Etica d`impresa: gioco di parole o bussola manageriale

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Etica d`impresa: gioco di parole o bussola manageriale
Etica d’impresa:
gioco di parole o bussola manageriale?
Provocazioni a margine di un’indagine
ELENA GIARETTA*
Abstract
Il lavoro prende spunto dai risultati di un indagine condotta su un campione di dirigenti
della provincia di Verona allo scopo di cogliere il grado di sensibilità delle aziende in cui
essi operano verso un approccio etico al governo dell’impresa. Sulla base dei principali
risultati della ricerca e delle riflessioni emerse in proposito durante un workshop tra esperti,
vengono lanciate alcune provocazioni scientifiche, nella veste delle seguenti domande:
“riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non lascia
spazio al pensiero? Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E
ancora, il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme? E’ davvero
impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non coerente al proprio?”. Al centro
di questo scritto si pone così lo sviluppo delle riflessioni sollecitate dalle singole
provocazioni, a partire dalla presentazione dei risultati della ricerca dai quali sono di volta
in volta scaturite. Il lavoro si chiude con un ultimo, timido interrogativo sull’opportunità di
procedere con gli studi sul sentiero finora battuto. Alcuni possibili percorsi che potrebbero
essere imboccati vengono segnalati.
Parole chiave: etica d’impresa, managerialità, finalità imprenditoriali
This work has been inspired by a survey which was carried out among a relevant sample
of managers in the Verona Province. The main endeavour was to assess the level of
sensitivity within the companies involved towards an ethical approach in enterprise
governance. During a workshop attended by experts in the field, the survey outcome was
discussed and some scientific provocations were put forward, suggesting the following
questions: “is discussing such topics a waste of time? Does managerial action leave space for
thought? In the life of an organization is the goal more important than the process? And, is
profit a goal or a means? Or both things together? Is it really impossible to stay out of a
consolidated system of values not coinciding with one’s own?” The core of this paper aims at
developing a pattern of thought prompted by each single provocation that the results of the
survey elicited. The paper closes with a humble query concerning the opportunity for the
business ethics studies to proceed on the same route. Some possible paths have been pointed
out.
Key words: business ethics, management, entrepreneurial aims
*
Associato di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Verona
e-mail: [email protected]
sinergie n. 75/08
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ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
1. Intervistando il manager: etica d’impresa, bussola manageriale?
Ancora sull’etica d’impresa. Questo, forse, il primo pensiero che legittimamente
il titolo di questo lavoro può evocare. A ben vedere, in effetti, non si può certo dire
che il tema non sia stato ad oggi sviscerato in tante delle sue dimensioni e non abbia
suscitato su più fronti numerose manifestazioni di interesse o fastidio. Ormai molto
si è detto e si è scritto, e ancora molto si continua a dire e a scrivere, con un’utilità
marginale che tende via via a ridursi. E nella vastità della produzione, scientifica e
non, come pure delle dichiarazioni aziendali, le numerose voci paiono ergersi su un
comune presupposto di fondo o convergere verso una pressoché unanime
conclusione: il riconoscimento dell’importanza del suo ruolo e della sua
considerazione a livello imprenditoriale, con l’adozione della ormai popolare
stakeholder view.
Ma, come spesso accade di fronte a tematiche che cadono nella moda - come si
ritiene sia avvenuto ormai con questa - il rischio è che il “troppo parlare” rimanga
“lettera morta”, incapace di tradurre i principi in comportamenti pratici. O peggio,
come di fatto frequentemente avviene in ambito aziendale, che si limitino le azioni
concrete ad interventi di pura facciata.
Dopo che il gigante Enron era crollato ed era divenuto in tutto il mondo l’emblema del
management irresponsabile, uno dei suoi massimi dirigenti, Jeff Skilling, affermò che il suo
compito era quello di fare “la volontà di Dio”. In precedenza, il suo Ceo, Kenneth Lay, aveva
dichiarato: “Ero e sono profondamente convinto che una delle cose più soddisfacenti della
vita sia creare un ambiente profondamente morale, dove ciascuno sia incoraggiato a realizzare
le potenzialità che Dio gli ha dato”1.
Sicché, in tutto questo ragionare e a fronte delle pratiche aziendali osservabili,
viene da domandarsi se l’etica non si sia ormai ridotta ad un semplice “gioco di
parole” o, al contrario, se possa davvero ricoprire un ruolo diventando una “bussola”
per orientare le scelte manageriali. E, in tal caso, per non inciampare in facili
pericoli di astrattezza e formalismo, in che modo ciò possa verificarsi.
Trattandosi di etica d’impresa, le figure che più di altre possono essere chiamate
in causa nel riferire un’opinione sulle sue realistiche possibilità di applicazione sono
quelle dell’imprenditore e del manager.
Il manager, può certamente essere coinvolto sull’argomento poiché, rivestendo
ruoli direttivi, potrebbe ipoteticamente farsi promotore di approcci etici, oltre che
praticarli. Forse, è ancora più adatto ad essere sentito, in quanto, a differenza
dell’imprenditore, appare meno “affettivamente” legato alla realtà aziendale,
risultando così in grado, almeno teoricamente, di esprimere una autentica e
distaccata capacità di visione e di valutazione.
E’ così che è partita l’idea di investigare il punto di vista del manager sul tema
attraverso un’indagine su un campione di iscritti alla relativa associazione di
1
Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business. Successo economico e comportamento etico, Il
Sole 24 Ore, Milano, 2007, p.4.
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categoria, Federmanager, la federazione nazionale dei dirigenti di aziende
industriali, sezione di Verona. L’obiettivo era quello di rilevare attraverso i manager
il grado di sensibilità delle aziende del campione verso un approccio etico al
governo dell’impresa2.
Contrariamente a come si usa comunemente procedere, si anticipano qui di
seguito i risultati finali. Il dirigente intervistato - per lo più maschio, di età compresa
tra i 36 e i 55 anni e inserito in imprese di medio-grandi dimensioni - ha lasciato
trasparire una amara consapevolezza del distacco tra parole e principi, da una parte,
e fatti e azioni, dall’altra. Anche in questo caso, come è accaduto per altre tematiche
quali ad esempio quella della valorizzazione delle persone, più volte si è trovato a
toccare con mano l’ampiezza del divario tra la generale consapevolezza di certi
principi e il loro concreto trasferimento all’interno dell’organizzazione.
In altre parole, il quadro che risulta dagli occhiali di lettura del manager è quello
di una realtà organizzativa che non lascia molto spazio ai valori se non a quelli del
mercato, dell’efficienza e del profitto. Ognuno dentro di sé desidererebbe anche per
l’azienda un mondo migliore e in linea di principio attribuirebbe ad un orientamento
etico un ruolo importante. Tuttavia sono parecchi gli ostacoli intravisti lungo questo
percorso, al punto che si arriva a rassegnarsi a considerare difficile, quantomeno in
tempi brevi, un serio imbocco di percorsi etici all’interno dell’azienda. L’etica,
dunque, alla fine dei conti è ancora lontana dal rappresentare per il manager una
bussola decisionale. Questo il principale risultato della ricerca.
Come detto, in modo magari un po’ inusuale, si è optato in questo lavoro per
esordire con le conclusioni. Sembra infatti più interessante soffermarsi più che sul
risultato in sé, che peraltro si poteva abbastanza ragionevolmente prevedere, sulle
riflessioni che tale risultato può provocare. Pensieri che, sulla falsariga del metodo
Delphi, sono stati generati, estrapolati e rielaborati in seguito ad uno workshop tra
esperti organizzato allo scopo.
Come è stato altrove osservato, le risposte sono “il tratto di strada che ti sei
lasciato alle spalle, solo una domanda può puntare oltre”3. Sicché, si è scelta la
strada delle provocazioni che, nella veste di domande, possono essere suscitate dai
risultati della ricerca, a partire da quello finale.
Delle domande-provocazioni prodotte dal workshop ne sono state selezionate tre.
Per ciascuna di esse viene messo in evidenza il risultato della ricerca che l’ha
provocata, rifinendo dove possibile la provocazione con supporti teoricometodologici ed esperienze.
Il lavoro si chiude con un ultimo interrogativo sulla possibile direzione degli
studi in tema di etica d’impresa.
2
3
L’indagine in questione si inquadra all’interno di un progetto più ampio che si propone di
individuare possibili vie per creare e diffondere tra le imprese veronesi una cultura della
Corporate Social Responsibility. Per una consultazione della ricerca nella sua versione
integrale si rinvia a: Elena Giaretta, Chiara Rossato, “La diffusione di un atteggiamento
etico nelle imprese della provincia di Verona. Il punto di vista del manager”, Rapporto di
ricerca a circolazione interna, Cueim-Federmanager, Verona, dicembre 2006.
Jostein Gaarder, C’è nessuno?, Salani Editore, Firenze, 1997, p. 25.
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ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
2. Provocazioni a margine dell’indagine
“Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla
sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la
ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. (…) Non
diversamente, un pensiero gettato nella mente (…) provoca una serie (…) di
reazioni a catena, coinvolgendo (…) immagini (…) e significati (…), in un
movimento che interessa l’esperienza e la memoria (…) e che è complicato dal fatto
che la stessa mente non assiste passiva (…), ma interviene continuamente, per
accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere” 4.
Anche questa ricerca ha un suo “sasso nello stagno”. I sassi per la verità
potevano essere diversi. Qui si è scelto, come detto poc’anzi, il risultato finale:
l’etica d’impresa, un gioco di parole per il manager. Gettandolo nello stagno della
mente, una serie di movimenti si scatena alla ricerca delle motivazioni sottostanti a
tale risultato. E, mentre si deposita sul fondo, risveglia pensieri, provoca domande e
accostamenti di pensiero, mette in rapporto riflessioni, fa nascere valutazioni e per
associazione genera ancora domande, pensieri, riflessioni, valutazioni, provocazioni.
Come onde concentriche che si allargano sulla superficie dello stagno, ecco
allora le provocazioni scientifiche scaturite una dopo l’altra dal lancio di quel sasso:
1.
2.
3.
Riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non
lascia spazio al pensiero?
Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E ancora,
il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme?
E’ davvero impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non coerente
al proprio?
Queste provocazioni sono anche il frutto della discussione dei risultati della
ricerca condotta durante il workshop tra esperti. L’intenzione delle prossime pagine
è quella di raccoglierle e commentarle allo scopo di proporle ad un gruppo
scientifico più allargato.
2.1 Prima Provocazione
Una prima interessante indicazione sul manager mood in materia di etica
d’impresa può trasparire dal modo in cui il campione si è formato che, riprendendo
l’immagine appena utilizzata, potrebbe personificare un sassolino depositato sul
fondo, toccato dal sasso mentre scende in profondità. Due dati e l’interpretazione è
presto fatta: 565 dirigenti contattati e un tasso di redemption pari al 10,97%. Il fatto
che soltanto 62 dirigenti su 565 abbiano ritenuto utile, o comunque non una perdita
di tempo, fornire il proprio contributo rappresenta una piccola, ma significativa, spia
del livello di attenzione che la tematica rischia di ricevere in ambito aziendale.
4
Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1973, p. 7.
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In effetti, affrettarsi ad accogliere questi dati con semplice rassegnazione
statistica rischia di essere riduttivo, soprattutto se si considera che la parte più
consistente del tempo dedicato alla ricerca è stata assorbita dalla fase di raccolta dei
questionari (11 mesi), con notevoli sforzi di sollecitazione anche da parte
dell’associazione. L’animo del ricercatore per natura intende andare oltre, alla
ricerca delle chiavi di lettura sottostanti a quello che può già essere considerato un
primo prodotto dell’indagine.
Ma prima di venire alle domande che questi numeri sollevano, è utile soffermarsi
su un ulteriore risultato a questo collegato. La percezione e la sensibilità al tema da
parte di questa porzione del mondo dirigenziale sono infatti strettamente legati al
corrispondente livello di consapevolezza/conoscenza (grado di familiarità o di
vicinanza al tema). Aspetto, questo, che con la ricerca si è potuto evidenziare
rilevando la percezione del concetto di etica e il grado di conoscenza
dell’argomento. Al riguardo, a conferma dell’indifferenza già annunciata, emerge, se
non una fredda lontananza un certo distacco. Posto che l’interpretazione del concetto
di etica si presta almeno ad una doppia lettura del suo significato5 - attiva (“fare del
bene”) e passiva (“evitare di fare del male”) -, etica significa per essi più controllo e
limitazione che azione vera e propria, sebbene via sia una parte ridotta che vi
include anche il compimento di scelte che comportino un miglioramento della
qualità della vita della comunità di riferimento (fig. 1).
Fig. 1: L’etica e il suo significato
11,29%
22,58%
9,68%
3,23%
1,61%
19,35%
30,65%
Evitare di compiere azioni dan nose (nei confronti dei lavoratori, dell'ambiente e dei consumatori)
Compiere azioni che comportino un miglioramento della qualità della vita della prop ria comunità
Aiu tare a risolvere alcuni dei problemi sociali (povertà, analfabetismo, criminalità)
Ridurre gli abusi sui diritti umani nel mondo
Contribuire a rid urre il divario tra ricchi e poveri
Imp egnarsi a fare tutto quanto sopra, nel proprio ambito in modo concreto
Risposte non regolari (contrariamente a quanto richiesto, sono state fornite più opzioni)
Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta
5
Per una maggiore approfondimento in merito alle questioni terminologiche, si rinvia a
Claudio Baccarani, Elena Giaretta, “Quesiti sull’etica d’impresa: dialogo tra il dubbio e la
conoscenza”, in collaborazione con C. Baccarani, in AA. VV., Dall'analisi economica
all'economia sociale. Scritti per Giuseppe Gaburro, Cedam, Padova, 2004.
200
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Insomma, un gruppo significativo di manager identifica ancora l’etica nella
scelta di annullare o porre limiti a comportamenti potenzialmente dannosi, al limite
dell’illegalità, con il risultato di confonderne il significato con quello della legge,
sulla cui differenza a lungo si sono profusi molti esperti, con contributi che, se
questo campione fosse rappresentativo, si dovrebbero considerare a questo punto di
scarso impatto.
Più volte è stato ribadito che l’etica aziendale richiederebbe qualcosa di più che
semplicemente evitare pratiche illegali. La norma regolamenta ciò che è conosciuto,
mentre l’etica esplora le frontiere, conducendo a guardare oltre.
Quale tassello addizionale, si potrebbe qui soltanto aggiungere che, prendendo a
prestito alcune categorie logico-concettuali del total quality management, il concetto
potrebbe declinarsi su livelli diversi, caratterizzati da gradi crescenti di impegno
etico. Al livello base vi è l’etica implicita, ovvero il rispetto delle regole. Poi
subentra l’etica attesa che implica la scelta di agire per la comunità in cui si vive. Se
la prima la si dà per scontata, la seconda corrisponderebbe al livello delle attese. Del
tutto inaspettato invece il livello più elevato, quello appunto dell’etica inaspettata,
che significa fare dell’impresa un soggetto produttore di benessere nell’interazione
con i propri interlocutori, compresa naturalmente la proprietà6.
A dispetto di queste e numerose altre considerazioni, la gestione dell’etica per
molti manager continua a fondarsi sulla necessità di evitare sanzioni legali,
rivelando in questo modo una genericità di approccio, probabilmente legata al basso
grado di familiarità al tema.
Familiarità che si abbatte ulteriormente passando dai principi agli aspetti più
operativi. Soltanto per fare un esempio, la conoscenza dell’esistenza di organismi in
grado di valutare il comportamento delle imprese, quali associazioni di consumatori
e agenzie di rating etico, la si dava per la verità abbastanza per scontata. Eppure ci si
è trovati di fronte a quasi un terzo di manager completamente all’oscuro
dell’esistenza di agenzie di rating etico. La disinformazione diventa ancora più
pesante in merito al Libro Verde sulla responsabilità sociale delle imprese, promosso
dall’Unione Europea, con un ingombrante 83% che ne ignora la divulgazione,
mostrando disinteresse rispetto ad intenti e scelte dell’Unione.
Se poi si volesse misurare il grado di familiarità sulla base della diffusione degli
strumenti a sostegno della responsabilità sociale, anche qui se ne potrebbe rilevare
una conoscenza decisamente di base, limitata a quelli più tradizionali quali la
certificazione ambientale, il codice etico e il bilancio sociale, strumenti peraltro che
stanno sempre più assumendo un ruolo di autotutela per le aziende (fig. 2)7.
6
7
Questa declinazione scaturisce dalle riflessioni di Claudio Baccarani a margine del
workshop dal titolo, Etica d’impresa: gioco di parole o bussola manageriale?
Conversazioni sulle frontiere del management, tenutosi il 10 maggio 2007 a Villa Guerina
- Montorio (VR).
In particolare, la diffusione del codice etico nelle imprese italiane sembra aver ricevuto un
forte incentivo in seguito all’approvazione del d.l. n. 231/2001 che introduce per la prima
volta nel nostro ordinamento la responsabilità delle persone giuridiche e degli enti per i
reati commessi da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o
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Fig. 2: L’adozione degli strumenti etici
4,69%
Seminari sull'etica
Ethics officer
3,13%
7,81%
Marchi verdi
32,81%
Certificazione ambientale
1,56%
Certificazione etica
17,19%
Bilancio/rapporto sociale
26,56%
Codice etico/carta valori
6,25%
Altro
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta
Il disinteresse e la disinformazione sull’argomento che questi primi dati lasciano
trasparire spingono a ricercarne le motivazioni sottostanti. Da che cosa nasce questo
atteggiamento? Su che cosa si fonda questa lontananza? Su una mancanza di volontà
di approfondire o di tempo?
Il passo dalle domande che questi dati sollecitano alle provocazioni è a questo
punto breve:
Riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non
lascia spazio al pensiero?
È noto che quegli argomenti che coinvolgono riflessioni e scelte che non hanno
un diretto e immediato impatto sui rendimenti economico-finanziari non riescono
più di tanto ad attrarre l’attenzione del manager. Tra questi, l’etica trova senza
dubbio un suo spazio “dignitoso”.
Notoriamente e letteralmente “ossessionato” dall’“incubo” delle performance a
breve, il manager sembra costretto a vivere la propria quotidianità puntando
l’attenzione più sugli aspetti operativi che su quelli strategici. Se ciò che più conta
sono i dati, le attività, i risultati, è evidente che questioni come la definizione di
valori, missione e strategie appaiono una perdita di tempo perché non immediati e
non tangibili.
In quest’ottica non esiste una strategia deliberata, ma una strategia induttiva che
inconsapevolmente risulta dalla quotidiana realizzazione delle attività. Che di
conseguenza vengono per lo più programmate e prodotte in tempo reale e in stato di
emergenza oltre che di ansia, rincorrendo quello stesso tempo che non si è avuto a
disposizione per il pensiero strategico.
direzione. La connessione con i codici etici sta nell’articolo 5 il quale precisa che l’ente
non è responsabile se prova che sono stati adottati modelli di organizzativi idonei a
prevenire reati di quella specie. Modelli tra cui i codici possono benissimo rientrare.
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ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Questa situazione è talmente acquisita nella pratica organizzativa che per
descriverla è stata utilizzata una espressione molto efficace: mindfulness trap8
ovvero la trappola di chi ha la testa troppo piena di cose da fare ed è quindi
concentrato sulle urgenze e non sulla riflessione strategica e di lungo periodo.
In quest’ambito, è facilmente comprensibile come il pensiero annaspi nel trovare
un suo spazio. Ciò anche perché l’attività mentale per sua natura è faticosa e
richiede energia, mentre l’azione risulta molto meno impegnativa e molto più
gratificante nell’immediato.
Aspetti strategici, quali l’etica d’impresa si ritiene sia, richiedono invece
pensiero, ma anche attenzione e tempo, ingredienti che sembrano essere divenuti
sempre più rari nelle attuali ricette manageriali richieste o imposte dall’economia di
mercato e dalla globalizzazione, dove la velocità appare l’unico percorso possibile
per non correre il rischio di “rimanere indietro”.
Forse in un contesto dominato dalla complessità e dall’incertezza, quale quello in
cui opera l’impresa moderna, dove assume significato sperimentare continuamente
nuovi percorsi, valorizzare l’originalità, andare contro corrente, altri approcci
possono risultare vantaggiosi. Approcci caratterizzati dalla scelta di non procedere
con la fretta che riduce la capacità di vedere e ascoltare, ma di produrre un’azione
rallentata per lasciare spazio alla riflessività dell’impresa9, affinché possa liberare le
proprie idee innovative anche sul piano etico. Ciò significherebbe nel contesto
attuale rompere gli schemi, muoversi diversamente dagli altri, differenziandosi - un
po’ paradossalmente, in un quadro ambientale dominato dalla fretta - in “lentezza”,
o perlomeno per la scelta di procedere con il ritmo giusto10.
In letteratura si stanno affacciando tentativi sempre più numerosi proiettati a
sostenere tale prospettiva, inquadrabili all’interno della corrente cosiddetta della
“Slow leadership”11.
E anche tra le aziende, c’è chi ha cominciato ad introdurre momenti di riposo
all’interno dell’organizzazione, vedendoli come una alternativa capace di accrescere
8
9
10
11
Cfr. Aaron De Smet, Mark Loch, Bill Schaninger, “Anatomy of a healthy corporation.
How can business leaders embed “healthy” thinking in the organization?”, The McKinsey
Quarterly, Web exclusive, May 2007.
Il lettore interessato al tema del tempo, può trovare originali e stimolanti spunti per
ulteriori riflessioni in Claudio Baccarani, Postfazione al testo di Federico Brunetti, Il
turismo sulla via della qualità, Cedam, Padova, 1999 e in Giocare con il tempo in azienda
ed essere più competitivi, Giappichelli, Torino, 2008.
Elena Giaretta, “Ethical product innovation: in praise of slowness”, The TQM Magazine,
volume 17, n. 2, 2005.
Cfr. al riguardo Adrian Savage, Slow Leadership. Civilizing the Organization, 2006 di cui
un estratto è disponibile sul web all’indirizzo www.changethis.org. Tra gli altri indicatori
della tendenza in atto, Bruno Cortigiani, “Sviluppare una relazione con il fattore tempo è
fondamentale…”, La Repubblica delle Donne, 28 giugno 2008 e il sito
www.vivereconlentezza.it.
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i livelli di creatività e di fertilizzare l’immaginazione12. Come pure c’è chi ha
acquisito notorietà con il motto “Walk don’t run”, promovendo uno stile di vita più
tranquillo e rilassato13.
Man mano che il sasso scende nella profondità dello stagno, smuove altri
pensieri, le onde della provocazione generata si dilatano, originando ulteriori
provocazioni.
Nella vita frenetica di un’organizzazione non c’è tempo per il pensiero. Quali
sono allora le priorità che guidano l’azione?
2.2 Seconda provocazione
Il modo di porsi di un individuo di fronte a temi quali l’etica d’impresa dipende
anche dal suo più generale way of thinking che, in ambito organizzativo, può
corrispondere al modo di intendere criteri, valori, linee guida alla base delle
decisioni aziendali.
E’ parso così opportuno valutare la posizione del manager in merito ad aspetti
più generali della conduzione aziendale che vanno dai fattori di competitività alle
finalità imprenditoriali, dalla concezione del profitto al ruolo dell’impresa.
L’impostazione che affiora mostra forti tratti di pragmatismo legati a parametri
di risultato. L’etica, tradotta nei termini di una condotta rispettosa di tutti gli
interlocutori aziendali, appare l’ultimo di una serie di fattori che possono incidere
sulla competitività dell’impresa.
I valori dominanti nelle organizzazioni e nella visione del manager sono quelli
del profitto, dell’efficienza e del mercato. Per il 38% il profitto rappresenta
decisamente più un fine che un mezzo. È vero che non si tratta della maggioranza
delle risposte. Ma il risultato sembra comunque rilevante se si considera la tendenza,
di fronte a domande di tale tipologia, a fornire risposte allineate rispetto alle
aspettative del ricercatore e della comunità in generale.
Quale logica conseguenza di un approccio mentale fortemente ancorato sui
“numeri” e sulla tradizione è l’espressione di un certo distacco rispetto
all’ammissibilità di una visione sociale dell’impresa (17,74%), dove il suo ruolo
possa andare anche oltre la semplice produzione di ricchezza per farsi carico di
alcuni dei problemi sociali della comunità in cui opera.
Il profitto come dominatore del finalismo aziendale e la natura sociale delle
imprese sono altri temi riconducibili all’etica d’impresa sui quali la letteratura si sta
ampiamente misurando. Tra i tanti contributi, possono essere qui richiamati a titolo
12
13
Esempio di una politica aziendale che riflette l’orientamento alla riduzione delle pressioni
di tempo e all’introduzione di momenti di riposo nell’organizzazione ai fini della
produzione di pensiero creativo è quello di 3M.
È l’esempio di Camper, azienda spagnola di una famiglia che produce calzature da oltre
cento anni. Cfr., al riguardo, Federico Brunetti, “La marca tra creazione di valore ed
interferenze nei valori”, relazione predisposta per il convegno di Industria &
Distribuzione, Le politiche di branding, Università degli Studi di Pisa, 14 dicembre 2002.
204
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
di esempio, nel primo caso, la teoria del “successo sociale” 14 e la “teoria delle 3P”15
e, in merito alla natura sociale delle imprese, la “teoria del contratto sociale”16, la
corporate citizenship view e l’ “orientamento comunitario”17.
Ma anche in questi casi appare abbastanza facile rilevare la distanza tra i principi
e il loro concreto accoglimento nella pratica aziendale.
L’accostamento dei risultati della ricerca con gli sviluppi dottrinali conduce ad
una provocazione sulla quale peraltro i dati hanno già fornito risposta esplicita.
Appare comunque utile richiamarla per tentare di cogliere le motivazioni di fondo
all’impostazione dominante nonché per esplorarne visioni alternative.
14
15
16
17
Si fa qui riferimento alla scala delle finalità imprenditoriali proposta da Sergio Sciarelli, in
cui il successo deriverebbe da una combinazione tra profitto, potere, prestigio, dove il
profitto ed il potere di mercato (leadership competitiva) si pongono in posizione
strumentale rispetto al prestigio (leadership sociale), vero punto di arrivo dell’attività
imprenditoriale. Per una esposizione più completa della teoria si rimanda a Sergio
Sciarelli, Economia e Gestione dell’Impresa, Cedam, Padova, 2001.
“Profitto, produttività e potere, più le cerchi e meno le trovi”, enunciata da Claudio
Baccarani in alcuni suoi scritti tra i quali “Meditazioni di un tecnico industriale
perplesso”, in Elena Giaretta, Alle origini della tecnica industriale e commerciale. Uno
sguardo al passato per contribuire al futuro, Cedam, Padova, 2003, p. 164.
Si tratta di un patto implicito tra l’impresa e la comunità con cui verrebbero definiti diritti
e doveri degli individui e delle organizzazioni produttive. Il contratto sociale possiede un
carattere tipicamente evolutivo. Così se un tempo si richiedeva all’impresa di concorrere
al miglioramento del benessere della collettività attraverso la produzione di profitto e
livelli sempre più elevati di soddisfazione dei bisogni, ora si è passati ad una visione più
complessa con cui si chiede all’impresa di perseguire anche altri fini. Sulla teoria del
contratto sociale come giustificazione teorica alla base della responsabilità sociale
dell’impresa cfr., Thomas Donaldson, “The Social Contract: Norms for a Corporate
Conscience”, in W. Michael Hoffman, Robert E. Frederick, Business Ethics. Readings
and cases in corporate morality, III ed., McGraw-Hill, New York, 1995, pp. 154-157;
Thomas Donaldson, Thomas W. Dunfee, “Toward a Unified Conception of Business
Ethics: Integrative Social Contract Theory”, Academy of Management Review, n. 2, vol.
19, 1994. Su questo punto si veda anche Lorenzo Caselli, “Etica dell’impresa e
nell’impresa”, Sinergie, n. 45, 1998.
Le argomentazioni a fondamento di tale impostazione si rifanno per lo più
all’interrelazione dell’impresa con il sistema sociale e al suo connesso “dovere di
gratitudine” per l’accesso ai beni pubblici. In altri termini, anche le imprese appaiono
“cittadine” all’interno della comunità con il connesso obbligo di concorrere a risolvere i
problemi sociali. Su questa impostazione cfr., tra gli altri, Sergio Sciarelli, “Il governo
dell’impresa in una società complessa: la ricerca di un equilibrio tra economia ed etica”,
Sinergie, n. 45, 1998; Richard J. Klonoski, “Foundational Considerations in the Corporate
Social Responsibility Debate”, Business Horizons, July-August, 1991; Norman Bowie,
“New Directions in Corporate Social Responsibility”, Business Horizons, July-August,
1991, Claudio Baccarani, Elena Giaretta, “Evoluzione degli orientamenti d’impresa e
scelte etiche di marketing”, in U. Collesei, J.C. Andreani, a cura di, Atti del Convegno
Internazionale, Le tendenze del Marketing in Europa, Venezia, Università Ca’ Foscari,
24-25 novembre 2000.
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205
Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E ancora,
il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme?
Al riguardo da tempo si parla di visioni manageriali di tipo “short-termista”,
dove affermare che l’obiettivo è prioritario rispetto al processo appare a dir poco
scontato. Da osservatori esterni, è facile assumere posizioni critiche rispetto a tale
impostazione. Ma per non incorrere in eccessive semplificazioni di una realtà ben
più complessa, occorrerebbe provare a comprendere gli aspetti che hanno concorso
più o meno direttamente a generarla.
Tra questi, potrebbe essere ad esempio di una certa utilità richiamarne le origini
storiche, legate allo spostamento di potere verificatosi nel corso degli anni Ottanta
verso i grandi investitori istituzionali. Il “capitale impaziente”18, cosiddetto per le
pressanti richieste di risultati trimestrali o comunque di breve periodo, potendo
decretare con le proprie scelte di investimento la sopravvivenza o la fine di
un’impresa, cominciò ad esercitare una pressione esplicita sul management che
maturò in questo modo il convincimento che l’unica linea di azione possibile fosse
quella di sottomettersi a tali strette. Ciò ha dato luogo a comportamenti diffusi quali
quelli di rinunciare ad investimenti dannosi per le performance a breve, ma
importanti per la conservazione del valore dell’impresa nel lungo termine.
Contributi alla visione short-termista, soprattutto sulla scena americana, sono
scaturiti dalle più recenti condizioni economiche, che hanno costretto molte imprese
alla ricerca della pura sopravvivenza, nonché dal quadro normativo che, assorbendo
i manager con una vastità di nuove regolamentazioni, soprattutto in tema finanziario,
li ha sottratti dal loro ruolo di “traghettatori” dell’impresa sui percorsi futuri. Ruolo
che anche la progressiva riduzione del tempo medio di durata delle cariche del top
management ha certamente concorso a far venir meno19.
Lo shareholder value si è confermato così l’“imperativo categorico” delle scelte
manageriali, con l’equivoco di fondo che il suo perseguimento richiedesse una
focalizzazione esclusiva sul miglioramento delle short-term performance,
impedendo la valutazione di non meno importanti questioni e opportunità ai fini
della continuità dell’impresa, inclusa la considerazione delle attese sociali.
Ma, se è vero che i mercati finanziari attribuiscono valore ai risultati a breve è
pure vero che lo fanno anche perché essi rappresentano la prima informazione
disponibile per valutare la solidità di un’impresa e quindi le performance di lungo
periodo. Ed è pur vero che sono le aspettative di rendimenti futuri a determinare
prevalentemente il valore del mercato azionario.
In altre parole, i mercati si attendono risultati soddisfacenti nel breve termine, ma
allo stesso tempo includono nelle loro valutazioni le aspettative di rendimenti futuri.
È quella che si potrebbe definire short term trap20, un’altra trappola con cui si deve
misurare il manager oggi.
18
19
20
Cfr. Richard Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna, 2006.
Cfr. Ian Davis, “How to escape the short-term trap”, McKinsey Quarterly, Web esclusive,
April 2005.
Ibidem.
206
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Sicché se all’operatore aziendale appare del tutto naturale, legittimo e soprattutto
necessario sottoporre le proprie scelte alla logica del “criterio trimestrale”,
andrebbero allo stesso tempo considerati poli ideologici alternativi dove il profitto,
senza perdere la propria importanza e pur continuando a rappresentare una misura
critica del successo aziendale, non appare l’unico valore. Quasi in una visione zen,
comunque al di fuori del tracciato canonico dell’economia aziendale, il profitto
potrebbe essere visto non più o non solo come obiettivo da inseguire a tutti i costi,
ma come risultato dell’attenzione riservata oltre che ad aspetti “hard”, anche a
prospettive più immateriali, quali, ad esempio, reputazione, fiducia, conoscenza,
coesione e valori. Aspetti sui quali si regge appunto la costruzione delle
performance future.
“Non si può (…) prescindere dai numeri. I numeri riflettono la capacità di un’azienda di
competere con successo. E non ci può essere successo senza che i numeri, siano essi
rappresentativi della quota di mercato, del fatturato o del profitto, lo evidenziano in modo
chiaro. Il limite dei numeri però è di parlare del passato di un’azienda o tutt’al più del
presente. Di fatto, per valutare la realtà di un’impresa, è necessario considerare anche altri
indicatori, quali l’immagine e la reputazione della marca, la soddisfazione dei clienti, la
capacità di innovare, la soddisfazione delle persone che lavorano in azienda. A guardare bene
sono più questi i fattori che garantiscono che un’impresa possa avere successo nel futuro”.
(Paolo Braguzzi, amministratore delegato Davines)
Peraltro, il piacere di costruire qualcosa che cresce di valore e il senso di
autorealizzazione che ne deriva conferiscono una motivazione ben superiore rispetto
al semplice tornaconto. Il che può essere fatto corrispondere al bisogno di significati
personali tipico del capitalismo contemporaneo, dove per motivare e giustificare le
scelte fatte “si cerca qualcosa che possa coinvolgere e dare soddisfazione al di là del
denaro. Qualcosa, cioè, che abbia senso, prima di tutto, come misura e sviluppo
della propria identità”21.
Allineati su questa posizione si possono ritrovare esponenti del mondo
accademico, ma anche consulenziale22 e aziendale (le imprese ultracentenarie
italiane e le 18 aziende americane più ammirate, cosiddette visionary companies23).
Anche una piccola e particolare porzione del campione, quella dei manager in
21
22
23
Cfr. Enzo Rullani, La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza,
Carocci, Roma, 2004, p. 240.
Cfr al riguardo la posizione del direttore generale di McKinsey, Ian Davis, che riconosce
un ruolo sociale all’impresa in forza di un contratto sociale tra questa e la comunità. Si
suggerisce in proposito la lettura di “What is the business of business”, The McKinsey
Quarterly, 3, 2005.
Cfr., per le ultracentenarie, Elena Giaretta, Vitalità e longevità d’impresa. L’esperienza
delle aziende ultracentenarie italiane, Giappichelli, Torino, 2004 e, per le visionary
companies, James Collins, Jerry Porras, Built to Last: Successful Habits of Visionary
Companies, Random House Business Books, London, 2000. In questi casi, il profitto non
appare mai un valore dominante e all’impresa viene attribuito un ruolo sociale. Le aziende
ultracentenarie italiane, poi, individuano nel prestigio la primaria finalità imprenditoriale,
seguita dal potere di mercato e dal profitto che assume, così, un ruolo strumentale.
ELENA GIARETTA
207
pensione, che in quanto iscritti all’associazione hanno partecipato alla ricerca, ha
delineato un interessante elemento di scostamento rispetto alla visione dei colleghi
più giovani. Precisamente, colpisce la loro percezione di costi e profitto più come
strumenti gestionali o come logica conseguenza di scelte e comportamenti vincenti
che come obiettivo da perseguire ad ogni costo. L’atteggiamento che esprimono
appare molto più distaccato dai numeri quasi che una lunga esperienza sul campo
avesse portato a maturare convincimenti contrari a quelli che avevano da sempre
contraddistinto la loro vita professionale, ma che non avevano potuto emergere
prima in quanto soffocati dalle pressioni della routine quotidiana che spesso, come
visto, impediscono di guardare verso orizzonti più lontani. Orizzonti che potrebbero
accogliere tante possibili immagini dell’impresa magari capaci di generare risultati
migliori.
Fino a questo punto la sembianza del manager che progressivamente si sta
delineando è quella di una persona che non riesce a pensare, perché travolto dalla
quotidianità (prima provocazione) e assorbito dalla preoccupazione dei rendimenti a
breve (seconda provocazione). E’ possibile che il manager riesca ad affrancarsi da
questa situazione? Questo è l’interrogativo che i movimenti generati dal sasso fanno
affiorare. Ciò conduce alla terza provocazione.
2.3 Terza provocazione
Accade - e si parla di una importante maggioranza delle testimonianze - che
vivendo all’interno delle organizzazioni ci si possa trovare obbligati ad assumere
comportamenti contrari ai propri principi, piegandosi al peso di un meccanismo più
grande che costringe a “mandare la propria coscienza in soffitta”. Una larga
maggioranza degli intervistati sostiene di essersi trovato in questa circostanza
almeno una volta (il 58,06% qualche volta, l’8,06% una volta soltanto) (fig. 3).
Fig. 3: Assunzione di comportamenti contrari al proprio sistema di valori
Spesso
0,00%
Qualche volta
58,06%
Una Volta
8,06%
Mai
33,87%
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta
Quasi un terzo ritiene infatti difficile, se non impossibile, contrapporsi ad un
sistema troppo profondamente radicato, sebbene lasci sperare la posizione di tutti gli
altri che lo ritengono invece concepibile, oltre che doveroso (fig. 4).
208
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Curioso sarebbe stato approfondire con quali modalità gestire il problema, al di
là della soluzione drastica delle dimissioni segnalata e vissuta da un singolo
elemento del campione.
Fig. 4: Possibilità del manager di opporsi all’attuazione di comportamenti non etici
25,81%
E' neces s ario
43,55%
E' pos s ibile
29,03%
E' difficile
1,61%
E' im pos s ibile
0%
10%
20%
30%
40%
50%
Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta
Risultati interessanti sono emersi anche di fronte alla situazione in cui dovesse
essere un collega o un collaboratore a comportarsi in modo poco etico. Si tratta del
cosiddetto whistle blowing (letteralmente “soffiare nel fischietto”), ovvero denuncia
del comportamento scorretto di un compagno di lavoro, problema sul quale peraltro
anche la letteratura si è largamente diffusa.
A fronte di un 53,23% degli intervistati verosimilmente “politically correct” che
provvederebbe a licenziare o farebbe licenziare la persona in causa, una percentuale,
sebbene inferiore, comunque rilevante e pari al 33,87% rivela di non sapere a priori
quale atteggiamento adottare (fig. 5). Il 12,90% degli intervistati, invece, in una
sorta di omertà, non prenderebbe alcun provvedimento.
Fig. 5: Volontà/possibilità di licenziamento di dipendente/collega
che ha assunto una condotta non etica
Non so
33,87%
Si
53,23%
No
12,90%
Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta
ELENA GIARETTA
209
Allora, è davvero impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non
coerente al proprio?
Qui potrebbe essere richiamata la tesi di una radice organizzativa della condotta
individuale, cioè dell’influsso di fattori organizzativi sui comportamenti degli
individui. Ne è diretto sostenitore tutto il filone dell’ethical decision making24, volto
ad analizzare le variabili che nelle loro reciproche interazioni caratterizzano il
processo decisionale etico.
Obiettivi irrealistici, sistemi di incentivo perversi, mancanza di controlli,
inadeguata formazione, mancanza di leadership etica, ecc. sono solo alcuni esempi
di fattori organizzativi in grado di determinare o meno decisioni etiche, a volte
anche indipendentemente dai personali convincimenti.
Diverse sono le circostanze che possono spingere un individuo ad agire in modo
contrario alle proprie convinzioni etiche. Per esemplificare, pratiche di vendita
perverse possono essere il risultato dell’introduzione in azienda di nuovi sistemi di
incentivo per i venditori. Il comportamento immorale di un manager, poi, può essere
favorito dalla considerazione dei costi personali e dalla mancanza di tempo per
acquisire informazioni essenziali alla decisione etica. O, ancora, la preoccupazione
di realizzare un certo profitto per l’anno in corso può spingere a trascurare
un’informazione relativa alla vendita di un prodotto adulterato. Anche i leader
riconosciuti possono influenzare in un senso o nell’altro i comportamenti dei
dipendenti, a prescindere dalla sensibilità di quest’ultimi per i problemi etici.
Ma se è vero che sono spesso i fattori organizzativi a favorire decisioni
immorali, è anche vero che gli individui possiedono un proprio livello di sviluppo
morale che dovrebbe indurli ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte a
prescindere dalle pressioni organizzative. Sicché i framework interpretativi del
filone citato ammettono la reciproca interazione tra fattori personali e situazionali (o
contestuali).
Di fatto, sebbene in linea di principio la decisione possa essere il frutto di fattori
che riguardano in parte l’organizzazione e in parte i singoli individui, non raramente
accade che ci si senta costretti ad agire nel solo modo imposto dall’organizzazione,
come se questa non lasciasse scampo, se non quello di separarsi dall’azienda. I
numeri rilevati ne sono una diretta dimostrazione. In tal modo, all’atto pratico, la
responsabilità della decisione più o meno etica rischia di essere attribuita in modo
quasi esclusivo in capo all’organizzazione.
24
Tra i contributi di ormai storico riferimento per questo filone si possono qui ricordare
Linda K. Trevino, “Ethical Decision Making in Organizations: A Person-Situation
Interactionist Model”, Academy of Management Review, vol. 11, 1986; O.C. Ferrell, L.G.
Gresham, “A Contingency Framework for Understanding Ethical Decision Making in
Marketing”, Journal of Marketing, vol. 49, Summer, 1985; David J. Fritzsche, “A Model
of Decision-Making Incorporating Ethical Values”, Journal of Business Ethics, n. 10,
1991; T.M. Jones, “Ethical Decision Making by Individuals in Organizations: An IssueContingent Model”, Academy of Management Review”, vol. 16, n. 2, 1991; K.C. Strong,
G.D. Meyer, “An Integrative Descriptive Model of Ethical Decision Making”, Journal of
Business Ethics, n. 11, 1992.
210
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Da questo punto di vista l’etica d’impresa finisce con l’essere considerata come
una questione che investe più la sfera organizzativa che quella personale. Ma questo
modo di pensare non appare privo di rischi. La sensazione, infatti, è che questo
atteggiamento mentale possa in non rari casi finire col rappresentare una sorta di
paravento, o peggio di alibi, dietro cui nascondersi o dietro cui giustificare condotte
che diversamente, sul piano personale, non verrebbero mai messe in atto. Con la
conseguenza, in una sorta di sdoppiamento della personalità, di non riconoscersi più
diretti responsabili delle proprie azioni nel momento in cui viene varcata la soglia
dell’organizzazione. Non è più l’“individuo-dott. Jeckyll” ad agire, ma
l’“organizzazione-mr Hyde” (“effetto paravento” dell’organizzazione).
D’altra parte, da tempo gli studiosi hanno evidenziato l’esistenza di una
correlazione tra la percezione della possibilità di controllo sugli eventi (il cosiddetto
locus of control) e la probabilità di assunzione di responsabilità per le conseguenze
dei propri comportamenti. Così, nel caso di locus of control esterno all’individuo,
nella fattispecie riposto sull’organizzazione quale entità scissa dall’individuo stesso,
la tendenza sarebbe quella di sentirsi non responsabile o comunque autoassolto.
Certo non si ritiene con queste di aver esaurito tutte le possibili provocazioni.
Chissà quante altre ancora, “nuotando sott’acqua”, possono essere smosse e
affiorare. La scelta di fermarsi qui non va vista dunque come un punto di arrivo.
L’intento e il desiderio, ma anche l’auspicio, è quello di far sì che vengano raccolte
e rilanciate come nuovi sassolini nello stagno della comunità scientifica.
Per il momento, sempre ispirati da questa logica, ci si limita a chiudere queste
prime riflessioni con un ultimo, timido interrogativo sui possibili percorsi che alla
luce delle considerazioni contenute in questo lavoro potrebbero essere imboccati sul
terreno dell’etica d’impresa.
3. L’etica possibile: l’esperienza del flusso di coscienza
Un manager rapito dalla quotidianità, che poco conosce in materia di etica, forse
nemmeno sa che cosa questa significhi nella sua essenza più profonda, appiattito sui
valori del profitto, dell’efficienza e del mercato, che vede l’impresa come entità, se
non esclusivamente, prevalentemente economica, costretto a sottomettersi ai valori
dell’organizzazione anche se non coerenti ai propri, questi i lineamenti essenziali di
un profilo, un po’ spigoloso, che ha preso forma, pennellata dopo pennellata, con
l’indagine.
Usando un’immagine un po’ colorita ma efficace, il ritratto del manager che
viene dipinto sembra quello di una “persona in trappola”: travolto da un attivismo
che soffoca il pensiero (mindfulness trap) e ossessionato dalla ricerca spasmodica di
risultati immediati (short term trap), ma allo stesso tempo chiamato alla costruzione
del futuro dell’impresa al quale in questo modo non riesce a contribuire, anche
perché convinto di essere vincolato dall’organizzazione nella assunzione di scelte in
piena autonomia di coscienza (“effetto paravento” dell’organizzazione).
ELENA GIARETTA
211
Peraltro non è detto che questa posizione sia poi più di tanto scomoda. Non è
forse più facile agire che pensare? Far parte di un programma che detta le azioni da
compiere, fare, pensare e sentire in modo prevedibile? Farsi trascinare dal flusso
della routine?
Comunque sia, che lo accetti o meno, il manager si sente schiacciato da
meccanismi organizzativi che incoraggiano più ad agire che a riflettere - soprattutto
su questioni che non hanno un diretto ed immediato impatto sui risultati - e che
rendono difficile farlo facendo ricorso al proprio dna valoriale. E’ evidente come
questa condizione non sia esattamente la migliore per recepire il significato più
profondo dell’etica. In questa cornice, infatti, diventa quasi inevitabile per il
manager finire per considerare le dichiarazioni aziendali che sempre più numerose si
sollevano a suo sostegno come un mero gioco di parole.
Al momento, l’etica per il manager sembra dunque una meta non solo lontana
dal proprio raggio di azione, ma anche sulla quale non ha mai avuto più di tanto
occasione e possibilità di riflettere.
Ciò anche perché egli, al di là di tutte le trappole in cui si trova imprigionato,
sempre secondo le dichiarazioni raccolte con l’indagine, non sembra trovare su
questo fronte un adeguato incoraggiamento da parte dell’imprenditore. Se infatti si
dibatte di etica o di concrete problematiche etiche in impresa è soprattutto grazie
all’iniziativa del manager o piuttosto di altri collaboratori, mentre l’imprenditore
appare al riguardo alquanto assente25, forse anche per effetto della grande
dimensione delle realtà aziendali cui i nostri manager partecipano, che certo non
agevola l’adozione da parte dell’imprenditore o comunque del gruppo
imprenditoriale di modelli di tipo “management by wandering around”,
letteralmente “gestire girellando”26.
In definitiva, ciò che la ricerca, sia pur certamente con parzialità di visione, ha
messo in luce è ancora una certa distanza da parte del mondo aziendale rispetto al
concreto trasferimento di dichiarazioni di principio, al punto che, ancora una volta
un po’ provocatoriamente, verrebbe quasi da interrogarsi sulla stessa ammissibilità
del tema. Se numerosi sono gli ostacoli intravisti lungo questo tragitto, viene da
chiedersi se tra questi non vi sia anche una distorsione nella corretta acquisizione del
concetto. Il rischio, infatti, in molti casi è che l’etica venga respinta perché recepita
nella sua essenza più ideale, assoluta e, in tal modo, comprensibilmente considerata
di difficile introduzione in ambito aziendale. In questa prospettiva diventa
inevitabile una sua delegittimazione dal punto di vista pragmatico, di fatto
esautorandola del suo effettivo potenziale di guida nelle decisioni aziendali.
25
26
L’iniziativa appartiene al manager nel 57,81% dei casi, mentre l’imprenditore sembra
intervenire assai più raramente (15,63%). Si segnala poi un 8,06% secondo cui tali
questioni vengono affrontate costantemente. Ma ci sono anche casi (12,90%) in cui non ci
si è mai trovati a dibattere in termini etici.
Si tratta di essere visibilmente presenti in azienda, muovendosi tra i suoi locali per
raccogliere sensazioni, movimenti ed emozioni, rimanendo in contatto continuo con ciò
che accade sul campo. Sul management by wandering around o surveillance management
cfr. Henry Mintzberg, “Gestire l’eccezionalità”, Sviluppo & Organizzazione, n. 193, 2002.
212
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Esiste allora un’etica possibile per l’azienda e, in tal caso, che tipo di etica
dovrebbe essere?
Come detto, l’etica idealizzata non può trovare spazio in ambito aziendale.
L’etica d’impresa, per definizione, non può essere un’etica assoluta che prescinde
dal contesto di applicazione. Questo canone di comportamento obbligherebbe infatti
l’organizzazione a farsi carico di qualsiasi istanza proveniente dagli interlocutori,
anche se tale da nuocere alla sua capacità di produrre reddito, sia pur in un arco
temporale non breve, che rimane sempre un connotato distintivo dell’impresa e una
condizione ineludibile per garantirne la continuità.
Dunque non un’etica assoluta, ma un’etica relativa, pragmatica, proiettata alla
ricerca di comportamenti moralmente giusti, ma che al contempo non
compromettano l’esistenza dell’impresa. Da questo punto di vista anche la scelta di
chiudere uno stabilimento può rispondere ad un criterio decisionale etico nella
misura in cui diventi fondamentale per assicurare la continuità dell’impresa. Fatto,
questo, d’altra parte, che possiede anche una sua rilevanza etica. La sopravvivenza
dell’impresa, infatti, non riguarda solo l’imprenditore o la proprietà aziendale, ma
coinvolge anche i lavoratori, le loro famiglie e la collettività tutta. L’etica cui ci si
riferisce è dunque un’etica che porta ad agire per il bene comune.
L’etica cui ci si riferisce non va nemmeno confusa con una buona attività di
marketing o di gestione del rischio dove il criterio etico scaturisce da una oculata
analisi del contesto ambientale e appare subordinato ad una logica di tornaconto
economico. Questo è un approccio che mostra delicati lati deboli: è difficile da
mantenere nel tempo e può mettere a repentaglio la reputazione dell’impresa nel
caso in cui emerga la contraddizione con la vera identità d’impresa.
L’etica cui ci si riferisce non risulta da un preciso ragionamento, ma è il frutto di
un processo spontaneo, naturale. Traspare dai gesti quotidiani.
In termini filosofici corrisponde alla cosiddetta virtue ethics27, secondo cui certe
scelte si compiono non tanto per il loro risultato utilitarista, ma perché fanno parte di
ciò che significa “essere una persona”, perché sono misura e sviluppo della propria
identità. Secondo questa impostazione, sebbene il comportamento etico possa
consentire anche il conseguimento di risultati economici, l’agire virtuoso è la vera e
propria ricompensa. Sarebbe come dire che lo studente che si applica con disciplina
per l’apprendimento di uno strumento musicale probabilmente conseguirebbe voti
elevati all’esame finale di corso, ma il premio più grande consisterebbe nella
capacità di esprimersi musicalmente a livelli sempre più elevati.
Gli psicologi parlano in proposito di “esperienza di flusso di coscienza”28 ovvero
di pieno coinvolgimento, di piena immersione nell’esperienza. L’esperienza del
flusso di coscienza si manifesta di fronte a sfide elevate e in quanto tale si addice
all’agire etico. L’agire etico può diffondere una soddisfazione di questo tipo; può
27
28
Per l’impostazione originaria è possibile vedere Aristoteles, Ethica nicomachea,
Clarendon Press, Oxford, 1962. Allo studio della virtue ethics si è dedicato in modo
particolare il filosofo contemporaneo Alaisdair McIntyre per il quale si può fare
riferimento a After Virtue, University of Notre Dame Press, New York, 1961.
Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business, op. cit.
ELENA GIARETTA
213
coinvolgere le persone al punto da fluire senza sforzo, sospinto da una corrente di
energia. Ancora una volta in una prospettiva zen29, ciò che coinvolge e fornisce un
appagamento interiore non è l’obiettivo, ma le varie mosse che si compiono per
conseguirlo. Una eccessiva preoccupazione per il raggiungimento dell’obiettivo
finale spesso interferisce con la performance. Se un tennista pensa soltanto a vincere
l’incontro non sarà in grado di rispondere ai potenti servizi dell’avversario. Come
dire, ciò che conta è il viaggio per arrivare a destinazione.
Dunque, agire eticamente, a differenza di quelle azioni che vengono compiute in
previsione di un certo corrispettivo o per evitare di essere puniti (esoteliche), è
intrinsecamente gratificante, poiché la ricompensa principale che se ne ricava è
semplicemente il fatto di compierle.
Lavorare con piacere e sentirsi in armonia con sé stessi, è questo il risultato, e
non soltanto il profitto, ad esprimere la vera misura del guadagno generato.
In sintesi, ecco le caratteristiche dell’etica possibile:
-
è un’etica pragmatica, proiettata alla ricerca di comportamenti moralmente
giusti, ma che al contempo non compromettono l’esistenza dell’impresa;
fluisce senza sforzo e spontaneamente (scompare la distinzione tra pensiero e
azione);
non si fonda su criteri di convenienza;
risponde ad una logica di ricerca di senso e di pieno coinvolgimento;
è autotelica, ovvero intrinsecamente gratificante nel senso che il compenso
principale che se ne ricava è semplicemente il fatto di agire eticamente.
Il manager guidato da questo tipo di senso etico agisce come se l’impresa
dovesse perdurare a lungo, per almeno cento anni.
“Recentemente ho incontrato Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, un’azienda che
produce articoli per il tempo libero. Il suo ufficio era sistemato in un edificio con decori a
stucco e tinte pastello, nascosto fra eucalipti e jaracande, in una tranquilla posizione alla fine
di un vialetto. All’interno gli spazi erano semplici e rilassanti, con mobili classici di legno
massiccio, grandi vetrate e qualche felce che pendeva dalle travi a vista. I dipendenti, in
pantaloni corti e sandali, che si muovevano fra gli uffici sembravano perfettamente a loro
agio, come se stessero passando dalla cucina alla stanza da letto di casa loro. (…) Di tanto in
tanto le risate di bambini salivano dall’asilo nido al pianterreno. Mi complimentai con
Chouinard per il bel posto che era riuscito a ritagliare da un edificio industriale abbandonato,
vecchio circa di un secolo. “Sì - rispose - nessuno costruisce qualcosa del genere se ha
intenzione di quotarsi in Borsa entro tre anni, incassare e sparire. Perciò cerchiamo di agire
come se questa impresa dovesse stare qui altri cent’anni””30.
29
30
Sulla prospettiva zen in ambito manageriale può essere utile riferirsi a: Vittorio
Mascherpa, “Lo zen e l’arte di vivere il tempo di lavoro”, in Claudio Baccarani, a cura di,
Giocare con il tempo in azienda ed essere più competitivi, Giappichelli, Torino, 2008.
Cfr. Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business, op. cit., p. 10.
214
ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
Approccio, questo, ben diverso, come si è visto, da quello descritto con
l’indagine o comunque da quello tipico del manager per antonomasia che, in
contrapposizione, potrebbe invece essere definito “manager per un giorno o per
un’ora”31. Il “manager per cent’anni” mostra invece un profilo alternativo i cui tratti
appaiono in sintesi i seguenti:
-
ha una visione di lungo termine;
considera il pensiero importante almeno quanto l’azione;
non vive nel terrore di affrontare periodicamente la relazione trimestrale;
ha padronanza del proprio tempo;
difende la propria integrità, ovvero la possibilità di vedere rispettati i propri
valori e se stesso come persona da parte dell’organizzazione;
sente la responsabilità del suo lavoro;
rimane in carica per un periodo di tempo ragionevole;
trova piacere e divertimento nel lavorare;
cerca di fare del proprio meglio, nel convincimento che non sono i finanziamenti
a determinare il suo successo, ma l’idea di migliorare il modo di fare le cose;
aiuta gli altri, mostrando interesse per la gente e per il valore dei rapporti;
cerca di costruire un mondo migliore, con un senso di responsabilità che si
estende alla comunità.
La presenza di questi elementi - al limite della vocazione - trasforma l’impresa
da strumento per la realizzazione di profitto a “creativo esperimento umano che mira
a migliorare la vita”32. Anche realizzare profitti migliora la vita, ma con un beneficio
limitato ad un ristretto numero di persone che non necessariamente per questo – per
il cosiddetto “paradosso della felicità”33, ovvero la correlazione negativa tra
ricchezza e felicità individuali - potrebbero sperimentare un sensibile innalzamento
della qualità della vita. Più che di un manager, sembra il profilo di un leader
visionario, ma non per questo irreale. Gestire le organizzazioni in modo da
realizzare un profitto soddisfacente e ragionevole, ma soprattutto contribuendo al
benessere delle persone è possibile proprio per il fatto e nella misura in cui se ne può
ricavare un piacere intrinseco.
Per chiudere tornando alla questione iniziale, una sensazione ormai piuttosto
diffusa è che in tema di etica d’impresa si sia ancora rimasti sul piano delle
speculazioni teoriche o delle dichiarazioni di principio, senza essere più di tanto
riusciti a modificare effettivamente - almeno in parte - i comportamenti della
maggior parte delle imprese. I risultati della ricerca presentata in questo lavoro ne
31
32
33
Ibidem, p. 11.
Ibidem.
Cfr. Richard A. Easterlin, “Does Economic Growth Improve the Human Lot?” (1974) in
Paul A. David and Melvin W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth:
Essays in Honor of Moses Abramovitz, New York: Academic Press, 1974. Sullo stesso
tema cfr. anche Mihalyi Csikszentmihalyi, “If we are so rich, why aren’t we happy?”, The
American Psychologist, n. 54, 1999.
ELENA GIARETTA
215
sono diretta seppur parziale testimonianza. Segnali di cambiamento vi sono, ma
nella maggioranza dei casi si tratta di cambiamenti apparenti, caratterizzati da abili
operazioni di relazioni pubbliche, destinati alla lunga a rivelarsi in tutta la loro
fragilità.
In questa cornice diventa legittimo interrogarsi, se non proprio sull’opportunità
di continuare a procedere con gli studi lungo il sentiero finora percorso, quantomeno
sulle reali possibilità che, sia pur in un tempo lungo, prima o poi le dichiarazioni di
principio possano essere tradotte in comportamenti pratici. Le imprese che si stanno
avvicinando a criteri diversi sono indubbiamente poche, veri e propri “casi”. Ma
esistono. A solo titolo di esempio potrebbe essere richiamato il caso di una giovane
e dinamica impresa italiana: la Davines spa, produttrice di cosmetici professionali.
Nel riquadro che segue è richiamato il suo modo di intendere e di vivere l’etica. Tra
i numerosi elementi di riflessione che se ne potrebbero ricavare, si vuole portare
l’attenzione su due aspetti. Innanzitutto colpisce il significato attribuito alla ricerca
etica come possibilità di “vivere un’esistenza piena e degna di essere vissuta” (cura
di sé). In questa visione trova così implicita ma piena conferma il modello
dell’esperienza di flusso. In secondo luogo, il framework descritto sembra radicarsi
su un’idea nuova per l’impresa, della quale finora non si è fatto cenno, sebbene
esprima buona parte del profilo del “manager per cent’anni”. Ci si riferisce al senso
del dono implicito nella scelta di prendersi cura degli altri e dell’organizzazione, in
una parola al concetto di generosità, un sentiero innovativo in tema di etica di
impresa, sul quale alcuni studiosi stanno iniziando ad avventurarsi34.
Un caso di etica possibile
Che cosa intendiamo quando parliamo di etica
(…) non parliamo di obbligatorietà, ma di un auspicio, di una ricerca (…), a raggiungere tre
obiettivi: la cura di sé, la cura dell’altro e la cura dell’organizzazione in cui si vive e si lavora.
Cura di sé
La ricerca etica si propone di rendere ciascuna persona responsabile, capace cioè di farsi
carico e di rispondere delle proprie libere scelte. (…). Vuole permettere alla vita di ciascuno
di radicarsi nei propri valori vitali. Spera di far giungere a maturazione e a compimento le
possibilità che ciascuno di noi ha di vivere un’esistenza piena e degna di essere vissuta.
Cura dell’altro
La ricerca etica si sviluppa con e per gli altri. (…) ci fa dirigere verso gli altri. Si fonda
sull’accorgersi di loro (…). Sul riconoscimento dell’altro come simile a noi. (…).
Cura dell’organizzazione
(…)Possiamo essere etici attraverso l’elaborazione di giusti canali comunicativi e di corretti
meccanismi organizzativi, che consentano (…) un’equa distribuzione di diritti e doveri, (…),
responsabilità e soddisfazioni. Per garantire a noi stessi, agli altri, all’azienda pienezza
d’essere e armonico sviluppo.
(Da Davines Carta Etica)
34
Ci si riferisce in particolare ai recenti studi di Claudio Baccarani tra i quali può essere un
utile riferimento la lettura di “What does ethical behaviour mean in management
activities”, Total Quality Management, vol. 20, n. 2, 2008.
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ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE?
I casi per così dire anomali che si è avuto modo di conoscere direttamente o dei
quali si è venuti indirettamente a conoscenza sembrano possedere un elemento
ricorrente. Il cambiamento davvero autentico ed efficace è quello che deriva non
tanto da una pressione ambientale esterna, quanto soprattutto da una pulsione interna
rispondente ad un’esigenza di ricerca di felicità e di significato pieno dell’esistenza.
Su questo tracciato, nuove parole stanno facendo capolino sul terreno dell’etica
d’impresa, in parte oltrepassando i consolidati recinti dell’economia e gestione delle
imprese per prendere a prestito attrezzi tipici di altre discipline. Qui si è voluto
aprire una finestra in particolare sul “flusso di coscienza”, con un timido riferimento
anche al concetto di generosità, percorsi sui quali l’intento e l’impegno da parte di
chi scrive sarà quello di tentare di procedere con ulteriori approfondimenti.
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