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la Repubblica
la Repubblica
MARTEDÌ 22 MAGGIO 2012
MARTEDÌ 22 MAGGIO 2012
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■ 28
In moto
alla ricerca
di cose normali
in un paese
martoriato dalla
guerra, tra carri
armati, dirigibili
spia, posti
di blocco
e metal detector
Il viaggio/1
PER SAPERNE DI PIÙ
www.pangeaonlus.org
www.afghanistans.com
■ 29
DONNE E MOTORI
Vedere una donna
alla guida, per di
più di una moto, è
cosa quanto mai
inusuale da queste
parti. E il fatto
suscita curiosità.
Recentemente a
Kabul sono state
consegnate
cinque patenti
ad altrettante
donne
Ilviaggio/2
Zanzibar da mille e una notte
dove il tempo si è fermato
IRENE SADERINI
KABUL
ra gli eccessi della vita
quotidiana in Afghanistan, c’è la necessità di provare a fare
anche cose normali. Come un
viaggio per attraversare eastbound il Paese, per vedere se
c’è altro oltre i carri armati, i
dirigibili a controllo delle città
tipo Grande Fratello, i posti di
blocco, i metal detector.
Spostarsi da Herat a Kabul
non è semplice, gli unici mezzi in grado di percorrere la
Ring Road 2 sono i Freccia,
piccoli cingolati dell’Esercito
Italiano, oppure i Lince, le
jeep con la postazione del mitragliere in ralla, o ancora i tristemente noti Suv bianchi
blindati “degli occidentali”, i
bersagli più facili per gli attentatori. Quel che è certo è che in
città come nelle province
sperdute nel deserto, gli afgani sono dei profughi nel loro
Paese, senza acqua, senza luce, senza scuole. Non sono
tutti maleodoranti e cattivi, e
non nascono tutti con il desiderio irrefrenabile di farsi saltare in aria in mezzo a qualche
ambasciata o nel cuore del
mercato cittadino. Le afgane
non sono tutte ignoranti e anche se sono schiave del padre,
del marito e del loro stesso fratello non significa che siano
d’accordo sull’andazzo della
società.
Quando arriva la notte, le finestre illuminate sono quelle
degli stranieri, i compound
dove vengono sigillati i diplomatici, nella cosiddetta Green
Zone. Un fortino di cemento
armato, dove con il tentativo
di allontanare il tifo, l’epatite
B, il colera e svariate compilation di tribù batteriche, ci si è
chiusi talmente dentro da non
vedere che un triangolo di cielo sopra la testa. Lo straniero
non suscita entusiasmo, è un
intruso di cui si farebbe volentieri a meno, specie quando
s’inventa benefattore con i
petrodollari e, dopo svariati
tentativi, riesce a portare a termine un progetto umanitario.
Come, per esempio, consegnare le prime patenti di guida a cinque donne di Kabul.
Da luglio scorso studiano
assieme ai Cooperanti per
conseguire l’agognato certificato, seguendo un corso sui
generis che non insiste troppo
con la segnaletica stradale,
dal momento che la conoscenza dei cartelli è obbligatoria per la normativa internazionale, ma in Afghanistan i
semafori, gli stop e le strisce
T
Afghanistan
le prime 5 donne
con la
pedonali non esistono. Chi
guida si ferma prima di investire un pedone e prende le rotonde, tendenzialmente, in
senso antiorario. Le neo-patentate si sono esercitate a
montare e smontare intera-
I corsi accelerati
di guida sul
ghiaccio in inverno
e sui fondi
polverosi in estate
mente i motori delle Toyota
giapponesi e cinesi, tutte
egualmente scassate, a sostituire una gomma, a rimettere
in sesto lo spinterogeno e pulire i filtri. Hanno seguito un
corso accelerato di guida sul
ghiaccio invernale e sui fondi
bucati e polverosi d’estate, fino a ricevere la licenza di guida. Un’abilitazione che va più
in là del poter guidare.
Herat, Kabul e Jalalabad sono città dove le donne non
possono parlare per prime,
non possono guardare negli
patente
occhi, non conoscono altri
uomini se non i fratelli e il marito che la famiglia sceglie per
loro. Nel Distretto 1, il più povero della capitale, vive
Shaphir, che pur di non sposarsi — e quindi di diventare
schiava — è arrivata a prostituirsi. Bisogna intendersi sui
termini: le prostitute afgane
non stanno per strada al freddo, ma sotto terra dentro una
grata. Il cliente apre la gabbia,
consuma, e prima di rimetterla dove l’ha presa, decide se
pagare oppure no. Nonostan-
te tutto, c’è chi prova a dare un
mestiere a donne come
Shaphir, che fabbrica gioielli,
e anche per questo ogni giorno viene messa al centro di
una stanza e picchiata con il
bastone. Gestisce una società
La normativa
internazionale è
sconosciuta. Non
esistono i semafori
gli stop e le strisce
di dieci ragazze che fabbricano bigiotteria da vendere in
Canada, in America e, se tutto
va bene, presto anche in Italia.
Se oggi Shaphir è orgogliosa di
quello che fa e se domani continuerà a farlo, è soprattutto
grazie alla Fondazione Pangea (www. pangeaonlus. org)
che di disgraziate come lei a
Kabul, ne aiuta parecchie. È
una Onlus italiana che in Afghanistan ci lavora da quando
la guerra c’era, ma non faceva
notizia, 12 anni fa. Pangea ha
già visto ri-nascere tante don-
Alla scoperta dell’ex isola-stato con il 4x4 Toyota
SALVATORE TROPEA
STONE TOWN (ZANZIBAR)
ulla veranda del Mercury
Restaurant affacciata sull’oceano, tra profumi di
spezie e mare, il piatto
consigliato è il “biriani” ovvero un
ottimo riso col polipo e i gamberi o
con la carne, innaffiato con una
birra locale, a scelta una Kilimangiaro o una Sarengeti. Su Mizangani Road, il nome del locale e la
musica rimandano facilmente a
uno dei fondatori dei Queen, celebre rock band britannica nata nel
1970, quel Farrokh Bulsara, che
col nome d’arte di Freddie Mercury, sopravvive come una sorta
di eroe eponimo di Zanzibar. Sotto un sole da tropico equatoriale,
tra palme altissime ed esili come
giunchi, manghi, banani e alberi
del pane, tutt’intorno Stone
Town, capitale zanzibarina, si agita col suo traffico caotico in perenne scorrimento per ampi viali tagliati da stradine anguste, mercati
e fondaci affollati da un’umanità
vociante di venditori di tutto.
Se è vero, come scriveva Guy de
Maupassant che «il viaggio è una
specie di porta attraverso la quale
si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che
sembra un sogno», Zanzibar è la
rappresentazione onirica di un
mondo che trasmette ricordi di
letture delle “Mille e una notte”.
Che altro potrebbe suggerire un
posto dove c’è una House of Wonders, Casa dei Miracoli, primo edificio dell’East Africa a essere dotato di acqua corrente ed energia
elettrica, fatto costruire dal sultano Bargash Bin Said tra il 1870 e il
1880 per ospitare ben novantanove concubine? E se poi nel 1913 è
diventato sede del governo prima
di trasformarsi in museo, questo
conta poco. Agli occhi dei turisti
resta la misteriosa casa di eunuchi
e concubine, contaminazione
omanita di quella civiltà swahili
che l’Unesco ha cercato di preservare, dichiarando Stone Town patrimonio dell’umanità.
La partenza alla scoperta della
ex isola-stato non può che essere
questo posto. Obbligata come lo è
per alcuni versi il fuoristrada della
Toyota in un paese in cui la casa
giapponese sembra avere pochi
avversari. Più che un fuoristrada è
un suv spartano, ma dà sicurezza
su asfalti sconnessi, sterrati, sentieri rocciosi. La vistosa presenza
della casa nipponica, su questo
come su molti altri pezzi d’Africa
S
LE TAPPE
Tra Herat e Kabul ci sono
640 chilometri di strada,
che conviene dividere in
più tratte. In Afghanistan si
guida in maniera confusa
(foto a sinistra), e spesso
si incontrano posti di
blocco con pattuglie di
militari (foto in basso)
(foto di Antonio Lemma)
ne: sono partite in 5, oggi sono
6.000 e fanno attrezzi per la
cucina, riparano neon, vendono frutta. Luca Lo Presti,
presidente di Pangea, è in
contatto costante con le donne di Kabul, che per il mo-
I bambini dormono
per terra, in stanze
gelate. I bordi delle
strade sono latrine
a cielo aperto
mento rimangono nelle loro
case, al sicuro, nonostante si
spari nella maggior parte delle strade.
Lasciando la città verso Jalalabad viene da chiedersi:
quale livello di civiltà possiamo pretendere da quei bambini afgani, futuri uomini
mujaheddin, che dormono
per terra assieme al resto della famiglia nella stessa stanza
gelata, mentre una donna viene stuprata dal marito che altri hanno scelto per lei? Come
ci permettiamo di indignarci
per l’odore camminando con
le latrine ai bordi della strada,
noi che andiamo in bagno e tiriamo l’acqua?
Eppure c’è stato un tempo
non lontano, quando i pavoni
blu coloravano i giardini e gli
alberi da frutto profumavano
l’aria, c’era la musica nelle
strade, i ristoranti aperti, e dai
terrazzini al primo piano di
Chicken Street si beveva il tè,
per sbirciare il passeggio di
sotto. C’erano le atmosfere
raffinate dei libri di Lord Byron, gli uomini eleganti con i
turbanti impeccabili in testa.
Adesso guardare la città è difficile, come lo è spiare i suoi
abitanti che hanno occhi neri,
profondi. Si impara in fretta a
abbassare lo sguardo quando
si avvicinano, la miseria imbarazza chi non è povero.
Quando torni devi sbrigarti a
raccontare, prima che la necessità di dimenticare abbia il
sopravvento. Prima che l’Afghanistan torni a essere solo
un titolo di giornale, un punto
geografico lontano dai confini della propria coscienza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DIARI DEL SUV
Spesso ci si
imbatte in
carri trainati da
asini (foto a
fianco), o in
villaggi dove la
gente è molto
accogliente
(foto sopra)
suggerisce l’idea di un percorso
inverso a quello della storia, quasi
una rivincita del Far East, soprattutto quando si scopre che, in fatto di auto, in appoggio ai giapponesi ci sono i coreani e già qualcuno dice che arriveranno o forse sono già arrivati i cinesi.
Gli inglesi hanno lasciato in eredità il senso di marcia a sinistra e
bisogna prendere la mano lungo
le strade sulle quali circola di tutto, camion pesanti, auto, carri
trainati da buoi simili ai jak, asinelli, motorette (anche queste
asiatiche), biciclette con portapacchi dietro, davanti e ai lati. E
poi i caratteristici “dallah dallah”
che sono piccoli autobus o furgoni sempre stracolmi di passeggeri
e bagagli di ogni tipo: se ne trovano ovunque e corrono come matti.
L’aeroporto di Kisauni, l’unico
dell’isola, è una pista per grandi
aerei e poco più. Da qui l’itinerario
non può che essere longitudinale
data la conformazione di Zanzibar e si sviluppa su una strada che
va dall’estremo sud di Kizimkazi
alla punta nord di Nungwi, tagliata da vie secondarie orizzontali.
Dalla capitale, il primo dirottamento verso est attraversa una periferia di case popolari che ricordano quelle costruite dai sovietici
a Cuba. Poi è selva ai lati di una
strada apparentemente solitaria. I
posti di blocco si susseguono con
fastidiosa frequenza: una piccola
irregolarità e si paga qualcosa. Gli
agenti, a volte si accontentano a
volte no. Il suv sussulta sull’asfalto
sconnesso, rallenta per dare o avere la precedenza davanti a ponti
assai più stretti della carreggiata.
Verso sud, in direzione della
spiaggia di Kizimkazi, le piante di
spezie dominano il paesaggio
purché ci sia un’abile guida per indicarle. Si arriva attraversando
una foresta interrotta da povere
Stone Town
patrimonio
dell’umanità con la
sua casa di eunuchi
e concubine
Pattuglie e controlli
ovunque con
poliziotti a volte
accomodanti,
altre meno
capanne. Dall’estremo sud, per
evitare lo stesso percorso non resta che dirigersi a est per poi risalire lungo le spiagge selvagge dell’Oceano Indiano e quindi rientrare a Jozani dove l’itinerario torna ad essere obbligato sull’asfalto
verso Dunga, nel cuore di Zanzibar, dove le rovine di palazzi ricordano dominazioni coloniali. In direzione nord, i centri abitati e i villaggi sono fuori dalla strada principale ma sono facilmente raggiungibili, anche perché verso est
portano alle spiagge come quella
di Kiwengwa dove le lunghe maree lasciano per ore una distesa di
sabbia bianca sulla quale il suv scivola come su una pista da deserto.
Il distributore di benzina di
Mahonda rassomiglia a tutto
tranne che a un distributore, ma la
benzina c’è e si può fare il pieno
prima di addentrarci ancora nella
foresta alla scoperta di villaggi dove i bambini giocano correndo
dietro a un cerchione di bicicletta
e le donne offrono frutti rossi dal
sapore di mela asprigna chiamati
tofa o almeno questa è la pronuncia.
A Mkokotoni, sulla costa ovest,
una stradina porta verso arenili
ombreggiati da palme e affollati di
pescatori e maestri d’ascia da cantieri artigianali. Poi il paesaggio si
trasforma in una foresta più bassa
che ricorda la kaatinga brasiliana.
Qui la «grande strada» si prepara a
morire sull’Oceano dalle maree
del nord più miti. I villaggi sono
mucchi di capanne raggiungibili
su piste dalle quali affiorano rocce. Il Toyota beccheggia in una nuvola di polvere prima di acquietarsi sul piazzale di un resort circondato da bianche mura. Zanzibar
resta fuori.
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