Etica d`impresa: gioco di parole o bussola manageriale
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Etica d`impresa: gioco di parole o bussola manageriale
Etica d’impresa: gioco di parole o bussola manageriale? Provocazioni a margine di un’indagine ELENA GIARETTA* Abstract Il lavoro prende spunto dai risultati di un indagine condotta su un campione di dirigenti della provincia di Verona allo scopo di cogliere il grado di sensibilità delle aziende in cui essi operano verso un approccio etico al governo dell’impresa. Sulla base dei principali risultati della ricerca e delle riflessioni emerse in proposito durante un workshop tra esperti, vengono lanciate alcune provocazioni scientifiche, nella veste delle seguenti domande: “riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non lascia spazio al pensiero? Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E ancora, il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme? E’ davvero impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non coerente al proprio?”. Al centro di questo scritto si pone così lo sviluppo delle riflessioni sollecitate dalle singole provocazioni, a partire dalla presentazione dei risultati della ricerca dai quali sono di volta in volta scaturite. Il lavoro si chiude con un ultimo, timido interrogativo sull’opportunità di procedere con gli studi sul sentiero finora battuto. Alcuni possibili percorsi che potrebbero essere imboccati vengono segnalati. Parole chiave: etica d’impresa, managerialità, finalità imprenditoriali This work has been inspired by a survey which was carried out among a relevant sample of managers in the Verona Province. The main endeavour was to assess the level of sensitivity within the companies involved towards an ethical approach in enterprise governance. During a workshop attended by experts in the field, the survey outcome was discussed and some scientific provocations were put forward, suggesting the following questions: “is discussing such topics a waste of time? Does managerial action leave space for thought? In the life of an organization is the goal more important than the process? And, is profit a goal or a means? Or both things together? Is it really impossible to stay out of a consolidated system of values not coinciding with one’s own?” The core of this paper aims at developing a pattern of thought prompted by each single provocation that the results of the survey elicited. The paper closes with a humble query concerning the opportunity for the business ethics studies to proceed on the same route. Some possible paths have been pointed out. Key words: business ethics, management, entrepreneurial aims * Associato di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Verona e-mail: [email protected] sinergie n. 75/08 196 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? 1. Intervistando il manager: etica d’impresa, bussola manageriale? Ancora sull’etica d’impresa. Questo, forse, il primo pensiero che legittimamente il titolo di questo lavoro può evocare. A ben vedere, in effetti, non si può certo dire che il tema non sia stato ad oggi sviscerato in tante delle sue dimensioni e non abbia suscitato su più fronti numerose manifestazioni di interesse o fastidio. Ormai molto si è detto e si è scritto, e ancora molto si continua a dire e a scrivere, con un’utilità marginale che tende via via a ridursi. E nella vastità della produzione, scientifica e non, come pure delle dichiarazioni aziendali, le numerose voci paiono ergersi su un comune presupposto di fondo o convergere verso una pressoché unanime conclusione: il riconoscimento dell’importanza del suo ruolo e della sua considerazione a livello imprenditoriale, con l’adozione della ormai popolare stakeholder view. Ma, come spesso accade di fronte a tematiche che cadono nella moda - come si ritiene sia avvenuto ormai con questa - il rischio è che il “troppo parlare” rimanga “lettera morta”, incapace di tradurre i principi in comportamenti pratici. O peggio, come di fatto frequentemente avviene in ambito aziendale, che si limitino le azioni concrete ad interventi di pura facciata. Dopo che il gigante Enron era crollato ed era divenuto in tutto il mondo l’emblema del management irresponsabile, uno dei suoi massimi dirigenti, Jeff Skilling, affermò che il suo compito era quello di fare “la volontà di Dio”. In precedenza, il suo Ceo, Kenneth Lay, aveva dichiarato: “Ero e sono profondamente convinto che una delle cose più soddisfacenti della vita sia creare un ambiente profondamente morale, dove ciascuno sia incoraggiato a realizzare le potenzialità che Dio gli ha dato”1. Sicché, in tutto questo ragionare e a fronte delle pratiche aziendali osservabili, viene da domandarsi se l’etica non si sia ormai ridotta ad un semplice “gioco di parole” o, al contrario, se possa davvero ricoprire un ruolo diventando una “bussola” per orientare le scelte manageriali. E, in tal caso, per non inciampare in facili pericoli di astrattezza e formalismo, in che modo ciò possa verificarsi. Trattandosi di etica d’impresa, le figure che più di altre possono essere chiamate in causa nel riferire un’opinione sulle sue realistiche possibilità di applicazione sono quelle dell’imprenditore e del manager. Il manager, può certamente essere coinvolto sull’argomento poiché, rivestendo ruoli direttivi, potrebbe ipoteticamente farsi promotore di approcci etici, oltre che praticarli. Forse, è ancora più adatto ad essere sentito, in quanto, a differenza dell’imprenditore, appare meno “affettivamente” legato alla realtà aziendale, risultando così in grado, almeno teoricamente, di esprimere una autentica e distaccata capacità di visione e di valutazione. E’ così che è partita l’idea di investigare il punto di vista del manager sul tema attraverso un’indagine su un campione di iscritti alla relativa associazione di 1 Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business. Successo economico e comportamento etico, Il Sole 24 Ore, Milano, 2007, p.4. ELENA GIARETTA 197 categoria, Federmanager, la federazione nazionale dei dirigenti di aziende industriali, sezione di Verona. L’obiettivo era quello di rilevare attraverso i manager il grado di sensibilità delle aziende del campione verso un approccio etico al governo dell’impresa2. Contrariamente a come si usa comunemente procedere, si anticipano qui di seguito i risultati finali. Il dirigente intervistato - per lo più maschio, di età compresa tra i 36 e i 55 anni e inserito in imprese di medio-grandi dimensioni - ha lasciato trasparire una amara consapevolezza del distacco tra parole e principi, da una parte, e fatti e azioni, dall’altra. Anche in questo caso, come è accaduto per altre tematiche quali ad esempio quella della valorizzazione delle persone, più volte si è trovato a toccare con mano l’ampiezza del divario tra la generale consapevolezza di certi principi e il loro concreto trasferimento all’interno dell’organizzazione. In altre parole, il quadro che risulta dagli occhiali di lettura del manager è quello di una realtà organizzativa che non lascia molto spazio ai valori se non a quelli del mercato, dell’efficienza e del profitto. Ognuno dentro di sé desidererebbe anche per l’azienda un mondo migliore e in linea di principio attribuirebbe ad un orientamento etico un ruolo importante. Tuttavia sono parecchi gli ostacoli intravisti lungo questo percorso, al punto che si arriva a rassegnarsi a considerare difficile, quantomeno in tempi brevi, un serio imbocco di percorsi etici all’interno dell’azienda. L’etica, dunque, alla fine dei conti è ancora lontana dal rappresentare per il manager una bussola decisionale. Questo il principale risultato della ricerca. Come detto, in modo magari un po’ inusuale, si è optato in questo lavoro per esordire con le conclusioni. Sembra infatti più interessante soffermarsi più che sul risultato in sé, che peraltro si poteva abbastanza ragionevolmente prevedere, sulle riflessioni che tale risultato può provocare. Pensieri che, sulla falsariga del metodo Delphi, sono stati generati, estrapolati e rielaborati in seguito ad uno workshop tra esperti organizzato allo scopo. Come è stato altrove osservato, le risposte sono “il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle, solo una domanda può puntare oltre”3. Sicché, si è scelta la strada delle provocazioni che, nella veste di domande, possono essere suscitate dai risultati della ricerca, a partire da quello finale. Delle domande-provocazioni prodotte dal workshop ne sono state selezionate tre. Per ciascuna di esse viene messo in evidenza il risultato della ricerca che l’ha provocata, rifinendo dove possibile la provocazione con supporti teoricometodologici ed esperienze. Il lavoro si chiude con un ultimo interrogativo sulla possibile direzione degli studi in tema di etica d’impresa. 2 3 L’indagine in questione si inquadra all’interno di un progetto più ampio che si propone di individuare possibili vie per creare e diffondere tra le imprese veronesi una cultura della Corporate Social Responsibility. Per una consultazione della ricerca nella sua versione integrale si rinvia a: Elena Giaretta, Chiara Rossato, “La diffusione di un atteggiamento etico nelle imprese della provincia di Verona. Il punto di vista del manager”, Rapporto di ricerca a circolazione interna, Cueim-Federmanager, Verona, dicembre 2006. Jostein Gaarder, C’è nessuno?, Salani Editore, Firenze, 1997, p. 25. 198 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? 2. Provocazioni a margine dell’indagine “Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. (…) Non diversamente, un pensiero gettato nella mente (…) provoca una serie (…) di reazioni a catena, coinvolgendo (…) immagini (…) e significati (…), in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria (…) e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva (…), ma interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere” 4. Anche questa ricerca ha un suo “sasso nello stagno”. I sassi per la verità potevano essere diversi. Qui si è scelto, come detto poc’anzi, il risultato finale: l’etica d’impresa, un gioco di parole per il manager. Gettandolo nello stagno della mente, una serie di movimenti si scatena alla ricerca delle motivazioni sottostanti a tale risultato. E, mentre si deposita sul fondo, risveglia pensieri, provoca domande e accostamenti di pensiero, mette in rapporto riflessioni, fa nascere valutazioni e per associazione genera ancora domande, pensieri, riflessioni, valutazioni, provocazioni. Come onde concentriche che si allargano sulla superficie dello stagno, ecco allora le provocazioni scientifiche scaturite una dopo l’altra dal lancio di quel sasso: 1. 2. 3. Riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non lascia spazio al pensiero? Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E ancora, il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme? E’ davvero impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non coerente al proprio? Queste provocazioni sono anche il frutto della discussione dei risultati della ricerca condotta durante il workshop tra esperti. L’intenzione delle prossime pagine è quella di raccoglierle e commentarle allo scopo di proporle ad un gruppo scientifico più allargato. 2.1 Prima Provocazione Una prima interessante indicazione sul manager mood in materia di etica d’impresa può trasparire dal modo in cui il campione si è formato che, riprendendo l’immagine appena utilizzata, potrebbe personificare un sassolino depositato sul fondo, toccato dal sasso mentre scende in profondità. Due dati e l’interpretazione è presto fatta: 565 dirigenti contattati e un tasso di redemption pari al 10,97%. Il fatto che soltanto 62 dirigenti su 565 abbiano ritenuto utile, o comunque non una perdita di tempo, fornire il proprio contributo rappresenta una piccola, ma significativa, spia del livello di attenzione che la tematica rischia di ricevere in ambito aziendale. 4 Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1973, p. 7. ELENA GIARETTA 199 In effetti, affrettarsi ad accogliere questi dati con semplice rassegnazione statistica rischia di essere riduttivo, soprattutto se si considera che la parte più consistente del tempo dedicato alla ricerca è stata assorbita dalla fase di raccolta dei questionari (11 mesi), con notevoli sforzi di sollecitazione anche da parte dell’associazione. L’animo del ricercatore per natura intende andare oltre, alla ricerca delle chiavi di lettura sottostanti a quello che può già essere considerato un primo prodotto dell’indagine. Ma prima di venire alle domande che questi numeri sollevano, è utile soffermarsi su un ulteriore risultato a questo collegato. La percezione e la sensibilità al tema da parte di questa porzione del mondo dirigenziale sono infatti strettamente legati al corrispondente livello di consapevolezza/conoscenza (grado di familiarità o di vicinanza al tema). Aspetto, questo, che con la ricerca si è potuto evidenziare rilevando la percezione del concetto di etica e il grado di conoscenza dell’argomento. Al riguardo, a conferma dell’indifferenza già annunciata, emerge, se non una fredda lontananza un certo distacco. Posto che l’interpretazione del concetto di etica si presta almeno ad una doppia lettura del suo significato5 - attiva (“fare del bene”) e passiva (“evitare di fare del male”) -, etica significa per essi più controllo e limitazione che azione vera e propria, sebbene via sia una parte ridotta che vi include anche il compimento di scelte che comportino un miglioramento della qualità della vita della comunità di riferimento (fig. 1). Fig. 1: L’etica e il suo significato 11,29% 22,58% 9,68% 3,23% 1,61% 19,35% 30,65% Evitare di compiere azioni dan nose (nei confronti dei lavoratori, dell'ambiente e dei consumatori) Compiere azioni che comportino un miglioramento della qualità della vita della prop ria comunità Aiu tare a risolvere alcuni dei problemi sociali (povertà, analfabetismo, criminalità) Ridurre gli abusi sui diritti umani nel mondo Contribuire a rid urre il divario tra ricchi e poveri Imp egnarsi a fare tutto quanto sopra, nel proprio ambito in modo concreto Risposte non regolari (contrariamente a quanto richiesto, sono state fornite più opzioni) Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta 5 Per una maggiore approfondimento in merito alle questioni terminologiche, si rinvia a Claudio Baccarani, Elena Giaretta, “Quesiti sull’etica d’impresa: dialogo tra il dubbio e la conoscenza”, in collaborazione con C. Baccarani, in AA. VV., Dall'analisi economica all'economia sociale. Scritti per Giuseppe Gaburro, Cedam, Padova, 2004. 200 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Insomma, un gruppo significativo di manager identifica ancora l’etica nella scelta di annullare o porre limiti a comportamenti potenzialmente dannosi, al limite dell’illegalità, con il risultato di confonderne il significato con quello della legge, sulla cui differenza a lungo si sono profusi molti esperti, con contributi che, se questo campione fosse rappresentativo, si dovrebbero considerare a questo punto di scarso impatto. Più volte è stato ribadito che l’etica aziendale richiederebbe qualcosa di più che semplicemente evitare pratiche illegali. La norma regolamenta ciò che è conosciuto, mentre l’etica esplora le frontiere, conducendo a guardare oltre. Quale tassello addizionale, si potrebbe qui soltanto aggiungere che, prendendo a prestito alcune categorie logico-concettuali del total quality management, il concetto potrebbe declinarsi su livelli diversi, caratterizzati da gradi crescenti di impegno etico. Al livello base vi è l’etica implicita, ovvero il rispetto delle regole. Poi subentra l’etica attesa che implica la scelta di agire per la comunità in cui si vive. Se la prima la si dà per scontata, la seconda corrisponderebbe al livello delle attese. Del tutto inaspettato invece il livello più elevato, quello appunto dell’etica inaspettata, che significa fare dell’impresa un soggetto produttore di benessere nell’interazione con i propri interlocutori, compresa naturalmente la proprietà6. A dispetto di queste e numerose altre considerazioni, la gestione dell’etica per molti manager continua a fondarsi sulla necessità di evitare sanzioni legali, rivelando in questo modo una genericità di approccio, probabilmente legata al basso grado di familiarità al tema. Familiarità che si abbatte ulteriormente passando dai principi agli aspetti più operativi. Soltanto per fare un esempio, la conoscenza dell’esistenza di organismi in grado di valutare il comportamento delle imprese, quali associazioni di consumatori e agenzie di rating etico, la si dava per la verità abbastanza per scontata. Eppure ci si è trovati di fronte a quasi un terzo di manager completamente all’oscuro dell’esistenza di agenzie di rating etico. La disinformazione diventa ancora più pesante in merito al Libro Verde sulla responsabilità sociale delle imprese, promosso dall’Unione Europea, con un ingombrante 83% che ne ignora la divulgazione, mostrando disinteresse rispetto ad intenti e scelte dell’Unione. Se poi si volesse misurare il grado di familiarità sulla base della diffusione degli strumenti a sostegno della responsabilità sociale, anche qui se ne potrebbe rilevare una conoscenza decisamente di base, limitata a quelli più tradizionali quali la certificazione ambientale, il codice etico e il bilancio sociale, strumenti peraltro che stanno sempre più assumendo un ruolo di autotutela per le aziende (fig. 2)7. 6 7 Questa declinazione scaturisce dalle riflessioni di Claudio Baccarani a margine del workshop dal titolo, Etica d’impresa: gioco di parole o bussola manageriale? Conversazioni sulle frontiere del management, tenutosi il 10 maggio 2007 a Villa Guerina - Montorio (VR). In particolare, la diffusione del codice etico nelle imprese italiane sembra aver ricevuto un forte incentivo in seguito all’approvazione del d.l. n. 231/2001 che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità delle persone giuridiche e degli enti per i reati commessi da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o ELENA GIARETTA 201 Fig. 2: L’adozione degli strumenti etici 4,69% Seminari sull'etica Ethics officer 3,13% 7,81% Marchi verdi 32,81% Certificazione ambientale 1,56% Certificazione etica 17,19% Bilancio/rapporto sociale 26,56% Codice etico/carta valori 6,25% Altro 0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35% Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta Il disinteresse e la disinformazione sull’argomento che questi primi dati lasciano trasparire spingono a ricercarne le motivazioni sottostanti. Da che cosa nasce questo atteggiamento? Su che cosa si fonda questa lontananza? Su una mancanza di volontà di approfondire o di tempo? Il passo dalle domande che questi dati sollecitano alle provocazioni è a questo punto breve: Riflettere su questa tematica è una perdita di tempo? L’azione manageriale non lascia spazio al pensiero? È noto che quegli argomenti che coinvolgono riflessioni e scelte che non hanno un diretto e immediato impatto sui rendimenti economico-finanziari non riescono più di tanto ad attrarre l’attenzione del manager. Tra questi, l’etica trova senza dubbio un suo spazio “dignitoso”. Notoriamente e letteralmente “ossessionato” dall’“incubo” delle performance a breve, il manager sembra costretto a vivere la propria quotidianità puntando l’attenzione più sugli aspetti operativi che su quelli strategici. Se ciò che più conta sono i dati, le attività, i risultati, è evidente che questioni come la definizione di valori, missione e strategie appaiono una perdita di tempo perché non immediati e non tangibili. In quest’ottica non esiste una strategia deliberata, ma una strategia induttiva che inconsapevolmente risulta dalla quotidiana realizzazione delle attività. Che di conseguenza vengono per lo più programmate e prodotte in tempo reale e in stato di emergenza oltre che di ansia, rincorrendo quello stesso tempo che non si è avuto a disposizione per il pensiero strategico. direzione. La connessione con i codici etici sta nell’articolo 5 il quale precisa che l’ente non è responsabile se prova che sono stati adottati modelli di organizzativi idonei a prevenire reati di quella specie. Modelli tra cui i codici possono benissimo rientrare. 202 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Questa situazione è talmente acquisita nella pratica organizzativa che per descriverla è stata utilizzata una espressione molto efficace: mindfulness trap8 ovvero la trappola di chi ha la testa troppo piena di cose da fare ed è quindi concentrato sulle urgenze e non sulla riflessione strategica e di lungo periodo. In quest’ambito, è facilmente comprensibile come il pensiero annaspi nel trovare un suo spazio. Ciò anche perché l’attività mentale per sua natura è faticosa e richiede energia, mentre l’azione risulta molto meno impegnativa e molto più gratificante nell’immediato. Aspetti strategici, quali l’etica d’impresa si ritiene sia, richiedono invece pensiero, ma anche attenzione e tempo, ingredienti che sembrano essere divenuti sempre più rari nelle attuali ricette manageriali richieste o imposte dall’economia di mercato e dalla globalizzazione, dove la velocità appare l’unico percorso possibile per non correre il rischio di “rimanere indietro”. Forse in un contesto dominato dalla complessità e dall’incertezza, quale quello in cui opera l’impresa moderna, dove assume significato sperimentare continuamente nuovi percorsi, valorizzare l’originalità, andare contro corrente, altri approcci possono risultare vantaggiosi. Approcci caratterizzati dalla scelta di non procedere con la fretta che riduce la capacità di vedere e ascoltare, ma di produrre un’azione rallentata per lasciare spazio alla riflessività dell’impresa9, affinché possa liberare le proprie idee innovative anche sul piano etico. Ciò significherebbe nel contesto attuale rompere gli schemi, muoversi diversamente dagli altri, differenziandosi - un po’ paradossalmente, in un quadro ambientale dominato dalla fretta - in “lentezza”, o perlomeno per la scelta di procedere con il ritmo giusto10. In letteratura si stanno affacciando tentativi sempre più numerosi proiettati a sostenere tale prospettiva, inquadrabili all’interno della corrente cosiddetta della “Slow leadership”11. E anche tra le aziende, c’è chi ha cominciato ad introdurre momenti di riposo all’interno dell’organizzazione, vedendoli come una alternativa capace di accrescere 8 9 10 11 Cfr. Aaron De Smet, Mark Loch, Bill Schaninger, “Anatomy of a healthy corporation. How can business leaders embed “healthy” thinking in the organization?”, The McKinsey Quarterly, Web exclusive, May 2007. Il lettore interessato al tema del tempo, può trovare originali e stimolanti spunti per ulteriori riflessioni in Claudio Baccarani, Postfazione al testo di Federico Brunetti, Il turismo sulla via della qualità, Cedam, Padova, 1999 e in Giocare con il tempo in azienda ed essere più competitivi, Giappichelli, Torino, 2008. Elena Giaretta, “Ethical product innovation: in praise of slowness”, The TQM Magazine, volume 17, n. 2, 2005. Cfr. al riguardo Adrian Savage, Slow Leadership. Civilizing the Organization, 2006 di cui un estratto è disponibile sul web all’indirizzo www.changethis.org. Tra gli altri indicatori della tendenza in atto, Bruno Cortigiani, “Sviluppare una relazione con il fattore tempo è fondamentale…”, La Repubblica delle Donne, 28 giugno 2008 e il sito www.vivereconlentezza.it. ELENA GIARETTA 203 i livelli di creatività e di fertilizzare l’immaginazione12. Come pure c’è chi ha acquisito notorietà con il motto “Walk don’t run”, promovendo uno stile di vita più tranquillo e rilassato13. Man mano che il sasso scende nella profondità dello stagno, smuove altri pensieri, le onde della provocazione generata si dilatano, originando ulteriori provocazioni. Nella vita frenetica di un’organizzazione non c’è tempo per il pensiero. Quali sono allora le priorità che guidano l’azione? 2.2 Seconda provocazione Il modo di porsi di un individuo di fronte a temi quali l’etica d’impresa dipende anche dal suo più generale way of thinking che, in ambito organizzativo, può corrispondere al modo di intendere criteri, valori, linee guida alla base delle decisioni aziendali. E’ parso così opportuno valutare la posizione del manager in merito ad aspetti più generali della conduzione aziendale che vanno dai fattori di competitività alle finalità imprenditoriali, dalla concezione del profitto al ruolo dell’impresa. L’impostazione che affiora mostra forti tratti di pragmatismo legati a parametri di risultato. L’etica, tradotta nei termini di una condotta rispettosa di tutti gli interlocutori aziendali, appare l’ultimo di una serie di fattori che possono incidere sulla competitività dell’impresa. I valori dominanti nelle organizzazioni e nella visione del manager sono quelli del profitto, dell’efficienza e del mercato. Per il 38% il profitto rappresenta decisamente più un fine che un mezzo. È vero che non si tratta della maggioranza delle risposte. Ma il risultato sembra comunque rilevante se si considera la tendenza, di fronte a domande di tale tipologia, a fornire risposte allineate rispetto alle aspettative del ricercatore e della comunità in generale. Quale logica conseguenza di un approccio mentale fortemente ancorato sui “numeri” e sulla tradizione è l’espressione di un certo distacco rispetto all’ammissibilità di una visione sociale dell’impresa (17,74%), dove il suo ruolo possa andare anche oltre la semplice produzione di ricchezza per farsi carico di alcuni dei problemi sociali della comunità in cui opera. Il profitto come dominatore del finalismo aziendale e la natura sociale delle imprese sono altri temi riconducibili all’etica d’impresa sui quali la letteratura si sta ampiamente misurando. Tra i tanti contributi, possono essere qui richiamati a titolo 12 13 Esempio di una politica aziendale che riflette l’orientamento alla riduzione delle pressioni di tempo e all’introduzione di momenti di riposo nell’organizzazione ai fini della produzione di pensiero creativo è quello di 3M. È l’esempio di Camper, azienda spagnola di una famiglia che produce calzature da oltre cento anni. Cfr., al riguardo, Federico Brunetti, “La marca tra creazione di valore ed interferenze nei valori”, relazione predisposta per il convegno di Industria & Distribuzione, Le politiche di branding, Università degli Studi di Pisa, 14 dicembre 2002. 204 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? di esempio, nel primo caso, la teoria del “successo sociale” 14 e la “teoria delle 3P”15 e, in merito alla natura sociale delle imprese, la “teoria del contratto sociale”16, la corporate citizenship view e l’ “orientamento comunitario”17. Ma anche in questi casi appare abbastanza facile rilevare la distanza tra i principi e il loro concreto accoglimento nella pratica aziendale. L’accostamento dei risultati della ricerca con gli sviluppi dottrinali conduce ad una provocazione sulla quale peraltro i dati hanno già fornito risposta esplicita. Appare comunque utile richiamarla per tentare di cogliere le motivazioni di fondo all’impostazione dominante nonché per esplorarne visioni alternative. 14 15 16 17 Si fa qui riferimento alla scala delle finalità imprenditoriali proposta da Sergio Sciarelli, in cui il successo deriverebbe da una combinazione tra profitto, potere, prestigio, dove il profitto ed il potere di mercato (leadership competitiva) si pongono in posizione strumentale rispetto al prestigio (leadership sociale), vero punto di arrivo dell’attività imprenditoriale. Per una esposizione più completa della teoria si rimanda a Sergio Sciarelli, Economia e Gestione dell’Impresa, Cedam, Padova, 2001. “Profitto, produttività e potere, più le cerchi e meno le trovi”, enunciata da Claudio Baccarani in alcuni suoi scritti tra i quali “Meditazioni di un tecnico industriale perplesso”, in Elena Giaretta, Alle origini della tecnica industriale e commerciale. Uno sguardo al passato per contribuire al futuro, Cedam, Padova, 2003, p. 164. Si tratta di un patto implicito tra l’impresa e la comunità con cui verrebbero definiti diritti e doveri degli individui e delle organizzazioni produttive. Il contratto sociale possiede un carattere tipicamente evolutivo. Così se un tempo si richiedeva all’impresa di concorrere al miglioramento del benessere della collettività attraverso la produzione di profitto e livelli sempre più elevati di soddisfazione dei bisogni, ora si è passati ad una visione più complessa con cui si chiede all’impresa di perseguire anche altri fini. Sulla teoria del contratto sociale come giustificazione teorica alla base della responsabilità sociale dell’impresa cfr., Thomas Donaldson, “The Social Contract: Norms for a Corporate Conscience”, in W. Michael Hoffman, Robert E. Frederick, Business Ethics. Readings and cases in corporate morality, III ed., McGraw-Hill, New York, 1995, pp. 154-157; Thomas Donaldson, Thomas W. Dunfee, “Toward a Unified Conception of Business Ethics: Integrative Social Contract Theory”, Academy of Management Review, n. 2, vol. 19, 1994. Su questo punto si veda anche Lorenzo Caselli, “Etica dell’impresa e nell’impresa”, Sinergie, n. 45, 1998. Le argomentazioni a fondamento di tale impostazione si rifanno per lo più all’interrelazione dell’impresa con il sistema sociale e al suo connesso “dovere di gratitudine” per l’accesso ai beni pubblici. In altri termini, anche le imprese appaiono “cittadine” all’interno della comunità con il connesso obbligo di concorrere a risolvere i problemi sociali. Su questa impostazione cfr., tra gli altri, Sergio Sciarelli, “Il governo dell’impresa in una società complessa: la ricerca di un equilibrio tra economia ed etica”, Sinergie, n. 45, 1998; Richard J. Klonoski, “Foundational Considerations in the Corporate Social Responsibility Debate”, Business Horizons, July-August, 1991; Norman Bowie, “New Directions in Corporate Social Responsibility”, Business Horizons, July-August, 1991, Claudio Baccarani, Elena Giaretta, “Evoluzione degli orientamenti d’impresa e scelte etiche di marketing”, in U. Collesei, J.C. Andreani, a cura di, Atti del Convegno Internazionale, Le tendenze del Marketing in Europa, Venezia, Università Ca’ Foscari, 24-25 novembre 2000. ELENA GIARETTA 205 Nella vita di un’organizzazione conta di più l’obiettivo o il processo? E ancora, il profitto è un fine o un mezzo? O tutte e due le cose assieme? Al riguardo da tempo si parla di visioni manageriali di tipo “short-termista”, dove affermare che l’obiettivo è prioritario rispetto al processo appare a dir poco scontato. Da osservatori esterni, è facile assumere posizioni critiche rispetto a tale impostazione. Ma per non incorrere in eccessive semplificazioni di una realtà ben più complessa, occorrerebbe provare a comprendere gli aspetti che hanno concorso più o meno direttamente a generarla. Tra questi, potrebbe essere ad esempio di una certa utilità richiamarne le origini storiche, legate allo spostamento di potere verificatosi nel corso degli anni Ottanta verso i grandi investitori istituzionali. Il “capitale impaziente”18, cosiddetto per le pressanti richieste di risultati trimestrali o comunque di breve periodo, potendo decretare con le proprie scelte di investimento la sopravvivenza o la fine di un’impresa, cominciò ad esercitare una pressione esplicita sul management che maturò in questo modo il convincimento che l’unica linea di azione possibile fosse quella di sottomettersi a tali strette. Ciò ha dato luogo a comportamenti diffusi quali quelli di rinunciare ad investimenti dannosi per le performance a breve, ma importanti per la conservazione del valore dell’impresa nel lungo termine. Contributi alla visione short-termista, soprattutto sulla scena americana, sono scaturiti dalle più recenti condizioni economiche, che hanno costretto molte imprese alla ricerca della pura sopravvivenza, nonché dal quadro normativo che, assorbendo i manager con una vastità di nuove regolamentazioni, soprattutto in tema finanziario, li ha sottratti dal loro ruolo di “traghettatori” dell’impresa sui percorsi futuri. Ruolo che anche la progressiva riduzione del tempo medio di durata delle cariche del top management ha certamente concorso a far venir meno19. Lo shareholder value si è confermato così l’“imperativo categorico” delle scelte manageriali, con l’equivoco di fondo che il suo perseguimento richiedesse una focalizzazione esclusiva sul miglioramento delle short-term performance, impedendo la valutazione di non meno importanti questioni e opportunità ai fini della continuità dell’impresa, inclusa la considerazione delle attese sociali. Ma, se è vero che i mercati finanziari attribuiscono valore ai risultati a breve è pure vero che lo fanno anche perché essi rappresentano la prima informazione disponibile per valutare la solidità di un’impresa e quindi le performance di lungo periodo. Ed è pur vero che sono le aspettative di rendimenti futuri a determinare prevalentemente il valore del mercato azionario. In altre parole, i mercati si attendono risultati soddisfacenti nel breve termine, ma allo stesso tempo includono nelle loro valutazioni le aspettative di rendimenti futuri. È quella che si potrebbe definire short term trap20, un’altra trappola con cui si deve misurare il manager oggi. 18 19 20 Cfr. Richard Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna, 2006. Cfr. Ian Davis, “How to escape the short-term trap”, McKinsey Quarterly, Web esclusive, April 2005. Ibidem. 206 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Sicché se all’operatore aziendale appare del tutto naturale, legittimo e soprattutto necessario sottoporre le proprie scelte alla logica del “criterio trimestrale”, andrebbero allo stesso tempo considerati poli ideologici alternativi dove il profitto, senza perdere la propria importanza e pur continuando a rappresentare una misura critica del successo aziendale, non appare l’unico valore. Quasi in una visione zen, comunque al di fuori del tracciato canonico dell’economia aziendale, il profitto potrebbe essere visto non più o non solo come obiettivo da inseguire a tutti i costi, ma come risultato dell’attenzione riservata oltre che ad aspetti “hard”, anche a prospettive più immateriali, quali, ad esempio, reputazione, fiducia, conoscenza, coesione e valori. Aspetti sui quali si regge appunto la costruzione delle performance future. “Non si può (…) prescindere dai numeri. I numeri riflettono la capacità di un’azienda di competere con successo. E non ci può essere successo senza che i numeri, siano essi rappresentativi della quota di mercato, del fatturato o del profitto, lo evidenziano in modo chiaro. Il limite dei numeri però è di parlare del passato di un’azienda o tutt’al più del presente. Di fatto, per valutare la realtà di un’impresa, è necessario considerare anche altri indicatori, quali l’immagine e la reputazione della marca, la soddisfazione dei clienti, la capacità di innovare, la soddisfazione delle persone che lavorano in azienda. A guardare bene sono più questi i fattori che garantiscono che un’impresa possa avere successo nel futuro”. (Paolo Braguzzi, amministratore delegato Davines) Peraltro, il piacere di costruire qualcosa che cresce di valore e il senso di autorealizzazione che ne deriva conferiscono una motivazione ben superiore rispetto al semplice tornaconto. Il che può essere fatto corrispondere al bisogno di significati personali tipico del capitalismo contemporaneo, dove per motivare e giustificare le scelte fatte “si cerca qualcosa che possa coinvolgere e dare soddisfazione al di là del denaro. Qualcosa, cioè, che abbia senso, prima di tutto, come misura e sviluppo della propria identità”21. Allineati su questa posizione si possono ritrovare esponenti del mondo accademico, ma anche consulenziale22 e aziendale (le imprese ultracentenarie italiane e le 18 aziende americane più ammirate, cosiddette visionary companies23). Anche una piccola e particolare porzione del campione, quella dei manager in 21 22 23 Cfr. Enzo Rullani, La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma, 2004, p. 240. Cfr al riguardo la posizione del direttore generale di McKinsey, Ian Davis, che riconosce un ruolo sociale all’impresa in forza di un contratto sociale tra questa e la comunità. Si suggerisce in proposito la lettura di “What is the business of business”, The McKinsey Quarterly, 3, 2005. Cfr., per le ultracentenarie, Elena Giaretta, Vitalità e longevità d’impresa. L’esperienza delle aziende ultracentenarie italiane, Giappichelli, Torino, 2004 e, per le visionary companies, James Collins, Jerry Porras, Built to Last: Successful Habits of Visionary Companies, Random House Business Books, London, 2000. In questi casi, il profitto non appare mai un valore dominante e all’impresa viene attribuito un ruolo sociale. Le aziende ultracentenarie italiane, poi, individuano nel prestigio la primaria finalità imprenditoriale, seguita dal potere di mercato e dal profitto che assume, così, un ruolo strumentale. ELENA GIARETTA 207 pensione, che in quanto iscritti all’associazione hanno partecipato alla ricerca, ha delineato un interessante elemento di scostamento rispetto alla visione dei colleghi più giovani. Precisamente, colpisce la loro percezione di costi e profitto più come strumenti gestionali o come logica conseguenza di scelte e comportamenti vincenti che come obiettivo da perseguire ad ogni costo. L’atteggiamento che esprimono appare molto più distaccato dai numeri quasi che una lunga esperienza sul campo avesse portato a maturare convincimenti contrari a quelli che avevano da sempre contraddistinto la loro vita professionale, ma che non avevano potuto emergere prima in quanto soffocati dalle pressioni della routine quotidiana che spesso, come visto, impediscono di guardare verso orizzonti più lontani. Orizzonti che potrebbero accogliere tante possibili immagini dell’impresa magari capaci di generare risultati migliori. Fino a questo punto la sembianza del manager che progressivamente si sta delineando è quella di una persona che non riesce a pensare, perché travolto dalla quotidianità (prima provocazione) e assorbito dalla preoccupazione dei rendimenti a breve (seconda provocazione). E’ possibile che il manager riesca ad affrancarsi da questa situazione? Questo è l’interrogativo che i movimenti generati dal sasso fanno affiorare. Ciò conduce alla terza provocazione. 2.3 Terza provocazione Accade - e si parla di una importante maggioranza delle testimonianze - che vivendo all’interno delle organizzazioni ci si possa trovare obbligati ad assumere comportamenti contrari ai propri principi, piegandosi al peso di un meccanismo più grande che costringe a “mandare la propria coscienza in soffitta”. Una larga maggioranza degli intervistati sostiene di essersi trovato in questa circostanza almeno una volta (il 58,06% qualche volta, l’8,06% una volta soltanto) (fig. 3). Fig. 3: Assunzione di comportamenti contrari al proprio sistema di valori Spesso 0,00% Qualche volta 58,06% Una Volta 8,06% Mai 33,87% 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta Quasi un terzo ritiene infatti difficile, se non impossibile, contrapporsi ad un sistema troppo profondamente radicato, sebbene lasci sperare la posizione di tutti gli altri che lo ritengono invece concepibile, oltre che doveroso (fig. 4). 208 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Curioso sarebbe stato approfondire con quali modalità gestire il problema, al di là della soluzione drastica delle dimissioni segnalata e vissuta da un singolo elemento del campione. Fig. 4: Possibilità del manager di opporsi all’attuazione di comportamenti non etici 25,81% E' neces s ario 43,55% E' pos s ibile 29,03% E' difficile 1,61% E' im pos s ibile 0% 10% 20% 30% 40% 50% Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta Risultati interessanti sono emersi anche di fronte alla situazione in cui dovesse essere un collega o un collaboratore a comportarsi in modo poco etico. Si tratta del cosiddetto whistle blowing (letteralmente “soffiare nel fischietto”), ovvero denuncia del comportamento scorretto di un compagno di lavoro, problema sul quale peraltro anche la letteratura si è largamente diffusa. A fronte di un 53,23% degli intervistati verosimilmente “politically correct” che provvederebbe a licenziare o farebbe licenziare la persona in causa, una percentuale, sebbene inferiore, comunque rilevante e pari al 33,87% rivela di non sapere a priori quale atteggiamento adottare (fig. 5). Il 12,90% degli intervistati, invece, in una sorta di omertà, non prenderebbe alcun provvedimento. Fig. 5: Volontà/possibilità di licenziamento di dipendente/collega che ha assunto una condotta non etica Non so 33,87% Si 53,23% No 12,90% Fonte: ns. elaborazioni da rilevazione diretta ELENA GIARETTA 209 Allora, è davvero impossibile sottrarsi ad un sistema di valori radicato e non coerente al proprio? Qui potrebbe essere richiamata la tesi di una radice organizzativa della condotta individuale, cioè dell’influsso di fattori organizzativi sui comportamenti degli individui. Ne è diretto sostenitore tutto il filone dell’ethical decision making24, volto ad analizzare le variabili che nelle loro reciproche interazioni caratterizzano il processo decisionale etico. Obiettivi irrealistici, sistemi di incentivo perversi, mancanza di controlli, inadeguata formazione, mancanza di leadership etica, ecc. sono solo alcuni esempi di fattori organizzativi in grado di determinare o meno decisioni etiche, a volte anche indipendentemente dai personali convincimenti. Diverse sono le circostanze che possono spingere un individuo ad agire in modo contrario alle proprie convinzioni etiche. Per esemplificare, pratiche di vendita perverse possono essere il risultato dell’introduzione in azienda di nuovi sistemi di incentivo per i venditori. Il comportamento immorale di un manager, poi, può essere favorito dalla considerazione dei costi personali e dalla mancanza di tempo per acquisire informazioni essenziali alla decisione etica. O, ancora, la preoccupazione di realizzare un certo profitto per l’anno in corso può spingere a trascurare un’informazione relativa alla vendita di un prodotto adulterato. Anche i leader riconosciuti possono influenzare in un senso o nell’altro i comportamenti dei dipendenti, a prescindere dalla sensibilità di quest’ultimi per i problemi etici. Ma se è vero che sono spesso i fattori organizzativi a favorire decisioni immorali, è anche vero che gli individui possiedono un proprio livello di sviluppo morale che dovrebbe indurli ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte a prescindere dalle pressioni organizzative. Sicché i framework interpretativi del filone citato ammettono la reciproca interazione tra fattori personali e situazionali (o contestuali). Di fatto, sebbene in linea di principio la decisione possa essere il frutto di fattori che riguardano in parte l’organizzazione e in parte i singoli individui, non raramente accade che ci si senta costretti ad agire nel solo modo imposto dall’organizzazione, come se questa non lasciasse scampo, se non quello di separarsi dall’azienda. I numeri rilevati ne sono una diretta dimostrazione. In tal modo, all’atto pratico, la responsabilità della decisione più o meno etica rischia di essere attribuita in modo quasi esclusivo in capo all’organizzazione. 24 Tra i contributi di ormai storico riferimento per questo filone si possono qui ricordare Linda K. Trevino, “Ethical Decision Making in Organizations: A Person-Situation Interactionist Model”, Academy of Management Review, vol. 11, 1986; O.C. Ferrell, L.G. Gresham, “A Contingency Framework for Understanding Ethical Decision Making in Marketing”, Journal of Marketing, vol. 49, Summer, 1985; David J. Fritzsche, “A Model of Decision-Making Incorporating Ethical Values”, Journal of Business Ethics, n. 10, 1991; T.M. Jones, “Ethical Decision Making by Individuals in Organizations: An IssueContingent Model”, Academy of Management Review”, vol. 16, n. 2, 1991; K.C. Strong, G.D. Meyer, “An Integrative Descriptive Model of Ethical Decision Making”, Journal of Business Ethics, n. 11, 1992. 210 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Da questo punto di vista l’etica d’impresa finisce con l’essere considerata come una questione che investe più la sfera organizzativa che quella personale. Ma questo modo di pensare non appare privo di rischi. La sensazione, infatti, è che questo atteggiamento mentale possa in non rari casi finire col rappresentare una sorta di paravento, o peggio di alibi, dietro cui nascondersi o dietro cui giustificare condotte che diversamente, sul piano personale, non verrebbero mai messe in atto. Con la conseguenza, in una sorta di sdoppiamento della personalità, di non riconoscersi più diretti responsabili delle proprie azioni nel momento in cui viene varcata la soglia dell’organizzazione. Non è più l’“individuo-dott. Jeckyll” ad agire, ma l’“organizzazione-mr Hyde” (“effetto paravento” dell’organizzazione). D’altra parte, da tempo gli studiosi hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione tra la percezione della possibilità di controllo sugli eventi (il cosiddetto locus of control) e la probabilità di assunzione di responsabilità per le conseguenze dei propri comportamenti. Così, nel caso di locus of control esterno all’individuo, nella fattispecie riposto sull’organizzazione quale entità scissa dall’individuo stesso, la tendenza sarebbe quella di sentirsi non responsabile o comunque autoassolto. Certo non si ritiene con queste di aver esaurito tutte le possibili provocazioni. Chissà quante altre ancora, “nuotando sott’acqua”, possono essere smosse e affiorare. La scelta di fermarsi qui non va vista dunque come un punto di arrivo. L’intento e il desiderio, ma anche l’auspicio, è quello di far sì che vengano raccolte e rilanciate come nuovi sassolini nello stagno della comunità scientifica. Per il momento, sempre ispirati da questa logica, ci si limita a chiudere queste prime riflessioni con un ultimo, timido interrogativo sui possibili percorsi che alla luce delle considerazioni contenute in questo lavoro potrebbero essere imboccati sul terreno dell’etica d’impresa. 3. L’etica possibile: l’esperienza del flusso di coscienza Un manager rapito dalla quotidianità, che poco conosce in materia di etica, forse nemmeno sa che cosa questa significhi nella sua essenza più profonda, appiattito sui valori del profitto, dell’efficienza e del mercato, che vede l’impresa come entità, se non esclusivamente, prevalentemente economica, costretto a sottomettersi ai valori dell’organizzazione anche se non coerenti ai propri, questi i lineamenti essenziali di un profilo, un po’ spigoloso, che ha preso forma, pennellata dopo pennellata, con l’indagine. Usando un’immagine un po’ colorita ma efficace, il ritratto del manager che viene dipinto sembra quello di una “persona in trappola”: travolto da un attivismo che soffoca il pensiero (mindfulness trap) e ossessionato dalla ricerca spasmodica di risultati immediati (short term trap), ma allo stesso tempo chiamato alla costruzione del futuro dell’impresa al quale in questo modo non riesce a contribuire, anche perché convinto di essere vincolato dall’organizzazione nella assunzione di scelte in piena autonomia di coscienza (“effetto paravento” dell’organizzazione). ELENA GIARETTA 211 Peraltro non è detto che questa posizione sia poi più di tanto scomoda. Non è forse più facile agire che pensare? Far parte di un programma che detta le azioni da compiere, fare, pensare e sentire in modo prevedibile? Farsi trascinare dal flusso della routine? Comunque sia, che lo accetti o meno, il manager si sente schiacciato da meccanismi organizzativi che incoraggiano più ad agire che a riflettere - soprattutto su questioni che non hanno un diretto ed immediato impatto sui risultati - e che rendono difficile farlo facendo ricorso al proprio dna valoriale. E’ evidente come questa condizione non sia esattamente la migliore per recepire il significato più profondo dell’etica. In questa cornice, infatti, diventa quasi inevitabile per il manager finire per considerare le dichiarazioni aziendali che sempre più numerose si sollevano a suo sostegno come un mero gioco di parole. Al momento, l’etica per il manager sembra dunque una meta non solo lontana dal proprio raggio di azione, ma anche sulla quale non ha mai avuto più di tanto occasione e possibilità di riflettere. Ciò anche perché egli, al di là di tutte le trappole in cui si trova imprigionato, sempre secondo le dichiarazioni raccolte con l’indagine, non sembra trovare su questo fronte un adeguato incoraggiamento da parte dell’imprenditore. Se infatti si dibatte di etica o di concrete problematiche etiche in impresa è soprattutto grazie all’iniziativa del manager o piuttosto di altri collaboratori, mentre l’imprenditore appare al riguardo alquanto assente25, forse anche per effetto della grande dimensione delle realtà aziendali cui i nostri manager partecipano, che certo non agevola l’adozione da parte dell’imprenditore o comunque del gruppo imprenditoriale di modelli di tipo “management by wandering around”, letteralmente “gestire girellando”26. In definitiva, ciò che la ricerca, sia pur certamente con parzialità di visione, ha messo in luce è ancora una certa distanza da parte del mondo aziendale rispetto al concreto trasferimento di dichiarazioni di principio, al punto che, ancora una volta un po’ provocatoriamente, verrebbe quasi da interrogarsi sulla stessa ammissibilità del tema. Se numerosi sono gli ostacoli intravisti lungo questo tragitto, viene da chiedersi se tra questi non vi sia anche una distorsione nella corretta acquisizione del concetto. Il rischio, infatti, in molti casi è che l’etica venga respinta perché recepita nella sua essenza più ideale, assoluta e, in tal modo, comprensibilmente considerata di difficile introduzione in ambito aziendale. In questa prospettiva diventa inevitabile una sua delegittimazione dal punto di vista pragmatico, di fatto esautorandola del suo effettivo potenziale di guida nelle decisioni aziendali. 25 26 L’iniziativa appartiene al manager nel 57,81% dei casi, mentre l’imprenditore sembra intervenire assai più raramente (15,63%). Si segnala poi un 8,06% secondo cui tali questioni vengono affrontate costantemente. Ma ci sono anche casi (12,90%) in cui non ci si è mai trovati a dibattere in termini etici. Si tratta di essere visibilmente presenti in azienda, muovendosi tra i suoi locali per raccogliere sensazioni, movimenti ed emozioni, rimanendo in contatto continuo con ciò che accade sul campo. Sul management by wandering around o surveillance management cfr. Henry Mintzberg, “Gestire l’eccezionalità”, Sviluppo & Organizzazione, n. 193, 2002. 212 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Esiste allora un’etica possibile per l’azienda e, in tal caso, che tipo di etica dovrebbe essere? Come detto, l’etica idealizzata non può trovare spazio in ambito aziendale. L’etica d’impresa, per definizione, non può essere un’etica assoluta che prescinde dal contesto di applicazione. Questo canone di comportamento obbligherebbe infatti l’organizzazione a farsi carico di qualsiasi istanza proveniente dagli interlocutori, anche se tale da nuocere alla sua capacità di produrre reddito, sia pur in un arco temporale non breve, che rimane sempre un connotato distintivo dell’impresa e una condizione ineludibile per garantirne la continuità. Dunque non un’etica assoluta, ma un’etica relativa, pragmatica, proiettata alla ricerca di comportamenti moralmente giusti, ma che al contempo non compromettano l’esistenza dell’impresa. Da questo punto di vista anche la scelta di chiudere uno stabilimento può rispondere ad un criterio decisionale etico nella misura in cui diventi fondamentale per assicurare la continuità dell’impresa. Fatto, questo, d’altra parte, che possiede anche una sua rilevanza etica. La sopravvivenza dell’impresa, infatti, non riguarda solo l’imprenditore o la proprietà aziendale, ma coinvolge anche i lavoratori, le loro famiglie e la collettività tutta. L’etica cui ci si riferisce è dunque un’etica che porta ad agire per il bene comune. L’etica cui ci si riferisce non va nemmeno confusa con una buona attività di marketing o di gestione del rischio dove il criterio etico scaturisce da una oculata analisi del contesto ambientale e appare subordinato ad una logica di tornaconto economico. Questo è un approccio che mostra delicati lati deboli: è difficile da mantenere nel tempo e può mettere a repentaglio la reputazione dell’impresa nel caso in cui emerga la contraddizione con la vera identità d’impresa. L’etica cui ci si riferisce non risulta da un preciso ragionamento, ma è il frutto di un processo spontaneo, naturale. Traspare dai gesti quotidiani. In termini filosofici corrisponde alla cosiddetta virtue ethics27, secondo cui certe scelte si compiono non tanto per il loro risultato utilitarista, ma perché fanno parte di ciò che significa “essere una persona”, perché sono misura e sviluppo della propria identità. Secondo questa impostazione, sebbene il comportamento etico possa consentire anche il conseguimento di risultati economici, l’agire virtuoso è la vera e propria ricompensa. Sarebbe come dire che lo studente che si applica con disciplina per l’apprendimento di uno strumento musicale probabilmente conseguirebbe voti elevati all’esame finale di corso, ma il premio più grande consisterebbe nella capacità di esprimersi musicalmente a livelli sempre più elevati. Gli psicologi parlano in proposito di “esperienza di flusso di coscienza”28 ovvero di pieno coinvolgimento, di piena immersione nell’esperienza. L’esperienza del flusso di coscienza si manifesta di fronte a sfide elevate e in quanto tale si addice all’agire etico. L’agire etico può diffondere una soddisfazione di questo tipo; può 27 28 Per l’impostazione originaria è possibile vedere Aristoteles, Ethica nicomachea, Clarendon Press, Oxford, 1962. Allo studio della virtue ethics si è dedicato in modo particolare il filosofo contemporaneo Alaisdair McIntyre per il quale si può fare riferimento a After Virtue, University of Notre Dame Press, New York, 1961. Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business, op. cit. ELENA GIARETTA 213 coinvolgere le persone al punto da fluire senza sforzo, sospinto da una corrente di energia. Ancora una volta in una prospettiva zen29, ciò che coinvolge e fornisce un appagamento interiore non è l’obiettivo, ma le varie mosse che si compiono per conseguirlo. Una eccessiva preoccupazione per il raggiungimento dell’obiettivo finale spesso interferisce con la performance. Se un tennista pensa soltanto a vincere l’incontro non sarà in grado di rispondere ai potenti servizi dell’avversario. Come dire, ciò che conta è il viaggio per arrivare a destinazione. Dunque, agire eticamente, a differenza di quelle azioni che vengono compiute in previsione di un certo corrispettivo o per evitare di essere puniti (esoteliche), è intrinsecamente gratificante, poiché la ricompensa principale che se ne ricava è semplicemente il fatto di compierle. Lavorare con piacere e sentirsi in armonia con sé stessi, è questo il risultato, e non soltanto il profitto, ad esprimere la vera misura del guadagno generato. In sintesi, ecco le caratteristiche dell’etica possibile: - è un’etica pragmatica, proiettata alla ricerca di comportamenti moralmente giusti, ma che al contempo non compromettono l’esistenza dell’impresa; fluisce senza sforzo e spontaneamente (scompare la distinzione tra pensiero e azione); non si fonda su criteri di convenienza; risponde ad una logica di ricerca di senso e di pieno coinvolgimento; è autotelica, ovvero intrinsecamente gratificante nel senso che il compenso principale che se ne ricava è semplicemente il fatto di agire eticamente. Il manager guidato da questo tipo di senso etico agisce come se l’impresa dovesse perdurare a lungo, per almeno cento anni. “Recentemente ho incontrato Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, un’azienda che produce articoli per il tempo libero. Il suo ufficio era sistemato in un edificio con decori a stucco e tinte pastello, nascosto fra eucalipti e jaracande, in una tranquilla posizione alla fine di un vialetto. All’interno gli spazi erano semplici e rilassanti, con mobili classici di legno massiccio, grandi vetrate e qualche felce che pendeva dalle travi a vista. I dipendenti, in pantaloni corti e sandali, che si muovevano fra gli uffici sembravano perfettamente a loro agio, come se stessero passando dalla cucina alla stanza da letto di casa loro. (…) Di tanto in tanto le risate di bambini salivano dall’asilo nido al pianterreno. Mi complimentai con Chouinard per il bel posto che era riuscito a ritagliare da un edificio industriale abbandonato, vecchio circa di un secolo. “Sì - rispose - nessuno costruisce qualcosa del genere se ha intenzione di quotarsi in Borsa entro tre anni, incassare e sparire. Perciò cerchiamo di agire come se questa impresa dovesse stare qui altri cent’anni””30. 29 30 Sulla prospettiva zen in ambito manageriale può essere utile riferirsi a: Vittorio Mascherpa, “Lo zen e l’arte di vivere il tempo di lavoro”, in Claudio Baccarani, a cura di, Giocare con il tempo in azienda ed essere più competitivi, Giappichelli, Torino, 2008. Cfr. Mihaly Csikszentmihalyi, Buon business, op. cit., p. 10. 214 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? Approccio, questo, ben diverso, come si è visto, da quello descritto con l’indagine o comunque da quello tipico del manager per antonomasia che, in contrapposizione, potrebbe invece essere definito “manager per un giorno o per un’ora”31. Il “manager per cent’anni” mostra invece un profilo alternativo i cui tratti appaiono in sintesi i seguenti: - ha una visione di lungo termine; considera il pensiero importante almeno quanto l’azione; non vive nel terrore di affrontare periodicamente la relazione trimestrale; ha padronanza del proprio tempo; difende la propria integrità, ovvero la possibilità di vedere rispettati i propri valori e se stesso come persona da parte dell’organizzazione; sente la responsabilità del suo lavoro; rimane in carica per un periodo di tempo ragionevole; trova piacere e divertimento nel lavorare; cerca di fare del proprio meglio, nel convincimento che non sono i finanziamenti a determinare il suo successo, ma l’idea di migliorare il modo di fare le cose; aiuta gli altri, mostrando interesse per la gente e per il valore dei rapporti; cerca di costruire un mondo migliore, con un senso di responsabilità che si estende alla comunità. La presenza di questi elementi - al limite della vocazione - trasforma l’impresa da strumento per la realizzazione di profitto a “creativo esperimento umano che mira a migliorare la vita”32. Anche realizzare profitti migliora la vita, ma con un beneficio limitato ad un ristretto numero di persone che non necessariamente per questo – per il cosiddetto “paradosso della felicità”33, ovvero la correlazione negativa tra ricchezza e felicità individuali - potrebbero sperimentare un sensibile innalzamento della qualità della vita. Più che di un manager, sembra il profilo di un leader visionario, ma non per questo irreale. Gestire le organizzazioni in modo da realizzare un profitto soddisfacente e ragionevole, ma soprattutto contribuendo al benessere delle persone è possibile proprio per il fatto e nella misura in cui se ne può ricavare un piacere intrinseco. Per chiudere tornando alla questione iniziale, una sensazione ormai piuttosto diffusa è che in tema di etica d’impresa si sia ancora rimasti sul piano delle speculazioni teoriche o delle dichiarazioni di principio, senza essere più di tanto riusciti a modificare effettivamente - almeno in parte - i comportamenti della maggior parte delle imprese. I risultati della ricerca presentata in questo lavoro ne 31 32 33 Ibidem, p. 11. Ibidem. Cfr. Richard A. Easterlin, “Does Economic Growth Improve the Human Lot?” (1974) in Paul A. David and Melvin W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, New York: Academic Press, 1974. Sullo stesso tema cfr. anche Mihalyi Csikszentmihalyi, “If we are so rich, why aren’t we happy?”, The American Psychologist, n. 54, 1999. ELENA GIARETTA 215 sono diretta seppur parziale testimonianza. Segnali di cambiamento vi sono, ma nella maggioranza dei casi si tratta di cambiamenti apparenti, caratterizzati da abili operazioni di relazioni pubbliche, destinati alla lunga a rivelarsi in tutta la loro fragilità. In questa cornice diventa legittimo interrogarsi, se non proprio sull’opportunità di continuare a procedere con gli studi lungo il sentiero finora percorso, quantomeno sulle reali possibilità che, sia pur in un tempo lungo, prima o poi le dichiarazioni di principio possano essere tradotte in comportamenti pratici. Le imprese che si stanno avvicinando a criteri diversi sono indubbiamente poche, veri e propri “casi”. Ma esistono. A solo titolo di esempio potrebbe essere richiamato il caso di una giovane e dinamica impresa italiana: la Davines spa, produttrice di cosmetici professionali. Nel riquadro che segue è richiamato il suo modo di intendere e di vivere l’etica. Tra i numerosi elementi di riflessione che se ne potrebbero ricavare, si vuole portare l’attenzione su due aspetti. Innanzitutto colpisce il significato attribuito alla ricerca etica come possibilità di “vivere un’esistenza piena e degna di essere vissuta” (cura di sé). In questa visione trova così implicita ma piena conferma il modello dell’esperienza di flusso. In secondo luogo, il framework descritto sembra radicarsi su un’idea nuova per l’impresa, della quale finora non si è fatto cenno, sebbene esprima buona parte del profilo del “manager per cent’anni”. Ci si riferisce al senso del dono implicito nella scelta di prendersi cura degli altri e dell’organizzazione, in una parola al concetto di generosità, un sentiero innovativo in tema di etica di impresa, sul quale alcuni studiosi stanno iniziando ad avventurarsi34. Un caso di etica possibile Che cosa intendiamo quando parliamo di etica (…) non parliamo di obbligatorietà, ma di un auspicio, di una ricerca (…), a raggiungere tre obiettivi: la cura di sé, la cura dell’altro e la cura dell’organizzazione in cui si vive e si lavora. Cura di sé La ricerca etica si propone di rendere ciascuna persona responsabile, capace cioè di farsi carico e di rispondere delle proprie libere scelte. (…). Vuole permettere alla vita di ciascuno di radicarsi nei propri valori vitali. Spera di far giungere a maturazione e a compimento le possibilità che ciascuno di noi ha di vivere un’esistenza piena e degna di essere vissuta. Cura dell’altro La ricerca etica si sviluppa con e per gli altri. (…) ci fa dirigere verso gli altri. Si fonda sull’accorgersi di loro (…). Sul riconoscimento dell’altro come simile a noi. (…). Cura dell’organizzazione (…)Possiamo essere etici attraverso l’elaborazione di giusti canali comunicativi e di corretti meccanismi organizzativi, che consentano (…) un’equa distribuzione di diritti e doveri, (…), responsabilità e soddisfazioni. Per garantire a noi stessi, agli altri, all’azienda pienezza d’essere e armonico sviluppo. (Da Davines Carta Etica) 34 Ci si riferisce in particolare ai recenti studi di Claudio Baccarani tra i quali può essere un utile riferimento la lettura di “What does ethical behaviour mean in management activities”, Total Quality Management, vol. 20, n. 2, 2008. 216 ETICA D’IMPRESA: GIOCO DI PAROLE O BUSSOLA MANAGERIALE? I casi per così dire anomali che si è avuto modo di conoscere direttamente o dei quali si è venuti indirettamente a conoscenza sembrano possedere un elemento ricorrente. Il cambiamento davvero autentico ed efficace è quello che deriva non tanto da una pressione ambientale esterna, quanto soprattutto da una pulsione interna rispondente ad un’esigenza di ricerca di felicità e di significato pieno dell’esistenza. Su questo tracciato, nuove parole stanno facendo capolino sul terreno dell’etica d’impresa, in parte oltrepassando i consolidati recinti dell’economia e gestione delle imprese per prendere a prestito attrezzi tipici di altre discipline. Qui si è voluto aprire una finestra in particolare sul “flusso di coscienza”, con un timido riferimento anche al concetto di generosità, percorsi sui quali l’intento e l’impegno da parte di chi scrive sarà quello di tentare di procedere con ulteriori approfondimenti. Bibliografia ARISTOTELES, Ethica nicomachea, Clarendon Press, Oxford, 1962. BACCARANI C., Postfazione al testo di Federico Brunetti, Il turismo sulla via della qualità, Cedam, Padova, 1999. BACCARANI C., “Meditazioni di un tecnico industriale perplesso”, in Elena Giaretta, Alle origini della tecnica industriale e commerciale. Uno sguardo al passato per contribuire al futuro, Cedam, Padova, 2003. BACCARANI C., “What does ethical behaviour mean in management activities”, Total Quality Management, vol. 20, n. 2, 2008. BACCARANI C., Giaretta Elena, “Quesiti sull’etica d’impresa: dialogo tra il dubbio e la conoscenza”, in collaborazione con C. Baccarani, in AA. VV., Dall'analisi economica all'economia sociale. Scritti per Giuseppe Gaburro, Cedam, Padova, 2004. BACCARANI C., GIARETTA E., “Evoluzione degli orientamenti d’impresa e scelte etiche di marketing”, in U. Collesei, J.C. Andreani, a cura di, Atti del Convegno Internazionale, Le tendenze del Marketing in Europa, Venezia, Università Ca’ Foscari, 24-25 novembre 2000. BOWIE N., “New Directions in Corporate Social Responsibility”, Business Horizons, JulyAugust, 1991. 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