Le date della Storia L`editoriale
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Le date della Storia L`editoriale
l’antifascista periodico degli antifascisti di ieri e di oggi Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LX - n° 5, 6 - Maggio-Giugno 2013 L’editoriale Lettera al sindaco Marino di Guido Albertelli Caro Ignazio Marino, con la sua elezione a primo cittadino della Capitale sembra prendere corpo, finalmente, la speranza di far uscire Roma da un declassamento non meritato, e farne una vera, grande città storica proiettata verso il futuro. Sotto tutti gli aspetti la città deve riconquistare un’immagine simile a quella delle altre capitali europee. Vorremmo, innanzitutto, vederla pulita, non deturpata dal traffico sregolato e dai posteggi indiscriminati, con marciapiedi percorribili e non occupati, né inondata dalle prime piogge. La vorremmo, inoltre, vigilata contro la criminalità, sia quella organizzata, che sta soffocando i gangli vitali del territorio urbano, sia quella comune, le cui vittime principali sono le fasce più deboli, anziani e immigrati. Dovrebbero essere regolati con norme ferree i cortei e le manifestazioni, con una sorveglianza intelligente contro la violenza. Sogniamo la sospensione dell’occupazione del suolo pubblico da parte di bar e ristoranti che, a centinaia, spuntano nelle vie più caratteristiche, care ai romani e ai turisti. Non vogliamo più dover constatare l’assenza di vigili urbani nei punti nevralgici per il traffico e per il turismo. Sarebbe, forse, un passo in avanti rendere pedonalizzate le piccole e medie piazza del centro, oggi invase da auto e motorini. Non desideriamo fare un elenco di cose note e comuni attese che Lei ben conosce. La Sua elevatissima moralità non affiderà a bande politiche incompetenti il denaro pubblico e annullerà l’indifferenza verso la memoria nobile di una città, insignita della medaglia d’oro della Resistenza, e sede di luoghi di grande valore simbolico (Fosse Ardeatine, Museo di Via Tasso, il La memoria della Repubblica Servono i partiti e servono le radici antifasciste per uscire dalla crisi politica di Paolo Bagnoli O gni crisi politica ha caratteristiche sue proprie; ognuna vive di una sua specificità che ne rappresenta anche la qualità, vale a dire il senso più profondo che essa racchiude, oltre le apparenti dinamiche e i tentativi di arginamento, ricomposizione oppure riforma che si tenti di mettere in essere. In ogni caso, per cercar di capire bisogna partire dal presente, ma per suscitare un possibile futuro positivo non si può prescindere dal porre attenzione a ciò che sta alle nostre spalle, soprattutto quando, come nel caso italiano, la storia “positiva” sembra essersi fermata all’inizio degli anni Novanta, quando il ciclone di Tangentopoli cancellò non solo un sistema, ma un qualcosa in più; un qualcosa che andava salvaguardato senza che ciò facesse velo alla necessaria opera di Le date della Storia Mafia e Alleati uniti in Sicilia Come dal porto di New York Cosa Nostra divenne protagonista dello scacchiere di guerra italiano di Antonino Pastore Attualitá Margherita Hack a pagina 4 Don Gallo a pagina 6 Cultura Pier Vittorio Buffa Il ruolo che la mafia italoamericana, d’accordo con quella siciliana, ha svolto nella preparazione dell’operazione Husky, lo sbarco alleato in Sicilia, è stato per lungo tempo confinato nella facile aneddotica che si accompagna ai grandi eventi storici. Tale ruolo da molti storici veniva negato o minimizzato. Al più si concedeva alle autorità di occupazione alleate, soprattutto quelle americane, di essere ricorse, sporadicamente e per motivi di stretta necessità, a esponenti mafiosi locali per supplire al vuoto di potere causato dal crollo delle strutture di comando, politiche e militari, nelle zone occupate della Sicilia. La realtà è molto più complessa, come le più recenti ricerche storiografiche hanno continua a pagina 16 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma a pagina 9 Aldo Carpi a pagina 12 Memorie Aldo Garosci a pagina 22 Cesare Polacco a pagina 24 Anna Canitano a pagina 26 2 Attualità ghetto, Forte Bravetta, la Casa della Memoria, Porta San Paolo). Inoltre siamo sicuri che Lei garantirà il rispetto di luoghi e tradizioni che purtroppo nel recente passato sono stati spesso violati e minacciati da gruppi neofascisti violenti e portatori di menzogne. Abbiamo, infatti, molto apprezzato la Sua dichiarazione, rivolta al Partito democratico, affinché sia orgoglioso dei valori conquistati ed ereditati nella lotta al fascismo, per la libertà e per i diritti sociali. Ci scuserà di questo elenco di richieste, che vengono da un gruppo di antica tradizione antifascista impegnato nel mantenere in vita la memoria e quei valori etici e civili che sono alla base della Costituzione, valori troppo spesso disattesi. Siamo certi che con la sua sensibilità verso gli ultimi e la sua passione inesauribile Roma ritroverà le sue radici democratiche. Le auguriamo buon lavoro, sperando di poterci incontrare e insieme collaborare perché, a 70 anni dalla Liberazione, la nostra amatissima città ritrovi tutto il suo orgoglio e sia capace di mostrare al Paese, ai giovani, in una grande rassegna, quanto sangue e quanto generoso impegno hanno versato i romani per riscattare la Patria. Lei, commentando a caldo la vittoria, ha parlato di Roma come capitale morale, noi siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Giovanni Manildo, per la sinistra, ha vinto a Treviso risanamento e di perseguimento giudiziario di quanto aveva provocato una diffusa rete di malversazione e di inquinamento della politica democratica. Il presente, appunto. Confessiamo che tra le tante analisi che abbiamo letto sulla vicenda politica italiana, dalle elezioni in poi, non abbiamo trovato nessun commento che, al di là della disamina delle condizioni di questo o quel partito, abbia posto attenzione alla qualità della crisi italiana, ovvero alla sua drammaticità. Il sistema democratico italiano è al limite del crollo e di ciò lo sciagurato governo Monti altro non è stato che un segnale premonitore. Le elezioni hanno prodotto tre minoranze di cui una assai consistente, il partito di Grillo, chiaramente antisistema: “a prescindere”, per usare un’espressione cara a Totò. Delle tre minoranze il Pd ha dimostrato sul campo l’incapacità di essere un partito. Di ciò hanno fatto le spese per primo Bersani, assurdamente incistatosi in un tentativo senza bussola reale e, poi, Marini e Prodi. Il Pd è riuscito a perdere, a sinistra, l’unico alleato che aveva, il Sel di Vendola, e ha rimesso al centro Berlusconi, facendone l’arbitro determinante per ogni passaggio politico, finendo per accettare la proposta, da questi avanzata, di un governo di grandi intese: una scelta ingoiata a forza, motivo di ulteriori sorde ulcerazioni. Le grandi intese si sono avverate nel governo Letta, una compagine dal profilo grigio ed equivoco: più che dettata dall’emergenza essa sembra, al di là delle persone che la compongono, alcune delle quali di sicuro valore, il gabinetto della resistenza del sistema alla non politica, ossia alla malattia da cui è investita la democrazia italiana. Il nuovo parlamento, dopo una lunga vacanza di decantazione per vedere se poteva stare in piedi o aspettare che un nuovo capo dello Stato lo sciogliesse appena insediatosi, durante l’elezione del presidente ha dimostrato la propria impotenza, rappresentando, per molti aspetti ingiustamente, un paniere castale asserragliato nell’incapacità di produrre scelte e, per di più, assediato da una piazza che Grillo ha spronato. Una piazza forse non fascista, anche se le dichiarazioni sul 25 aprile ricordano molto Storace, ma sfascista certamente sì. I parlamentari che senza colpa alcuna, se non quella di essere tali, preferiscono uscire dalle porte secondarie di Montecitorio mostrano già un’abdicazione alla loro funzione. In un quadro generale caratterizzato dallo smarrimento della ragione politica, con un Parlamento depositario dell’impotenza delle forze politiche maggiori, si è chiesto a Napolitano, lo si è supplicato, di rimanere, per evitare avventurose incognite e dare respiro, almeno un po’, al sistema. Ma il governo delle larghe intese, nei fatti, permetterà il decorso della crisi democratica e la riorganizzazione della destra e, quindi, visto che più di tanto esso non potrà durare, la sua prossima vittoria. Forse non c’era altra scelta ed è fuori discussione la figura di Napolitano, il quale ha dettato le sue condizioni e non poteva fare diversamente. Il problema è un altro e torniamo a quanto non è stato rilevato da alcun commentatore; vale a dire che quando una democrazia constata che vi è solo una scelta possibile per non tracollare, nel caso la supplica a Napolitano, essa è già in parte già tracollata. Una delle caratteristiche del sistema democratico, infatti, è quella di poter annoverare più di una scelta possibile; quando questa si riduce a una, allora il problema è serio, molto serio. La gravità sta tutta nei tre partiti che, in effetti, partiti non sono. Del Pd abbiamo detto. Il partito di Grillo si commenta da solo e per di più sostiene una “democrazia senza partiti”. Il Pdl è una proprietà privata di Berlusconi, una delle cause dell’aggravarsi della crisi italiana. A contorno una sinistra che non c’è e non perché Vendola non sia di sinistra, ma perché non si può far conto sulla esclusività di Sel per una prospettiva storica di cosa vuol dire “sinistra”. La rinascita di una sinistra, degna di questo nome, è oggi legata a quella di un socialismo autonomo, antagonista della barbarie del capitalismo finanziario, concepito dentro la cultura politica occidentale 3 Attualità Primo giorno di lavoro del sindaco Marino che si reca in Campidoglio in bicicletta, scortato da due vigili, anch’essi in bicicletta e capace di essere un movimento che governa lo Stato e le masse popolari. In Italia un po’ tutto è anomalo, anche le grandi intese lo sono, pur nell’interpretazione che ne ha dato Napolitano. Non sono scandalose in sé: in momenti particolari sono state fatte in molti altri paesi democratici. La differenza è che in quei paesi il motivo identitario democratico era saldo e proprio questo permetteva la transitoria anomalia come un passaggio dentro la normalità. Così non è per l’Italia, dal momento che il vuoto partitico (su cui, in linea generale, si è soffermato a lungo, di recente, Fabrizio Barca nel suo paper) ha portato con sé la perdita d’identità della democrazia repubblicana, oggi esclusivamente rappresentata da Giorgio Napolitano. Non sappiamo cosa potranno produrre le grandi intese; auguriamoci una legge elettorale decente e costituzionale; sicuramente, finito il suo tempo che non sarà brevissimo, ma nemmeno molto lungo, si tornerà alle urne. Allora la questione della riforma costituzionale diventerà praticamente ineludibile e con l’aria di destra che tira, peraltro annunciata dal governo Monti, e a quanto ne è seguito, la questione democratica diventerà prioritaria e richiederà grande, ma grande attenzione, considerata la fragilità che oramai registra il tanto sbandierato “patriottismo costituzionale” che è un qualcosa di più complesso che non la semplice aderenza allo spirito e alla lettera della Costituzione. Il rischio è che si arrivi a un cambio del profilo costituzionale senza partiti, ossia senza i soggetti che sono titolari del “mandato politico”. C’è pericolo che la democrazia repubblicana si trasformi in qualcosa di altro, in ogni modo in uno Stato regolato da meno diritti e forme democratiche. Sulla natura di questo presente, naturalmente, tanto altro potrebbe essere detto; quanto sopra accennato pensiamo sia sufficiente a far comprendere come si tratti di un vero e proprio presente storico; vale a dire il punto di arrivo di uno smarrimento della Repubblica che, con Tangentopoli, ha perso cognizione della propria memoria, delle proprie radici, della sua costruzione costituzionale, della nozione sociale particolarmente presente nelle linee guida della democrazia costituzionale italiana. Crediamo non sia un caso che non si parli più di antifascismo: se se ne parla o è per destrutturarlo, oppure per sottoporlo a interpretazioni che conducono a giudizi forzosi e forzati che, trincerandosi dietro il velo della storia, finiscono non per aiutare la verità, ma per mettere sotto accusa la verità centrale, ossia il motivo cui dobbiamo la libertà, la democrazia e la Repubblica. Di ciò non c’è più memoria. Ma il solo mettere in parallelo l’Italia 1945-1993 e l’Italia 1994-2013 dà subito il senso del problema. È evidente, pur con tutte le insufficienze del vecchio sistema, che una democrazia senza la gente non può reggere. Una democrazia senza gli strumenti propri che permettono alla gente di avere identità democratica e diversificata e di essere e sentirsi Paese nei valori sanciti dalla Costituzione e peculiari della natura della democrazia italiana non vive. Una democrazia senza partiti politici veri e propri, ma basata su temporanee coalizioni in lotta solo per il governo, come se questo fosse il valore unico ed esclusivo della politica e del suo operare, è destinata a tracollare. E non vi è sistema istituzionale che risolva la questione, perché sono i partiti, particolarmente per lo specifico della storia italiana, ad avere il mandato politico della democrazia, delle sue forme, dei suoi valori e della sua capacità di pensare la politica così come deve essere, ossia, quale azione collettiva. Alla base del percorso con il quale viene costruito il sistema democratico vi è l’antifascismo, non una parola che si qualifica come contro, bensì un concetto positivo e, quindi, non appartenente alla storia di ieri, ma alla politica stessa della Repubblica. Non averlo capito ha condotto l’Italia allo stato attuale; non capacitarsene renderà assai arduo far uscire democraticamente il Paese dalla crisi. La memoria della Repubblica è fondamentale per salvaguardare e rilanciare la sua vitalità e la sua essenza; non è una questione da storici, ma il cuore di una ricostruzione valoriale ed effettuale della politica democratica italiana e, quindi, per un futuro di libertà. 4 Attualità L’Italia che vorrebbe Margherita Colloquio con l’astrofisica Margherita Hack su politica, tasse, donne di Giulietta Rovera «L’aldilà non m’è mai interessato. Ho sempre riflettuto sull’aldiqua», ama sostenere: la sua vita è tuttavia la palese dimostrazione di come non si sia limitata a “riflettere sull’aldiqua”. Siamo di fronte a uno dei personaggi italiani più carismatici per via dell’ingegno vivissimo, il coraggio, la coerenza, la combattività: Margherita Hack, 91 anni a giugno e tuttora attiva su tutti i fronti, a cominciare da quello politico. La celebre astrofisica, prima donna in Italia a dirigere un osservatorio astronomico, quello di Trieste, deve la sua popolarità non solo all’aver saputo trasformare un oggetto d’antiquariato in uno dei primi osservatori al mondo per strumentazione, ricerca e personale. Non solo alla battaglia combattuta e vinta per la democratizzazione e la modernizzazione della ricerca in astronomia, e aver fatto decollare l’astrofisica in Italia. Ma anche per aver partecipato a tutte le battaglie che avevano a che fare con la libertà e la giustizia. E questo fin da ragazzina. La storia politica di Margherita ha inizio, infatti, nel lontano settembre del ’38, quando furono emanate le leggi razziali e il fascismo mostrò il suo volto abietto e spietato. Nel ’40, alla vigilia dell’esame di maturità, la sua presa di posizione di fronte ai compagni fascisti a proposito delle leggi razziali le costerà 40 giorni di sospensione, oltre a essere rimandata a ottobre in tutte le materie. Acchiappare Margherita Hack per un’intervista non è facile, perché sempre impegnatissima in convegni e dibattiti, ma se riesci a parlarle rimani conquistato dalla semplicità dei modi, la passionalità mediterranea, l’accento toscano che non si è appannato nel corso degli anni e la totale indipendenza da mode e conformismi. Che cosa pensa la grande scienziata della situazione politica? «Penso che avrebbe dovuto esserci un accordo fra Pd e grillini: molti di loro vogliono infatti le stesse cose, cioè riforma della legge elettorale e abolizione del conflitto d’interesse. Invece ci ritroviamo con un governo Pd-Pdl condannato all’immobilismo perché è stato come mettere insieme l’acqua e il foco». Quindi, a suo avviso, il governo attuale avrà vita breve? «Durerà fino a quando non si toccheranno le leggi fatte da Berlusconi a difesa dei propri interessi. E non si può andare avanti così, ignorando che è proprietario di tre televisioni e quindi dotato della possibilità di esercitare un’enorme influenza sul Paese. Per questa ragione ritengo che la prima mossa da fare sia liquidare l’alleanza Pd-Pdl, trovare un accordo con M5S, e varare riforme favorevoli all’Italia». Non sarà facile, visto che sono stati proprio i grillini a non mostrarsi aperti all’offerta di Bersani. «E hanno dimostrato una completa assenza di buon senso. Mi auguro che non continuino a irrigidirsi, che trovino un’intesa con il Pd sulle riforme più urgenti e le facciano. Devono rendersi conto che da soli non arrivano da nessuna parte, mentre, invece, insieme con il Pd possono realizzare, per lo meno in parte, i programmi che si erano prefissi». A poco a poco, a parlare di certi argomenti l’intransigente “amica delle stelle” si accalora, la voce si alza di tono e l’indignazione rompe gli argini. «Ma lo sa che la cassa integrazione è vuota, e quindi i disoccupati non potranno nemmeno più contare su questo aiuto? E intanto si vuole non solo abolire, ma addirittura restituire l’Imu a tutto il Paese, una tassa che permette ai comuni di affrontare spese ed incombenze! Ormai si versava l’Ici da tanto tempo, la gente s’era abituata: cancellando quella tassa, si è voluto creare un problema che non c’era. I progetti assurdi da cancellare sono altri: il ponte sullo Stretto; restituire una tassa già pagata; comprare cacciabombardieri quando la Costituzione dice espressamente che l’Italia ripudia la guerra! Alle volte mi sembra di vivere in un mondo di pazzi». Meno male che ci sono i gatti, pensi, perché quando si accalora, una di queste simpatiche bestiole le scivola accanto e lei accarezzandola si placa. Da quasi trent’anni, Margherita vive insieme con il marito, il latinista Aldo De Rosa, e otto gatti, a Roano, un quartiere non lontano dal centro di Trieste, in una villetta a due piani, circondata da un giardino e sommersa di libri: ovunque ci sia un piano d’appoggio, a fasci, a mucchi, a pile, ci sono libri: 25.000 stando agli ultimi calcoli. Ritiene reale il rischio di una deriva demagogica? Ossia di un’altra vittoria di Berlusconi? «Spero di no. Però se gli italiani sono tanto imbecilli da volere ancora al governo un personaggio che ha mandato all’aria il Paese, allora vuol dire che non ci si merita altro». Bisogna però dare atto al governo Letta di aver mostrato qualche segno di buona volontà: con l’aver dato il dicastero delle Pari opportunità e quello dell’Emigrazione a due donne nate all’estero ha aperto al multiculturalismo. «Per ora», mormora, poco convinta. «In realtà, un’apertura alle donne c’era già stata con Monti: non dimentichiamo la Severini e la Cancellieri, alle quali non erano stati affibbiati i soliti ministeri della Cultura o della Salute». Nel ’64, lei è stata la prima donna in Italia a essere nominata direttore di un osservatorio astronomico. Ritiene che in campo professionale la situazione della donna sia migliorata o pensa che ci sia ancora tanto da fare? «Mi pare che le cose stiano cambiando. Abbiamo poche donne in politica, ma in altri campi sono numerose e in posizioni di rilievo: tante sono prefetto, magistrate. Attualità Abbiamo avuto una donna presidente della Confindustria. C’è certamente molto da fare, perché tuttora le donne hanno meno diritti, ma credo dipenda in larga misura proprio dalle donne, che spesso sono troppo timide, troppo remissive, non hanno abbastanza fiducia in sé e si fanno problemi dove non ci sono. Io non mi sono mai sentita a disagio, né ho mai sentito come un peso il fatto di essere donna in un ambiente maschile: mi sono sempre sentita un individuo, che voleva rispettati i suoi diritti. Dipende forse dall’educazione che si riceve da bambine». Un reato come il femminicidio, non dimostra come il nostro Paese sia ancorato a modelli ancestrali? «Purtroppo da generazioni si è radicata l’idea del maschio padrone che ha la proprietà della donna. Ma qui si tratta di delinquenza, e la delinquenza c’è sempre stata. Anzi, oggi certe cose sono inconcepibili: si pensi alla diversità di trattamento riservato a uomini e donne a proposito del reato di adulterio. A metà degli anni Cinquanta ci fu il celebre caso di Fausto Coppi e della Dama Bianca: furono accusati entrambi di adulterio, ma a finire in galera fu solo lei. Si pensi al delitto d’onore. Per secoli la donna è stata succube, di tutti. È un concetto che va sradicato a cominciare dalla scuole elementari». Docente universitaria, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dei gruppi di lavoro dell’Esa e della Nasa, si è dedicata prevalentemente alla ricerca, ma anche alla divulgazione: Margherita Hack ha pubblicato più di 200 lavori scientifici su riviste internazionali, oltre a una serie chilometrica di libri universitari e divulgativi. Ma ha trovato anche il tempo per la politica: tutte le volte che si è presentata candidata (alle elezioni regionali del 2005 in Lombardia e alle politiche del 2006 nella lista del partito dei comunisti italiani, alle regionali nel Lazio nel 2010 tra le fila della federazione della sinistra) è stata eletta, rinunciando poi al seggio. E tutte le volte che glielo hanno domandato, ha espresso il suo parere a proposito dei candidati: in tempi recenti ha sostenuto Nichi Vendola e Matteo Renzi. Si è inoltre sempre battuta e continua a battersi in favore della Antonella Cappuccio, Ritratto di Margherita Hack da bambina, gouache 100 x 70 ricerca sul nucleare, dei diritti civili e in difesa degli animali. In questi mesi ha cominciato a scrivere un nuovo libro, dimostrando come il lavoro continui a svolgere un ruolo fondamentale nella sua vita. «Se non avessi quello, che farei? Mi piace lavorare, mi piace scrivere, solo che mi costa tanta fatica, mi prende continuamente l’abbiocco. Fo’ tutto al rallentatore, vado a riposare cinque minuti e dormo tre ore». Qual è il tema di questo suo ultimo scritto? «L’Italia che vorrei». Com’è l’Italia che vorrebbe? Molto diversa da quella attuale? Ti aspetti che risponda di sì, invece reagisce spiazzandoti: «L’Italia ha anche dei fiori all’occhiello. L’università, la scuola non sono poi tanto male, tant’è che gli studenti quando vanno all’estero si trovano bene. Quindi non è tutto da buttar via». Anche il libro intitolato L’Italia che vorrei, come ogni cosa che fa questa intrepida creatura, riscuoterà un largo successo. Largo successo lo riscuote presso i giovani, al punto che a lei un gruppo di astronomi ha voluto dedicare un asteroide battezzandolo “8558 Hack”; l’ha riscosso nello sport quando partecipava alle gare di atletica, nella vita professionale e nella vita affettiva. Quando glielo fai notare, scoppia in una allegra, contagiosa risata. E mormora con assoluta convinzione: «Ho avuto culo». 5 6 Attualità Il prete che cantava ‘Bella ciao’ Ricordo di don Andrea Gallo, un antifascista col Vangelo in tasca, un partigiano che si è battuto fino all’ultimo per i diritti umani e per dare voce agli emarginati: memorabile il suo intervento per denunicare le violenze al G8 di Genova di Fabiana Tacente Q uando muore un personaggio più o meno noto, c’è sempre un grosso trambusto mediatico che personalmente mi infastidisce, ma alcune volte mi stupisce e mi aiuta a sperare nel futuro. Lo scorso 22 maggio ci ha lasciati Don Andrea Gallo, parroco della comunità di San Benedetto al Porto, un grande piccolo uomo, vero amico degli ultimi, criticato da molti politici e media della destra italiana e snobbato dalle istituzioni religiose perché troppo vicino a quella parte di mondo che la Chiesa ed i conservatori condannano e disprezzano. In tantissime persone lo hanno ricordato il giorno del suo funerale, dimostrando che il suo messaggio e il suo impegno continueranno a vivere, grazie alle sue parole. Don Andrea Gallo, classe 1929, fu per 5 anni, dal 1965 al 1970, vice parroco nella chiesa del Carmine di Genova; venne trasferito in seguito ad un provvedimento disciplinare, per le sue omelie ritenute troppo rivoluzionarie. I suoi parrocchiani si ribellarono fortemente a questa scelta della Curia, tanto da attirare l’attenzione della stampa, sia italiana che estera. Alcuni giornali intitolarono la notizia Mi hanno rubato il prete, risposta che diede un bimbo in lacrime a un poliziotto che gli chiedeva perché piangesse. Approdò nel 1970 alla comunità di San Benedetto al Porto, ospitato dal parroco Federico Rebora, dove rimase per tutta la vita. Dal 1992, grazie a un progetto di riabilitazione e reinserimento sociale di soggetti in difficoltà, Don Gallo aveva in gestione, insieme alle persone della comunità, la trattoria La Lanterna. Tutta la sua esistenza era legata a questo piccolo mondo, dove ha deciso di finire i suoi giorni, circondato dai suoi amici e dalle persone che ha aiutato in tutti questi anni. Ho conosciuto don Gallo nel 2009, lo intervistai per un lavoro sul G8 di Genova che stavo preparando in quel periodo. La mattina che telefonai per chiedere un appuntamento, la signora Lilli, sua storica assistente, mi disse di richiamare nel pomeriggio, perché don Gallo stava dormendo. «Scusami», mi disse, «ma io dormo di giorno, perché la notte resto sveglio nel mio archivio; molti miei amici non hanno un posto dove andare, spesso passano a salutarmi e resto sveglio fino all’alba!» A Genova mi accolse offrendomi un grappino e un sigaro, parlammo a lungo di tante cose e passammo dalle domande sul G8 al mio scetticismo verso la religione: «Vedi, Fabiana», mi disse, «io ho tanti amici giovani e confusi come te. Voi siete la dimostrazione che i giovani non disdegnano la Chiesa, ma la vorrebbero molto più vicina, più umile». Sulle tristi violenze commesse a Genova nel 2001, fu molto duro: «Di fronte alle ingiustizie, il silenzio diventa una forma di complicità; è una tattica nazista alimentare la paura per farsi seguire dal popolo, ripetere una menzogna cento volte fino a farla diventare realtà». Don Andrea si è sempre schierato in difesa delle persone picchiate dalle forze dell’ordine durante il G8 nella sua città; ma anche accanto a gay, transessuali, prostitute e barboni. Quando gli raccontai di essere stata a cena nella sua trattoria, lui raccontò delle difficoltà che avevano avuto per superare i pregiudizi della gente: «Per diversi anni», mi disse, «le persone diffidarono dell’iniziativa, temevano chissà cosa, di prendere l’Aids, di trovare qualcuno in overdose da pesto alla genovese!» Raccontava spesso le sue avventure da partigiano, durante la Resistenza; aveva solo 16 anni quando sì unì a suo fratello Dino e alla brigata SAP, detta Paolo Cozzo: «Il mio nome in codice era Nan», racconta nel suo libro Così in terra, come in cielo, «per via del nasone che mi distingueva; indossavamo il fazzoletto azzurro e ci definivamo partigiani democristiani; io ero preposto a far la staffetta. Dopo la Liberazione, il mio gruppo rimase armato; mai ebbi dei ripensamenti sulle mie scelte, mai pensai di stare dalla parte sbagliata. Ero antifascista e lo sarò sempre». Anche sulla situazione politica attuale ha sempre sottolineato l’importanza della resistenza al fascismo: «Il battesimo», diceva sempre, «è il primo sacramento che i cristiani ricevono. In un’epoca in cui il virus del fascismo è in libera uscita, il cristiano non può non essere antifascista. Perciò, oltre a mantenere il testo, i simboli come l’acqua e l’olio, e le consuete formule rituali, ho aggiunto una regola di comportamento alla quale dovrà attenersi il buon cristiano. Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. E dell’Antifascismo». Fu amico per tutta la vita del presidente Pertini, che nominava spesso come simbolo di coerenza politica. «Sandro», scrive don Gallo nel libro Così in terra, come in cielo, «era un fervido antifascista che rispettò i valori della Resistenza anche quando ricoprì cariche politiche che intimavano una certa prudenza formale. Sono sicuro che oggi non stringerebbe la mano a molti politici». È stato spesso accusato di fare propaganda politica in chiesa; ci sono video su Internet che lo riprendono mentre celebra la santa messa cantando Bella ciao insieme ai suoi fedeli. Ma lui si è sempre definito uomo di Dio, servo degli ultimi in nome della carità, prima che del comunismo. Don Gallo mi mancherà tantissimo, aveva ancora tanto da insegnare e da dire alle nuove generazioni. Voglio ricordarlo per sempre con le sue stesse parole: «Ci incontreremo ancora, ci incontreremo sempre. In tutto il mondo, in tutte le chiese, le case e le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia». 7 Attualità Un convegno per ricordare la figura dello scrittore e poeta antifascista torturato dai nazisti nel carcere di via Tasso La lezione di Guglielmo Petroni di Vincenzo Perrone R icordare la figura di Guglielmo Petroni, scrittore e antifascista, a 20 anni dalla morte. È questo il tema al centro della conferenza organizzata dalla Fiap (Federazione Italiana Associazioni Partigiane), presso la Casa della Memoria di Roma. Incontro coordinato da Vittorio Cimiotta, vice presidente Fiap, alla presenza del figlio di Petroni, Paolo, ma anche del noto scrittore e politico Walter Veltroni, oltre che di Giorgio Patrizi, docente dell’Università del Molise e di Antonio Debenedetti, critico e scrittore. «Mio padre», esordisce Paolo Petroni, «è nato povero, ma questo non gli ha impedito di scrivere le sue prime poesie, che suscitarono l’interesse degli studenti della Normale di Pisa. Furono gli universitari stessi che vollero incontrarlo». Infatti, con pochi mezzi e da autodidatta, Guglielmo Petroni mosse i suoi primi passi nel mondo della pittura e, in seguito, della letteratura. Con la vittoria, nel 1934, del premio La Cabala Petroni, allora un giovane di appen 23 anni, ebbe accesso al mondo della letteratura più qualificata. Iniziò, infatti, a frequentare il caffè letterario Giubbe Rosse a Firenze, la realtà culturale più viva e vicina alla sua Lucca. Nel 1938 si trasferì a Roma per dirigere la rivista Prospettive. Durante l’occupazione nazista della capitale era nel comitato di redazione del giornale La Ruota, diretto da Mario Alberto Meschini, di chiara ispirazione antifascista. Fu in quel periodo che Guglielmo Petroni si avvicinò agli ambienti della resistenza romana. Ma l’attività antifascista costò cara al giovane scrittore: nel 1944 fu catturato dalle SS ed incarcerato a via Tasso. Come molti antifascisti, Petroni subì innumerevoli torture che lo condizioneranno per tutta la vita. Trasferito a Regina Coeli fu condannato a morte e venne salvato solo dall’arrivo degli Alleati. Lo scrittore racconterà quella terribile esperienza nel libro Il mondo è una prigione, pubblicato nel 1948, uno dei testi più profondi e sinceri sulla barbarie nazifascista. Andrea Camilleri, in occasione della ristampa del libro per i tipi di Sellerio nel 2011, per commemorare il centenario della nascita di Petroni, ha scritto: «Ci sono due libri che mi hanno formato, non come scrittore, ma come persona. Il primo, ancora negli anni del fascismo, La condizione umana di Malraux, il secondo, indubbiamente Il mondo è una prigione di Petroni». «Il mondo è una prigione», osserva Walter Veltroni, «fu un libro di notorietà, ma anche di profonda amarezza. Con questo libro Petroni ruppe lo stereotipo che la sinistra aveva sulla Resistenza e sulla Liberazione. Lo schema della sinistra era, infatti, persecuzione-tortura-felicità. In Petroni manca la felicità. È come se la tortura subita a via Tasso non fosse mai finita». I libri sono, comunque, lo specchio della personalità del proprio autore, e l’amarezza de Il mondo è una prigione accompagnava anche Petroni, come si evince dai racconti di chi ha conosciuto personalmente lo scrittore toscano. «Nel 1959», ricorda Antonio Debenedetti, «incontrai Petroni per un premio letterario. Capii che era un uomo con una ferita dentro. Fu allora che mi resi conto dell’infamia della tortura. Petroni aveva una sorta di resistenza alla gioia, è come se gli fosse stata tolta una parte della vita. Del resto non poteva essere altrimenti; in Il mondo è una prigione Petroni parla del suo arresto, di quando fu incatenato e picchiato e, mentre veniva malmenato, la SS gli costringeva a tenere la tempia contro uno spigolo». Storie di torture e vessazioni che, nonostante la dura repressione e censura nazista, echeggiavano nella Roma occupata del tempo. «A Roma in quel periodo», sottolinea Vittorio Cimiotta, «si respirava un’aria di terrore e tutti sapevano cosa succedeva in via Tasso». Una vita segnata, quindi, dalle torture che Guglielmo Petroni subì Guglielmo Petroni a Roma negli anni ‘30 nel carcere di via Tasso per mano nazista. Tuttavia, sono molti gli spunti che si possono trovare nelle opere dello scrittore toscano e parlare soltanto di malinconia sarebbe alquanto riduttivo. «In Petroni», spiega il professor Giorgio Patrizi, «non troviamo soltanto la testimonianza delle torture subite. Lui era un intellettuale complesso e che va messo ancora completamente a fuoco. Nelle sue opere c’è la volontà di voler riscoprire una società dei giusti e degli onesti che vuole progredire». Nei libri di Petroni, infatti, si parla di una forma di socialità che probabilmente oggi si sta perdendo. In questi tempi moderni è decisamente più preponderante l’io rispetto al noi che ritroviamo negli scritti di Petroni. «C’è differenza», continua Patrizi - tra la visione collettiva di allora e la visione individualistica odierna. Su questo andrebbe aperto un dibattito». Un pensiero condiviso anche da chi, come Walter Veltroni, ha conosciuto Petroni attraverso le sue opere 8 Attualità e con le quali si è formato. «Sono molto legato», rivela il politico e scrittore, «al libro La morte nel fiume che ho comprato quando avevo 19 anni. In questa opera ci sono molti elementi caratterizzanti di Petroni. Sono preponderanti l’amicizia, il voler stare insieme e la riscoperta dei luoghi». La morte nel fiume è una tappa decisamente importante nel percorso di Guglielmo Petroni. Il romanzo parla di due amici, Sante Martelli e Stefano Calzolari, che si conoscevano fin dai tempi del fascismo e si ritrovano invecchiati nella loro città d’origine, ovvero Lucca. Oltre ai due protagonisti, al centro delle vicenda c’è il fiume Serchio, che funge da filo conduttore della narrazione. Il romanzo fu pubblicato nel 1974, anno in cui vinse il premio Strega. Gugliemo Petroni non era soltanto uno scrittore, ma un vero e proprio divulgatore di cultura. Alla sua opera letteraria unì il lavoro alla radio. Negli anni ‘50, infatti, diede il suo contributo per la rinascita del terzo canale radiofonico della Rai. Sempre in Rai, dagli anni ‘60 fino alla pensione, fu caporedattore spettacolo e cultura al giornale radio. Il testamento letterario di Petroni è sicuramente il libro autobiografico Il nome delle parole del 1984 che vinse il premio Selezione Campiello. «Con Il nome delle parole», avverte Patrizi, «l’autore riflette proprio sul ruolo delle parole. Qui c’è una vera e propria presa di coscienza dello stare insieme. E a questo proposito rammento l’incontro generazionale tra Petroni, già maturo, e me, giovane studioso. Petroni era una persona sensibile, molto disponibile e simpatico. Sicuramente lo scrittore toscano ha segnato un’epoca di cui non si deve perdere la memoria». Walter Veltroni, invece, ricorda bene la moglie di Guglielmo Petroni, Carlaluisa De Vecchi detta Puci: «Ho conosciuto la moglie di Petroni quando ero sindaco di Roma. Lei si commosse quando decidemmo di dedicare una strada della capitale al marito». Questo la dice lunga sulla semplicità e l’umanità della compagna di vita di Guglielmo Petroni. Del resto, accanto a un uomo di così profonda sensibilità non poteva che esserci una donna alla sua altezza morale. Guglielmo Petroni è uno scrittore e un militante antifascista di cui si sa ancora troppo poco. Non è retorica, infatti, sostenere che andrebbe fatto conoscere alle giovani generazioni. La sua lezione dovrebbe essere tramandata a partire dagli studenti delle scuole. Una lezione sicuramente storica, ma anche profondamente e intensamente umana. Lo studio di Guglielmo Petroni Petroni a Nizza con la moglie Carlaluisa De Vecchi negli anni ‘50 9 Cultura Dalla parte dei bambini Incontro con Pier Vittorio Buffa che nel libro Io ho visto ha raccolto 30 storie di piccoli scampati alle stragi nazifasciste di Antonella Amendola S ono trenta storie narrate in prima persona. Storie che ci riguardano tutti. Il giornalista e scrittore Pier Vittorio Buffa con il libro Io ho visto (Nutrimenti editore), davvero un piccolo caso editoriale, raccoglie le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti alle terribili stragi del biennio 1943-1945. Si calcola che i nazifascisti abbiano sterminato 10.000, 15.000 civili italiani con crudeli, raccapriccianti modalità: terrorismo puro, barbarie ancora oggi impunita. Buffa ha raccontato quegli episodi con le parole semplici, toccanti dei bambini, dei giovani che ne sono stati protagonisti. Per non dimenticare. Pier Vittorio com’è nato il libro? «Quando, a un convegno storico, il sindaco di uno dei paesi coinvolti in una strage annunciò che era morta l’ultima superstite capii che non c’era da perdere tempo, bisognava raccogliere le parole di coloro che avevano assistito ai massacri dove erano stati trucidati parenti, amici, compaesani. D’altra parte sono amico di Franco Giustolisi, l’autore dell’Armadio della vergogna, il libro che per primo rivelò le stragi impunite, e quindi l’argomento lo conoscevo già». Lei ha fatto un po’ come il regista Spielberg, che in America ha filmato le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah. Si è affidato alla cinepresa al ghetto di Roma anche il nostro regista Mimmo Calopresti. «Io ho usato lo strumento che conosco, la parola, e la fotografia che è parte integrante del racconto. Non mi limito a riportare registrazioni. Si va oltre. Alcuni degli intervistati si sono costruiti negli anni racconti scarni, anche stereotipati, di quanto hanno visto. Ma dietro il gelo di racconti così ci sono magari il velo di un occhio, il tremito di una mano che tradiscono emozioni che non si possono soffocare e che io ho cercato di rendere con la scrittura. Tutti hanno riletto e approvato i testi che li riguardano. Volevo essere libero d’interpretare il loro animo senza tradirlo». Lei ha dato una vera e propria dignità letteraria a quelle parole sofferte che, immagino, gli intervistati, nolenti o volenti, abbiano ripetuto nel corso delle loro vita, come un mantra. Quali resistenze ha dovuto superare per ottenere le interviste? «Il libro l’ho fatto con la collaborazione di mia moglie, Paola Medri. Con la sua presenza interviste che potevano scivolare nel tecnicismo sono diventate dialogo tra persone. Molte donne si rivolgevano di preferenza a lei. In certi momenti Paola ha stemperato la tensione. Come mia moglie ha raccontato nel capitolo finale del libro, che ha firmato, gli intervistati si aprono al discorso sul prima e sul dopo, ma sorvolano sul racconto della morte dei propri cari. Ecco, Paola mi ha aiutatato a ricostruire quei momenti terribili senza che fosse una rapina di stati d’animo. Alcuni sopravvissuti non hanno voluto parlare. A tutti quelli che hanno parlato sono arrivato con la mediazione di amici, usando certe P. Vittorio Buffa e la moglie, Paola Medri, curatori del libro delicatezze. Non mi sono mai presentato al telefono, tranne che in un caso». Si trovava di fronte persone che sono riuscite a vivere solo rimuovendo il grande trauma della loro infanzia? «Il fenomeno ricorda quello dei reduci dai campi di sterminio. Per anni la maggioranza non ha parlato, poi, piano, piano, in modi diversi è venuto alla luce quello che hanno passato. Ho letto la testimonianza sul rogo di Berlino di una tedesca, che si chiama Schneider, e aveva la mamma kapo. Andò in televisione, da Fazio, e disse che suo figlio ventiquattrenne aveva appreso di avere una nonna kapo dal suo libro di ricordi. E’ un po’ la stessa psicologia: si chiude un passato doloroso in se stessi. Non è facile venirne fuori. Alcuni parlano. Altri arrivano a farne testimonianza nelle scuole. Alcuni mi hanno detto che dopo la mia intervista non parleranno più. C’è la coppia abbruzzese, i Macerelli, scampati alla strage di Pietransieri, che sono stati 20 anni in Inghilterra. Parlano oggi poco e a fatica. Un iterlocutore, Goffredo Cinelli, a San Pacrazio, che 10 Cultura ha disseppellito il padre ucciso dai tedeschi, ha collaborato volentieri perché tutta la vita è stato al servizio della sua comunità». E lei come stava dopo quei discorsi? «Non ci si abitua. Ho fatto un lavoro difficile, ma utile per chi verrà dopo di noi». Parliamo ora di un tema spinoso, la memoria non condivisa intorno a uno stesso episodio. Emerge molto nel capitolo su Civitella val di Chiana. «Ho trovato cose che non conoscevo. Mi ha fatto un po’ male riscontrare che su alcune delle dolorose vicende sulle quali non si è fatta chiarezza si è steso un velo. A Civitella, per esempio, c’è stato da parte dei partigiani un errore tecnico militare. Non è provato che sia stato questo errore a scatenare la strage. Forse è stato solo uno dei fattori. Ciò nonostante oggi sarebbe bene fare chiarezza. Non toglierebbe nulla alla grandezza della Resistenza. Questa capacità di guardarsi indietro a 70 anni da quegli avvenimenti luttuosi oggi ci dovrebbe essere. Con serenità, con pacatezza. Non è che se io dico “il tal partigiano ha sbagliato” sto accusando tutti i partigiani. La sinistra oggi dovrebbe essere matura per affrontare l’argomento». Come si può leggere il quadro generale delle stragi? «Raramente si tratta di rappresaglie in senso tecnico. Come hanno rilevato gli storici, è una guerra dei nazifascisti contro i civili, vero e proprio terrorismo. Facevano terra bruciata lì dove potevano esserci rapporti con i partigiani. Ma io non affronto questa prospettiva, il mio libro mette in ordine alfabetico, l’ordine più semplice, storie di persone, è a misura di sguardo di bambino. Esperienze che possono capitare ovunque, nel mondo, c’è guerra». Chi ha pagato per quegli orribili crimini? «Nell’introduzione faccio i nomi di 41 ex militari tedeschi condannati all’ergastolo dalla magistratura militare italiana per crimini commessi nel nostro Paese. Giudicati e condannati dopo la scoperta dell’Armadio della vergogna. Non hanno mai scontato la pena. Conoscere i loro nomi e le loro responsabilità è purtroppo il massimo della giustizia che ragionevolmente ci si può aspettare». La storia in prima persona Alcuni stralci delle testimonianze raccolte da Pier Vittorio Buffa Enio Mancini il 12 agosto 1944 aveva sei anni. Era a Sant’Anna di Stazzema, Lucca. Cinquecentosessanta morti circa. Io cercavo Wilma e Velio. Ne contai almeno dieci di bambini lì in mezzo, sullo stradello, sull’aia, nelle case. Noi si andava dietro le donne che urlavano e toccavano tutti quei corpi, li muovevno per cercare i loro parenti, invocavano Dio. Ma quelli non erano morti normali. Io, anche se avevo solo sei anni, di morti ne avevo visti parecchi, ma nel letto, dritti, come se dormissero. Questi no. Questi erano come deformati. Molti, dentro le case, bruciati, senza un braccio, senza una gamba, non li si riconosceva anche perché in quei tempi a Sant’Anna c’erano tantissimi sfollati, venuti su perché il nostro era considerato un paese sicuro. Io, dopo un po’, me ne sono andato per conto mio. Toccavo i bambini perché volevo trovare i miei amici, Wilma e Velio. O meglio, speravo di non trovarli lì. I corpi erano pieni di mosche, di Enio Mancini insetti, li ricordo bene. Come toccavo un bambino volavano tutti via con uno sfrigolio che non posso dimenticare. Poi la puzza, fortissima, anche quella non sono ancora riuscito a cacciarla da me. Un odore che mischia il dolciastro con il putrido. Sono entrato in una casa, un trave bruciava e sopra, come incastrata, c’era una rete da letto. Su quella rete c’erano due corpi bruciati, piccoli, neri come il carbone. Era la camera di Wilma e Velio, i miei due amici che non ho mai più trovato. Cornelia Paselli il 29 settembre 1944 aveva diciannove anni. Era a Marzabotto, Bologna. Ottocento morti circa. Tra loro, la mamma Angiolina Mazzanti e due fratelli gemelli di dieci anni, Luigi e Maria. Nella borsa, insieme alle fotografie, avevo un cappottino. Era ancora imbastito e lo avevo portato con me perché avrei voluto finirlo e portarlo alla maestra sarta. Invece lo uso per legare le gambe della mia mamma. È lì, appoggiata al muro del cimitero, e il sangue continua a uscire. Prendo le maniche del cappottino, le tiro, il filo cede subito. È stoffa robusta e ci lego le cosce della mia mamma, più strette che posso, per cercare di fermare il sangue. La mamma mi indica una donna vicino a noi. È uscita da casa di corsa, è senza mutande, morta accanto al suo bambino. «Coprila, Cornelia, coprile il sedere, per favore». Obbedisco e poi decido di muovermi. «Adesso vado, mamma, vado a cercare aiuto». «Fermati, Cornelia, non andare che ti ammazzano». «Io vado, mamma, ci provo, così poi ti porto a Bologna e ti salvano, ce la farai». E vado. Lascio la mia mamma con le gambe maciullate e senza più sangue. E con lei, ancora vive, ci sono mia sorella Giuseppina e quattro persone delle quali ho sentito le voci. Una forte, le altre deboli, a chiedere un aiuto che non può arrivare. Cultura Gli altri tutti morti, eravamo quasi cento dentro il piccolo cimitero. Armando Tincani il 18 marzo 1944 aveva sette anni. Era a Monchio, allora comune di Montefiorino, Modena. Centorentasei morti. Tra loro, il padre Ennio, il nonno Raffaele Abbati, e uno zio, Remo Abbati. Quando cade gli vado vicino. La testa è nel sangue, in una pozza che si allarga. Ci sono frammenti bianchi, cervello. Papà guarda il cielo. Gli tocco le mani. Sfioro il viso. Non si muove. Mi ritraggo, lo guardo con più attenzione che posso. Il foro è lì, grande, in mezzo alla fronte. Lo rivedrò tanti anni dopo, quando lo riesumeremo, nel teschio. In mezzo alle ossa della fronte, preciso come fosse il lavoro di un chirurgo. La mamma arriva correndo. Sento le urla prima del suo passo. Mi volto, la vedo, è come stesse spiccando il volo verso me e papà. Ma la divisa di un tedesco oscura tutto. Si mette tra noi e la mamma, le impedisce di raggiungere suo marito che non c’è più, la allontana a forza, prendendola per le spalle. La mamma cerca di resistere, ma è troppo forte e grande l’uomo che comanda tutti e che l’ha bloccata. La mamma si arrende, si affloscia per terra, piange con le mani sul viso, quasi in silenzio. Voglio portarlo alla mamma, perché sappia anche lei come è stato ucciso papà. E per non dimenticare. Ecco. Per me il 30 aprile di Pedescala è questo. Il corpo di mio padre distrutto e nero. E l’odore di bruciato che mi ha fatto scappare dal mio paese. Un odore che entra dalle narici. Non tanto quello del legno delle case. Quanto quello dei corpi che bruciano. Un odore che non si dissolve, resta nell’aria, si deposita sulle cose, sulla pelle. Io sono scappata, sono andata a Roma per non sentirlo più e sono tornata a Pedescala dopo sei mesi, poco prima del 2 giugno 1946. Norma Giacomelli il 30 aprile 1945 aveva diciotto anni. Era a Pedescala, Valdastico, Vicenza. Ottantadue morti. Tra loro, il padre Giuseppe, il nonno, la bisnonna, una cugina, una zia. Devo aprire solo sei, sette bare prima di trovare quella con mio padre. Per fortuna: non sarei stata capace di arrivare fino in fondo, controllare tutte le almeno sessanta bare allineate al cimitero. Papà è come gli altri che ho visto, tutto bruciato. La testa, le gambe, le braccia. Lo riconosco dai vestiti, solo da quelli. Infilo le mani dietro di lui, dove ho visto il portafoglio. Lo prendo. Con le forbici che ho con me taglio un pezzo della giacca. Armando Tincani Cornelia Paselli Norma Giacomelli 11 12 Cultura Aldo Carpi, l’artista che non sapeva odiare Storia di un milanese eccellente, che patì il lager e fu poi direttore dell’Accademia di Brera, un cristiano colmo di spirito di Domenico Tarizzo A ldo Carpi nel suo studio di pittore, a Milano. Ma anche Aldo Carpi nel lager nazista di Gusen, tragico kommando di Mauthausen: solo il 2 per cento ne uscì vivo. Vivo, per modo di dire. Carpi fu anche l’autore di un diario, forse l’unico diario uscito da un campo di sterminio, dove tutto ciò che è umano era vietato e consentito era tutto ciò che è bestiale, l’arraffare l’ultimo boccone, la delazione, la violenza sul più debole. Scrivere e conservare per mesi. Testimoniare, scrivendo lettere forzatamente immaginarie alla moglie: «Ti sei sempre comportata da vera cristiana». Ma Carpi non era un bigotto: era un pittore, un protagonista del Novecento, un patriota risorgimentale, si direbbe, perché era andato volontario in guerra. Non un fanatico nazionalista con approdo fascistizzante. Ma il cristiano e la guerra? Il massacro invece dell’amore fraterno? Certo, alla prima guerra mondiale andarono non solo le teste calde della destra, ma Salvemini, Lussu, Togliatti. Persone come Gramsci vedevano nella guerra uno scossone all’immobilismo borghese. Contro la guerra furono, oltre alla maggioranza dei socialisti europei, gli studenti di medicina André Breton e Louis Aragon, che ne videro gli orrori negli ospedali. Ma la contraddizione, la scissione irrazionale dell’io resta comunque una costante del primo Novecento (il culto della non contraddizione sembra venire dopo, con il definirsi degli schieramenti ideologici). È stato notato che la guerra imposta dalla dittatura fascista (ma anche da quella nazista) alle persone civili finì per condurre queste persone a una perplessa contraddizione, quella di dover accettare, almeno provvisoriamente, per tempi più o meno lunghi, qualcosa del nemico, di simile, cioè, alle armi fasciste: intransigenze, alcune forme di fanatismo. Ma, come ribadiva Thomas Mann durante la seconda guerra mondiale, queste intransigenze in quel momento erano necessarie. La figura di Aldo Carpi, scampato alla più tremenda delle esperienze di quella guerra, il lager, ci offre un corollario vissuto al monito di Mann: eliminando dalla propria parola il rancore personale (anche quello più legittimo) ci illustra la differenza tra l’odio e la memoria da conservare. Raramente l’espressione di figura solare si rivela appropriata quanto nel caso del pittore milanese Aldo Carpi. Ottimismo, forza, generosità stavano alla base del suo carattere e della sua struttura fisica e non vennero meno neppure durante la vita nel campo di concentramento nazista (è il caso di ricordare che l’antifascista Carpi fu deportato per colpa della spiata di un fascista negli ultimi anni della grande amicizia e alleanza tra Mussolini e Hitler). Già può apparire fuorviante la definizione di pittore milanese, se l’aggettivo ha acquisito negli anni recenti un valore o meglio disvalore di limitato, di localistico, di nuovo ricco colmo di denaro e ignoranza. L’abbondanza delle arti nella Aldo Carpi, Gli ebrei al Revier, 1945 Una rara foto di Aldo Carpi nel suo studio famiglia Carpi che ho frequentato a lungo fa pensare, invece, al periodo felice della storia milanese in cui aristocrazia significava curiosità per l’inconsueto, il periodo dell’avanguardia industriale. Aldo era nato a Milano il 6 ottobre 1886. Dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale, nel corso della quale trova il modo di sposare Maria Arpesani, ha numerosi figli: il primogenito, Fiorenzo, diverrà musicista, Giuseppe, detto Pinin, scrittore e pittore, Giovanna, Eugenio, detto Cioni, anch’egli pittore, Paolo, che morirà a 17 anni in un campo di sterminio nazista, e Piero. Il figlio Pinin ha dedicato all’opera e alla figura del padre scritti affettuosi e partecipi: quasi la riprova che la condivisa propensione artistica è il migliore antidoto alla nevrosi, a quell’odio per il proprio passato che infetta l’uomo comune, consumatore e adoratore del presente. La stessa lucida commozione filiale Jean Renoir aveva provato nella rievocazione del mondo e della tecnica del padre Auguste Renoir. E per certi tratti la famiglia Carpi ricorda molto la famiglia Renoir. Nel 1945, scampato al lager di Gusen, Aldo Carpi viene nominato per acclamazione direttore dell’Accademia di Brera. Tra i suoi allievi figurano Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, Crippa, Dova, Peverelli. Cultura Carpi favorisce lo sviluppo delle personalità più varie. Riprende a dipingere. Accanto alle maschere, allegorie di una condizione umana sospesa tra l’incanto e la minaccia, compare la figura del Cristo portato via da massicci carabinieri: un povero Cristo fragile e inerme, bianco in mezzo al nero dell’autorità senza volto. Perché lo arrestano? Risponde Carpi: «È chiaro, perché non ha fatto niente di male e perché non ha i soldi per pagarsi i grossi avvocati dei ricchi». Ma veniamo al mondo interiore di Aldo Carpi, alla prova che ha attraversato da cristiano. Asetticità delle formule. Ci sono formule apparentemente neutre. Quando si dice: «Continua l’interrogatorio dei prigionieri». L’immagine sapientemente organizzata non altera sullo schermo l’asetticità delle parole. Salvo che per le maggioranze indifferenti, non è difficile immaginare ciò che questo significa: continua la tortura del prigioniero per farlo parlare, per costringerlo al tradimento. Ancora oggi avviene come ai tempi di Aldo Carpi e del suo amico, il critico Raffaello Giolli, morto a Mauthausen. Sempre, dall’altra parte del Aldo Carpi, Famiglia dell’Artista, anni ‘30 tavolo, il sadico pensa: «Parlerà perché ho il bastone in pugno e sono dio e lui un vigliacco». Ma se uno non parla, chi sono io? A questa consapevolezza del vuoto il torturatore non giunge mai. È sempre pronto a ricominciare. L’odio di sé. L’odio per il prossimo e per se stessi potrebbe originarsi dall’odio per il proprio passato? Sembrerebbero, infatti, inevitabilmente congiunti. Ma forse ci vuole, perché l’odio sia completo, la presenza di un particolare contenitore di queste forme relazionali. Mediamente, la guerra civile, la più barbara, e la persecuzione legalizzata dallo Stato. E il Sadico e il suo Prigioniero. I vecchi fascisti riaffiorati a Salò odiavano il loro meschino passato di gerarchetti di provincia. Ripartire dal fascismo più brutale del ‘19 per loro voleva dire violenza e arbitrio senza limiti, una rivincita. Contro l’arte, contro la cultura. Contro la borghesia che li aveva sfruttati per vent’anni come cani da guardia nel porcile anticomunista, antioperaio. Ora potevano arrestare i borghesi, svaligiare le loro belle case, torturare, sfregiare le loro belle donne sprezzanti. Ma chi erano (sono) i picchiatori, i torturatori? Mettiamoli in un momento nella stessa categoria. Generalizzando, i sadici, certamente. Ma anche i rancorosi, i vendicativi. E soprattutto i vuoti nello spirito. Comune a quasi tutti i vecchi fascisti di Salò è questo vuoto interiore che si placa solo quando possono fare del male al prossimo. Il non-essere odia la presenza dell’essere. Dell’artista. E di chi il fascista accomuna all’artista: l’intellettuale, il borghese (anche se quest’ultimo è sovente vuoto come il muscolare fascista). È stata questa assenza del vuoto che ha salvato molti deportati: cristiani, ebrei, comunisti, laici fiduciosi nella natura migliorabile dell’uomo. Se osserviamo il lager, o il carcere duro, come metafora dell’esistenza da condurre tra alieni onnipotenti, vediamo che chi viene preso per reati comuni, nonostante sia pronto a opportunismi e viltà, crolla prima dell’idealista, di chi crede di sapere perché è finito in quell’inferno e riesce a non cedere alla disperazione. Aldo Carpi nel dopoguerra lavorò con passione. Sue opere sono ora a Palazzo Pitti, a Firenze, nelle raccolte pubbliche di Milano, e in collezioni private. Nel 1958 collaborò con i suoi comizi in un milanese elegante a far eleggere Adriano Olivetti alla Camera dei Deputati. Morì, gran patriarca dalla barba bianca, nel 1973, indipendente come sempre, e sempre senza odio per nessuno. 13 14 Cultura Siamo frammenti di storia Con la capacità selettiva di ricordare costruiamo il nostro futuro di Nilo Cardillo C ’è un filo comune che lega tutte le iniziative promosse dalla Casa della memoria e della Storia: la difesa della memoria storica, civile e culturale del nostro Paese. È scritto a chiare lettere nel suo documento fondativo: La memoria e la storia sono elementi costitutivi del nostro stesso presente, sia perché vi si radicano le origini e i valori della nostra democrazia, sia perché l’esercizio della memoria, rivolto non solo al passato ma anche all’epoca in cui viviamo, è una pratica essenziale per una cittadinanza vigile e partecipe. Il complesso di significati, di richiami culturali, politici ed etici, connessi a ogni giornata o evento celebrativo, come quella di stasera dedicata alla straordinaria figura di Eleonora Fonseca Pimentel, inter- religione, rifiuta qualsiasi contatto con la modernità; i suoi membri rifiutano l’elettricità, i processi di industrializzazione, parlano un dialetto tedesco del 1600, non consentono che i loro figli frequentino le scuole pubbliche. In questo modo la memoria e la sua gelosa difesa finiscono per rendere questa comunità prigioniera di un passato statico e immobile, incapace di entrare nel futuro. Noi invece siamo portatori di una memoria greca. Per i greci la memoria è uno strumento per rinnovare il presente, migliorarlo alla luce degli errori del passato; è una memoria che invade il futuro, non ha una funzione di mera conservazione, ma di stimolo dinamico all’evoluzione del gruppo sociale e della umanità. Trasmettere memoria non significa Francobollo commemorativo per il bicentenario della morte di Eleonora de Fonseca Pimentel roga tutti noi, adulti e giovani, sul rapporto con la nostra storia e con la Storia. Il passato, se vissuto come mitologia o come nostalgia, è un impedimento a esercitare il diritto al futuro: è una barriera che si frappone al nostro sguardo sul futuro. Ne è un esempio evidente la memoria come viene vissuta e trasmessa dal popolo Amish, una comunità protestante che vive, assai numerosa, nelle sterminate pianure dell’Ohio (USA) e del Canada. Questo popolo, nella difesa gelosa della propria accumulare i ricordi in un contenitore infinito. Noi non possiamo ricordare tutto. Per poter ricordare dobbiamo anche dimenticare, sapendo, però quali sono le cose importanti, da conservare, e quali quelle che sarebbero una inutile zavorra e, perciò, si possono lasciare cadere. Tempo della storia e tempo della cronaca. Un grande scrittore contemporaneo, Antonio Scurati, per descrivere la nostra attuale condizione, ha parlato di una distinzione tra tempo della cronaca e tempo della storia. A suo giudizio noi, oggi, viviamo nel tempo della cronaca, che è tutto schiacciato sul presente. Ciò significa che la forma, il linguaggio, il modo in cui noi organizziamo il nostro senso del tempo e il racconto delle nostre esistenze è la cronaca. Essa è il racconto, inerziale, di ciò che accade giorno per giorno. Essa non opera una selezione, una gerarchizzazione, non stabilisce ciò che più importante e ciò che è meno importante, che cosa va conservato e che cosa va tolto. La storia no! Se devo descrivere, per esempio, l’inizio del Risorgimento, lo racconto in modo che abbia un senso. Tolgo le cose meno importanti, quelle che non hanno rilevanza, le futilità, il resto lo metto in un quadro complessivo che dia un significato al tutto. Questo essere confinati, quasi conficcati nel presente, fa sì che noi viviamo col fiato corto, con una’ottica limitata e questo ci fa sfuggire l’essenziale, ciò che può dare sapore alla nostra esistenza: la politica, l’amore e i figli. La politica (con la P maiuscola) è intesa come opera collettiva di comunità di uomini che usano beni collettivi per risolvere problemi comuni: una tale complessa attività sul metro corto della cronaca non si può sviluppare. La politica non può nemmeno nascere sul metro del giorno dopo giorno. La politica, per essere fatta, richiede la fiducia che la nostra azione si svolga in un arco temporale lungo. L’amore, l’ultimo assoluto a misura d’uomo che l’Occidente riesce a concepire è una specie di divinità che orienta la nostra vita senza riferimento ad una forza trascendente. L’amore inteso come vita insieme di un uomo e di una donna, unità spirituale forte, è proprio l’espressione di una visione che supera l’istante e che l’uomo ipotizza che possa durare per sempre. Nel momento in cui un uomo e una donna si sposano e si promettono affetto e cura reciproca per sempre, se lo fanno in modo sincero e autentico, in quel momento sperimentano una dimensione temporale lunga e una forma di assoluto. I figli. Io come padre posso fare un esempio: i figli, se pensati sul 15 Cultura metro del giorno dopo giorno, possono essere qualcosa di infernale. È capitato a molti di avere bambini piccoli che per lunghi periodi, anche più di un anno, dormono molto poco la notte e tengono svegli i genitori. Tredici mesi senza dormire, vissuti nel tempo della cronaca, ti portano al suicidio. Forse anche questa è la ragione per cui si fanno pochi figli, perché li pensiamo dentro la cronaca quotidiana. I figli vanno concepiti nel tempo lungo della storia, nel quale non sei il primo, non sei l’ultimo, sei dentro una serie lunghissima. Avere dei figli dischiude un altro tempo. I figli hanno un senso, anzi sono il senso della vita, se tu li vivi dentro questo tempo profondo, dentro un orizzonte che trascende la tua esistenza e al cui interno non sei solo. A questo punto sentiamo come di essere porosi, di essere attraversati dal tempo della storia. Nel Seicento un grande pedagogista, Johannes Clauberg, nella Logica vetus et nova, seppe sintetizzare il compito della generazione adulta in tre semplici domande: Quid tradere? Cui tradere? Quomodo tradere? Però, in quel tempo, sapevano rispondere alla prima domanda: dove si trova il sapere? Nella mente dei saggi, nei rotoli e nelle pergamene, nei libri. Oggi? Oggi il sapere si è diffuso e oggettivato nella Rete, in Internet. E noi adulti ci siamo lasciati sorprendere dalla novità, dall’arrivo di questa contemporaneità mediatica globale. Alcuni dicono: il sapere è diffuso nei media, ognuno se lo prende per proprio conto. Non è così, non funziona così. Il cambiamento c’è stato, è enorme, tutto è da rifare, tutto va inventato di nuovo, ma dobbiamo avere il coraggio e la forza di farlo! Se noi adulti non trasmettiamo l’eredità le nuove generazioni corrono il rischio di invecchiare senza diventare adulte. La metafora che ci può illuminare è quella della staffetta, il passaggio del testimone. Il testimone è l’eredità, quello che noi lasciamo alla nuova generazione affinché possa cominciare la sua corsa. La generazione che accoglie matura un debito nei confronti di chi consegna il testimone e lo manifesta con la responsabilità. Infatti L’attrice Maria De Medeiros nei panni di Eleonora De Fonseca Pimentel nel film Il resto di niente per la regia di Antonietta De Lillo, presentato alla mostra di Venezia l’eredità ricevuta va rivitalizzata nella corsa responsabile verso il futuro. Il modo in cui avviene la consegna e la ricezione della responsabilità è fondamentale: se la nuova generazione non accetta il passaggio del testimone, rimane appunto “diseredata”: rimane orba del passato e, priva della base di partenza, che è la memoria. Si ritrova incapace di andare verso il futuro. Quando si eredita qualcosa di grande valore, non bisogna dissiparlo, né difenderlo in modo geloso ed egoistico, ma, al contrario, sentire la responsabilità sociale che ne deriva e compiere ogni sforzo per custodirlo, arricchirlo e metterlo a disposizione delle nuove generazioni. Anche per quanto concerne la figura di Eleonora Fonseca Pimentel e la straordinaria stagione della Rivoluzione Napoletana del 1799, bisogna fare “un buon uso della memoria”, evitando di trasformarla in un elemento museale che non susciti più un autentico interesse nelle persone. La straordinaria stagione del 1799 a Napoli deve essere una “memoria vivente”, una vera e propria lezione politica che ci consenta di porci, oggi, la domanda fondamentale che ancora ci deve interrogare: “Come è stato possibile che in una Città moderna e sviluppata, quale era la Napoli uscita dalla stagione di Carlo di Spagna, si sia potuto procedere allo sterminio crudele di tutta la classe dirigente? Alla luce di quell’esperienza e di altre tragedie simili, occorre sapere che trasmettere in modo vitale la memoria deve significare per tutti noi, in particolare per coloro che operano nel campo dell’educazione, essere persone capaci di impegnarsi nel contesto culturale, politico e civile per aiutare le nuove generazioni a recuperare la profondità dell’anima, reagendo all’opaco presente, alla mitizzazione del mercato, al trionfo delle merci al posto dei significati. La memoria è uno strabiliante strumento dell’anima, che ci mette in comunicazione con ciò che è vicino e con ciò che è lontano. Essa ci ripete che quello che è stato non è perduto, sta dentro di noi, possiamo vederlo, comunicare con esso. Dobbiamo ripetere sempre le ultime parole di Eleonora: “Forsan et haec olim meminisse juvabit”. Coloro che credono, trovano nei ricordi un rinforzo alle loro convinzioni; ma per coloro che nascono in un contesto laico la memoria è forse l’unica via per sentire che la nostra esistenza non è una esperienza frammentaria, destinata a svanire. Portiamo tutti dentro di noi il nostro passato, interi mondi passati, e transitiamo, attraverso la memoria degli altri, dentro altri universi e mondi: “Siamo frammenti di storia, ma attraverso la memoria possiamo contagiare il futuro. È la nostra forma di immortalità!” Le Date della storia 16 segue da pag. 1 Mafia e Alleati uniti in Sicilia dimostrato. In realtà la mafia, insieme alla massoneria, alla monarchia e a una parte importante dell’establishment militare, soprattutto della Regia Marina, fu un elemento importante, se non essenziale, nei piani alleati per preparare la fine del fascismo e della partecipazione dell’Italia alla guerra a fianco della Germania nazista. La diffidenza da parte degli Alleati nei confronti dell’antifascismo popolare e democratico ha gravato la nostra democrazia di una pesante ipoteca che dura ancora oggi. Tutto ebbe inizio in una grigia giornata di febbraio del 1942, nel porto di New York. Quel giorno, esattamente il 9 del mese, uno dei più grandi transatlantici destinati al trasporto truppe, il Lafayette, si incendiò all’improvviso, capovolgendosi e mandando così letteralmente in fumo mesi di lavoro e centinaia di migliaia di dollari, necessari per trasformare il transatlantico di lusso Normandie, nella nave da trasporto Lafayette. Subito si materializzò lo spettro del sabotaggio nemico; ad appena due mesi da Pearl Harbor gli Stati Uniti non avevano ancora assorbito il trauma del giorno dell’infamia; tanto più che le potenze dell’Asse sembravano invincibili ovunque. Si scatenò la caccia ai sabotatori, veri o presunti, nazisti e giapponesi, annidati tra le banchine dei porti statunitensi; del resto ben 71 mercantili alleati erano stati affondati tra la metà di dicembre 1941 e la fine di febbraio 1942 dagli U-Boot tedeschi, appena fuori dalla rada di New York. Ancora l’Oss (Office of Strategie Service, predecessore della Cia) non era pienamente operativo per cui spettò al servizio di informazione della Marina sbrogliare la matassa degli agenti nemici. A questo punto gli ambienti investigativi della Marina decisero di ricorrere a quello che veniva considerato il re del porto di New York, il capo di Cosa Nostra, Lucky Luciano. Vero è che quest’ultimo languiva da circa sei anni nella prigione federale di Dannemora, ma la sua presa sulla città era ben salda attraverso l’azione dei suoi luogotenenti. In particolare il porto era gestito dai temibili fratelli Anastasia, Albert, il capo riconosciuto, Anthony e Joseph. L’iniziativa di avviare i contatti con Cosa Nostra per dare la caccia agli agenti tedeschi nel territorio degli Stati Uniti fu assunta dal capitano di corvetta Charles Radcliffe Haffenden, responsabile della sezione investigativa dell’ufficio informativo, denominata B-3, del terzo distretto del Naval Intelligence. Haffenden, un uomo d’affari cinquantenne, era rientrato nel servizio in Marina nell’estate del 1940; l’entrata in guerra degli Stati Uniti fu la grande occasione della sua vita per dimostrare le sue qualità di agente segreto e la sua passione per l’intrigo. In ciò, bisogna riconoscerlo, le aspettative non andarono deluse. La svolta epocale si ebbe alle 11.00 del 7 Marzo 1942; quel giorno due dirigenti del Naval Intelligence misero piede nella procura di New York, accolti dal nuovo procuratore, Frank S. Hogan, eletto a gennaio. Tramite Hogan fu stabilito un contatto con Giuseppe Lanza, detto Joe Socks (calzini), commerciante di pesce nel mercato di Fulton e dirigente del sindacato United Seafood Workers Union, controllato dal capo mafioso Anthony Anastasia, a sua volta luogotenente di Lucky Luciano. Le riunioni tra i funzionari del Naval Intelligence, Haffenden e il suo diretto superiore, capitano di fregata Howe, e i mafiosi Lanza, con il suo aiutante Benjamin Espy, si svolsero nell’ufficio privato che Haffenden teneva nell’ammezzato dell’Aston Hotel di Broadway sulla Quarantaquattresima Ovest e nella sede del Naval Intelligence in Chunch Street. Militari e mafiosi si accordarono nel permettere agli agenti dell’intelligence della marina di controllare, senza alcuna limitazione e con la protezione di Cosa Nostra, tutti i porti e i pescherecci, tutte le botteghe per sapere se erano avvenuti acquisti straordinari di viveri o carburante, insomma tutto ciò che poteva risultare sospetto o, comunque, interessante per la sicurezza nazionale, sulla terraferma o nel mare aperto lungo l’intera costa atlantica degli Stati Uniti. È a quel periodo che risalgono i contatti di Lucky Luciano, nel frattempo trasferito al comodo penitenziario di Great Meadow a Cromstock, nei pressi di Albany, con Haffenden, Hogan ed il suo vice Murray I Gurfein. I contatti erano tenuti dall’avvocato di Luciano, Moses Polakoff, ebreo di ascendenze russe, il quale coinvolse nelle trattative con Luciano, un altro suo cliente di riguardo, Meyer Lansky, a sua volta in stretto contatto con un altro suo legale di fiducia Allen Dulles, il quale aveva abbandonato la professione legale per dedicarsi all’Oss. Nelle trattative era coinvolto pure Charles Poletti, avvocato di origini piemontesi, governatore dello stato di New York, di cui è capitale Albany, il quale avrebbe avuto un ruolo fondamentale nel governo alleato dell’Italia (Amgot) dopo lo sbarco in Sicilia. I rapporti tra Cosa Nostra e servizi segreti alleati, in modo particolare l’Oss, ormai pienamente efficiente e operativo, si intensificarono con l’approssimarsi dello sbarco in Sicilia, deciso alla conferenza di Casablanca nel gennaio 1943. Ancora una volta i primi a muoversi furono gli spioni della Marina, in particolare Haffenden Le Date della storia e il suo superiore capitano McFall. Mettendo a frutto i precedenti contatti stabiliti con gli ambienti dell’emigrazione siciliana, gli uomini di Haffenden e quelli della Sezione B-7 del Naval Intelligence, incaricata fino ad allora di catalogare e analizzare quanto pubblicato dai fascisti e dai nazisti giudicato di rilevante interesse strategico, riuscirono ad avere una dettagliata descrizione dei luoghi dove sarebbe avvenuto lo sbarco. Inoltre, attraverso gli ambienti mafiosi, furono stabiliti contatti con quanti erano rientrati nell’isola poco prima della guerra, molti dei quali, avendo conti da regolare con la giustizia americana e avendo lasciato negli Stati Uniti parenti e persone care, erano facilmente indotti a collaborare. In breve fu messa in piedi una rete informativa di prim’ordine, con la decisiva collaborazione di due dei più preziosi collaboratori di Lucky Luciano, Meyer Larsky e, soprattutto, Joe Adonis. Spettò a quest’ultimo il compito di reclutare personaggi influenti che avevano mantenuto contatti ed amicizie importanti in Sicilia. Al riguardo è interessante la testimonianza dello stesso Larsky, resa davanti alla commissione Herlands del 1954, incaricata d’indagare sui rapporti tra la Marina e la mafia, riportata nel bel libro di Alfio Caruso Arrivano i nostri (Longanesi, Milano, 2004, pag. 104). «Mi risultava», testimoniò Larsky, «l’esistenza di certe persone fuggite dall Italia a causa della loro appartenenza alla massoneria e, tra esse, di un tale che era stato sindaco di una delle maggiori città siciliane. I contatti con lui furono presi da quei signori che si recavano a visitare Charlie Luciano, i quali gli chiesero di prestare la propria opera. L’ex sindaco si dichiarò ben lieto e disposto a reclutare anche altri. Un ruolo importante fu pure ricoperto da Vincent Mangano, capobastone originario di Bagheria, il quale, nell’organizzazione di Cosa Nostra aveva preso il posto di Joe Socks Lanza, condannato, a fine Gennaio ’43, a 7 anni di galera. Mangano era il boss dell’importazione e dell’esportazione, tra gli Stati Uniti e l’Italia, dei più svariati prodotti alimentari, ma controllava pure il traffico di droga ed informazioni. Nell’inverno 1942-43, l’Oss e il Naval Intelligence, ossia William Donovan, capo del primo, e Charles Radcliffe Haffenden, eminenza grigia del secondo, avevano tutto pronto per appoggiare lo sbarco in Sicilia; tre esponenti di rilievo dell’Oss, Vincent Scamporino, Victor Anfuso e Max Corvo si installarono al Club des Pins di Algeri. Il responsabile della parte operativa, Max Corvo con la sua squadra, prese a fare avanti e indietro tra Algeri e la Sicilia, dapprima a bordo di sottomarini, poi su pescherecci siciliani, confondendosi con gli equipaggi, grazie alla complicità di Cosa Nostra. In breve l’infiltrazione degli agenti dell’Oss e del Naval Intelligence coprì l’intero territorio siciliano. Come scrive Alfio Caruso, alla ricerca d’informazioni sui campi minati, sulle sedi dei comandi, sulla combinazione delle casseforti dov’erano custoditi i piani militari, sulla dotazione di mezzi pesanti, sulla dislocazione di piste d’aviazione e dei reparti corazzati, si accompagnava la diffusione di notizie sulla potenza bellica degli americani e contemporaneamente sulla loro ricchezza. Nell’imminenza dello sbarco si ha notizia di due viaggi, compiuti da personaggi eccellenti in Sicilia; uno è quello del colonnello inglese Hancock, inviato in Sicilia per definire gli obiettivi militari affidati al gruppo di separatisti capeggiato da Antonio Canepa. Hancock venne depositato da un sottomarino il 16 Aprile su una spiaggia vicino Gela. Qui venne preso in consegna da un gruppo di mafiosi e accompagnato nella villa 17 dell’ex deputato Verderame, esponente di spicco del movimento separatista. Dalla villa di Verderame, sempre con la protezione di Cosa Nostra, Hancock fu accompagnato a Palermo, in un palazzo di via Mariano Stabile, dove aveva lo studio l’avvocato Antonio Ramirez. L’altro viaggio fu compiuto da futuro responsabile dell’Amgot, tenente colonnello Charles Poletti. Sebbene smentito dal diretto interessato, il viaggio è stato confermato, fra gli altri, dall’arcivescovo di Monreale, Ernesto Filippi, secondo alcuni affiliato alla mafia, ma ritenuto dall’Oss un amico fidato. Il buon esito delle due missioni, effettuate poche settimane prima dello sbarco in Sicilia, convinse definitivamente i vertici alleati che i siciliani avrebbero collaborato volentieri, senza frapporre alcun ostacolo. La mafia ebbe così un ruolo di primo piano nella riuscita dell’operazione Husky, ma resta il seguente interrogativo: non era possibile cogliere lo stesso successo, ricorrendo agli antifascisti esiliati negli Stati Uniti, con molti dei quali l’Oss era in contatto, piuttosto che avvalersi dell’aiuto di criminali? Tale scelta è da attribuire a un errore di valutazione da parte dei servizi d’informazione alleati o è il frutto di un piano ben preciso per impedire che l’antifascismo di sinistra, del quale gli Alleati non si fidavano, potesse assumere il controllo della Sicilia liberata? Quello che è certo, comunque, come le vicende successive purtroppo dimostreranno, è il rafforzamento del potere mafioso in tutta l’isola, una gravosa ipoteca che condizionerà la storia della Sicilia fino ai nostri giorni. 18 Cultura I boss protagonisti al botteghino Da Rosi a Giordana, quando il cinema d’impegno civile racconta la mafia di Claudio Longhitano I l rapporto cinema-mafia nei confronti della Sicilia è sempre stato un rapporto di odio-amore, quasi un conflitto nel quale uno dei due contendenti (il cinema metaforicamente parlando) ha inseguito a lungo l’altro, ha cercato di agguantarlo e fotografarlo, ispezionarlo nei suoi più profondi anfratti socio-culturali, servendosi di tutti i mezzi che la tecnica, le situazioni storiche e – perché no? – anche l’impegno civile degli autori gli hanno fornito. Ci è riuscito? La risposta non può, per forza di cose, essere categorica. Ci è riuscito sì, a indagare il fenomeno mafioso, ma solo parzialmente; ha messo in luce alcune zone, ma ne ha anche lasciato parecchie in ombra. In queste nostre riflessioni cercheremo di capire perché. Cronologicamente parlando, il punto di partenza “nobile”, l’approccio del cinema alla mafia è quell’irripetibile affresco storico-politico intitolato Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. In questo film, uscito nel 1962 dopo una genesi travagliata, si affronta la figura del celebre bandito, la sua vita e la sua morte, entrambe così discusse. Ma l’opera, a un certo punto, cessa di essere un film su Salvatore Giuliano, per divenire un film con Salvatore Giuliano, ossia il personaggio viene posto in secondo piano per far balzare all’attenzione dello spettatore quella che era la situazione nell’immediato dopoguerra, una Sicilia agitata da moti separatisti, da congiure politiche, da prepotenze mafiose e dal suo eterno male: la miseria. Non segue un filo cronologico tradizionale, ma presenta i caratteri dell’inchiesta di taglio giornalistico, senza mai prendere posizione, ma lasciando libero lo spettatore di farsi una sua idea. Il film, come abbiamo detto, fu molto osteggiato. Dapprima dalla mafia, tanto che per tutta la durata delle riprese in Sicilia fu necessario celare la trama e il vero titolo, assumendo quello fittizio e innocuo di Sicilia 1945 (sarebbe stato inopportuno, per esempio, andare a girare nel paese di Montelepre un film che parlasse del bandito Giuliano, che del posto era originario, e ove nel 1962 ancora dimoravano, temuti, molti dei protagonisti di quelle vicende). Poi dall’Arma dei Carabinieri. Nel film si vede il capitano Antonio Perenze sparare sul cadavere di Giuliano, ucciso pochi minuti prima dal cugino Gaspare Pisciotta e orchestrare la famosa messinscena nel cortile di casa De Maria. Infine dal potere politico per mezzo degli organi di censura. Nonostante ciò, il film segna l’inizio del cinema d’impegno civile e apre il filone dei film di mafia. Nel 1967 esce A ciascuno il suo di Elio Petri, dal romanzo di Leonardo Sciascia, primo tentativo di questo regista di affrontare il discorso sui rapporti intercorrenti tra politica e mafia. Si tratta di una storia di fantasia, nella quale, però, si gettano i germi di quello che sarà in futuro il comportamento della maggior parte degli autori di cinema nell’affrontare il tema della mafia: partire da una trama fittizia, rispettosa dei canoni del film giallo o d’azione (e perché no, anche del botteghino) per denunciare una certa mentalità, un certo costume. Ma è l’anno seguente che vede l’uscita di uno dei film di mafia più famosi e l’affermarsi di un regista che, assieme a Rosi, rappresenterà un punto di riferimento nel cinema cosiddetto d’impegno, è Il giorno della civetta di Damiano Damiani, anch’esso con un romanzo di Sciascia alle spalle. Qui il discorso iniziato da Petri viene ripreso e ampliato. Descrivendo la lotta che il capitano dei carabinieri Bellodi conduce per incriminare il boss don Mariano, il regista affronta il problema della mafia in termini più decisi, categorici, puntando il dito sui rapporti col potere politico. Emblematica, infatti, è la scena in cui don Mariano, accortosi di essere pedinato da Bellodi, entra ostentatamente nella sezione della Dc del paese. Il boss vuole lanciare un chiaro messaggio circa le protezioni ad alto livello di cui gode, protezioni che, puntualmente, porteranno lui a essere scagionato e Bellodi a essere trasferito. Un altro aspetto forse tralasciato dalla critica dell’epoca è rappresentato dal fatto che nel romanzo Bellodi è un ex partigiano e la vittima del delitto di mafia attorno a cui ruota la vicenda è un imprenditore edile, condannato durante il ventennio al confino per antifascismo, che non aveva voluto sottomettersi ai ricatti di don Mariano e pagare il pizzo. Risulta stimolante, a parere di chi scrive, il sottotesto della trama: Sciascia vuole ingenerare nel lettore la consapevolezza che i comportamenti “etici” di entrambi (Bellodi che vuole giustizia senza guardare in faccia nessuno e la vittima che è morta per ribadire la propria dignità di cittadino di fronte alla sopraffazione) sono il frutto della particolare coscienza civile e democratica maturata da entrambi durante la dittatura fascista, in contrasto con l’ambiente siciliano che li circonda, che non ha vissuto le stagioni dell’antifascismo e della Resistenza quali mo- menti fondanti di un nuovo vivere civile. Bellodi si muove in un ambiente ove acquiescenza al potere dominante ed atavica rassegnazione sembrano essere i caratteri con cui gli individui vengono forgiati dalla nascita. Il decennio si chiude, così, in maniera egregia. Sono ancora scarsi quei 19 Cultura condizionamenti da parte dei produttori, preoccupati più degli incassi che delle tematiche, e da parte di un certo potere politico infastidito, che si faranno invece sentire dei decenni successivi. Gli autori di cinema più sensibili vedono ancora la mafia con lucidità e anche con una certa serietà di intenti, immune da pregiudizi iconograficamente razzisti, nell’eterno dualismo nord-sud. Nel 1973 esce un altro film inchiesta di Rosi. Si tratta di Lucky Luciano, attenta ricostruzione del fenomeno del commercio della droga tra Italia e Stati Uniti, che però non raggiunge il livello di Salvatore Giuliano. Anche qui Rosi subisce condizionamenti dalla produzione ed è costretto a ricevere solo la metà del compenso pattuito pur di completare l’opera. Comunque con Lucky Luciano si chiude l’epoca dei grandi film di denuncia sui fatti di cronaca più clamorosi. Vuoi per il sopraggiungere della crisi del cinema negli anni Ottanta, vuoi per i continui attacchi che subiscono sia lui che gli sceneggiatori (pochi) che seguono il suo filone, fatto sta che la produzione del cinema d’impegno viene incanalata verso binari “innocui” e quindi più facilmente controllabili. Si preferisce perciò ritornare alla vecchia formula degli anni ‘60, molto più redditizia per il botteghino e di certo meno compromettente per i produttori. Nel 1975 esce il deludente tentativo di Luigi Zampa di portare sullo schermo il romanzo di Giuseppe Fava (giornalista catanese ucciso a Catania dalla mafia negli anni ’80) dal titolo Gente di rispetto, un film per niente incisivo dal punto di vista dell’ indagine sociologica. È con Damiani che si hanno invece le prove migliori, sia pure temperate da una strizzata d’occhio al botteghino. Questo regista dall’impronta neorealista realizza dagli anni ’70 agli anni ‘80 tutta una serie di opere che hanno come comune denominatore l’analisi del fenomeno mafioso visto sotto varie angolature: Confessioni di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, Perché si uccide un magistrato, Un uomo in ginocchio, Pizza connection. Nel 1984 Giuseppe Ferrara realizza l’ottimo Cento giorni a Palermo, accurata ricostruzione della breve permanenza del prefetto Dalla Chiesa nel capoluogo isolano. Il film è prodotto in forma cooperativistica e col contributo della Regione Siciliana (bontà sua), ma non vuole andare al di là della semplice ricostruzione cronachistica, non prende posizione contro certe forze politiche, snatura il senso per cui lo si è voluto fare. È grosso modo a partire dalla fine degli anni ‘90 che compare una generazione di giovani cineasti e sceneggiatori che riesce ad affrancarsi da certi condizionamenti del potere politico (non a caso ci troviamo nell’epoca post Dc) e che, grazie anche (o soprattutto) ai proficui riscontri dei botteghini, realizza alcune opere sulla mafia veramente pregevoli. Placido Rizzotto è un film uscito nel 2000 con la regia di Pasquale Scimeca (che nel 1995 aveva diretto Paolo Borsellino), che racconta, con accuratezza storica e passione civile, la vita e l’impegno politico del sindacalista Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro di Corleone ed ex partigiano, rapito ed assassinato da sicari di Luciano Liggio il 10 marzo 1948. Come ha dichiarato il regista, la storia di Rizzotto, che viene ucciso perché la sua lotta diventa una minaccia per chi detiene il potere, si svolge in Sicilia, ma parla un linguaggio universale. I cento passi del 2000, di Marco Tullio Giordana, è forse uno dei film più significativi di questo decennio sulla mafia. Racconta la vita di Peppino Impastato, militante di Democrazia Proletaria di Cinisi, ucciso dal boss Tano Badalamenti il 9 maggio 1978, lo stesso giorno della scoperta del cadavere di Aldo Moro. Nel 2003 esce Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, sulla strage di Portella della Ginestra del 1947, ove, anche qui con accuratezza storica, si analizza questo episodio quale frutto della “strategia della tensione” volta a intimidire le sinistre. Con il documentario La mafia è bianca del 2005 di Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini (film poco distribuito e poco conosciuto) si analizza l’ambito della sanità in Sicilia e i rapporti tra mafia e politica. Nel XXI secolo si fa strada, sia pure con le dovute eccezioni sopra menzionate, un nuovo modo di intendere il cinema di mafia, in cui una tenue denuncia di fondo diviene sovente il pretesto per imbastire storie in cui si preferisce dare spazio agli aspetti umani, sentimentali ed emotivi, piuttosto che all’impegno sociale che caratterizza, ad esempio, i film di Rosi, stante anche l’influenza deleteria esercitata sul cinema da una miriade inarrestabile di trasmissioni televisive che fanno presa su un pubblico di poche pretese ma fanno vendere il prodotto (non dimentichiamo che è questa l’epoca in cui la fanno da padrone le soap operas). Siamo, quindi, al nocciolo conclusivo della questione: il cinema è un grande mezzo di denuncia e di impegno civile e nella lotta contro la mafia ha sì dato il suo contributo, ma non ha avuto la forza, alla lunga, di sottrarsi a quei condizionamenti di ordine politico e (soprattutto) commerciale che sono alla base della sua stessa esistenza, soprattutto quando si sofferma su quella che è una delle realtà più complesse e torbide della nostra società, ossia la realtà siciliana. 20 Memorie Così devoti, così fascisti Tre cappellani militari sardi ferventi adepti della RSI di Lorenzo Di Biase L ’argomento è poco noto e però ci restituisce una fotografia più completa di quella che fu la Repubblica Sociale Italiana. A Salò finirono per convinzione, convenienza o magari per coartazione anche sacerdoti, con il ruolo di cappellani militari. Per la precisione furono 483, dei quali 57 di prima nomina, i restanti provenienti dal Regio esercito. I sacerdoti vennero chiamati a scegliere se aderire o non alla chiamata proveniente da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Angelo Bartolomasi per costituire le fila dei cappellani militari operanti nel settentrione d’Italia. In tanti evitarono l’arruolamento nelle formazioni fasciste, ma altrettanti ripresero servizio per rispetto delle direttive impartite dall’Ordinariato militare, volte ad assicurare la continuità del servizio di assistenza spirituale alle Forze armate, con la speranza che la presenza dei sacerdoti apportasse benefici influssi morali e influenze moderatrici, oppure perché convinti della bontà della Repubblica Sociale o perché intimamente fascisti; dunque operarono, con una convivenza problematica, i cappellani militari fascisti, quelli apolitici e gli antifascisti. Tra i tanti ve ne erano tre sardi, profondamente filo mussoliniani. Padre Luciano Usai missionario Saveriano, cappellano militare pluridecorato Nacque a San Gavino Monreale, in provincia di Cagliari, il 18 dicembre 1912 e morì a Jundiaì do Sul l’11 settembre 1981, mentre celebrava messa. Diventò sacerdote nel maggio del 1939 e partì subito dopo alla volta della Libia, come cappellano dei lavoratori. Con lo scoppio della guerra diventò cappellano militare, operando prima nel 31° Battaglione Guastatori d’Africa e poi nel Genio Alpino, dal 1942 al 1945. Dall’esercito italiano venne insignito con una medaglia d’argento, due di bronzo e una Croce al valore militare. Inoltre dall’esercito tedesco fu decorato con una Croce di ferro e con una medaglia all’Ordine dei Panzer. Dopo l’8 settembre 1943 egli si trovava a Civitavecchia, ove si adoperava per dare un tetto ai militari sardi che lì arrivavano con l’intento di imbarcarsi per la Sardegna. Aderì da subito alla Repubblica Sociale di Salò, grazie al diretto interessamento del sottosegretario Francesco Maria Barracu, suo conterraneo ed estimatore, che gli affidò mansioni di estrema delicatezza, come la creazione di una rete clandestina fascista alle spalle dell’anglo americano. Nel giugno del 1944 si fece paracadutare, assieme ad altri sardi, da un aereo nazista in Sardegna, in località Is Arutas, nei pressi del comune di Cabras. L’operazione fallì e tutti gli agenti vennero arrestati. Per nove mesi Padre Usai fu rinchiuso nelle carceri di Oristano, in attesa del processo che iniziò il 3 febbraio 1945 presso il Tribunale Militare Territoriale della Sardegna. Tutti gli imputati furono chiamati a rispondere di diversi reati, quali alto tradimento, spionaggio militare, arruolamento illecito di guerra, istigazione alla corruzione. Il 16 marzo del 1945 arrivò la sentenza: tutti assolti, tranne Padre Luciano Usai (per il quale il Pubblico Ministero aveva chiesto la condanna a morte) condannato a 30 anni di carcere da scontare nel penitenziario di Alghero. Fu poi trasferito nel carcere romano di Forte Boccea e in seguito all’amnistia di Togliatti tornò libero nel 1946. Rientrò nella natia San Gavino, ove inizialmente non fu ben accolto neanche dall’anziano decano che reggeva la parrocchia di Santa Chiara, per poi spostarsi a Tortolì. Lì si impegnò per la fondazione delle Missioni Saveriane, ma nelle elezioni politiche generali del 1948 celebrò una messa in suffragio di tutti i caduti per la quale cadde in disgrazia e così nel 1950 partì missionario verso il Brasile. Lì, nella parrocchia di Cerro Azul, costruì un istituto capace di ospitare un centinaio di ragazzi bisognosi di assistenza, ma finì i suoi giorni a Jundiaì do Sul, poverissimo e sperduto villaggio a 70 chilometri da Jacarezinho . Don Antonio Maria Ledda cappellano della Legione M Nacque a Sindia, in provincia di Nuoro, l’8 gennaio 1908; dal 1937 fu inserito nei quadri della milizia fascista come Capo Manipolo della 195° Legione d’Assalto. Durante la guerra partecipò alla campagna di Russia e dopo l’8 settembre aderì spontaneamente alla neonata Repubblica Sociale Italiana di Salò con l’incarico di cappellano della Legione M, addetto alla Guardia del duce, nonché responsabile dell’assistenza spirituale alla GNR, Guardia Nazionale Repubblicana di Brescia. Invano il cappellano militare responsabile per la zona di Brescia, Monsignor Angelo Barcellandi, cercò di farlo rimuovere dal suo incarico, scrivendo in un rapporto: «Nel reparto delle camicie nere che c’è a Salò opera don Antonio Maria Ledda che nella predicazione ai soldati non parla di Vangelo e di dottrina, ma di politica. Inoltre tiene una condotta immorale; anche gli stessi fascisti non lo stimano perché è sacerdote sfasato». In seguito, nell’estate del 1944, diventò Ispettore generale dei cappellani militari della GNR. Nel suo primo intervento nella nuova veste enunciò i punti programmatici del suo ministero: «Confratelli sacerdoti in grigio verde, ciascuno di voi deve essere un monumento vivente. Avete un’arma, il Crocefisso. Avete un mezzo, la parola. Parlate. La Memorie propaganda nemica ha sgretolato il nostro fronte interno: la propaganda deve rinsaldarlo. Voi dovete essere i vessilliferi. Predicate il verbo di Dio, predicate il verbo della patria. Dio è patria è il vostro programma. Chi non ama la patria non ama Dio. Oggi si combatte una guerra santa contro i nemici della religione e della Civiltà. La guerra è santa e Dio è con noi. È una crociata la nostra. Dio lo vuole, la patria lo esige». Don Ledda scriveva nei giornali, era un convinto assertore dei valori positivi della guerra: «Il sangue ci lava, ci riscatta, ci incita, ci inebria». I suoi discorsi spesso venivano riportati da Crociata italica, mentre alla radio si alternava con Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri della RSI, nelle trasmissioni dirette ai sardi. Alla fine del conflitto venne epurato dalla Commissione per l’epurazione contro il fascismo, poi emigrò in Venezuela. Don Giovanni Antonio Ciceri cappellano militare della Legione delle Camicie Nere Nacque a Tempio Pausania, in provincia di Sassari, il 27 dicembre 1912. Don Giovanni Antonio Ciceri, già cappellano militare della MVSN, fu assegnato su sua domanda alla 177esima Legione Camicie Nere nel gennaio 1941, per poi essere trasferito alla 152esima Legione. Al momento dell’Armistizio egli si trovava a Roma presso il Battaglione Complementi della MVSN di Centocelle. Fortemente deluso dall’arresto di Benito Mussolini, chiese ai suoi superiori di dedicarsi all’insegnamento di italiano e storia presso un seminario pontificio. Ma dopo la liberazione del duce e la nascita della Repubblica Sociale Italiana abbandonò l’insegnamento per tornare immediatamente ed entusiasticamente sotto le bandiere fasciste a esercitare come cappellano militare in divisa grigio verde. Egli aderì al gruppo di Crociata Italica assieme a diversi altri religiosi e si distinse da subito per la qualità dei suoi interventi di chiara matrice fascista e per l’elevato numero dei suoi articoli a favore del regime che poco o nulla trattavano di tematiche care alla Chiesa. Proprio per questo suo essere fortemente politicizzato egli è inviso alle gerarchie ecclesiastiche, tanto che il cappellano provinciale della zona di Brescia, Mons. Angelo Barcellandi, propose alla 2° Sezione la sua rimozione in quanto «non riconosce il cappellano capo; veste impenitentemente la divisa grigio verde, non rispetta le vigenti disposizioni per la divisa talare, tiene condotta immorale, non recita l’ufficio». Nonostante il giudizio negativo, don Ciceri rimase al suo posto. Nella sua attività di pubblicista a favore della testata Crociata Italica così commentava l’esecuzione di Padre Giuseppe Morosini, un cappellano militare che ebbe un ruolo attivo nella lotta antifascista nella zona della Sabina: «Se i tedeschi hanno agito così col fratello sacerdote, il fratello sacerdote non deve aver sempre agito con l’insegnamento di Cristo. Infatti quando il sacerdote ha fatto il sacerdote e non il partigiano, quando si è servito della Chiesa e della parola nella Chiesa non per alimentare odio, non per smarrire gli animi, non per creare sbandamenti morali, non per impedire ai giovani di presentarsi al servizio militare, ma per insegnare l’ordine, la quiete, l’armonia e la disciplina, allora non solo non è stato mai disturbato nel compimento del suo ministero, ma è stato rispettato, onorato e favorito». Nell’estate del 1944 Don Antonio Maria Ledda venne chiamato a ricoprire il ruolo di Ispettore Generale dei cappellani della G.N.R., aprì un ufficio a Salò, avvalendosi dell’assistenza di don Ciceri, sia perché conterraneo sia perché cappellano militare di accesa fede fascista. Per questa sua attività più politica che religiosa don Giovanni Antonio Ciceri al termine del secondo conflitto mondiale venne epurato dagli organici dell’Ordinariato Militare. Invano egli chiese il reintegro. Morì a Calangianus il 28 aprile 1995. 21 22 Memorie Quel maestro così svagato e così concreto Ricordo di Aldo Garosci, scrittore, storico e direttore de l’Italia Socialista di Giovanni Russo A vevo poco più di vent’anni quando, negli ultimi mesi del 1947, ho conosciuto Aldo Garosci. Appena laureato, ero arrivato a Roma da Potenza, dove avevo partecipato con Carlo Levi, che era nella lista di Alleanza Repubblicana del Partito d’Azione, alla campagna elettorale per il Referendum sulla Repubblica e la Costituente del 1946. In Largo Goldoni incontrai Levi in compagnia di un signore alto, miope, che indossava un cappotto di cui ancora ricordo il colore, un blu elettrico. Uscivano dalla tipografia Guadagno in vicolo del Grottino, dove si stampava L’Italia socialista di cui Garosci era il direttore, e che era succeduta a L’Italia libera, il quotidiano del Partito d’Azione che era stato diretto da Carlo Levi. Garosci m’invitò a scrivere un articolo sui contadini lucani, che venne subito pubblicato. Quando andai, il giorno dopo, a ritirare alcune copie del giornale Garosci mi propose con un sorriso di entrare nella redazione. Per quasi un anno, fino a quando fu pubblicata L’Italia socialista, sono stato oltre che un suo redattore un suo allievo, che ne aveva condiviso le idee e le battaglie politiche ancor prima di conoscerlo e che era quindi un po’ intimidito da una persona che aveva ai suoi occhi il fascino del mito. Quest’uomo dolce e molto benevolo con i giovani era circondato dall’aureola di un passato glorioso. Avevo visto una foto di lui che seguiva a Parigi per primo il feretro dei fratelli Rosselli, uccisi dai cagoulards assoldati dall’Ovra ad Alençon, reggendo su un cuscino il cappello che Rosselli portava nella guerra di Spagna. Noi giovani che avevamo aderito al Partito d’Azione poco dopo la fine del regime, il 25 luglio del ’43, sapevamo che Garosci era stato uno dei protagonisti della lotta antifascista fin da giovane, quando aveva cominciato a fianco di Carlo Levi, a Torino, a conoscere le idee di Carlo Rosselli, il fondatore di Giustizia e Libertà, e a diffondere all’università il foglio clandestino Voci di officina, ispirato al pensiero di Piero Gobetti. Dopo la denuncia al Tribunale Speciale, fuggì in Francia, dove rafforzò il suo sodalizio con Carlo Rosselli. Con la sua aria di intellettuale con la testa, in apparenza, sempre un po’ tra le nuvole, egli era invece un attivo militante col nome di battaglia di Magrini, capace di insospettati atti di coraggio e di eroismo. È stato tra i primi volontari, nell’estate del 1936, della Aldo Garosci (col bastone) tra Nicola Terracciano e Vittorio Cimiotta colonna antifascista di Carlo Rosselli che prese parte recensione di Benedetto Croce, alla guerra di Spagna con lo slogan che aveva conosciuto da ragazzo “Oggi in Spagna domani in Italia”, e al suo paese natale, Meana di Susa nella battaglia di Huesca venne ferito. in Piemonte, dove il filosofo si Ha dedicato a quell’epoca uno dei recava in villeggiatura. Al pensiero suoi libri più belli, Gli intellettuali e la del filosofo si è ispirata la sua vita guerra di Spagna, dove si può capire il morale, come ricorda Leo Valiani, ruolo degli intellettuali democratici che con lui è stato il testimone di un e antifascisti nel dramma spagnolo. antifascismo democratico, che non Dopo la sconfitta in Spagna e l’occupa- è venuto mai a patti non solo con il zione tedesca della Francia si rifugiò fascismo ma anche col comunismo. negli Stati Uniti, a New York, dove fu Anche i suoi saggi La storia della uno degli animatori con Tarchiani, Francia moderna, e La storia dei Cianca, Sforza, Salvemini, Max Ascoli fuoriusciti, pubblicati da Laterza, della Mazzini Society. Al suo ritorno in sono stati influenzati dal pensiero Italia, nel 1943, sbarcato con gli Alleati di Croce. Quanto alla sua carriera in Sicilia, si fa lanciare col paracadute accademica, è stato professore di da un aereo inglese sul Monte Gennaro Storia del Risorgimento prima a per partecipare attivamente alla Resi- Torino e poi a Roma. Mi ha sempre legato a lui l’afstenza. Sono rimasto sempre profonda- fetto filiale, per i suoi tratti di mente colpito dalla fusione che c’era grande umanità e gentilezza, di in lui di passione politica e impe- generosità e di bontà e per gli insegno civile con i grandi interessi gnamenti che mi ha dato. Nella culturali, da quelli di storico ( aveva redazione di Italia socialista discusso la sua tesi di laurea su Jean esisteva un rapporto di amicizia al Bodin e lo Stato moderno a Torino con quale partecipava la moglie di Aldo, l’hegeliano Gioele Solari) a quelli per la Irene Numberg, anch’ella antifascistoria dell’arte nati nella sua frequen- sta militante. Ricordo, in un periodo tazione con il grande storico dell’arte in cui egli fu gravemente ammalato Lionello Venturi. Carlo Levi mi confi- al Policlinico, come amorevolmente dava di prediligere, fra tutti, il saggio lo ha assistito . che proprio Aldo Garosci aveva dediL’Italia socialista ospitò le caricato alla sua pittura. cature politiche disegnate da Carlo A New York aveva cominciato a scri- Levi, e gli articoli contro i “padroni vere La vita di Carlo Rosselli, un libro del vapore” e gli “erpivori” (chi si che nella critica ebbe un’entusiastica ingrassava sui fondi Erp, European Memorie recovery program, n.d.r.) di Ernesto Rossi, i primi racconti di Carlo Cassola, le raffinate critiche di Muzio Mazzocchi Alemanni, i primi scritti di Riccardo Musatti, che ne fu redattore capo, di Enzo Forcella, Pier Luigi Sagona, Ugo Martegani, Carlo Caracciolo, Lidia Crocini, Stelio Martini, Domenico Di Palma. L’Italia socialista ha legato molti di noi per tutta la vita: fu per molti giovani una palestra straordinaria proprio per merito di Aldo Garosci e del suo vice direttore Paolo Vittorelli, e anticipò anche novità tecniche che dovevano essere poi adottate da Il Giorno di Gaetano Baldacci e dalla Repubblica di Eugenio Scalfari, nella scelta dei brevi editoriali, nei pezzi di costume e nella polemica politica. Fu il giornale più vivace tra il ‘47 e il ‘49 insieme a Risorgimento liberale di Mario Pannunzio. Di Pannunzio Garosci doveva diventare strettissimo collaboratore ne Il Mondo , sul quale ha scritto centinaia di articoli di politica estera nella rubrica XX Secolo, succedendo a Augusto Guerriero e Antonio Calvi e portando nei commenti la sua esperienza internazionale e la sua grande cultura storica. Nel Mondo, tra l’altro, ha scritto a puntate quella Storia dei fuorusciti italiani che è il documento principale per conoscere le vicende del loro esilio. Successivamente è stato collaboratore de Il Giornale di Indro Montanelli di cui era garante con Rosario Romeo e Renzo De Felice. Nella vita politica fu molto legato a Ignazio Silone e appoggiò la scissione di Saragat, avendo avuto sempre come fine un socialismo democratico libero dalla egemonia di un partito comunista filosovietico. Per mantenere questa sua posizione di indipendenza non ha mai aspirato a cariche parlamentari e si è dedicato, pur mantenendo sempre viva la sua passione politica, agli studi storici. Da lui ho appreso la diffidenza verso ogni forma di fanatismo, la sensibilità per i problemi sociali, ma anche l’amore per la libertà e per la giustizia. Le vicende familiari raccontano la storia di un secolo, il Novecento Rossi a Manhattan Luglio 2010. Un fascicolo dell’Fbi arriva su una scrivania nel cuore di Roma. Seduto alla scrivania c’è Eric Salerno e quel plico beige contiene la storia della sua vita: i documenti riservati riguardanti Michele Salerno, giornalista italiano comunista cacciato dall’America dopo ventotto anni trascorsi a combattere capitalismo e imperialismo. Quell’uomo era suo padre. Eric ricostruisce, ricorda, annota e rilegge il passato. È il 1923 quando Michele lascia Castiglione Cosentino per gli Stati Uniti. Non tollera il regime fascista nascente in Italia. Lui, comunista di famiglia cattolica, desidera un vivere intenso, dove la diversità di idee tra i popoli, le nazioni, sia elemento di incontro e non di conflitto. Ha voglia di guardare avanti e ora è nel paese giusto per farlo. Elizabeth Esbinsky, detta Betty, è poco più che una bambina quando viene portata in salvo in America. Alle sue spalle Chojniki, cittadina oggi incastonata tra Belarus e Ucraina, e una lunga scia di morte: le guardie bianche dello zar che combattevano contro i rossi, i pogrom, la guerra civile, le lotte antisemite. Betty porta con sé la coscienza ebraica e l’amore per la libertà di espressione. Michele e Betty si incontrano a New York, si amano. Fanno delle loro singole lotte una lotta comune e assieme assistono alle azioni degli antifascisti in Italia, all’ascesa della dittatura del generale Franco in Spagna, alla persecuzione dei comunisti americani durante la Guerra fredda. Sui giornali e in piazza, l’impegno nella difesa dei diritti umani e civili è la loro motivazione esistenziale. Eric Salerno racconta la storia della migrazione da un paese del Sud Italia, la lotta per sopravvivere nel Bronx, l’amore per una donna incontrata nel nuovo mondo, ma anche la caccia alle streghe anticomunista; e il 23 novembre 1950, il giorno della deportazione in Italia, quando i Servizi, che avevano bollato la lotta al capitalismo di Michele come un’attività di spionaggio, ebbero la meglio. 23 24 Memorie Quando Cesare Polacco lavorava a Cinecittà sotto falso nome Da Strehler alla Brillantina Linetti, la vita del celebre ‘Ispettore Rock’ di Fabiana Tacente È uno splendido pomeriggio assolato e sembra che il tempo si sia fermato tra le vie del ghetto ebraico di Roma. Sono seduta al tavolo di un bar, in compagnia di Eugenio Perugia, figlio di Lello Perugia, che fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz (è scomparso recentemente), della sua mamma Arduina, figlia del celebre attore Cesare Polacco, e del pittore Georges de Canino, gran cultore di memorie antifasciste. L’incontro nasce dalla voglia di scoprire qualcosa in più su Cesare Polacco. Sì, proprio lui, il famoso testimonial della Brillantina Linetti. Voglio sapere tutto sulla sua carriera prima della fama televisiva, sulle sue tribolazioni dovute alle leggi razziali, durante il nazifascismo. «Mio padre», inizia la signora Arduina, due splendidi occhi chiari e una classe innata, «nacque il 14 maggio del 1900; veneziano di origine, era di estrazione alto borghese. Il padre era gioielliere di corte e avevano un negozio importantissimo a piazza S. Marco. Lui era il primo di otto figli e fu mandato a studiare in collegio in Svizzera, l’unico beneficiato di questo privilegio. Purtroppo perse suo padre molto presto e il negozio fallì». A quanti anni iniziò la carriera di Cesare Polacco? «Papà cominciò per gioco in un teatrino amatoriale dove vide lo spettacolo di alcuni amici. Uno in particolare gli chiese se avesse apprezzato la sua performance; mio padre, senza peli sulla lingua rispose in veneziano: “Sei stato un cane”. Fecero, allora, una scommessa: mio padre doveva imparare la stessa parte in una settimana. Così a 19 anni finì sulle scene». E quale fu l’esordio? «Papà ha fatto tanto teatro dialettale: Cesco Baseggio, Carlo Goldoni, Giacinto Gallina. Iniziò nel 1920, con la compagnia teatrale di Emilio Zago e nel gruppo veneziano di Gianfranco Giachetti». In che epoca vi siete trasferiti a Roma? «Intorno al 1928; fu allora che iniziò a lavorare in teatro con Alda Borelli, Virgilio Talli e Tatiana Pavlova. Con quest’ultima, celebre attrice ebrea russa, papà ha anche fatto teatro yiddish, sempre in italiano, però. Anche io ho recitato piccole parti in questi spettacoli con la Pavlova». Divenne subito famoso? «Quando ci trasferimmo a Roma, un po’ alla volta, iniziammo a vedere qualche soldo. Fino al 1935 c’è stata la fame; anche la mia mamma era un’attrice, si chiamava Eugenia Zorn, purtroppo è morta prestissimo, a soli 37 anni. Poi papà ha iniziato con il doppiaggio; ha fondato nel 1935, con altri personaggi come Giulio Panicali ed Emilio Cigoli, la CDC, la cooperativa doppiatori cinematografici; la società risulta ufficialmente fondata dopo la seconda guerra mondiale, ma tutti i film con doppiaggio italiano, prima e durante la guerra, le sono accreditati». E l’esperienza cinematografica e teatrale? «Tra il 1935 ed il 1936 fece il suo primo film da coprotagonista, Lo squadrone bianco di Augusto Genina, accanto a Guido Celano e Fosco Giachetti. Nel 1950 interpretò il ruolo di Mohammed nel film Totò sceicco di Mario Mattoli. Dopo vari film, lavorò al teatro Valle, dove è stato fisso per molto tempo e poi con Salvini, grande regista, nella compagnia del Teatro Nazionale. Nelle locandine del teatro Valle, negli anni ’50, insieme al suo, c’erano nomi come Vivi Gioi, Vittorio Sanipoli e poi, dopo, scritti in piccolo, una sfilza di nomi tra cui Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman. All’epoca papà era prima di questi grandissimi nomi del teatro! Dopo l’avventura del teatro Valle, ha fatto vari film, ma tutti poco importanti. Papà è stato regista teatrale e il primo spettacolo da lui diretto fu la storia di Anna Frank. Avevano preso gli attori dalla scuola Polacco, era una compagnia giovanile creata da lui, tutti ragazzi sotto i 20 anni. Poi entrò al Piccolo Teatro Stabile di Strehler e ci è rimasto per vent’anni. Infine arrivò la pubblicità». A proposito di pubblicità, la televisione lo ha consacrato. Memorie «Nel 1957 l a brillantina Linetti lo rese famosissimo, per quasi venti anni. Anche Papa Paolo VI, quando lo incontrò, gli disse: “Non abbiamo mai sbagliato noi!”, riferendosi al fatto che il Papa fosse infallibile. E poi arrivò la televisione, con i suoi sceneggiati: nel 1967 ha fatto il conte zio nello sceneggiato di Sandro Bolchi I promessi sposi e la critica fu meravigliosa; poi fece I fratelli Karamazov». Ora facciamo un passo indietro e parliamo del problema delle leggi razziali che penalizzarono le professioni, dal 1938 fino al 1945. Poco prima dell’estate del 1938, il ministero dell’Interno aveva trasformato l’Ufficio demografico centrale in Direzione generale per la demografia e razza, più nota come Demorazza, col compito di dirigere e coordinare la politica antisemita. La Demorazza realizzò un censimento di tutti gli ebrei residenti in Italia e a Roma, schedandoli in modo da renderli facilmente individuabili. Georges de Canino delinea il quadro storico. «Per chiunque fosse iscritto all’anagrafe della razza, la demorazza appunto, quel periodo è stato davvero terrificante», dice. «Come per Cesare Polacco, per molti l’esclusione era totale, il prorio nome non dovva apparire, anche se potevano esserci collaborazioni clandestine. Non poteva risultare nei cartelloni il nome di un ebreo; i negozianti dovettero creare delle società anonime o addirittura cedere la propria attività a terzi; tanti registi, tra cui De Sica, fecero lavorare clandestinamente e senza contratti gli ebrei. Questa esclusione ha penalizzato dal 1938 al 1945 tantissime persone. Per l’opinione pubblica chi è sopravvissuto in quegli anni è già un miracolato. Ma immaginiamo oggi, che stiamo vivendo una crisi economica spaventosa, un uomo che perde completamente il suo lavoro per le disposizioni razziali, cosa può fare? Con una famiglia a carico poi, anche se tu ti arrangi in qualche modo, ma tu non esisti più, scompari. Come persona, come artista ti vedi negata l’ identità! Ecco come si sentiva Cesare Polacco, e come lui tanti altri ebrei». Cosa decise di fare allora Polacco? Arduina riprende il racconto. «Papà», dice, «ha avuto il coraggio, grazie all’aiuto di un suo amico, il generale Umberto Presti, di fuggire e raggiungere Bari. Dai suoi racconti e dai suoi diari, vorrei ricordare un episodio. Durante il passaggio delle linee, un gruppo di tedeschi prendono lui e altre tre persone. Fanno scavare loro una fossa, mentre tengono i mitra ben puntati. Sembrava volessero ucciderli! Allora il mio papà ha fatto la cosa che gli riusciva meglio, si è messo a recitare. Ha finto di essere un contadino del posto, di non capire cosa volessero, tanto loro non lo capivano. Ma non ha pensato subito che aveva le mani troppo curate per essere un contadino, quindi le avrà sporcate lì al momento per non insospettirli. Di tutto il gruppo l’unico che ha parlato è stato lui e grazie alla sua recita e quindi alla sua arte si sono salvati tutti. Così arrivò finalmente a Bari». Parliamo dell’arrivo a Bari; nei giorni 28-29 gennaio 1944 si tenne il primo congresso dei comitati provinciali di liberazione, che volle definire le linee direttive comuni e la futura azione politica nazionale dei partiti antifascisti. La maggior parte di questi avvenimenti fu commentata e trasmessa da Radio 25 Bari, che dal settembre 1943 era diventata la prima radio dell’Italia libera. Interviene Georges de Canino: «Bari in quegli anni era uno dei centri di maggiore attività politica nell’Italia occupata dagli Alleati; lì risiedevano il re, il governo e Badoglio. C’erano gli alleati di tutti i comandi, inglese, americano, c’era anche la Brigata ebraica all’interno dell’armata inglese. Ci tengo a specificare che tra i primi gruppi che parteciparono alla Liberazione dal nazifascismo c’erano i soldati della brigata ebraica e per Polacco fu un’emozione fortissima; era la prima volta nella storia che dei soldati ebrei potevano indossare la stella di Davide come segno di riconoscimento, non della persecuzione ma della propria identità!» Eugenio Perugia sottolinea: «La campagna di liberazione ebraica è una cosa che non viene mai citata, ma i soldati della Brigata ebraica furono presenti in tutta la campagna di liberazione d’Italia dal nazifascismo, fu la prima volta che venne esposta trionfalmente la bandiera ebrea». Arduina riprende il racconto: «Mio papà collaborò con radio Cesare Polacco con Sandro Pertini Bari Libera, ma ovviamente, anche in questo caso, sotto falso nome. Lui non poteva comparire come Cesare Polacco, perciò aveva preso il nome del genero, del marito di mia sorella e si presentava come Guido Ferri». Eugenio mi mostra 4 quaderni molto vecchi, sono i diari di suo nonno, scritti giorno per giorno nel periodo della permanenza a Bari fino al 1944. Dice: «A me preme sottolineare proprio la difficoltà della scelta attuata da mio nonno, quella della fuga a Bari. A livello psicologico non fu semplice prendere questa decisione; anche se gli era stato consigliato, perché quello era l’unico modo per salvarsi e salvare la sua famiglia, la scelta di lasciare le figlie in istituto è stata anche molto criticata. Io posso dire solo che per mia madre è stato un padre affettuoso». Ma il problema è un altro. «A distanza di tutti questi anni», spiega Eugenio Perugia, «vorrei soltanto maggiore chiarezza per la questione delle restrizioni lavorative. Su Internet, per esempio, nelle pagine dedicate a mio nonno, c’è chiaramente scritto che lui non subì le leggi razziali: un clamoroso falso. A me piacerebbe poter controllare negli archivi storici di Cinecittà come veniva inserito il suo nome nei contratti dell’epoca, se c’è ancora traccia, sempre che non fossero contratti illegali, non registrati. Io voglio soltanto restituire dignità alla figura di mio nonno, oltre che alla carriera dell’attore Cesare Polacco». Dalle colonne di questo giornale chiediamo alla direzione di Cinecittà di aiutarci a ricostruire gli anni difficili di un attore meraviglioso che con la sua arte ha dato lustro al Paese. 26 Memorie Davanti al Tribunale Speciale Il diario palpitante di una giovane ragazza che ha conosciuto la galera fascista senza perdere la speranza di Anna Canitano F ui arrestata il 23 Aprile 1942 e condotta con la Mamma alle carceri di San Vittore, a Milano, dopo una lunga e minuziosa perquisizione in casa, che fruttò ai signori incaricati, oltre a una notevole perdita di tempo, tre fogli di carta. Li conservo perché mi vennero restituiti in seguito. Primo: un estratto del Corriere d’America del 4 luglio 1937 circa una dichiarazione di Mussolini a proposito del problema degli ebrei in Italia. Secondo: un foglio azzurro sul quale in Francia, precisamente a Nimes, nel ’38 annotai alcune definizioni del fascismo e del comunismo da scritte murali. Terzo: una lettera di un mio amico, con alcune righe di carattere politico. Mi venne anche sequestrato il mio personale libretto d’indirizzi. Arrivai a San Vittore con la Mamma, entrambe scortate da tre poliziotti, verso mezzogiorno. Ora di grande animazione in carcere. Fummo immediatamente separate. Dopo una sosta di circa un’ora in una stanzetta detta “Matricola” venni portata da una suora in una cella al terzo piano. Il “terzo piano”, come imparai dopo, era una specie di luogo infame della Sezione Femminile del carcere. Lì rimasi in assoluta segregazione per una quindicina di giorni in compagnia delle prime cimici (era ormai primavera), delle canzonacce, che sentivo cantare da una cella Anna Canitano (La memoria e le fotografie ci sono state fornite da Susanna Aragno) all’altra, e di alcuni bruttissimi libri che mi ero fatta subito dare per passare il tempo. I primi giorni, le prime settimane in carcere non passano mai. Il tempo sembra interminabile. Faceva ancora freddo, specialmente di notte. Seppi qualche tempo dopo che in quella cella pochi giorni prima del mio arrivo era morta una mendicante. In quei primi quindici giorni piansi, piansi disperatamente. Leggevo molto, cantavo e pregavo. Il 28 aprile subii il primo interrogatorio. Durò più di 5 ore. Un interrogatorio di quel genere credo sia utile come esercizio ginnastico della mente e delle possibilità selettive del cervello. Vince chi è più intelligente. Fui interrogata sul verbale di un compagno comunista e lo vidi anche di persona. Il secondo interrogatorio, a distanza di qualche giorno dal primo, fu più breve. Gli altri, frequentissimi, in seguito, furono su un tono sempre più blando. Negai sempre, recisamente, decisamente tutte le accuse che mi venivano fatte e stesi un verbale, per dirla con i termini tecnici, “negativo”. Finalmente in cella con la mamma Dopo cinquanta giorni dall’arresto venne l’autorizzazione perché la Mamma ed io fossimo messe in cella insieme. Il 24 giugno, di mattina, ci venne comunicato che eravamo state deferite al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Passarono altri due mesi. Caldo, cimici, ansie, attese, pensieri. Il 24 agosto ci alzammo alle 6 del mattino. Due nostre compagne di carcere subivano quel giorno il processo, a Roma. Andavano a messa nella Cappella delle suore. Non dimenticherò mai l’atmosfera triste, grigia, muta, disperata di quell’alba in carcere. Dopo poche ore ci chiamarono: c’era a interrogarci il giudice istruttore del Tribunale Speciale. L’interrogatorio fu breve. Le contestazioni precise. Le imputazioni eccessive. Eravamo imputate di associazione e di propaganda antinazionale. Articoli 271 e 272 del Codice penale. Associazione antinazionale per i rei comportava una pena da 6 mesi a 2 anni di carcere. Stessa pena per il reato di propaganda antinazionale. Il giudice era un colonnello paterno e bonario. Mi disse: “Sarebbe stato meglio che vi foste occupate di altre cose anziché immischiarvi nella politica”. Non risposi. Mi guardò. Lo guardai. Continuò l’interrogatorio. L’11 settembre partii per Roma. L’ordine di partenza venne la sera prima. Partivo io sola, senza la Mamma. Sperai ancora una volta che alla Mamma fosse risparmiato il seguito dell’avventura. Non fu così. Poche ore dopo partì anche lei. Viaggiai tra due carabinieri in uno scompartimento di terza classe “riservato”. Arrivai alla stazione di Roma alle 7 di sera. Venni condotta al carcere delle Mantellate con una Balilla. Dopo l’abituale cerimonia dell’immatricolazione e dopo aver attraversato vari cancelli arrivai alla mia sezione. Fui ricevuta dalla Madre superiora in maniera così burbera che non riuscii a evitare le lacrime. Mi misero in cella con altre due ragazze. Una slava Memorie 27 condannata a 10 anni di reclusione e una compagna di Milano condannata a un anno. Il mattino dopo seppi dall’infermiera che era arrivata anche la Mamma. La slava e la mia compagna di Milano vennero mandate in un’altra sezione e io rimasi sola. Il cielo di Roma era azzurro La cella era pulitissima. Feci una doccia calda. A mezzogiorno la minestra era buona. Si poteva persino avere il giornale. Durante l’ora di “aria” che ci era concessa giornalmente vedevo il Gianicolo, vedevo il verde dei pini. Il cielo di Roma era azzurro. L’aria tiepida. La suora della Sezione Politica era buonissima. Passai due mesi e mezzo meravigliosi. Pensavo, cantavo sognavo, passeggiavo in su e in giù per delle ore, mi arrampicavo alle sbarre nelle notti di luna, comunicavo con la Mamma (c’era ordine di segregazione e separazione assoluta) per mezzo di stornelli e biglietti che qualche detenuta portava gentilmente. Ricevevo ogni giorno della posta. Lunghe lettere che mi parlavano di teatro, di cinema, di tutto quello che si stava facendo, di tutti i progetti per il futuro, di lavoro, di idee. Rispondevo sempre il più a lungo possibile e la corrispondenza di quel periodo mi è particolarmente cara. Il 6 novembre mi venne comunicata da un signore giovane e simpatico la data in cui era fissato il processo. Mi consegnò un plico di 7 fogli dattiloscritti. Era la carta di rinvio a giudizio. Il processo era stato fissato per il 24 novembre. Nominai mio difensore l’avvocato Domenico D’Amico. Tornai in cella allegrissima e quel giorno cantai più del solito. Il 10 Novembre venne l’avvocato per la prima volta. Il 19 Novembre compivo 22 anni. L’avvocato venne per la seconda volta. Parlammo dell’andamento dell’istruttoria, mi lesse alcuni verbali, mi raccontò delle barzellette antifasciste. Il 23 Novembre venne per la terza volta. Mi parlò del Tribunale, del Pubblico Ministero, del Presidente, del valore delle difese, delle disposizioni superiori impartite per i vari processi, delle sentenze. Era allegro. Era riuscito a salvare un ragazzo slavo dalla pena di morte. Il 24 novembre mi alzai alle 6 del mattino. Mi vestii con cura, mi pettinai. Presi un uovo sbattuto. Pregai di fronte alla finestra spalancata. Vidi la Mamma. Era calmissima. Mi disse: “Hai letto la preghiera che ti ho mandato?”. Risposi: “Sì, ce l’ho con me”. Diceva la preghiera: “Signore Iddio Santo, assisti, proteggi, benedici noi e tutti i nostri compagni in queste ore difficili. Signore Iddio Benedetto degnati di infondere nei nostri giudici la Tua luce la Tua giustizia la Tua clemenza”. Ci accompagnarono al Palazzo di Giustizia, in automobile. Nel Palazzo di Giustizia l’aula della morte C’era con noi una donna d’aspetto dolcissimo. Occhi azzurrissimi e una grossa treccia di capelli scuri intorno al capo. Andava alla Corte d’Assise. Era più di una settimana che vi andava tutte le mattine, sempre con quella stessa macchina. Passando dal carcere maschile, dove un gruppo di detenuti incatenati e ammanettati attendeva di salire su un carrozzone tutto chiuso, disse: “Il Pubblico Ministero ha chiesto 30 anni per me e 30 anni per quello lì” e mi indicò un figuro basso, brutto, sporco, con la testa quasi deforme e con un fazzoletto bianco ai polsi. Aggiunse: “L’ha ammazzata lui”. L’automobile fece il Lungotevere, salì, scese, scivolò in Con Giorgio Strelher, col quale lavorava in teatro un cortile buio. Ci misero in camera di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. La donna dall’aspetto dolcissimo parlava e fumava. Io pensavo al momento che avrei rivisto tutti i ragazzi. Erano passati 13 mesi dalle riunioni in casa mia e del nostro incontro sul sagrato del Duomo. Mi pettinai, mi diedi anche un po’ di cipria. Ero serena, ero allegrissima. Si aprì la porta. Chiamarono per nome e cognome la Mamma e poi me. Vidi una fila di uomini con le manette. Vidi una fila di uomini incatenati. Nella semioscurità non distinsi nessuno, non riconobbi nessuno. Mi sentii chiamare: Anna! Vidi Guido Bersellini, e ancora Anna! Vidi Luciano Bolis e tutti gli altri. Molti non li ricordavo, alcuni non li conoscevo. Su per una scaletta strettissima ci guardammo più da vicino e ci scambiammo qualche parola. Alle nove circa entravamo in aula. La pensavo più grande, più austera, più cattiva “l’aula della morte”. Dopo poco cominciarono ad arrivare gli avvocati. Cassinelli arrivò per primo e mi chiese: “È lei la Canitano?” Risposi: “Sì”. Sorridevo. Mi disse: “Non sorrida così. Per una donna in questi casi è più opportuno piangere”. Impossibile, pensai, e tornai a sorridere. Il processo durò circa 9 ore, con tre interruzioni di 5 minuti. Il Presidente interrogò brevemente gli imputati, vennero 28 Memorie Cartolina spedita per Natale 1941 ad Anna da Luciano Bolis, allora sotto le armi ascoltati alcuni testi a difesa. Qualche interruzione da parte degli avvocati. Poi ecco il grande momento requisitorio del Pubblico Ministero. Lo ascoltammo attentissimamente. Ci aspettavamo di peggio. Ci guardammo l’un l’altro soddisfatti. Il Tribunale uscì. Cinque minuti di intervallo. Mangiammo cioccolato, caramelle, prugne secche. Eravamo allegrissimi. Ci sentivamo bene, veramente bene. Chiesi a un carabiniere se potevo uscire un momento. Mi accompagnò e ci inoltrammo nei sotterranei drammaticamente contorti e male illuminati del Palazzo di Giustizia. Tornai in aula. Dopo poco: un braccio che si irrigidisce, un pennacchio che si erge, un battere di tacchi e un carabiniere grida: “Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato” (per la cronaca noi lo chiamavamo il Tribulatorio Specializzato per la Distruzione della Società). Parlarono gli avvocati. Parlò per primo Giuseppe Sotgiu. Poi parlò D’Amico, con la sua aria bonaria e persuasiva. Poi Malcangi, umoristico e pungente. Poi parlarono altri senza importanza. Infine parlarono Angelucci e Comandini. di accendergli la sigaretta. Con le mani legate non poteva. Un ragazzo slavo, Matjan Bronislav, mi pregò di andare da un suo compagno e portargli notizie. Guido mi chiese se andavo subito a Milano. Il carrozzone si fermò davanti al carcere maschile. Ci salutammo allegri e commossi. Ci stringemmo forte le mani. Baciai Guido e Luciano. “Allegri ragazzi e arrivederci a presto”. Il carrozzone proseguì fino alle Mantellate. Avevamo una gran fame. Feci le scale di corsa e arrivai alla mia sezione gridando: “Siamo state assolte per insufficienza di prove. Domani usciamo”. Mangiammo minestra, un uovo sodo, un pezzo di pollo e del cioccolato. Ci addormentammo. Passarono altri 5 giorni. Il 30 novembre venne l’ordine di scarcerazione. È una gioia che non si può capire, se non la si è provata. Dopo sette mesi e mezzo tornavamo libere. Libere e non vi dico altro. L’avventura era finita. In Questura ci diedero il foglio di viaggio con il quale dovevamo rientrare a Milano entro 3 giorni. All’Ufficio di Polizia della stazione insieme ai biglietti ci diedero 10 lire. Cinque per ciascuna. Le conservo ancora. Guardai la stazione di Roma e pensai a tutte le volte che ero partita da quei binari, che ero arrivata a quei binari. Nient’altro. L’avventura era finita. Non pensavo davvero che a distanza relativamente breve me ne sarebbe toccata un’altra, forse più emozionante. Ma questa la racconterò un’altra volta. Parole coraggiose contro il fascismo Due difese che non dimenticherò facilmente. Veementi, coraggiose, piene di forza, di verità, di convinzione. Il Presidente e il Pubblico Ministero si guardavano ogni tanto, agitati. La voce di Federico Comandini tuonava nell’aula e si scagliava senza remissione contro il Tribunale Speciale, la sua illegalità, l’assurdità dell’accusa, contro il fascismo, tutto contro la gioventù vile, vuota che aveva allevato. Quandò terminò eravamo entusiasti. Il Tribunale si ritirò per decidere. L’attesa fu brevissima. Rientrò, preceduto dal solito grido annunciatore. Ci alzammo in piedi. Presidente e giudici avevano tutti il cappello in testa. Si irrigidirono tutti nel saluto fascista. In quell’atteggiamento la divisa fascista si faceva più prepotente, più assurda, più detestabile. Il Presidente lesse la sentenza, ci guardò e dichiarò chiusa l’udienza. Quando uscimmo era buio. Le condanne erano state lievi. Credevamo peggio. La Mamma ed io eravamo state assolte per insufficienza di prove. Montammo tutti nel carrozzone che ci doveva riportare in carcere. I ragazzi fumavano, parlavano forte. Erano tutti sereni, allegri, sicuri. Luciano mi chiese: “Hai una matita, per caso?” L’avevo in tasca e gliela diedi. Era stato condannato a 2 anni, una matita in carcere è un oggetto prezioso. Pier Luigi Tumiati mi pregò Anna in una foto del 1946 Noi DA L’AQUILA Un 25 aprile da partigiani del post-terremoto Il 25 Aprile scorso, con la neo costituita Rete antifascista aquilana e l’Anppia abbiamo deciso di scendere insieme in strada per festeggiare la Liberazione. Per noi era importante, oltre che sottolineare il valore storico dell’antifascismo, esprimerlo in tutta la sua attualità e urgente necessità. In mattinata, dopo la commemorazione ai Nove giovani martiri aquilani, la strage di Onna e di Filetto per mano dei nazifascisti nel 1943-44, abbiamo esposto la mostra di Alberto Aleandri, dell’Anppia. Abbiamo anche aggiunto altri pannelli curati dal collettivo postfemminista “fuori Genere” che riportava la storia di alcune donne resistenti, come l’aquilana Antonietta Centofanti anima del comitato “parenti delle vittime Casa dello Studente” che si è battuta per chiedere Verità e Giustizia per i ragazzi deceduti mentre erano sotto la tutela dello Stato. Le altre donne che il collettivo ha voluto raccontare erano: Patrizia Moretti, Rachael Corrie, Maria Soledad, Nicoletta Dosio, Haidi Giuliani. Una lunga striscia di tavole espositive che ha occupato per tutto il giorno il disastrato centro storico dell’Aquila quel mattino pieno di passanti che - tra transenne e militari - si sono fermati, interessati a guardare le foto e le didascalie antifasciste. Abbiamo deciso di dire la nostra, dopo aver vissuto sulla pelle da quattro anni a questa parte un disegno autoritario e repressivo che ha militarizzato la città, allontanato migliaia di cittadini dal territorio, anestetizzato le persone in tendopoli gestite dall’alto e con una serie di divieti assurdi, esautorato le popolazioni del cratere da ogni decisione che riguardasse sia il loro presente che il loro futuro, denunciato decine di cittadini la cui unica colpa è di essersi opposti alla speculazione delle cricche e degli sciacalli (Balducci, Anemone e Piscicelli) ed aver dato vita a nuovi spazi di socialità e di autogestione. Sono più di 40 infatti le persone denunciate ad oggi a L’Aquila per aver provato a resistere alle politiche adottate nel postsisma dai Governi che si sono succeduti e che hanno distrutto una volta di più questo territorio. Per questo insieme alla mostra abbiamo 29 affisso per tutto il centro molti cartelli che riportavano le varie declinazioni che ha preso oggi per noi il fascismo, molte delle quali vissute direttamente sulla nostra pelle e contro cui si basa la nostra lotta politica e il nostro essere antifascisti oggi su questo territorio. Come riportavano questi cartelli per noi il fascismo oggi è, sopratutto: commissariamento, omofobia, femminicidio, repressione, speculazione, militarizzazione, divieto di assemblea nelle tendopoli, sequestro delle carriole, denunciare chi protesta. Sopra: un manifesto della Rete Antifascista aquilana. Sotto: numerosi i cittadini Più tardi come che hanno visitato la mostra curata dal nostro Alberto Aleandri rete antifascista e Anppia abbiamo partecipato all’incontro libertà, ribellione. Questo vuol dire per organizzato, sempre nel centro storico, da noi essere partigiani in una città che vive Rifondazione comunista dal titolo Partigiani una drammatica crisi sociale, economica e sempre: i valori della Resistenza tra passato, culturale. presente e futuro. Si è parlato anche qui soA notte tarda, infine, all’entrata dello pratutto dei nuovi fascismi ma anche del spazio riconquistato dell’asilo occupato, libro Indagine su un massacro. La strage dove la rete si riunisce abitualmente e in cui nazista di Onna con cui l’autore Aldo Scimia c’era un concerto, campeggiava la scritta: (ha perso parte della sua famiglia nel sisma) Antifascismo è autogestione! ha documentato l’eccidio del piccolo paesino Rete Antifascista L’Aquila, Anppia L’Aquila di Onna da parte degli occupanti nazisti, nel giugno ‘44. DA TERNI Nel pomeriggio poi, abbiamo girato per le periferie che ormai compongono per grossa Antifascismo e movimento operaio parte L’Aquila. Uno dei punti più attraversati di questa strana città trasformata dal terreIl 10 maggio l’Anppia di Terni ha orgamoto, sono le rotonde spuntate a decine dopo nizzato, presso il Palazzo Primavera, il il sisma. È qui che da tempo si usa esporre i convegno L’antifascismo e il movimento messaggi politici e gli appuntamenti che si operaio, articolato sui seguenti temi: vogliono comunicare ai cittadini-automoSignificato del 25 aprile, Il valore della bilisti. Così abbiamo appeso degli striscioni Costituzione italiana, Il movimento operaio molto grandi coprendo le scritte fatte e il ruolo avuto nella liberazione dal nazifadalle formazioni di estrema destra come scismo, Il fascismo, un terribile periodo della CasaPound e scrivendo, questa volta, cos’è storia. per noi l’antifascismo, ovvero: Resistenza, Nell’occasione si è ricordato che la no- SOTTOSCRIZIONI Giovanna De Lorenzo (Calenzano), in ricordo di Vincenzo Vanni: 100,00 stra libertà e democrazia sono frutto della Resistenza di un popolo e del sacrificio di tanti e che bisogna scongiurare il rischio di rimozione di quell’esperienza sconvolgente vissuta dal Paese per prevenire ogni possibile rigurgito di quei fenomeni che tanto costarono agli italiani in termini di libertà e democrazia. 30 Noi Nell’incontro si sono susseguiti gli interventi dell’avvocato Nicola Molè, del professor Antonio Baldassarre, del segretario della Cgil Attilio Romanelli e del professor Angelo Bitti. L’iniziativa era patrocinata da Regione, Provincia e Comune di Terni, in collaborazione con l’Uncla-Ucsa e con l’Anpi di Terni. Era presente il segretario generale dell’Anppia, Mario Tempesta. I lavori del convegno sono stati coordinati dal professor Alberto Piccioni. Erano presenti rappresentanze di studenti del Liceo Donatelli, dell’Istituto d’Arte, dell’Itis, dell’Ipsia e della scuola media inferiore Nucula. La presenza di giovanissimi della scuola media è stata particolarmente gradita e voluta perché tra le file del movimento operaio durante il ventennio fascista c’erano molti bambini che lavoravano in fabbrica come apprendisti. Si è ritenuto che tenere il convegno in un luogo pubblico – il Palazzo Primavera – sia stata una scelta felice perché lo spazio era adatto a mettere in contatto tra loro studenti di diverse discipline ed età favorendo, anche per il futuro, dibattiti e scambio fra loro e con i propri docenti. Un ringraziamento particolare va ai docenti e ai dirigenti scolastici che hanno preso parte all’incontro coi loro studenti. (Alberto Piccioni, Giocondo Talamonti) DA GUSPINI Festa della Liberazione 2013 La sezione dell’Anppia di Guspini ha organizzato una mostra itinerante in occasione della Festa della Liberazione 2013. In esposizione i pannelli su Torino: lo sciopero del marzo 1943 e I giornali clandestini della Resistenza 1943/45. Nel suo girovagare la kermesse ha toccato i centri di Arbus, Guspini e Pabillonis. La rassegna, aperta all’interno della Giovani studenti di Ternii assistono al convegno l’antifascismo e il movimento operaio sezione di Guspini, è stata visitata da diverse classi degli istituti superiori cittadini accompagnati dai loro docenti (il Tecnico Commerciale ed Industriale “Buonarroti” e il Professionale “Volta”) oltre che da numerosi cittadini. Hanno partecipato all’evento gli assessori comunali Enrica Olla e Sandro Renato Garau, il segretario cittadino del PD Paolo Serra, di SEL Francesca Tuveri e diversi rappresentanti del mondo delle associazioni di Guspini. Il 25 la mostra è stata spostata ad Arbus. Qui l’Anppia ha esposto i pannelli nella centralissima piazza mercato in collaborazione con l’associazione Enrico Berlinguer, che allietava i visitatori con le canzoni della Resistenza. Sabato 4 maggio la mostra è stata esposta a Pabillonis presso il Centro di Aggregazione Sociale. È stata visitata da numerosi cittadini e dagli alunni della quinta elementare accompagnati dalla loro maestra. Il 26 aprile il Presidente della Sezione zonale di Guspini, prof. Lorenzo Di Biase, è stato invitato dall’Università della Terza Età di La Maddalena – cittadina del Nord Sardegna che ha organizzato 3 giorni di riflessioni, dibattiti, manifestazioni varie sulla Resistenza e sulla Liberazione a tenere una conferenza sul tema L’antifascismo in Sardegna: i casi di Don Francesco Maria Giua e Costantino Nivola. (Lorenzo Di Biase) DA BOLOGNA Intitolato a Emilio Bassi un giardino cittadino Il 21 aprile 2013, anniversario della Liberazione di Bologna nel 1945, è stato intitolato un giardino all’antifascista Emilio Bassi, ucciso da una squadraccia fascista in casa sua a Sasso Marconi davanti alla moglie e ai suoi due figli il 19 Giugno del 1921. Era nato a Pianoro il 7 maggio del 1872. Di idee socialiste, faceva il vignaiolo e il macellaio. Il 31ottobre 2007 gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. L’Anppia era presente con il suo presidente, Massimo Meliconi il presidente onorario Ezio Antonioni e con Lidia Biferale. Partecipava come rappresentante del Comune di Bologna l’assessore Patrizia Gabellini. DA CATANIA ‘Fascist Legacy’ sbarca a Catania Bologna. Un momento dell’intitolazione del giardino Emilio Bassi Il 23 Aprile scorso l’Anppia di Catania, presso il salone “Sebastiano Russo” della Camera del Lavoro, ha proiettato il documentario della BBC Fascist Legacy sui crimini fascisti commessi in Africa Orientale ed in Iugoslavia. L’iniziativa è stata organizzata in collaborazione con l’Udi (Unione Donne in Italia) e con la Comunità eritrea di Catania. La collaborazione con la Comunità eritrea è scaturita dall’interesse che i suoi 31 Noi dirigenti dimostrano da sempre per la propria storia nazionale, travagliata e complessa, che inizia con l’occupazione coloniale italiana alla fine del XX secolo, passa per l’occupazione fascista, poi, dopo la 2° Guerra Mondiale, il protettorato britannico, quindi il lungo periodo dell’annessione all’Etiopia e della conseguente guerra di liberazione da parte delle forze partigiane eritree raggruppate nel Fronte di Liberazione e nel fronte di Liberazione Popolare, che sino a pochi anni addietro ha causato innumerevoli stragi in entrambe le parti, anche tra i civili eritrei, che tanto raccapriccio hanno suscitato nell’opinione pubblica mondiale ma scarso interesse da parte dell’Onu, che nella vicenda ha tenuto un atteggiamento prudente ed incerto, evidentemente subendo pressioni da parte delle superpotenze. La presenza dell’Udi è stata motivata dal fatto che questa associazione, dalla sua fondazione, si è sempre dimostrata sensibile alle tematiche antifasciste e ha ritenuto meritevole di interesse l’iniziativa anche per sostenere il progetto delle donne della comunità eritrea di Catania di costruire nel loro Paese un centro polifunzionale, la cui realizzazione è a buon punto. Ha illustrato l’iniziativa Claudio Longhitano dell’Anppia, presentatndo l’associazione e le sue finalità per la conservazione e la ricerca della memoria storica dell’antifascismo. Longhitano ha illustrato i contenuti del documentario, dove si ricostruiscono, con dovizia di documenti e testimonianze, le atrocità commesse dal fascismo in Africa orientale, anche contro la popolazione civile e contro ospedali, in particolar modo con i bombardamenti di iprite (il cosiddetto “gas mostarda”, il cui uso è proibito dal diritto internazionale) ordinati da Rodolfo Graziani, nonché le sanguinose rappresaglie seguite agli atti di resistenza della popolazione, come l’impiccagione in massa del clero copto in seguito al fallito attentato contro Graziani ad Addis Abeba. Il documentario prosegue con la ricostruzione delle atrocità commesse, nella Iugoslavia occupata, non solo dalle truppe fasciste, ma anche da parte dell’esercito regolare, circostanza che può senz’altro servire a demolire il mito, costruito nel dopoguerra dalle forze conservatrici, degli italiani “brava gente”. Sono intervenuti Giovanna Crivelli dell’Udi ed Arefayne Barachi della Comunità eritrea, che si è soffermato a lungo sulla storia di liberazione del proprio paese. Numerose le domande sulla Vercelli. Camminata sui sentieri dei partigiani storia dell’Eritrea, di cui evidentemente si conosce molto poco. Una cena eritrea, il cui ricavato sarà destinato a finanziare il progetto delle donne della comunità, ha concluso la serata. Questa iniziativa dell’Anppia è stata la prima uscita pubblica in una realtà difficile come quella di Catania, con lo scopo di far conoscere l’associazione ai cittadini e tutto sommato è ben riuscita, a conferma che per realizzare le nostre attività in realtà ostiche (quali, appunto, Catania e la provincia) dobbiamo aprirci a collaborazioni con le forze sociali e dell’associazionismo democratico, trovando forme alternative ed originali. (Claudio Longhitano) DA VERCELLI Una passeggiata sui sentieri partigiani coi giovani in Valsesia Nella giornata di domenica 28 Aprile si è tenuta una manifestazione dell’Anppia vercellese, in celebrazione del 25 Aprile. Per quest’occasione il comitato locale ha deciso di organizzare un’interessante Camminata lungo i percorsi seguiti dai partigiani durante la resistenza del 194345. La partenza da Quarona, in Valsesia e, a seguire, un percorso organizzato tra le vecchie mulattiere che si addentrano nelle boscaglie e nelle zone paludose che circondando i centri abitati. Lungo il percorso, nonostante fosse di soli pochi chilometri, c’è stato tempo anche per delle pause, in prossimità di luoghi che, durante la resistenza, sono stati protagonisti di episodi violenti e drammatici. È stata sicuramente l’occasione per riscoprire e ridare il pieno significato ai vari monumenti, targhe e cippi che contraddistinguono il panorama valsesiano. L’iniziativa è terminata nel tardo pomeriggio. Dopo un paio d’ore nelle quali è stato possibile riscoprire la storia locale, conoscere personaggi passati e, soprattutto, cercare di trasmettere alle generazioni future i valori della resistenza, dell’antifascismo e della condanna di ogni forma di rappresaglia politica. Il ricordo del sacrificio che pochi fecero in quegli anni a favore di una pluralità e molteplicità di cui siamo, senza dubbio, oggi debitori. Ricordiamo che l’iniziativa è stata organizzata assieme alla Federazione vercellese dei Giovani Democratici: in loro abbiamo trovato un interlocutore serio e propositivo; ci siamo lasciati nell’intento di organizzare altri interessanti appuntamenti, portando avanti quei valori che sono comuni a entrambi gli statuti. Un ringraziamento infine va a Gustavo Salsa, che sebbene non sia potuto essere presente durante la giornata, è stato di grande aiuto e disponibilità con tutti noi. Grazie per i consigli, la dedizione e la sua notevole esperienza. (Andrea Formaggio) DA LIVORNO I bambini nella guerra L’Anppia di Livorno ha voluto far conoscere agli studenti degli istituti secondari di primo e secondo grado esperienze reali di ferite fisiche, morali e psicologiche derivate dalla guerra, con l’ascolto di storie di vita relative al periodo del fascismo e della seconda guerra mondiale, attraverso i protagonisti della Resistenza italiana, con chi da bambino ha subito l’esperienza bellica e insieme a rappresentanti di Emergency. Con la visione di film, documentari e visite in luoghi della memoria i ragazzi hanno imparato la storia a partire dalle storie vere. Il progetto a cui le scuole hanno aderito era I bambini nella guerra: dalla shoah ai giorni nostri, nato per stimolare nei giovani l’uso di nuovi percorsi di ricerca e documentazione storica e per fare acquisire nuovi strumenti per la lettura dei conflitti passati e presenti e sulle conseguenze Noi che essi hanno sui bambini. Gli studenti si sono, così, resi conto che esistono realtà a loro sconosciute perché filtrate dai media che spesso ne manipolano il significato. I bambini sono le vittime ideali delle guerre perché rappresentano il futuro e da sempre e in tutte le situazioni hanno pagato e pagano il prezzo più elevato della follia degli uomini. Le immagini che i mass-media oggi ci mostrano, rimandano ad altre, tragiche, del passato: quelle dei piccoli prigionieri di Auschwitz o di Terezin, del Vietnam, della ex Jugoslavia fino a quelle più attuali della Siria, dell’Afghanistan e del conflitto arabo-israeliano. Sono sempre i bambini i più esposti alla violenza: privati del diritto al gioco e allo studio, mutilati da mine antiuomo, bombe, torture, abusi sessuali, malattie e fame. Tutto ciò segna la vita dei bambini di oggi, dei futuri adulti che saranno. Profonde le ripercussioni psicologiche per essere stati testimoni o aver commesso atrocità, nel caso dei bambini soldato: senso di panico, incubi perseguitano questi ragazzi per anni. Gravi le conseguenze di carattere sociale, quali la difficoltà di inserirsi in famiglia, di riprenderegli studi e il modus vivendi precedente alla guerra. «Non sono riuscito a trattenere le lacrime nel vedere le menomazioni subite da quei bambini colpiti dalle mine antiuomo» ha detto commosso Valerio dopo la visione del documentario Uomini e mine del regista Serafino Fasulo. «Ho provato forti emozioni: angoscia, orrore, tristezza per la sorte di quelle ragazze con il futuro compromesso», questo il commento di Francesca (3° C liceo) dopo il film Il segreto di Esma di Jasmila Zbanic. «Mi sono reso conto ascoltando le storie e vedendo i filmati, della piccolezza e superficialità dei nostri problemi quotidiani che sono egoistici e limitati rispetto al dolore provocato da questi eventi» sono le parole di Matteo (3° C liceo) dopo aver ascoltato Paolo di Emergency e aver visto le immagini scattate nell’ospedale di Lashkargah in Afghanistan. «Per noi è stato interessante sapere come vivevano i ragazzi della nostra età e soprattutto ho riflettuto su tutte le difficoltà che quei ragazzi hanno affrontato: paura dei bombardamenti, fame, lutti…»ci rivela Edoardo (3a media) dopo il film La notte di S. Lorenzo dei fratelli Taviani «Ascoltando le storie direttamente dalle persone che hanno vissuto la guerra da bambini, ho sentito la storia passata “viva” perché ho capito che il conflitto ha davvero riguardato esseri umani: non si tratta più di cifre, di denunce ma di persone con Gli studenti livornesi in un momento del viaggio premio a Marzabotto le loro sofferenze, le loro aspettative, le loro gioie, i loro dolori. L’impressione è stata forte». Così si esprime Irene (3° B ITC) dopo l’incontro con i testimoni della seconda guerra e della Resistenza. «Alessandro mi ha fatto venire i brividi con quelle letture!» dice Irina (3° media) dopo aver ascoltato l’attore Alessandro Vellutini che ha letto poesie e brani vari sulla storia della repressione delle libertà individuali. ALT ALL’OPPRESSIONE. Il mondo salvato dagli studenti. Occhi di bimbi sulla guerra: così ha titolato il quotidiano Il Tirreno di sabato 11 maggio, la cui giornalista Giulia Mancini ha assistito all’evento finale del progetto, che si è tenuto alla Multisala Grande di Livorno: durante la matiné si sono alternati i testimoni, i ragazzi con lettura e illustrazione dei loro prodotti finali, l’esibizione della band Jolly Cinema (formata da alcuni studenti del liceo partecipante al progetto) e il recital dell’attore Vellutini. Sono stati quindi conferiti gli attestati di merito a tutti i partecipanti e nominate le classi vincitrici del concorso il cui premio consisteva nella visita a Marzabotto. «Bisogna avere il coraggio di ribellarsi, di dire di no – è l’invito che Garibaldo Benifei, rivolge alle giovani generazioni – perché nel 1926 quando feci il mio primo sciopero alla Rinaldi ero un ragazzo come voi. Avevamo tutti fra i 12 e i 18 anni ma sapevamo che, se volevamo dei diritti, dovevamo lottare e prenderceli. La democrazia si costruisce ogni giorno, come la pace» E precisa la moglie Osman Benetti: «I giovani non sanno ed invece occorre mantenere vivo il ricordo della Resistenza e continuare a lottare contro ogni forma di oppressione». (Genny De Pas, Donatella Di Martino) l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Antonella Amendola In Redazione: Luciana Martucci SEDE LEGALE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it anppia.blogspot.com [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Guido Albertelli, Antonella Amendola, Susanna Aragno, Paolo Bagnoli, Nilo Cardillo, Lorenzo Di Biase, Claudio Longhitano, Antonino Pastore, Vincenzo Perrone, Giovanni Russo, Giulietta Rovera, Fabiana Tacente, Domenico Tarizzo TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista” Chiuso in redazione il: 18 giugno 2013 finito di stampare il: 25 giugno 2013 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954