Leggi il primo capitolo

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v - l’ultima battaglia
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Illustrazioni interne di Paolo Barbieri
www.ragazzi.mondadori.it
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
“La Ragazza Drago” e il relativo logo sono un marchio registrato
da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Prima edizione maggio 2012
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-61669-6
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Prologo
T
utto era buio e silenzio. Una notte nera era scesa sul lago
di Albano, e sotto la sua superficie gelida non filtrava
la luce della luna. La creatura avrebbe rabbrividito, se il suo
corpo metallico fosse stato in grado di provare freddo. Ma non
c’era carne a rivestire i suoi meccanismi, non c’erano nervi
intorno alle sue ossa d’acciaio.
«Sono stanco di questo buio. Fai luce» disse.
L’uomo, dietro di lui, schioccò le dita. Una fiaccola fluttuante
comparve tra le sue mani e accese una luce opaca sulla distesa
che li circondava. Era una piana brulla e dilavata, arsa dal
fuoco di un’antica catastrofe. In alto, sulle loro teste, il guscio
d’acqua che li racchiudeva rifletteva quel fioco bagliore. Erano
immersi nelle profondità del lago, eppure potevano respirare.
La creatura avanzò per prima, con passo lento e trascinato.
Uno stridio di meccanismi imperfetti, il gemito del metallo
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che tagliava il silenzio. Ormai abitava quel corpo meccanico
da settimane, ma ancora non si era abituato. I suoi movimenti
erano lenti e scattosi.
«Volete che vi aiuti?» si offrì l’uomo, tendendo una mano.
La creatura lo respinse con un gesto sprezzante. Odiava sentirsi debole. L’uomo abbassò gli occhi e si ritrasse.
Avanzarono piano, finché non giunsero sull’orlo di un
profondo avvallamento. Laggiù, nel punto più basso, si ergeva
una costruzione appena distinguibile nella penombra. Una
fila di colonne sgretolate dal tempo sorreggeva una cupola
fatiscente: un tempio in rovina.
«Non ricordo questo posto» disse l’uomo.
«Non puoi» gracchiò la creatura. «Eravate tutti già morti
quando venne costruito da Lung, il primo dei Draconiani.»
L’uomo fece una smorfia di disgusto, quindi sputò a terra.
«Io ero già sepolto nelle viscere della terra, allora» continuò
la creatura «ma dall’oscurità della mia prigione li sentivo
muoversi, ripopolare la superficie e invaderla con le loro orribili costruzioni… Stirpe maledetta, traditori! Loro erano
miei, miei!»
«Lo saranno di nuovo» disse l’uomo.
Scese per primo lungo il dirupo, e questa volta l’essere non
rifiutò il suo aiuto. Gli sarebbe stato impossibile percorrere
una discesa tanto ripida con quell’umiliante caricatura di
corpo che era costretto ad abitare.
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Giunti sul fondo, entrarono nel tempio.
L’oscurità oltre la soglia era rischiarata da una luce pulsante. L’uomo rabbrividì. La creatura non poteva dargli torto:
il potere che promanava da quel luogo era così intenso e puro
che faceva persino scricchiolare le giunture del suo misero
corpo. Lo assaporò fino in fondo.
«Vai» sussurrò.
L’uomo avanzò. Al centro del piccolo tempio si ergeva una
lastra di pietra larga una decina di centimetri, lucida e calda.
Dalla sua superficie trasudava un sangue nero, violaceo, la
fonte di quella tetra luminosità. Lento e viscoso, scorreva a
rivoli per il pavimento, scoppiando di tanto in tanto in pigre
bolle. L’uomo evitò accuratamente di calpestarlo e, giunto
vicino alla pietra, si accovacciò. Indossò un paio di guanti
di pelle, poi estrasse qualcosa da una sacca di velluto: era
un globo luminoso, che brillava di una guizzante luce verde.
«Aspetta!»
L’uomo si fermò.
L’essere ripercorse in un istante tutto quel che era accaduto dal momento in cui era stato imprigionato nel sigillo.
I secoli, i millenni consumati al buio e al freddo, il rancore
come unico compagno e il desiderio di vendetta così urgente
da farlo impazzire. Ma adesso tutto stava per finire. Erano
gli ultimi istanti di schiavitù.
«Il tuo sacrificio non è servito a nulla, Thuban» sibilò con
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disprezzo. «E nemmeno la tua progenie ti è stata d’aiuto…
È stato così facile sopraffarla! I tuoi sforzi sono stati inutili.»
Guardò l’uomo, quindi annuì. Quello sollevò il globo e lo
sbatté con violenza contro la pietra nera. La sfera si ruppe
in tre pezzi, e per un istante la sua luce si diffuse tutt’intorno. Ma fu soltanto un attimo. La pietra iniziò a creparsi,
prima quasi impercettibilmente, poi sempre più a fondo. Il
sangue eruppe violento, un terremoto squassò il tempio fino
alle fondamenta. Infine la pietra venne divelta del tutto dalla
sua sede, e sopra il frastuono si alzò una risata raggelante.
Il tempio si sgretolò, la piana fu invasa da un’accecante luce
violacea. L’uomo fu costretto a coprirsi il volto, mentre gli
occhi cominciavano a lacrimargli.
Una sagoma immensa emerse dal pavimento. Il profilo di
un corpo lungo e sinuoso come quello di un serpente distese
le sue spire oltre lo squarcio nella cupola, ali mastodontiche e
membranose si spalancarono di scatto, sferzando la superficie
in un unico, possente battito. Il rosso di un ghigno irto di
zanne baluginò nel buio, e due occhi accesi di una malvagità
senza pari scintillarono feroci.
L’uomo si prostrò fronte a terra.
«Mio Signore, mio Signore, mio Signore!» urlò.
La viverna si erse in tutta la sua vertiginosa altezza: il
capo, sul collo coperto di spine, sfiorava il tetto d’acqua. Mosse ancora le ali, quindi ruggì al cielo. Da ultimo, guardò il
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corpo metallico, abbandonato in un canto come un involucro
vuoto. Lo incenerì con un’unica, densa fiammata. Quando
ebbe finito, rimase solo una pozza di metallo fuso.
«Mio Signore!» urlò ancora l’uomo.
La viverna lo guardò con alterigia. «Sì, sono il tuo Signore,
di nuovo nel pieno del suo vigore, proprio come un tempo.»
Mosse gli artigli piano, quasi a saggiarne la forza. «È come
se non fosse passato neppure un istante da quando ancora
regnavo su questo mondo, da quando questo corpo era un
perfetto strumento di morte» tuonò.
L’uomo sorrise, commosso.
«E per te, che non mi hai mai tradito, che mi hai atteso per
tutti questi anni, il più prezioso dei doni.»
Allungò un artiglio e incise a fondo il petto dell’uomo, che
urlò di dolore. Il suo sangue si mescolò a quello della viverna,
e dalla ferita eruppe una sostanza scura e metallica, simile a
mercurio. Un istante, e guizzò fino a coagularsi in un’armatura
nera come la notte, che avvolse completamente il suo corpo.
«Nessun uomo ha mai ottenuto in dono il mio sangue»
disse la viverna. «Solo a te spetta questo privilegio, Ofnir,
solo al mio leale servo.»
Ofnir chinò il capo. «Non vi deluderò.»
«No» mormorò la viverna, e la sua voce fece tremare la
terra. «Non lo farai.»
«E ora, mio Signore?»
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Le fauci della viverna si aprirono in un ghigno malizioso.
«E ora ci riprenderemo ciò che ci appartiene.»
Ruggì al cielo, e l’acqua che li sovrastava ribollì, trasformandosi in un’immensa nube di vapore nero. Poi tracimò dalla
caldera del lago, ne percorse rapida le pendici e si diffuse su
tutta Roma, e giù ancora, oltre la città, oltre il mare e i suoi
confini, inarrestabile.
La viverna rise, e rise ancora, di una risata folle e selvaggia. Poi batté le ali, pronta per il grande balzo. «È tempo di
tornare a casa.»
Un’esplosione d’acqua ruppe la superficie del lago, e la
viverna fu fuori, all’aria aperta. Si innalzò nel cielo con un
urlo lacerante e si diresse verso la sua antica dimora.
Era tornato. Nidhoggr era tornato.
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Un amaro risveglio
S
ofia si svegliò di soprassalto. Una sensazione di
terrore la prese alla gola non appena aprì gli occhi.
“Un incubo. Devo aver fatto un altro incubo.”
Si tirò su piano, scrutò il buio. Era nella sua stanza,
al sicuro, in una notte come le altre. Ma un senso di
inquietudine le stringeva il petto.
Forse aveva sognato un’altra volta il frutto, non riusciva a ricordare. Nelle ultime settimane era stata tormentata dalle visioni. Ogni volta che sembrava delinearsi
un luogo preciso, un’altra immagine ne mostrava uno
diverso, confondendola. Se continuava così, rischiava
di impazzire.
Appena appoggiò i piedi nudi a terra avvertì un fremito, come un lungo brivido che saliva dal pavimento.
“Forse quelle visioni mi stanno dando alla testa” si
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disse. Andò alla finestra, aprì i vetri e le imposte. Un’aria
gelida invase la stanza. Sofia alzò gli occhi e trasalì:
il cielo era di un nero compatto, innaturale. Non era
semplicemente nuvoloso: era come se qualcuno avesse
steso una pennellata di vernice sulle stelle e sulla luna.
Non era buio: semplicemente la luce non esisteva più.
Eppure il bosco intorno al lago di Albano era illuminato
da un bagliore spettrale. Sembrava di essere in un film
horror di serie B.
“È successo qualcosa… qualcosa di orribile” pensò.
Scattò verso la porta, ma non fece in tempo a raggiungerla, perché quella si aprì di colpo e sulla soglia
comparve il professor Schlafen.
«Prof, cos’è successo?» chiese d’un fiato Sofia, indicando la finestra spalancata. C’era un freddo che ghiacciava
le ossa.
Lui non rispose. Per qualche istante rimase immobile
davanti alla porta, il capo chino e le braccia abbandonate
lungo i fianchi.
«Prof… va tutto bene?»
Il professore alzò lentamente la testa. Era pallido come
un cencio, gli occhi chiusi. Quando li aprì, Sofia sentì
braccia e gambe pietrificarsi dalla paura. Erano rossi, e
scintillavano come braci nel buio della stanza.
Schlafen aprì la bocca in un ringhio sibilante, e sulle
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spalle gli esplosero due enormi ali metalliche, nere come
la pece e lucenti come lame.
Sofia non credeva ai propri occhi. Quei segni portavano un solo, inconfondibile marchio: Nidhoggr. Ma non
aveva tempo per porsi domande. Il neo sulla sua fronte
brillò fulgido e le mani si trasformarono negli artigli di
Thuban. Sulle spalle comparvero due maestose ali di
drago, e il suo corpo fu pronto alla battaglia.
Ma prima che Sofia potesse reagire, il professore si
avventò su di lei. Il metallo delle ali ora aveva ricoperto
anche le braccia, formando due guanti dotati di rostri
affilatissimi. Sofia li scansò per un pelo.
«Prof, svegliati!» urlò, ma era come parlare al vento.
Il professor Schlafen si gettò ancora su di lei, e i rostri
si allungarono fino a sfiorarle la carne della spalla.
Sofia percepì l’agghiacciante sensazione del metallo
che graffiava la pelle.
«Professore!» urlò ancora, ritratta in un angolo, ma
lui insisteva ad attaccarla, il volto deformato in una
smorfia di furore cieco. Sofia si limitava a schivare i
colpi, senza tuttavia osare aggredirlo. Era il prof, non
poteva fargli del male!
Un istante, e un artiglio sciabolò a un nulla dal suo
viso, recidendole una ciocca di capelli. Sofia si acquattò a
terra, rotolò di lato e si precipitò giù per le scale. Dietro
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di sé, sentiva il sibilo delle lame che fendevano l’aria,
sempre più vicine. Quando giunse all’ultimo gradino,
si voltò e vide che i rostri avevano scavato lunghi solchi
bianchi nel tronco del grande albero che troneggiava al
centro della villa, nella casa che ormai da quasi due anni
condivideva con il professore e Lidja.
“Lui non farebbe mai del male alla quercia della villa” si disse, ma la creatura che incombeva su di lei non
aveva più nulla di Georg Schlafen.
«Lidja!» gridò a squarciagola. «Dove sei finita?»
Non ricevette risposta. L’unico rumore che sentiva
era lo stridio degli artigli ormai vicini.
Si distrasse un istante, sufficiente a far sì che il professore le balzasse addosso, stringendole il collo in una
presa ferrea e inchiodandola a terra. I suoi occhi fiammeggianti incrociarono lo sguardo sperduto di Sofia per
lunghi secondi. In fondo a quelle pupille non si scorgeva
che rabbia e follia.
Alzò un pugno e glielo portò davanti agli occhi, pronto
a sferrare il colpo mortale. Sofia strinse i denti e si risolse
a fare l’unica cosa possibile. Abbracciò il professore con
tutte le forze che aveva, e dalle mani le eruppero lunghe
liane di un verde acceso che lo avvolsero completamente,
bloccandone i movimenti. Si concentrò, quindi mosse
le liane in modo da esplorare la zona del collo, dove in
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genere si annidava l’impianto che permetteva l’assoggettamento. Doveva capire in che modo Nidhoggr fosse
riuscito a ridurlo in quello stato, ma non trovò nulla.
Di nuovo rimase incerta per una frazione di secondo,
e di nuovo il professore ne approfittò. Spezzò le liane
con uno strattone, si sciolse dall’abbraccio e spalancò
le ali, riguadagnando distanza. Sofia si trovò chiusa
all’angolo, ansimante.
Scosse la testa e cercò di riportare la mente alla realtà:
ora il professore era un nemico, e se voleva salvarlo doveva combatterlo esattamente come avrebbe fatto con
qualsiasi creatura di Nidhoggr. Si fece forza e gli lanciò
contro un secondo fascio di liane, ma lui si muoveva da
un lato all’altro della stanza rapido come una freccia,
tranciandole di netto. Sofia tese allora l’altro braccio e
scagliò contro le sue ali nere un viluppo di liane. Finalmente il professore cadde a terra, dibattendosi come
un pazzo, ringhiando e graffiando il pavimento. Lei lo
strinse ancora più forte e volò intorno all’albero. Una
decina di giri, e Schlafen venne ridotto all’immobilità.
Sofia si concentrò un’ultima volta e trasformò le liane
in saldi rami di legno.
Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che
un urlo giunse dal piano di sopra. Lidja. Sofia spiegò
le ali di Thuban e volò in direzione del rumore, gettan-
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dosi nella stanza dell’amica. La scena che le si presentò
aveva dell’incredibile: Lidja, le ali di Rastaban spiegate,
tendeva gli artigli verso un uomo, all’altro capo della
stanza, mezzo sepolto da una catasta di mobili.
Era Thomas, eppure non era lui. Urlava, il volto deformato, gli occhi rosso sangue. Sulla sua schiena erano
esplose ali metalliche identiche a quelle del professore,
come identici erano gli artigli che puntava contro Lidja.
«Sof, non ce la faccio, dammi una mano!»
Sofia si riscosse all’istante. «Fai volare il lenzuolo!»
gridò.
Lidja non se lo fece ripetere, e con i suoi poteri telecinetici gonfiò la stoffa fino a farla veleggiare sopra la
testa di Thomas. Sofia la intercettò con una liana, quindi la strinse più forte che poteva intorno al corpo del
maggiordomo. Poi, come aveva fatto con il professore,
trasformò la liana in legno.
Si piegò in due, esausta, le mani sulle ginocchia, il
fiato corto.
«Stai bene?» chiese Lidja appoggiandole una mano
sulla schiena.
Sofia annuì, rossa in viso. «Il prof… anche lui… è stato
assoggettato» riuscì a dire tra gli ansiti.
Lidja la guardò incredula e rimase in silenzio qualche
istante.
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«Non è possibile… Sof… cosa sta succedendo?»
«Non lo so, Lidja. Non lo so.»
Trascinarono Thomas giù per le scale e assicurarono
anche lui al tronco dell’albero. Lidja corse nello studio
a prendere la pozione che il professore aveva usato per
addormentare Effi, la madre adottiva di Karl, a Monaco, quando le avevano estratto dal corpo l’embrione di
viverna che l’aveva posseduta.
Costringerli a berla fu un’impresa. Pur avendo gambe e braccia immobilizzate, muovevano la testa come
furie e mordevano l’aria, tentando di affondare i denti
nelle mani di Lidja e Sofia. Ma bastò far scivolare loro
una sorsata tra le labbra, ed entrambi persero subito
conoscenza.
Sofia rimase immobile a osservarli, incapace di credere a ciò che aveva appena fatto. Volse lo sguardo alla
casa. Per tanto tempo era stata un rifugio, un luogo
sicuro in cui proteggersi da Nidhoggr. Ma adesso era
stata violata e portava i segni di una terribile battaglia.
Profondi tagli avevano messo a nudo il legno chiaro
sul tronco dell’albero intorno al quale si sviluppavano i muri. Alcuni gradini della scala che conduceva al
piano di sopra erano sfondati, e la carta da parati che
rivestiva le pareti era lacerata in più punti. Parte della
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mobilia era andata distrutta, e una credenza antica cui
il professore era molto affezionato giaceva a terra, con
le ante sventrate.
«Non capisco» disse Lidja riportando Sofia alla realtà.
«Non hanno l’innesto degli Assoggettati.»
«Lo so, l’ho già cercato. Sembra che abbiano creato
un nuovo sistema di assoggettamento.»
Ispezionarono i corpi con più attenzione, ma non
trovarono alcuna traccia del ragno metallico tipico degli Assoggettati, che affondava le zampe nel collo per
insinuarsi dentro la colonna vertebrale. Le ali, cui erano
connessi gli artigli, si innestavano sulle scapole e il metallo penetrava direttamente nella carne.
«Forse l’innesto ha cambiato forma» disse Sofia.
«Tu pensi che gli abbiano messo le ali così, sulle spalle? E come abbiamo fatto a non accorgercene prima?»
obiettò Lidja, poco convinta.
«Questo varrebbe anche nel caso dell’innesto a forma
di ragno. Ieri sera il prof e Thomas erano tranquilli, non
avevano nessun segno di assoggettamento. È successo
stanotte.»
«Impossibile. Siamo protetti dalla barriera della
Gemma.»
«Forse la sua efficacia è diminuita. Ti ricordi? È già
successo in passato, quando Karl era morto.»
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Lidja la guardò intensamente. «Io sono stata nel dungeon ieri sera, ed era tutto a posto. E comunque non
avrebbe senso. Se le viverne sono entrate qui dentro,
perché hanno perso tempo ad assoggettare il professore
e Thomas? Avrebbero potuto ucciderci nel sonno.»
Sofia si morse il labbro, nervosa. Lidja aveva ragione.
Che diavolo stava succedendo? Quella terribile sensazione di paura continuava a stringerle le tempie, inesorabile. Quanto avrebbe voluto che Fabio fosse lì con lei.
Scacciò subito con rabbia quel pensiero. Fabio era l’unica
cosa a cui non doveva pensare in quel momento. Da
quando si erano lasciati, a Edimburgo, il loro rapporto
era diventato ancora più difficile, e ogni volta che lo
vedeva le mancava la terra sotto i piedi. Senza contare
che scompariva per giorni e rispuntava solo quando ne
aveva voglia. Almeno, da quando lei aveva iniziato ad
avere quelle strane visioni, si era degnato di farsi vivo e
ora si trovava con Karl a Isola Farnese, un piccolo borgo
nei dintorni di Roma, alla ricerca del frutto.
Ewan e Chloe invece erano rimasti a casa loro. Avevano trovato un piccolo appartamento a Castel Gandolfo,
e si erano stabiliti lì con Gillian.
«Karl si è portato via tutta l’attrezzatura, stasera?»
chiese Sofia.
«Non lo so… È uscito con un bel po’ di roba» rispose
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Lidja. «D’altra parte era il minimo che potesse fare, visto
che non saresti andata con loro a cercare il frutto.»
Negli ultimi giorni Sofia aveva spremuto tutte le energie nel tentativo di sintonizzarsi con il frutto di Thuban,
l’ultimo e il più importante dei cinque frutti che avrebbero fatto risplendere di nuova vita l’Albero del Mondo.
Ma un’energia di segno opposto sembrava corrompere le
sue visioni, e ogni volta che partiva alla ricerca tornava
esausta e senza aver trovato nulla. L’ultima sera, mentre
cercava nei dintorni di Roma, era svenuta.
«Un altro giorno e sarei morta» sospirò. «Mi sento
completamente prosciugata. Karl non ha portato con
sé il draconoscopio, giusto?»
«No, penso di no. Che hai in mente?»
«Voglio andare in fondo a questa faccenda.»
Trovare il draconoscopio non fu facile. Karl si era
ritagliato un angolo nel dungeon sotto la villa: aveva
preso possesso di una stanzetta e l’aveva riempita di
tutte le sue cianfrusaglie. La confusione regnava sovrana. Quel posto era uno strano miscuglio di antico
e moderno: c’erano computer – da quelli vecchi, dei
primi anni Ottanta, a un MacBook Air nuovissimo – ma
anche alambicchi e strumenti in ottone, e poi tubi di
gomma, cavi di ogni diametro e lunghezza, un paio di
televisori e un oscilloscopio che sembrava aver fatto la
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guerra. Dovettero frugare un bel po’ prima di riuscire
a trovare lo strumento capace di rilevare l’essenza dei
Draconiani. Del resto, dopo il viaggio a Edimburgo non
avevano più avuto occasione di usarlo.
Lo tirarono fuori, faticarono un po’ a rintracciare il
paio di spessi occhiali e il computer che vi dovevano
collegare e portarono tutto al piano di sopra. Thomas e
il professore dormivano ancora.
«Tu sai come funziona? Io non ne ho idea» ammise
Sofia.
«Diciamo che ho guardato con attenzione Karl quando lo usava» rispose Lidja inforcando gli occhialoni da
aviatore. «E spero che basti.»
Accese lo strumento, e Sofia appoggiò sul petto del
professore e di Thomas una serie di piccole ventose.
Sullo schermo si accese un tracciato che mostrava un
intrico di linee verdi, simili a vene.
Sofia rimase interdetta. «Queste non si dovrebbero
vedere… Solo i Draconiani hanno un simile potere.»
Lidja tacque a lungo, regolando una serie di manopole. Di riflesso, le linee sullo schermo si ispessivano
o diventavano più sottili. Poi toccò un interruttore e le
linee divennero viola, così brillanti da riempire quasi
tutto lo schermo.
«Cos’hai fatto?»
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Lidja non rispose. Si sfilò gli occhiali e guardò Sofia.
Aveva un’espressione sgomenta.
«Ho cambiato lo spettro. Se ho capito quel che mi ha
spiegato una volta Karl, ho sintonizzato il draconoscopio
su emissioni simili a quelle dell’embrione di viverna che
abbiamo trovato dentro Effi.»
«Il potere di Nidhoggr…»
Lidja annuì grave, e Sofia sentì una morsa di terrore
stringerle il petto.
«Vuoi dire che…»
«È nel loro sangue, Sof, ovunque. Sono infettati dal
sangue di Nidhoggr.»
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