione privilegiata di questa carne
(cotolette, impanate, hamburger, cordon-bleu, petti di pollo, cosce di pollo, piatti pronti da microonde) è il catering, mense di istituti o comunque reti di refezione per anziani, mense ospedaliere, scolastiche, aziendali, dopolavoro, bar,
autogrill, e altro, in genere quei luoghi ove vi sono categorie di cittadini in una
condizione di debolezza o comunque con poco tempo. Per i consumatori un
rischio sanitario altissimo. Già sono emersi numerosi casi di telarchia ossia
pubertà precoce, 80 a Torino, 60 a Milano sotto inchiesta della procura torinese.
Ma oltre alle alterazioni ormonali, che già si manifestano nei bambini nella forma
di pubertà precoce, e che negli adulti sono denunciate (eccesso di estrogeni) tra
le cause dell’infertilità maschile, è noto l’aumento di resistenza agli antibiotici
per l’eccesso di queste sostanze che ingeriamo con l’alimentazione, è noto l’aumento di allergie specie nei bambini, per non parlare dei continui allarmi per i
rischi di diffusione di morbilità nell’uomo derivanti da epidemie che scoppiano
negli allevamenti intensivi e peggio ancora se con deboli o nulle regole. Per le
aziende che non solo in Italia ma in Europa osservano le normative a tutela della
qualità dei prodotti e della salute dei consumatori si tratta di confrontarsi con
una concorrenza sleale che sempre più le costringe a chiudere. Fermo restando
che, nonostante la Comunità Europea avesse vietato dal 1988 l’uso di ormoni
negli allevamenti, questi di fatto vengono usati in Italia e nel resto d’Europa così
come massicce dosi di antibiotici, sia in funzione preventiva di malattie sia per
favorire la crescita. Per cui anche nel nostro paese si scoprono di frequente allevamenti di animali gonfiati con farmaci proibiti e altamente nocivi per l’uomo8.
In particolare il boldenone è un ormone della crescita appartenente alla famiglia
degli steroidi anabolizzanti le cui tracce scompaiono in 24 ore, sostanza pericolosa per l’uomo e usata illegalmente nell’allevamento di vitelli.
Nel 2000 il Ministro della Sanità Sirchia aveva ordinato il sequestro di una parti-
Dell’argomento
hanno trattato
Guglielmo Donadello
e Luciano Mioni nella
conferenza tenuta
presso la Facoltà di
Scienze politiche di
Padova il 16 dicembre
2003. Tra le più recenti e allarmanti notizie
in merito quella del
Mattino di Padova del
17 febbraio 2004 che
riportava di un’operazione del Nucleo Anti
Sofisticazioni dei
Carabinieri nelle province di Venezia,
Padova, Treviso,
Verona, Vicenza con
cui sono stati effettuati
ingenti sequestri di
farmaci irregolari in
allevamenti di animali, operazione che ha
portato all’arresto di
veterinari, allevatori,
imprenditori agricoli,
agenti di commercio,
responsabili di imprese di prodotti alimentari per la zootecnia e
di società farmaceutiche.
8
29
n.11 / 2005
“Lingua blu, allevatori in rivolta” in La
Gazzetta del Mezzogiorno, 10 luglio 2003.
9
http://lanuovaecologia.it/scienza/biotch/1
906php
10
Dossier “Come difendersi dagli Ogm”,
Greenpeace Italia, 15
maggio 2003.
11
30
ta di vitelli provenienti dall’Olanda in cui furono trovate tracce dell’anabolizzante. Ma l’ormone è stato trovato anche e soprattutto negli allevamenti italiani,
specie di Lombardia, Veneto e Piemonte. La pressione delle ditte farmaceutiche
perché si impieghino molti farmaci ha probabilmente avuto un ruolo nell’obbligo all’impiego del vaccino contro la Blue Tongue per le mucche che ha provocato molti aborti e molti altri problemi per cui gli allevatori si stanno battendo
contro questa imposizione assurda9. In Italia non c’era vero allarme perché questa malattia che colpisce gli ovini qui aveva colpito pochissimi bovini. A volte,
nonostante l’enfasi dei media per creare allarme nemmeno le influenze aviarie,
che in questi ultimi anni sono state nel Veneto particolarmente frequenti, erano
sempre ad alta patogenicità, e quindi tali da richiedere l’abbattimento degli animali. Qui semmai poteva subentrare un interesse a codificarle come tali per gli
ingenti risarcimenti che se ne potevano trarre.
Un terzo ordine di problemi, ormai ben conosciuto in tutto il mondo, su cui si è
attivata anche in Italia l’azione di chi si muove per un’altra agricoltura è costituita dagli Ogm che purtroppo si sono di fatto diffusi moltissimo sia nell’alimentazione umana che animale e spesso all’insaputa dei produttori che non sanno di
aver acquistato semi o altre sostanze geneticamente modificate. Anche qui nel
Veneto vi sono state interviste televisive a produttori agricoli che si ritengono
rovinati dal fatto che a loro insaputa le ditte gli hanno venduto semi Ogm per cui
si sono trovati ad essere coltivatori di Ogm contro la loro volontà. A seguito dei
rilevamenti fatti da AltrAgricoltura NordEst su Dna di piante analizzate nel
Veneto due campioni su tre risultavano geneticamente modificati. L’associazione
fece una denuncia in Regione ma non vi fu seguito. Al contrario quest’estate è
scoppiato un “caso Piemonte” perché, a seguito del ritrovamento nella regione
di 381 ettari di mais geneticamente modificato e della conseguente ordinanza
regionale che imponeva ai coltivatori di distruggere le coltivazioni, si aprì un contenzioso con ricorsi al Tribunale Amministrativo Regionale per decidere chi
dovesse pagare il danno. I coltivatori accusavano Pioneer Italia e Monsanto di
avergliele vendute in malafede e quindi pretendevano fossero le ditte a sobbarcarsi il costo della perdita. Si può dedurre che la diffusione di questo tipo di coltivazione in Italia sia già alquanto larga e molti temono che la decisione del
Parlamento europeo nell’estate del 200310 di obbligare alla segnalazione sulle
confezioni, relativamente al cibo geneticamente modificato, solo oltre la soglia
dello 0, 9 per cento possa rappresentare un limite facilmente innalzabile nei
prossimi tempi mentre si viola fin da subito il diritto del cittadino a poter conoscere e scegliere fra cibo geneticamente modificato e non. Su questo tema l’opposizione della popolazione è diffusa, le iniziative di verifica da parte di
associazioni non mancano, ma la risposta degli organi politici competenti, salvo
alcune eccezioni, è di regola l’inerzia. La presenza comunque di Ogm in molti
prodotti di note ditte, specialmente nei Discount, è segnalata anche da
Greenpeace Italia che, nel 1993, ha pubblicato una lista rossa comprendente 35
aziende e catene alimentari per un totale di 250 prodotti contenenti presumibilmente Ogm11.
Un altro punto dolente rispetto al quale invece non vi è adeguata conoscenza da
parte dei cittadini e quindi non vi sono state iniziative di rilievo ma sarebbero
necessarie è la forte dipendenza dall’estero che nel settore alimentare si è
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
creata in Italia. Il 45% del latte che consumiamo arriva da Francia e Germania, il
50% della carne bovina sui banchi dei supermercati è ancora tedesca o francese,
il 40% di quella suina proviene d’oltralpe (Baviera e Olanda) mentre Germania e
Usa monopolizzano il mercato del grano fornendoci il 60% della materia prima
usata per pane e biscotti.
La denuncia arriva dalla stessa Coldiretti. Il cavallo di Troia per l’invasione sembra essere stata la grande distribuzione estera che, silenziosamente, ha colonizzato a macchia di leopardo il territorio facendo dell’Italia un paese che, nell’alimentare, dipende ormai per il 65% dalle maxicatene straniere. Per i produttori
italiani questo rappresenta il forte rischio di chiudere e per i dipendenti di trovarsi senza occupazione. E’ significativo che, di fronte a tale cedimento della diga
che rischia di peggiorare dopo il crac della Parmalat, il presidente della Coldiretti
affermi che l’unica difesa possibile a monte è l’incentivazione del marchio “made
in Italy” aggiungendo che “bisogna collegare la filiera della produzione agricola
a quella distributiva e rafforzare l’obbligo dell’indicazione di provenienza su tutta
la merce non solo sui prodotti doc o dop”12. Ben venga! Come vedremo poco più
avanti il tema di una tracciabilità completa da monte a valle della filiera oltre che
della trasparenza del processo produttivo è più che mai all’ordine del giorno da
parte di chi vorrebbe anche un’altra agricoltura.
Un altro fronte di mobilitazione che ha segnato scadenze importanti nell’anno
appena trascorso è quello della qualità del prodotto senza esosità di prezzo. Il settore della produzione di vino rappresentata da circuiti di buoni
vignaioli non sempre adeguatamente conosciuti ha fatto da apripista a iniziative
nuove su questo terreno. Le coordinate entro cui si voleva far emergere il diritto alla qualità e all’accessibilità di un prodotto così importante per il piacere della
tavola e non solo, era chiaramente definito nella documentazione di illustrazione dei due convegni “Terra e Libertà/CriticalWine” allo stesso tempo momenti di
incontro di produttori agricoli, cittadini non solo consumatori, poeti, amministratori, studiosi: “organizzare il rifiuto del modello di sviluppo neoliberista che
vuole l’agricoltura industriale e monoculturale delle multinazionali e della
Unione Europea da una parte e un’elitaria produzione dei cosiddetti prodotti
tipici dall’altra quali facce della stessa medaglia. Pensare a un nuovo modello con
la terra/Terra che lasci spazio a produzioni, consumi, piaceri più sobriamente
felici. Disegnare il circuito virtuoso tra qualità della produzione, qualità del prodotto e qualità delle relazioni sociali.” I due convegni manifestazioni si sono
tenuti al Centro sociale La Chimica a Verona dall’11 al 13 aprile 2003 e al Centro
sociale Leoncavallo a Milano dal 5 al 6 dicembre dello stesso anno. La novità di
maggior rilievo riguardo a queste iniziative è stata la capacità di sperimentare un
nuovo momento di comunità che univa il momento di un’analisi approfondita
sulle politiche, sul ruolo delle multinazionali, sulla strategicità del loro controllo
del settore agricolo alimentare ai fini di un dominio globale, con le problematiche impellenti di chi produce e deve guadagnare, di chi consuma e deve coniugare capacità di spesa e un buon bicchiere di vino, di chi vuole venire per incontrare, per sapere, per recitare una poesia13.
Sullo stesso terreno del riconoscimento e giusto riscontro alla produzione di
qualità la mobilitazione quest’anno per l’olio di oliva, prodotto fondamentale
dell’alimentazione italiana e mediterranea, oggetto di molte frodi14. Al tema
www.greenplanet.net
11/01/04: “La grande
distribuzione parla
straniero”
12
Di tali convegni e
iniziative ha parlato
diffusamente anche la
grande
stampa. Vedi www.criticalwine.org
13
14
www.tigulliovino.it/sc
rittodavoi/art_012.ht
m; www.oliosecondoveronelli.it
31
n.11 / 2005
Rimandiamo per
tale documentazione
ai siti
www.veronelli.com;
www.criticalwine.org
15
32
anche Report, nota trasmissione televisiva, ha dedicato una notevole puntata il
10 marzo 2002. Nel piazzale antistante il Porto a Monopoli il 2 di febbraio 2004 si
è tenuta un’importante manifestazione contro queste frodi sistematiche. Con
Luigi Veronelli anarchenologo e teorico della contadinità responsabile, animatore e promotore dell’iniziativa, con l’associazione Assudd e il Progetto Terra e
Libertà/CriticalWine altre quaranta organizzazioni partecipavano al sit-in e all’azione disobbediente per protestare contro i traffici dell’olio di oliva, esemplificazione del malo potere delle multinazionali. I convenuti costruivano un’azione e
un dibattito con forte impatto mediatico in un luogo dove da decenni non succedeva nulla. Si discuteva dell’olio di oliva come caso emblematico del dominio
planetario delle multinazionali attraverso il controllo della produzione di cibo, e
della loro discutibile produzione di contro alla sana produzione di un’agricoltura responsabile. Le ragioni della manifestazione erano illustrate nei vari comunicati di convocazione e qui di seguito le riassumiamo15.
L’80% del mercato dell’olio di oliva italiano è in mano alle multinazionali. Le navi
cisterna “trasformano” – con tranquilla truffa legalizzata – durante il percorso
verso l’Italia, il loro carico di olio di semi in olio extravergine di oliva. Non si tratta di un miracolo. Basta falsificare le carte, coperti dalla legge sulle rogatorie
internazionali che nasconde i reati compiuti fuori dal nostro paese. Chi ci rimette sono i consumatori (costretti a subire truffe) e gli olivicoltori (costretti a subire una concorrenza sleale che li obbliga a lavorare sottocosto, o addirittura a
non raccogliere le olive). Infatti note ditte italiane pongono sugli scaffali dei
supermercati olio extravergine di oliva a circa 3 euro al litro. Considerato che il
contributo dell’Unione europea al produttore è di circa 1. 25 euro al litro e che
raccogliere le olive costa al produttore salentino 5 euro al litro in una zona come
il Salento dove costa meno, mentre se si trattasse di raccoglierle sui terrazzamenti liguri o del lago di Garda costerebbe il doppio, ne deriva che l’olio venduto a 3 euro o non è extravergine di oliva o viene da paesi dove il costo della
manodopera è molto ridotto.
Infatti Bertolli fa parte della multinazionale Unilever e acquista solo il 20, 30 per
cento di olio nazionale, Carapelli un 30 per cento e Sasso, proprietà della Nestlé,
il 40 per cento di olio italiano ma niente di quello ligure. La restante e più considerevole percentuale di olio di oliva arriva dalla Tunisia, dalla Turchia, da
Israele e dalla Spagna ma, e qui sta un grande problema, il consumatore non può
saperlo perché sull’etichetta non è specificato in quanto il produttore non è
tenuto a specificarlo.
Altro aspetto è la forte esposizione di quest’olio importato a possibilità di sofisticazioni le cui tecniche si sono sempre più evolute e quindi sfuggono anche ai
controlli del Nucleo Anti Sofisticazioni dei Carabinieri. Proprio il porto di
Monopoli è stato scelto per la manifestazione in quanto si voleva denunciare il
caso di una nave, attualmente scomparsa, che partiva con olio di nocciole dalla
Turchia o da Israele e, dopo una sosta compiacente in qualche porto, sbarcava
olio di oliva a Monopoli o a Barletta. Altre volte gli oli sono addirittura miscelazioni con oli non commestibili o con oli di semi fortemente colorati. Oppure
anche con oli di semi geneticamente modificati. Con la manifestazione di
Monopoli si è voluto diffondere la consapevolezza di cosa avviene attorno all’olio di oliva, aprire maggiori possibilità di contatto tra produttori di vero olio di
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
oliva e consumatori interessati ad acquistarlo, chiedere un mutamento delle politiche perché possa ritrovare tutto il suo spazio e adeguato riconoscimento economico la produzione di qualità di un bene così fondamentale nella nostra alimentazione e nella nostra cultura.
Percorrendo l’avvicendarsi delle proposte nel dibattito che ha accompagnato
quella manifestazione, ma già discusse anche in altri momenti di incontro, come
quelli sulla produzione di vino poco sopra menzionate, possiamo puntualizzare
un ulteriore ordine di problemi su cui stanno crescendo l’attivismo e l’inventiva.
E cioè l’esigenza di mettere a punto nuove procedure, più agili, locali,
diversamente caratterizzate per certificare quei processi agricoli che vogliono dare certezza riguardo all’origine del prodotto, che offrono trasparenza e
tracciabilità, qualità, che privilegiano la località. La proposta più innovativa è certamente quella delle De.co. (Denominazioni comunali) ideata da Veronelli16 e
già largamente applicata. E’ il Comune, grazie ai nuovi poteri che questo ente ha
in base alla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che predispone la procedura, molto semplice, con cui certifica direttamente che un prodotto ha origine nel suo territorio. E’ un’attività, nella nuova era dei comuni, possibile a ognuno di questi enti e che ben vale la pena di richiedere.
Nonostante la presa di posizione del Ministero per le Risorse Agricole che, prima
dell’inaugurazione di tale certificazione avvenuta con l’adozione della prima De.
co. da parte del Consiglio comunale di Lecce il 3 febbraio 2003, aveva inviato a
tutti i comuni il 19 dicembre una circolare intimidatoria che recitava: “… per
definizione, ogni discriminazione fra prodotto locale ed importato, basata sulla
provenienza del prodotto, crea un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione
delle merci” il comune di Lecce decise l’approvazione del “Regolamento per la
tutela e la valorizzazione dei prodotti tipici locali e per l’istituzione del marchio
De. co. per la difesa e la promozione delle colture e culture territoriali”.
All’esempio di Lecce fecero seguito altri comuni come quello di Cartoceto che
decise di istituire il marchio De. co. per il proprio olio extravergine di oliva, intervenendo per agevolare finanziariamente le aziende che decidono di produrre
prodotti De. c.o. L’istituzione del registro De. co. è una speranza per molti.
Significherebbe immediato benessere dei contadini, con la rinascita di molti
esercenti prima costretti alla chiusura e alla miseria, con una necessità di manovalanza pagata con retribuzioni più alte e con il vantaggio consistente e su ogni
piano dei cittadini in qualità di consumatori.
Altrettanto innovativa la proposta del catalogo dei produttori autogestito e autocertificato, senza alcun vincolo di obbligatorietà, con cui i produttori stessi certificano il processo produttivo informando dei vari aspetti del loro lavoro inclusa la cultura su cui si basa. Una comunicazione diretta e voluta, non imposta, fra
produttore e consumatore che autoresponsabilizza maggiormente e ripaga
anche con la possibilità di far conoscere più realmente la complessità del proprio
impegno. E ancora la proposta del prezzo sorgente per dare trasparenza al processo di formazione del prezzo finale. Con prezzo sorgente si indica il prezzo al
quale il produttore all’origine vende il suo prodotto e, se inserito nell’etichetta,
dovrebbe rendere riconoscibili le maggiorazioni ingiustificabili che il prodotto
incontra nel suo percorso e che avvengono in generale nella filiera distributivo –
commerciale sempre più concentrata in pochi poteri forti. E’ una proposta
“Denominazione
comunale di origine”,
http://www.veronelli.c
om/veronelli/news1.ht
m; Denominazione
comunale di
origine – L’olio di
oliva extravergine del
Comune di Cartoceto.
Regolamento
Comunale per la valorizzazione delle
Attività,
www.veronelli.com/ve
ronelli/news2htm
16
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n.11 / 2005
messa a punto anzitutto per i produttori di vino ma può essere applicata a qualunque prodotto. Il suo spirito è di fornire uno strumento che permetta di
cominciare a costruire una tracciabilità del prezzo e rappresenti l’emergere di
una determinazione, da parte dei produttori, a non voler più accettare la legge
per cui il prezzo si impenna dopo che il prodotto è uscito dalle loro mani e, da
parte dei consumatori, a non voler più accettare imperscrutabili anse in cui il
prezzo misteriosamente si moltiplica.
L’esigenza che le produzioni così qualificate e certificate trovino adeguato sbocco di mercato, anzitutto locale, si incontra con la domanda di cittadini che, in
misura crescente, si vanno organizzando in reti di acquisto concepite all’insegna di nuove regole che sposano quelle di un’altra agricoltura. Tra
queste i Gas (Gruppi di acquisto solidale) che coinvolgono circa due milioni di
cittadini e hanno fatto dell’eticità il criterio base assunto a tutto campo, nel rapporto con gli altri esseri umani, con la natura, con l’economia. Hanno programmato per il prossimo aprile un grande convegno a Firenze.
Parlare più compiutamente del movimento in atto per un’altra agricoltura richiederebbe di ripercorrere l’operato delle associazioni agricole biologiche, biodinamiche, altre, presenti da più lunga data. Ma assumiamo questo operato come più
conosciuto e documentato presso quelli che hanno a cuore problematiche agricole, riproponendoci comunque di trattarne in prossimi lavori. Richiederebbe
anche di illustrare le molteplici esperienze espressamente dedite alla tutela della
biodiversità, vegetale e animale, in quanto, come dicevamo all’inizio, concorrono a preservare la materia prima per un’altra agricoltura. Ma trattare anche di
questo aspetto non è possibile nell’economia di questo lavoro, che ha inteso
focalizzarsi maggiormente su altri aspetti della questione. Quanto alle esperienze illustrate possiamo concludere che da un lato riflettono la difficoltà ancora a
trovare forme che incidano sui nodi duri dell’organizzazione dominante dell’agricoltura è cioè sulla sua impostazione industrial produttivistica che in questi
tempi si è caricata di ulteriori negatività per ciò che concerne il contesto italiano.
C’è infatti il rischio di un’ulteriore concentrazione di capitale per di più a favore
di gruppi esteri nella produzione alimentare mentre nella distribuzione i gruppi
esteri sono già entrati alla grande e sono in sospetto di aver favorito nei supermercati l’offerta di prodotti dei loro paesi di provenienza, anzitutto Francia e
Germania. E’ possibile il dilatarsi ulteriore del varco di entrata nel settore alimentare a seguito del crac di aziende di matrice italiana. E’ probabile, se aziende
italiane chiudono, un aggravarsi della disoccupazione. D’altro lato emerge da
produttori e consumatori la volontà di mettere in piedi in vari modi un altro
modello agricolo e alimentare, e su questa esigenza e nuova cultura si generano
lotte e fioriscono nuove reti di produzione, informazione, cultura e scambio.
Appare ancora per quello che è, un confronto molto impari. Ma Davide vinse il
gigante Golia. Potrebbe succedere ancora? Tra le ragioni che sostengono una
prospettiva ottimistica c’è la nuova composizione e determinazione di questo
movimento sull’agricoltura, fatto di cittadini della campagna e della città che discutono, progettano e costruiscono rifiutando le modalità di produzione e di consumo imposte dal modello neoliberista che, non solo nella precarizzazione del
lavoro e decurtazione dei servizi abbassa le condizioni di vita, ma anzitutto nel
suo attacco alla terra/Terra. E quindi nella dequalificazione e inquinamento del-
34
Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli
Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione
l’alimentazione, nella negazione dell’ambiente e del paesaggio, nella privazione
delle relazioni e delle sensazioni, a partire dai gusti dei prodotti della terra e dai
profumi del vento. Non sono solo produttori e consumatori in quanto tali, sono
cittadini, sono esseri umani che, in cerca anzitutto di vita, stanno circondando
Golia.
Riferimenti bibliografici
José Bové e François Dufour (2001) Il mondo non è in vendita, Feltrinelli,
Milano.
Mariarosa Dalla Costa (1997) “L’Indigeno che è in noi, la terra cui apparteniamo”,
in Vis-à- Vis, n. 5, e in A. Marucci (1999) Camminare domandando,
DeriveApprodi, Roma; trad. ingl: “TheNative in Us, the Land We Belong to”, in
Common Sense n. 23, 1998; e in The Commoner n.6, 2002, in www.thecommoner.org
Alessandro Marucci (a cura di) (1999) Camminare domandando, DeriveApprodi,
Roma.
Common Sense (1998) n. 23.
The Commoner (2002) n.6 in www.thecommoner.org
Mariarosa Dalla Costa (2004) Riruralizzare il mondo e Due cesti per cambiare
in Massimo Angelini et al., Terra e Libertà/Critical Wine, DeriveApprodi, Roma.
Massimo Angelini et al. (2004) Terra e libertà/Critical Wine, DeriveApprodi,
Roma.
([email protected])
35
n.11 / 2005
“La ricerca che qui si pubblica riguarda il progetto “Un patto per lo sviluppo
sostenibile del territorio”, frutto della collaborazione tra il GAL Patavino e il
LAPP, nell’ambito di un accordo di programma con la Facoltà di Scienze
Politiche, e fa parte del Programma Leader Plus finanziato dalla Comunità
Europea mediante il Fondo Europeo FEOGA - Sezione Orientamento - nell’ambito del PIC, Leader Plus, Regione del Veneto, Italia”.
36
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli*
I progetti di territorio di 42 comuni in
provincia di Padova, Verona e Vicenza tra
imperativi economici e sviluppo sostenibile
Passaggio a Nord-Est
La ricerca è stata realizzata congiuntamente
dai due autori che hanno anche discusso il testo
finale. La stesura del testo è stata così ripartita:
Gangemi per i paragrafi 1.1, 2.1, 3.3, 3.8, 5, 5.1,
5.2, 5.3, 5.4; Gelli per i paragrafi 1, 2, 3, 3.1, 3.2,
3.4, 3.5, 3.6, 3.7, 3.8, 3.9, 4, 6.
*
1. Premessa
Lo svolgimento dell’indagine che qui pubblichiamo avviene congiuntamente allo spiegamento di
un dibattito in Veneto che interessa le radici del
modello di sviluppo del Nordest accusato di essere sempre meno competitivo rispetto alle sfide che
impone la globalizzazione, di essere poco sostenibile in quanto basato su un’organizzazione ad alto
consumo di territorio e di non essere adeguato
alle nuove domande sociali e alle urgenze ambientali. Un dato è che il modello del “capannone”,
struttura permanente e diffusa capillarmente nel
territorio, con i ritmi di lavoro massacranti che ne
hanno affermato la produttività, non funziona più.
Un punto di svolta viene visto nella riorganizzazione del tessuto urbano-produttivo e in particolar
modo infrastrutturale che, da una parte, viene percepito come un modo per rendere più competitive le imprese del Veneto (uno slogan che circolava era: “siamo molto veloci a produrre in fabbrica,
siamo lenti a distribuire sui mercati”) e, dall’altra,
come un modo per ridurre l’inquinamento (un
argomento di presentazione della Valdastico Sud
era: “inquinano di più le macchine bloccate nel
traffico, che quelle che scorrono veloci”; o anche:
“più code si fanno, più si inquina”). In questo
senso, la realizzazione di nuove strade renderebbe
più sostenibile lo sviluppo, con ricadute positive
sia sulla crescita economica che sull’ambiente.
Una serie di nuove grandi opere di collegamento
viario e ferroviario viene prevista e un programma
quadro viene firmato nell’agosto del 2001 tra la
Regione Veneto e il Governo Berlusconi appena
insediato (nel quadro della legge Merloni del 1998
che regola la costruzione delle grandi opere pubbliche e prevede nuove procedure di validazione e
nuove metodologie di ispezione dei progetti).
Per quanto riguarda la crisi attuale delle infrastrutture nel Nordest, vi è da dire che era dal 1975 che
il Parlamento e il Governo avevano bloccato la
costruzione di qualsiasi autostrada in Italia ritenendo già sufficiente il sistema autostradale esistente. Soltanto un decennio dopo, a fronte dei
pesanti disagi di traffico, viene consentita la realizzazione di una serie di opere di raccordo complementare alla rete esistente (da cui la realizzazione,
per il Veneto, negli anni ‘90, della terza corsia della
Brescia-Padova e delle tangenziali di Verona,
Padova e Vicenza).
Le opere da compiere sono: il passante autostradale di Mestre (da tempo in discussione), la superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta, l’ipotesi
autostradale della Nuova Romea (VeneziaRavenna), il prolungamento della Transpolesana,
37
n.11 / 2005
l’SFMR - Sistema Ferroviario Metropolitano Regionale -,il
proseguimento dell’autostrada A31 Valdastico Sud
(quest’ultima incontra un procedurale abbastanza
difficoltoso per i pareri inizialmente discordanti
del Ministero dell’ambiente e del Ministero dei
beni culturali e a livello locale per le resistenze da
parte di alcune amministrazioni comunali e di alcuni comitati di ambientalisti. Malgrado tutto, alla
fine, la Valdastico Sud ottiene il via libera). In particolare, la ricerca ha a che fare con le conseguenze (non previste?) della decisione di costruzione
della Valdastico Sud. Quest’opera ottiene, a dispetto delle proteste di qualche sindaco e dei gruppi
ambientalisti, un forte consenso da parte dei sindaci dei Comuni interessati e delle popolazioni
locali laddove consultate (vi è stato, ad esempio,
un referendum comunale, da parte dell’amministrazione comunale di Agugliaro - il cui sindaco di
quegli anni era coordinatore del Comitato della
Riviera Berica per la realizzazione della Valdastico
Sud - dal quale è risultato che più del 70% della
popolazione condivideva l’opera). Inoltre, nell’ambito dell’ANCI Veneto, si era realizzato un coordinamento dei sindaci interessati alla Valdastico Sud
per promuovere la realizzazione dell’opera nei
tempi più rapidi possibili. L’indagine è andata
incontro ad alcune sorprese facendo emergere
delle contraddizioni alla base di questo ridisegno e
nuova programmazione dello sviluppo, in particolare, nella direzione annunciata di maggiore sostenibilità. Per quanto riguarda la Valdastico Sud,
infatti, c’è da evidenziare che già al suo annuncio si
sono scatenate le logiche particolaristiche, forse
inerziali, dell’imperativo economico così come
ereditato dal passato. È stato dato avvio ad un’espansione frammentata che nell’insieme delinea
ancora “tutto un capannone”, con una serie di
varianti ai PRG da parte di molte amministrazioni
comunali che vedono la Valdastico Sud sostanzialmente come l’opportunità per nuove zone di
espansione produttiva e insediativa; questo si verifica con maggiore intensità nelle aree in prossimità dei caselli previsti. Quanto alle scelte localizzative, non si rinvengono particolari attenzioni per la
selezione delle produzioni sia ai fini delle ricadute
di impatto ambientale, sia del valore aggiunto
(innovatività) delle produzioni e della potenziale
38
configurazione di sistemi integrati o di azioni collaborative. Il che non fa pensare che sia stato preso
sul serio il dibattito che mette in luce la crisi competitiva profonda del Nordest.
Per altro verso, l’ambito territoriale esplorato dalla
ricerca si presenta con orientamenti di sviluppo
sostenibile che riguardano i settori del turismo,
dell’agricoltura specializzata e biologica, dell’agriturismo, con progetti di filiera e di nuovi distretti
produttivi (agroalimentare, riciclaggio, etc.) che
realmente tentano di ripensare il modello veneto e
di rilanciarlo, a partire dalla valorizzazione delle
risorse ambientali, del patrimonio culturale e territoriale diffuso. Tuttavia, anche questa strada presenta i suoi limiti e le sue forti problematicità. In
primo luogo, vi è la questione del ricambio generazionale in agricoltura che pone un grave limite di
risorse umane e di sviluppo (il destino di queste
aree potrebbe diventare, definitivamente, quello
dell’agricoltura estensiva a basso valore aggiunto e
meccanizzata) e vi è quello del progressivo impoverimento e inquinamento delle risorse idriche del
territorio (fiumi, ruscelli, ma ormai anche falde
acquifere sempre più in profondità) e del paesaggio (porzioni dei colli che sono state erose dall’attività di cava; siepi e alberature, e perfino interi
spazi boscosi scomparsi; i terrazzamenti in stato di
abbandono). Infine, i progetti che interessano il
turismo e la valorizzazione delle risorse naturali,
culturali e delle produzioni enogastronomiche
tipiche, che richiedono azioni integrate e logiche
di rete, si scontrano con l’ancora insufficiente
capacità organizzativa locale e con le tendenze
campanilistiche osservate sia a livello delle istituzioni di governo locale, sia a livello dei settori di
produzione.
L’indagine mette in luce che non c’è una presa di
consapevolezza fino in fondo delle alternative di
sviluppo percorribili nel senso della sostenibilità,
così come delle problematicità che esse presentano. La sensazione è che questa via, dello sviluppo
sostenibile che favorisce altre attività, rispetto a
quella produttiva-industriale, e che pare raccogliere il meglio dello “spirito” veneto dell’auto-organizzazione sociale e delle reti informali, si presenti
parallela e compresente alla logica del “capannone” senza che si riesca a scorgere, da parte degli
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
amministratori locali (dal Comune alla Regione) e
degli attori economici, il forte potenziale di conflittualità che si apre tra le due strade.
È, a questo punto, che l’operato di nuovi soggetti
dello sviluppo locale (come i GAL di cui si parlerà)
costituitisi sulla scia di programmi comunitari,
appaiono come attori potenzialmente innovatori
nella ricerca di una mediazione tra le diverse istanze locali.
Un altro aspetto congiunturale importante è la
predisposizione, a lungo attesa, della Legge
Regionale Urbanistica, che riconosce ai Comuni un
ruolo vitale nella regolazione e nell’organizzazione
delle attività umane nel territorio, pur introducendo indicazioni che promuovono modalità associative e cooperative (soprattutto con riferimento alla
progettazione di aree produttive) e dunque una
dimensione interlocale e concertativa della pianificazione territoriale. Anche per questa ragione l’indagine ha cercato di esplorare le nuove forme di
amministrazione e di intervento pubblico, le esperienze di rete e di collaborazione tra Comuni per la
gestione dei servizi e per la costruzione delle politiche territoriali.
volume comprende vari studi di caso, uno dei
quali è dedicato al GAL patavino -.
I Gal selezionati dalle Regioni diventano responsabili della realizzazione del PSL e dei vari progetti
nei territori di pertinenza del PSL (“Aree-Target”).
Il GAL Patavino si presenta con un partenariato
composto da: Provincia di Padova; Camera di
Commercio, Industria e Artigianato di Padova;
Ente Parco Colli Euganei (soggetti pubblici) e
ASCOM, Associazione Commercianti Turismo e
Servizi Padova; CIA, Confederazione Italiana
Agricoltori Padova; CNA, Confederazione
Nazionale Artigianato e Piccole Imprese di Padova;
Confesercenti – Federazione di Padova;
Federazione Provinciale Coldiretti Padova; UPA,
Unione Provinciale Artigiani di Padova (soggetti
privati).
L’area target del PSL è interprovinciale e comprende 31 Comuni della provincia di Padova, 9 Comuni
della provincia di Vicenza e 2 Comuni della provincia di Verona.
Per lo svolgimento della presente ricerca, il GAL ha
coinvolto l’Università di Padova (e in particolare, il
Laboratorio Attori Politiche Pubbliche della Facoltà
di Scienze Politiche) realizzando un’intesa di programma su cui insistono varie attività (tra cui, un
laboratorio di tesi di laurea, un seminario itinerante, etc.). Una domanda specifica si è configurata
nella richiesta di svolgimento di un’indagine conoscitiva sul territorio dell’area-target, nella forma
della ricerca-azione, e in relazione ad un tema:
quello dello sviluppo sostenibile delle risorse rurali del territorio. Quest’iniziativa si colloca anche
nel quadro più ampio delle attività di ricerca che
seguono un asse tematico, che è quello
dell’Università “come attore di politiche di sviluppo locale e di progetti territoriali”, da decenni ben
configuratosi nella realtà statunitense e dei paesi
anglosassoni, ma piuttosto “nuovo” in Italia e particolarmente attuale in Veneto, in un momento in
cui si chiede il ripensamento del modello di sviluppo del Nordest anche a partire dalla collaborazione tra forze politiche, forze sociali, forze economiche e ponendolo come una questione, in primo
luogo, di tipo culturale.
Cogliamo l’occasione per aprire una breve parentesi: l’idea di una Università come attore di politi-
1.1. Il disegno della ricerca
In queste pagine sono presentati sinteticamente i
risultati di una ricerca che si inserisce nell’ambito
delle iniziative che il GAL Patavino ha promosso in
attuazione della Azione 1.1.b del Piano di Sviluppo
Locale (PSL). Per GAL (Gruppo di Azione Locale) si
intendono delle associazioni di soggetti pubblici e
privati che si sono costituite per contribuire all’implementazione del Programma di Iniziativa
Comunitaria Leader + (Liaison entre actions de
développement rural, 2000-06). I Gal vi partecipano, con l’elaborazione di un Piano di Sviluppo
Locale che viene valutato dalle autorità di gestione
competenti (che in Italia sono le Regioni), ai fini
del finanziamento, sulla base dei Complementi di
Programmazione che costituiscono un approfondimento delle linee-guida generali comunitarie per un’analisi dell’esperienza Leader in Italia, si
rimanda a L. Vettoretto (Innovazione in Periferia.
Sfere pubbliche e identità territoriale dopo l’iniziativa comunitaria Leader, FrancoAngeli, 2003). Il
39
n.11 / 2005
che pubbliche che operasse in concerto con la
società civile (volontariato e imprese) e la politica
era condivisa dalla scuola lombardo-veneta
(Romagnosi, Lampertico, Morpurgo – che è stato
anche rettore dell’Università di Padova – Luzzatti –
che è stato anche Presidente del Consiglio).
L’ultimo rappresentante, a Padova, di questa scuola e di questa impostazione di pensiero e azione è
stato Giulio Alessio (fortemente avversato dal
fascismo e dal rettore Carlo Anti, con metodi quasi
squadristi). La gestione dell’Università di Padova
nel corso del ventennio fascista ha portato, gradatamente, a togliere all’Università ogni ruolo come
attore politico operante nel territorio. Questa frattura non è stata ancora del tutto risanata.
Da una parte, infatti, la costituzione, nel 1924, della
Scuola di Scienze Politiche e Sociali (che, nel 1934,
diventa, in conformità all’art. 20 del T.U. delle leggi
sull’istruzione superiore del R.D. n. 1592 del 31
agosto 1933, Facoltà di Scienze Politiche) porta a
concepire questa Facoltà come uno strumento per
formare personale dello Stato ligio al dovere, privo
di originalità e rispettoso delle gerarchie. Il
Direttore della Scuola, poi primo Preside della
Facoltà, Donato Donati, riteneva che la volontà del
vertice dei funzionari dello Stato, che sono i ministri, è legge, e che i funzionari preparati dalle
Università, e in particolare dalla Facoltà di Scienze
Politiche, dovevano acquisire e dimostrare la capacità di eseguire in modo acritico le direttive impartite. Di conseguenza, all’Università rimane solo la
possibilità di puntare sulla qualità della ricerca
scientifica (nei settori privi di qualsiasi contatto
con, e in tematiche prive di ricadute su, la politica
e sul sociale), al di là delle ricadute in termini di
operazioni immobiliari nello spazio della città. Una
delle ipotesi del metodo che è stato adottato per
questa ricerca è che la frattura, ancora esistente,
tra Università e Territorio, si possa ricomporre
anche dando spazio ai saperi locali e a un tipo di
conoscenza che è legato alla dimensione delle pratiche sociali.
L’indagine è stata volta alla produzione di scenari
di sviluppo locale, attraverso la raccolta delle rappresentazioni e dei punti di vista che gli attori politici (e in particolare gli amministratori locali)
hanno delle trasformazioni territoriali e delle dina-
40
miche socio-economiche. In una prima fase è stata
realizzata un’inchiesta sullo stato dei progetti e
delle iniziative degli enti locali nel territorio dell’area target, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile e della valorizzazione delle risorse rurali.
L’attenzione è stata volta soprattutto agli enti locali perché il GAL patavino persegue l’obiettivo di
rafforzare e densificare il tessuto delle relazioni tra
gli attori economici e sociali dello sviluppo dell’area e le filiere istituzionali di rappresentanza e di
governo locale. In questa prima fase, l’inchiesta è
stata condotta attraverso lo svolgimento di una
serie di interviste in profondità a sindaci e funzionari, tecnici, dei Comuni che ricadono nell’areatarget del PSL del GAL Patavino (ne sono state realizzate più di 80 nell’insieme) e interviste ai rappresentanti del mondo economico e produttivo
locale e del sociale. È seguita l’organizzazione di
un Forum per presentare e discutere i primi esiti
della ricerca.
Le interviste ai Sindaci (realizzate secondo uno
schema di domande aperte) sono state focalizzate
alla costruzione di una mappa delle interconnessioni che gli intervistati stessi ponevano tra l’obiettivo di sostenibilità e le pratiche e i progetti correnti dell’amministrazione comunale (pratiche di
uso del territorio, intenzionalità dell’intervento
pubblico). Non interessava chiedere loro una definizione di sviluppo sostenibile, ma comprendere
la cultura e il modello di sviluppo alla base delle
scelte dell’amministrazione nel porsi la questione
della sostenibilità. Questo portava gli amministratori a parlare di agricoltura e dei problemi ad essa
connessi, di inquinamento elettromagnetico (la
questione delle antenne), di risparmio energetico
(nei Comuni in cui ci si poneva il problema). Solo
su suggerimento degli intervistatori, emergevano i
progetti e le problematiche connesse all’inquinamento dell’acqua e dei fiumi, alla salvaguardia dell’ambiente, alle discariche e alle cave e, infine, alla
raccolta differenziata dei rifiuti.
A questo punto, si ricordava che l’Unione Europea
considera prerequisito essenziale allo sviluppo
sostenibile l’esistenza di forme di cooperazione tra
Enti locali, e tra enti, imprese, organizzazioni di
volontariato, reti civiche. Questo argomento portava a discutere del livello di collaborazione inter-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
na ai Comuni (tra politici e uffici tecnici, ma anche
tra maggioranza e minoranza nei consigli comunali), della collaborazione tra Comuni, dei rapporti
con la Provincia e la Regione, delle altre eventuali
sinergie territoriali.
Dopo questo quadro iniziale, in cui si lasciava
molto spazio alla presentazione dei problemi e alla
libera associazione degli argomenti da trattare, si
passava a domande più specifiche, del tipo: quali le
variazioni al PRG e quali progetti di nuove localizzazioni produttive e abitative? quali le priorità?
quali i progetti che suscitavano più consenso e
quali risultavano meno popolari? quali i “sogni nel
cassetto” che l’amministrazione avrebbe desiderato realizzare se avesse avuto le risorse per farlo?
Per quanto riguarda gli uffici tecnici, alla realizzazione delle interviste hanno partecipato studenti della
Facoltà di Scienze Politiche di Padova (retribuiti con
contratti “150 ore”). Essi si presentavano con una
griglia che ricalcava più o meno lo schema per i sindaci e che comprendeva anche domande più specifiche e tecniche (queste ultime strutturate), tendenti a raccogliere informazioni sulle politiche di
settore in corso. Si chiedeva di precisare quali fossero le politiche che venivano realizzate in ottemperanza a direttive dell’Unione Europea, quali, invece, rientravano in più generali iniziative regionali
e/o provinciali e quali, infine, nascevano da iniziative direttamente promosse dall’amministrazione e
quali erano invece nate da esplicite richieste o proteste di parte della popolazione.
In merito ai progetti, si chiedeva di descrivere gli
obiettivi, i tempi di realizzazione e le risorse finanziarie e umane impegnate e se, in corso d’opera,
fosse emersa l’esigenza di sviluppare un coordinamento ed, eventualmente, quali forme esso avesse
assunto (scambio informale di informazioni, costituzione di un vero e proprio gruppo di lavoro,
coordinamento a livello politico in giunta o tra commissioni consiliari), quali progetti impegnavano
maggiormente l’ufficio, quali progetti avessero prodotto conflittualità nel territorio e tra la gente, etc.
Di seguito, si chiedeva di rispondere non in quanto tecnici, ma in quanto cittadini, alle seguenti
domande: quali le speranze e i timori per il territorio, quale il grado di consapevolezza degli eventuali rischi e opportunità nella popolazione locale;
si chiedeva inoltre circa l’esistenza di occasioni di
pubblico dibattito su questi problemi e quali fossero i soggetti più attivi nel territorio.
In una seconda fase, l’indagine è consistita nell’elaborazione di una scheda di analisi più approfondita, per singolo Comune, così concepita: la raccolta e valutazione di una serie di dati relativi alle
dinamiche demografiche e al quadro socio-economico; l’analisi SWOT come confronto per punti (di
forza e di debolezza, di opportunità e di rischio)
tra le percezioni degli attori locali, ricavate dalle
interviste, e i dati istituzionali; la parte conclusiva
era costituita da considerazioni e riflessioni sulle
prospettive e gli scenari possibili.
Dalle analisi SWOT sono emersi dei raggruppamenti di Comuni che condividono problematiche
più o meno omogenee o sono compresi entro reti
di relazioni territoriali e questo ha motivato l’obiettivo di una serie di incontri, concepiti come
momenti di confronto, discussione e verifica, con
gli amministratori comunali (sindaci o loro rappresentanti); incontri organizzati tenendo conto dei
raggruppamenti emersi. Con gli amministratori che
hanno partecipato agli incontri è stato possibile
rivedere le schede e ricevere ulteriori input.
Nelle varie fasi della ricerca, vi sono stati più
momenti di incontro tra i responsabili dell’indagine
e i rappresentanti delle organizzazioni e istituzioni
che formano il partenariato del GAL patavino, per
concertare il disegno della ricerca e alcuni cambiamenti resisi evidenti in corso d’opera e per restituire le percezioni che gli amministratori intervistati
manifestavano sul ruolo e l’azione del GAL e sulle
aspettative che essi avevano, per presentare i primi
risultati e impostare le iniziative di interazione con
gli amministratori e gli altri attori del territorio.
La durata totale del percorso di ricerca è stata di
venti mesi (dal luglio 2003 al febbraio 2005).
Parallelamente è stata svolta una ricerca, con metodi analoghi, nel quadro sempre dell’implementazione del programma Leader + (GAL Delta del
Po), da parte del Dipartimento di Pianificazione
dello IUAV (responsabili Luciano Vettoretto e
Francesca Gelli) e promossa dal Consorzio di
Sviluppo del Polesine, inerente i 50 Comuni della
provincia di Rovigo. Una sintesi dei risultati sarà
presentata nel prossimo numero di Foedus.
41
n.11 / 2005
2. L’interpretazione del PIC Leader+ nel progetto di territorio del GAL patavino.
Il Programma di Iniziativa Comunitaria Leader + è
stato promosso dalla Commissione Europea, nell’ambito della programmazione 2000-06, per stimolare e sostenere le comunità rurali nella definizione di Piani di Sviluppo Locale di lungo termine,
come occasioni per riflettere sulle trasformazioni
dei loro territori d’uso e di circolazione e per
approntare dispositivi di governance in risposta
alla crescente domanda di coesione, di “messa in
coerenza” dei territori, funzionale a una maggiore
efficacia delle politiche di sviluppo. Il programma
Leader, fin dal suo concepimento, agli inizi degli
anni Novanta (Leader I e successivamente Leader
II), si contraddistingue per un approccio integrato
e sostenibile allo sviluppo e si basa sulla costituzione di partenariati tra soggetti pubblici e privati
e reti di scambio di esperienze.
I temi generali del programma come indicati dalla
Commissione sono:
1) fare il migliore uso delle risorse naturali e culturali dei luoghi promovendone la valorizzazione;
2) migliorare la qualità della vita nelle aree rurali e
rafforzare le produzioni tipiche locali, consentendo a quelle di nicchia l’accesso ai mercati attraverso un maggiore sforzo organizzativo;
3) promuovere i saperi locali e le nuove tecnologie
per rendere le aree rurali più competitive.
I presupposti dell’azione comunitaria sono, da un
lato, l’identificazione di aree di intervento omogenee e di scala limitata -“Aree-Target”- (nella convinzione che l’azione integrata, così come la costituzione dei partenariati, si renda maggiormente
efficace quando su scala locale), dall’altro, coerentemente con gli obiettivi della politica di coesione,
la diversificazione delle attività economiche nelle
aree rurali (nella convinzione che le aree, “omogenee” se prese singolarmente, contengano degli
elementi di forte diversità se comparativamente
considerate, in riferimento all’intero territorio
dell’UE).
Infine, la sperimentazione in corso con Leader + è
funzionale alla definizione di una politica di sviluppo rurale che possa andare a costituire il secondo
pilastro della Politica Agricola Comune, nel quadro
42
del processo di riforma avviato.
La strategia offerta come traccia dalla Commissione,
per agevolare i GAL nella identificazione di un
“tema catalizzatore” intorno al quale far convergere l’insieme delle azioni di ogni PSL, è quella di
incoraggiare l’interazione tra attori, settori e progetti costruiti intorno a un fattore forte dell’identità locale e/o delle risorse e/o dello specifico
know-how dell’area.
Nel concreto, le azioni pilota verteranno: sulla
emersione di nuovi servizi e prodotti; sull’adozione di metodi innovativi di gestione delle risorse;
sull’interazione tra settori economici che, tradizionalmente, si sono sviluppati separatamente; sullo
sviluppo di forme innovative di organizzazione e
coinvolgimento della popolazione locale.
La politica per il territorio del GAL patavino consiste in investimenti simbolici, ovvero nella costruzione di politiche territoriali come operazioni di
assemblaggio caratterizzate da produzioni di rappresentazioni, discorsi, nuove narrative. La dimensione interlocale delle politiche è centrata sulla
costruzione di reti territoriali e l’attivazione di processi di governance.
Il Piano di Sviluppo Locale, elaborato dal GAL
patavino e oggi in corso di attuazione, si articola
sui seguenti punti:
1) il presupposto di omogeneità dell’area di intervento, come era già emerso nella diagnosi socioeconomica dell’area, non può essere sostenuto se
non in termini relativi (si è trattato di mettere in
relazione parti di territorio diverse tra di loro, per
ragioni economiche, sociali, ambientali – l’area del
Parco Colli, l’area termale, l’asta dell’Adige, i Colli
Berici, etc. –, ma che sono investite da alcuni problemi comuni – i nuovi progetti infrastrutturali,
l’inquinamento dei corsi d’acqua, le carenze organizzative del settore agricolo e turistico, l’endemica tendenza a far prevalere istanze campanilistiche
e individualistiche, etc. – che vengono comunque
percepiti e rappresentati in maniera diversa);
2) in connessione con il punto di cui sopra, la scelta del tema catalizzatore è stata condizionata dalla
necessità di rinvenire modalità operative e livelli
simbolici per fare sistema tra i diversi frammenti di
cui è composta l’area target e incentivare gli attori
locali a convergere su obiettivi condivisi. La scelta
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
del tema catalizzatore, pertanto, ha privilegiato, tra
le declinazioni degli orientamenti strategici offerti
dal programma europeo, l’interazione tra settori
economici che si sono, nel tempo, sviluppati separatamente l’uno dall’altro. Si comprende così l’attenzione a progetti di filiera che mettano in circuito
i settori primario, secondario e terziario per la valorizzazione delle varie risorse ambientali, culturali,
naturali e paesaggistiche (esempi: sviluppo dell’attività turistica con itinerari di visitazione del territorio
che comprendono beni monumentali e storici, parchi e aree protette, oasi ecologiche, itinerari di
degustazione di prodotti tipici, di cura del corpo,
con le acque termali e con i fanghi, attività sportive,
etc.; sviluppo di servizi per il turismo; distribuzione
e commercializzazione dei prodotti; strategie di
marketing territoriale; potenziamento dell’organiz-
zazione di alcuni settori produttivi in funzione di
percorsi di tracciabilità dei prodotti; etc.);
3) l’efficacia nell’attuazione del tema catalizzatore
ha come chiave di volta il miglioramento dei rapporti tra enti locali e attori economici e sociali nell’area target. A tal fine vengono delineate specifiche azioni di attivazione del contesto locale, di
coinvolgimento di attori istituzionali e si pensa
all’utilità di un’indagine che, con modalità tipiche
dell’inchiesta sociale, cerchi di raccogliere le diverse percezioni dello sviluppo locale con un fuoco in
particolare sugli amministratori locali alle prese
con l’adozione di uno stile cooperativo, con politiche di rete e con le due contrapposte ideologie
della difesa dell’ambiente e della crescita economica. L’approfondimento conoscitivo delle dinamiche di interazione presenti nell’area target e dello
Fig.1
43
n.11 / 2005
stato dei progetti intrapresi dagli attori dello sviluppo locale viene considerato come un presupposto fondamentale per dare una rappresentazione dell’area più che in termini di omogeneità, in
termini di integrazione e di sistema.
2.1 Alcune considerazioni generali su “abiti
simbolici” radicati
L’area territoriale identificata dal Piano di Sviluppo
Locale del GAL patavino (fig. 1) si presenta interessata e attraversata da profondi cambiamenti che
riguardano la trasformazione delle destinazioni
d’uso della terra e dell’organizzazione delle attività, degli stili di vita.
Quali usi e attività fanno un territorio “rurale”? In
che senso, in quest’area, siamo al contempo a
fronte di una perdita e di un recupero - nuova
acquisizione - di fattori di “ruralità”?
La realtà e gli scenari futuri della previsione delle
nuove espansioni produttive e residenziali, in
molti Comuni, l’emergere di preponderanti funzioni turistiche, la costruzione di nuovi grandi arterie della comunicazione e della circolazione, l’entrata in gioco di nuovi attori che non appartengono al settore primario e spesso nemmeno a quello
secondario, come possono stare dentro la “cornice
del rurale” e con quali nuovi significati e strategie
di azione?
Questa domanda non è irrilevante poiché, in generale, le politiche europee per l’agricoltura vanno
sempre più movendosi verso l’indirizzo di politiche di sviluppo rurale, dove la capacità di innovazione, l’assunzione di uno stile cooperativo e partecipativo, la programmazione a monte degli interventi nei singoli settori, il decentramento, sono
aspetti salienti della politica.
Se sarà sempre più rilevante la capacità di un territorio di rappresentarsi come “rurale”, quest’area
deve cominciare a porsi il problema di valutare criticamente e produrre consapevolezza in merito
alle trasformazioni in corso, per sapere nuovamente costruire la rappresentazione di sé come “rurale”. Con una premessa: non è detto che tutto ciò
che di nuovo accade, sia foriero di innovazione;
spesso diviene invece vettore per il ripristino di
vecchie cornici per l’azione, di comportamenti e di
44
routine che si credevano fuori discussione, tanto
nell’agire amministrativo quanto in quello economico (il riferimento è ad alcune dinamiche che
sono conseguite all’annuncio del prolungamento
della Valdastico Sud, su cui ci soffermeremo di
seguito).
Questo punto va chiarito con riferimento a quanto
è emerso dalla ricerca: le logiche parziali dei
Comuni stanno spingendo verso lo sviluppo di un
numero di aree produttive artigianali e industriali
eccessivo rispetto alle condizioni di crisi dell’economia (cosa che fa presupporre un fenomeno di
trasformazione del rapporto tra imprese che producono per il mercato e le imprese di terzisti);
quale che ne sia la ragione (e una ipotesi sarà avanzata più avanti), il risultato in termini di logica collettiva o sociale rischia di essere praticamente disastroso. Si prospetta, in conseguenza della conclusione della Valdastico a Sud, lo sviluppo di una
nuova area ad elevata urbanizzazione, con zone
produttive dove prima vi erano campi agricoli,
delimitata dall’autostrada A4 Brescia-Padova (tratto Vicenza-Padova), dall’autostrada A13 PadovaBologna (tratto Padova-Rovigo), dalla SS434
Transpolesana Rovigo-Verona (tratto Badia
Polesine-Rovigo) e dalla A31 Valdastico Sud (tratto
Vicenza-Badia Polesine - vedi fig.2 -). Quest’ultima
autostrada separerà i Colli Euganei dai Colli Berici
(passando per i Comuni Torri di Quartesolo,
Longare, Montegalda, Montegaldella, Castegnero,
Nanto, Mossano, Barbarano, Alettone, Agugliaro,
Noventa Vicentina, Poiana Maggiore – per la provincia di Vicenza – Rovolon, Ospedaletto, Saletto,
Santa Margherita, Megliadino San Fidenzio,
Megliadino San Vitale, Piacenza d’Adige,
Montagnana - per la Provincia di Padova -, Badia
Polesine, Lendinara, Canda – per la Provincia di
Rovigo). Il Parco Colli Euganei appare destinato a
diventare l’area verde di una nuova area di espansione insediativa e produttiva policentrica cresciuta quasi completamente priva di controllo (proprio
perché il fenomeno non è ancora stato posto con
chiarezza all’attenzione degli attori politici locali o
regionali). Il tutto in un momento in cui la stessa
Regione si rende consapevole della crisi definitiva
del “modello di sviluppo veneto” consolidato
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
Tracciato della Valdastico Sud
Fig.2
45
n.11 / 2005
(quello dei “capannoni”) e propone una reinversione dei processi insediativi verso lo sviluppo
sostenibile.
Lo sviluppo sostenibile ha molto a che fare con
politiche dell’Unione Europea. La Strategia della
Commissione Europea per lo sviluppo sostenibile
(2001), il Libro Bianco della Commissione Europea
sulla Governance (2002), la Comunicazione della
Commissione sull’orientamento di base per la
sostenibilità del Turismo Europeo (2003), il
Programma d’Iniziativa Comunitaria Leader+ per lo
sviluppo rurale, sono tutti documenti e politiche
che come approccio allo sviluppo sostenibile promuovono in primo luogo le occasioni e la capacità
di cooperazione, tra istituzioni e tra settori di politiche, di fare-rete, di sviluppare il dialogo come confronto tra diversi punti di vista e diverse pratiche e
l’interazione, in tutte le forme in cui si può dare.
L’approccio integrato risulta essere la chiave di
quest’orientamento allo sviluppo sostenibile e
della programmazione.
La politica per lo sviluppo sostenibile, nel nostro
Paese come in quest’area, in particolare nel campo
ambientale, sembra funzionare e produrre qualche
risultato configurandosi come politica regolativa e
procedendo per “bastoni e carote”, cioè, con l’imposizione di vincoli normativi e tasse, con incentivi e premi per chi accetta di intraprendere un
nuovo percorso. Ma questa modalità, queste tecniche, sono di per se stesse sufficienti per sviluppare una nuova coscienza diffusa e condivisa, per
consentire la svolta – lo slittamento della nostra
percezione - a livello cognitivo e delle pratiche di
azione territoriale?
Questo era l’obiettivo dell’indagine e si è trovato
qualcosa su questa direzione. In particolare, un
obiettivo cruciale era quello di riscoprire, anche
attraverso le filiere, la pratica della cooperazione.
Contrariamente alle aspettative, sono emersi, in
gran parte dell’area target del GAL patavino, i
pesanti effetti dei processi di metropolizzazione
e/o di urbanizzazione diffusa ricorrenti nelle aree
più sviluppate del NordEst. E soprattutto si sono
ritrovate logiche parziali (di settorializzazione)
che, singolarmente considerate possono anche
apparire razionali, ma nell’insieme producono
risultati incontrollabili (di frammentazione e di-
46
spersione) e non desiderati.
In questo contesto, la posta in gioco che offre il
GAL patavino è forse poco rilevante dal punto di
vista materiale (finanziario), rispetto a molte altre
politiche, ma può essere rilevante dal punto di
vista simbolico.
Qui, tuttavia, ci si deve confrontare con l’incertezza del ruolo del GAL che è l’unico tavolo di negoziazione dove si incontrano le associazioni di categoria con gli enti pubblici del territorio, ma che
incontra delle difficoltà nel tentativo di orientarsi
in modo da generare sinergie verso altri progetti
che promuovono iniziative di messa in rete e di
sviluppo del capitale endogeno.
L’ambiguità del GAL patavino sta nel fatto che è,
insieme, non solo una società che gestisce delle
risorse limitate, ma anche l’unione di nove attori
pubblici e privati. Molte di queste organizzazioni
avevano potere, un tempo, come gruppi di pressione politica (e forse ne hanno ancora singolarmente considerate), ma non riescono a costituire
una forza di pressione come collettivo. In questo
senso il GAL patavino, per quanto costituisca una
associazione formalizzata, fa fatica a produrre e
consolidare processi virtuosi di mutua collaborazione o sinergie tra i soci. Questo è notato dai sindaci dei Comuni dell’area target che si aspettano
dal GAL patavino solo contributi per piccole iniziative e nessuna risorsa, né economica e nemmeno
politica, per affrontare i grossi problemi delle aree
in cui operano. La conseguenza è che l’area target
appare come un luogo in cui nessuno cerca di
inserire le strategie di sviluppo dei singoli Comuni
in una strategia collettiva. Questo è particolarmente preoccupante se si pensa che molte delle associazioni di categoria che costituiscono il GAL patavino sono relative all’agricoltura o all’artigianato,
cioè ai settori nei quali i fenomeni macroscopici
che sono descritti si stanno manifestando e sui
quali finiranno per gravare in prospettiva.
Abbiamo riscontrato, inoltre, una certa presenza di
grosse aspettative nei confronti del GAL patavino
laddove non vi fossero attori che avessero creato
attese sulla capacità di cooperazione dei Comuni.
Il riferimento è ai Colli Berici dove la Provincia di
Vicenza si è mostrata poco attiva e, quindi, ci si
aspetta che il GAL patavino costituisca un’occasio-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
ne per sviluppare nuove forme di cooperazione o,
comunque, un modo di uscire da situazioni che
sono percepite come di marginalizzazione e isolamento. Al contrario, invece, si riscontra uno scarso
appeal del GAL patavino in aree come quella della
bassa padovana dove la Provincia di Padova si è
mostrata attiva, anche se i risultati non sono stati
quelli che ci si sarebbe aspettato, e anche se gli
stessi intervistati ammettono che la Provincia coinvolge nel senso che comunica le decisioni prese
per tutti, ma non ascolta e non accoglie le esigenze che partono dal basso. Un metodo che, come si
dirà più avanti, ha contribuito a che non si notasse
il processo di sviluppo in atto in un territorio
molto vasto (il nuovo quadrilatero Vicenza-PadovaRovigo-Piacenza d’Adige) destinato, probabilmente, a costituire un’area in cui si ripeteranno gli stessi problemi già riscontrabili nel quadrilatero
Padova-Vicenza-Treviso-Mestre.
te esistenti tra amministrazioni comunali, viste
come organizzazioni formali o come vettori dell’azione di singoli – sindaci, funzionari - che si occupano delle politiche comunali e che svolgono vari
“ruoli di rete” (di comunicazione, costruzione di
accordi, valutazione, mobilitazione, etc.). Alcuni di
questi li abbiamo individuati e intervistati.
Alcune opportunità e vincoli di natura esogena (è
il caso ad esempio della legge nazionale che incentiva le forme di associazioni tra Comuni), possono
innescare o favorire la formazione di reti territoriali che saranno poi più o meno attive e feconde, a
seconda che gli attori coinvolti adottino strategie
creative di progettazione e mettano in gioco altre
risorse (seguitando con l’esempio di cui sopra, per
questo alcune Unioni di Comuni si limitano alle
forme della gestione congiunta di servizi, mentre
altre diventano attori di politiche territoriali).
A volte, alcune esperienze di associazione e collaborazione sono definite “reti” dall’osservatore
esterno, mentre coloro i quali ne sono coinvolti
non si vedono come “soggetti in rete” (possono
essersi formate su una singola issue, per l’implementazione di una politica, etc.).
La prima evidenza è che i Comuni dell’area-target
si presentano già in rete, su di una serie di progetti e di attività specifiche che condividono. Spesso,
uno stesso Comune, appartiene contemporaneamente a più reti, piuttosto diversificate, il che
richiede l’impegno di risorse ingenti di tempo, di
competenza, di organizzazione. Ne riportiamo di
seguito alcuni esempi, per procedere poi alla trattazione di alcuni casi paradigmatici (riscontrati tra
i Comuni dell’area).
3. Reti di relazione territoriale dell’area target e nuove forme di amministrazione pubblica
Una parte della ricerca è stata orientata alla mappatura delle reti di relazione che coinvolgono Comuni
dell’area target e alla ricostruzione delle possibili
tipologie di rete, considerando il maggiore o minore grado di istituzionalizzazione con cui si presentano. L’operazione di mappatura è funzionale alle
indicazioni del tema catalizzatore del PSL mirate ad
incrementare l’interazione tra settori di intervento
pubblico ed attori economici dell’area.
È riconosciuta l’importanza che le reti informali,
come tessuto di reciprocità, hanno avuto nel sistema produttivo e sociale del Veneto e nella configurazione del “modello del Nordest”. In anni recenti,
le reti di relazione territoriale sono diventate una
risorsa strategica da giocare nelle politiche pubbliche e sono, con sempre maggiore consapevolezza,
ritenute necessarie per il successo di azioni che
abbiano per obiettivo di “catalizzare” le energie
(imprenditoriali, politiche) diffuse, di attivare processi di apprendimento sociale e di promuovere la
diffusione di pratiche, lo scambio di esperienze e la
socializzazione del cambiamento. La ricerca ha tentato di esplorare le reti informali o istituzionalizza-
3.1 Primo esempio: le Unioni di Comuni
Le prime Unioni si sono formate a partire dal 1995,
pur essendo state introdotte dal legislatore con la
legge dell’8 giugno 1990, n. 142 che prescrive che, in
previsione di una loro fusione, due o più Comuni
contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5000 abitanti, possono costituire una Unione; può anche far
parte dell’Unione non più di un Comune con popolazione tra i 5000 e i 10.000 abitanti; all’Unione competono le tasse, le tariffe e i contributi dalla stessa
47
n.11 / 2005
gestiti. Il Veneto è stata una Regione che ha svolto
un ruolo di avanguardia nell’utilizzare le opportunità offerte da questa legge.
La legge del 3 agosto 1999 n. 265 prevede disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli
Enti Locali nonché modifiche alla legge 142 e chiarisce il ruolo delle Regioni nel favorire il processo di
organizzazione sovracomunale dei servizi. Con questa legge vengono dettati criteri nuovi diretti ad
escludere dalla ripartizione dei fondi statali i Comuni
con popolazione superiore ai 30.000 abitanti.
Un successivo atto legislativo di riferimento è stato
il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali
approvato con il D.L. 18 agosto 2000, n. 267. Il
Decreto del Ministero dell’Interno, in data 1 settembre 2000, n. 318, disciplina la ripartizione dei
contributi spettanti ai Comuni istituiti a seguito di
procedure di fusioni, alle Unioni di Comuni e alle
Comunità Montane svolgenti l’esercizio associato
di funzioni comunali. Segue, poi, il Decreto 2
luglio 2001 del Ministero dell’Interno per la determinazione del contributo erariale da attribuire alle
Unioni di Comuni e alle Comunità Montane svolgenti l’esercizio associato di funzioni. L’ultimo atto
normativo è del 2004, con uno schema di decreto
del Consiglio di Stato, per apportare modifiche al
Decreto 1 settembre 2000, che ha per scopo quello di tener conto delle esperienze maturate negli
anni e di ovviare, visto i limitati fondi stanziati, agli
squilibri derivanti dalla corresponsione di contributi ad Unioni cui partecipano enti di rilevanti
dimensioni demografiche e di rafforzare la garanzia che i contributi statali vengano attribuiti alle
Unioni di Comuni che effettivamente necessitano
di risorse. Questo per favorire i piccoli Comuni.
Il futuro dell’Unione di Comuni è un tema fortemente sentito e sono in corso varie indagini che
tentano un bilancio delle esperienze fin qui compiute, promosse da vari enti (tra cui l’ANCI
Veneto). È in questo quadro di attenzione che
abbiamo considerato lo stato delle Unioni in questa parte di territorio.
Quindici dei quarantadue Comuni costituenti l’area target sono compresi in Unioni di Comuni (si
tratta di sette Unioni) che rappresentano una formula associativa di una certa rilevanza; ad esempio, nella vicina provincia di Rovigo troviamo un
48
solo caso di Unione, pur nella prevalenza di
Comuni di piccole e piccolissime dimensioni.
Il primo elemento di rilievo che emerge da una
riflessione su questo tipo di formalizzazione di
relazioni cooperative, è che, comprendendo le
Unioni, in alcuni casi, anche Comuni non appartenenti all’area target, queste Unioni costituiscono
reti che vanno al di là del territorio di riferimento
del Piano di Sviluppo Locale.
Un primo esito atteso delle Unioni è di migliorare e
diversificare l’offerta di servizi ai cittadini, secondo
parametri amministrativi di efficienza e di qualità.
Un secondo elemento di rilievo è costituito dal
tipo di esperienza gestionale che, attraverso le
Unioni, i piccoli Comuni possono maturare: se è
vero che la trattabilità di alcuni problemi non è più
pensabile nella ristretta dimensione comunale, la
soluzione delle Unioni è, sul piano sperimentale,
uno strumento innovativo da utilizzare per affrontare problemi che altrimenti non potrebbero essere affrontati a livello locale. Questa delle Unioni è
anche una via per formare competenze di tipo
amministrativo, finanziario e di tipo contrattuale
(nel senso che chi vi partecipa fa esperienza del
metodo della concertazione territoriale). Inoltre,
abitua molti amministratori e funzionari a non
pensare nella dimensione della scala dei mille abitanti, ma a ragionare nei termini di una più ampia
scala, a non ragionare da soli, ma tra “pari” (gli altri
sindaci, gli altri funzionari, etc.).
Riferendoci ai Comuni compresi nell’area-target e
situati nel territorio della Provincia di Padova, il
Comune di Battaglia Terme (assieme ai Comuni di
Cartura, Due Carrare, Casalserugo, Maserà di
Padova), fa parte dell’Unione di “Padova Sud”, che
conta 29.077 ab. I Comuni di Urbana, Masi,
Castelbaldo (assieme a Casale di Scodosia,
Merlara) formano l’Unione “della Sculdascia”, con
13.615 ab. Boara Pisani e Vescovana hanno costituito da sole un’Unione, con 4.110 ab. Baone,
Cinto Euganeo, Arquà Petrarca formano un’altra
Unione ancora. Terrazzo, sito nel territorio della
Provincia di Verona, si trova compreso nell’Unione
“dell’Adige-Fratta” (con i Comuni di Bevilaqua,
Bonavigo, Boschi Sant’Andrea, Minerbe,
Sant’Anna), che conta 11.930 ab. I Comuni di
Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
formano (assieme a Saletto, Santa Margherita
d’Adige) l’Unione della “Megliadina”, che conta
8.579 ab. I Comuni di Grancona, San Germano dei
Berici, Zovencedo, compresi nel territorio della
Provincia di Vicenza, compongono l’Unione “Colli
Berici Val Liona”, con 3.655 ab.
Alcune Unioni funzionano al momento secondo
una logica di razionalizzazione e messa in coerenza
del quadro delle risorse e di alcune funzioni, con la
prevalente finalità di condividere i costi di attività di
tipo amministrativo (a partire dal personale, che
lavora a turni nei Comuni dell’Unione), godere di
più competenze tecniche, per variegare l’offerta
dei servizi, migliorare il sistema di raccolta dei rifiuti, il servizio di vigilanza municipale o di trasporto
pubblico. Altre si sono più spiccatamente orientate
a costituirsi non solo come strumenti di gestione,
ma anche come occasioni di incontro e di riflessione congiunta sulle condizioni del territorio, nonché di sinergia per la partecipazione ad altri progetti, ove occorra presentarsi in più Comuni.
Ad esempio, l’Unione dei Comuni della Sculdascia
ha creato, tra gli amministratori, occasioni per
nuove forme di cooperazione (il progetto di
distretto produttivo; azioni per la valorizzazione
del territorio). La stessa cosa è successa nell’ambito dell’Unione dei Colli Berici Val Liona.
Dalle interviste raccolte emerge una valutazione
piuttosto positiva dell’esperienza delle Unioni, per
quanto sia molto diffusa l’enfasi sulla fatica del percorso di amalgama e di realizzazione concreta
degli accordi, da un lato, e, dall’altro, si sottolineino le incertezze per il futuro, previste alla chiusura
della fase di finanziamento nazionale.
Alla base del successo di una Unione si rintracciano, in genere, una serie di fattori, tra cui: le relazioni informali di amicizia e una certa atmosfera di
fiducia tra i sindaci, ancor più che l’appartenenza
allo stesso schieramento politico; il senso di incertezza sulle possibilità di mantenere gli standard di
offerta di servizi in una fase di trasferimenti decrescenti dallo Stato agli enti locali, donde il desiderio
di confrontarsi su problemi condivisi di gestione;
la dimensione simile dei Comuni, così che, da
parte degli amministratori, si ha la percezione di
trovarsi tra “pari”; il consenso da parte anche delle
opposizioni politiche in Consiglio Comunale e
delle Associazioni di Categoria nel territorio.
L’esperienza più rilevante, quella nella quale ci
sembra di avere individuato le motivazioni più forti,
è la già menzionata Unione “Colli Berici Val Liona”.
Questa Unione è considerata come esemplare dal
momento che ha portato alla condivisione di tutte
le funzioni (con l’esclusione degli uffici che gestiscono i lavori pubblici) e non si esclude la realizzazione della fusione tra i tre Comuni. Questa Unione
ha messo insieme le risorse di cui singolarmente i
Comuni sono dotati (le prospettive di riutilizzo
delle cave in galleria, i vecchi molini, l’ingente patrimonio boschivo che, nel caso di Grancona e
Zovencedo copre la quasi totalità della superficie, i
beni architettonici e altre risorse ambientali) in progetti di valorizzazione del territorio. Tuttavia, la
logica cooperativa dell’Unione non sempre è stata
riconosciuta a livello istituzionale e soltanto le pratiche informali di fruizione dei servizi sul territorio
hanno aiutato lo svilupparsi di una realtà di fatto
intessuta di frequentazioni e relazioni.
Per esempio, le Chiese dei tre Comuni fanno parte
di diversi vicariati. Questa situazione evidentemente frutto di decisioni precedenti e oramai inattuali
rispetto alle logiche territoriali in atto che vanno
verso l’integrazione piuttosto che la divisione,
viene di fatto bypassata dalle pratiche d’uso della
popolazione locale. La gente si muove, per le funzioni, da una Chiesa a un’altra indipendentemente
dai Comuni in cui risiede (infatti nelle frazioni, varie
chiese non hanno un parroco stanziale). Gli stessi
parroci hanno un ruolo di rilievo nella comunità e
collaborano con i Comuni nella diffusione delle
notizie importanti. Un problema recentemente
emerso è che, nel realizzare i circondari, i tre
Comuni dei Colli Berici sono stati inseriti, dalla
Provincia, in due circondari diversi (tra l’altro, spaccando in due il territorio dei Colli Berici) per motivi di rispetto dei collegi elettorali esistenti. Le
amministrazioni comunali non sono riuscite a far
modificare la decisione. In sintesi, questa Unione
non è motivata unicamente da ragioni funzionali,
ma ad essa portano spinte più profonde e di diversa provenienza (che non sempre vengono riconosciute a livello istituzionale e, a volte, vengono contrastate con decisioni burocratiche che non tengono conto delle pratiche sociali prevalenti).
49
n.11 / 2005
Tra le motivazioni che spingono i piccoli Comuni
ad associarsi, vi è anche l’interesse ad appartenere
a un circuito dove vi è un Comune più forte nelle
relazioni territoriali e può esercitare un ruolo di
apripista; in queste reti cercano di inserirsi anche
Comuni che, altrimenti, rimarrebbero isolati (un
esempio è quello del Comune di Masi dove l’appartenenza all’Unione ha contribuito a controbilanciare il rapporto di dipendenza che si era instaurato, nel tempo, con la vicina Badia Polesine, di cui
Masi tendeva a sentirsi sempre più una succursale).
Se quella dell’Unione è una formula organizzativa e
gestionale, cui sono ricorsi molti Comuni dell’area
target, tuttavia la condivisione in alcuni casi è stata
limitata a servizi di tipo tecnico-amministrativo per
diminuire i costi e in pochi altri si estende a una più
ampia serie di utilità: servizi sociali (assistenza agli
anziani, servizi sanitari, assistenza a domicilio, etc.),
trasporti collettivi comunali e intercomunali (scuolabus, pulmini per attività sportive o ricreative per i
giovani, ambulanze, etc.), raccolta rifiuti, etc. Per
esempio, nell’ambito dell’Unione dei Comuni della
Sculdascia, la raccolta dei rifiuti organizzata con il
sistema “porta a porta” ha portato ottimi risultati
nel giro di poco tempo.
In generale, le Unioni sembrano funzionare adeguatamente, tanto che si possono individuare singole aree territoriali che possono essere pensate
come ambiti di programmazione territoriale, e le
aspettative sono di estendere la cooperazione dal
piano della gestione degli interessi economici e dei
servizi alla costruzione di una visione dello sviluppo turistico delle zone e a politiche culturali e di
valorizzazione delle risorse del territorio. Un’altra
prospettiva da considerare è lo sviluppo di capacità
delle Unioni di rappresentarsi all’esterno come
attore collettivo unitario, il che rafforza le posizioni
di contrattazione con gli Enti sovraordinati.
Per questa via le Unioni potrebbero proporsi come
modalità di collaborazione non finalizzate a singoli
scopi di fornitura di servizi, ma veri e propri attori
di livello sovra-comunale, che producono identità
nuove fondate sulla condivisione di esperienze
concrete e non solo di intenzioni. Nella prospettiva del Piano di Sviluppo Locale del GAL Patavino,
alcune Unioni di Comuni potrebbero essere prese
in considerazione come reti cui fare riferimento
50
per innescare, attraverso l’implementazione e la
partecipazione a qualche azione concreta nel territorio, relazioni con altri soggetti di politiche del
territorio e in rapporto ad altre finalità.
Molti Comuni non hanno formato Unioni, per
ragioni di diverso tipo (per es., non sono riusciti a
raggiungere un’intesa ed un accordo soddisfacenti) e hanno solo stipulato forme di convenzione e
di accordo per la condivisione di singoli servizi.
Ad esempio, il Comune di Barbona ha intrapreso la
strada della gestione congiunta di singoli servizi
tecnici-amministrativi con i Comuni di Lusia,
Sant’Urbano e Frassinelle nel Polesine.
Arre assieme con Anguillara, Bagnoli di Sopra,
Terzetto e Tribano condividono la polizia municipale e sempre Arre condivide con il solo Bagnoli di
Sopra la raccolta di rifiuti.
Valutando comparativamente i casi di Unione
costituiti con successo o meno, con i casi di
Comuni che hanno preferito evitare l’esperienza
formalizzata delle Unioni e hanno stipulato convenzioni per singoli servizi, si può trarre una indicazione di carattere più generale: alcuni Comuni
hanno preferito mantenersi dentro la logica, ben
sperimentata nel NordEst da ormai oltre un secolo, delle organizzazioni consortili per affrontare
cooperativisticamente singoli problemi (l’acqua, i
rifiuti, etc.), mentre una buona percentuale di altri
Comuni hanno pensato che l’esperienza maturata
nelle pratiche consortili (che nel caso dei Comuni
consistono, spesso, nel portare fuori dall’amministrazione, dandosi una organizzazione privatistica,
soluzioni a problemi anche di interesse pubblico e
tradizionalmente oggetto di mediazione politica)
potesse essere mantenuta dentro l’amministrazione e affrontata con gli strumenti tipici del diritto
pubblico, ma solo in organizzazioni più ampie (le
Unioni di oltre cinquemila abitanti e non i Comuni
di mille o ancor meno abitanti). Su questo aspetto
si ritornerà più avanti, ma è evidente che si tratta
di un punto nodale che rispecchia due diverse
concezioni della cultura politica: quella che affronta la sussidiarietà preferibilmente con gli strumenti societari del diritto privato, portando alcune
questioni amministrative fuori dall’amministrazione in senso stretto, e quella che affronta la sussidiarietà preferibilmente con gli strumenti associa-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
tivi del diritto pubblico, facendo rimanere le questioni amministrative dentro l’amministrazione,
ma solo fornendosi di una amministrazione più
grande. Naturalmente, per comodità si sono contrapposte queste due strade come alternative; di
fatto esse possono anche essere utilizzate in modo
complementare, avendo alcuni Comuni deciso di
realizzare delle Unioni per affrontare un tipo di
problemi e, insieme, aderito ad alcuni consorzi per
affrontarne degli altri.
molti dei quali sono adesso disponibili sul sito.
Dalle interviste ai sindaci è emerso un giudizio
positivo sul patto territoriale, che avrebbe consentito la realizzazione di una serie di utilità sopperendo la mancanza di attivazione in questo senso della
Provincia ma, soprattutto, avrebbe costituito un’occasione per gli amministratori locali di incontrarsi e
di interrogarsi sulle condizioni del territorio, di tentarne una rappresentazione in base ad un’analisi
condivisa dei punti di forza e di debolezza, di conoscere e di confrontare i rispettivi punti di vista.
Il filo conduttore del Patto non sembra affatto
distante da quello che connota anche il PSL del
GAL Patavino: l’interesse è alla valorizzazione dei
prodotti di qualità, prodotti tipici “di nicchia” e
delle filiere agro-alimentari (ci sono molte specialità lattiero-casearie, insaccati, ortofrutticolo fresco
e conservato, ecc.; c’è il radicchio rosso e i vini doc
dei Colli Berici); molta attenzione è dedicata alla
tutela delle risorse ambientali, al patrimonio architettonico-culturale (ci sono delle pregevoli ville,
cave, etc.) e alle valenze paesaggistiche in equilibrio con la promozione delle attività turistiche.
3.2 Secondo esempio: reti da politiche concertative
Reti territoriali informali tra soggetti pubblici e privati possono essere sostenute e rafforzate, quanto
inibite, per effetto di politiche pubbliche (nazionali, europee, etc.) di intervento sul territorio.
Altresì, politiche di tipo concertativo e partecipativo – pensiamo agli strumenti della programmazione negoziata o ai Programmi di Iniziativa
Comunitaria – possono promuovere l’organizzazione di reti e associazioni anche formalizzate tra
Comuni e tra amministrazioni comunali e altri attori del territorio.
In particolare, quasi tutti i Comuni dell’area-target
sono stati coinvolti dall’implementazione di uno o
più patti territoriali, con esiti molto diversi. Si tratta di politiche che sono condotte secondo approcci partecipativi e cooperativi.
Il Patto Territoriale Area Berica
I novi Comuni del Vicentino sono stati interessati
dall’implementazione del “Patto Territoriale Area
Berica”, che si è formalizzato nel 2000 con la realizzazione di un Protocollo d’Intesa e di un Tavolo di
Concertazione cui hanno aderito 24 Comuni del
Vicentino, la Provincia di Vicenza, le Associazioni
sindacali dei lavoratori, le Associazioni di categoria
dell’artigianato, dell’industria e del commercio di
Vicenza (il Comune di Noventa Vicentina è stato
incaricato di fare da capofila). Nel 2001 è stata firmata una Convenzione tra Sindaci come accordo
per l’attivazione e la gestione dello Sportello Unico
in forma associata tra i 24 Comuni; si è provveduto
anche all’informatizzazione dei PRG Comunali,
I due Patti Territoriali (generalista e dell’agricoltura) della Bassa Padovana
I Comuni dell’area-target che ricadono nel territorio
della Provincia di Padova sono per lo più compresi
nei due patti territoriali della Bassa Padovana, che
vedono come soggetto responsabile la Provincia di
Padova. Il Patto Territoriale Generalista della Bassa
Padovana, attivato nel 2001, vede assieme, oltre alla
Provincia di Padova, 46 Comuni su 104 della
Provincia di Padova (23 comuni dell’area target ne
risultano compresi), le Associazioni Imprenditoriali
e del Lavoro, il Sistema Bancario Locale. Questo
Patto è servito soprattutto per finanziare investimenti infrastrutturali e alcuni Comuni dell’area-target ne sono stati beneficiari (come nel caso di
Castelbaldo, di Sant’Urbano, di Monselice, di
Megliadino San Fidenzio e di Megliadino San Vitale,
di Tribano, di Bagnoli di Sopra). Gli interventi andavano dalla valorizzazione delle aree naturalistiche ad
itinerari turistici, al recupero di edifici, alla costruzione di svincoli stradali.
Per fare un esempio, nel caso del Comune di
51
n.11 / 2005
Castelbaldo, attraverso l’adesione ai patti territoriali, sono stati realizzati una serie di progetti di
recupero (sistemazione dell’area golenale; di un ex
casello idraulico; del Bacino Spazzolare; azioni di
rimboschimento e recupero dello Scolo Fossetta).
Più in generale, dalle interviste effettuate, emerge
come la valutazione dell’impatto di questa politica
nel territorio non abbia suscitato grandi entusiasmi
presso gli amministratori. Il Patto non ha innescato l’attivazione di reti di relazioni territoriali né l’elaborazione di una visione comune del territorio,
né ha diffuso una cultura della programmazione: a
detta dei più, si è risolto nella realizzazione di una
serie di singoli interventi al di fuori di una concezione generale dello sviluppo dell’area e di una
riflessione sulle strategie future.
Il Patto Territoriale specializzato in Agricoltura della
Bassa Padovana, sempre del 2001, ha coinvolto 51
Comuni dei 104 della Provincia di Padova (e 22
Comuni dell’area-target compresi negli ex-mandamenti di Montagnana, Este, Monselice, Conselve),
ha avuto come soggetto responsabile la Provincia
di Padova e l’interessamento delle Associazioni
imprenditoriali e del lavoro, del Sistema bancario
locale.
Pur caratterizzato, nelle intenzioni generali, alla
promozione di filiere vitivinicole e ortofrutticole,
del sistema agro-alimentare, e alla tutela dell’ambiente, alla fine è consistito nel finanziamento di 26
imprese e dalle interviste non risulta che abbia
generato l’innesco di circoli virtuosi di rete tra
imprenditori ed Enti Locali, o altri soggetti di politiche locali.
Ad una prima valutazione sembra di poter concludere che l’esperienza di implementazione dei due
Patti nella Provincia di Padova si presenta abbastanza distante da quelle che sono le finalità e gli orientamenti del Piano di Sviluppo Locale del GAL
Patavino, pur nella cornice della apparente condivisione di temi comuni.
Queste che dovrebbero essere pratiche di concertazione e di sperimentazione di metodologie di
programmazione e di messa in rete delle politiche
e degli attori non hanno in realtà prodotto integrazione nel territorio, ma hanno piuttosto contribuito al radicamento di logiche preesistenti, tipicamente distributive.
52
Quindi, non sembra che sia possibile perseguire la
strada dell’attivazione di queste reti di attori attraverso nuovi progetti, proprio perché le reti sono più
formali che effettive.
Nel Caso del Patto dell’Area Berica, invece, una simile ipotesi potrebbe essere presa in considerazione.
Il Patto Territoriale del Basso Veronese
I due Comuni dell’area-target compresi nel territorio della Provincia di Verona, risultano fare parte
del Patto Territoriale del Basso Veronese (che tuttavia è partito piuttosto tardi e di cui, al momento
della realizzazione della ricerca, non si disponeva di
materiale empirico per la valutazione).
Un’opera che ha una valenza di tipo infrastrutturale, ma anche simbolica, e che sarà realizzata grazie
al contributo del patto è il ponte tra Terrazzo e
Carpi di Villa Bartolomea. Villa Bartolomea è un
Comune della provincia di Verona e appartenente
all’area target del GAL patavino, che si trova dall’altra parte dell’Adige, dove passa la strada da Ovest a
Est più facilmente percorribile.
Questo dà al Comune un vantaggio competitivo
perché, nella bassa padovana, una strada parallela o
quasi (lungo la direttrice Ovest-Est) è quella di
Montagnana-Este-Monselice fortemente intasata e
solo lentamente percorribile in molte ore della
giornata. Il Comune di Terrazzo, anch’esso della
provincia di Verona, aspira quindi a un ponte che lo
colleghi direttamente a Villa Bartolomea e di fatto
alla Transpolesana oltre l’Adige.
A questo obiettivo Terrazzo dedica molte energie,
ormai da tempo, e sulla sua realizzazione sta maturando molte aspettative. Più precisamente, la realizzazione del ponte risulta tra le opere pubbliche
da realizzare nel 2002-05. Il finanziamento è sostenuto per quasi la metà della cifra dalla Regione (+
di 5.000.000). Circa 774.000 euro provengono da
Terrazzo (e la cifra rappresenta un investimento
consistente data la popolazione di poche migliaia
di abitanti), da Villa Bartolomea (516.000 euro) e
dal Comune di Castegnaro (258.000 euro). Il resto
della cifra proviene dalle rinunce dei progetti non
realizzati che si trovavano in posizione precedente
nella graduatoria iniziale del patto territoriale.
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
Progetti Strategici e PTCP
rimentale finalizzata al miglioramento della qualità
ambientale territoriale. Nell’ambito di questo “spazio laboratoriale”, sono previste iniziative congiunte tra soggetti coinvolti nelle politiche per l’ambiente, così come si dovrebbero promuovere strategie partecipative. Il PTCP è atteso come una
nuova occasione nel senso che manca ancora una
definizione del coordinamento urbanistico e dei
PRG, che, come vedremo di seguito, si rende
urgente nell’area-target. Questa situazione, in
parte, si sta sbloccando con la definizione della
legge urbanistica regionale, da tempo attesa, che è
comunque orientata a porre al centro della pianificazione del territorio i Comuni. Anche in questa
prospettiva, è indispensabile lavorare nella direzione di una maturazione della cultura e dei modi di
operare nel territorio degli amministratori locali.
Altre ‘reti’, potrebbero essere considerate i tanti
tavoli di discussione nati ad esito dell’elaborazione
del Progetto Strategico della Provincia di Padova,
che come aspirazione ha proprio quella di produrre conoscenza del territorio attraverso l’interazione dei suoi attori-chiave (individuati in un percorso analitico) e di qui muovere all’elaborazione di
strategie congiunte di sviluppo. Il tema della sostenibilità dello sviluppo è considerato uno dei principali su cui richiedere con varie modalità uno sforzo comune.
Tuttavia, la valutazione di che cosa è il Progetto
Strategico ed il percorso della sua realizzazione è
piuttosto diversa a seconda che venga prodotta
come riflessione all’interno della stessa Provincia o
dei Comuni che ne sono stati interessati. Dalle
interviste, emerge che i Comuni hanno opinioni
differenti sul Progetto Strategico (su ciò che è, su
come è…) così come ne fanno una differente
valutazione in termini critici, se la prospettiva è
quella di produrre valore aggiunto sul territorio. La
sensazione è che gli amministratori abbiano effettivamente vissuto diversamente la propria esperienza di partecipazione alla costruzione di questa
politica, nei fatti e nelle loro proprie cornici interpretative e di senso; la cosa non si presenta scissa
dal fatto che è prevalente una valutazione positiva
dell’operato della Giunta Provinciale e in particolare del Presidente. Nel caso dei patti territoriali
sopra-menzionati, tuttavia, questo meccanismo
non si osserva in alcun modo.
Il Progetto Strategico complessivamente appare
come una potenzialità da sondare, nell’attivazione
di reti e di iniziative sul territorio, nella prospettiva
del Piano di Sviluppo Locale del GAL Patavino.
Per esempio, altre ‘reti’, più informali, si stanno
costituendo nella “bassa padovana”, tra amministratori locali, nella forma di tavoli di discussione
che riguardano temi pensati come problemi comuni, su cui andrebbero individuate soluzioni comuni:
così, alcuni sindaci ci hanno segnalato un tavolo sui
temi dell’urbanistica e uno su quelli dell’ambiente.
Un’altra possibilità che si apre è quella del
Progetto preliminare del PTCP, che ha messo su
un laboratorio “buone pratiche”, come azione spe-
3.3 Terzo esempio: le reti consortili
Quello che qui si vuole indicare per rete consortile è una associazione mediante la quale più soggetti, che esercitano attività simili o complementari, coordinano, disciplinano o mettono in comune
alcune fasi dell’attività che già svolgono o istituiscono appositamente una nuova iniziativa con il
concorso di tutti i soci. Vi è il semplice consorzio
tra soli attori economici (per esempio il consorzio
agrario tra coltivatori) o il consorzio tra soli enti
locali (per esempio l’associazione tra più Comuni
o tra Province o tra Province e Comuni) o il consorzio tra privati ed enti locali (per esempio un
consorzio di bonifica).
Ai fini della nostra indagine il consorzio tra soli
attori economici è stato realizzato o tentato in
varie circostanze, per esempio per realizzare la
tracciabilità di un prodotto o per arrivare a un marchio o a una certificazione, soluzioni ritenute indispensabili soprattutto nei contesti di accentuata
frammentazione e dispersione delle iniziative e
delle energie imprenditoriali. Si è trattato di realizzare la delega di alcune funzioni a privati. Cosa che
è normalmente riscontrata in molte amministrazioni e che, però, non innova le amministrazioni
stesse. Con la gestione di alcuni servizi attraverso
la formula dell’appalto si trasferisce soltanto al di
fuori dell’amministrazione locale una qualche fun-
53
n.11 / 2005
zione amministrativa.
Alcuni esempi sono stati riscontrati ad Agna dove
sono stati realizzati il Consorzio Bacino Padova 4
per la raccolta differenziata e vari accordi per la
gestione di servizi (in particolare l’acquedotto).
Un interessante tipo di rete consortile è quella che
unisce insieme più enti locali o soggetti pubblici e
privati per la realizzazione di qualcosa che, generalmente, viene affidata alla gestione dell’ente locale. Sono esclusi dall’essere fatte rientrare in questo
tipo di reti le Unioni di Comuni o qualsiasi altra
forma di collaborazione tra enti locali che venga
realizzata attraverso la ristrutturazione delle diverse amministrazioni e non attraverso la costituzione
di una società apposita che gestisca, al di fuori
delle amministrazioni, le attività consorziate.
Si parla di reti consortili e non di soli consorzi perché, a volte, la rete di fornitori che contribuiscono
a realizzare l’attività viene gestita con accordi di
programma che costruiscono una rete di fornitori,
di distributori, di utilizzatori di benefici che sono
progettati a monte, come tende a fare ogni buona
amministrazione pubblica. Una delle risorse che
maggiormente abbondano nel NordEst sono le
capacità imprenditoriali che portano, a volte, dentro le amministrazioni lo stesso spirito che fa prosperare le imprese. Per esempio: il Comune di
Tribano parte con l’obiettivo di realizzare una
piscina riscaldata e scoperta, oltre a vari altri servizi sportivi, sapendo che può riuscire a trovare, in
qualche piega dei bilanci regionali o provinciali, un
finanziamento per realizzare questo progetto. Poi,
però, si pone il problema che la piscina costa e
potrebbe incidere notevolmente sul già magro
bilancio del Comune. Quindi, per realizzare questo
iniziale progetto, decide di pensare ancora più in
grande e proporre un sistema di produzione di
energia con l’attività di riscaldamento che funzioni
a biomassa (la trasformazione in biomassa dovrebbe prevenire l’effetto-vento sulle sementi e l’impatto ambientale sarebbe “a pareggio” perché l’anidride carbonica che una pianta ha assorbito per
crescere viene restituita al momento della combustione). Il Comune realizza che occorrono vari
milioni di Euro per questo progetto e che solo in
parte possono essere trovati nelle pieghe dei bilanci degli enti pubblici. Un milione, per esempio,
54
viene trovato nei fondi UE assegnati alla Regione
Veneto per contributi alle nuove iniziative per produrre energia (su 14 milioni gestiti dalla Regione,
Tribano ne ha ricevuto uno e spera che, non
riuscendo la Regione a trovare progetti credibili
per spendere tutti i soldi, un’altra parte delle
quote restanti possano essere aggiunte al milione
per lo stesso progetto). Il Comune, infatti, deve
trovare quanti più finanziamenti è possibile e recuperare, dai privati, il resto della cifra fino a coprire
7,5 milioni di Euro.
Naturalmente, ricorrere a finanziamenti di privati
significa coinvolgere i privati non solo nelle spese,
ma anche nei profitti che se ne possono ricavare e
questo può essere realizzato solo attraverso una
società di cui sia azionista anche il Comune.
Inoltre, vi sono altri vincoli che devono essere
rispettati perché, per legge, non è possibile che
una società qualsiasi produca energia e la utilizzi in
proprio (per scaldare la propria piscina). L’energia
elettrica prodotta deve essere immessa nella rete
ENEL e, poi, ricomprata dall’ENEL. Più il progetto
si precisa, più diventa complesso e maggiore è il
numero degli attori che devono essere coinvolti,
fin quando il progetto non diventa credibile agli
occhi di molti che, all’inizio, erano scettici. Da quel
momento in poi, sono gli stessi aspiranti a contribuire al progetto e a presentarsi offrendo, per
esempio, le biomasse da utilizzare come combustibile (problema di non facile soluzione perché se si
utilizza il legno con una coltivazione creata appositamente, occorrono sette anni per ottenere il combustibile e per quei sette anni bisogna dare degli
anticipi agli agricoltori, etc.).
Non è solo un esempio, ma è quanto ci ha raccontato il sindaco di Tribano e può anche far riflettere
su quello che può essere il contributo del NordEst,
nella sua capacità di rivoluzionare la tradizionale
concezione dell’amministrazione: portare la soluzione di alcuni dei problemi amministrativi, al di
fuori della pubblica amministrazione con lo strumento dell’attività consortile: è quanto, un secolo
fa, avevano imparato a fare, nel NordEst,
l’Università che insegnava la cooperazione, la politica che realizzava reti virtuose e manifestava, nell’amministrare, il buon senso tipico di chi ha capacità di intraprendere o di industriarsi e il volonta-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
riato e le imprese che si prestavano per il valore
sociale dell’opera con l’intento di realizzare il giusto profitto, non il profitto massimo possibile.
Dice il sindaco di Tribano: “Siamo partiti con l’idea
di creare un impianto natatorio, ma ci spaventava
il fatto che questo era una struttura che aveva solo
dei costi. Una piscina così concepita diventava un
figlio da mantenere per tutta la vita. Perciò, abbiamo pensato di affiancare alla piscina una struttura
che produca reddito. La somma di queste due cose
avrebbe dovuto dare il pareggio di tipo economico
e il pareggio di tipo ambientale. Con questo progetto riusciremo a garantire il riscaldamento a un
costo inferiore del 20% rispetto all’attuale prezzo
del gas metano. Ridurremo anche una serie di altri
costi derivanti dalla manutenzione delle caldaie,
dai vigili del fuoco, etc. che costituiscono solo un
onere. L’intenzione è di servire tutta la zona industriale, circa una trentina di imprese di dimensioni
medio-grandi, non piccole attività artigianali, oltre
ad edifici pubblici, come la sede del Comune, la
palestra, la scuola elementare. Avremo la possibilità anche di ridurre l’inquinamento, dimettendo
tutte le vecchie caldaie spesso controllate male.
Logicamente sarebbe ottimale se il legno per la
combustione provenisse dai dintorni in modo da
garantire quelle fonti di reddito che verranno a
mancare quando i fondi dell’agricoltura saranno
sospesi per l’allargamento della UE. Ci sarà la possibilità, da parte del Parco Colli, della Provincia di
Padova, di smaltire le ramaglie, magari attraverso
un sistema di raccolta differenziata. Potrebbe essere addirittura utilizzato il granturco inteso come
parte residua rispetto a quella venduta che adesso
resta per terra: anche quella è biomassa. È prevista
la produzione di 5 quintali circa di ceneri al giorno,
che potrebbero essere sparse in agricoltura.
Questo potrebbe diventare un programma pilota
per il Veneto che ha un’esigenza enorme di energia attualmente prodotta solo da centrali a gas.
Pulendo il nostro territorio, potremmo fare delle
microcentrali che aiuterebbero a realizzare con
quel materiale, che adesso va buttato via, un
risparmio energetico. Per la realizzazione di questo
progetto, abbiamo costituito una S.p.A. e l’abbiamo aperta ai privati. Hanno già aderito tre imprese
private che hanno sottoscritto il capitale sociale. Il
controllo rimane all’ente locale che ne mantiene la
gestione. Questo progetto è realizzabile quasi in
ogni Comune, creando dei piccoli comprensori di
10/15 mila abitanti”.
Il sindaco di Tribano, intervistato il 20 febbraio
2004, racconta un caso emblematico. In due mandati, egli ha improntato l’amministrazione del
Comune su canali alternativi all’amministrazione
tradizionale: ha concepito l’amministrazione come
strumento per la soluzione dei problemi attraverso
la sussidiarietà orizzontale ogni qual volta sia stato
possibile. Il sindaco non crede alle Unioni dei
Comuni che aumentano i costi e che diventeranno
poco attraenti nel momento in cui finiranno i finanziamenti statali per realizzarle. L’amministrazione
in senso stretto, con i suoi vincoli burocratici e sindacali, tendenzialmente, aumenta i costi, raramente riesce nell’obiettivo di diminuirli (su questo
hanno insistito molto anche altri sindaci intervistati). Solo l’innovazione amministrativa nella gestione di alcuni servizi e l’uscita dalle burocrazie amministrative e dalle loro lentezze, con la costituzione
di società secondo il principio della sussidiarietà
orizzontale, può produrre aumenti reali di rendimento degli investimenti realizzati. La prova sta in
un’altra esperienza, simile al progetto ipotizzato
intorno alla combustione delle biomasse, ma certamente meno complessa, che è stata portata a compimento con successo negli anni precedenti.
Il Comune di Tribano considerava troppo onerosi
gli appalti ai privati per la raccolta di rifiuti e ha deciso di costituire una società che svolgesse, a costi
contenuti, questa funzione. Dopo i primi successi, si
è rivolto ad altri Comuni per offrire i propri servizi
e, nel tempo, questa società ha finito per servire
oltre quaranta Comuni. Il capitale azionario della
società si è allargato con la partecipazione di molti
dei Comuni serviti e con l’ingresso dei privati.
Tribano è rimasto il socio comunale di riferimento
con il 10% delle azioni. La società non solo ha abbassato i costi del servizio a parità di prestazioni, ma
porta anche profitti all’amministrazione.
Questo tipo di cooperazione rappresenta una via
possibile per interpretare la nozione di rurale in
un’area che è caratterizzata sia da attività di tipo
industriale che da attività di tipo agricolo e vi è una
forte richiesta di energia. In questo contesto si cerca
55
n.11 / 2005
di puntare sulla messa a sistema di più settori.
3.4 Quarto esempio: le reti di promozione del
territorio
Si tratta di associazioni di natura più informale che
mettono insieme istanze di marketing territoriale,
di organizzazione di riti di riconoscimento identitario delle comunità locali (che non necessariamente si riconducono all’appartenenza a un unico
Comune) nella forma di feste, celebrazioni, degustazioni di prodotti, fiere, che hanno un carattere
popolare e coinvolgono trasversalmente soggetti
eterogenei. Questo tipo di reti sono in forte crescita in questo come in altri territori e possono
essere considerate un elemento caratterizzante
delle politiche di sviluppo rurale, coincidendo con
la riscoperta e la valorizzazione delle usanze locali,
della memoria storica dei luoghi e delle risorse
ambientali e naturali.
Per fare alcuni esempi, vanno segnalate reti nate sull’obiettivo di valorizzare un prodotto o realizzare
occasioni di incontro: le reti delle “Associazioni
nazionali Città del Vino” (che ha dei riferimenti di
tipo non locale essendo una organizzazione già esistente a livello nazionale, a cui hanno aderito alcuni
Comuni dell’area target) e le “strade del vino”
(anche questa organizzazione di livello nazionale)
che riguarda la promozione dei territori di un vino
e implica, per le aziende che vi aderiscono, un
impegno comune che comporta una serie di adeguamenti e di requisiti (certificazione dei prodotti,
cura della qualità del servizio, delle capacità di
comunicazione, etc.).
I Comuni dell’area target che fanno parte delle Città
del vino sono Bagnoli di Sopra, Baone, Cinto
Euganeo e Vo (insieme ad altri Comuni che non
fanno parte dell’area target).
Oggi si contano, in Veneto, sei strade del vino. Una
di queste è la strada del vino Colli Euganei cui sono
associati vari locali di ristorazione, enoteche, agriturismi, molte aziende agricole, etc. che si trovano nei
Comuni di Arquà Petrarca, Battaglia Terme, Due
Carrare, Galzignano Terme, Montegrotto Terme,
Rovolon, Selvazzano Dentro, Torreglia, Baone,
Cinto Euganeo, Este, Monselice, Padova, Rubano,
Teolo, Vo. Oltre ai Comuni di cui sopra, sono asso-
56
ciati, come amministrazioni, i Comuni di Abano,
Cervarese S. Croce, Lozzo Atestino, la Regione
Veneto, la Provincia di Padova e, come associazione
di categoria, la Camera di Commercio di Padova.
Lungo la strada del vino dei Colli Euganei si possono visitare i luoghi del Petrarca, Goethe, Foscolo,
Byron e Shelley. Si può fare golf, equitazione, cicloturismo, trekking, bird watching, etc.
Una seconda strada del vino, che interessa Comuni
dell’area target, è lo Stradon del vin Friularo, che fa
riferimento alla zona del “doc Bagnoli” e comprende i Comuni di Bagnoli di Sopra, Agna, Arre,
Battaglia Terme, Bovolenta, Candiana, Cartura,
Conselve, Due Carrare, Monselice, Pernumia, San
Pietro Viminario, Terrassa Padovana e Tribano.
Una interessante iniziativa è quella dei dieci
Comuni del Montagnanese (si tratta dei Comuni di
Casale di Scodosia, Castelbaldo, Masi, Megliadino
S. Fidenzio, Megliadino S. Vitale, Merlara,
Montagnana, Saletto, Santa Margherita d’Adige,
Urbana) che si trovano assieme intorno all’organizzazione del “Palio dei 10 Comuni”. Il Palio recupera una tradizione storica intorno a una serie di
eventi. Questa occasione di incontro è molto sentita ed è presente nei racconti degli amministratori dei Comuni che vi partecipano, ma anche di altri
Comuni che la assumono come esempio di manifestazione riuscita. Un ulteriore esempio è la “biciclettata” nei Comuni dell’Unione Padova Sud
(Battaglia Terme, Cartura, Casalserugo, Due
Carrare e Maserà di Padova). Si tratta di un giro in
bicicletta non competitivo e aperto a tutti che si
svolge nel mese di settembre all’insegna del motto
“Una giornata alla scoperta del territorio e delle
persone perché l’Unione non sia solo una questione amministrativa”; e così via dicendo. Va ricordata anche la Festa della patata americana, dei sugheri e del formaggio che si tiene ad Anguillara e che
è un evento che ha messo in collaborazione soggetti pubblici e privati (tra i Comuni anche Agna,
Candiana e Bagnoli di Sopra; Camera di
Commercio; Consorzio Giotto; PromoPadova;
Consorzio delle Proloco del NordEst, etc.). A
Baone si realizzano varie sagre, tra cui la più
importante e consistente per numero di soggetti
coinvolti, è la “Vini Euganei a primavera” che si
tiene a Villa Beatrice Monte Gemola. Si tratta di
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
una mostra di vini e di degustazione di prodotti
(prosciutto dop di Montagnana, miele e marmellate del padovano, etc.).
Nell’ambito dell’Unione Val Liona (Comuni di
Zovencedo, Grancona e San Germano), si realizza
una mostra annuale dei prodotti tipici che mette
insieme le associazioni di categoria e i produttori
locali con gli enti locali.
politici, tecnici, imprenditori, operatori del mondo
della formazione, etc.
Un punto centrale è sicuramente tentare di organizzare attività e progetti alla luce di una cultura
della programmazione congiunta, della cooperazione e della partecipazione, tra soggetti pubblici e
privati, valorizzando la pluralità dei punti di vista e
promovendo le differenze territoriali come risorse.
Nella fattispecie, il GAL Patavino opera nel campo
dello sviluppo rurale che, per sua natura, non è
mai settoriale ma territoriale (che è qualcosa di
diverso e più adeguato di: “intersettoriale”) ed ha
un impegno specifico nella direzione dello sviluppo sostenibile delle risorse rurali.
3.5 Quinto esempio:
il GAL Patavino, che rete è?
Fare rete delle reti.
Il GAL Patavino ha precedenti esperienze nell’implementazione del Programma d’Iniziativa
Comunitaria Leader per lo sviluppo rurale, e con
Leader + si presenta come un partenariato pubblico-privato, che mette assieme Enti Pubblici
(Provincia di Padova, Ente Parco Colli, Camera del
Commercio di Padova) e Associazioni di Categoria
del primario, secondario, terziario, sul presupposto di essere il più possibile rappresentativo degli
interessi e delle attività che vengono condotte nell’area-target. Ha una dimensione territoriale che si
qualifica come interprovinciale, mettendo insieme
Comuni della Provincia di Padova, di Verona, di
Vicenza. Abbiamo già accennato al tema catalizzatore e alle azioni su cui è impegnato e che si trovano delineate nel Piano di Sviluppo Locale.
Per i Comuni dell’area target come per gli altri
attori locali può rappresentare una buona opportunità per incontrarsi e confrontarsi sulle valutazioni dell’andamento delle politiche (promosse
dalla Provincia, dalla Regione; dall’Unione
Europea; dai singoli Comuni) che impattano l’area,
su cui è evidente che c’è discordanza e frammentazione. Inoltre, offre un supporto pratico per
affrontare la questione di come sviluppare una
programmazione territoriale che si contestualizzi
rispetto alle varie attività ed iniziative di settore.
La posta in gioco che offre il GAL Patavino è poca
cosa dal punto di vista materiale (finanziario)
rispetto a molte altre politiche di sviluppo, ma può
essere assai rilevante dal punto di vista simbolico e
della attivazione di reti di relazione territoriali e di
occasioni di apprendimento tra amministratori,
Il GAL come arena deliberativa
Come rete, il GAL agisce con una funzione particolare che è quella della costruzione del dialogo e
del confronto tra soggetti diversi, cercando di
strutturare apposite occasioni di interazione (attraverso progetti, eventi, etc.).
Le culture organizzative delle associazioni che
costituiscono il GAL patavino fanno fatica ad assumere la forma mentis deliberativa che sarebbe
necessaria per rendere il GAL patavino una arena
deliberativa efficace. In questo senso il GAL patavino è rimasto più il soggetto implementatore di un
piano (e in questo diventa essenziale il ruolo del
tecnico con funzione di coordinatore) che una
arena capace di produrre processi virtuosi o sinergie tra coloro che fanno parte del partenariato. Un
altro modo per riguardarlo come arena deliberativa è pensare alla sua possibile azione di riequilibrio
della rappresentanza degli interessi territoriali, una
arena più inclusiva delle domande delle categorie
meno strutturate o organizzate (un esempio è il
caso della rete informale dei bed & breakfast, che
sono esperienze sviluppatesi molto recentemente,
che, al tavolo del GAL, riescono a dare visibilità alle
proprie domande e proposte contribuendo in
parte a moderare la monocultura alberghiera delle
grandi lobby del turismo termale; un altro esempio
è il lavoro che si fa della valorizzazione dei prodotti di nicchia e dell’attività di chi li produce, di cui si
cerca di potenziare l’organizzazione perché diventino più visibili sul mercato).
57
n.11 / 2005
Questo pregio e questa potenzialità non sempre
sono notati dai sindaci dei Comuni dell’area target
che, in un’ottica distributiva, si aspettano dal GAL
solo la spartizione dei contributi per supportare
piccole iniziative e non sono convinti che il GAL
abbia la forza di mobilitare altre risorse economiche o politiche, per affrontare i grossi problemi
delle aree in cui operano. La conseguenza è che
nell’area target le singole strategie di sviluppo dei
Comuni non vengono inserite in una strategia collettiva. Questo è particolarmente preoccupante se
si pensa che molte delle associazioni di categoria
che costituiscono il GAL sono relative all’agricoltura o all’artigianato, cioè ai settori per i quali il
bisogno di spazi di rappresentanza e di tavoli di
concertazione territoriale dove trovare sinergie
sono particolarmente rilevanti e finiranno per gravare in prospettiva.
Abbiamo riscontrato, inoltre, una certa presenza di
grosse aspettative nei confronti del GAL laddove
non vi fossero attori che avessero creato attese
sulla capacità di cooperazione dei Comuni. Il riferimento è ai Colli Berici dove la Provincia di
Vicenza si mostra come poco attiva e, quindi, ci si
aspetta che il GAL patavino costituisca un’occasione per sviluppare nuove forme di cooperazione o,
comunque, un modo di uscire da situazioni che
sono percepite come di marginalizzazione e isolamento. Si riscontra, invece, uno scarso appeal del
GAL in aree come quella della bassa padovana
dove la Provincia si mostra attiva, anche se i risultati non sono quelli che si auspicano, e anche se gli
stessi intervistati ammettono che la Provincia coinvolge nel senso che comunica le decisioni prese
per tutti, ma non ascolta e non accoglie le esigenze che partono dal basso.
Un modo possibile per il GAL patavino, di acquistare maggiore appeal dove altri attori occupano la
scena da protagonisti principali, è quello di intervenire nella produzione di scenari di sviluppo locale e di narrative delle trasformazioni territoriali in
corso. Il compito di raccogliere le rappresentazioni, le cornici e i quadri di significato con cui gli
attori locali giustificano ciò che fanno e come lo
fanno è stato affidato, in particolare, a questa indagine. Con questa indagine, il GAL patavino ha inteso contribuire a una politica per il territorio dell’a-
58
rea target dando particolare rilievo alla conoscenza
prodotta attraverso l’interazione tra gli attori locali
e con essi, ma anche dando rilievo alla raccolta e
diffusione dei saperi locali relativi a ciascun settore
produttivo e all’amministrazione locale. Con questa restituzione dei risultati dell’indagine, vengono
prospettati vari indirizzi futuri possibili e linee di
azione, tra le quali il GAL patavino dovrebbe selezionare quelle che più sono confacenti all’obiettivo di suggerire scenari di azione ad attori politici,
come la Provincia, dotati di più risorse, di più
appeal, ma, per i motivi che si sono già detti, non
sempre capaci di accogliere le esigenze che partono dal basso.
3.6 Sesto esempio: i contenitori di reti
L’Ente Parco Colli è in fin dei conti un’altra occasione, per i Comuni che ne fanno parte, di fare rete
attorno a iniziative comuni: la promozione del
distretto termale e soprattutto del percorso di certificazione Emas che ha messo insieme in uno sforzo congiunto i 5 Comuni del bacino termale
(Abano, Montegrotto, Teolo, Battaglia, Galzignano) e
l’Ente Parco Colli, ne è una dimostrazione.
Questa ‘rete’, dunque, è un esempio di relazione
prodotta dall’operato di un soggetto giuridicamente riconosciuto e istituito per legge regionale, molto
presente per la sua attività di regolazione, che può
assumere caratteristiche meno formali e rigide attraverso la condivisione di pratiche e di esperienze
comuni su progetti e iniziative locali. In fin dei conti,
è una questione di orientamento e di interpretazione che si può assumere nel corso dell’azione, a fare
la differenza. La capacità dell’Ente Parco Colli di
costruire azioni partecipative con altri soggetti-chiave del territorio, quindi, di sviluppare sempre più
un’attitudine collaborativa e meno burocratica, sarà
determinante per la rilevanza che questo attore
potrà assumere agli occhi degli Enti Locali e nella
percezione degli abitanti e dei visitatori.
Dalle interviste è emersa una percezione della politica ambientale portata avanti dall’Ente Parco Colli
del tipo “del bastone e della carota”. Da un lato, l’azione vincolistica del Parco è presupposto di salvaguardia ambientale e questo aspetto è riconosciuto ampiamente dagli amministratori locali; dall’al-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
tra, l’azione vincolistica del Parco, operando in
un’area fortemente antropizzata, viene vista come
un ostacolo allo sviluppo e alla libertà di programmazione dei Comuni.
I quindici Comuni facenti parte dell’Ente Parco
Colli hanno tuttavia condizioni diverse di rapporto
con l’Ente Parco legate a vari fattori: l’avere o meno
l’interità del territorio nell’Area del Parco (nel caso
in cui parte del territorio è esterno al Parco, si
rende possibile raggiungere un equilibrio tra valorizzazione delle risorse ambientali e spinte all’espansione produttiva e residenziale; la qual cosa
non è ininfluente ai fini del ricavato ICI, che è stato
per molti anni la fonte di entrate più consistenti per
i Comuni da cui attingere per l’offerta dei servizi
alla popolazione); l’organizzazione degli organi
decisionali e amministrativi dell’Ente che viene
definita come “ingessata”, in quanto costituita da
rappresentanti selezionati nei Consigli Comunali,
oltre che dai sindaci dei Comuni nell’Ente Parco.
L’opinione dei sindaci intervistati è che i consiglieri comunali risentono, più dei sindaci, delle contrapposizioni di schieramento politico (il che riprodurrebbe, a livello più vasto, le stesse logiche della
divisione tra maggioranze e minoranze non sulla
sostanza dei problemi da trattare, ma sugli schieramenti politici di partenza). Un esito evidente di
questa impostazione è che il “contenitore rete”
dell’Ente Parco Colli produce non tanto reti “bridging” (che costituiscono ponti o canali di connessioni che includono realtà anche tra loro distanti),
quanto reti “bonding” (che rafforzano i canali già
consolidati di interazione).
Alcuni Comuni rivendicano più potere, nella forma
di un voto che valga di più di quello di altri, per il
fatto di avere l’interità del territorio dentro l’Ente
Parco Colli e per essere, di conseguenza, più condizionati dalle decisioni dell’Ente (gli altri Comuni possono, infatti, realizzare altrove quello che l’Ente proibisce loro di realizzare nel territorio del Parco).
Indipendentemente dal colore politico o dalle dimensioni dei Comuni o quant’altro che li differenzi, molti
sindaci richiedono uno sfoltimento del Consiglio di
Amministrazione dell’Ente che, a loro dire, si realizzerebbe al meglio sostituendo i consiglieri comunali con
i soli sindaci dei quindici Comuni.
Le interviste raccolgono anche tutto un altro ver-
sante di percezioni dell’operato dell’Ente Parco e
della sua immagine nel territorio. Le cornici prevalenti sono quelle dell’Ente Parco come soggetto
finanziatore di progetti che altrimenti sarebbe difficile sostenere con le risorse dei singoli Comuni e
conferiscono all’Ente un ruolo di “Agenzia di
Sviluppo Locale”, cioè di promotore verso l’esterno
della valenza e delle qualità dei colli e di soggetto di
marketing territoriale. Su questo aspetto si lamenta
una scarsa disponibilità al coordinamento delle
tante iniziative frammentate nel territorio che partono dai Comuni, ma anche dalle Associazioni di
Categoria, dalla Camera di Commercio, dalla
Provincia, dal GAL patavino, etc. Questi conflitti si
avvertono soprattutto nell’abito della valorizzazione dei prodotti locali (vino, olio, miele, etc.) e nelle
iniziative di realizzazione di percorsi turistici e di
attraversamento del territorio.
La sensazione è che “troppi” soggetti nell’area si
occupino di politiche del turismo. Questa critica è
un’arma ambivalente. Se, da un lato, sottolinea la
scarsa maturità dell’Ente, fin qui mostrata, di attivare un processo di mobilitazione degli attori locali su
una politica ambientale e di sollecitare la loro crescita culturale nella direzione di una maggiore consapevolezza dei valori della sostenibilità, dall’altro,
mette in evidenza la scarsa propensione degli attori locali a intraprendere percorsi di autorganizzazione e di promozione dal basso del coordinamento e dell’integrazione territoriale. Quasi che la
domanda di un coordinamento fosse immediatamente traducibile nell’identificazione di un coordinatore che coincide con un’istituzione e un’autorità ben definita e non comporti, invece, l’attivarsi e
il rendersi protagonisti e responsabili. Il problema
è che la risorsa che viene mobilitata per il coordinamento è quella di “autorità precostituita” e non
quella del potenziamento delle capacità organizzative e delle competenze e conoscenze che si hanno
del territorio (saperi locali).
L’interpretazione stessa della nozione di sostenibilità dello sviluppo è controversa: in alcuni casi, si
inquadrano in questa cornice azioni di tipo settoriale specifiche per l’ambiente; in altri, si intende
una azione di tipo intersettoriale e trasversale tra
settori di attività e ambiti di esperienza (economia,
ambiente e società) che necessita in primo luogo
59
n.11 / 2005
di azioni di tipo partecipativo.
3.7 Settimo Esempio: progetti che si realizzano attraverso reti
Si tratta di reti tra enti locali, ma non solo, che
nascono per consentire la realizzazione di progetti
di dimensione interprovinciale o comunque di
scala vasta. Ad esempio, possiamo comprendere in
questa categoria iniziative come quella detta
Sentinella dei Fiumi che, promossa nel 2002 dalla
Provincia di Venezia, per azioni di risanamento e
monitoraggio dei Fiumi Adige, Fratta, Gorzone,
Brenta e Bacchiglione, coinvolge alcuni Comuni
dell’area target (Castelbaldo e altri).
Quella della realizzazione di opere pubbliche, congiuntamente tra più soggetti, è un altro esempio
che si può far ricadere in questo tipo di reti.
Nell’area target osserviamo una serie di realizzazioni che possono essere comprese in questa categoria: la costruzione di un palazzetto dello sport
cui partecipano assieme Bagnoli di Sopra, Arre e
Corbezzolo; il progetto di pista ciclabile tra Arre,
Maserà, Bagnoli, Cartura, Conselve, e Anguillara;
l’anello delle piste ciclabili intorno ai Colli Euganei
che interessa tutti i Comuni sui Colli.
Un altro tipo di operazioni è quelle che si svolgono,
congiuntamente tra più Comuni, per la valorizzazione di prodotti tipici (vedi l’Associazione tra Boara
Pisani, Stroppara e Anguillara per il riconoscimento
della patata americana come prodotto tipico); ancora segnaliamo, a Cervarese Santa Croce, gli interventi sul fiume Bacchiglione (disinquinamento e
recupero navigabilità) con i Comuni di Montegalda
e Montegaldella e con finanziamenti della Regione;
a Zovencedo, Grancona e San Germano, nell’ambito dell’Unione Val Liona, interventi che vanno dalla
realizzazione di piste ciclabili tra i Comuni, al piano
del rumore e al progetto di un’isola ecologica per la
raccolta dei rifiuti ingombranti.
3.8 Ottavo esempio: dinamiche localizzative
delle funzioni produttive di sistemi produttivi locali
Una funzione importante è svolta da alcune polarità che si sono configurate nel territorio e che sono
60
conseguenti a un misto di fattori di scelte localizzative e di infrastrutturazione (linee di traffico).
Queste polarità creano delle gerarchie, spesso soltanto temporanee, influenzando i flussi di circolazione, le specializzazioni nel territorio e gli usi
della popolazione. Anche questo tipo di situazioni
determinano delle appartenenze e delle condivisioni con Comuni esterni all’area target e, come si
era detto già nel descrivere i casi di Unioni di
Comuni, potrebbero essere interpretate come tessuti di relazione non formalizzati o istituzionalizzati (perciò, forse, meno evidenti alle logiche amministrative) da potenziare nella direzione della
costruzione di reti intese come “ponti” verso altri
territori e di alleanze territoriali più estese. La
valenza di queste gerarchie è che sono capaci di
strutturare delle cornici di riferimento per l’azione
sul piano cognitivo (che si rinvengono nelle rappresentazioni e nelle percezioni che gli attori locali costruiscono delle dinamiche territoriali); inoltre, contribuiscono a determinare una rendita che
si manifesta come vantaggio posizionale di alcune
aree rispetto ad altre, che viene giocata in termini
simbolici e che acquista peso nella negoziazione
politica, anche su scala sovralocale.
Una di queste gerarchie territoriali, da verificare se
sia conseguenza di una fase di transizione o di
qualcosa di più stabile, è stata individuata nella
fascia di Comuni del vicentino che è costituita (da
Est verso Ovest) dai seguenti Comuni: Albettone
che ha una percentuale di addetti all’industria
(35,2%) superiore alla media provinciale (34%),
ma un reddito basso, più vicino a quello di un
Comune agricolo (17.400 euro contro 24.400 della
media provinciale al 31-12-2000); Villaga che ha
una percentuale di addetti all’industria elevata
(28%) e un reddito ancora più basso (16.100
euro); S. Germano dei Berici con una percentuale
di addetti all’industria elevata (42%) e un reddito
relativamente basso (18.300 euro); Orgiano con il
39,1% di addetti all’industria e un reddito di 21.600
euro pro capite; Alonte con il 114,1% di addetti
all’industria e un reddito molto elevato (35.200
euro) ma dove, evidentemente, la maggioranza
delle persone che lavorano nell’area industriale del
Comune vivono e risiedono in altri Comuni.
I Comuni in questione sono confinanti l’uno con
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
l’altro e occupano una fascia che attraversa i Colli
Berici da Est a Ovest e ci è sembrato di poter evidenziare in loro varie tendenze: 1) un reddito
industriale relativamente alto che convive con un
reddito montano molto basso (si pensi a
Zovencedo, privo di attività industriali e un reddito montano di 7.600 euro); 2) la sensazione che
molti di coloro che lavorano nelle zone industriali
di questi Comuni vivono e siano residenti altrove
(e questo concorre a tenere basso il reddito medio
pro capite di ciascun Comune, compreso Alonte
che ha un reddito molto elevato ma una percentuale di addetti all’industria talmente assurda e
“impossibile” da poter sembrare sbagliata); 3) oltre
al flusso di pendolarismo legato al lavoro, la circostanza che molti di questi Comuni presentano
degli indici assai bassi di servizi, funzioni commerciali e attività istituzionali mostra che è presente
anche un notevole flusso di popolazione che si
muove da questi ad altri Comuni alla ricerca di servizi, strutture commerciali e istituzioni. Queste
aree sono pertanto interessanti da osservare come
“territorio di circolazione” oltre che per le dinamiche localizzative delle funzioni produttive. Lonigo
e Noventa Vicentina costituiscono le due polarità
dell’area e sono i centri di riferimento per la concentrazione di servizi alla popolazione.
I dati che emergono, relativi all’occupazione nei
settori produttivi, sono da ricomprendere in una
situazione più complessiva che contraddistingue
questi Comuni e che si connota per le difficoltà
delle economie locali a garantire le condizioni minime di benessere alle popolazioni. La scelta di investire nello sviluppo delle attività produttive, in un
certo periodo storico di crisi dell’agricoltura, è
sembrata quella più praticabile o necessaria per
migliorare le condizioni dell’economia e per rendere disponibili nuovi posti di lavoro e frenare l’esodo della popolazione. Tuttavia, dalle interviste ai
sindaci, emerge una consapevolezza dei limiti di
questa scelta ovvero dell’impiego di modelli produttivi che si basano su un alto consumo di territorio e che sono scarsamente attenti agli effetti nel
medio-lungo periodo (inquinamento, congestione,
depauperamento delle risorse naturali, etc.) di
decisioni che hanno alla base “l’imperativo economico”. In una prospettiva di sostenibilità il futuro
dell’area dipende dalla capacità di mobilitare altre
risorse per lo sviluppo territoriale nella direzione
della valorizzazione ambientale e della capacità di
concepirsi come un sistema integrato di servizi e
funzioni ecocompatibili. In questo senso, le polarità e gerarchie territoriali devono essere messe in
discussione, ma non nella direzione di ripetere gli
“errori” dell’alto vicentino. La costruzione del prolungamento della Valdastico Sud è una posta in
gioco di cui si sta assumendo consapevolezza (nell’ambito dei tavoli di concertazione del patto territoriale, si è sviluppato un confronto in merito tra gli
amministratori locali) e rappresenta una “prova”
per l’area dei Berici di mettere al lavoro le capacità
di organizzazione e autodeterminazione che gli
amministratori locali hanno mostrato in altri campi.
La Valdastico, come linea di attraversamento del
territorio, potrebbe essere interpretata come un
vettore di traffico turistico che intercetta parte dei
flussi di movimento, che dal Brennero si riversano, via Verona, sulla riviera romagnola, e li trasferiscono via Vicenza verso la zona dei Colli, Berici
da una parte ed Euganei dall’altra.
In tale prospettiva, l’insistenza di questa porzione
di territorio, nell’ambito dell’area target del PSL
del GAL patavino, appare particolarmente sensata
dal momento che i Colli Euganei stanno vivendo
un momento in parte analogo, aiutato però dalla
presenza dell’Ente Parco che salvaguarda il territorio dal subire gli eccessi della crescita economica.
Quello che un po’ sorprende è che non si stia
innescando un processo di confronto di esperienze tra i Berici e gli Euganei nell’ambito del GAL
patavino come tavolo di confronto territoriale (ma
anche in altri contesti, per esempio provinciali o
regionali) tanto più che con Leader + la dimensione interprovinciale delle aree target è stata posta
come condicio sine qua non in sede di valutazione
dei PSL in quanto essenziale alla prospettiva di
sostenibilità dello sviluppo. Si sta perdendo un’occasione perché gli argomenti da discutere in ambito interprovinciale sono tanti e riguardano anche
la valorizzazione di risorse già disponibili che si
tratta solo di mettere in circuito: per esempio, il
patrimonio architettonico e monumentale di cui
dispongono vari Comuni del vicentino, ma anche i
Comuni del padovano a loro più vicini; per esem-
61
n.11 / 2005
pio, la produzione di vini e altri prodotti tipici che,
singolarmente presi, rappresentano delle produzioni di nicchia, mentre insieme assumerebbero
massa critica sul mercato; per esempio gli agriturismi e tutto il circuito della ristorazione e dell’ospitalità. L’insieme di queste risorse possono suggerire politiche di fruizione turistica del territorio più
credibili e sulle quali è necessaria una programmazione congiunta che può seguire due strade rispetto alla necessità di un coordinamento: quella della
auto-organizzazione spontanea dei Comuni e quella di una autorità sovralocale che si occupa di pianificare il territorio.
3.9 Nono esempio: alcuni casi paradigmatici
Il Comune di Abano
Il Comune di Abano Terme non risulta essere compreso in nessuno dei Patti Territoriali della Bassa
Padovana, mentre rientra nella proposta per l’istituzione della città metropolitana di Padova.
Ovviamente, è evidente come le caratteristiche del
territorio di Abano (per densità abitativa, tipo di
edilizia ma soprattutto tipo di attività e di attori
significativi dello sviluppo) siano al limite della
considerazione di “ruralità”, risultando più immediatamente percepibile il carattere urbano.
Tuttavia, proprio la ricomprensione di Abano
all’interno dell’area-target del GAL Patavino assieme ad altri Comuni limitrofi che condividono il
bacino termale, riesce a mettere le qualità specifiche di Abano in relazione con altre qualità dell’area, più tipicamente “rurali”.
In fin dei conti, il rurale è piuttosto “un effetto-prodotto” di un’insieme di interazioni tra soggetti e politiche territoriali, nella cornice di un’idea di sviluppo
comune (se si riuscisse a concepire e a conferire
effettività ad una rappresentazione condivisa del territorio, cosa che costituisce, in questa prospettiva, il
principale impegno del GAL patavino nel territorio e
la peculiarità e innovazione del suo contributo).
Abano Terme ha un piccolo lembo di territorio
dentro il perimetro dell’Ente Parco Colli, istituito,
ricordiamo, per Legge Regionale. Questa condizione consente al Comune di Abano molte cose: di
essere per esempio compreso nell’area target del
62
PSL del GAL patavino e di entrare in contatto con
un soggetto che come sua propria ‘mission’ ha
quella della diffusione di una cultura del rispetto e
della valorizzazione delle risorse ambientali e naturali, della promozione delle attività che vengono
condotte nel territorio se assumono l’orientamento della sostenibilità dello sviluppo (così anche per
la conduzione delle attività agricole e delle attività
turistiche).
Il Comune di Alonte
Un secondo caso paradigmatico è quello del
Comune di Alonte che si presenta con dati di forte
differenziazione dal contesto degli altri Comuni
facenti parte dell’area target del PSL del GAL patavino. Questo caso ci consente di riflettere in particolare su un aspetto: il coefficiente di densità
media abitativa per kmq che, secondo i parametri
introdotti dal PIC Leader, è indicativo di “ruralità”
(120 abitanti per kmq). Alonte, con una densità di
118,6 abitanti per kmq, si presenta coerente rispetto a questo parametro; senonché, analizzando la
struttura dell’economia locale, e in particolare
considerando le più recenti trasformazioni che lo
riguardano, si presenta con una serie di caratteristiche che fanno riflettere sull’ambiguità della definizione di area rurale che non può essere vincolata soltanto a indicatori quantitativi.
Ad Alonte, infatti, i dati relativi all’andamento
demografico non presentano l’indice di invecchiamento tipico delle zone rurali (la popolazione è
molto giovane e l’indice di invecchiamento è la
metà di quello provinciale), su cui interviene il
programma Leader, né si riscontra un reddito pro
capite basso (in questo caso il reddito, di 35.200
euro, è più alto della media provinciale di 24.400
euro al 31-12-2000, fonte CCIAA) e l’attività decisamente prevalente ed in crescita è quella industriale (il numero di addetti è tre volte più alto della
media provinciale).
Il 114,10% della popolazione attiva è occupata nel
settore Industria, perché Alonte è uno di quei
Comuni capace di attrarre imprese nelle aree artigianali. Non stupisca la percentuale superiore a
cento degli addetti all’industria che vuol dire che
gli addetti ai settori sono calcolati dal numero di
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
addetti nelle imprese insediate nel territorio del
Comune, mentre la popolazione attiva viene calcolata dalle liste dei residenti presenti in Comune (la
qual cosa fa sì che, come nel caso di Alonte, si arrivi a queste percentuali che sono paradossali e sembrano sbagliate).
La chiara predominanza delle attività industriali che
ci fa discutere il carattere di ruralità dell’area, tuttavia, non esclude altri elementi che giustificano la
presenza di Alonte nell’area target del GAL patavino.
Innanzitutto il fatto che Alonte non presenti alcune
caratteristiche tipiche del centro urbano (data la
modesta consistenza del settore servizi e commerci
e l’occupazione nel settore istituzionale, quest’ultima quasi inesistente); infatti, Alonte è diventato un
centro di lavoro pendolare piuttosto che un polo
integrato di attività sociali e industriali.
Un secondo elemento da considerare è l’agricoltura solo marginalmente estensiva. In controtendenza con i Comuni limitrofi, nell’ultimo ventennio, si
è avuta una diminuzione della SAU ad agricoltura
estensiva ed un aumento significativo della SAU ad
agricoltura specializzata (uva per vini DOC). Vi è
stato anche un aumento della SAU a prati e pascoli, a fronte di una diminuzione drastica del numero di capi allevati nel paese. A questo punto, il problema che si pone è quello dell’equilibrio tra crescita industriale e sviluppo di altre attività (tra cui
l’agricoltura specializzata); problema che può
essere ricondotto alle questioni connesse alla
sostenibilità dello sviluppo rispetto alla quale il
rurale può essere un operatore significativo di
integrazione e di costruzione di identità.
A conferma di questo, vanno osservate le reti presenti nel territorio: la partecipazione di Alonte al
Patto Territoriale dei Colli Berici può avere un
valore decisamente positivo per agganciare il
paese ad una riflessione e programmazione di area
vasta e per non far perdere il senso di comunità e
dell’identità berica, nonché per “fare esercizio” di
progettazione congiunta. Come solo altri pochi
Comuni, i dati relativi al PRG di Alonte sono già
presenti nel sito del Patto Territoriale.
In particolare, il Patto Territoriale ha costituito
un’occasione per promuovere un dibattito nell’area sul modello di sviluppo da perseguire ponendo come estremamente deleterio il modello prati-
cato nella zona nord del vicentino e maturando un
diverso approccio al tema della sostenibilità. Ad
Alonte, una serie di singoli progetti mostrano il
subentrare di una certa sensibilità ecologica: l’ecocentro, l’impianto di fitodepurazione, l’attenzione
alla raccolta differenziata, etc.
Il Comune di Bagnoli di Sopra
Il caso di Bagnoli di Sopra è esemplificativo di territori in cui si sono stratificati gli effetti, fortemente diversi, di politiche eterogenee (per i presupposti, le strategie ispiratrici e il tipo di risorse impiegate) che si sono succedute nel tempo.
Così si possono trovare concentrati a Bagnoli gli
effetti di politiche di sviluppo industriale e di attività produttive a rischio ambientale, la coltivazione
di produzioni biologiche e specializzate, le riqualificazioni di beni monumentali e storici; donde, le
ipotesi di valorizzazione turistica. La questione fondamentale per il futuro di Bagnoli è intervenire in
una situazione di compresenza di varie direttrici di
crescita non sempre compatibili.
Da un lato, infatti, si trova una imprenditorialità
locale piuttosto vivace che ha risolto i problemi di
occupazione e di reddito per quanto, ancora, non
abbia attratto popolazione residente. Dall’altro, vi
è anche una situazione di vivace associazionismo
che rappresenta un potenziale per passare dalla
riqualificazione dei beni immobili al loro utilizzo
secondo progetti mirati di tipo sociale e/o turistico. Da un altro lato ancora, vi è la sperimentazione
agricola in corso con le produzioni biologiche e
specializzate che potrebbe essere opportunamente valorizzata, se agganciata ad altre attività.
Tutte queste energie dovrebbero trovare un tema
catalizzatore e un’impostazione per il futuro,
anche per non finire per confliggere l’una con l’altra. Bagnoli di Sopra ci è sembrato un Comune in
cui queste eterogeneità si manifestano con particolare significatività, ma è anche vero che situazioni del genere, solo meno evidenti, ci sono sembrate essere diffuse in vari altri Comuni dell’area target. Questo sia per le scelte eterogenee fatte all’interno di un Comune da un’amministrazione o da
diverse amministrazioni con visioni alternative
dello sviluppo locale, sia per scelte eterogenee
63
n.11 / 2005
fatte da amministrazioni di Comuni diversi e confinanti tra loro (che magari avevano, all’inizio, posizioni simili se non identiche).
Tornando a Bagnoli di Sopra, un problema è la presenza di attività produttive a rischio ambientale che è
il retaggio di un passato in cui il Comune non era in
grado di selezionare le industrie che volevano insediarsi. Adesso le capacità di negoziazione del Comune
sembrano essere aumentate, al punto che al Cosecon
è stato affidato il compito di effettuare una valutazione di impatto ambientale per le nuove imprese che
fanno domanda di insediamento nell’area.
Si presenta come eterogenea rispetto alla situazione di rischio ambientale proveniente dall’industria, l’agricoltura che, pur svolgendo un ruolo
minore nell’economia locale, si sta sviluppando
attraverso l’aumento delle coltivazioni di pregio.
Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro dell’eterogeneità, Bagnoli dispone di un patrimonio
monumentale e ambientale (bosco, oasi, ville, etc.)
che potrebbe essere opportunamente valorizzato,
con attività che differiscano da quelle industriali,
per riequilibrare la crescita troppo orientata allo
sviluppo industriale.
I primi segnali di una situazione di possibile
incompatibilità tra gli indirizzi di sviluppo dei singoli “settori” (turistico, industriale, agricolo) sono
sempre più evidenti nell’azione dei vari comitati
(degli agricoltori biologici, degli abitanti) che si
oppongono alla presenza di produzioni a rischio.
I Comuni di Arquà Petrarca e Agna.
Quello che si cercherà di dimostrare, con gli esempi di Arquà Petrarca e Agna, è la tesi secondo cui le
condizioni di sviluppo di una località, di un paese,
non dipendono esclusivamente da fattori geografici e storici, e cioè dall’insieme del patrimonio di
risorse naturali e ambientali, delle istituzioni formali esistenti, del quadro normativo, etc., che
costituirebbero dei vincoli strutturali allo sviluppo.
Per valutare le potenzialità e capacità di sviluppo di
una località occorre guardare a quello che le società locali ed i governi locali fanno e scelgono di fare,
approntando progetti, piani, varie azioni di intervento che servono a provocare il coinvolgimento e
l’attivazione di gruppi locali, scoprendo risorse e
64
potenzialità inedite, anche con una buona dose di
invenzione. Nella concezione dei progetti di sviluppo, l’essenziale, secondo questa impostazione,
è abbandonare una visione economica e ambientalista rigida, di tipo determinista, che decide aprioristicamente quale intervento può funzionare o
meno in una determinata situazione sulla base
della sola considerazione delle cosiddette “caratteristiche del sistema” (locale). Per di più identificando questo con una nozione di ambiente come
insieme delle risorse fisiche e naturali preesistenti.
Peraltro, una prima evidenza che salta agli occhi è
che località che dispongono di risorse naturali non
molto differenti tra loro, spesso hanno esiti di sviluppi assai diversi.
L’esempio di Arquà Petrarca è significativo come
soluzione di un modello alternativo di crescita
basato piuttosto che sulla espansione delle attività
produttive e della residenzialità, sulla valorizzazione del patrimonio locale con operazioni di marketing territoriale e anche una buona idea ispiratrice
di partenza.
Il territorio di Arquà Petrarca si trova interamente
compreso nel perimetro dell’Ente Parco Colli.
L’economia del paese, tradizionalmente agricola,
costituisce a tutt’oggi una porzione consistente del
reddito locale ma è stata potenziata attraverso una
particolare strategia volta agli aspetti legati alla trasformazione e commercializzazione dei prodotti,
fino ad oggi caratterizzate da scarsa attenzione.
L’amministrazione comunale si sta, infatti, impegnando per ottenere la certificazione del marchio
ISO 14001 per i prodotti tipici e opera per la difesa
della biodiversità e per la valorizzazione della fertilità dei terreni e vi è inoltre una vivace produzione
di manifestazioni locali legate all’agricoltura e alle
produzioni tipiche locali. Fin qui una storia che si
ripete in vari Comuni compresi nell’Ente Parco
Colli Euganei. La vera svolta si è avuta con la valorizzazione dei monumenti legati alla figura del
Petrarca, la gestione della cui immagine è andata
verso un modello imprenditoriale. L’idea è stata
quella di agganciare il circuito Petrarca (fatto di itinerari di visitazione, manifestazioni, degustazione
di prodotti tipici locali, ospitalità) alle potenzialità
del circuito termale per attrarre visitatori. Per questa ragione, in tutti gli ultimi anni, l’azione dell’am-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
ministrazione è stata finalizzata alla sensibilizzazione della popolazione residente a investire in attività turistiche che valorizzino il patrimonio storico e
culturale e il paesaggio, con iniziative per sviluppare la ricettività (per esempio, l’offerta di bed &
breakfast, di agriturismi, negozi tipici, etc.).
L’economia locale ha avuto così un notevole impulso che sta trascinando anche altre attività. Per
esempio, dal 2000 è stata iniziata l’agricoltura biologica e si è passati da 5 a 37 aziende che fanno
prodotti biologici certificati. Si è, poi posto, come
centrale, il problema di migliorare la distribuzione
e vendita del vino e dell’olio che avviene ancora in
maniera frammentata e la scelta di puntare su prodotti a denominazione comunale.
Se questa strategia rappresenta un’occasione, per
Arquà Petrarca, di sviluppo anche in prospettiva
futura, bisogna fare qualche considerazione sul
contesto nel quale Arquà si colloca. Infatti, i
Comuni dei Colli sono caratterizzati, allo stesso
tempo, da azioni cooperative e atteggiamenti competitivi. Per esempio, per quanto riguarda i vini, vi
sono varie etichette in competizione tra loro e i
produttori preferiscono usare strategie di comunicazione singole, nella prevalenza dei casi, anziché
agire in maniera cooperativa, capitalizzando le
risorse comuni, nella prospettiva della formazione
di un distretto enogastronomico. Occorrerebbe
che nascano iniziative congiunte per la promozione
dei prodotti e su questo punto non è ancora del
tutto chiaro quale sia l’attore capace di accompagnare un simile processo.
Agna è un paese di antica fondazione ed è stato
luogo di eventi storici di rilievo di cui si porta il
ricordo ancora nello stemma comunale. A seguito
della bonifica ultimata nel XVI secolo, che ha persino prosciugato un lago, grande impulso fu dato
all’agricoltura che ha prodotto un rapido incremento demografico. L’attività agricola è stata rivalutata dopo gli anni Cinquanta del XX secolo per
contrastare la forte emigrazione dei decenni precedenti. Ancora oggi l’economia locale si basa
principalmente sulle attività agricole e su quelle
artigianali. Tuttavia, l’agricoltura è sostanzialmente
estensiva tranne la coltura specializzata del melone
nei mesi estivi.
Differentemente dalla realtà dei Comuni limitrofi
che presentano una frammentazione della proprietà agricola, con un alto numero di piccole
aziende, ad Agna vi è una agricoltura che ha una
lunga storia di grossi proprietari di terre.
Storicamente erano tre (si trattava di ebrei che
hanno acquistato la pienezza dei diritti con
Napoleone, compreso quello della proprietà di
terre, e che vivevano a Padova o altrove), ma una
di queste grandi proprietà si è smembrata, anche
se recentemente è apparso un quarto grosso proprietario.
In anni recenti, ci sono state delle difficoltà che
hanno investito l’agricoltura (che non è più il settore trainante e non riesce a trasformarsi nella
direzione di colture specializzate più redditizie)
così come la capacità del Comune di essere un
polo di attrazione rispetto ai Comuni vicini (vedi il
mercato domenicale che attira espositori e visitatori da tutta la bassa padovana e la recente crescita, come fattore di attrazione, del polo di
Conselve). In questa situazione, le strategie dell’amministrazione comunale, sono state orientate,
da un lato, verso l’investimento nell’edilizia residenziale e nell’espansione dell’attività produttiva
cercando però un’intesa con i Comuni di
Anguillara, Bagnoli e Tribano che hanno rinunciato a ulteriori aree artigianali (dunque in un’ottica
di complementarietà), dall’altro, attraverso lo sviluppo di rapporti, collaborazioni, reti di relazioni
con i Comuni limitrofi e altri attori territoriali (relazioni costruite nel tempo intorno alla figura del
Sindaco che è in carica da oltre venti anni e ai ruoli
che egli ha ricoperto in ambiti politici amministrativi di livello provinciale: Presidente dei tre acquedotti di Monselice, Este e Conselve; consigliere
provinciale; etc.).
Un punto centrale di questa struttura di relazioni è
rappresentato dal fatto che oggi si possono giocare le conseguenze non attese e non pianificate di
un’iniziativa che dura da 45 anni: la mostra-concorso Nazionale di Pittura, Acquarello e Grafica
“G.B. Cromer” che costituisce un evento importante che ha fatto conoscere Agna in ambito anche
nazionale e che ha prodotto una rete virtuosa di
rapporti. Nel caso di Agna è stato utilizzato un progetto che mobilita risorse organizzative locali e reti
di relazione; invece, i progetti di valorizzazione
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n.11 / 2005
intrapresi da altri Comuni, attraverso la realizzazione di singole opere pubbliche (piste ciclabili, recupero di spazi urbani, di beni architettonici, etc.),
non innescando una attivazione delle reti di relazione, sono meno efficaci rispetto agli obiettivi
dichiarati. Considerando la posizione di Agna nella
bassa padovana, compressa tra le aree industriali
(polo del conselvano), da un lato, e, dall’altro, i
Comuni agricoli che costituiscono l’asta dell’Adige,
questa capacità di aver generato un flusso di visitatori che vanno ad Agna per qualcosa che è stato
inventato in loco può mostrare come un piccolo
Comune possa diventare un polo di attrazione. Su
questa esperienza di successo varrebbe la pena di
riflettere per coglierne le potenzialità di trasferibilità ad altri ambiti, in particolar modo nella direzione dello sviluppo dell’attività turistica.
Le altre iniziative che già esistono in altri Comuni
vicini (le feste, le sagre, gli itinerari ciclabili, etc.)
potrebbero rientrare in un quadro di programmazione e integrazione interlocale che si basi sulla
cooperazione tra i Comuni e il coordinamento
delle loro iniziative. E tuttavia, proprio questo è
quello che manca: la coordinazione e la capacità di
vedere insieme la soluzione di un problema che è
di tutti.
Il Comune di Barbona
Barbona si presenta come un caso paradigmatico di
possibile esito della crisi del mondo rurale tradizionale nella mancanza di alternative. Si tratta del più
piccolo Comune della provincia di Padova per
numero di abitanti e presenta un andamento demografico caratterizzato dal calo continuo della popolazione. Il principale problema è, infatti, costituito dall’abbandono, da parte della popolazione residente
del paese, per le limitatissime occasioni di occupazione e svago che esso offre. Parimenti, non riesce
ad essere appetibile per residenzialità proveniente
da fuori. Le attività commerciali e industriali sono
praticamente assenti.
Il fiume era un’opportunità per attività economiche
e non lo è più e si lamenta la sensazione di accentuato distacco che i possenti argini hanno creato
anche sul piano visivo costituendo una barriera difficile da superare.
66
La principale fonte di reddito, in loco, è costituita
dall’agricoltura e la produzione più rilevante è rappresentata dagli ortaggi che vengono commercializzati a Lusia. Questo tipo di produzione specializzata
viene però realizzata come secondo lavoro, dal
momento che la maggior parte della popolazione
attiva trova occupazione fuori dal paese.
Il Comune è costituito da vari piccolissimi gruppi di
case sparsi nel territorio, senza un vero principio di
agglomerazione urbana, anche per l’assenza di piazze e spazi pubblici di qualche tipo. Questa mancanza viene percepita, dagli amministratori, come un
grave limite che rende difficile la socializzazione tra
gli abitanti.
A ciò si aggiunge l’assenza di scuole che diminuisce
ulteriormente, per i più giovani, l’occasione di conoscersi e frequentarsi tra loro.
A rendere ancora più critica la situazione, la sussistenza di debiti del Comune (eredità delle precedenti amministrazioni) che ha posto grossi limiti
all’azione dell’attuale amministrazione che, tuttavia,
si è mostrata attiva nel reperire finanziamenti europei e regionali per realizzare vari progetti di natura
urbanistica (una piazza, progetto a tutt’oggi ancora
non finanziato) e sociale, in particolare volti ai più
giovani (escursioni, iniziative di aggregazione, ludico-ricreative).
I problemi di bilancio del Comune hanno anche
ostacolato la collaborazione con le amministrazioni
vicine per la gestione congiunta di servizi tecnici e
amministrativi che avrebbe potuto costituire una via
per limitare le spese.
Barbona presenta tuttavia delle qualità ambientali e
paesaggistiche che potrebbero essere utilmente giocate nella direzione della fruizione turistica del territorio (vedi attività di bird watching, progetto dell’oasi, piste ciclabili, percorsi sull’argine e tentativi di
valorizzazione del fiume).
Dato l’ambiente ancora intatto e la disponibilità di
case da ristrutturare, uno scenario possibile è quello
di utilizzare il patrimonio immobiliare esistente
come seconde case per periodi di ferie. Un secondo
possibile scenario è quello di utilizzare il patrimonio
immobiliare come abitazione principale di famiglie
attratte, per lavoro, nella zona (di cui si prevede un
forte sviluppo) tra Boara Pisani, Vescovana e Granze.
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
4 In che senso si cambia? Amministratori alle
prese con “l’ideologia della difesa dell’ambiente” e con “l’ideologia della crescita”.
rienze acquisite nel contesto dell’attività di amministrazione pubblica.
Se un aspetto si è potuto osservare è che, trattandosi spesso di politiche territoriali che hanno alla
base elementi di tipo relazionale, il carattere del
singolo, le sue proprie opinioni, i valori di riferimento, risultano una componente rilevante per il
successo dell’iniziativa, per la capacità di gestione
e di trattamento dei conflitti.
Probabilmente l’unica differenza sostanziale per
l’analisi è che l’operato degli amministratori che
sono in carica da molti anni, può essere valutato in
un’ottica di medio-lungo periodo, quindi, con più
elementi a disposizione.
I nuovi sindaci
I sindaci dei Comuni compresi nell’area-target
(PSL, GAL Patavino) che sono stati intervistati si
identificano secondo due profili e due stili differenti, entrambi affermati e riconosciuti nel settore
dell’amministrazione pubblica nella realtà italiana.
O sono politici di professione e ricoprono la carica
di sindaco da molti anni (sono al secondo mandato, da quando è stata introdotta la legge per l’elezione diretta del sindaco, e in molti casi hanno
avuto precedenti esperienze come sindaci o assessori, consiglieri comunali), oppure, sono insegnanti, professionisti, imprenditori prestati alla politica e
di recente esperienza come amministratori.
Ciò ovviamente ha delle conseguenze, che si possono osservare nei processi cui partecipano, in termini di strutturazione di relazioni e reti nel territorio, di visione dell’interesse generale, di ambizioni
personali, di peso e influenza personale, di conoscenza dei meccanismi del funzionamento della
macchina comunale.
Tuttavia, i risultati del loro impegno come amministratori non sembrano evidenziare particolari
vantaggi o maggiore adeguatezza e capacità nell’un
caso o nell’altro, soprattutto nella conduzione dell’attività che più sembra essere diventata quella
preponderante, cioè, saper concertare, sedersi e
partecipare a molti tavoli di confronto e di negoziazione. In fin dei conti, il mestiere di amministratore è cambiato molto, negli ultimi anni, con l’introduzione di strumenti come quelli della pianificazione negoziata, i programmi europei, e si è
rimodellato con l’apporto di professionalità e competenze che si sono maturate in altri campi.
Stabilire accordi, sia con soggetti pubblici sia con
soggetti privati, fare un gioco di squadra per potere attingere a risorse finanziarie o per realizzare un
progetto sembra qualcosa che si apprende nel
corso dell’azione in molti settori di attività e che
non riguarda più solo ‘la politica’; l’essenziale è,
dunque, averne fatto esperienza ed essere capaci
di trasferire questo patrimonio personale di espe-
Tra imperativi economici e investimenti
simbolici
In generale, dalle interviste effettuate risulta che i
sindaci dei Comuni dell’area-target si presentano
consapevoli, a livello discorsivo, delle problematiche dello sviluppo sostenibile e, nella descrizione
e rappresentazione che restituiscono dei territori
comunali di propria pertinenza, mostrano di conoscere le attività agricole, i prodotti locali, gli aspetti legati alle caratteristiche della produzione e dell’organizzazione del lavoro. In altri termini, sono
molto attenti al territorio in cui agiscono e alla
tutela e valorizzazione delle qualità ambientali
dello stesso. Sono molto ricettivi nei confronti
delle potenzialità dell’introduzione di usi innovativi delle aree agricole, soprattutto se in connessione con l’offerta turistica: amano e appoggiano l’insediamento di agriturismi e di bed & breakfast;
ragionano e incoraggiano la sperimentazione di
culture di qualità, di forme di organizzazione della
vendita dei prodotti e di apertura a nuovi mercati;
incentivano la costruzione di piste ciclabili, per le
quali sono costantemente alla ricerca di finanziamenti, e desidererebbero poter fare molto di più
per la manutenzione degli argini, il ripristino di
sentieri ormai abbandonati, di paesaggi terrazzati e
alberati irrimediabilmente sottratti da anni di sfruttamento delle risorse naturali e ambientali.
In molti casi si è evidenziata una notevole sensibilità per gli aspetti diremmo ‘sociali’, come assistenza e cura quotidiana delle categorie ‘deboli’ o
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n.11 / 2005
più bisognose del sostegno pubblico, come l’organizzazione di attività culturali e di aggregazione: le
amministrazioni comunali finanziano e supportano in vario modo palii, feste paesane, sagre, dove
si possono assaggiare i prodotti della tradizione o
indossare costumi d’epoca, ripercorrere la memoria quasi perduta di vecchie usanze.
I sindaci osservano con entusiasmo il successo di
pubblico di questi eventi e riscoprono una comunità locale che non è vero che trova le sue piazze
ormai soltanto nei grandi centri commerciali (che
pure frequenta).
Tra i Comuni che promuovono o sono luogo di iniziative che s’inscrivono in quest’orizzonte di senso
sono da segnalare, con riferimento all’aera target:
Agna, per la festa padronale di San Lorenzo che
dura sei giorni, il mercatino domenicale con oltre
200 venditori provenienti dai Comuni vicini, il
“Concorso di Pittura, Acquarello e Grafica” (che si
tiene da 45 anni e che ha fatto conoscere Agna a
livello nazionale); Anguillara, per la festa della patata americana, dei sugheri e della quercia (che coinvolge Agna, Candiana e Bagnoli di Sopra), la festa
del formaggio e il concorso nazionale di organo;
Arre, per la festa del grano e il mercatino dell’antiquariato e per il Carpe Diem Beer Festival come
attrazione di un pubblico giovane; Arquà Petrarca,
per la festa della giuggiola gestita dalla Pro Loco e
per la festa dei prodotti biologici (a parte le manifestazioni legate alle celebrazioni del Petrarca,
altrove già menzionate); San Germano dei Berici,
per la Sagra della Cesola, la Sagra di San Martino, la
Mostra dei prodotti agroalimentari e delle erbe
spontanee in Val Liona; Candiana per la mostra
dell’artigianato, la festa per la valorizzazione dei
prodotti locali e la festa degli immigrati (che è concepita nell’ambito delle politiche di sostegno alla
popolazione extracomunitaria, come momento di
socializzazione tra gli abitanti di Candiana e dei
Comuni dell’intorno e la nuova popolazione straniera); Barbona, dove si segnala la festa degli aquiloni; Battaglia Terme, che si distingue per le iniziative volte alla valorizzazione delle vie d’acqua (vedi
manifestazioni come il “Canale Fiorito”); etc.
Tutto questo mondo fatto di piccoli e grandi progetti, riscopre e reinventa i territori e le identità
locali di molti Comuni minori che si sono trovati da
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qualche decennio a fronte del grave problema,
spesso, dello spopolamento per l’abbandono delle
tradizionali attività agricole, per l’attrazione esercitata dai centri urbani, per le difficoltà occupazionali e la scarsa offerta di servizi scolastici, sanitari e per
il tempo libero, di infrastrutture per la mobilità.
E allora, che cosa fare? Nella sfida a sopravvivere, i
piccoli centri della campagna reinterpretano le
carenze e i punti di debolezza, gli elementi critici
del territorio alla luce delle nuove domande che il
diffondersi di una sensibilità ecologista e la non
sostenibilità del modello di sviluppo delle aree
densamente produttive e trafficate, congestionate
del NordEst, hanno fatto esplodere di recente. I
punti di debolezza possono costituire opportunità
di sviluppo alternativo, essere fuori mano può
attrarre segmenti di popolazione urbana, alla ricerca di migliori condizioni abitative, al contatto con
gli elementi della natura; si può migliorare l’offerta di servizi. Per alcuni territori, le cui qualità
ambientali e paesistiche sono di indubbia attrattiva, riorganizzarsi sulla base dell’offerta turistica differenziata è un’impresa relativamente praticabile: i
Colli Euganei si impongono complessivamente
come un sistema piuttosto organizzato e competitivo per le produzioni tipiche, la ricettività e le
strutture di ospitalità, mentre comincia a diffondersi una nuova cultura organizzativa del settore
turistico; la preziosa risorsa dei fanghi termali ha
fatto di Abano, Montegrotto (e in misura assai
minore Galzignano, Battaglia e Teolo, che hanno
seguito un diverso modello di sviluppo del termalismo) delle mete del turismo termale, con una
grande affluenza di visitatori, grandi alberghi, per
quanto più recentemente il settore sia entrato in
crisi per gli effetti negativi della formazione di una
sorta di monocultura turistica. Là dove gli sforzi
sono concentrati nella direzione del potenziamento delle risorse del turismo rurale, in genere si
cerca di integrare i progetti e le iniziative di riqualificazione e di recupero di spazi urbani, di beni
storici e architettonici, di siti di interesse paesistico e ambientale con la promozione e il rafforzamento sul mercato dei prodotti di nicchia (vedi
l’associazione di: percorsi enogastronomici, biciclettate, passeggiate per boschi o attraverso le
campagne, lungo gli argini, visite alle ville, ai
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
musei, a siti archeologici, etc.).
Si tratta di investimenti simbolici ovvero della
costruzione di politiche territoriali come operazioni di assemblaggio (bricolage), ove un aspetto
importante è costituito dalla cura dell’immagine
del territorio; le strategie di marketing più tradizionali sono accompagnate da tutta una produzione di rappresentazioni, discorsi, narrative che
fanno leva sul patrimonio naturale, culturale, sulle
produzioni locali non soltanto in un’ottica di fruizione e di commercializzazione ma anche di rafforzamento dei fattori di identità territoriale, con
qualche spunto d’innovazione e soprattutto con
un certo riscontro d’interesse e di partecipazione
delle comunità locali ma non solo, come mostrano
i dati relativi ai flussi turistici.
In altre parti dell’area target del PSL del GAL patavino l’interpretazione che viene data alle mutate
condizioni di contesto è orientata verso la progettazione di nuovi quartieri di espansione residenziale e al potenziamento dei servizi di base per la
popolazione residente; quella residenziale è una
specializzazione non necessariamente affiancata
dall’offerta di spazi per la localizzazione di attività
produttive.
Tra gli esempi di politiche e strategie di sviluppo
sensibili alla nozione di sostenibilità e basate sul
principio della valorizzazione delle risorse endogene, nell’ambito dell’area target del PSL del GAL
patavino, segnaliamo di seguito i casi di: Masi, un
Comune di dimensioni molto piccole ma con un
forte potenziale di qualità del territorio, fino ad
oggi sostanzialmente trascurate, da promuovere a
fini turistici, che l’attuale amministrazione è impegnata a valorizzare attraverso una serie di iniziative
e progetti (quali la costruzione di un Ostello, piste
ciclabili, servizi di ristorazione lungo il fiume, etc.),
funzionali anche al rafforzamento della vocazione
residenziale della zona; Barbona, un Comune piccolissimo che ‘resiste’ allo spopolamento e alle difficoltà strutturali dell’economia agricola locale,
grazie all’impegno dell’amministrazione per la
riqualificazione e il recupero del paesaggio rurale,
dei siti di sicuro pregio naturale e ambientale, dei
percorsi lungo gli argini (nonché a politiche sociali con attività di animazione, a carattere ludico-educativo, mirate soprattutto ai giovani e agli studen-
ti) utilizzando finanziamenti europei e, dove, inoltre, si è costituito un Comitato per la valorizzazione e la difesa delle biodiversità dell’oasi floro-naturalistica (tra i progetti futuri, si pensa di investire in
un percorso ciclabile che porti fino ad Este, collegandosi alle piste ciclabili che sono state realizzate
nei Comuni intermedi); Bagnoli di Sopra, dove si
prevede il completamento della pista ciclabile che
passa anche per Arre, Maserà, Cattura, Conselve e
Anguillara e dove si è operata la valorizzazione
della presenza di beni architettonici e monumentali (si tratta sia di palazzi storici, come il complesso Villa Widmann, sia del recupero di importanti
fabbricati rurali); Montegrotto Terme, dove è in
atto la realizzazione di piste pedonali e sentieri
ciclistici con la finalità di rivitalizzare il turismo
delle Terme; Torreglia, dove si trova la bellissima
Villa dei Vescovi, vi è una pista ciclabile ma sono
molto numerosi soprattutto i sentieri realizzati (48
sentieri), affidati al servizio forestale (per quanto
abbiano prodotto conflitti con i proprietari dei terreni sui quali passano); i 15 Comuni del Parco Colli
Euganei dove si sta realizzando un complesso e
variegato percorso di piste ciclabili, piste a cavallo
e sentieri; infine, l’area tra Vescovana e Anguillara
dove lungo gli argini dell’Adige è prevista la realizzazione di piste ciclabili.
Se in questi Comuni abbiamo trovato che la realizzazione di piste ciclabili e sentieri risulta essere l’elemento caratterizzante e ricorrente (perfino un
po’ di moda), in altri troviamo invece come elemento catalizzatore la riqualificazione dei siti di
cava dismessi e abbandonati; così, Cervarese Santa
Croce è luogo di interventi e di progetti di recupero e di valorizzazione ambientale, come il Parco
urbano a Monte Merlo (per la parte del monte che
è rimasta), il museo della trachite in una ex cava,
associati alla creazione di numerosi sentieri e itinerari di visitazione del patrimonio monumentale
(dalla Chiesa e Castello medioevale a Monte Merlo;
alle vecchie fontane; ecc.); a Rovolon una cava
viene trasformata in area attrezzata per il turismo e
inoltre si osserva come attraverso i progetti di promozione turistica del territorio l’attività agricola
tradizionalmente intesa ridefinisca la propria funzione rispetto alla cura dell’ambiente e assuma un
nuovo ruolo rispetto allo sviluppo dell’economia
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n.11 / 2005
locale; a Battaglia Terme vi sono vari interventi di
riqualificazione delle cave dismesse (trasformate in
zone per picnic e sosta di camper; una proposta di
progetto di recupero riguarda il sito dell’ex cava,
nella zona Ferro di Cavallo, dove si vorrebbe
costruire una sala congressi e attività sportive legate alla roccia), ed è forte la presenza dell’associazionismo legato alla vita dei canali con l’organizzazione di manifestazioni ed eventi caratteristici (cui
si aggiungono la presenza di un museo della navigazione interna, i progetti di recupero del Castello
del Catajo e, in prospettiva, di percorsi di visitazione turistica delle ville, con barca e bus, in cooperazione con altri Comuni); a San Germano dei Berici
il recupero di una cava dismessa prevede anche
l’attrattiva di un laghetto interno, da percorrere in
barca; ad Orgiano la chiusura di una cava costituisce la possibilità di creare un bacino idrico; a
Grancona la presenza di cave di pietra di notevole
bellezza (sono talmente interessanti che vi sono
richieste, da parte dell’Unesco, di considerarle
patrimonio del mondo) ha dato luogo a varie originali idee di valorizzazione e costituisce un’attrattiva turistica unitamente ai vecchi molini, ai beni
architettonici e artistici (tra cui la Villa FracanzanPiovene del 1700, nella quale è stato realizzato un
museo contadino, il Palazzo dei Vicari della fine del
‘500, nel quale si trova la casa museo del pittore
Paolo Orgiano e altre ville, chiese), e a luoghi paesaggisticamente pregevoli; a Cinto Euganeo vi
sono progetti già realizzati e in corso di attuazione
per la valorizzazione di siti di interesse archeologico e ambientale (Buso della Casara, ecc.), concepiti anche come protezione del territorio che è idrogeologicamente fragile; etc.
Rispetto all’area dei Colli Euganei i territori della
provincia di Padova che si trovano più a sud, lungo
l’Adige, hanno fatto oggettivamente più fatica ad
organizzarsi e pur con delle differenze tra situazioni Comunali, sono rimasti in bilico e nell’incertezza: in una prima fase non sono stati investiti dai
processi di industrializzazione del NordEst, ma soltanto in alcuni casi è stato compreso il valore
aggiunto che il mantenimento di un ambiente
sano e tranquillo poteva avere, una volta che si fossero presentati gli effetti negativi dello sviluppo
industriale nelle altre aree, e fosse maturata l’esi-
70
genza di una revisione del modello si sviluppo economico, verso un approccio di sostenibilità. In
molti Comuni, il potenziale vantaggio acquisito,
rispetto alle aree congestionate e sature di insediamenti produttivi, rispetto al paesaggio e alle risorse naturali degradate, è stato messo a repentaglio
una volta che si è presentata l’occasione, in concomitanza con l’annuncio dei nuovi recenti progetti
di infrastrutturazione del territorio (su questo
punto ci soffermeremo di seguito); in altri, è stato
difficile sostituire le attività agricole se non che con
attività produttive diffuse capillarmente e frammentate, in genere artigianali, che alle volte sono
penetrate nel tessuto urbano dei centri abitati portando disagi. In altri ancora, si sono presentati
pesanti problemi di inquinamento dei terreni agricoli a causa delle sostanze nocive trasportate dai
fiumi (come il Fratta), come di seguito si esporrà
più approfonditamente, e molte aree in attesa di
complessi interventi di bonifica sono state sottratte alla coltivazione, portando le economie locali a
situazioni di crisi profonda. In generale, nella zona
della cosiddetta bassa padovana, le risorse idriche
scarseggiano, si praticano culture a seminativo,
che non richiedono cura quotidiana, a differenza
delle culture tipiche e si cercano altre forme e fonti
di occupazione.
La considerazione di questi aspetti porta già delle
valutazioni critiche rispetto a quella spiccata sensibilità ambientale che abbiamo prima descritto
come valore diffuso tra gli amministratori locali.
Ovvero, il problema è trovare forme di convivenza
tra questi grossi problemi e la nuova prospettiva e
sensibilità per lo sviluppo sostenibile che si sta diffondendo anche tra gli amministratori locali.
Quella della gestione delle risorse idriche e dell’inquinamento dei suoli agricoli e delle acque
dovrebbe essere un’emergenza di primo piano che
mobilita compatti gli amministratori, i politici locali, ma in verità non emergono forme di collaborazione significativa tra Comuni, su queste emergenze ambientali, e dalle interviste viene fuori che i
sindaci hanno diverse opinioni a riguardo, non c’è
consenso sulla diagnosi e rappresentazione dei
problemi e delle relative soluzioni.
Ma che cosa succede in questi territori all’annuncio di nuovi progetti di espansione infrastrutturale,
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
se ci si trova a fronte della previsione della realizzazione, a breve, di una nuova arteria strategica
per i collegamenti tra Nord e Sud, come il prolungamento della Valdastico a Sud? Quali conseguenze alla luce di una simile novità?
Se prima abbiamo descritto comportamenti che
mostravano, da parte degli amministratori locali,
una spiccata sensibilità per la difesa dell’ambiente,
con una certa propensione per la sperimentazione
e l’innovazione, l’aspetto su cui adesso dobbiamo
concentrarci è la riaffermazione di una vera e propria ideologia della crescita, che porta con sé cornici della conservazione, vecchi comportamenti di
sfruttamento delle risorse e di utilizzi del suolo.
Le aree della “bassa padovana”, soprattutto nella
zona ad ovest, vengono investite in pieno dal percorso della nuova arteria stradale, e questo viene
visto come un’opportunità di modificare le attuali
gerarchie territoriali e le condizioni di sviluppo.
Si aprono quelle che vengono descritte in genere
dagli amministratori intervistati delle “nuove progettualità”, che consistono sostanzialmente nel
rendere disponibili aree agricole per la localizzazione di nuovi insediamenti produttivi, o l’espansione di quelli esistenti, secondo indici abbastanza
significativi. Tempestivamente si predispongono e
si approvano Varianti al PRG, per regolamentare i
nuovi usi e le nuove scelte localizzative.
Solo per fare qualche esempio, a Vescovana, che si
è trovata in posizione strategica rispetto ai nuovi
progetti di infrastrutturazione, è stata prevista una
nuova area industriale di 500.000 mq; a Bagnoli di
Sopra dove esiste già un’area produttiva, di circa
500.000 mq, ubicata vicino a Conselve e Arre, si
aggiunge la previsione di un nuovo ampliamento
dell’area produttiva, con variante al PRG, di circa
800.000 mq; a Candiana, oltre alla disponibilità, già
in essere, di una ampia zona industriale (160.000
mq), è in corso un ampliamento dell’area industriale (altri 200.000 mq) con attenzione, però,
all’impatto ambientale e alla qualità dell’aria (con
piste ciclabili e verde); a Rovolon è prevista una
area artigianale di 100.000 mq nella zona a valle del
Parco dove si prospetta un ulteriore sviluppo industriale; tra i Comuni dei colli Berici, Asigliano progetta una nuova zona produttiva (organizzata da
privati) più grande di quella esistente nel Comune
di Noventa Vicentina e contemporaneamente
mette in campo una serie di progetti per la tutela
del paesaggio, la difesa dell’ambiente e la riqualificazione del territorio; nuove aree di espansione
produttiva e residenziale sono altresì previste da
Albettone (che ha già una buona presenza di industrie), Alonte (che ha più addetti all’industria che
popolazione attiva) che ha previsto tuttavia singoli
progetti che mostrano l’emergere di una certa sensibilità ecologica (la costruzione di un ecocentro, il
monitoraggio delle attività estrattive e un impianto
di fitodepurazione); Villaga (che ha già una base
consistente di addetti all’industria) ha predisposto
una variante al PRG per la realizzazione di una
zona produttiva e residenziale.
Si sono riscontrati anche esempi di Comuni che
hanno cercato (con successo o meno) l’accordo
per realizzare un’area produttiva comune: in questa direzione si sono mossi i Comuni di Agna,
Anguillara, Bagnoli di Sopra, Tribano e Arre; i
Comuni di Boara Pisani, Stanghella e Vescovana
che hanno cominciato a pensare a delle strategie
associate di sviluppo industriale per complessivi
1.000.000 di mq.
Accanto a questa espansione delle aree produttive,
si sono riscontrati anche progetti di espansione
residenziale; come nel caso del Comune di Agna,
di Vescovana, di Boara Pisani, dove si sta costruendo una nuova area residenziale di 100.000 mq
complessivi (attrezzata a verde e provvista dei
principali servizi -scuola, farmacia-, etc.); etc.
Tuttavia, le attività che si pensa di insediare nella
maggior parte dei casi non trovano un progetto a
monte da parte dei singoli Comuni o da parte dei
Comuni tra di loro e queste nuove previsioni
avvengono sostanzialmente in assenza di una programmazione (alcuni provvedimenti per mitigare
gli effetti dell’espansione produttiva sono presi dai
singoli Comuni limitatamente al territorio comunale di propria giurisdizione; ad esempio, in previsione di un aumento di traffico, spesso sono previsti spostamenti delle arterie di attraversamento dei
centri abitati verso anelli periferici per mitigare gli
effetti della circolazione di troppi veicoli).
71
n.11 / 2005
5. L’ambiguo rapporto tra costi della crescita
e risorse ambientali nell’area target del GAL
patavino
Quasi un anno fa, è arrivato l’ottavo Rapporto
Demos a spiegarci che il NordEst, la “locomotiva
d’Italia” è finito, che si è stancato di lavorare, che il
benessere costruito può bastare e che bisogna pensare a difenderlo e a salvaguardare la qualità della
vita, con attenzione soprattutto all’ambiente e al
territorio, che sono stati oggetto di un uso a volte
indiscriminato e comunque fortemente intensivo.
Contemporaneamente, negli stessi giorni, è arrivato anche un rapporto di Ricerca della Fondazione
Nord Est su: Rovigo 2004. Sfide e opportunità per
la società e l’economia che ci ha spiegato che il
futuro di quest’area può consistere, da un lato, nell’incentivazione di tipologie di produzioni innovative e ad alto valore aggiunto (quali ad esempio
quelle, attualmente in espansione, del settore della
telefonia e degli apparecchi tecnologici); dall’altro,
nell’agricoltura biologica e in nuove tecniche di
sfruttamento dei terreni che ne aumentino la resa e
la produttività, conciliandosi con la preservazione
dell’ambiente rurale. La lettura congiunta di queste
due ricerche, si può così sintetizzare: nelle aree
troppo contaminate dagli inquinamenti provocati
dall’eccesso di sviluppo si chiede che si realizzino
meno capannoni, mentre nelle aree non ancora
contaminate si spera in un modello di sviluppo
alternativo e in una maggiore consapevolezza e
controllo della crescita economica e degli effetti sul
territorio delle scelte di sviluppo.
Queste due ricerche sono state fatte, più meno,
dagli stessi ricercatori. Diverso è solo il committente: nel vicentino, hanno commissionato la ricerca l’Associazione Industriali e la Banca Popolare di
Vicenza; nel rodigino, ha commissionato la ricerca
il Consorzio di Sviluppo del Polesine. Sui giornali
locali le due ricerche sono finite insieme, descritte,
a volte, nella stessa pagina e il lettore si è formato
l’opinione che le due ricerche presentassero un
quadro che, integrato, poteva dare l’immagine
completa dell’evoluzione attuale del Nord Est: disinvestimento al di sopra della linea Milano-Venezia
e investimento alternativo, nel senso di non inquinante, nella bassa fino al Po.
72
I due gruppi di ricercatori hanno svolto il loro lavoro fermandosi solo alle risposte che gli operatori
economici, da loro contattati, hanno fornito a un
questionario strutturato. Il problema è che questo
tipo di strumento, spesso, descrive atteggiamenti e
non coglie i più realistici comportamenti.
E qui va chiarito che si intende con il termine
atteggiamento ciò che la gente dice di desiderare o
voler fare. Il questionario, per quanto possa contenere domande su comportamenti, ottiene quasi
sempre risposte su atteggiamenti. È atteggiamento
anche l'opinione, il sentimento, la credenza o la
preferenza dichiarata. Siccome nel questionario
strutturato quello che si ottiene, attraverso le
risposte, è ciò che si dichiara (cioè il come ci si
atteggia) la risposta su atteggiamenti è sempre, per
definizione, non affetta da errori di alcun tipo.
L'errore comincia quando si confonde l'atteggiamento con il comportamento. Comportamento o
behaviour è, invece, ciò che la gente fa, ha fatto o
farà. Nel questionario strutturato, la domanda sul
comportamento spesso si rivela una domanda sull'atteggiamento corrispondente perché l'informazione fornita riguarda non ciò che effettivamente si
fa, bensì ciò che la gente vuole far sapere di voler
fare, di avere fatto o di stare facendo. Tuttavia, una
intervista in profondità, cioè un colloquio con l’intervistato basato su domande precise e richieste di
approfondimenti sulle dichiarazioni che questi va
facendo, molto più facilmente permette di cogliere i comportamenti reali.
Nelle nostre interviste a quasi tutti i sindaci dell’area target del PSL del GAL patavino, la domanda
che regolarmente veniva fatta, dopo avere ricevuto
le affermazioni sul modello di sviluppo sostenibile
che si stava perseguendo nel proprio Comune, era
quella relativa alle recenti modifiche apportate al
Piano Regolatore. Capitava, così, di ricevere adesioni - all’ipotesi di puntare su uno sviluppo alternativo, sull’alta tecnologia (più raramente sull’agricoltura biologica essendo evidente che il ricambio
generazionale impediva anche soltanto di mantenere molte delle produzioni tipiche della zona) molto simili a quelle che la citata ricerca su Rovigo
2004 ha riscontrato. Solo che, quando si passava
alla presentazione delle varianti apportate al Piano
Regolatore, cioè al piano concreto dei comporta-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
menti della Giunta e del Consiglio comunale, il
quadro cambiava completamente: tutti i Comuni o
quasi si erano affrettati, da tempo, ad approvare
varianti ai Piani Regolatori sia per aree artigianali o
industriali che per l’edilizia residenziale. Come
abbiamo già avuto modo di considerare erano così
sorti, in ogni Comune, anche piccolo, che fosse in
prossimità della Valdastico o di una bretella o di
una strada a scorrimento veloce, centinaia di
capannoni in un periodo in cui l’economia appariva chiaramente in crisi. Inoltre, malgrado la crisi,
tutti i sindaci hanno assicurato che i capannoni
erano già stati acquistati, praticamente sin da
quando erano stati terminati.
Nella nostra ricerca, nella prima parte delle interviste, quando si è domandato ai sindaci dei progetti
di sviluppo sostenibile, si è sentito dare risposte
analoghe: nelle zone più industrializzate della provincia di Padova, si è sostenuto, è ora di finire di
costruire nuovi capannoni e nuove imprese ed è
necessario cominciare a pensare a un migliore uso
del territorio e a una conseguente migliore qualità
della vita; nella “bassa padovana”, si è spesso ripetuto, bisogna puntare su modelli di sviluppo alternativi rispetto a quelli dell’alta vicentina e del
padovano. Quindi, su uno sviluppo basato sulle
nuove tecnologie e sull’agricoltura biologica. Solo
nella seconda parte dell’intervista, quando si è
cominciato a parlare di varianti ai piani regolatori,
si è cominciato a capire che la cementificazione del
territorio stava procedendo inesorabilmente in
una direzione che le retoriche argomentative dei
singoli non erano disposte ad ammettere.
Questo ci ha portato a concludere che, malgrado
gli atteggiamenti, dal rodigino al vicentino siano
concordi nel sostenere che non si crede più nel
vecchio modello di sviluppo del Nordest e non lo
si vuole, i comportamenti di fatto sono di segno
contrario: il vecchio modello di sviluppo del
Nordest non è finito, non è sparito dalla testa di
molti attori politici ed economici; l’agricoltura
alternativa, sognata nel rodigino, è la stessa agricoltura alternativa che veniva sognata, fino a pochi
anni fa, nella bassa padovana e che, adesso, è
diventata impossibile perché è sparita sotto i colpi
di una decisione presa, oramai in corso di attuazione: la realizzazione della Valdastico, l’autostrada
che è destinata a congiungere Trento e Rovigo, via
Vicenza e la Transpolesana.
5.1 I problemi ambientali
Quello che è mancato, in queste interviste, è la percezione dell’insieme: nessun sindaco sembrava
accorgersi che si trovava in una situazione come
quella descritta da Jon Elster come esempio di razionalità parziale. La storia è la seguente: dieci famiglie
di contadini hanno il podere in riva a un fiume.
Sull’argine di ogni podere, vi è una fila di alberi la
cui funzione è quella di contenere gli argini. Un contadino pensa che il taglio dei suoi soli alberi non
metterà a rischio questi argini che saranno ancora
contenuti dalle radici degli alberi dei vicini. Quindi,
decide di tagliare i suoi alberi e di aumentare la produzione di seminato. Cosa che gli permette di
aumentare di una percentuale più o meno piccola il
proprio reddito. La logica di questo contadino si
dimostra ineccepibile, allo stato dei fatti. Di fronte al
suo risultato positivo, anche gli altri contadini decidono di essere razionali e di tagliare i loro alberi in
riva al fiume. Anche essi seminano e aumentano il
loro reddito il primo anno. Nell’inverno, però, la
prima piena delle acque del fiume strappa ai loro
campi più terreno di quanto ne occupassero gli
alberi sugli argini. Il risultato della somma di tante
decisioni razionali individuali non è sempre uguale
alla somma dei risultati parziali. La razionalità collettiva, infatti, funziona sulla base di altri principi e sul
presupposto della cooperazione.
Se tutto questo è vero, vuol dire che molti hanno
perso quell’occasione di sviluppo alternativo che
tutti, a bocce ferme e non pressati dalle offerte, consideravano o considerano essere la più desiderabile.
I fattori che più emergono come capaci di rivoluzionare completamente il territorio sono:
- la costruzione di nuove strade a scorrimento
veloce (soprattutto le autostrade)
- il ricambio generazionale in agricoltura
Questo si sta verificando in un territorio, come
mostra la cartina di seguito (fig.3), in cui l’incidenza percentuale dell’edificato per ettaro è già molto
elevata (la previsione è che il relativo vuoto che si
riscontra a sudovest di Padova e a Sud di Vicenza
sarà presto colmato per la costruzione della
73
n.11 / 2005
Valdastico Sud).
5.2 Il traffico
Il primo di questi due fattori (costruzione di autostrade) sembra ovvio, ma non lo è affatto se si
pensa che esso interviene a rivoluzionare il territorio molto prima che l’opera in questione sia messa
in cantiere. Un esempio viene dato dal progetto di
Fig.3
Fonte : PTRC Regione Veneto
Consistenza dell’ edificazione : Processi di diffosione
74
realizzazione del prolungamento della Valdastico a
Sud, su cui già ci siamo soffermati. Nell’attesa che
sia costruita, i sindaci dei Comuni vicini o prossimi
ai Comuni attraversati o adiacenti al percorso dell’autostrada si stanno organizzando con varianti a
piani regolatori per costruire tangenziali, bretelle e
zone industriali che saranno operative molto
prima che l’autostrada sia conclusa.
Il fatto è che ogni autostrada agisce più in profondi-
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
tà di quanto si presuppone e coinvolge, spesso, nel
sistema viario che ne consegue, non solo le strade
parallele, ma anche quelle trasversali. Con un problema, però: strade parallele e trasversali agiscono
in modo non sempre omogeneo sul territorio; infatti, più in profondità agiscono i sistemi viari (cioè più
lontano vanno su linee trasversali e più lontano portano gli effetti in termini di sviluppo produttivo),
più dolorose e inspiegabili sono le sacche che
rimangono non toccate da questo sviluppo.
Quando si parla del sistema viario del Nordest, che
è oggettivamente carente, si parla di una rete di
strade che, troppo spesso, è al servizio di una politica di decentramento produttivo e non uno strumento di razionalizzazione degli insediamenti produttivi. Pensiamo, per esempio, al sistema viario
che va da Padova a Rovigo: viene servito dall’autostrada Padova Bologna, che ha pochi caselli e,
quindi, si è pensato bene di accompagnare questa
arteria con una (relativamente) veloce strada parallela che ha il compito di far passare Comune per
Comune il traffico che altrimenti salterebbe i
comuni tra un casello e l’altro. Ottima soluzione
che non ha, però, impedito che il traffico (accompagnato dallo sviluppo delle attività produttive) si
muovesse in profondità da Monselice verso Este e
oltre, creando quasi sempre una specie di corteo
che si muove a passo d’uomo, a qualsiasi ora, nel
tratto che va intorno ad Este ed oltre Este.
Malgrado le enormi difficoltà di scorrimento, niente impedisce che quelle stesse aree, già in difficoltà, e quelle vicine, siano le aree in cui più consistente è la diffusione di nuove attività produttive.
Il sistema viario che sarà realizzato attraverso la
Valdastico dovrebbe essere caratterizzato da
numerosi caselli: praticamente uno per ogni
Comune per il quale l’autostrada passa. Questo
renderà inutile la costruzione o il rafforzamento di
una parallela provinciale all’autostrada. Se, come
molti si aspettano, quell’autostrada porterà sviluppo industriale, è da ipotizzare che l’area dei colli
finisca per diventare, come già si sta accingendo ad
essere, un grande parco interno a una vasta area
metropolitana, che si troverà imbrigliata tra tre
tratti autostradali (Vicenza-Padova; Padova-Rovigo;
Valdastico Sud) e un tratto della Transpolesana
(Badia Polesine-Rovigo); con la conseguenza che si
alzerà di molto la percentuale dell’edificato tra
Padova, Vicenza, Badia Polesine e Rovigo e si creerà un barriera tra Colli Euganei e Colli Berici.
Qualcosa di analogo (diventare una specie di
parco interno a un’area metropolitana) potrebbe
succedere anche ai Colli Berici, per quanto la sensazione sia che essi siano più lontani dal correre
questo rischio.
Per quanto molti comitati aspettino che i loro
ricorsi blocchino tutti, la sensazione è che queste
cose si faranno. Nel frattempo, il semplice annuncio del loro farsi ha già portato a un rivolgimento
colossale perché si sono suscitate ambizioni incontenibili.
Un problema è che non necessariamente la
Valdastico diffonderà con uniformità tutti i suoi
vantaggi: qualche area avrà ritmi di sviluppi deludenti, rispetto alle aspettative suscitate; altre
avranno ritmi di sviluppo superiori a quelli previsti
e, presumibilmente, nel punto di sbocco della
Valdastico, la Transpolesana che porta da Piacenza
d’Adige a Rovigo e all’autostrada Padova-Bologna,
si creerà una vasta area di insediamenti produttivi
che frantumerà le caratteristiche di uniformità
della bassa padovana.
E siccome lo sviluppo si paga, occorrerà domandarsi quali saranno i costi di questo stravolgimento
che si preannuncia radicale e repentino; anzi, dal
momento che, a volte, i costi si diffondono nel territorio attraverso l’acqua, l’aria, il traffico, etc.,
molti costi potrebbero risultare suddivisi o condivisi tra più Comuni, mentre i vantaggi potrebbero
essere concentrati su un minor numero di
Comuni.
Abbiamo sentito molti sindaci dire: se solo ci fosse
un ponte che attraversi questo fiume o una bretella che faccia questo percorso, etc., i vantaggi in termini di sviluppo sarebbero immediati. Abbiamo
preso sul serio, senza porci alcun dubbio, queste
considerazioni fin quando non ci è successo di
percorrere una delle strade che il sindaco, che
avevamo appena intervistato, aveva segnalato
come il problema che impediva lo sviluppo della
zona. Il sindaco sognava una bretella a scorrimento veloce ed affidava alla bretella la soluzione di
molti dei problemi del suo Comune. Solo che,
ritornando in macchina verso Padova, ci siamo
75
n.11 / 2005
accorti che occorrevano dieci minuti per percorrere la strada definita insoddisfacente. Forse è stato
un caso, forse è stata l’ora favorevole, ma ci è venuto il dubbio che la costruzione di una bretella
avrebbe ridotto di soli cinque minuti il percorso
verso quel paese e cinque minuti in più non ci
sembrano un ostacolo così insormontabile da
costituire la causa dei ritardi nello sviluppo. La
rimozione di questo preteso ostacolo non ci è
sembrata una politica sufficiente a risolvere i problemi lamentati nell’intervista.
Quest’esempio ci è sembrato la prova di comportamenti che, a volte, non sono affatto dettati da visioni strategiche condivisibili: sembra quasi un luogo
comune che si ripete da anni nel NordEst e che consiste nel chiedere strade sempre migliori e sempre
più veloci attribuendo a queste i motivi del mancato
sviluppo di alcune aree e delle difficoltà di altre aree.
Una ricerca condotta con lo stesso metodo dell’intervista in profondità (e realizzata da alcuni ricercatori del Dipartimento di Pianificazione dello IUAV
di Venezia) sta mostrando che anche nel rodigino
si sono progettate numerose zone industriali, nella
forma di vere e proprie macroaree produttive e in
assenza di una programmazione-quadro o di motivazioni credibili per giustificare dimensioni così
ingenti (con buona pace della ricerca Rovigo 2004
che ha colto solo gli atteggiamenti): si parla infatti
di 6.000.000 di metri cubi di nuove espansioni (non
è stato possibile quantificare con esattezza i milioni
di metri quadri progettati o già realizzati nella bassa
padovana, ma le cifre sono più o meno quelle) e in
assenza, tranne che in pochi casi attribuibili all’impegno specifico di singole amministrazioni comunali, di piani e procedure di selezione delle tipologie di produzione (non soltanto sotto il profilo dell’impatto ambientale ma anche del valore aggiunto
e del contenuto di innovazione delle produzioni).
Quindi, identica situazione di atteggiamenti retorici che puntano su modelli di sviluppo alternativi
(alte tecnologie e agricoltura biologica o specializzata) e di comportamenti reali che li smentiscono
(sia nel rodigino che nella bassa padovana). Con
una differenza, però: che le aree lottizzate costruite
nel rodigino restano, per il momento, o non urbanizzate o urbanizzate e invendute, mentre sono
dichiarati tutti venduti i capannoni costruiti nella
76
bassa padovana.
La differenza è attribuibile all’effetto atteso dalla
Valdastico perché la situazione di crisi delle piccole e medie imprese del Nordest in questi ultimi
anni non giustificherebbe la costruzione di tanti
capannoni in nessuna delle due aree. Se, quindi, i
capannoni vengono venduti nel quadrilatero
Padova-Vicenza-Badia Polesine-Rovigo e non vengono venduti nelle aree a Sud o a Est, ciò dipende
dal fatto che la speculazione sui capannoni punta
su un’area che si presenta con tutte le caratteristiche dell’area destinata, appena finita l’autostrada,
a ritmi di cementificazione molto elevati.
Questo ha due conseguenze. Una politica e l’altra
economica.
Cominciamo da quella politica: tutti i politici della
provincia e della città di Padova hanno gli occhi
puntati verso Treviso e Venezia, come a un’unica
area metropolitana che dovrebbe condividere
identici problemi e prospettive e che, quindi, nel
futuro, dovrebbe darsi un coordinamento. Se ne
parla tanto sui giornali e sui mass media provinciali e regionali, mentre sta sfuggendo un fenomeno
ancora più macroscopico che si sta realizzando in
un’area più vasta che dovrebbe, presumibilmente,
conoscere ritmi di urbanizzazione molto elevati
nei prossimi dieci anni. Il fenomeno non solo non
è previsto, ma nemmeno sospettato: questo impedirà, presumibilmente, che si prendano misure per
impedire che questo sviluppo avvenga in modo
disordinato e attraverso uno spreco enorme di territorio di cui, tutti, più in avanti, avranno di che
lamentarsi. La provincia di Padova è, ovviamente,
interessata in pieno da questo fenomeno ed è proprio la provincia quella che meno di tutti ha percepito la dimensione del fenomeno. Questo malgrado le varie occasioni costituite dall’implementazione di politiche di natura contrattuale come il
Patto Territoriale Generalista della Bassa
Padovana, attivato nel 2001, che come abbiamo
visto vede assieme, oltre alla Provincia di Padova,
46 Comuni su 104 della Provincia di Padova (23
comuni dell’area target ne risultano compresi) e il
Patto Territoriale specializzato in Agricoltura della
Bassa Padovana, sempre del 2001, che ha coinvolto 51 Comuni dei 104 della Provincia di Padova (e
22 Comuni dell’area target).
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
BELLUNO
TREVISO
Fig.4
Fonte:
Piano Regionale dei Trasporti del
Veneto 2004.
VICENZA
VERONA
VENEZIA
PADOVA
Rete Autostradale :
linee continue autostrade esistenti
linee tratteggiate autostrade di progetto
ROVIGO
BELLUNO
FELTRE
CONEGLIANO
PORTOGRUARO
CITTADELLA
PIOVENE
ROCHETTE
TREVISO
VICENZA
MESTRE
PADOVA
VENEZIA
SAN BONIFACIO
VERONA
MONSELICE
VILLAFRANCA
DI VERONA
ROVIGO
CHIOGGIA
Fig.5
Fonte:
Piano Regionale dei Trasporti del
Veneto 2004.
Rete Stradale Primaria :
linee continue reticolo stradale esistente
linee tratteggiate strade di progetto
77
n.11 / 2005
Con nessuno di questi due patti si è percepita la
dimensione del fenomeno in atto della speculazione sulle aree industriali che stanno spingendo
verso la riproduzione del modello del NordEst in
queste aree in cui il territorio non aveva ancora
subito veri e propri traumi (anche a causa di una
agricoltura intensiva e specializzata che ormai non
regge più al rapido ricambio generazionale).
Questo malgrado tutti i sindaci intervistati, indipendentemente dal loro essere di destra o di sinistra, abbiano sempre dichiarato che il Presidente
della Provincia si stia movendo abilmente spingendo verso forme di cooperazione fortemente regolate dall’alto. Questo metodo della regolazione dall’alto, che intraprende iniziative di partecipazione
strumentali alla costruzione del consenso su decisioni già prese, evidentemente non funziona, non
è capace di cogliere realmente le esigenze del territorio. Passiamo, ora, alla conseguenza economica: la piccola e media impresa è in difficoltà; ciononostante, si fanno molti capannoni e vi sono
altrettanti acquirenti; è evidente che vi è in circolazione un eccesso di capitali che si sta indirizzando
verso la speculazione immobiliare; è una situazione frequente in periodo di crisi, quando non si
vuole lasciare inutilizzato il proprio danaro; solo
che questa volta la speculazione si concentra sui
capannoni. L’ipotesi è che si stia realizzando anche
una riorganizzazione delle attività attraverso la
delocalizzazione: le imprese che lavorano per
conto terzi hanno sempre rappresentato il vero
motore dello sviluppo del NordEst; imprese che
diventavano grandi hanno incoraggiato loro operai
ad acquistare macchine e decentrare varie fasi
della produzione all’esterno della prima società; a
loro volta, i più fortunati di questi operai hanno
potuto fare altrettanto con altri operai, una volta
che si sono sviluppate le imprese, i margini di guadagno che venivano lasciati alle imprese per conto
terzi sono stati, comunque, negli scorsi decenni,
abbastanza elevati. Ora, potrebbe non essere più
vero: l’accaparramento di capannoni potrebbe
essere realizzato da imprenditori che prospettano,
per il loro settore, vacche sempre più magre nei
prossimi anni e, quindi, sono intenzionati ad affittare questi nuovi capannoni a loro terzisti disposti
a lavorare per loro con margini di profitto molto
78
più bassi rispetto al passato. La minaccia della
rescissione del contratto di affitto potrebbe costituire la forma di pressione che permette di costruire rapporti di scambio a sfavore dei terzisti.
Questa ipotesi non è così campata in aria se si
pensa che, proprio in questo periodo di crisi,
nuove schiere di imprenditori e artigiani sono
state arruolate tra gli extracomunitari, cioè categorie sociali più deboli contrattualmente dell’abitante del posto. Se questo è vero, il modello del
NordEst è destinato a rimanere ancora vivo e vitale, ma al costo di un assottigliamento dei margini
di profitto complessivi che, nelle nuove categorie
di artigiani e imprenditori, non sarà distinguibile
dal puro salario.
5.3 Il ricambio generazionale in agricoltura
L’agricoltura è la grande malata di quest’area.
Eppure si era pensato e si pensa tuttora all’agricoltura come risorsa, come potenzialità da sfruttare
con logiche da filiera che salvaguardassero l’ambiente. E di potenziali filiere se ne sono individuate tante nell’elaborazione del Piano di Sviluppo
Locale del GAL patavino.
Abbiamo riscontrato, invece, che è in corso un
processo ben diverso che può essere descritto
come passaggio dall’agricoltura specializzata (ad
alta intensità di utilizzo di lavoro umano) alla agricoltura estensiva (ad alta intensità di utilizzo di
macchine).
I piccoli appezzamenti di terreno tradizionali vengono abbandonati dalle nuove generazioni e la
tendenza è quella di riunirne tre o quattro in un
appezzamento unico di media grandezza per renderli attraenti dal punto di vista dell’agricoltura
estensiva. Questo porta a minori introiti per ettaro,
ma con il vantaggio di minor costo del lavoro per
ettaro. La conseguenza è che i minori costi compensano i minori ricavi a partire dalla dimensione
media dell’appezzamento da coltivare.
Quindi, il vantaggio in termini di calcolo economico (in un contesto in cui il lavoro è sempre più
scarso e più caro) è a favore dell’estensivo (motivo
per cui, con il ricambio generazionale, tanti più
campi vengono coltivati estensivamente).
Questo sarebbe un bene se non vi fossero degli
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
svantaggi:
1) una diminuzione costante della qualità dei prodotti coltivati (esemplare il caso del grano padovano che è diventato, a detta di alcuni, quasi immangiabile e viene regolarmente tagliato con grano
americano di rinforzo);
2) la sparizione progressiva di alberi e siepi che,
una volta, frenavano i venti che, adesso, senza
ostacoli, spazzano i campi e asportano la terra
secca di superficie;
3) il degrado progressivo delle vie di deflusso delle
acque (fossi e canali) sia per i rifiuti che vi si accumulano senza che alcuno se ne curi con la frequenza e solerzia necessaria, sia perché la seminazione automatica spesso deborda nel fosso e riempie di radici e, poi, di erbacce;
4) il problema della compresenza di attività produttive a rischio ambientale (retaggio di un passato in cui i Comuni non sono stati in grado di selezionare le industrie che volevano insediarsi) e di
colture biologiche (ad esempio a Bagnoli di Sopra
si riscontra un inquinamento per la lavorazione di
PVC, nylon e materie plastiche e un innalzamento
del conflitto tra la popolazione locale e i coltivatori biologici riuniti in comitati, da una parte, e dall’altra, imprenditori del settore industriale).
Tutto questo tende a delineare uno scenario
preoccupante: per il ricambio generazionale che
non si realizza; per il fatto che alcune coltivazioni
estensive sono sopravvissute in questi anni anche
grazie ai contributi della PAC (Politica Agricola
Comune), una politica tipicamente distributiva che
ha impegnato fino ad oggi poco meno del 50% dei
fondi comunitari. Ma, la PAC è stata oggetto di un
lungo processo di riforma che muove decisamente
nella direzione dello sviluppo rurale e verso la considerazione dell’agricoltura come settore produttivo fortemente interconnesso con la sostenibilità
ambientale e la salute pubblica; inoltre, lo scenario
di questa politica nella situazione dell’UE allargata
a 25 Paesi è profondamente mutato sotto l’aspetto
budgetario: si sa che ci sarà un sostanzioso spostamento dei contributi a favore dei Nuovi Paesi
Membri. Tuttavia, solo pochi tra i sindaci intervistati hanno fatto riferimenti espliciti alle conseguenze di questi mutamenti per l’economia locale
(certamente se ne preoccupano il sindaco di
Vescovana e il sindaco di Megliadino S. Fidenzio).
Come se il problema, per gli altri, non esistesse o
non fosse rilevante. Probabilmente, questo è un
problema che interesserà i sindaci che verranno.
Forme di agricoltura estensiva prevalgono a Masi,
dove si riscontra la perdita dei frutteti e si fa sentire molto il problema del ricambio generazionale,
legato anche all’alto indice di invecchiamento della
popolazione. Inoltre il mancato controllo dei fossi
produce, a volte, allagamenti, mentre la sparizione
di alberi e siepi ha effetti sulla circolazione dei
venti e sulla tenuta del suolo (nel caso di Masi,
sono i Comuni vicini che creano, con i fossi ostruiti, allagamenti in alcune zone residenziali del
paese); l’inquinamento del Fratta costituisce un
problema per la campagna oltre che per la salute e
se ne denuncia la dannosità. Situazioni analoghe si
riscontrano a Megliadino S. Vitale (anche nelle Valli
dove era stata sempre intensiva), a Tribano, ad
Arre, dove la tendenza prevalente è alla trasformazione dell’agricoltore in lavoratore part-time; a
Cinto Euganeo, se un prezioso apporto all’economia del Comune è dato da decine di imprese agricole sparse in un territorio vasto, molte di queste
sono imprese realizzate da lavoratori di altri settori che, part-time, fanno ancora gli agricoltori (il
venire meno di questa delicata organizzazione
doppiolavoristica è visto dagli amministratori
come un fatto grave che farebbe crollare del tutto
l’economia locale); a Vescovana, l’agricoltura ruota
intorno a poche grosse aziende affidate in mano a
terzisti; a Boara Pisani si osserva (dall’intervista al
sindaco) come la mentalità tipica contadina sia
restia alla logica del lavorare in cooperativa; a
Galzignano Terme, si lamenta la mancanza di marchi di commercializzazione dei prodotti agricoli,
così come a San Germano dei Berici si riscontra la
difficoltà di far riconoscere con marchio proprio
alcuni prodotti locali di pregio (come ad esempio
il prosciutto della Val Liona) e ad Arquà la mancanza di un marchio comune per i prodotti dell’agricoltura e in particolare per la commercializzazione dell’olio; a Megliadino S. Fidenzio, gli agricoltori sono sempre di meno, spesso lavorano per
conto terzi (non sono proprietari dei terreni) e
coltivano prodotti non specifici della zona per venderli nei territori che hanno il marchio su quei pro-
79
n.11 / 2005
dotti; a Terrazzo, vi è difficoltà a trovare il numero
di aziende necessario per realizzare il distretto alimentare che potrebbe rappresentare un’opportunità per la zona; etc.
La scomparsa dell’agricoltura intensiva, e del tipo
di agricoltore attivo in questo modo di coltivare la
terra, significa anche la scomparsa dell’attività agricola più vicina a quell’obiettivo di sviluppo sostenibile che sempre più importanza sta acquistando,
in ambito UE. La prima conseguenza dell’agricoltura estensiva è che sempre di meno sono curati
gli argini e i fossi e sempre di più gli alberi sono
considerati come degli ostacoli alle macchine che
lavorano la terra e come un elemento improduttivo. Nel fosso non si può seminare e, ai lati del
fosso, spesso, si trovano degli alberi (e anche questo sottrae terra alla coltivazione). La conseguenza
è stata che i fossi ricoperti o seminati, spesso, rendono difficile il deflusso delle acque. Una volta,
dalla strada, non si riusciva a vedere il primo piano
dei casali perché lo impedivano le file di alberi che
segnavano confini o fossi e argini.
Continuando così sempre meno finanziamenti
dell’Unione Europea potranno essere intercettati
da aziende ed enti locali. Infatti, è presumibile che,
dopo l’ingresso di altri dieci nuovi Paesi nell’UE,
saranno finanziati soprattutto quei progetti finalizzati al sostegno dell’agricoltura come attività che
garantisca sviluppo sostenibile. Ed anche qui i
documenti dell’UE sono molto chiari: solo attraverso cooperazione e sussidiarietà orizzontale si
può fare vero sviluppo sostenibile. Tutto questo
malgrado i sindaci sostengano che i contadini
veneti sono abituati a fare tutto da soli e sono poco
disponibili a queste nuove forme di cooperazione.
Ci sembra, inoltre, che la malattia dell’agricoltura
sia anche collegata con il problema della proliferazione di aree residenziali e produttive. Spesso si ha
la sensazione, dalle interviste effettuate, che la
richiesta di linee di scorrimento più veloci, ma
anche le varianti al piano regolatore per costruire
aree produttive o aree residenziali derivano,
soprattutto, dal fatto che il bisogno di costruire si
sposa con il problema del ricambio generazionale.
Vi è un continuo e costante ritmo di abbandono
delle campagne: molti agricoltori, che si ritirano
dall’attività o vanno in pensione, non sono sostitui-
80
ti da figli che facciano dell’agricoltura il loro lavoro
a tempo pieno. La conseguenza è che, spesso, laddove per vari motivi non è possibile passare o passare subito alla coltivazione estensiva (per la quale
ci vogliono campi più estesi di quelli lasciati liberi
dagli agricoltori anziani che abbandonano le coltivazioni intensive) l’esproprio da parte del comune
è più gradito e desiderato di quanto dovrebbe.
Anzi, a volte è persino sollecitato. Lo dimostra il
fatto che, solo in pochi Comuni, sono stati segnalati conflitti, per le varianti ai piani regolatori, tra agricoltori che vogliono difendere la propria attività
tradizionale e amministratori che vogliono costruire vaste aree produttive e residenziali. Alcuni di
questi conflitti sono stati contenuti in limiti accettabili; altri sono conflitti ancora latenti che i sindaci
(malgrado gli evidenti cartelli di protesta all’ingresso di alcuni Comuni) tendono ancora a sottovalutare. Questo è, anche, segno della crisi agricola perché, laddove l’attività agricola è ancora fiorente, i
conflitti tra agricoltori, che difendono le loro terre
dall’esproprio e gli amministratori comunali, sono
spesso talmente forti da produrre la presentazione
di liste civiche. Un conflitto di questo genere si è
verificato a Maserà, dove è sorto un comitato per
ridimensionare l’area artigianale che doveva svilupparsi al posto di aziende che producevano il noto
radicchio di Maserà. Non è questo il contesto per
approfondire tale questione, anche perché Maserà
è fuori dell’area target, ma ne segnaliamo la rilevanza, in quanto siamo convinti che solo dove l’agricoltura non è più considerata una risorsa strategica, il consumo del suolo può essere così elevato
come è emerso dalle nostre interviste.
Infine uno dei problemi prevalenti dei Comuni dell’area target che hanno l’attività agricola come preponderante è l’alta frammentazione della proprietà
agricola, anche se vi sono eccezioni dove le grandi
proprietà adatte per la coltivazione estensiva esistono da sempre (Agna è uno dei pochi casi in cui
le grandi proprietà agricole sono rimaste intatte
nelle loro dimensioni, più o meno, da sue secoli,
dalla Rivoluzione Francese, quando alcune famiglie
veneziane, di religione ebraica, affrancate dai limiti
giuridici prima esistenti per gli ebrei, hanno potuto
diventare proprietari di terra e hanno deciso di
investire nel Comune di Agna).
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
Vi sono tuttavia delle situazioni in controtendenza
rispetto al prevalere dell’agricoltura estensiva. Per
esempio, a Castelbaldo l’economia rurale è diventata anche occasione per la nascita di un settore
agroalimentare; le attività di trasformazione dei prodotti agricoli sono organizzate nell’ambito di una
grossa cooperativa incentrata sulla lavorazione della
frutta. Più in generale, molte aziende si sono inoltre
orientate all’agricoltura biologica, per quanto si evidenzi ancora l’assenza di strategie di operazioni di
marketing dei prodotti, per cui pur essendovi sperimentazioni innovative interessanti, esse stentano a
trovare sbocchi adeguati all’esterno per una mancata o scarsa visibilità di quello che si produce.
Anche Anguillara presenta una agricoltura dinamica e in particolare emerge la produzione tipica
della patata americana (si è riusciti ad arrivare al
marchio) e si è costituito un Consorzio della patata americana. Coltivazioni di tipo biologico e prodotti tipici (radicchio rosso, riso, vite, con la produzione del vino friularo doc) si trovano a Bagnoli
di Sopra, ad Arquà Petrarca (giuggiole, piselli,
olive, olio, miele e uva da vino), a Terrazzo (mela,
pera, pesca e vino), a Torreglia come a Galzignano
Terme (cultura intensiva della vite e produzione
di vini tipici), ad Arre (vino doc, ortaggi e vivai), a
Boara Pisani (alberi da frutta, patata americana e
ortaggi), che gode dei vantaggi di un ampio vicino
mercato di sbocco, soprattutto per gli ortaggi,
appena oltre Adige (Lusia). In quest’ultimo caso
l’ambiente rurale attraente e la ricerca di una
buona qualità della vita si sono tradotti in azioni di
valorizzazione dell’edilizia rurale di pregio e
dell’Adige, a fini di navigabilità e di visitazione turistica (con la costruzione, ad esempio, di attracchi
fluviali). Analogamente a Candiana la presenza di
produzioni specializzate (vino doc), di agriturismi
e di beni architettonici monumentali (Villa
Garzoni, Villa Renier, etc.) ha portato a rafforzare
le prospettive di sviluppo turistico, con progetti di
valorizzazione dei corsi d’acqua, di realizzazione di
piste ciclabili, con azioni di promozione di manifestazioni culturali e iniziative per lo sviluppo del
bosco (con il motto “un albero per ogni nato”,
l’amministrazione comunale e i cittadini hanno nel
tempo realizzato 22 ettari di nuovo bosco).
Nei Comuni dell’area Berica, a San Germano dei
Berici, Alonte Asigliano, Grancona e Albettone si
produce uva per vini DOC; ad Asigliano si riscontra anche la produzione di radicchio rosso; ad
Alettone la serricoltura; ad Orgiano si evidenzia l’apertura di un agriturismo didattico.
5.4 L’acqua
Tra i costi più gravosi, uno di questi sarà rappresentato dall’acqua. Il tema dell’acqua si farà ancora
più pregnante e urgente: è emerso, infatti, dalle
interviste che per trovare acqua, non solo nei
Comuni industrializzati, ma anche in quelli in cui
ancora prevalenti sono le attività tradizionali,
occorre prenderla da sempre più lontano e da sempre più in profondità. Questo fatto che oggettivamente spaventa, spinge anche verso l’esigenza di
affrontare i problemi in modo cooperativo. La sensazione che si ha è che molti si siano abituati a convivere con i problemi del progressivo inquinamento delle falde acquifere e dei corsi d?acqua (tranne
per il caso del Fratta Gorzone che spaventa tutti,
ma non per gli stessi problemi). Quello del Fratta
Gorzone è un problema troppo complesso, da una
parte, e, dall’altra, se ne stanno già occupando
Regione e Provincia. Il fatto che la gente sia consapevole e non guardi con emotività il problema dell’acqua (a cominciare da quello dei pozzi) può
essere di aiuto ad affrontarlo in termini cooperativi,
ma è anche il sintomo di una sottovalutazione della
questione. Sono anni che tutte le organizzazioni
mondiali segnalano che l’acqua, soprattutto quella
potabile, sarà il problema cruciale del secolo che è
appena iniziato. Persino il pentagono ha lanciato
un allarme considerando l’acqua come la risorsa
che sostituirà il petrolio come causa dei conflitti
internazionali. Non ci vuole molto per sostenere
che sarà anche un elemento di conflitto tra aree
industriali e non, tra aree dove l’acqua è ancora
pulita e aree dove non lo è più.
Infatti, più si va lontano per cercare e convogliare
acqua, più si è dipendenti da tutti i territori attraversati da quella conduttura: già adesso, d’estate,
certi acquedotti non riescono a portare acqua a
sufficienza fino agli ultimi Comuni allacciati a quella rete idrica. Presto questi conflitti tenderanno ad
acuirsi e ad intensificarsi. Analoghi conflitti si svi-
81
n.11 / 2005
lupperanno sul tema di chi inquina e con che cosa.
Già adesso sono state rilevate varie forme di
lamentele sul Fratta e Fratta Gorzone. La caratteristica di queste lamentele è che non sono coerenti:
vi è chi si lamenta del cromo esavalente che continua ad arrivare malgrado i depuratori cui sono da
anni allacciate le concerie della valle del Chiampo;
vi è chi sostiene che cromo non ce ne è più, ma ci
sono polveri in abbondanza; tutti, infine, che
lamentano che vi è tanta salmonella (e qualcuno
aggiunge che, pazienza, perché la salmonella è
ormai dappertutto).
Insomma, non pare essersi ancora sviluppato un
metodo di valutazione comune, nato da un confronto e da un’abitudine alla discussione. Eppure
un metodo comune deve essere trovato su questo
tema che sarà cruciale nei prossimi decenni. Anche
perché, se queste difficoltà per l’acqua sono già
appena sopportabili oggi, quando l’immagine del
territorio, per esempio intorno al Fratta, è un’immagine di territorio rurale, certamente meno lo
saranno in futuro quando, con la costruzione della
Valdastico, e se i progetti dei sindaci intorno ai
caselli dell’autostrada non si riveleranno delle utopie, il bacino del Fratta sarà percepito come un’area metropolitana a vocazione industriale. E, allora, tutto cambierà.
6. Conclusioni
Le dinamiche che interessano l’area che è stata
oggetto di osservazione rendono chiaramente percepibile la dimensione interlocale e contestuale
delle politiche pubbliche che in essa hanno corso,
dai nuovi progetti infrastrutturali alle varie scelte
localizzative alle iniziative per il turismo, per la conservazione e valorizzazione dell’ambiente, ecc.
Nell’attuazione delle politiche si determinano molteplici spazi d’interazione e hanno luogo effetti,
attesi e non, che producono cambiamenti e incidono sull’organizzazione e sull’assetto del territorio;
si ridefiniscono i sistemi di relazione e i ruoli che gli
attori hanno; cresce la trama delle interdipendenze
ed entrano in gioco le reti – più o meno formalizzate - di relazione territoriale come fattori organizzativi importanti; emergono nuove domande politiche e sociali. Se nella formazione dell’agenda poli-
82
tica e istituzionale locale si pone la questione dell’efficacia delle politiche di sviluppo, occorre sottolineare come la logica dell’intervento pubblico
(che, nell’implementazione locale corrente, si definisce nell’ambito dei confini amministrativi vigenti,
comunali o provinciali, e in rapporto alle strutture
di relazione e agli spazi di rappresentanza entro
questi istituzionalizzati) si dimostri inadeguata o
insufficiente a fornire risposte alle domande emergenti, che richiedono un ripensamento della governance locale e delle forme di amministrazione, con
particolare riferimento alle modalità di coordinamento e alle strategie di integrazione territoriale,
alle pratiche d’uso del territorio.
Emerge altresì con forza l’impegno da parte di istituzioni come le Province ad assumersi compiti di
programmazione e di guida, nella direzione della
“messa in coerenza” delle decisioni e delle iniziative dei singoli Comuni e della partecipazione attiva
degli attori economici e sociali alla costruzione
delle politiche territoriali. Questi Enti territoriali
utilizzano vari strumenti e pratiche di pianificazione e di intervento, sulla scia di programmi-quadro
nazionali ed europei o predisponendo iniziative
specifiche appositamente approntate. A tal proposito, la Provincia di Padova spicca per l’attenzione
volta, negli ultimi anni, ad operazioni di acquisizione di dati, informazioni, conoscenze sullo stato del
territorio e dei progetti in corso. L’azione continuativa di monitoraggio e mappatura è stata ritenuta prioritaria e funzionale alla programmazione
e alla progettazione di politiche e alla messa a
punto di singoli interventi. La consultazione del
sito Internet della Provincia (www.provincia.padova.it) mette il “visitatore” a fronte di una articolata
banca-dati, provvista di vari “portali” (dagli itinerari enogastronomici al patrimonio storico-architettonico, alle manifestazioni, alle fattorie didattiche,
ai distretti produttivi, ai patti territoriali, ecc.) e dei
documenti e materiali di ricerca, analisi per ogni
settore di politica. Alla voce “urbanistica”, ad esempio, compare una gamma di strumenti e piani per
come di seguito riportato: 1 ) Piano strategico provinciale; 2) Carta sulla permeabilità dei suoli della
Provincia; 3) Piano provinciale delle piste ciclabili;
4) Sistema delle reti ecologiche provinciali; 5)
Piano provinciale della viabilità; 6) Piano d’area
Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli
I progetti di territorio di 42 comuni veneti
regionale “Il Bilancere – Corridoio Metropolitano
PD-VE”; 7) Carta della navigabilità dei corsi d’acqua; 8) Censimento delle architetture vegetali; 9)
Mosaicatura provinciale dei piani regolatori comunali; 10) Documento di Valutazione Ambientale
Strategica (V.A.S.); 11) Studio di attualità del
P.U.R.T.; 12) Pianificazione sul sistema territoriale
della “Saccisica” e della “Bassa Padovana”; 13)
Linee guida EMAS per gli insediamenti produttivi.
Quest’attività assai ricca è avvenuta in buona parte
nell’ambito del percorso di elaborazione del
nuovo Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale (che è stato adottato nel 2004) per il
quale è stato messo su un vero e proprio osservatorio (non soltanto come centro di raccolta-dati,
ma anche di osservazione di “buone pratiche” e di
creazione di link e possibili spazi d’incontro tra settori e tra soggetti delle politiche territoriali). Un
apporto importante è costituito dalla mappatura e
informatizzazione delle previsioni dei PRG
Comunali che pur presentando ancora delle
incompiutezze offre finalmente e per la prima
volta un quadro delle trasformazioni territoriali in
atto. È possibile così assumere una visione d’assieme della crescita delle attività produttive e dell’espansione delle zone residenziali e industriali,
commerciali e dei problemi di eccessiva concentrazione e congestione di alcune porzioni di territorio, soprattutto in prospettiva della realizzazione
dei nuovi progetti infrastrutturali. Ad un primo
sguardo appare evidente che questa crescita è
avvenuta in mancanza di un quadro di programmazione e di un progetto di territorio e dei molti
problemi che si aprono (tra cui, come far sì che i
Comuni si rendano interpreti consapevoli e
responsabili di questo stato di cose). Quello che
tuttavia non è possibile percepire da queste rappresentazioni sono gli effetti dello sviluppo di aree
contermini, delle province di Vicenza, di Verona,
ecc., che sono investite in buona sostanza dalle
medesime dinamiche e che la ricerca qui presentata ha cercato di esplorare e di mettere in luce,
constatando anche una certa standardizzazione
degli effetti che alcune politiche (europee, nazionali) producono (piste ciclabili, musei rurali diffusi, prodotti tipici e nuovi marchi, sagre e feste paesane, spazi dismessi recuperati a verde pubblico, si
ripetono con poche varianti più o meno in tutti i
territori). I confini provinciali, cui i Piani si riferiscono, racchiudono un mondo che sembrerebbe
isolato dall’influenza dei processi in atto nei territori vicini, che la nuova e pur attenta programmazione provinciale sembra non vedere, misconoscendo appunto la dimensione intrinsecamente
interlocale delle politiche, soprattutto se si considerano le pratiche d’uso del territorio (al di là delle
scelte istituzionali e programmatiche) e la complicata trama degli spostamenti delle popolazioni che
si muovono, sempre più e con varie finalità, nei
territori.
Se facciano riferimento agli scenari che la realizzazione della Valdastico Sud apre, la grossa espansione produttiva che interessa alcuni Comuni del
Vicentino, ad esempio, complica la percezione
delle conseguenze sociali e ambientali che nel
padovano si avranno, e interviene a segnare una
separazione (una barriera tra realtà Berica e
Euganea) piuttosto che un attraversamento.
Abbiamo visto come, nell’ambito del Patto territoriale che ha interessato 22 Comuni dei Berici, sia
stata prodotta per istanza “dal basso” l’informatizzazione dei PRG Comunali. Dunque, dei dati già si
dispone, quello che manca è un approccio deliberativo e partecipativo (non pro-forma, ma effettivo) alla costruzione delle politiche territoriali e un
attore che di questa strategia voglia farsi interprete
e portatore.
Appare urgente comporre un quadro congiunto
delle trasformazioni territoriali in atto, che prima
che tentare di “mettere in coerenza” i territori, cercando di operare una razionalizzazione (sul presupposto della compresenza nell’area di diverse
vocazioni e attività che sono in conflitto e che, nel
tempo, tenderanno a diventare reciprocamente
incompatibili), tenti di metterli in relazione.
Questo sforzo dovrebbe vedere la mobilitazione
degli attori locali, piuttosto che (o non solo che)
l’attesa del coordinamento a livello Regionale e
istituzionale, attraverso atti pianificatori e provvedimenti legislativi che “disciplinano”, in cui la risorsa che viene mobilitata è quella di autorità-potere
piuttosto che di conoscenza, competenza sociale.
Mentre, la Regione Veneto potrebbe senz’altro
svolgere ancor più un ruolo di stimolo, di promo-
83
n.11 / 2005
zione del dibattito, di sensibilizzazione e di produzione di nuove rappresentazioni (e spazi di rappresentanza) dei processi territoriali in atto.
La dimensione interprovinciale e la logica trasversale della politica Leader e del progetto di territorio del GAL Patavino in particolare è sembrata
potere costituire una risorsa che forse si potrebbe
attivare ulteriormente e in altri contesti, valorizzandone soprattutto la direzione di senso e l’orientamento. La formula del partenariato pubblicoprivato, adottata per l’elaborazione e la messa in
atto del PSL, che come abbiamo avuto modo di discutere, porta al confronto e alla collaborazione
([email protected])
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soggetti che generalmente agiscono individualmente e separatamente, con tutti i suoi limiti e le
difficoltà, predispone un contesto di interazione
reiterato che può innescare processi di apprendimento e di costruzione di progetti comuni di territorio. In quest’ottica è stato visto anche l’Ente
Parco Colli che da “vigile guardiano” potrebbe portarsi ad essere “soggetto catalizzatore”; allo stesso
modo, i Comuni e le Province nelle loro varie
forme di associazione e rete possono giocare un
ruolo assai importante, sviluppando collaborazioni
e alleanze tra territori, anche a partire da singole
iniziative e progetti.
([email protected])
85
Alessandra Grespan
Il concetto di distretto industriale
marshalliano in Becattini
Il Sestante
Il concetto di distretto industriale è un concetto
che ormai da molto tempo è al centro del dibattito tra gli economisti ed è stato oggetto di interesse anche per gli studiosi di altre discipline: sociologi, storici, geografi, metodologi. Normalmente, il
primo uso del concetto viene fatto risalire ad
Alfred Marshall, sebbene si tratti di un termine
comparso ancora prima dell’opera di questo autore. Lo si può già trovare in Cooke Taylor (per un
saggio del 1841) e in Hearn (per uno scritto del
1863). Già in quegli anni, infatti, la circostanza che
alcune aree della Gran Bretagna, prima fra tutte il
Lancashire, fin dai tempi della prima industrializzazione, si fossero differenziate dal resto del paese
emergendo come distretti industriali in cui la produzione industriale si era specializzata e concentrata, fu un fenomeno troppo evidente per sfuggire all’attenzione. Tuttavia, solamente con l’opera
marshalliana il concetto di distretto industriale si è
trasformato da concetto generico, semplicemente
descrittivo, a concetto teorico importante della
scienza economico-sociale.
Proficuamente utilizzato da Alfred Marshall verso la
fine del 1800, tale concetto viene ripreso e riutilizzato, intorno al 1969, da Giacomo Becattini, il più
autorevole fra gli economisti italiani che rivendicano l’ispirazione marshalliana della teoria dei
distretti industriali e il primo in Italia ad avviare
una riflessione teorica in materia applicando tale
concetto alla realtà della Toscana, il laboratorio
dove ha realizzato gran parte delle sue ricerche.
Solo dopo il recupero di Becattini dell’opera di
Marshall hanno preso avvio in Italia numerosissimi
studi sui sistemi locali di piccole imprese.
86
Molti sono stati gli studiosi che, spinti dalla rilevanza dei distretti industriali e dalle loro performance di successo nell’economia, hanno intrapreso
molteplici ricerche ed analisi allo scopo di ricercarne le origini, i caratteri strutturali, le modalità di
crescita, i punti di forza e quelli di debolezza e gli
strumenti di governance. Fondamentali, ad esempio, sono stati gli studi di Michael Porter, studioso
americano che analizzando il vantaggio competitivo delle nazioni, ha individuato nei distretti le
ragioni del successo italiano sui mercati mondiali.
Ricordiamo inoltre Enzo Rullani, Tiziano Raffaelli,
Maria Tinacci Mossello e molti altri ancora. La lista
è ormai diventata quasi interminabile. Ma definire
il concetto di distretto industriale è un compito
piuttosto delicato e difficile, da un lato perché si
tratta di un concetto in continua evoluzione e una
attenta definizione non può che essere “un’istantanea” di una realtà come appare in quel momento, dall’altro perché la grande varietà dei contenuti delle aree indicate come distretti, ognuna diversa dalle altre con proprie particolarità e caratteristiche, rende arduo ogni tentativo di spingersi
oltre una generica definizione e di proporne una
più specifica.
Brusco – in un saggio del 1992 citato da Mistri - ad
esempio, sostiene che “un distretto industriale di
norma comprende molte imprese di piccole
dimensioni, ma anche imprese di medie dimensioni e qualche volta alcune imprese di dimensioni
rilevanti. Comunque la tipologia dei rapporti fra
tali imprese può variare da distretto a distretto”
(Mistri 1993, 36). La definizione data da Brusco,
che include anche la presenza ed il ruolo delle
Alessandra Grespan
imprese di dimensioni più grandi, si distingue, ad
esempio, da quella di Sengenberger e Pyke - in un
saggio sempre del 1992 e sempre citato da Mistri per i quali “il distretto è una rete di imprese di piccole dimensioni che attraverso la specializzazione
e la subfornitura dividono fra loro il lavoro richiesto per la fabbricazione di merci particolari” (Mistri
1993, p. 36). La definizione data da Becattini, invece, come ha sempre notato Mistri (1993) è molto
più ampia: non è incentrata sulla dimensione delle
imprese, ma sulla natura dell’organizzazione della
rete di imprese, e sottolinea l’importanza dell’insieme dei rapporti che legano persone, imprese e
territorio. Tuttavia, sebbene non esista una definizione univoca di distretto industriale, numerosi
autori concordano nel definire un distretto come
un sistema produttivo geograficamente definito,
caratterizzato da un alto numero di imprese di piccole o molto piccole dimensioni, impegnate in
diversi stadi e in modi diversi nella produzione di
un certo prodotto (Pyke, Becattini e Sengemberger
1991).
Nonostante siano oramai parecchi gli studiosi ad
elaborare teorie sul concetto di distretto industriale, penso che sia convinzione diffusa che in Italia il
titolo di padre fondatore di tale concetto possa
essere attribuito a Giacomo Becattini al quale possono essere ricondotti tutti gli studi successivi.
Il distretto industriale come modello di sviluppo economico alternativo
Becattini è stato il primo economista a mettere in
risalto l’esistenza di una molteplicità di sentieri di
sviluppo rendendosi ben presto conto che “lo sviluppo di un’area è il risultato dell’accoppiamento
di formule produttive che si possono ridurre ad un
certo numero, forse non grande, ma superiore a
uno, con un numero indeterminato di combinazioni socioculturali prodotte dalla storia nei diversi luoghi della terra. (…) I problemi di un’area si
possono risolvere solo prestando attenzione al suo
passato, in particolare ai caratteri della sua popolazione formatisi nel corso dei secoli. (…) Insomma
la storia conta.” (Becattini 1998, 43). Da ciò risulta
che una soluzione socioeconomica adatta per una
certa area non lo è necessariamente per un’altra;
questo vale per le diverse Regioni italiane e persi-
Il concetto di distretto
no per le diverse parti di una stessa Regione.
Questa convinzione porta Becattini ad intraprendere un lungo percorso di studio sui distretti industriali, intesi come modello di sviluppo economico
alternativo a quello previsto dal paradigma dominante. In questo modo, dopo quasi mezzo secolo
di dominio della teoria economica che vedeva
nella grande impresa taylorista e fordista il paradigma della modernità industriale, Giacomo
Becattini arriva a sostenere che: “la dimensione
media dell’impresa non è di per sé un indicatore
univoco di efficienza e competitività; in Regioni
come la Toscana, Emilia, Veneto, la base industriale è data dai suoi distretti industriali; la “base della
base” è data dall’accumulazione di conoscenze ed
esperienze nella testa degli imprenditori e dei
lavoratori del distretto; nel mondo della globalizzazione e della crescente varietà delle tecnologie,
la varietà delle culture e delle esperienze storiche
delle comunità industriali italiane è un punto di
forza irrinunciabile” (1998, 75-76).
Becattini, ipotizzando che il fattore determinante
dell’industrializzazione di alcune zone dell’Italia non
è stato il semplice proliferare di piccole unità produttive, ma il loro raggrupparsi in sistemi territoriali,
afferma che l’unità di analisi deve cambiare: non può
più essere la piccola singola impresa, ma il distretto
industriale, composto da molte piccole imprese.
Esiste pertanto una differenza sostanziale tra le piccole e medie imprese appartenenti ad un distretto e
le piccole e medie imprese al di fuori dei distretti.
È in un suo scritto del 1979, che Becattini pone, per
la prima volta in modo esplicito, come chiave interpretativa dello sviluppo locale, il concetto marshalliano di distretto industriale, considerandolo l’unità
d’indagine più adatta in relazione alla situazione
economica italiana. Il distretto industriale appare
l’unità di analisi più conveniente, in quanto realtà
diversa dall’impresa e dal settore industriale, che
possiede le caratteristiche virtuose di entrambe. Il
distretto, infatti, è più dell’impresa, perché in esso
ha luogo una serie di episodi produttivi che riguardano l’impresa, ma si svolgono fuori di essa; il
distretto è meno del settore industriale perché la
sua attività non copre tutta quella del settore.
Becattini, nel corso della sua ricostruzione della
vicenda intellettuale marshalliana, cerca di comprendere il ragionamento che ha condotto
87
n.11 / 2005
Marshall (1966) al concetto di distretto industriale,
partendo da un passo contenuto nel libro primo
dei Principles of Economics in cui Marshall scrive:
“Gli economisti studiano le azioni dell’individuo,
ma le studiano in relazione alla vita sociale, piuttosto che a quella individuale (…) Essi guardano al
comportamento di un’intera categoria di persone,
che può essere una nazione, solo un distretto, o
più spesso, l’insieme di persone impegnate in una
data attività in tempi e luoghi specifici, e, grazie a
statistiche o con altri mezzi, determinano quanto
denaro, in media, i membri del gruppo in esame
sono disposti a pagare per acquistare un certo
bene che desiderano, o quanto bisogna offrire loro
per indurli a sottoporsi ad un certo sforzo o sacrificio spiacevole” (Marshall citato da Becattini
1987a, 26). Da questo passo, secondo Becattini, si
comprende che “le propensioni rilevanti dell’agente economico marshalliano, non sono le preferenze vuote e generiche del soggetto economico degli
economisti puri, né le propensioni funzionali alla
crescita del sistema nel suo insieme degli agenti
economici classici, ma sono sempre propensioni
di soggetti rappresentativi di aggregati sociali storicamente e geograficamente determinati. La realtà sociale marshalliana non è un accozzo di atomi
senza patria né storia, ma un complesso di gruppi
sociali territorialmente distinti” (1987a, 26).
Marshall quindi tiene sempre presente sullo sfondo la dimensione storico-geografica.
Becattini, inoltre, evidenzia come Marshall si
opponga agli epigoni classici in tema di economie
di scala e di grande impresa sostenendo che “Il
consueto modo di trattare dei vantaggi della divisione del lavoro e della produzione su larga scala
appare sotto un certo aspetto insoddisfacente.
Infatti, il modo in cui questi vantaggi sono discussi
nella maggior parte dei trattati di economia è tale
da implicare che i più importanti di essi possano di
norma essere ottenuti solo mediante la concentrazione di grandi masse di lavoratori in immensi stabilimenti (…) almeno in certi settori manifatturieri, i vantaggi della produzione su larga scala possono in generale essere conseguiti sia raggruppando
in uno stesso distretto un gran numero di piccoli
produttori, sia costruendo poche grandi officine
(…) Per molti tipi di merci è possibile suddividere
il processo di produzione in parecchie fasi, ciascu-
88
na delle quali può essere eseguita con la massima
economia in un piccolo stabilimento (…) Se esistesse un gran numero di questi piccoli stabilimenti specializzati per l’esecuzione di una particolare
fase del processo produttivo, vi sarebbe spazio per
redditizi investimenti di capitale nell’organizzazione di industrie sussidiarie rivolte a soddisfare i loro
bisogni particolari” (Whitaker 1975, citato da
Becattini 1987b, 46). La concentrazione del capitale e delle conoscenze produttive e commerciali in
poche grandi imprese non è quindi per Marshall
una necessità economica per ogni attività industriale; anzi essa può avere effetti negativi come l’indebolimento dell’offerta dell’iniziativa individuale.
Marshall individua nella localizzazione dell’industria i vantaggi dell’addestramento di manodopera
specializzata e della più rapida circolazione delle
idee. Per comprendere l’origine di questi vantaggi
basta pensare che quando in molti si interessano ad
una attività, si possono trovare parecchi di loro che
sono idonei, per doti intellettive o caratteriali, a
concepire idee nuove le quali potranno poi essere
studiate e migliorate da numerosi cervelli. Ogni
nuova idea sperimentata può di conseguenza essere una opportunità per riflettere ed avere nuove
ispirazioni (Becattini 1987b).
Nello sviluppare le sue analisi, Marshall, considerando che anche l’impresa, come l’individuo, non è
mai isolata dalle relazioni socio-economiche del
luogo a cui appartiene, assume l’organizzazione
come elemento primario di indagine, ponendo
l’accento, in particolare, sul meccanismo di specializzazione-integrazione che contraddistingue il processo di crescita di un organismo. Nell’analisi di
Marshall, la chiave per comprendere le origini della
nozione di economie esterne di localizzazione è
data dall’inserimento dell’organizzazione tra i fattori della produzione.
L’organizzazione sociale e industriale alla quale
Marshall si interessa è sottoposta a processi tali per
cui lo sviluppo dell’organismo, sia sociale che fisico, comporta, da un lato, una crescente suddivisione delle funzioni tra le sue varie parti e, dall’altro, una maggiore integrazione, connessione tra di
esse. In questo modo ogni parte diventa sempre
meno autosufficiente e sempre più dipendente
dalle altre parti per il proprio benessere.
Nella specializzazione industriale questo meccani-
Alessandra Grespan
smo di differenziazione/integrazione si realizza
nella scomposizione del processo produttivo in
imprese di fase individuali (divisione del lavoro), e
si ricompone alla scala dell’intero sistema locale, in
un intreccio dinamico di concorrenza e cooperazione. Alla luce di questa concezione della realtà,
appare chiaro che il conseguimento di economie
nella produzione non dipende tanto dalle dimensioni della singola impresa ma dal modo in cui la
produzione è organizzata e interagisce con l’ambiente sociale e produttivo dove essa si svolge.
È con le premesse appena illustrate che, secondo
Becattini, Marshall giunge a formulare la sua definizione di distretto industriale, presentato come
una possibile alternativa al modello della grande
impresa di organizzare la produzione, in certi settori manifatturieri, senza che si debba rinunciare ai
vantaggi della divisione del lavoro. Nei Principles
of Economics (1890), e successivamente in
Industry and trade (1919), sulla base della conoscenza acquisita attraverso lo studio dello sviluppo
industriale di alcune aree dell’Inghilterra vittoriana
che si erano notevolmente differenziate dal resto
del paese fin dai tempi della rivoluzione industriale come Sheffield (metallurgia) e Lancashire (tessile), definisce il distretto industriale come una organizzazione su base locale formata da una concentrazione di molte piccole industrie specializzate
che, condividendo lo stesso territorio, si specializzano e sviluppano legami stabili, creando una
intensa divisione del lavoro ed una cooperazione
tra soggetti specializzati in determinate fasi dello
stesso ciclo produttivo.
Alla base della costruzione teorica del distretto
industriale sta il concetto di “economie esterne”
per mezzo del quale Marshall spiega l’esistenza di
processi cumulativi e di rendimenti crescenti nel
processo produttivo geograficamente concentrato
(Becattini 1979). Marshall valuta la competitività e
la vitalità delle imprese nei distretti in termini di
efficienza ed assegna grande importanza alle “economie derivanti da un aumento della scala della
produzione di una data specie di merci” (Bellandi
1987, 52). All’interno delle economie di scala egli
distingue due tipologie di economie: 1) le economie interne, che dipendono dalle risorse delle singole imprese, dalla loro organizzazione, dall’efficienza della loro amministrazione e che si espri-
Il concetto di distretto
mono attraverso costi medi decrescenti realizzati
all’aumentare della produzione e quindi sono economie tipiche delle grandi imprese; 2) le economie esterne, che dipendono dallo sviluppo generale dell’industria e determinano una riduzione dei
costi medi delle imprese che appartengono all’industria in questione anche se ogni impresa mantiene costante sia la produzione che gli impianti.
Il vantaggio competitivo dei distretti industriali
deriva dalle economie esterne. Alla base di questo
concetto marshalliano si trovano i vantaggi della
concentrazione territoriale (locale) e della specializzazione (settoriale).
Le economie esterne, esterne alla singola impresa
ma interne al distretto, nell’analisi marshalliana
“costituiscono vantaggi equivalenti alle economie
interne di scala e i piccoli produttori ne possono
fruire, purché siano sufficientemente concentrati
sul territorio e sia possibile suddividere il processo
di produzione in fasi, ciascuna delle quali possa
essere eseguita con la massima economia in un piccolo stabilimento” (Tinacci Mossello 1987, 97). I fattori di successo dei distretti industriali si giocano
quindi prevalentemente sul concetto di economie
esterne, o ancora meglio, di economie esterne di
agglomerazione, dovute alla concentrazione geografica di una moltitudine di piccole imprese e delle
quali un’impresa può avvantaggiarsi se inserita in un
agglomerato relativamente grande. Si tratta di economie che si manifestano attraverso specifici vantaggi, come ad esempio la riduzione dei costi di produzione e di transizione, e possono assumere più
forme. Le economie esterne hanno in Marshall un
carattere di forte radicamento territoriale, di rilevante complementarietà, e di forte irreversibilità
fondata nelle strutture storico sociali, a differenza
delle economie interne che hanno un ciclo vitale
con fondamento quasi biologico che prevede un
processo di sviluppo e uno di decadenza.
La struttura socio-economica generatrice di un tale
valore è la comunità e la famiglia da cui si sviluppa
un sistema di imprese integrate che favoriscono le
economie esterne che si traducono a loro volta in
atmosfera industriale, caratteristica peculiare del
distretto industriale marshalliano.
Nel pensiero marshalliano il distretto industriale
non è riducibile alla semplice somma delle imprese in esso insediate, ma ne sono parte costitutiva
89
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anche l’insieme dei rapporti sociali e delle tradizioni produttive che si sono sedimentate localmente (Corò 1995). Con il concetto di “industrial
atmosphere” Marshall indica un fenomeno di condivisione sociale del sapere produttivo. Tale concetto è una delle caratteristiche essenziali della
tipica “fabbrica senza mura” marshalliana: esso
non sta ad indicare un sapere generico e indistinto, né depositato in un luogo specifico (come ad
es. un reparto specializzato di una grande unità
produttiva), bensì si riferisce ad un sapere diffuso
e ad un insieme di conoscenze pratiche che costituiscono il patrimonio distintivo dell’economia
locale. È un patrimonio di conoscenze distintive in
quanto la sua riproducibilità in contesti diversi è
problematica, essendo costruito su tradizioni e
culture sociali che non si possono trasferire con la
stessa facilità con la quale si può spostare un singolo insediamento produttivo (Corò 1995).
Il concetto marshalliano di atmosfera industriale,
definito da Rullani (1995) una sorta di “bene pubblico” invisibile, sta ad indicare un insieme di cultura, di linguaggio condiviso, di conoscenze implicite,
di norme sociali di condotta. Esso esprime una
comunanza territoriale, storica e culturale; è uno
dei vantaggi competitivi di cui godono le imprese
appartenenti al distretto industriale in quanto riduce i costi di transizione tra le imprese, elevando il
valore economico degli scambi (Corò 1995), diminuisce i costi di relazione tra soggetti interagenti e
i costi di informazione e di coordinamento.
Secondo Mistri il distretto industriale, inteso nel
senso di Marshall e così come riproposto da
Becattini, rappresenta “un sistema autopoietico
dotato di una sua chiusura sul lato delle competenze comunicative che appartengono al distretto
industriale specifico e che quando variano divengono rapidamente patrimonio comune delle
imprese che vi fanno parte, al punto che si può
parlare di apprendimento cumulativo e sociale”
(1997, 152). Secondo l’approccio autopoietico,
nell’uso che ne fa Mistri, un sistema vivente è
un’entità autonoma che trova in sé stesso le regole del suo funzionamento e dei rapporti con l’ambiente esterno. Un sistema autopioetico ha una
organizzazione tale per cui esso è in grado di mantenersi continuamente da solo con i propri mezzi
e mediante la sua stessa dinamica (Mistri 1997).
90
Inoltre, l’universo di tali competenze comunicative
dà luogo ad un “sapere condiviso” (Rullani 1992,
citato da Mistri 1997, 152) che Marshall indica con
il termine “industrial atmosphere”.
Il distretto industriale marshalliano viene inteso da
Mistri come forma autopoietica ricollegandosi al
pensiero di Becattini che lo definisce un “ispessimento localizzato” che presenta una certa stabilità
nel tempo e che paradossalmente mantiene maggiormente la sua identità come distretto industriale quanto più esso è in grado di rinnovare continuamente sé stesso (1987b). Il distretto industriale è pertanto un sistema autopoietico capace di
autogenerarsi e di mantenere la sua stabilità topologica. In altre parole, esso è capace di modificare
la propria struttura mantenendo inalterata la propria organizzazione e sopravvivendo così come
distretto. Il distretto può anche modificare la propria organizzazione, ma in questo modo finirebbe
di esistere come distretto e assumerebbe una
forma diversa (Mistri 1997, 153).
L’unità a cui Marshall fa riferimento è quindi il
distretto industriale. “È a questo - scrive Becattini che si riferiscono le condizioni di densità di popolazione, di dotazione infrastrutturale, di atmosfera
industriale, che sono la fonte e il risultato, la causa e
l’effetto, di quella parte dei rendimenti crescenti che
non si spiega né con le economie interne di scala, né
con le vere e proprie innovazioni” (1987b, 47). È a
queste condizioni che si riconduce quella parte di
rendimenti crescenti, ossia “quel di più” di produttività che fa emergere il Lancashire in Gran Bretagna,
la Ruhr in Germania, Prato ed altri distretti in Italia.
Ciò che tiene insieme le imprese del distretto industriale marshalliano è una rete complessa ed inestricabile di economie e diseconomie esterne, di congiunzioni e di connessioni di costo, di retaggi storico-culturali, che avvolge sia le relazioni interaziendali che quelle interpersonali (Becattini 1987b, 47).
Il distretto industriale come concetto socioeconomico
Prima di Marshall, l’espressione distretto industriale si riferiva ad un concetto di significato generico
e stava ad indicare semplicemente un’area contraddistinta dalla presenza di attività industriali, a
prescindere dalla sua estensione geografica, dalle
Alessandra Grespan
caratteristiche dell’organizzazione produttiva della
sua attività industriale, e dalle interdipendenze
dell’attività industriale con la struttura sociale.
Solamente con Alfred Marshall il concetto di
distretto industriale racchiude in sé una accezione
socio-economica-territoriale che supera il vecchio
significato generico di distretto industriale. Il
distretto industriale marshalliano possiede un
forte contenuto territoriale: la dimensione geografica come quella storica assume una rilevanza particolare.
Becattini, riprendendo le intuizioni di Marshall, in
tema di distretti industriali, ed adattandole al contesto italiano, giunge a formulare una propria definizione di distretto industriale, inteso come:
“un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla
compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” (1989, 112).
Nel pensiero di Becattini la prima componente
essenziale nel processo di sviluppo del distretto è
quindi il territorio, inteso come insieme di fattori
storici, culturali e sociali. Becattini lo concepisce
come un elemento attivo, poiché è al suo interno
che nascono i nuovi modelli di organizzazione della
produzione. In altre parole, il territorio contribuisce alla formazione del distretto industriale: il processo di produzione di un distretto si attua infatti
grazie alla concentrazione in un’area determinata
di più unità produttive specializzate appartenenti
alla stessa industria. La dimensione territoriale è
quindi parte integrante del processo produttivo.
Il territorio diventa il fattore strategico delle
opportunità di sviluppo di alcune aree considerandone le diverse condizioni storico-culturali e le
caratteristiche economiche; assume inoltre un
ruolo molto importante nel generare e sostenere
la competitività, in quanto è il luogo in cui si organizzano le forme di cooperazione fra le imprese e
la divisione sociale del lavoro. La crescita dei
distretti industriali passa dunque attraverso un
sistema di condizioni ambientali che sono contenute nelle condizioni sociali.
La seconda componente necessaria per la nascita
di un distretto industriale è la popolazione di piccole e medie imprese indipendenti, nessuna
dominante sull’altra in termini di dimensione o di
Il concetto di distretto
relazioni interindustriali, “tendenzialmente coincidenti con le singole unità produttive di fase”
(Becattini 1989, 125).
Per popolazione di imprese Becattini non intende
un insieme “di singole imprese accidentalmente
concentrate in certi luoghi, e men che meno un
diffuso tessuto, ma un sistema di imprese caratterizzato da un’intensa divisione del lavoro a cui
(…) si attribuiscono doti di efficienza e flessibilità
tali da farne delle realtà significative nei mercati
mondiali di certi tipi di prodotti” (1998, 41). Il
distretto è dunque “un caso di realizzazione localizzata di un processo di divisione del lavoro”
(1989, 114). Con il termine localizzato Becattini
non intende una casuale concentrazione di processi produttivi in un determinato luogo, bensì “un
radicamento nel territorio che non può essere
separato concettualmente dal suo processo di formazione” (1989, 115). Ogni processo produttivo di
un distretto ha quindi peculiarità diverse da quelle
di ogni altro distretto.
Da queste premesse, Becattini giunge ad affermare che ogni unità produttiva operante in un distretto è una unità con una sua propria storia autonoma, ma anche un meccanismo del distretto. Per
queste motivazioni egli ritiene fondamentale,
soprattutto all’interno di un’economia come quella italiana, distinguere le piccole imprese che
appartengono ad un distretto dalle piccole imprese che non appartengono ad un distretto. Le prime
appartenendo ad un aggregato sociale, devono
essere considerate in modo diverso dalle seconde.
Non è corretto, quindi, a suo parere, il confronto
fra piccole imprese appartenenti ad un distretto e
piccole imprese operanti in altri contesti (1998).
Infine, la terza componente è la comunità locale.
Un distretto industriale non si caratterizza infatti
solamente da un sistema locale di imprese fra loro
in relazione, ma anche da una comunità di persone che vivono quelle relazioni in termini economici, sociali e culturali. L’aspetto più peculiare di questa comunità di persone è che in essa si viene a stabilizzare nel corso del tempo un sistema di valori
comune che coinvolge tutti gli aspetti della vita.
Tale sistema di valori, precisa Becattini (1989), rappresenta uno dei requisiti necessari per la formazione del distretto e per la sua riproduzione. Ma
non tutte le combinazioni di valori danno luogo
91
n.11 / 2005
alla nascita e allo sviluppo del distretto industriale:
affinché si formi un distretto è necessario che questo sistema di valori non ostacoli l’intrapresa economica e l’innovazione tecnologica, altrimenti si
verificherebbe un ristagno sociale e di conseguenza il distretto non si formerebbe.
Da quanto appena detto si può sostenere che nel
distretto, a differenza di quanto accade in altri
ambienti, la comunità e le imprese tendono, per
così dire, ad interpretarsi a vicenda. “Non si tratta
semplicemente di una forma organizzativa del processo produttivo di certe categorie di beni, ma di
un ambiente sociale in cui le relazioni fra gli uomini dentro e fuori dai luoghi della produzione, nel
momento della accumulazione come in quello
della specializzazione, e le propensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il gioco, il rischio,
ecc., presentano un loro peculiare timbro e carattere” (Becattini 1987a, 8). È, più semplicemente,
un nucleo di relazioni stabili vita-lavoro, un sistema
sociale.
Le caratteristiche strutturali del distretto
industriale
Dimensione.
Becattini (1989) ritiene che data la molteplicità
delle fasi e il meccanismo della loro suddivisione,
sia naturale ipotizzare dimensioni tecniche ottime
abbastanza basse. Tuttavia questo non esclude che
alcune imprese possano avere anche dimensioni
abbastanza grandi. La modesta dimensione delle
imprese specializzate in una o più fasi implica una
divisione del lavoro di tipo orizzontale, anziché la
tendenza all’integrazione verticale.
Le dimensioni ridotte delle aziende fanno sì che il
numero degli addetti e l’ammontare dei beni capitali e di prodotto di ciascuna impresa non possono
essere molto elevati, e quindi questo rende possibile dare luogo ad una gestione individuale e familiare delle aziende stesse. Si tratta infatti di imprese a forte tradizione artigianale, per lo più a conduzione individuale o familiare, dove l’imprenditore stesso può partecipare direttamente all’attività
produttiva eseguendo in prima persona mansioni
operaie e tecniche, e spesso gli stessi impianti
sono fisicamente localizzati nelle vicinanze della
residenza dell’ “imprenditore capo-familia”.
92
Becattini, a questo proposito, parla di “animal spirits delle popolazioni” (1998, 58), per indicare
quell’impasto di sentimenti che anima appunto le
famiglie del distretto e che appare come fattore
decisivo per il successo: si tratta di una forte spinta interiore, di sacrifici di energie e di tempo, di un
miscuglio di solidarietà e rivalità, di concorrenza e
collaborazione, e di emulazione ed invidia.
Considerata l’articolata divisione del lavoro, di cui
si è ampiamente parlato, e quindi il fatto che ogni
fase produttiva è complementare alle altre, si può
comprendere l’esistenza di una fitta rete di rapporti di interdipendenza fra le imprese distrettuali.
Ogni azienda, quindi, pur avendo una sua autonomia organizzativa, partecipa alla formazione di
quella che Marshall definisce “fabbrica senza
mura”, ossia un’unica ed immensa fabbrica.
Infatti, se prendiamo in considerazione congiuntamente le tre caratteristiche del distretto (modesta
dimensione delle imprese, grande numerosità
delle imprese, raggruppamento in uno stesso territorio), si può notare che, se le imprese del
distretto sono singolarmente piccole, esse formano un sistema che presenta una dimensione complessiva piuttosto rilevante. “È anche grazie alla
rilevante dimensione complessiva del distretto
industriale se le singole unità che lo compongono,
in certe condizioni, possono beneficiare, prevalentemente sotto forma di economie esterne, dei vantaggi della specializzazione e della produzione su
larga scala” (Dei Ottati 1987, 120-121). In altre
parole, grazie a questa struttura, un distretto industriale può beneficiare dei vantaggi delle economie
di scala proprie delle aziende di grandi dimensioni
e in più avere la flessibilità produttiva propria delle
aziende di piccole dimensioni.
Concorrenza e cooperazione.
Il fatto che il distretto sia costituito da un gran
numero di piccole imprese specializzate, raggruppate in una stessa località, non è privo di conseguenze sul tipo di rapporti economici esistenti tra
soggetti che vivono e lavorano in altre città.
Affinché questo modello di organizzazione economica funzioni è necessario che vi sia una particolare consuetudine di cooperazione reciproca estesa
ai rapporti economici. Solo dove esiste questa consuetudine, secondo Marshall, è possibile che il
Alessandra Grespan
processo economico sia organizzato nel rispetto
del modello del distretto industriale.
A questo proposito, secondo Becattini, si potrebbe
sostenere che all’interno dei distretti industriali vi
sia un apparente paradosso: il fatto che essi diano
luogo, contemporaneamente, ad una vivacissima
concorrenza e ad una considerevole cooperazione
fra le imprese che ne fanno parte. Si tratta di aspetti contradditori, in quanto la presenza dell’uno
dovrebbe escludere l’altro, ma il distretto “è un
ambiente dove i fenomeni della concorrenza e
della cooperazione si manifestano in forma accentuata e interagiscono fra loro in modo economicamente virtuoso, tale cioè da alimentare una continua crescita della produttività” (Becattini 1998,
50). Pertanto, la vivacissima concorrenza interna al
distretto presuppone e continuamente rigenera,
forme poco visibili, ma non per questo meno
potenti, di collaborazione consapevole e semiconsapevole fra agenti del distretto. Nel distretto industriale, quindi, i rapporti che intercorrono fra i soggetti sono il risultato del combinarsi della concorrenza nei mercati del distretto con la collaborazione reciproca.
Concorrenza e cooperazione si sviluppano insieme, creando una miscela equilibrata di potenzialità e stimoli, cui le aziende sono chiamate a rispondere e che contribuiscono a mantenere il distretto
coeso e dinamico. Pertanto nel distretto sono presenti, a tutti i livelli, flussi continui di conoscenza,
informazioni e know-how (Becattini 1998).
La competitività deriva dalla struttura stessa del
distretto industriale: l’elevata concentrazione di
imprese, la loro piccola dimensione, la loro specializzazione in una certa fase del processo produttivo. Dall’altro canto la cooperazione deriva dal fatto
che i soggetti all’interno di un distretto industriale,
in quanto raggruppati stabilmente in uno stesso
ambiente sociale, condividono una medesima cultura (stesso linguaggio, stessi valori, stessi significati) e medesime regole di comportamento (consuetudini).
L’integrarsi di concorrenza e cooperazione è
essenziale per l’efficacia del distretto industriale, in
quanto rafforza lo stimolo di ricercare le soluzioni
produttive meno costose e la spinta di rinnovarsi
continuamente, ossia favorisce il processo di cambiamento continuo (Dei Ottati 1987). Nella misura
Il concetto di distretto
in cui la cooperazione svolge un ruolo di garanzia
contro i rischi maggiori che possono derivare partecipando al gioco economico, essa consente di
aumentare il numero dei partecipanti; di conseguenza permette di economizzare la capacità di
iniziativa e la disponibilità al rischio (entrambe
essenziali per il cambiamento). In questo modo,
secondo Becattini, i rischi di coloro che intraprendono una attività economica sono ridotti, visto che
in caso di insuccesso possono fare appello alla collaborazione altrui. La cooperazione consente
anche un’efficace coordinamento delle attività
strettamente complementari, cioè dirette a soddisfare specifiche esigenze qualitative e quantitative
delle imprese acquirenti e quindi un contenimento dei costi. L’abbassamento dei costi permette di
godere delle economie esterne. In definitiva, la
cooperazione contribuisce all’integrazione del
sistema, mentre la concorrenza lo mantiene flessibile e innovativo. Molteplici sono i vantaggi del
bilanciamento fra concorrenza e cooperazione. La
loro interazione dà luogo ad un circolo virtuoso
che mantiene l’equilibrio dinamico fra le due forze
e riproduce la competitività e le condizioni di
sopravvivenza del distretto come sistema socioeconomico vitale e coeso (Becattini 1998).
Il mercato.
Becattini nel definire il mercato ideale di un
distretto industriale ritiene che, nonostante l’intensa concorrenza infra e inter-distrettuale, esso
non debba essere inteso come un complesso omogeneo di compratori (o venditori) indifferenti ai
produttori (o compratori) e ai luoghi di produzione (o di consumo) e interessati solamente ai prezzi delle materie prime, dei beni, dei servizi e delle
macchine. Nel mercato dei distretti industriali, è a
suo parere necessario fornire, insieme alle merci,
molte informazioni, poiché considera quelle incorporate nel prezzo insufficienti per la scelta
(Becattini 1989).
Becattini ritiene essenziale che ogni distretto abbia
una propria “immagine” (Becattini 1989, 119)
distinta sia da quella delle imprese che lo compongono sia da quella degli altri distretti. È necessario che la “merce rappresentativa” di un distretto si differenzi nel livello di qualità, nei materiali
utilizzati per la sua creazione, nei trattamenti tec-
93
n.11 / 2005
nici e in molti altri aspetti, dalle altre merci simili
ad essa affinché esista qualcosa di determinante ai
fini della sua scelta e preferenza.
“La nascita e lo sviluppo di un distretto industriale
è quindi non semplicemente il risultato locale dell’incontro di certi tratti socio-culturali di una
comunità (sistema di valori, di orientamenti e di
istituzioni), di caratteristiche storico-naturalistiche
di un’area geografica (orografia, reti e nodi di
comunicazione, forme di insediamento, ecc.), e di
caratteristiche tecniche del processo produttivo
(decomponibilità dei processi, brevità della serie,
ecc.), ma anche il risultato di un processo di interazione dinamica (un circolo virtuoso) fra la divisione-integrazione del lavoro nel distretto e l’allargamento del mercato dei suoi prodotti (…) L’uno
quindi alimenta l’altro.” (Becattini 1989, 120).
Flessibilità.
Le caratteristiche principali che contraddistinguono la struttura produttiva di una impresa distrettuale sono: 1) l’elasticità (variazione quantitativa
della domanda), cioè la possibilità di ridurre il
volume della produzione senza che il costo del
prodotto aumenti ad un livello tale da non essere
più competitivo; 2) la flessibilità (variazione qualitativa della produzione), cioè la possibilità di ottenere, dalla stessa struttura tecnico organizzativa,
prodotti diversi senza essere costretti a sopportare
“oneri di trasformazione” incompatibili con la situazione economica e concorrenziale dell’impresa.
Il distretto industriale vanta una certa abilità nel
fronteggiare situazioni di diffusa incertezza grazie
alla propria capacità di adattamento e quindi di
innovazione. Si può dire che, nei distretti, non è
tanto rilevante il know-how tecnico, bensì la capacità di adattarsi continuamente ai cambiamenti
esterni. Becattini riconosce ai distretti industriali
delle straordinarie “doti di efficienza e di flessibilità tali da farne delle realtà significative nei mercati
mondiali di certi tipi di prodotti” (1998, 41).
Questa flessibilità deriva dalle modeste dimensioni
delle unità produttive che consentono una rapida
riconversione dei processi all’evolversi dei mercati
e delle tecniche.
L’organizzazione produttiva non è comunque l’unico fattore determinante della flessibilità: per realizzarla è necessaria anche la disponibilità dei sog-
94
getti ad accettare il mutamento continuo e ad essere in grado di rispondere a situazioni nuove. Si può
dire che è la stessa struttura sociale presente all’interno del distretto ad essere particolarmente adatta al coordinamento flessibile delle risorse. La possibilità di utilizzare risorse familiari e comunitarie,
ad esempio, ha creato, da una parte, le condizioni
per cui i lavoratori si adattano alle esigenze di un
lavoro flessibile, dall’altra, le condizioni grazie a cui
i datori di lavoro hanno accesso ad una fonte di
lavoro flessibile. Inoltre, gli stretti legami comunitari e di parentela hanno fornito sia meccanismi di
mutua assistenza nei momenti di bisogno, sia le
risorse necessarie per creare nuove imprese, grazie anche alla fiducia reciproca dei soggetti. Le
imprese di un distretto possono così fare affidamento su una manodopera che accetta elevati
livelli di flessibilità e di mobilità del lavoro. I lavoratori devono essere sempre in grado di rispondere a situazioni nuove; essi devono pertanto possedere una qualificazione professionale specializzata,
ma non parcellizzata, e quindi flessibile (Dei Ottati
1987).
Innovazione e tecnologia.
Il veicolo principale di sviluppo del distretto industriale è il progresso tecnologico, l’innovazione e
l’informazione. Il distretto industriale marshalliano
appare, quindi, come “sistema territoriale strutturato e dinamico”.
La capacità innovativa diffusa è uno degli elementi
più qualificanti del distretto industriale. È proprio
“la sequela d’innovazioni che hanno dato origine e
restituito impulso alla formazione e allo sviluppo
dei sistemi locali. Innovazioni fondate sulla conoscenza diretta dei bisogni dei consumatori, sull’approfondita padronanza di un materiale, sulla
necessità di rimuovere una strozzatura nel processo produttivo, sull’esaurimento degli schemi organizzativi consueti, e così via escogitando”
(Becattini 1998, 57).
L’innovazione, sinteticamente rappresentata dal
progresso tecnico, rende possibile lo sviluppo
estensivo del sistema con una ulteriore divisione
del lavoro, e quindi un aumento del numero delle
piccole imprese (Mistri 1993).
La produzione di innovazioni nei distretti è stimolata dal clima sia di cooperazione che di competi-
Alessandra Grespan
zione. Da una parte, il clima di cooperazione reciproca, che consente in caso di bisogno di contare
sulla altrui collaborazione, stimola i soggetti ad
intraprendere i processi innovativi. Dall’altra parte,
la concorrenza ininterrotta fra le imprese porta ad
innalzare continuamente gli standard qualitativi e
ad introdurre cambiamenti nei processi di produzione per poter soddisfare sempre di più le esigenze di mercato. Le imprese sono così consapevoli che se non si innovano e non saranno competitive per prezzo e qualità e i loro potenziali compratori si rivolgeranno altrove.
L’innovazione nel distretto è agevolata anche dalla
presenza di nuclei specializzati in industrie ausiliarie o complementari (settori della filiera) dotati di
specifiche atmosfere tecniche, cioè di tecnologie,
di convenzioni di scambio e di modelli organizzativi condivisi da un gruppo di produttori operanti
nella medesima attività (Bellandi 1997). La presenza di diverse atmosfere tecniche, ossia di diverse
conoscenze, favorisce combinazioni originali di
idee su prodotti, processi, mercati, e perciò una
capacità innovativa diffusa. Alcune innovazioni
possono ricevere un ampio successo economico
ed essere così elemento di aggregazione per nuovi
nuclei di specializzazione. In questo modo si aprono ulteriori possibilità di interazione innovativa
fino ad innescare un circolo virtuoso (Bellandi
1997). Le innovazioni dei distretti non sono di tipo
radicale ma incrementale, che si formano attraverso un processo di “learning by doing”, dall’intuizione di qualche operatore.
Le caratteristiche dei distretti industriali ora, nell’era della globalizzazione, sono certamente diverse, come d’altronde quelle delle grandi imprese, in
relazione ai cambiamenti che sono intervenuti nell’economia mondiale. Ma nonostante presentino
caratteristiche nuove, suggerite o imposte dall’emergere dei nuovi contesti mondiali, i distretti
sono ancora una struttura portante dell’economia.
Non a caso Becattini aveva già preannunciato un
decennio fa che si sarebbe parlato “dei sitemi produttivi locali del Duemila come degli eredi legittimi dei distretti industriali marshalliani inglesi
dell’Ottocento e dei distretti italiani del tardo
Novecento” (1998, 73). Secondo Becattini alla base
dei cambiamenti intervenuti nei distretti industriali stanno due complessi di forze: uno esterno, che
Il concetto di distretto
deriva dai mutamenti intervenuti nelle condizioni
di mercato e nella tecnologia mondiale; uno interno che deriva dallo sviluppo stesso dei distretti.
Una volta iniziati questi cambiamenti alcuni studiosi hanno colto l’occasione per preannunciare
una imminente dissoluzione dei distretti ma, dopo
molti anni di trasformazioni in corso, si può dire
con assoluta certezza che oggi si continua a parlare di distretti industriali e forse in modo ancora più
accentuato rispetto ad un decennio fa (Becattini
2001). D’altronde, come ha già affermato Becattini,
“il fatto che i distretti industriali stiano subendo
delle trasformazioni non è di per sé allarmante
(…) sarebbe anzi più sconcertante se, viste le
enormi trasformazioni che stanno avvenendo nell’ambiente economico, i distretti non subissero
cambiamenti” (1998, 103). È quindi un bene se tali
sistemi produttivi locali si dimostrano reattivi alle
variazioni dell’ambiente e non ha importanza se
ciò li porta a percorrere strade che sembrano lontane da quelle presunte. E poi, non dimentichiamo, prima di arrischiarci di parlare di dissoluzione
dei distretti, che il distretto è fin dalla sua origine
un sistema evolutivo nel quale regna una cultura di
cambiamento: esso muta, si adatta, si evolve e può
quindi rispondere alle sfide imposte dal processo
di globalizzazione.
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Questo scritto riproduce, lievemente modificato il
precedente: “Dal settore industriale al distretto
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Dario Ventura
La costituzione mista nel De
Magistratibus et Republica
Venetorum di Gasparo Contarini
Il Sestante
I. Repubblicanesimo, federalismo e costituzione mista
La fortuna del pensiero politico di Gasparo Contarini ha avuto una vicenda
alquanto singolare. Il De magistratibus et republica Venetorum infatti, pur rappresentando la più completa ed esauriente opera sulla struttura politica della
repubblica di Venezia composta da un cittadino veneziano, è stato tuttavia a
lungo trascurato, proprio in Italia, dagli studiosi del pensiero politico e della storia delle idee politiche. L’opera del cardinale infatti, a motivo della messe di
informazioni – invero piuttosto dettagliate – che fornisce sulle istituzioni della
repubblica veneta e sul loro funzionamento, è stata certamente oggetto dell’attenzione degli storici che si occupano della storia di Venezia e dell’Italia nella
prima età moderna; ma indubbiamente lo spessore filosofico del De magistratibus et republica Venetorum non è stato adeguatamente focalizzato.
Coloro che per primi hanno gettato luce su quest’ultimo fondamentale aspetto
dell’opera di Contarini sono stati alcuni storici anglosassoni, come Frederic C.
Lane o William J. Bouwsma, e studiosi della New Political History quali John G.
A. Pocock e Q. Skinner. Costoro, in qualità o di promotori e sostenitori, o di storici di quella corrente di pensiero denominata repubblicanesimo – o “ideologia
repubblicana”, basata sulla presunta supremazia del pensiero politico repubblicano, o, come è stata chiamata dai suoi critici (Pecchioli 1971, 693-708; Cochrane
– Kirshner 1975, 321-334; Vasoli 1977, 661-670), “ideologia americana” – hanno
dedicato la loro attenzione (anche) a Contarini e a Venezia in quanto hanno visto
nella Serenissima una tappa del percorso storico e filosofico-politico del repubblicanesimo, che nacque a Firenze agli inizi del XV secolo per approdare negli
Stati Uniti d’America attraverso la Gran Bretagna e, appunto, Venezia1.
Le considerazioni qui presentate non intendono seguire la via discendente dal
ricco e vivace dibattito, per lo più di carattere metodologico, che tale filone
interpretativo ha generato per stabilire la liceità o meno dell’interpretazione
della Venezia di Contarini quale momento del suddetto percorso; sarà bensì
imboccato il cammino contrario che risale alle fonti e si tenterà di addentrarsi nel
testo del De magistratibus et republica Venetorum per capire mediante quali
strumenti concettuali il cardinale analizzi e presenti la costituzione, la forma politica della sua città natale. Tale strumentario concettuale – che, per anticipare
quanto si vedrà in seguito, è rappresentato dalla nozione di costituzione mista –
È doveroso precisare
che, nella lunga introduzione all’edizione
italiana della sua
opera, J. G. A. Pocock
scrive che è errato
sostenere – come fa
invece C. Vasoli in
particolare – che "io
mi unisco a Bouwsma
e a Lane nel sostenere
che fu tramite l’esempio di Venezia che i
valori repubblicani
passarono nella tradizione anglo-americana. Venezia, in effetti,
ha un ruolo secondario e per certi aspetti
figura nel ruolo di
antagonista nella storia che narro"
(Pocock 1980, 28).
1
97
n.11 / 2005
sarà analizzato così come esso è stato recepito, inteso, delineato ed “usato” da
Gasparo Contarini, senza occuparsi delle influenze che esso ha avuto (o può aver
avuto) sul pensiero politico successivo, ma gettando invece uno sguardo sui riferimenti filosofici del pensiero politico del cardinale.
II. I "luoghi della mistione" nella costituzione di Venezia
Libertà (libertas) ha
qui un doppio significato: essa indica tanto
un regime non tirannico, quanto l’indipendenza da ogni
dominio esterno. I
Veneziani credevano
di possedere la libertas in entrambi questi
significati (Gilbert
1988, 119).
2
98
Nel tardo Medioevo e nell’Evo Moderno la repubblica di Venezia fu ammirata e
considerata come una sorta di leggenda, di caso straordinario in tutta Italia ed
anche in Europa. Questa fama era dovuta principalmente alla libertà2, alla pace e
stabilità interne, di cui sempre godette la repubblica veneta, nonostante essa
avesse vissuto momenti di crisi anche grave.
Fin dalle prime pagine del De magistratibus et republica Venetorum, Gasparo
Contarini dimostra di essere ben conscio dell’eccezionalità della sua città e ne
fornisce subito la spiegazione: Venezia "avanza" (Contarini 1551, 9) tutte le altre
formazioni politiche non solo e non tanto per il luogo sicuro in cui sorge, ma
soprattutto "per la forma di Republica dalla quale si fa la vita degli uomini beata"
(Contarini 1551, 9). Il cardinale ammette che la storia ha conosciuto repubbliche
superiori a quella veneta per "imperio, stato e gloria di guerra" (Contarini 1551,
9), ma osserva come nessuna di queste possa essere paragonata alla città lagunare per "istituzione" (Contarini 1551, 9) e "leggi accomodate a bene e felicemente vivere" (Contarini 1551, 10). Sono proprio le leggi il motivo della pace,
della stabilità, della libertà della repubblica di Venezia, il motivo per cui essa passerà alla storia come Serenissima.
E lungo tutto il De magistratibus et republica Venetorum, Contarini tesse l’elogio di coloro che emanarono tali leggi: gli "antichi maggiori" (Contarini 1551,
10), ossia i fondatori di Venezia. Costoro furono uomini eccezionali quanto a
"sapientia, industria, virtù d’animo, carità verso la patria" (Contarini 1551, 10),
persone che "non si dilettarono d’ambizione né di boria, ma solamente ebbero
cura del ben della patria e dell’utilità comune" (Contarini 1551, 11) e che si occuparono in primis di orientare ed ordinare la vita dei cittadini all’uso della virtù
(Skinner 1989, 248-249).
Un merito particolare Contarini ascrive agli "antichi maggiori": nella loro opera
fondativa essi "posero studio maggiore nella pace che nella guerra" (Contarini
1551, 19). Il cardinale non vuol certo sostenere che i fondatori trascurarono "gli
uffici della guerra" (Contarini 1551, 19), bensì sottolineare come costoro si adoperarono in primo luogo affinché in nessun modo "si dissolvesse la civile concordia" (Contarini 1551, 19).
Per Contarini è proprio questo lo scopo per cui, confortati anche dall’opinione
dei "filosofi famosi" (Contarini 1551, 18) secondo i quali la repubblica si deve
"temperare dello stato dei nobili e di quello popolare […] per fuggire gli incomodi dell’uno e dell’altro governo e per averne tutte le utilità" (Contarini 1551,
18), essi "fecero quella mescolanza di tutti gli stati che giusti sono, acciocché
questa sola republica avesse il principato Regio, il governo dei nobili e il reggimento dei cittadini" (Contarini 1551, 19).
Nel presentare e descrivere la repubblica di Venezia e i suoi magistrati, il cardinale ricorre – come si può desumere dai passi appena riportati – a quella concettualità, a quella tradizione di pensiero che è indicata con l’espressione di
“costituzione mista”. Vanno subito sottolineati due aspetti, che già si possono
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
rilevare da queste due citazioni: in tutto il De magistratibus et republica
Venetorum Contarini non usa mai l’espressione “costituzione mista”; non solo,
ma per indicare i componenti di cui la repubblica veneziana è mescolanza, usa –
verrebbe da dire indifferentemente – diversi vocaboli: il cardinale infatti parla di
"stato" ma anche di "principato" regio ed usa i termini di "governo", come pure
di "stato" ed anche di "reggimento", per indicare tanto l’elemento popolare
quanto quello nobiliare (Contarini 1551, 72, 74, 92). Ciò che tuttavia salta immediatamente all’occhio, è non solo l’uso di una terminologia instabile, fluttuante,
ma soprattutto il fatto che il cardinale presenta la repubblica della sua città natale come mescolanza, ora di due elementi (il popolare ed il nobiliare), ora di tre
(il regio, il popolare ed il nobiliare). Si è insomma in presenza, oltre che di una
terminologia multiforme, varia, anche di una molteplicità e diversità a livello concettuale.
Nell’utilizzare la categoria indicata dall’espressione “costituzione mista”,
Contarini infatti si rifà a due differenti concettualità: ad una prima, quella che
prevede la mistione di due soli componenti, la quale è riconducibile, in modo
piuttosto chiaro, alla scienza politica di Aristotele; ad una seconda, di ispirazione
polibiana3 e – per indicare un referente più prossimo a Contarini – tomista:
"Politia bene commista ex regno… et aristocratia… et ex democratia"
(Thomas de Aquino 1988, I-II, 105, 1). Verso la fine del ‘200, seguendo fedelmente San Tommaso che indicava in quella mista la miglior forma di “costituzione”, è Enrico da Rimini a parlare per primo di Venezia come di regimen mixtum.
Questa concezione è ripresa, circa un secolo più tardi, da Pier Paolo Vergerio nel
suo De repubblica Veneta e, nella prima metà del ‘400, dal cronachista Lorenzo
De Monacis. La teoria che vedeva nella repubblica di Venezia la realizzazione dell’ideale della “costituzione mista” (contemplante la mistione delle forme della
monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia) è riproposta con forza da
Giorgio da Trebisonda attraverso la presunta derivazione dell’ordinamento veneziano dalle Leggi di Platone (Ventura 1981, 533-542; Gilbert 1988, 121-123). Non
solo queste due distinte concettualità – per così dire – si accavallano ed intrecciano nel corso di tutto il De magistratibus et republica Venetorum, ma è fin da
subito indispensabile notare come il cardinale se ne serva in modo decisamente
libero e disinvolto e quindi, in definitiva, originale.
Per dipanare quest’intricato nodo di tradizioni, è opportuno iniziare dal riferimento ad Aristotele. Lo Stagirita definisce la politeia (intesa come forma specifica di costituzione) come, "per dirla in maniera generale, una mistione di oligarchia e democrazia" (Aristotele 1993a, 1293 b 33-34). Nel nono capitolo del quarto libro della Politica, Aristotele spiega infatti che costruire una politeia vuol dire
mettere insieme elementi della democrazia ed elementi dell’oligarchia, "prendendo per così dire un sumbolon da ciascuna delle due" (Aristotele 1993a, 1294
a 35). Tre sono i "luoghi della mistione" (Aristotele 1993a, 1294 a 36):
• Le assemblee giudiziarie. Il criterio oligarchico prevede ammende per i ricchi
che non vi prendono parte e per i poveri nessun compenso se vi partecipano;
invece il criterio democratico elimina l’ammenda per i ricchi che non partecipano, ma stabilisce una ricompensa per i poveri che vi prendono parte. "Prendere
contemporaneamente queste due disposizioni è una soluzione comune e intermedia tra le due legislazioni e per ciò stesso caratteristica di una politeia, poiché
è una mescolanza di due regimi" (Aristotele 1991-1996, 1294 a 43-45). Ciò che
"È infatti chiaro che
si deve ritenere migliore quella costituzione
che è composta da
tutti e tre gli idiomi
menzionati in precedenza [ossia basileia,
aristocratia, democratia]" (Polibio 1987, 6,
3, 7).
3
99
n.11 / 2005
La funzione del
Maggior Consiglio,
come subito si vedrà,
era quella di scegliere
i cittadini che dovevano rivestire le varie
magistrature. Ma non
solo. A Venezia tutte le
leggi erano emesse
"sotto nome del Doge"
(Contarini 1551, 23),
fatta eccezione per il
periodo intercorrente
tra la morte di un
Doge e la proclamazione del suo successore, durante il quale le
leggi erano "ordinate
dall’autorità di questo
Consiglio" (Contarini
1551, 26).
4
100
qui vuol dire lo Stagirita è che in una politeia sono previste tanto un’ammenda
per i ricchi che non partecipano alle assemblee giudiziarie, quanto una indennità per i poveri che invece vi prendono parte.
• Le assemblee deliberative. Secondo gli oligarchici il merito (ossia il requisito
che è necessario soddisfare per essere cittadini e, in quanto tali, poter appunto
aspirare ad esser membri dell’assemblea) è quello di un censo elevato; secondo
i democratici il merito è rappresentato dalla semplice eleutheria (libertà) o da
un censo esiguo. In una politeia il merito richiesto è quello di un censo che sia
mediano tra quelli prescritti dalle due costituzioni.
• Criterio di assegnazione di cariche e magistrature. Il criterio oligarchico è quello dell’elezione; il criterio democratico è quello del sorteggio. In una politeia le
cariche sono elettive, ma indipendenti dal censo.
È di importanza fondamentale far presente subito il seguente aspetto: se si assume come prospettiva il secondo dei due punti sopra elencati, allora la repubblica di Venezia non appare certo come mescolanza di elementi e criteri diversi.
Contarini spiega come il merito per essere cittadini – così stabilirono gli "antichi
maggiori" – non sia la ricchezza, neppure un censo intermedio. Tra i nativi veneziani sono invece cittadini i nobili. Usando quest’ultimo termine, il cardinale
intende significare non solo e non tanto la nobiltà di sangue, bensì la virtù: i
nobili sono infatti uomini "chiari per virtù, benemeriti della Republica"
(Contarini 1551, 22), tutti coloro che con ricchezze e prove di valore "han fatto
beneficio alla Republica" (Contarini 1551, 22) e la hanno onorata; i nobili non
praticano la professione di artigiano, servo o mercenario, ma fin da ragazzi si
dedicano agli studi liberali o all’arte marittima (Contarini 1551, 140-142).
A questo punto, anche tralasciando la natura del rapporto tra i concetti di nobiltà e di virtù (tutt’altra che chiara nelle parole di Contarini), è già possibile fissare e sottolineare un aspetto di importanza decisiva: poiché il merito è unicamente ed univocamente inteso come nobiltà, Venezia, sotto questa specifica ma
fondamentale prospettiva, è un’aristocrazia. I cittadini della repubblica veneta
sono solo i nobili; detto altrimenti, nel Maggior Consiglio – l’assemblea cui accedevano tutti i cittadini veneziani, "appresso il quale è la somma autorità di tutta
la Republica" (Contarini 1551, 23)4 – siedono soltanto i nobili: "i nostri maggiori ordinarono saviamente che la plebe non fosse ammessa a questa compagnia di
cittadini nella quale è tutta la possanza della Republica" (Contarini 1551, 20).
La mistione di "stato" popolare e "stato" dei nobili si verifica invece a Venezia in
relazione al terzo "luogo" elencato da Aristotele. La procedura mediante la quale
il Maggior Consiglio "crea" (Contarini 1551, 26) tutti i magistrati ed assegna le
cariche di Senatore e di Doge, è una complicatissima ed originale mescolanza di
sorteggio ed elezione. Nella sua struttura essenziale, tale procedimento consta di
molteplici passaggi in cui, tra tutti i cittadini riuniti nel Maggior Consiglio (ossia
i soli nobili!) viene sorteggiato un gruppo, il quale elegge un altro numero di cittadini, tra i quali vengono nuovamente sorteggiati altri cittadini ancora, i quali –
a loro volta – ne eleggono altri. E così in questo modo per più volte (il numero
delle quali varie a seconda dell’incarico che deve essere assegnato) finché,
mediante l’ultima fase che consta sempre di un’elezione, viene "creato" il magistrato.
Per quel che riguarda la procedura di "creazione" dei soli Senatori, ovvero i
membri del Senato, l’assemblea cui apparteneva "la cura del governo della
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
Republica" (Contarini 1551, 77), si deve notare come in questa sia riscontrabile
la presenza di un ulteriore criterio. Infatti, oltre a quello popolare (corrispondente al criterio che per Aristotele è democratico) e a quello nobiliare (rispondente a quello che per lo Stagirita è il criterio oligarchico), compare anche un criterio che – visto il palese riferimento alla Politica di Aristotele pur in assenza di
una citazione diretta – si potrebbe denominare aristocratico: l’anzianità5. Per il
cardinale, come la natura "ha così disposto l’ordine di tutto il mondo, che le cose
prive di senso e di intelletto, dalle adorne di mente e di ingegno siano rette e
governate" (Contarini 1551, 73), così ha di conseguenza stabilito che "in questa
radunanza di uomini, la quale da noi vien chiamata città, i più vecchi ai più giovani debbano essere preposti di prudenza" (Contarini 1551, 73). Rispetto ai giovani infatti, gli anziani sono meno esposti al vento delle passioni ed hanno più
esperienza. Pertanto, "quando questo ammaestramento s’accosta il più che può
alla Natura, l’imperio dei vecchi non può dai più giovani essere in alcun modo
biasimato e per questa cagione far nascere sollevamento nella Republica"
(Contarini 1551, 73).
Con l’istituzione della suddetta procedura nella creazione dei magistrati, gli
"antichi maggiori" conseguirono due risultati egualmente importanti e significativi. Mediante il sorteggio ottennero che tutti i cittadini potessero partecipare
con ugual “peso” e probabilità alla "creazione" dei magistrati e contemporaneamente che le cariche fossero distribuite tra i membri di tutte le famiglie6. Grazie
a ciò fu così possibile evitare che una o poche casate diventassero troppo potenti rispetto alle altre, alimentando così il risentimento delle famiglie escluse con
serio pericolo per la concordia tra i cittadini e quindi per la pace e la stabilità
della repubblica (Contarini 1551, 39). Mediante l’elezione resero possibile evitare l’inconveniente dell’estrazione a sorte, ovverosia che le magistrature potessero essere ricoperte da persone ad esse non adeguate (Contarini 1551, 42). In
considerazione di questa modalità procedurale, Contarini può dunque affermare che nell’assegnazione delle cariche è "mista insieme con la specie popolare la
forma dei savi maggiori e nobili" (Contarini 1551, 42)7.
La modalità in cui sono istituite ed organizzate le tre Quarantie – i principali tribunali di Venezia – presentano un riferimento al primo di quelli che Aristotele
ha indicato come i luoghi della mescolanza tra oligarchia e democrazia.
L’assegnazione di un compenso ai membri poveri del tribunale è un provvedimento che viene adottato allo scopo di coinvolgere anche i cittadini meno facoltosi nella vita politica. Tale emolumento consente infatti a costoro di lasciare le
loro occupazioni personali e di poter pertanto svolgere la mansione di giudice
non solo senza essere economicamente danneggiati, ma anzi, da questo punto
di vista, gratificati. Ebbene, poiché "le più volte" (Contarini 1551, 105) i cittadini
(comunque nobili) che rivestono la funzione di giudice nelle Quarantie non
sono abbienti, le leggi veneziane prevedono una diaria per costoro (mentre non
sanzionano con un’ammenda quei membri ricchi che non prendono parte alle
sedute del tribunale pur essendone stati "creati" membri): in tal modo anche "i
cittadini di basso grado hanno adito alla Republica" (Contarini 1551, 105).
Stando così le cose, si deve concludere che le Quarantie erano costituite secondo quello che lo Stagirita aveva stabilito essere il criterio democratico. Non si
deve tuttavia sopravvalutare l’importanza di questo “segmento” delle istituzioni
veneziane, giacché, come vedremo in seguito, il controllo dei "cittadini di basso
5
Per l’autore della
Metafisica è infatti
l’anzianità il criterio
che permette di accedere alla funzione di
governo e regola l’alternanza tra governanti e governati
nelle aristocrazie
(Aristotele 1993a, 1329
a 2-19 e, soprattutto,
1332 b 35-41).
6
"Cosa propria […] e
peculiare è di ogni
Republica che della
publica potestà molti
partecipino. E quella
cosa è molto giusta,
che i cittadini tra loro
uguali […] non siano
diseguali nel conseguir gli onori"
(Contarini 1551, 3940). E i cittadini veneziani sono, per
Contarini, uguali tra
loro, in quanto tutti
ugualmente nobili.
Nel passo appena
riportato si trova un
palese riferimento –
seppur in assenza di
una esplicita citazione – alla dottrina aristotelica del giusto distributivo. (Aristotele
1993b, 1131 a 10 –
1131 b 24; Aristotele
1993a, 1301 b 29-39,
1302 b 12-14).
7
E, aggiunge il cardinale, "pure con siffatta temperanza, che
quella che è dei nobili
e maggiori, avanzi la
ragione popolare"
(Contarini 1551, 42).
Tale precisazione è
addotta per il fatto
che l’ultima e decisiva
fase della procedura
di "creazione" dei
magistrati era sempre
rappresentata da una
elezione
101
n.11 / 2005
In relazione a quanto appena detto è
opportuno ricordare
che, in un contesto
politico-culturale premoderno come quello
cui appartiene anche
Contarini, l’agire politico consta tanto del
“governare”, quanto
dell’”essere governato”
(Duso 1999, 56-61).
Può inoltre essere utile
ricordare la definizione di cittadino che dà
Aristotele: cittadino è
"quegli che ha la
facoltà di partecipare
all’ufficio di consigliere e di giudice"
(Aristotele 1993a, 1275
b 19-20).
8
102
grado" sulle Quarantie era comunque equilibrato e controbilanciato, nell’ambito
complessivo della forma mista della repubblica di Venezia, dal controllo su altre
istituzioni esercitato dai cittadini di grado più alto.
Non riferendosi più ad alcuno dei luoghi della mistione indicati da Aristotele, ma
sempre usando il concetto di mescolanza di due elementi, il popolare e il nobiliare, Contarini presenta ancora un altro aspetto “misto” della repubblica veneta:
la modalità procedurale secondo la quale delibera il Senato, che, come visto, è
l’assemblea cui "appartiene tutta la cura del governo della Republica" (Contarini
1551, 77). Il cardinale spiega come fosse compito del Collegio dei Proconsultori
o "Savi" (Contarini 1551, 23) elaborare e formulare le proposte dei decreti, le
quali, per avere vigore, dovevano essere confermate (non dibattute, bensì semplicemente convalidate) dal Senato – ossia da tutti i senatori riuniti in assemblea
– mediante una votazione a scrutinio segreto. In tal modo di "consigliarsi"
(Contarini 1551, 92) del Senato, secondo Contarini "appare chiaramente un
certo mescolamento di leggi dello stato popolare e della Republica dei nobili"
(Contarini 1551, 92). Il fatto che la prerogativa del Senato sia limitata alla votazione (senza possibilità di controproposta) dei progetti di decreto presentati dal
Collegio dei Savi rappresenta "lo stato dei nobili" (Contarini 1551, 92); mentre il
fatto che le proposte dei Proconsultori, per aver il titolo giuridico di decreto o
senatoconsulto, debbano essere confermate dal voto del Senato, "è come un
ordine di popolar governo" (Contarini 1551, 92).
È qui opportuno notare come la procedura deliberativa appena descritta fosse
seguita da tutte le magistrature della Serenissima. Il cardinale osserva come gli
"antichi maggiori" avessero stabilito che nessun magistrato potesse, da solo,
"essere arbitro, ovvero giudice, di nessuna cosa; ma in ogni cosa hanno voluto
che la somma autorità e arbitrio fosse attribuito ai Consigli ovvero ai Collegi"
(Contarini 1551, 101). Ebbene, mentre solo i Capi del Collegio ("creati" dal
Collegio stesso) disponevano della prerogativa di formulare le proposte di provvedimenti, solo il Consiglio nella sua interezza poteva approvarli e licenziarli.
A questo punto è possibile trarre una prima conclusione. Come già si è detto, se
si assume come prospettiva quella del merito, ossia del requisito da soddisfare
per poter essere cittadini, Venezia è un’aristocrazia, poiché cittadini sono solo ed
esclusivamente i nobili (in quanto per nobiltà – come visto – è da intendersi la
virtù). Quello del merito è un punto di vista imprescindibile, perché permette di
distinguere tra chi è cittadino e chi non lo è, ovverosia consente di definire, cioè
di delimitare e di circoscrivere, all’interno di una comunità più o meno vasta di
uomini, la cittadinanza, ovvero l’insieme di coloro che hanno titolo, valore politico, ossia possono agire politicamente8.
Tuttavia tale punto di vista chiarisce un aspetto che certamente è fondamentale
– come lo è appunto quello della definizione della cittadinanza – ma che è, per
così dire, preliminare. La prospettiva del merito dice infatti ancora molto poco
circa la forma politica, la “costituzione” di una cittadinanza, ossia circa le "parti"
che la compongono (che, appunto, la “costituiscono”); circa le istituzioni e le
magistrature (e il loro funzionamento), le strutture e le leggi le quali concretamente formano una società politica in quanto tale, nelle, mediante e secondo le
quali si articola l’agire politico di una cittadinanza, le quali fanno, di un insieme
formale di cittadini (formale in quanto si tratta semplicemente di uomini che formalmente soddisfano un determinato requisito), una società politica, ovvero un
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
insieme di uomini che concretamente vive ed agisce politicamente. Ebbene, presentando le cariche e le magistrature in vigore nella repubblica di Venezia ed
elencandone le competenze e le funzioni, il cardinale, allo scopo di spiegare le
modalità procedurali mediante le quali i cittadini potevano ricoprire tali cariche
e secondo le quali ogni magistratura giungeva alla deliberazione, ricorre – come
visto – a quella che più sopra è stata indicata come la prima delle due concettualità denominate (ambedue) con l’espressione di “costituzione mista”: quella
che contempla la mescolanza di due elementi, ossia il popolare ed il nobiliare,
ricorre cioè al modello aristotelico.
III. Le parti della repubblica veneziana
Dopo aver esposto il procedimento mediante cui il Senato giunge alla promulgazione di un senatoconsulto, Contarini scrive: "non solamente in tutto il corpo
insieme di questa Republica, ma ancora in qualunque parte e membro di quella,
chi con dritto occhio riguarda troverà questo mescolamento che ho detto: col
quale questi giusti modi e ragioni del governare siano unitamente congiunti in
una specie e forma della Republica nostra" (Contarini 1551, 92). Insomma: all’interno di ogni parte e membro della Serenissima, ovvero all’interno di ogni suo
organo istituzionale (per quel che riguarda le procedure sia di deliberazione che
di "creazione"), si trova una mescolanza di più modi e ragioni, ossia di più criteri; precisamente – come fin qui visto – il popolare ed il nobiliare.
Sorge però ora spontanea una domanda: quali sono queste "parti", queste
"membra" della repubblica? Quali "parti", "membra" formano, “costituiscono”
l’insieme formale dei nobili come un effettivo ed attivo corpo politico? Quali
sono le "membra" che fanno sì che l’insieme formale dei cittadini diventi e sia
una cittadinanza concreta, ossia una società politica che, in quanto tale, agisce
politicamente? O, detto altrimenti: quali sono queste "parti" in e mediante le
quali i cittadini agiscono politicamente, ossia sono appunto tali, cioè cittadini?
A Venezia l’elemento regio era rappresentato dal Doge, il popolare dal Maggior
Consiglio, quello nobiliare dal Senato e dal Consiglio dei Dieci (Contarini 1551,
72, 74). È qui importante prestare attenzione alla terminologia con cui il cardinale connota le suddette "parti". Queste sono denotate da Contarini nel modo
seguente: il Doge, "il Principe nella Città di Venezia" (Contarini 1551, 44), "dimostra la persona d’un Re e una specie di governo Regio" (Contarini 1551, 44); il
Maggior Consiglio "dimostra lo stato popolare" (Contarini 1551, 72); infine il
Senato ed il Consiglio dei Dieci "rappresentano lo stato dei nobili" (Contarini
1551, 74).
Queste stesse tre parti vengono descritte dal cardinale come segue: il Doge
"mostra una possanza Regia, avendo maggiormente una sembianza di Re […] e
dignità di Re" (Contarini 1551, 23); chi guarda costui vi può "scorgere una specie di Re" (Contarini 1551, 50); il Maggior Consiglio "ha nella Republica similitudine dello stato popolare" (Contarini 1551, 23); il Senato ed il Consiglio dei Dieci
"mostrano una certa specie dei nobili" (Contarini 1551, 23). Tutte le proposizioni di questo gruppo di citazioni, pur riferendosi ad un oggetto diverso, hanno un
elemento in comune: sono costruite mediante il medesimo schema formale. Sia
il Doge, che il Maggior Consiglio, che il Senato (e il Collegio dei Dieci) sono presentati come somiglianti a qualcosa che, però, in realtà non sono.
Ma per appurare il ruolo del concetto di “costituzione mista” nel De magistrati-
103
n.11 / 2005
"Nel Contarini è viva
[…] anche se per lo
più inespressa, la
coscienza della stratificazione sociale del
patriziato, di cui
“stato misto” e “stato
aristocratico” rappresentano proiezioni
costituzionali, due
piani che variamente
combinati articolano
la partecipazione allo
stato misto dei cittadini patrizi secondo il
diverso rango sociale"
(Ventura 1981, 552).
9
104
bus et republica Venetorum di Contarini, è ora indispensabile vedere che cosa
si intenda con questa espressione, quali siano cioè i casi in cui, riferendosi ad una
formazione politica, è lecito parlare di “costituzione mista”. Ebbene questa categoria indica una forma costituzionale sui generis (Nippel 1980, 21) "con cui si
intende una regolamentazione istituzionalizzata del compromesso tra gli strati
sociali" (Nippel 1980, 51). Si è insomma in presenza di una “costituzione mista”
quando una società politica riflette, nelle sue istituzioni e leggi, un equilibrio, un
accordo (o accomodamento) tra le parti sociali di cui è composta; ovvero quando le istituzioni e gli organismi di una società politica sono espressione o lasciano trasparire o sono il risultato di un bilanciamento, un compromesso tra le parti
che la compongono.
Così, si può parlare di “costituzione mista” quando il requisito da soddisfare per
poter accedere all’assemblea e poter essere membro del tribunale (ed essere
pertanto cittadino) è, ad esempio, un censo intermedio: questo è infatti un caso
in cui si trova espresso e riflesso a livello “istituzionale” (com’è quello cui l’assemblea e il tribunale si riferiscono) l’equilibrio tra la parte dei ricchi e quella dei
poveri. Oppure si è in presenza di una “costituzione mista” quando ciascun organismo istituzionale è l’espressione di una parte della società politica, e ciò avviene in modo tale che, a livello “istituzionale”, i vari organismi esprimono e riflettono quello stesso rapporto di equilibrio e bilanciamento reciproco in cui si trovano le rispettive parti “sociali” di cui essi sono l’espressione (Nippel 1980, 24).
Tenendo presente quanto appena detto, si dovrebbe giungere alla conclusione
che Venezia non può essere intesa come una “costituzione mista”: non si può
infatti parlare di un "regolamento istituzionalizzato di un equilibrio (o compromesso) tra le parti" – per esempio tra ricchi e poveri, o tra nobili e non-nobili,
per calarsi nella realtà veneziana – per il semplice fatto che questo "compromesso", in qualsiasi modo lo si voglia intendere, non c’è, e non c’è in quanto non
è necessario. E questo perché solo i nobili sono cittadini, tutti i non-nobili sono
rigorosamente esclusi; e le tre più importanti istituzioni della Serenissima – considerate sia singolarmente, sia nei rapporti tra loro intercorrenti – non esprimono e riflettono nessun equilibrio tra parti “sociali” diverse perché lo spazio politico è totalmente riservato (e gelosamente custodito) da una sola ed unica parte
degli abitanti di Venezia: i nobili, appunto. Ci si potrebbe esprimere nel seguente modo: i nobili sono sì una “parte” (tra l’altro minoritaria) degli abitanti della
città lagunare, ma ne rappresentano al contempo il “tutto politico”. Un “tutto
politico” omogeneo, compatto e – verrebbe da dire – caratterizzato da una
sostanziale uguaglianza al suo interno (Contarini 1551, 30, 75). Insomma, considerata la definizione comune di “costituzione mista”, non resta che concludere
che Venezia è un’aristocrazia.
A meno che Contarini non intendesse la nobiltà veneziana come essa stessa composta di "parti", di cerchie diverse9. Per trovare una prova testuale di tale ipotesi
è necessario ricordare i vocaboli mediante i quali il cardinale denota e connota
le tre "parti" della repubblica. Quando infatti scrive che il Maggior Consiglio
"dimostra lo stato popolare", Contarini intende dire che il Maggior Consiglio è
espressione di quello che si potrebbe chiamare il “patriziato minore”. Se l’autore del De magistratibus et republica Venetorum connota il Maggior Consiglio
come somigliante allo "stato popolare", ciò è dovuto al fatto che, nella repubblica di Venezia (un’aristocrazia, poiché suoi cittadini erano solamente i nobili), il
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
“patriziato minore” è il corrispettivo della cerchia popolare – “sta al posto” che
quest’ultima occupa – in una costituzione autenticamente mista (ossia in una
costituzione le cui parti sono “socialmente” eterogenee: i ricchi e i poveri, i nobili e i non nobili). Ben si capisce il motivo per cui il cardinale scrive che il Maggior
Consiglio è simile allo "stato popolare" (verrebbe da dire “solamente” simile:
“solamente” simile perché non lo è, non lo può essere): in esso infatti sedevano
solo ed esclusivamente i nobili; il popolo – le arti, le corporazioni, i non-nobili –
ne era rigorosamente escluso.
Allo stesso modo, quando Contarini scrive che il Senato e il Consiglio dei Dieci
rappresentano lo "stato dei nobili", intende dire che queste due magistrature di
Venezia sono espressione di quello che si potrebbe chiamare il “patriziato maggiore”, ossia delle famiglie più importanti della Serenissima10; verrebbe da dire
che queste due magistrature rappresentano le casate più potenti ed influenti (tra
cui i Contarini). Se il cardinale connota il Senato e il Consiglio dei Dieci come
"una certa specie" di un non meglio specificato "stato dei nobili", ciò è dovuto al
fatto che, nella repubblica di Venezia, il “patriziato maggiore” è il corrispettivo
della cerchia nobiliare – “sta al posto” che quest’ultima occupa – in una costituzione autenticamente mista. Ben si capisce il motivo per cui Contarini scrive che
Senato e Consiglio dei Dieci sono simili (“solamente” simili) allo "stato dei nobili": a queste due magistrature spettava il governo della repubblica di Venezia11 ;
ebbene, se è certamente vero che i loro membri erano nobili, è altrettanto vero
che anche i cittadini da essi governati erano comunque tutti nobili, tanto quanto loro.
Il Doge è presentato come il più importante dei magistrati, come l’indispensabile principio di unità della repubblica veneta12 , come colui cui è "scolpita nel core
la cura di conservare il bene comune e di tutta l’unione civile" (Contarini 1551,
45)13 . Il cardinale però spiega come, in realtà, egli rivesta una funzione principalmente consultiva, in quanto egli "da solo nulla può fare" (Contarini 1551, 49).
Il Doge, infatti, "ottiene quella potestà, che a qualsiasi Collegio dei Cittadini può
aggiungere sé per collega al Presidente della Magistratura: ha l’ugual potestà che
hanno tutti gli altri Presidenti e ciò affinché soprattutto possa a tutti consigliare"
(Contarini 1551, 49); e, al momento di deliberare, "nulla autorità ha di più che
ciascuno di quelli che nell’ufficio di quella Magistratura si ritrovano" (Contarini
1551, 49): il suo voto “vale” tanto quanto quello degli altri membri del Collegio,
ossia – per così dire – “vale uno”. Ben si capisce il motivo per cui Contarini scriva che il Doge è simile (“solamente” simile) a un re: è vero che il dogato era una
carica vitalizia e che disponeva di tutti gli attributi e gli onori della regalità
(Contarini 1551, 50-61, 69-70); ma non ne presenta le prerogative essenziali: l’ereditarietà della carica e soprattutto l’autorità di governo. Il Doge è infatti un
nobile (appartenente al “patriziato maggiore”) che – come detto – svolge un’importante funzione di raccordo.
Ora: la cittadinanza veneziana – come il cardinale ribadisce lungo tutto il corso
della sua opera – era composta dai soli nobili e pertanto, da questo specifico
punto di vista, la repubblica di Venezia non può che essere classificata come
un’aristocrazia. Nondimeno, come si è visto, Contarini usa la concettualità indicata dall’espressione “costituzione mista” per illustrare i magistrati e la repubblica dei Veneziani. La contraddizione che si potrebbe riscontrare tra il presentare
chiaramente la repubblica di Venezia come un’aristocrazia e il descriverne la
10
Per meglio comprendere il significato delle
espressioni “patriziato
minore” e “patriziato
maggiore”, è opportuno tener presente che,
in occasione della
“Serrata” del Maggior
Consiglio (1297-1323),
il patriziato veneziano "fu da subito diviso
al suo interno tra
famiglie ricche e famiglie povere, tra famiglie demograficamente forti e famiglie
deboli o sull’orlo dell’estinzione. Ci fu
altresì una divisione
per rango di cui l’interprete più importante è l’autore della
Venetiarum Historia,
che scrive verso la
metà del 1300. Costui
diede vita in pratica
alla lista di quelle
ventiquattro famiglie,
le “nobiliores” – che
saranno note più
tardi come “case vecchie” o “longhe” – alle
quali l’autore volle
attribuire origini tribunizie in epoca
bizantina" (Müller
1992, 53).
11
Tutta la cura del
governo della
Republica appartiene
al Senato" (Contarini
1551, 77). Il Consiglio
dei Dieci era nato
come organo di
garanzia e controllo
della "salute della
Republica" (Contarini
1551, 86), aveva cioè
il compito di custodire
la costituzione veneziana così come questa era stata consegnata alla città dagli
"antichi maggiori".
105
n.11 / 2005
Tuttavia tale magistratura aveva
ampliato sempre più
le sue funzioni e competenze, giungendo a
controllare l’aspetto
finanziario-economico della repubblica
veneta (Contarini
1551, 90).
"Chi dubita che ogni
compagnia da una
certa catena d’unità
non si tenga stretta e
legata insieme? […]
L’unità non si può
comodamente ritenere
se non da uno, il
quale sia superiore
alla moltitudine e a
tutti i Magistrati […]
e che raccolga la moltitudine quasi in un
certo modo dispersa e
sbandata e la restringa insieme quasi in
un corpo" (Contarini
1551, 45).
12
Egli deve far sì che
"tutte le cose consonino al bene comune e
si riferiscano all’unione civile, [affinché
nessun magistrato]
per soverchi accuratezza […] sia di
danno cagione alla
publica utilità"
(Contarini 1551, 48).
Per Contarini è opportuno che la preoccupazione che tutte le
cose "consonino" al
bene comune sia affidata ad una persona
sola per il fatto che
"quello di che molti
hanno cura, tutti
parimenti dispregiano" (Contarini 1551,
47).
13
106
composizione (la “costituzione”) ricorrendo comunque al concetto di “costituzione mista”, è evitata dal cardinale mediante il modo decisamente originale in
cui egli utilizza la categoria di “costituzione mista”; un uso che si concilia con la
concezione di Venezia come aristocrazia.
Contarini infatti impiega il concetto di “costituzione mista” comprendente tre
elementi per presentare e descrivere le "membra", le "parti" che “costituiscono”
la nobiltà veneta in quanto repubblica; le "parti" in e mediante le quali si snoda
e si estrinseca l’agire politico dei cittadini Veneziani (chiaramente, dei nobili
veneziani) in quanto tali, cioè – appunto – cittadini. Ed utilizza la categoria di
“costituzione mista” che contempla due elementi (servendosi anche, ma non
solo, del primo e del terzo dei luoghi della mistione proposti da Aristotele), per
spiegare le modalità procedurali con cui tali "parti" – si passi l’espressione –
“funzionano”, ossia deliberano, e mediante cui è regolato l’accesso ad esse. Ci si
potrebbe insomma esprimere in questo modo: Contarini proietta, costruisce e,
in definitiva, risolve la concettualità indicata dall’espressione “costituzione mista”
– tanto di tre quanto di due elementi – tutta all’interno dell’aristocrazia, ossia
della cittadinanza composta di soli nobili, veneziana.
IV. Le tre grandezze politiche
A questo punto è opportuno ritornare alla domanda posta all’inizio della precedente sezione: quali sono le "parti" della repubblica di Venezia? La risposta fornita ha evidenziato come il cardinale, col vocabolo "parti" si riferisca a cerchie,
insiemi “sociali” e, congiuntamente, alla loro espressione (al loro riflesso) a livello “istituzionale”.
Tuttavia un passo del De magistratibus et republica Venetorum permette di
pensare come Contarini attribuisca al termine "parti" un ulteriore e diverso significato. "Poscia che del Gran Consiglio, il quale in questa Republica dimostra lo
stato popolare, e del Principe, il quale una forma di Re rappresenta […] abbiamo trattato, par che l’ordinata opera richieda che noi riferiamo dell’altre parti di
questo governo, le quali rappresentano il reggimento dei Nobili" (Contarini
1551, 72). Leggendo queste righe, si può allora pensare che il cardinale, chiamando "parte" lo "stato popolare", la "forma di re" e il "reggimento dei nobili",
intenda indicare tre funzioni o principi politici all’interno del governo di Venezia.
Le tre "parti" indicano allora – per così dire – tre grandezze politiche corrispondenti tanto a tre soggetti reali (il “patriziato minore”, il Doge e il “patriziato maggiore”) quanto a tre funzioni politiche: rispettivamente la funzione del suffragio,
quindi quella del consiglio ed infine quella del governo. Queste tre funzioni possono anche essere considerate come tre principi politici: rispettivamente, come
il principio democratico, monarchico ed aristocratico; o, per essere più aderenti alla terminologia contariniana, principio popolare, regio e nobiliare.
Allorquando il cardinale parla di "stato popolare, Regio e nobiliare" (Contarini
1551, 74), sembra infatti intendere il termine "stato" non solo nel senso di cerchia “sociale”, ma anche appunto nel senso qui indicato di “principio politico”.
Ebbene, nella repubblica di Venezia ad ogni soggetto reale corrisponde un principio e quindi una funzione politica: infatti, al “patriziato maggiore” corrisponde
il principio nobiliare, in quanto esso esercita la funzione politica del governo
(“attraverso” gli organi istituzionali del Senato e del Consiglio dei Dieci di cui –
come visto – esso è espressione); al “patriziato minore” corrisponde il principio
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
popolare, in quanto esso esercita la funzione politica del suffragio, ovvero della
"creazione" di tutti i magistrati (“attraverso” il Maggior Consiglio di cui – come
visto – esso è espressione); al Doge, un nobile appartenente al “patriziato maggiore”, infine corrisponde il principio regio, in quanto egli esercita la funzione
del consiglio (e – come visto – dell’unificazione).
E importante sottolineare un ultimo aspetto: Venezia è per Contarini non solo
una “repubblica mista” (in quanto – come visto – “costituita” di più "parti"), ma
è anche una “repubblica mista” ordinata bene, saggiamente. Nel fondarla, infatti, gli "antichi maggiori" non solo "fecero quella mescolanza di tutti gli stati che
giusti sono" (Contarini 1551, 19), ma anche "paiono con una certa bilancia eguale aver mescolato le forme di tutti" (Contarini 1551, 19). Per il cardinale cioè nessuna delle tre "parti", ossia delle tre grandezze politiche di cui si è parlato più
sopra, predomina sulle altre due14 ed anzi, il fatto che tra di esse viga un sostanziale equilibrio rappresenta il segreto della pace e della stabilità interne della
Serenissima. Si potrebbe poi arguire che Venezia è per Contarini una “repubblica mista” ben ordinata anche per il fatto che ciascuna delle tre funzioni politiche
(ovvero ciascuno dei tre principi politici) corrisponde a quello che rappresenta
il suo soggetto reale. O, detto altrimenti, a Venezia nessun soggetto reale concentra in sé, esercita più funzioni politiche, se non solamente quella che gli è
propria.
Se quanto qui detto è derivato da un modo di intendere il significato del termine "parti" diverso da quello che abbiamo considerato nella terza sezione, la conclusione della risposta alla domanda con cui quest’ultima era iniziata è comunque uguale: Contarini concepisce, costruisce e risolve la concettualità indicata
dall’espressione “costituzione mista” tutta all’interno dell’aristocrazia veneziana,
in quanto i tre suddetti principi le sono riferiti e – si passi l’espressione – “applicati” in modo esclusivo.
Pertanto, alla luce di tutto quanto fin qui detto, se certamente non è errato classificare la repubblica di Venezia come un’aristocrazia, tuttavia risulta insufficiente. Si potrebbe quindi definire in modo più soddisfacente la repubblica veneta,
con formula soltanto apparentemente paradossale, come una "aristocrazia
mista" (Gaeta 1981, 632-641).
V. Un’"aristocrazia mista"
La domanda posta all’inizio della terza sezione – ossia quali sono le "parti" della
repubblica di Venezia, ovvero cosa intenda Contarini con il vocabolo "parti" – ci
aiuta a gettare luce su un ulteriore aspetto dell’opera e del pensiero del cardinale. Il passo seguente, che è opportuno citare per intero, permette di individuare
un terzo significato della parola "parte".
"Niuna più contagiosa et maligna peste può spargersi per la Republica, che se
alcuna parte di quella voglia essere superiore all’altra: essendo che così, per ciò
che non si tiene giusta la bilancia della giustizia, è impossibile che si conservi la
pace et l’unità tra i Cittadini, il che per usanza suole avvenire dovunque più cose
in uno si radunano. Così si dissolve ogni cosa mista, se alcuno degli elementi dei
quali il corpo è composto, vorrà l’altro superare. Così ogni consonanza si fa dissonanza, se una corda, o una voce, alzerai più che sia di mestieri. Con non disegual ragione, se vorrai che la Republica abbia salda base et fermo fondamento
è necessario che quel prima si osservi, che l’una parte non si faccia più potente
14
Del Maggior
Consiglio Contarini
dice: "appresso il
quale è la somma
autorità di tutta la
Republica" (Contarini
1551, 23); osserva
come il Doge "sia
superiore alla moltitudine e a tutti i
Magistrati" (Contarini
1551, 45); spiega come
"tutta la cura del
governo della
Republica appartiene
al Senato" (Contarini
1551, 77); afferma che
il Consiglio dei Dieci
"appresso i Veneziani
è di somma autorità"
(Contarini 1551, 86).
Queste citazioni
insomma rappresentano l’ulteriore riprova
che il cardinale non
vede né istituisce alcuna gerarchia tra le
"parti" della repubblica veneta.
107
n.11 / 2005
dell’altra: ma tutte, per quanto si possa fare, siano partecipi della potestà publica. Laonde molto egregiamente hanno voluto i nostri maggiori ordinare, che
nella Republica nostra fosse fatta in perpetuo questa legge, che non solo nel
Senato, ma neanche negli altri Magistrati, avessero luogo più persone della
medesima schiatta" (Contarini 1551, 76).
Da questo lungo passo si evince che Contarini col termine "parti" qui intende
ciascuna delle famiglie patrizie di Venezia e che sono esse gli "elementi" della
repubblica, non i singoli individui, i singoli nobili. È certamente vero che nel
Maggior Consiglio sedevano tutti i patrizi maschi che avessero compiuto venticinque anni; ma sarebbe scorretto dal punto di vista storico-concettuale intendere costoro come individui astrattamente singoli, assolutamente liberi ed uguali tra loro, ossia come individui in quanto tali, sciolti cioè e, appunto, astratti, da
qualsiasi relazione sociale. Il patriziato veneziano non era una unità di singoli
individui uguali intesa come grandezza costituente, bensì era una realtà costituita, precisamente costituita in famiglie ed in quanto tale esercitava le sue funzioni politiche. Il vincolo che legava ciascun nobile alla sua famiglia di appartenenza (e quindi il fatto che il ruolo di "elemento", di “cellula vivente” della repubblica e della sua vita politica era giocato dalle famiglie e non dagli individui)
emerge chiaramente in più punti del De magistratibus et republica Venetorum.
Basti pensare al fatto che ogni giovane nobile non era immediatamente – “automaticamente” – ammesso al Maggior Consiglio. Egli doveva infatti portare
all’Avogaria la prova (che poi sarebbe stata giudicata dalla Quarantia) che egli era
un nobile. Ebbene, questa prova consisteva in ciò: due testimoni dovevano giurare che costui era figlio di padre e madre nobili e nato da un matrimonio legittimo (Contarini 1551, 25-26). Un giovane poteva quindi sedere nel Maggior
Consiglio solo se apparteneva ad una casata nobile: ciò insomma significa che
solo la sua famiglia di appartenenza poteva permettere (o meno) e mediare l’ingresso di un giovane nella cerchia dei cittadini. Si pensi poi alla modalità in cui il
Maggior Consiglio esercitava la sua funzione politica principale, quella del suffragio. Vi era una legge che impediva a più di un nobile della stessa famiglia di far
parte dei cinque ordini di elettori (Contarini 1551, 30). Non solo: il Maggior
Consiglio era chiamato ad esprimere il suo gradimento, uno per volta, su ciascuno dei cinque candidati a ricoprire una magistratura (ciascuno "creato" da
uno dei cinque ordini di elettori); chi, tra i cinque, otteneva più voti era nominato magistrato. Ebbene, quando il Maggior Consiglio doveva esprimere la sua
preferenza su un candidato, una legge imponeva ai familiari di costui di non partecipare al voto (Contarini 1551, 35, 37-38). In occasione poi dei comizi annuali
per la "creazione" dei Senatori era osservata una legge che stabiliva sia che ciascuno dei sessanta Senatori "creati" dal Maggior Consiglio appartenesse ad una
famiglia diversa, sia che tra i sessanta Senatori nominati da quei primi sessanta
non più di due appartenessero alla stessa casata (Contarini 1551, 75-76).
Questi tre luoghi, oltre a dimostrare che gli "elementi" della repubblica veneta
erano le famiglie, dimostrano anche che il “peso” nella vita politica, la “quota di
partecipazione” – si passi questa espressione – alla "publica potestà" (Contarini
1551, 39) di ciascuna casata erano, se non perfettamente uguali a quelli di ciascuna altra famiglia, comunque non significativamente sovra- o sottodimensionati: nessuna "parte", come visto nel passo riportato all’inizio della presente
sezione, è "più potente dell’altra, ma tutte, per quanto si possa fare, son parteci-
108
Dario Ventura
G.Contarini e la costituzione mista
pi della potestà publica" (Contarini 1551, 76).
Ma all’interno del patriziato veneziano vi erano anche differenze: come visto
nella terza sezione vi erano un “patriziato maggiore” ed uno “minore”. Differenze
che traspaiono in modo chiaro allorquando Contarini tratta – per esempio –
delle Quarantie. Come appurato nella seconda sezione, il cardinale spiega che i
membri di questi tribunali erano, generalmente, "Cittadini di picciolo grado e
bassa condizione" (Contarini 1551, 105): evidente riferimento alla presenza di un
“patriziato minore” e quindi, per converso, di uno “maggiore”. Quando poi si
tenevano i comizi per la "creazione" del nuovo Doge, il penultimo ordine di elettori (costituito da undici cittadini, sorteggiati all’interno di un gruppo di altri quarantacinque cittadini) eleggeva in qualità di ultimo ordine di elettori (coloro che
"creavano" il nuovo Doge) "quarantuno dei primieri e più nobili Senatori": evidente riferimento alla presenza di un “patriziato maggiore” e quindi, per converso, di uno “minore”.
Questi due luoghi dimostrano l’esistenza di differenze all’interno del patriziato di
Venezia. Differenze sicuramente di ricchezza, ma anche di “forza” e “peso” demografico e di rango (Müller 1992, 53-61). In ogni caso differenze qualitative. Ciò che
qui preme sottolineare è che queste differenze qualitative tra le "parti" (ossia le
famiglie) non venivano affatto livellate, azzerate, nel e dal momento politico; al
contrario esse avevano un significato politico fondamentale e costitutivo: proprio
di tali "parti" era costituita la repubblica di Venezia e proprio tale differenza qualitativa permetteva di pensare all’agire politico della cittadinanza veneziana, che
consisteva nel governare e nell’esser governato e che concretamente si articolava
nelle tre diverse funzioni politiche del suffragio, del governo e del consiglio (che
infatti, come visto, corrispondevano a tre soggetti reali differenti).
È ora possibile chiarire meglio il significato dell’espressione “aristocrazia mista”,
formula con cui, concludendo la precedente sezione, è stata definita la repubblica veneta. Se tale locuzione suona paradossale ciò è dovuto al fatto che in essa
convivono i due concetti di uguaglianza (cui rinvia il termine “aristocrazia”) e di
diversità (cui rinvia il termine “mista”).
È infatti innegabile che Contarini presenti – si sforzi di presentare – i nobili e le
famiglie patrizie come, se non perfettamente uguali, comunque non disuguali tra
loro nel disporre di “porzioni” della "potestà publica". Gli "antichi maggiori", nel
fondare e costituire la repubblica di Venezia, hanno infatti applicato saggiamente il principio del giusto distributivo, che il cardinale menziona seguendo fedelmente l’insegnamento aristotelico: "agli eguali cose eguali si diano e agli diseguali le diseguali" (Contarini 1551, 41; Aristotele 1993b 1130 a 10 – 1131 b 24).
Ma a Venezia i cittadini erano tutti nobili, tutti ugualmente nobili in quanto tutti
virtuosi (ossia in quanto soddisfacevano tutti al merito richiesto per essere cittadini: la virtù, appunto), ed è questo il fondamento per cui "nella Republica
Veneziana si distribuiscono tra i cittadini i Magistrati, che per quanto possibile
sia, tutte le famiglie di qualsivoglia cognome avranno ad essere partecipi di qualche grado d’onore" (Contarini 1551, 40). Ma in questa costruzione c’è anche spazio per la diversità: nella forma della repubblica veneta – che proprio per questo
motivo non può che essere “mista” – sono infatti presenti (e necessarie) le tre
diverse funzioni politiche del suffragio, del governo e del consiglio, esercitate
rispettivamente dal Maggior Consiglio, dal Senato e Consiglio dei Dieci, dal
Doge. Dunque funzioni politiche diverse – esercitate da organi istituzionali
109
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Va comunque ricordato che il Doge proveniva da una delle
famiglie appartenenti
al “patriziato maggiore”.
15
diversi – corrispondenti ai tre soggetti reali, necessariamente diversi, interni alla
cerchia dei nobili veneziani: rispettivamente il “patriziato minore”, il “patriziato
maggiore” e il Doge15 .
A questo punto sorge spontanea una domanda: come possono coesistere uguaglianza e differenza senza collidere in una contraddizione? O, detto altrimenti: i
patrizi e le casate veneziani erano tra loro uguali o diseguali? È lo stesso Contarini
che, mediante l’ennesimo riferimento ad Aristotele (Aristotele 1993a, 1280 a 2224, 1301 a 28-35, 1301 b 35-39), sembra suggerire una risposta: "dove i primieri
l’uguaglianza misurano solo col numero et quei dipoi la disuguaglianza solo con
le ricchezze, questi et quegli sono in manifestissimo errore. Conciosia che coloro che di numero sono uguali, non sono del tutto, ma in qualche parte uguali; et
coloro che sono di ricchezze diseguali non si debbono del tutto, ma in qualche
parte stimare diseguali" (Contarini 1551, 41). Insomma: se è vero che le famiglie
nobili sono tra loro uguali per il fatto di essere – appunto – nobili, ciò allora non
significa che siano assolutamente uguali; così come, se è vero che le casate son
tra loro diverse per ricchezza, “forza” demografica e rango, ciò allora non significa che siano assolutamente diverse. È quindi il non concepire in modo assoluto
l’uguaglianza e la diversità che rende pensabile una “aristocrazia mista”, ossia una
forma di repubblica in cui gli "elementi" (cioè le famiglie) hanno parte “quantitativamente” uguale (o non significativamente disuguale) nella detenzione della
"potestà publica"; e in cui tra gli "elementi" sussistono comunque differenze
qualitative coessenziali e necessarie ad un agire politico (a un esercizio della
"potestà publica") snodantesi nelle tre funzioni “qualitativamente” diverse del
suffragio, del governo e del consiglio.
Riferimenti bibliografici
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Dario Ventura è dottorando in filosofia politica presso l’Università di Padova.
([email protected])
111
Mario Quaranta
“Politica e cultura” di Norberto Bobbio
cinquant’anni dopo
Focus: Norberto Bobbio
1. Compiti dell'intellettuale in una società
democratica
A cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione,
riappare l'opera di Norberto Bobbio del 1955,
Politica e cultura, con un'ampia introduzione di
Franco Sbarberi, a cui il curatore ha aggiunto in
appendice, e opportunamente, il saggio del 1956
Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria (Einaudi, Torino 2005, pp. XLI-273). In un
momento in cui il pensiero e l'attività di Bobbio
continua ad alimentare la discussione e una diffusa pubblicistica, la riproposta di quest'opera è
quanto mai opportuna, non solo perché, come
afferma Sbarberi, è un “testo esemplare di filosofia
civile”(p.VIII), ma anche perché insegna un metodo per avviare il dialogo fra posizioni culturali,
ideologie e progetti politici diversi. Un problema,
questo, ancora oggi di estrema attualità.
Il curatore inizialmente fa riferimento alle letture e
ai lavori di Bobbio precedenti l'opera del 1955 (in
cui sono raccolti quattordici saggi pubblicati dal
1951 al 1955), e accenna al personalismo laico di
Bobbio, che costituisce, a mio parre, il suo apporto
filosofico più importante, che rimase lo sfondo permanente della sua successiva ricerca sulla società, lo
stato, la politica. È l'esito, afferma in termini persuasivi il curatore, del suo utilizzo del metodo fenomenologico husserliano esteso “dall'esperienza logica
all'esperienza dei valori”(p. XI). Ma il curatore, che
al pensiero etico-politico di Bobbio ha dedicato un
corposo capitolo nell'opera L'utopia della libertà
uguale (Bollati Boringhieri, Torino 1999), attribui-
112
sce forse troppi padri al personalismo bobbiano.
Sbarberi si sofferma sul modello d'intellettuale che
Bobbio ha proposto alla cultura italiana, in un
momento in cui, specie dopo la morte di Stalin
(1953) era lecito attendersi in Italia una distensione nei rapproti fra le forze culturali, fin'allora
inchiodate nella difesa ad oltranza del rispettivo
campo di appartenenza (americano o sovietico).
(Manca, però, l'interlocutore cattolico; una “trascuratezza” che è una costante in Bobbio). Egli
delinea un modello di intellettuale come “coscienza critica delle forme di esercizio del potere” (p.
IX), ove è centrale l'idea di tolleranza, e alla cui
base c'è “l'individuo inteso come persona” (p. X).
Il “centro unificante di Politica e cultura, afferma
Sbarberi, è il confronto pubblico tra un liberale di
provenienza azionista e alcuni tra i più autorevoli
comunisti italiani […] sul rapporto tra intellettuali e
politica e sul modo di tutelare i diritti fondamentali
di libertà nei regimi politici postrivoluzionari”(p. XIII).
Viene così fatto cadere l'altro interlocutore, ossia l'intellettuale liberal-democratico che non era disposto
a dialogare con i comunisti, ritenendo impossibile
qualsiasi forma di collaborazione culturale, prima
ancora che politica. A tale proposito basterà ricordare che il movimento neoilluminista, entro cui si colloca pienamente l'attività culturale di Bobbio, di cui
questo testo è il frutto politico-culturale più maturo,
aveva escluso l'appartenenza dei marxisti, ritenendo
prioritario l'obiettivo della formazione di una forza
culturale laica, e di una filosofia che nel manifesto
programmatico del movimento, scritto da Nicola
Abbagnano che ne fu l'artefice, L'appello alla ragio-
Mario Quaranta
ne e le tecniche della ragione (1952), si richiamava
esplicitamente a John Dewey, bersaglio polemico
dei marxisti italiani.
Nei suoi interventi, dunque, Bobbio dialoga sia
con gli intellettuali liberal-democratici, sia con
quelli comunisti. Ai primi si rivolge per legittimare
un confronto con i comunisti, nella persuasione
che sia possibile trovare un terreno d'intesa; ai
secondi per sollecitare un chiarimento su alcuni
punti centrali di dottrina, e rendere così possibile
una ricostruzione comune della cultura italiana,
dal momento che il marxismo è parte integrante
della cultura laica che ha avuto la sua genesi nell'illuminismo. Il marxismo deve però riconoscere
che "la libertà borghese ha posto in termini irreversibili, il problema della libertà individuale"; problema che costituisce tuttora un discrimine, il criterio metodico per valutare qualsiasi orientamento
politico, comunismo incluso.
Al centro di questa operazione culturale c'è un'idea nuova dell'attività culturale che Bobbio definisce “come sfera di autonomia nei confronti di ogni
potere organizzato”, e ciò in polemica soprattutto
con i comunisti, afferma Sbarberi, i quali peraltro
furono i più solleciti interlocutori, con Della Volpe,
Bianchi Bandinelli e lo stesso Togliatti.
2. Ragioni di un dissenso
Sbarberi fornisce un quadro articolato del dibattito
che si è intrecciato fra i tre comunisti citati e
Bobbio; in particolare egli utilizza nuovi documenti (soprattutto lettere) sul rapporto di Bobbio con
Bianchi Bandinelli, che sembra l'interlocutore più
aperto al dialogo, rispetto all'atteggiamento “teologico” di Della Volpe (cui Sbarberi riserva una certa
sprezzatura), e a quello di Togliatti, in cui prevalgono considerazioni politiche. Sono indicati i motivi
di ambiguità presenti nella politica culturale del Pci,
allora oscillante “tra segnali di apertura e appelli
all'ordine" (p. XVIII), ove emblematico è il “caso”
del “Politecnico” di Vittorini, chiuso d'autorità. Ma
c'è stata anche la pubblicazione dei Quaderni del
carcere di Gramsci, “Società”, con il suo percorso
accidentato, fino a “Il Contemporaneo”, che aprì
vari dibattiti, sulla filosofia americana, sul bilancio
di dieci anni di storia culturale italiana, sul neorea-
Politica e cultura di Norberto Bobbio
lismo, ecc. Il curatore sottolinea, peraltro, il “totale
dissenso dalla figura gramsciana del partito come
intellettuale collettivo” (p.XVIII) di Bobbio, ove
risiede, a mio parere, uno dei limiti della posizione
del filosofo torinese.
Ma quali sono, in sintesi, le critiche che Bobbio
rivolge agli intellettuali comunisti? Sbarberi le individua con precisione: i comunisti: “a) non chiariscono se la libertà individuale e le tecniche giuridiche elaborate dal liberalismo vadano o meno salvaguardate in una società avviata al socialismo; b)
non criticano le misure liberticide adottate in
Unione Sovietica durante l'èra staliniana; c) non
contestano mai le decisioni politiche dei dirigenti
di partito e dunque non esercitano “l'eguale libertà" di critica manifestata verso gli atti repressivi
degli avversari di governo” (p.XXV). E su queste tre
posizioni individua i limiti di fondo della politica,
oltre che della politica culturale, dei comunisti,
rispondendo ad alcuni tentativi di fornire una
risposta compiuti soprattutto da Bianchi Bandinelli.
Che dire? Che a Bobbio sfugge in larga misura sia
il rapporto fra il Pci e il Pcus, che è di sostanziale
subordinazione; sia che il marxismo cui si trova di
fronte è piuttosto, o in larga parte, lo zdanovismo,
che è profondamente anti-illuministico perché
nega la legittimità stessa di una dinamica fra posizioni culturali differenti, proclamando il primato
del partito in tutti i campi dell'attività politica, culturale e scientifica; ossia nega la pre-condizione
per l'instaurazione di un dialogo.
D'altra parte Bobbio dedica due saggi all'esperienza dello stalinismo, cui va aggiunto quello posto in
appendice. Siamo di fronte a una delle più acute
analisi che siano state pubblicate nel corso del
triennio 1954-1956 in cui, in Italia, c'è stato un
ampio dibattito sul comunismo, in particolare
sullo stalinismo.
Nel primo, Pace e propaganda di pace, Bobbio
strappa il velo pacifista e dell'indipendenza politica
al movimento dei “Partigiani della pace” e, sulla
scorta di affermazioni dello stesso Stalin, afferma
che il suo fine principale non è la pace ma la
“distruzione dell'imperialismo”, mentre quello
dichiarato come prioritario - la pace - è allora un
obiettivo tattico. Rispetto a una vasta pubblicistica
denigratoria nei confronti di quel movimento, que-
113
n.11 / 2005
sto scritto rappresenta una pacata analisi delle
ragioni politiche e ideologiche che presiedono alla
sua creazione, integrate da una decisiva domanda
sulla sua efficacia: “È utile che un grande movimento per la pace si ponga nell'attuale movimento
storico a fianco di un gruppo di potenze contro l'altro gruppo?”. La risposta è ovvia. Nel secondo,
Democrazia e dittatura, una volta precisato che la
dittatura come “reggimento politico” non si oppone alla democrazia in senso generico ma proprio
alla liberal-democrazia, afferma che il contrasto fra
regime sovietico e regimi occidentali non è riducibile a quello “tra maggiore o minore democrazia”,
ma a quello “tra dittatura e regime liberale”, ove il
discrimine è dato dall'assenza o dalla presenza della
libertà.
Il terzo saggio posto in appendice, è il punto d'approdo dell'analisi di Bobbio dello stalinismo, dai
cui risultati è ripartito per approfondire il dialogo
e la critica del marxismo. In Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria, Bobbio parte dal
Rapporto di Krusciov per sostenere che esso è “la
più spietata smentita delle illusioni rivoluzionarie”,
ossia del comunismo come società superiore a
quella capitalistica e della stessa teoria marxista.
Esso infatti rivela che il regime sovietico è, di fatto,
una tirannia, e secondariamente evidenzia un limite di fondo della teoria marxista stessa che non ha
previsto tale fenomeno, né, una volta accertato, ha
saputo fornirne un’accettabile spiegazione.
Bobbio va oltre l'analisi compiuta da Togliatti nell'intervista a “Nuovi Argomenti”, in cui afferma che
nell'Urss di Stalin c'è stato “l'accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell'organismo sociale”. Subito dopo Togliatti delimita tale presa di
posizione, affermando che la sovrapposizione “di
un potere personale alle istanze collettive di origine e natura democratica“, è stata “parziale ed ha
probabilmente avuto le più gravi manifestazioni
alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del
partito”. (“Nuovi Argomenti”, 20, 1956, p. 113).
Bobbio è più radicale: nel regime staliniano siamo
di fronte a una forma classica di tirannia, un tipo di
regime conosciuto e analizzato fin dall'antichità. La
ragione fondamentale della mancata comprensio-
114
ne di tale fenomeno da parte del marxismo è che
esso si è fondato sul principio di autorità, e perciò
è stato costitutivamente incapace di comprendere
i fenomeni storici nuovi come, appunto, la dittatura personale di Stalin. “In nessuno dei testi della
dottrina era scritto che durante il periodo della dittatura del proletariato vi sarebbe stato un periodo
più o meno lungo di tirannia, e neppure che tale
evento fosse possibile”. Si potrebbe dire, riassuntivamente, che secondo Bobbio c'è una fallacia dello
storicismo marxista: se il marxista afferma che c'è
stata effettivamente una tirannia, smentisce la dottrina che la escludeva, e se afferma che non c'è
stata, va contro un'evidenza storica incontrovertibile, riconosciuta dagli stessi marxisti sovietici
come Krusciov.
Pertanto, siamo di fronte a uno scacco teorico del
marxismo, la cui origine va individuata in alcuni
suoi “pregiudizi teoretici”, il maggiore dei quali è
una concezione della storia “a disegno” di stampo
hegeliano. Il marxismo è una filosofia della storia,
ossia una concezione necessaristica della storia,
come quella hegeliana e quella comtiana, sia pure
con approdi diversi. Inoltre, il marxismo ha sì una
teoria del potere, di come si conquista (“Lenin
insegna esclusivamente come si conquista”), ma
non una teoria dell'esercizio del potere. La superiorità del liberalismo risiede nel fatto che esso è
essenzialmente una teoria dell'esercizio del potere, in cui l'aspetto più importante è il problema
dell'abuso del potere e dei possibili rimedi. Un
problema, quest'ultimo, assente nel marxismo il
quale, relegando i fenomeni politici a fatti sovrastrutturali, li considera contingenti e pressochè
ininfluenti sulla struttura della società. La tesi sulla
mancanza di una compiuta teoria dello stato nel
marxismo, nota Sbarberi, sarà riproposta vent'anni
dopo, e “scuoterà i pensieri e le passioni di un
vasto settore del mondo comunista e della cultura
del dissenso” (p. XLI).
Infine, accenniamo al rapporto Bobbio-Croce, che
è stato complesso e differenziato nei vari momenti
in cui Bobbio ha “fatto i conti” con il filosofo napoletano. È stato un dialogo ininterrotto, in scritti ove
ci sono rettifiche, aggiustamenti, critiche, senza
giungere mai né a una ripulsa come quella che ha
avuto verso Gentile (“oggi non posso rileggerlo
Mario Quaranta
senza provare dispetto e vergogna”), né a pacificate mediazioni. E Sbarberi evidenzia le ragioni di
questo atteggiamento che fu fecondo negli anni.
Alcune delle più interessanti lettere che si sono
scambiati Bobbio e Rossi-Landi pubblicate nel
numero precedente di questa rivista vertono,
appunto, su Croce, sul suo magistero etico-politico, sulla validità delle sue scelte filosofiche, sulla
sua attualità. In appendice a questa recensione
pubblichiamo un'altra lettera di Rossi-Landi, in cui
il filosofo milanese chiarisce il suo rapporto con
Croce, che è antitetico a quello di Bobbio. Nella
seconda appendice si pubblica una lettera di
Bobbio (con la risposta), provocata da una mia
“lettura” di Politica e cultura, considerata all'interno del movimento neoilluminista degli anni
Cinquanta, in cui ebbe una funzione fondamentale. Bobbio fornisce utili precisazioni sulla sua biografia intellettuale, definendo il suo rapporto con
Croce di “concordia discors”, che mi sembra una
definizione tipicamente bobbiana, ossia aperta a
ulteriori precisazioni e approfondimenti. Sono
infine concorde nella valutazione complessiva che
il curatore dà di quest'opera, quando afferma che
essa ha “svolto una funzione analoga a quella esercitata da Liberalism di Hobhouse nell'Inghilterra
del primo Novecento e da Liberalism and Social
Action di Dewey negli Stati Uniti tra le due guerre”
(p. VIII).
3. “Democrazia” e “democrazia progressiva”
Un aspetto decisivo del dialogo Bobbio-Togliatti è
rappresentato, secondo il curatore, dallo “schema
togliattiano della "democrazia progressiva", condizionato per un verso da una lettura fortemente
ideologizzata della storia più recente e per l'altro
da un'idea indeterminata (volutamente indeterminata) della direzione verso cui la democrazia
dovrebbe "progredire"” (p. XXII). L'uso del termine democrazia progressiva, precisa Sbarberi, è
maturato nella situazione di una divisione delle
sfere d'influenza fra le grandi potenze, pertanto
tale parola d'ordine sarebbe l'applicazione italiana
di una strategia elaborata dal Komintern. In altre
parole, la democrazia progressiva sarebbe un
obiettivo tattico imposto dall'assegnazione
Politica e cultura di Norberto Bobbio
dell'Italia al campo anglo-americano ove, esclusa la
conquista del potere a breve termine, si elabora
l'obiettivo di democrazia progressiva come “un'ipotesi di lungo periodo” (p. XXVIII).
Senza entrare nel merito di un dibattito sulla democrazia progressiva che ha impegnato parecchi storici, e su cui Sbarberi è intervenuto in un precedente lavoro (I comunisti italiani e lo stato: 19291945, Feltrinelli, Milano 1980), notiamo che quel
termine è stato usato dallo stesso Togliatti per una
breve stagione; c'è chi, come Mauro Scoccimarro,
ha preferito il termine "Nuova democrazia"; e
comunque Bobbio non l'ha mai assunto come riferimento del modello di democrazia dei comunisti
con cui fare i conti. E questo è un indubbio limite
di questo confronto. Infine, occorre ricordare che
sulle caratteristiche stesse che doveva avere la
democrazia progressiva si è discusso all'interno del
Partitio comunista. Ad esempio, la posizione di
Eugenio Curiel è diversa da quella di Togliatti, in
cui erano presenti motivi precisi che lo inducevano
ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della democrazia rappresentativa. C'è stato chi,
come Cesare Luporini, ideologo del togliattismo,
tentò di integrare la linea politica togliattiana con
una conseguente linea culturale, espressa nel noto
saggio Leopardi progressivo (1947).
L'affermazione della necessità di una democrazia
“progressiva” comporta implicitamente o esplicitamente una presa di distanza critica dalla democrazia rappresentativa che pure si ritiene necessaria;
necessaria ma non sufficiente. Secondo Togliatti la
contraddizione maggiore della democrazia rappresentativa è sul piano sociale, nel senso che essa
non elimina affatto lo sfruttamento capitalistico.
Ciò significa, per Togliatti, che i comunisti non
possono esaurire il loro programma politico ed
economico nell'instaurazione di un regime che
accetta lo sfruttamento. Inoltre, la democrazia rappresentativa ha dimostrato storicamente di non
sapersi opporre al fascismo e al nazismo.
Le interpretazioni della democrazia progressiva
sono, dunque, diverse in Togliatti e in Curiel, i
quali appartengono a due differenti generazioni.
Per Togliatti la democrazia progressiva consiste
sostanzialmente nella democrazia rappresentativa
garantita, data la sua debolezza, dall'alleanza fra i
115
n.11 / 2005
tre grandi partiti di massa: democristiano, socialista, comunista, dai sindacati e dalle organizzazioni
di massa. Non c'è, come ritiene Barberi, un problema di accelerazione nel procedere ai cambiamenti sociali. L'alleanza fra i tre grandi partiti
democratici e antifascisti di massa mantiene la
porta aperta verso il futuro garantito dalla graduale maturazione culturale e politica del popolo. Per
Curiel, invece, la democrazia progressiva ha un'articolazione più complessa. In comune con il pensiero di Togliatti vi è la consapevolezza della fragilità della democrazia rappresentativa nel suo rapporto con le masse, pertanto bisogna procedere
rapidamente alla liquidazione di tutta la struttura
statale rafforzata ed estesa dal fascismo, che è in
antitesi con la democrazia rappresentativa. Questo
è il compito storico che secondo Curiel è assegnato ai Comitati di Liberazione nazionale.
Contemporaneamente, è necessario avviare la formazione d'un sistema di democrazia diffusa e
decentrata, parallelo alla democrazia rappresentativa, ossia il sistema dei consigli, che ha due compiti: da un lato garantire la democrazia rappresentativa e dall'altra superarne il limite, ossia l'accettazione dello sfruttamento capitalistico che la delegittima davanti alle masse popolari. Anche per
Curiel non vi è la necessità nè di un programma
definito nè di una scadenza temporale; la chiave di
volta è la maturazione culturale e politica delle
masse popolari, che costituiscono la maggioranza
dei cittadini. Rispetto all'esperienza storica statale
dell'Urss, in Togliatti vi è un'intransigente esaltazione motivata dalla guerra antifascista, in Curiel vi
è una implicita affermazione della necessità del
suo superamento. In conclusione, la democrazia
progressiva si distacca in Curiel, sia dalla dittatura
del proletariato secondo il modello sovietico, sia
dalla democrazia prefascista, ed è fondata sulla
distruzione delle istituzioni del fascismo (una posizione che è stata poi respinta dalla Costituente).
Peraltro, la guerra fredda ha reso inattuali i tentativi
di Togliatti, se mai ci sono stati effettivamente, di
smarcarsi dall'esperienza sovietica; solo dopo il XX
congresso del Pcus (1956) egli affronterà in vari
scritti l'analisi dei rapporti tra democrazia e socialismo. La decisione di Bobbio di eslcudere dalla discussione il modello togliattiano di democrazia pro-
116
gressiva ha indubbiamente indebolito tale dibattito,
inchiodandolo su un terreno, democrazia sì-democrazia no, che non poteva approdare se non al ribadimento delle posizioni iniziali. In parte, è stato il
classico “dialogo fra sordi”, in cui entrambi rifiutano
di porsi sul terreno dell'altro. Così, quando Bobbio
parla di liberalismo o democrazia, Togliatti gli
risponde come se parlasse di liberalismo o democrazia pre-fascista, e quando Togliatti parla di democrazia come democrazia progressiva, Bobbio l'intende come escludente aspetti importanti della democrazia parlamentare come l'alternanza. L'analisi che
Barberi compie delle posizioni di Ranuccio Bianchi
Bandinelli, conferma questa ambiguità di fondo che
permane fra gli interlocutori.
Nota conclusiva
Come abbiamo notato, Bobbio si è spinto molto
avanti nel ritenere possibile un'evoluzione democratica del comunismo italiano rispetto al modello
sovietico. Nel saggio Democrazia e dittatura afferma: “Se finora, per ragioni storiche determinate,
lotta all'interno prima, difesa dall'accerchiamento
esterno poi, e soprattutto mancanza di una tradizione liberale nei paesi in cui finora si è attuato, lo
stato proletario non ha potuto reggersi che in
forma di dittatura, non è detto che non possa reggersi in forma liberale e democratica in altri paesi e
in avvenire”; ove è chiaro il riferimento all'Italia. Ma
qual è stato l'approdo del suo dialogo con i comunisti? Esso si è interrotto dopo i cosiddetti “fatti
d'Ungheria”, ossia con l'invasione dell'armata sovietica in quel Paese e il ristabilimento del precedente
rapporto di subordinazione politica con l'Urss. La
posizione assunta dal Pci di difesa incondizionata
dell'Urss ha determinato una cospicua uscita dal Pci
di intellettuali, e ha chiarito in termini inequivoci
che non c'erano margini, all'interno del Pci, per una
discussione sul regime sovietico, che rimaneva il
modello di società socialista.
Bobbio è intervenuto nel 1957 con una recensione
al libro di Antonio Giolitti, Riforme e rivoluzione
(Einaudi, Torino, pp. 62), in cui il dirigente comunista interviene nel dibattito aperto dall'intervento
sovietico in Ungheria, e sostiene alcune delle posizioni espresse da Bobbio in Politica e cultura; in
Mario Quaranta
particolare quella sul nesso democrazia-socialismo. La recensione, che da allora non è stata più
ripubblicata, viene posta come terza appendice,
perché ci sembra una presa di posizione in cui
Bobbio è vicino alle posizioni di Giolitti; ciò lo farà
avvicinare al Partito socialista, e comunque ad
accentuare gli aspetti del socialismo rispetto a
quelli liberali nel suo pensiero.
Il testo di Giolitti è, a mio parere, dopo lo scritto di
Giacomo Matteotti del 1923, Direttive del Partito
socialista unitario italiano, la formulazione più
rigorosa del riformismo socialista espressa dalla
cultura politica italiana del novecento. E il fatto che
la posizione di Giolitti sia stata ritenuta da Togliatti
stesso incompatibile con la sua permanenza nel Pci,
ha chiarito ulteriormente che la posta in gioco non
era solo politica ma anche morale. L'affermazione
conclusiva del breve scritto di Bobbio è infatti questa: “Chi richiama il socialismo al riconoscimento
Politica e cultura di Norberto Bobbio
del valore essenziale della democrazia pare a me
che non solo indichi un orientamento politico ma
esprima pure una scelta morale”. Dieci anni dopo
Bobbio ribadirà le sue posizioni sul tema della
democrazia: "Dopo la crisi dello stalinismo, afferma, è aumentata la consapevolezza dell'importanza
non soltanto strumentale ma essenziale della
democrazia formale, cioè del valore costitutivo e
non soltanto procedurale di certe regole del gioco
e della necessità di un preventivo accordo da parte
di tutti sul rispetto di esse" (“Resistenza”, gennaio
1967). Sarà su queste basi, e quella del suo rapporto con Giolitti ("L'uomo politico che godeva la mia
fiducia era un vecchio amico, Antonio Giolitti”,
.Autobiografia, Laterza, Bari 1997, p. 182) che
Bobbio appoggerà l'unificazione socialista di quegli
anni, e nel Congresso del Psi del 1978 sosterrà la
candidatura di Golitti in alternativa a quella di Craxi.
APPENDICE I
Pubblichiamo la lettera di Ferruccio Rossi-Landi a
Norberto Bobbio, a integrazione delle altre su
Benedetto Croce già pubblicate nel numero precedente. Rossi-Landi ha posto, a matita, una intestazione esatta nella lettera n. 22 (“arrivata il 5 agosto”), mentre, essendo la data di partenza scritta
da Bobbio solo mercoledì 3, senza precisazione del
mese, ha scritto a matita “luglio” accanto al 3 di
Bobbio. Quella lettera era stata, quindi, datata
come spedita il 3 luglio 1955. Da un controllo
effettuato su un calendario del 1955, è risultato
che si trattava, invece, di mercoledì 3 agosto 1955.
Inoltre, la lettera n. 7 datata 29 aprile 1954 è, invece, dell’8 settembre 1955.
Questo per il numero precedente, n. 10, della rivista.
La lettera che pubblichiamo in questo numero è
del 29 luglio 1955. Questo vuol dire che le tre lettere vanno in questa successione:
la lettera di Rossi-Landi, Criticare Croce, è del 29
luglio 1955;
la risposta di Bobbio, Apologia di Benedetto Croce
(n. 22), è del 3 agosto 1955;
la seconda lettera di Rossi-Landi, Attualità di un
Anti-Croce (n. 7), è dell’8 settembre 1955.
Criticare Croce
29 luglio 1955.
Caro Professor Bobbio,
rispondo con qualche ritardo alla sua lettera del 17
perchè essa mi è giunta quasi alla vigilia della mia
partenza per quest'isola felice, (ancora tale benché
in via di corruzione turistica), nella quale ho trapiantato la redazione italiana di “Occidente” e
dovrei redarre il saggio per il PAC e compiere varie
altre cosucce, ma dove in realtà la natura assorbe al
punto di addormentare e placare ambizioni e frenesie. È quindi con un certo non volontario distacco che rispondo ora ai suoi vari argomenti.
D'accordo dunque sul saggio della Griziotti.
Buzano, invero, scrive in tono di voler farlo rifare.
Vedremo di convincerlo della necessità di scartarlo subito. Quanto a quello di Saffirio, d'accordo su
117
n.11 / 2005
molte riserve: lei ha letto le mie note, e ha constatato che un sociologo, è aperto alla critica e desideroso di imparare molto di più di un filosofo idealista (la mente che si esprime nella "gratitudine" di
Saffirio è molto diversa da quella che si esprimeva
nelle precisazioni polemiche di un Croce o di un
Gentile: pensi al carteggio Croce-Vossler). Sì, francamente penso che una parte delle sue reazioni al
saggio di Saffirio sia dovuta all'ostilità verso la
sociologia, assorbita col latte, eccetera, come lei
stesso scherzosamente dice. Quei sociologhi tentano di porre ordine in un terreno che i padri spirituali cui lei si riferisce volevano ad ogni costo
tener sgombro dall'avanzata dei metodi della
scienza. Una volta di più, non interessano i loro
risultati contingenti quanto i loro metodi e le loro
intenzioni. Mentre questi esprimono un desiderio
di sapere, di potenziare la presa umana sul mondo
e anche sull'uomo stesso, l'avversione che si giustifica con la modestia e con l'ingenuità dei loro
primi risultati esprime a mio avviso un preconcetto di ordine metafisico, e precisamente il desiderio
di non vedere se stessi come uomini messi a quella sorta di lucida berlina che è l'indagine scientifica. Simone de Beauvoir fa della letteratura molto
intelligente, i sociologhi fanno della scienza ancora posticcia e talvolta puerile. La prima non ha
bisogno di essere incoraggiata, i secondi sì. La letteratura rimarrà sempre letteratura o esperienza
personale, o generalizzazione affatto arbitraria, o
intuizioni anche profonde e felici. Perché dovremo
professare una filosofia che stia dalla parte della
letteratura in quei suoi aspetti? Dal mio punto di
vista, una tale professione è un sottoprodotto del
desiderio magari consciamente eliminato di poter
costruire una metafisica altrettanto futile, per
esempio quella di un Croce o di un Gentile. In
altre parole, la giustezza di tono che si può conseguire in letteratura, e che appare così grossolanamente negata dai primi tentativi dei sociologhi (sul
che siam d'accordo), sollecita il metafisico al programma di ripeterla anche in filosofia, con in più la
guarentigia di una descrizione reale della Realtà,
da conseguirsi con metodi teoretici e speculativi.
Ma basta di ciò in questa sede.
Quanto alle molto acute osservazioni che la lettura
della prima stesura del mio talk per la BBC le ha
118
suggerite, le dirò senza riflettere che ne terrò il massimo conto nella seconda stesura - intendo che darò
in ogni caso al suo punto di vista il peso che esso
merita anche a prescindere dalla misura del mio
accordo personale. Riflettendo (nel senso chiarito)
aggiungerò che ho dovuto lasciar passare diversi
giorni prima di giungere per quel che mi concerne
a una decisione intellettuale sul seguente punto: la
misura in cui le sue osservazioni fossero dettate
dalla ragione in quanto distinta dal sentimento.
Il punto era ed è per me di grande importanza sia a
titolo di chiarificazione personale sia come strumento per distinguere fra lei e me su taluni problemi. Lei certo sa come queste decisioni intellettuali
siano ardue da conseguirsi. Non si sorprenderà se
le dico che ho dedicato gran parte del lungo viaggio da Milano all'Elba a girare e rigirare in testa le
sue frasi, tenendole per così dire ferme in vari contesti che andavo via via immaginando.
Anche ieri, mentre inseguivo sott'acqua certi pesci
lungo la punta di Fetovaia, mi sforzavo di decidere
se ero io a sbagliare i punti a, b, c…n, oppure no.
Ho deciso di no, alla fine: cioè ho deciso che la sua
reazione è dettata prevalentemente dal sentimento. A lei spiace che si parli male di Croce per ragioni prevalentemente affettive, e vorrebbe che certe
cose fossero taciute perché vuol bene alla di lui
memoria e ne sente ancora la forza e ne immagina
le sferzanti risposte. Inoltre trova ingeneroso il
mettere alla luce le piaghe della nostra cultura all'estero. Io credo che tutto ciò debba essere fatto.
Quello che vado sforzandomi di proporre e che a
poco a poco cercherò anche di provare, è in fondo
un'ipotesi stopriografica che serva a spiegare i fenomeni nella loro complessità nel modo più semplice. Che Croce sia l'autore di alcune teorie importantissime, che abbia scritto dei bei libri, che fosse
un grande scrittore (come lei dice, non senza una
punta di patetica insistenza), a me non interessa:
son cose risapute, e non sarò certo io che starò a
ripeterle dopo che centinaia di studiosi le han dette
nel corso di molti decenni. (È chiaro che se scrivessi un libro complessivo su Croce darei a quei
fatti il dovuto rilievo). A me interessa ciò che nella
figura di Croce non è stato finora posto nella dovuta luce, ed è proprio ciò che mi serve a costruire l'ipotesi storiografica di cui sopra. A parte le pruden-
Mario Quaranta
ze suggerite dall'etichetta accademica, trovo inutile
ripetere ancora una volta quali siano stati i meriti di
Don Benedetto. Vediamo piuttosto fino in fondo
come egli, idealista hegeliano e dittatore nella vita
privata, pontefice illiberale, e via dicendo, abbia
contribuito a quel clima che tanto ci ha fatto soffrire e del quale ancora non riusciamo a liberarci.
Anche quello che potrei chiamare un residuo di
bontà patriottica da parte sua mi trova in dissenso.
Prendiamo il suo implicito paragone fra Croce e
Churchill. Del secondo sono state scritte in
Inghilterra cose molto più atroci che del primo in
Italia, e ciò proviene proprio da una situazione che
noi dobbiamo mettere in luce. Ma il paragone, a
mio avviso, non regge. Churchill fu uno statista
grandissimo che non comprese diverse cose
importanti. Croce fu un filosofo potente, attivo ed
efficace, ma a mio avviso non grande; e rimase
sordo alla quasi totalità di tutto ciò che nella filosofia (o forse nel pensiero) del Novecento era veramente nuovo: dalla logica simbolica alla sociologia,
dal marxismo (che dichiarò spento!) all'analisi del
linguaggio, dalla psicoanalisi alla nuova fisica e anzi
a tutta la scienza della natura e via dicendo. Non si
Politica e cultura di Norberto Bobbio
tratta dunque di "diffidare" dello straniero che
viene a parlarci male dei suoi grandi uomini: si tratta di valutare, al di là del discorso e dell'atteggiamento, la cosa, nel caso ciò che ha fatto Churchill
in confronto a ciò che ha fatto Croce. Bisogna
andar giù fin verso il fondo della cosa, fronteggiarla
anche se ci fa male (anche quando le orecchie compresse dolgono, dicevo a me stesso inseguendo
quei tali pesci). E’ questo l'unico modo di essere
poi ottimisti in maniera costruttiva.
Avrei moltissime altre cose, ma il foglio è finito e io
sono stato già abbastanza impertinente. Una sola
cosa: io non ho detto che gli italiani siano inferiori
agli inglesi anche di fronte al problema della
morte. Ho detto solo che esso ha più importanza
per i primi che per i secondi: forse ciò implica che
i primi sono superiori, non le pare? Perché lei vede
una presa di posizione in uno scherzo, se questo
non corrisponde a un paradigma che lei ha già
pronto prima della lettura.
Ferruccio Rossi-Landi
presso Battaglini, S. Mamiliano, MARINA DI
CAMPO (Elba, Livorno).
APPENDICE II
Sull'opera di Bobbio Politica e cultura ho pubblicato un saggio nel 1989, Noberto Bobbio ideologo
del neoilluminismo. Per una lettura di Politica e
cultura, “Il Protagora”, 15-16. Prima della pubblicazione ho fatto pervenire il dattiloscritto a Norberto
Bobbio e ad Aurelio Macchioro. Pubblico la lettera
di Bobbio in cui egli esprime una valutazione su
tale scritto e la mia riposta.
Torino, 4 luglio 1989
Caro Quaranta,
ho letto con molto interesse le pagine a me dedicate. Mi sono parse particolarmente felici le prime
in cui lei tiene conto di quell'articolo sul Gentile,
che è pochissimo conosciuto. Sulle origini del mio
personalismo da Scheler non saprei dire. Ma che il
personalismo (a dire il vero filosoficamente ben
poco approfondito) sia stato il primo e principale
motivo della mia filosofia “militante”, mi pare
indubbio. Molto opportuna mi è sembrata la citazione di un altro dei miei articoli meno conosciuti,
La persona e lo stato che io stesso avevo dimenticato e che pure contiene in nuce, come lei ha
osservato, il mio pensiero politico senza che io
stesso ne sia stato in tutti questi anni consapevole.
Totalmente d'accordo sull'ambiguità della mia
posizione nei riguardi di Croce, che potrebbe essere definita, con una espressione cara sia a Croce sia
a Gentile, di “concordia discors”. Mi convince
meno invece la contrapposizione finale con
Gramsci, non perché il contrasto non ci sia, ma
perché non mi pare che la Sua interpretazione dell'intellettuale in Gramsci sia quella giusta.
Se dovessi farle un'osservazione critica direi che il
saggio è un po' troppo lungo specie nella parte
119
n.11 / 2005
espositiva dei singoli articoli, che avrebbero potuto essere riassunti in modo più sintetico.
Infine, pensavo che l'avrebbe maggiormente colpita la dichiarazione secondo cui sarei stato un illuminista pessimista, che è forse una chiave di spiegazione di molte delle mie ambiguità.
Se questo Suo articolo è servito anche a provocare
Macchioro, di cui da tanto tempo non ho più notizie, è una ragione di più per rendergli merito.
Grazie dei vari articoli, e i più cordiali saluti,
Norberto Bobbio
A questa lettera ho risposto il 7 agosto.
[…] Intanto le debbo due precisazioni. Sulla
genesi del suo personalismo penso soprattutto a
Kant più che a Scheler (la frase del saggio è un po'
ambigua). Forse è stato sollecitato a studiare Kant
da Pastore? Rileggendo la sua introduzione successiva agli scritti kantiani, ho visto che si tratta di una
lettura laica dopo Scheler, cioè con l'esclusione
teorica di un possibile approdo religioso. (In tale
direzione - e proprio attraverso la lettura di KantScheler - va negli stessi anni Mario Manlio Rossi).
Sull'intellettuale in Gramsci, penso che abbia pesato, nella interpretazione della vostra generazione,
l'utilizzo fatto dal Pci. Avevate di fronte la concezione dell'intellettuale-funzionario di un partito di
massa, tipica di Togliatti e che vale sia in una concezione di destra (fascismo-Guf, istituzioni corporative, ecc.), sia in una di sinistra. L'elaborazione di
Gramsci è l'unico esempio di un tentativo di dare
una risposta - teorica e pratica - alternativa a quella fornita dallo stalinismo e dal fascismo.
Giungo infine al punto dolente, cioè al suo pessimismo, oggetto di discussione-contrapposizione con
Macchioro e su cui ho messo un inconcluso punto
interrogativo. Aurelio ritiene che si tratti di un aspetto dell'“oscurismo” (non, illuminismo!) bobbiano.
Io lo riallaccio alla formula gramsciana “pessimismo
della ragione, ottimismo della volontà”: una formula che considero caratteristica di un atteggiamento
decisionista. Per l'autentico illuminista vale il contrario: ottimismo della ragione, pessimismo della
volontà, nel senso che la fiducia nella ragione permane anche quando si è consapevoli che il progetto di grandi mutamenti richiede tempi lunghi (epocali, a volte). La prima formula, invece, dà adito a
credere che la volontà (individuale o collettiva)
possa realizzare ciò che la ragione non riesce ancora a delineare con chiarezza. (E c'è tanto crocianesimo in questo decisionismo). Io sto ora rileggendo
alcuni suoi scritti politici per avere la “prova” che lei
accosta la sua formula a quella gramsciana, dopo di
che posso sciogliere quell'interrogativo.
Infine sono d'accordo con lei (e con Macchioro!)
sulla lunghezza inutile del saggio; l'amico Antonio
Quarta mi comunica che il testo andrà in stampa a
settembre e così durante questa settimana prosciugherò il lavoro accontentando i due esigenti
lettori. (Tralascio Geymonat, il quale dice acriticamente sempre troppo bene di ciò che scrivo!).
Un saluto cordiale
Mario Quaratnta
APPENDICE III
Riforme e rivoluzione*
di Norberto Bobbio
Un discorso teorico sul recente saggio di Antonio
Giolitti Riforme e rivoluzione potrebbe cominciare da questa frase: “L'esperienza ormai ci ha insegnato, smentendo opinioni semplicistiche largamente diffuse, che contraddizioni profonde [...]
sono possibili anche nella società socialista, almeno fino a quando essa non abbia saputo ordinarsi
120
in democrazia socialista” (p. 53).
Il Vico, com'è noto, elaborò nuovi canoni per indagare le origini delle nazioni, ma non li applicò,
molto probabilmente per essere lasciato in pace
dai censori, alla storia degli Ebrei, perché costoro
avendo ricevuto “aiuti straordinari dal vero Dio”
avevano “durato nell'umanità”, mentre le altre
nazioni erano precipitate dopo il diluvio “in un
error bestiale”. I teorici e storici marxisti si sono
comportati nello stesso modo, e forse per le stes-
Mario Quaranta
se ragioni, con l'Unione Sovietica. Marx aveva insegnato che la storia umana procede attraverso continue contraddizioni. Sin dai Manoscritti del '44
aveva indicato nella “negatività” intesa come “principio motore e generatore” della storia il contributo di Hegel alla storia del pensiero. E se non si
vuole usare il termine “dialettica”, nel consueto
modo ambiguo e approssimativo, bisognerà intenderla anzitutto come la teoria della “forza del negativo” nelle vicende umane; perciò chi distingue il
lato buono dal lato cattivo di ogni evento e accetta
solo il primo e rifiuta il secondo, si toglie la possibilità di comprendere il moto della storia, non scrive narrazioni storiche ma apologie. Contro
Proudhon Marx scriveva una frase che, letta sostituendo “regime sovietico” a “feudalesimo”, acquista nuovo sapore: “Se all'epoca del regime feudale,
gli economisti, entusiasmati dalle virtù cavalleresche, dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla
vita patriarcale delle città […], infine da tutto ciò
che costituisce il lato buono del feudalesimo, si
fossero posti il problema di eliminare tutto ciò che
offusca questo quadro - servitù, privilegi, anarchia
- che sarebbe avvenuto? Sarebbero stati annullati
tutti gli elementi che costituivano la lotta e si
sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della borghesia. Insomma si sarebbe posto l'assurdo problema di eliminare la storia”1. Ma per i marxisti
ortodossi questo avvertimento di Marx continuò a
valere, nel migliore dei casi, solo per la storia profana delle nazioni capitalistiche che perduravano
nell'“error bestiale”, ma perdette ogni efficacia
nella storia sacra dell'Unione Sovietica che aveva
ricevuto “aiuti straordinari” dai soli legittimi interpreti della verità. Là gli eventi umani seguitavano a
generar contraddizioni su contraddizioni, sempre
più gravi e intollerabili; qua le contraddizioni
erano finite, la forza del negativo era spenta: tutto
era buono, tutto era positivo. Il metodo dialettico
che doveva servire a scoprire gli erramenti altrui,
era messo fuori uso dove non c'erano più errori da
scoprire ma soltanto verità da glorificare.
Ora la svolta del XX Congresso ha avuto anche questa conseguenza: gli intellettuali marxisti sono
diventati sempre più consapevoli che in una concezione laica del mondo non vi è posto per una storia sacra né l'umanità si può dividere con un taglio
Politica e cultura di Norberto Bobbio
netto in ebrei e gentili. Anche il regime sovietico,
fondato come ogni altro potere politico su determinati rapporti di produzione, provoca per lo stesso trasformarsi di questi rapporti le sue lotte, genera le sue contraddizioni. Contraddizioni tra burocratizzazione e iniziativa personale, tra dittatura e
garanzie giuridiche, tra partito unico e necessità
degli antagonismi, tra governo forte e controllo
democratico, tra indottrinamento e sviluppo della
cultura, tra ragione di stato e etica individuale, tra
economia di guerra ed ecoantagonismi, tra governo forte e controllo [...], tra rafforzamento del
potere sovietico al di fuori dei confini dell'URSS e
rispetto dei valori nazionali, tra egemonia della
nazione più forte e autonomia delle nazioni più
deboli: quanto materiale per uno storico di buona
fede che, convinto della bontà del metodo dialettico, non si limiti ad applicarlo ai cattivi che devono
diventar buoni ma anche ai buoni che possono
diventare cattivi. Una prima ragione d'interesse del
saggio di Giolitti sta dunque nella dichiarata consapevolezza che solo un fanatico o un dogmatico
possa ormai sfuggire alla responsabilità della critica
delle contraddizioni e in fin dei conti in un uso più
conseguente della dialettica.
Ma la dialettica non è soltanto un metodo per individuare le contraddizioni: indica la via per risolverle.
Qui Marx, seguendo ancora una volta Hegel, aveva
accettato per la soluzione delle antitesi il criterio
della negazione della negazione, cioè della soppressione che è insieme superamento. Non ci sarà bisogno di ricordare il celebre passo del Capitale, criticato da Dühring e difeso da Engels, in cui Marx, a
proposito dello sviluppo della proprietà, aveva tracciato le linee di un processo che muovendo dalla
proprietà privata capitalistica intesa come negazione, generava dal suo stesso seno la negazione della
negazione, cioè una nuova forma di proprietà.
Questo principio della negazione della negazione
significava che il momento della soluzione non era
una eliminazione totale del momento precedente
ma piuttosto una sua trasformazione e conservazione. Il concetto del passaggio dal vecchio al nuovo
inteso come trasformazione assoluta apparteneva
semmai al razionalismo astratto dei giusnaturalisti, i
quali - si pensi allo Hobbes e anche al Rousseau consideravano lo stato civile, sorto sulla dissoluzione
121
n.11 / 2005
dello stato di natura, come un sistema completamente nuovo di rapporti tra gli uomini, come la
nascita di un uomo nuovo che, per dirla con
Rousseau, non avrebbe più ascoltato “l'impulso fisico” ma “la voce del dovere”, e sarebbe stato costretto d'ora innanzi “a consultare la propria ragione
prima d'ascoltare le proprie inclinazioni”2. Sinora,
nel rifiuto della civiltà liberale i teorici del comunismo sovietico, affascinati dalle conquiste del nuovo
regime e insieme resi ottusi dall'isolamento, si dimostrarono miglior seguaci del mito giusnaturalistico
della trasmutazione che non del criterio dialettico
della soppressione-superamento. Il regime sovietico
fu esaltato come il novus ordo, come il Leviatano
possente e pacifico che viene a far giustizia una volta
per sempre dell'anarchia distruttiva dello stato di
natura e nel grembo del quale confluisce per morire
di morte naturale o violenta tutto il passato.
Rivoluzione non è "tabula rasa"
Anche su questo punto bisogna dar atto a Giolitti di
aver fatto un uso più conseguente della concezione
dialettica della storia. Uno dei temi principali del
saggio è espresso con queste parole: “Una nuova
classe dirigente, portatrice e artefice di uno stadio
più avanzato di civiltà, non può svolgere la propria
funzione egemonica sull'intera società se non
facendo proprie, per potenziarle, arricchirle e rinnovarle, tutte le conquiste del progresso" (p. 36).
Alla teoria della tabula rasa Giolitti contrappone la
tesi che una nuova civiltà non distrugge mai tutto il
passato, ma ne assorbe le forze migliori e se ne alimenta. Egli vede la classe dirigente del proletariato
esercitare la sua funzione storica con l'accogliere
risultati e conquiste della civiltà liberale come l'habeas corpus, la divisione dei poteri, la libertà di
pensiero, il suffragio universale, “che appartengono all'umanità civile, perché rappresentano un progresso nell'organizzazione dell'umana società” (p.
36), anche se le forme istituzionali, non saranno le
stesse e la divisione dei poteri, ad esempio, non
sarà più tra le funzioni di governo, ma tra il potere
politico, quello sindacale e quello della scienza. Alla
rivalutazione del passato democratico Giolitti ricollega la questione della “via nazionale” al socialismo.
Egli è fautore della via nazionale, perché via nazio-
122
nale significa rifiuto di un'astratta eversione e inserimento in una tradizione il cui riconoscimento è
compito della classe politica che miri non ad un'effimera dittatura ma ad una durevole egemonia. Di
conseguenza: “il socialismo in un paese economicamente sviluppato e già retto da un ordinamento
democratico non può concepirsi disgiunto dalla
democrazia” (p. 35).
II riformismo socialdemocratico
Certamente, qui può nascere il dubbio che la posizione di Giolitti imperniata sul tema del socialismo
nella democrazia, sfoci in una tradizionale accettazione della socialdemocrazia e perciò sia destinata
a rinfocolare vecchie dispute più che a stimolarne
di nuove. In realtà la posizione di Giolitti è più sottile e complessa. O almeno bisogna distinguere in
essa l'atteggiamento verso il riformismo da quello
verso la democrazia.
Rispetto al riformismo, direi che tutto lo sforzo di
Giolitti consista nello sfuggire alla solita alternativa:
o riforme o rivoluzione; cioè nel sottrarsi al gioco
delle parti contrapposte nello schieramento socialista europeo per giungere ad una conclusione su
per giù di questo genere: “in un certo senso” riforma e rivoluzione non son termini contrapposti, e
pertanto la tradizionale alternativa “in un certo
senso” è falsa. Giolitti scrive: “Nei paesi dove le
strutture capitalistiche sono più solide e più sviluppate e dove l'imperialismo ha le sue posizioni di
forza, è sulle contraddizioni intrinseche al modo di
produzione che la classe operaia deve far leva: la
via rivoluzionaria è quella delle riforme di struttura” (p. 25).
In questo passo, e in altri analoghi, i termini “riforma” e “rivoluzione” non sono adoperati come contrari e quindi incompatibili ma come implicantisi
nel rapporto di mezzo a fine. Perciò la tesi che ne
deriva si può formulare in questo modo: le riforme
sono il mezzo per attuare la rivoluzione. Con un
certo schematismo si può dire che questa posizione si differenzia tanto da quella rivoluzionaria
secondo la quale la rivoluzione è un mezzo per
attuare le riforme, tanto da quella riformista nel
senso corrente della parola e qui chiamata di riformismo neo-capitalistico, secondo cui le riforme
Mario Quaranta
sono il mezzo per evitare la rivoluzione. A ben
guardare Giolitti sfugge alla alternativa, perché,
rispetto ai riformisti, opera con un concetto diverso di riforma, dove “riforma” significa riforma di
struttura e non nella struttura; e, rispetto ai rivoluzionari, opera con un concetto diverso di rivoluzione, che non significa più il complesso degli atti
violenti compiuti in vista della conquista del potere, ma trasformazione radicale delle principali
strutture di una società e quindi della direzione
politica (sia essa avvenuta attraverso la violenza o
meno). Ai riformisti, soprattutto a quelli di oggi, in
sostanza Giolitti si contrappone, perché le riforme
di cui parla sono riforme destinate “a realizzare la
rivoluzione socialista” e non già “la conservazione
del capitalismo”; ai rivoluzionari per partito preso
si contrappone insistendo sul fatto che ciò che
conta non è il modo della trasformazione della
società (violenza nella conquista e dittatura nell'esercizio), ma il contenuto di questa trasformazione, e che il modo appartiene alla contingenza storica (ed è un errore costituirvi sopra una teoria
valida per tutti i tempi) e soltanto la trasformazione socialista della società appartiene alla sostanza
del socialismo. Il fatto poi che si contrapponga a
entrambi, non vuol dire che sia equidistante rispetto alle due posizioni estreme: la differenza dal
riformismo è o pretende di essere essenziale,
riguarda il fine: “Dopo la seconda guerra mondiale
la socialdemocrazia, nella sua grande maggioranza,
ha esplicitamente rinunciato anche al socialismo
come fine, ha messo definitivamente Marx in soffitta dando per superata l'analisi marxista del capitalismo e ad essa ha sostituito le teorie economiche del "neocapitalismo"” (pp. 12-13); la distinzione dal socialismo rivoluzionario, invece, verte o
pretende di vertere su una questione secondaria o
di opportunità, cioè riguarda non il fine ma i
mezzi: “Gli strumenti della democrazia hanno oggi
un'efficacia rivoluzionaria, perché sono per natura
e per definizione strumenti in mano della maggioranza, che la minoranza può cercare di accaparrarsi solo deformandoli o neutralizzandoli” (p. 35).
Perno di questa posizione è il concetto gramsciano
di “egemonia”. Giolitti lo adopera dichiaratamente
contro il riformismo, che è pur sempre viziato da
una concezione deterministica dello sviluppo eco-
Politica e cultura di Norberto Bobbio
nomico e fatalistica della storia; ma se ne vale pure
per opporsi ai teorici della violenza che rovesciano
il naturale rapporto tra economia e politica e pretendono di affidare alla conquista del potere politico quelle riforme che non sono ancora state
attuate nel processo di trasformazione economica.
Anche su questo punto non si potrebbe desiderare maggiore chiarezza: “La funzione dirigente della
classe operaia deve esercitarsi anzitutto nel processo produttivo e da qui conquistare il potere
politico” (p. 23). Debbo dire che qui la equidistanza mi pare meno rispettata a favore della posizione
riformista. Il termine “riformismo” ha almeno due
significati: oltre al significato già incontrato di teoria delle riforme sulla struttura e non della struttura, ha anche quello di teoria del progresso graduale contrapposto a salto qualitativo. Ora la precedenza del momento economico su quello politico
è generalmente propria della concezione evolutiva
o riformistica della storia, di quella concezione
secondo cui la storia procede a gradi e non a salti,
anche se essa non è affatto contraria ad una delle
principali leggi della dialettica marxistica, alla legge
della trasformazione della quantità in qualità,
richiamata esplicitamente da Marx nel Capitale e
messa in particolare onore da Engels nella
Dialettica della natura.
Democrazia: scelta morale
Per quel che riguarda la democrazia, la differenza
dell'atteggiamento di Giolitti dalle posizioni socialdemocratiche sembra meno netta. Se infatti in un
primo tempo egli valuta positivamente il metodo
democratico più che altro per ragioni storiche e unicamente in funzione delle particolari condizioni politiche in cui si troverebbero certi paesi in confronto
di certi altri, alla fine, là dove il saggio riecheggia
moti d'animo nati dai fatti d'Ungheria, si eleva a considerare la democrazia come mezzo inerente alla
realizzazione del socialismo e come tale necessario.
Citiamo ancora una di quelle frasi dal taglio netto
che sono un pregio del libro ed esprimono forza di
convinzione e rigore mentale: “La democrazia socialista non si edifica con mezzi antidemocratici” (p.
52). Il comune rapporto tra conquista violenta e dittatura da un lato e conquista ed esercizio democrati-
123
n.11 / 2005
ci dall'altro viene invertito: quel che là era eccezione
qui diventa regola e viceversa. Democrazia e socialismo sono considerati ormai come due momenti
inscindibili di un unico processo.
Non vedo come una simile affermazione sia potuta avvenire senza una profonda rimeditazione non
solo della prassi comunista ma anche della teoria
marxista e leninista del potere. Penso che tra
comunismo e democrazia vi sia una differenza non
facilmente conciliabile, perché non riguarda questo o quello espediente da adoperare in questa o
quella circostanza, ma la visione generale della storia e dell'uomo. L'etica comunista è pur sempre
un'etica della violenza, voglio dire una concezione
che partendo da una critica feroce della società in
cui il militante si trova a vivere, e non avendo nessuna fiducia nel moto spontaneo delle cose, ciò
che un liberale avrebbe detto il libero gioco delle
forze naturali, ritiene che solo una minoranza
organizzata, disciplinata e credente (il partito, il
nuovo principe) sia in grado di far progredire l'umanità verso il meglio, e in definitiva che per salvare gli uomini bisogna forzarli ad entrare. L'etica
democratica, che è nata dalle lotte contro l'intolle([email protected])
124
ranza dogmatica delle chiese e contro il dispotismo principesco, è un'etica della spontaneità che,
considerando la società sempre in crisi e sempre in
movimento, crede nella fecondità della lotta, nella
forza e nel valore della responsabilità individuale,
nel compromesso provvisorio e sempre rinnovabile come mezzo di risoluzione dei conflitti. Lo spettacolo delle grandi lotte che a Marx suscitò il pensiero della storia come teatro dell'alienazione
umana che ben poteva giustificare la violenza purificatrice, al vecchio Kant meditante sul progresso
umano fece esprimere l'elogio degli antagonismi
che soli assicurano lo sviluppo delle facoltà naturali dell'uomo e quindi della civiltà, purché vengano
a poco a poco disciplinati dal diritto. Perciò chi
richiama il socialismo al riconoscimento del valore
essenziale della democrazia pare a me che non
solo indichi un orientamento politico ma esprima
pure una scelta morale.
* "Notiziario Einaudi”, giugno 1957.
1. Miseria della filosofia, Roma, Edizioni
"Rinascita, p. 99. Il corsivo è mio.
2. Contratto sociale, lib. I, cap. VIII.
ELIO FRANZIN, LUIGI PICCINATO E L’URBANISTICA A PADOVA 19271974. CON ALCUNI SCRITTI PADOVANI DI LUIGI PICCINATO, PREFAZIONE
DI LIONELLO PUPPI, PADOVA, IL PRATO, 2004.
Schede
La tesi fondamentale espressa dall'autore è che la
storia urbanistica di Padova nel Novecento sia
caratterizzata da una doppia continuità, da un lato
i gruppi sociali dominanti (l’anti-urbanistica)
hanno imposto fino ai giorni nostri i loro poteri di
distruzione del centro storico testimoniati dallo
sventramento del quartiere di Santa Lucia, dalla
costruzione della zona ospedaliera sopra le mura
cinquecentesche e sopra un canale, dai tombinamenti dei corsi d’acqua. A questa linea, che è risultata vincente, si è opposto per decenni l’urbanista
Luigi Piccinato, il maggiore urbanista italiano del
Novecento, e intellettuali che facevano riferimento
al suo pensiero e ai suoi piani regolatori.
Per la città di Padova, in momenti diversi, dal 1927
fino al 1974, egli elaborò ben cinque piani: un caso
unico nella storia dell’urbanistica italiana. Lo sventramento del centro storico padovano fu deciso
con il piano regolatore degli ingegneri T. Paoletti e
G. Peressutti approvato prima dal Consiglio comunale e poi dalla legge del 23 luglio 1922 n. 1043 precedente alla marcia su Roma del fascismo.
L’equazione sventramento dei centri storici uguale
politica urbanistica del fascismo nel caso padovano
si dimostra non fondata. E in effetti il piano di sventramento del 1922 fu contestato anche da numerosi intellettuali che aderivano al fascismo, come per
esempio Gustavo Giovannoni, un grande storico
dell’architettura, o Corrado Ricci. Si può ritenere da
molti elementi diretti e indiretti che il piano di
sventramento del centro storico padovano, realizzato da un'unica impresa chiamata APE, sia stato
concepito da speculatori romani che utilizzarono i
loro rapporti con ambienti ecclesiastici.
L’opposizione al piano di sventramento di Padova
si sviluppò a livello nazionale e locale. Ma nel 1927
con la nomina del primo podestà di Padova, il
conte Francesco Giusti del Giardino, i difensori del
centro storico padovano subirono un duro colpo.
Fu costruita la nuova facciata del palazzo comunale, dedicata ai caduti della Prima guerra mondiale,
che nascose quella appena riapparsa del Palazzo
degli Anziani, un monumento medievale di grandissimo valore artistico e simbolico. Questo intervento particolarmente distruttivo fece capire alla
parte più colta della cittadinanza cosa stava succedendo nel quartiere di Santa Lucia, dove si abbatterono edifici come la casa di Pietro d’Abano e del
Mantegna. Si può affermare che dal 1927 in poi il
centro storico padovano prima e durante il regime
fascista e poi durante il periodo in cui il Comune è
stato ininterrottamente diretto dalla Democrazia
cristiana con i suoi alleati, ha continuato a subire
dei colpi durissimi, grazie ad operazioni che spesso sono state decise o giustificate da alcuni docenti universitari e perfino da un rettore. Insomma,
secondo l'autore c'è una continuità, dal fascismo in
poi, nella classe dirigente padovana, di una linea di
anti-urbanistica, la quale è pertanto particolarmente estesa e robusta, se ancora nell'estate del 1974 fu
sconfitto l’assessore all’urbanistica Francesco
Feltrin, un allievo politico di Piccinato, il quale era
contro lo sviluppo “ a macchia d?olio” della città,
mentre Piccinato sosteneva uno sviluppo “stellare”.
Pietro Bardella
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DEVI SACCHETTO, IL NORDEST E IL SUO ORIENTE. MIGRANTI,
TALI E AZIONI UMANITARIE, OMBRE CORTE, VERONA 2004
CAPI-
Asterischi
Tra i diversi motivi di interesse e di originalità di
questo libro, ve ne sono due che lo rendono altamente pionieristico, meritorio e fecondo di ulteriori sviluppi, speriamo anche dell’Autore stesso. Il
primo rimanda al tentativo di una lettura intrecciata delle migrazioni di capitali e di persone, magari
con direzioni parallele e invertite, come le delocalizzazioni industriali del Nordest italiano in
Romania e l’arrivo, da quel Paese, di molti migranti sia uomini che donne: “Nel corso degli anni
Novanta la delocalizzazione dei distretti industriali
e l’immissione di manodopera immigrata nelle
imprese collocate in Italia sono andate di pari
passo” (p. 176).
Il secondo consiste nella focalizzazione di un caso
empirico in cui l’azione umanitaria – nella fattispecie nel Kosovo – si specializza come funzione di un
controllo eterodiretto di un territorio e di una
democrazia a sovranità revocabile. In questo caso
“le organizzazioni umanitarie costituiscono un potere crescente in grado di suscitare dinamiche di cambiamento nelle aree oggetto di intervento” (p. 96).
Tenendo presenti questi due fili conduttori non è
difficile immaginare quanto distante sia l’approccio
di Sacchetto da una problematizzazione classica del
fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese e
delle correlate politiche di intervento. La lettura, le
categorie adottate, le comparazioni sono dense di
concettualizzazioni fortemente extranormative, con
la scelta di un terreno ibrido, tra sociologia, antropologia e riferimenti storico - politici di contorno.
Tutto si incardina con una categoria fondante,
molto densa di strutture concettuali, come il confine: “I confini geografici separano aree politiche
definendo un interno e un esterno al fine di garantire un controllo più sicuro del flusso di individui e
merci. Chi attraversa un confine,…incrementa o
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diminuisce valori economici di se stesso o della
merce che trasporta, entrando a far parte di relazioni produttive e di scambio indipendentemente
dall’attraversamento legale o illegale della frontiera” (pp. 31 –2).
Ciò che sovrintende al complesso intreccio di
migrazioni di persone, di capitali, di guerre e di azioni umanitarie è la potenza strutturante gerarchie
che agisce attraverso recinzioni e processi di sconfinamento. Secondo l’Autore questa gerarchia via
guerra si concretizza con la costruzione di uno spazio senza possibilità di mobilità territoriale, la “ricostruzione” definisce e circoscrive il suo oggetto e il
suo ambito di intervento chiudendo varchi per una
mobilità verso e dall’esterno. Invece via pace si
identifica con le strategie di transizione alla “costruzione politica della forza – lavoro migrante” (p. 63).
Come nelle istituzioni totali descritte da Erwin
Goffman il recinto confinario è la linea dura, seccamente operativa, della svalorizzazione della soggettività oltreché del suo controllo disciplinare.
Questa finalità si esplicita nella forma che assumono i nuovi conflitti bellici, con la loro aleatoria contingenza e imprevedibilità, innescano crisi senza
fine delle comunità di prossimità: “Nel lungo
decennio jugoslavo, ad esempio, alla dissoluzione
delle comunità esistenti è corrisposta la costruzione di società commerciali caratterizzate da regimi
lavorativi meno democratici e, più in generale, da
nuovi precetti disciplinari” (p. 70).
L’Autore assume qui la formula di Barman per la
quale la globalizzazione struttura i territori come
“ghetti”, che sono delle anti –comunità, dei luoghi
in cui la vicinanza fisica non crea legame, anzi l’individuo è anonimo, pulsionale e irrelato.
Le vicende del Kosovo come si situano dentro questo sofisticato modello interpretativo? Per Sacchetto
si tratta esattamente dell’allungamento verso il
basso della gerarchia dei poteri globali sui territori
attraverso i dispositivi della recinzione confinaria
materiale.
Essendo il prodotto di queste dinamiche globali di
potenza le società confinarie come quella kosovara
non incarnano l’ideale della comunità di prossimità
“buona” contro la società di mercato “cattiva”. Ma
perché la comunità, questa comunità si disintegra?
Le risposte possibili da tentare sono diverse.
Evidentemente sotto una certa soglia di riconoscimento reciproco “faccia a faccia” la caratterizzazione spontanea dei rapporti comunitari non riesce a
fare legame in un contesto privo di protezioni politico – istituzionali. I legami si disgregano e gli individui si allontanano, non venendo compresi da
quella forma sovra – ordinante, che conferisce certezze ai diritti personali. Questa forma o quel contesto debbono originarsi in modo extra – comunitario e rendono possibile la comunità, l’integrarsi
delle soggettività che la abitano.
Questa paradossale esigenza di generare il comunitario da una forma extra – comunitaria di autorità segna tutta la ricerca di Marco Dogo, il suo
interrogare il difficilissimo intreccio tra democrazia nazionale e identità etnico – territoriale che
presiede alla mancata modernizzazione dei
Balcani. La “balcanizzazione” non è l’esplosione di
puri “ethnoi” tra di loro incomponibili per la loro
pervicace volontà di differenza; bensì è l’inversione del rapporto tra comunità etnico – territoriale
che si vuole im – mediato fondamento della
democrazia nazionale. Riecheggiando Attilio
Brunialti, rara figura di studioso e politico italiano
dedito alla conoscenza dell’Est e dei Balcani afferma: “nessun collegamento automatico va stabilito
fra l’esistenza di un gruppo etnico e la formazione
di uno stato” (Marco DOGO: Storie balcaniche,
LEG, Gorizia, 1999, p. 62).
La natura virtuosa dei legami comunitari si da pertanto solo dove lievita il “mistero” di un’obbligazione pubblica che assegna i diritti personali.
Per la Romania lo scenario cambia: il territorio
viene organizzato in base alle potenze di recinzione
confinaria puramente immateriali. Non si pongono
come per il Kosovo il precedente della guerra, le
migrazioni interne, l’invadenza umanitaria nella
regolazione delle strutture sociali o, peggio ancora,
una sovranità etero –determinata (il Governatore
del Kosovo veniva nominato dall’ONU). Per quanto
giovane e acerbo, a volte un po’ sgangherato, qui
un contesto politico – istituzionale esiste sia dal
punto di vista della legittimazione dell’autorità sia
della produzione del diritto.
La problematica della transizione sostituisce quella
della ricostruzione. Ne deriva una riconfigurazione
puntigliosa di tutte le categorie che descrivevano la
dimensione confinario – ghettizzante del Kosovo.
Questo grande Paese cerniera tra Europa orientale
e Balcani evita la guerra, assiste al crollo del
Conducator senza affidarsi a un processo rivoluzionario reale di riforme di struttura. Ma per come lo
si guardi è l’immane arretratezza economica che lo
attanaglia e ne condiziona tutto il futuro. Il Dossier
pubblicato dalla rivista “East” del gruppo bancario
Unicredito con il significativo titolo “Attenti a quei
dieci, sono venti volte più poveri” espone una
tabella dal significato erudissimo: nell’Europa dei
Quindici la ricchezza media pro –capite è di 41.628
euro, in quella allargata dei Dieci di 1.891 euro, in
Romania 338 (East n. 2/2004, pp. 90 – 7. La tabella
è pubblicata a pag. 94).
I capisaldi analitici di Devi Sacchetto sul caso
Romania sono i seguenti: 1) fallimento della transizione via autogoverno nelle sue diverse forme:
urbana, rurale, mineraria; 2) esposizione totale ai
capitali esteri, alla loro logica predatoria, priva,
fino a pochissimo tempo fa di regole minimali di
rispetto e di tutela del territorio di intervento; 3)
caratteristiche estensivo – diffusive della presenza
italiana “collocandosi al sesto posto in termini di
valore tra i vari capitali nazionali presenti in
Romania, ma al primo posto per numero di aziende straniere esistenti in questo paese: 10.634 su
un totale di 82.424” (p. 143); 4) “L’ideologia che
sostiene il ritornello del mantenimento in Italia
dei centri decisionali, la testa, e del decentramento della mera esecuzione di operazioni ripetitive o
banali segnala il livello neo – colonialista del capitalismo italiano e il suo ruolo di comprimario nella
sempre più rigida divisione internazionale del
lavoro” (p. 148).
Anche in tempi recentissimi la Camera di
Commercio italiana in Romania ha ribadito la natu-
127
n.11 / 2005
ra fittizia di una buona parte delle 16.000 aziende
italiane registrate in quel Paese: “sono imprese,
per così dire “sentimentali”, poco avvezze alla produzione industriale. Insomma c’è la partita IVA,
manca tutto il resto. A compensare, tanto, tanto
amore per le bellezze autoctone. E’ la delocalizzazione del cuore, appendice romantica della corsa a
nuovi Eldoradi…” (“Romania affari e doppia vita.
Migliaia di aziende “finte” per coprire le scappatelle” in “Corriere del Veneto” del 22 aprile 2005, p.
5).Qui il libro si incanala troppo su un sentiero fortemente ideologico, mettendo in sequenza la natura drasticamente neo – coloniale delle delocalizzazioni e la segmentazione dell’immigrazione secondo rigide linee di dominio regolativo della forza –
lavoro migrante: “i migranti si trovano così in un
altro mercato del lavoro, in cui l’inferiorizzazione
diventa processo sociale costitutivo della possibilità della loro presenza” (p. 221).
Ne viene, per l’Autore che: “Le recinzioni sono
quindi essenziali nella costruzione dell’attuale
sistema di produzione e di riproduzione capitalistico perché tengono a distanza gli individui e permettono una valorizzazione gerarchizzata” (p.
258). Questa conclusione perentoria a mio avviso
non tiene conto di due ulteriori sviluppi dell’indagine e delle pratiche sociali.
La prima è che nello sradicamento, come dice
Derrida, il singolo vive l’esperienza estrema del
riconoscimento dell’altro e del tentativo, dentro
questo riconoscimento, di un reciproco “appaesamento”. E’ la dimensione dell’alterità come straniero che apre a questa radicale chanche di vita
(Jacques DERRIDA: Il monolinguismo dell’altro,
trad. it. Cortina, Milano 2004).
Ma volendo scendere dall’empireo filosofico alla
vicenda più terrena dei conflitti constatiamo giorLuca Romano
128
no dopo giorno che la tetragona forma del dominio capitalistico globale muove in realtà anch’essa
eserciti di funzionari alienati, ovvero completamente spaesati da queste dinamiche di migrazione
permanente. Molto efficace, da questo punto di
vista, la testimonianza di quell’imprenditore che
trovandosi sempre meglio ambientato nella sua
attività delocalizzata, si chiede: “Ma che ci torno a
fare in Italia?” (p. 251).
La seconda è che i destini migranti possono anche
rappresentare storie di emancipazione, nel caso di
lavoratori ma anche di molte donne lavoratrici, che
si giocano il tutto per tutto dentro sistemi che non
sono mai ermeticamente chiusi. Non è detto che
nel nostro Paese il futuro dei migranti sia inesorabilmente destinato alla gerarchizzazione confinaria. I segnali sono plurali, soprattutto ora che stiamo assistendo all’incontro delle “seconde generazioni” sia di migranti che di popolazioni riceventi
che entrano in rapporto con le altre (cfr. Maurizio
AMBROSINI Stefano MOLINA: Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in
Italia, edizioni Fondazione Giovanni Agnelli,
Torino 2004).
Ma anche rispetto alle modalità attraverso cui si
ridisegna la composizione sociale nei Paesi europei a sviluppo maturo la presenza di persone
migranti nel lavoro autonomo e nelle professioni
non è più residuale e risibile come dieci quindi
anni fa.
Ciò nonostante l’approccio antropologico culturale di Devi Sacchetto a questi destini migranti appare il più pertinente per dare alle tormentate vicende del mondo contemporaneo il sapore dell’esistenza senza i falsi orpelli dei formulari giuridici,
delle politiche e delle azioni umanitarie.
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