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La riproduzione mediatica fra tautologia e
apprendimento significativo
Gianni Trimarchi
L’arte è più che altro un’organizzazione del nostro comportamento in vista
del futuro [. . . ] cioè di un certo mutamento a lunga scadenza del nostro
comportamento e del nostro organismo [. . . ] da quell’orientamento che essa
dà alla catarsi dell’animo dipende anche quali forze arrecherà alla vita, che
cosa libererà e che cosa respingerà nel profondo.
L.S. Vygotskij, Psicologia dell’arte1
Introduzione
Risalendo alle origini, i media, nel loro autointendimento, si davano come strumenti che diffondevano repliche: qualcosa di molto rassicurante e scarsamente incisivo
sugli usi e costumi degli utenti. David Sarnov, uno dei fondatori dell’emissione
radio in America, definiva l’apparecchio ricevente come una «scatola musicale»2 ,
con un valore marcatamente ricreativo. Anche la televisione fu definita dai suoi artefici come «un sereno svago», o un «teatro casalingo»; fin dai primi anni, tuttavia,
alcuni eventi dimostrarono che i processi mediologici di riproduzione della realtà
erano ben lungi dal costituire una semplice copia. Già nel 1922 il primo messaggio pubblicitario radiofonico mandato in onda negli Stati Uniti diede enormi e non
previsti profitti al committente, mentre la famosa trasmissione sull’invasione dei
marziani, realizzata da Orson Welles nel 1938, iniziò a gettare fin da allora una luce inquietante sull’incisività dei media nella vita quotidiana. Questa capacità dello
1
L.S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, tr. it. di A. Villa, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 344.
M. McLuhan, “Il tamburo tribale”, in Il pensiero e la radio, a cura di R. Grandi, Lupetti,
Milano 1995, p. 122.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
spettacolo era nota da sempre per quanto riguarda il teatro3 , ma la sua influenza
non era mai stata così pervasiva come nel caso dei nuovi media.
Infatti, quando Nodier nel 1841 affermava che la diffusione del melodramma
aveva drasticamente ridotto il numero di omicidi nella Francia napoleonica4 , sicuramente si poneva in una prospettiva mediologica, ma forse esprimeva soprattutto
una buona intenzione. A distanza di 100 anni, il suo sogno si era realizzato, sia pure
in una variante cinica: con ogni evidenza lo spettacolo, riprodotto con martellante
continuità, creava mentalità e comportamenti di massa al di là delle aspettative, ma,
come noto, i risultati non erano quelli previsti dall’etica, o dall’educazione tradizionale. Già nel 1930 Arnheim rifletteva su alcuni aspetti problematici delle nuove
forme di comunicazione.
La televisione è parente dell’automobile e dell’aeroplano: è un mezzo di
trasporto culturale [. . . ] non offre nuovi mezzi per l’interpretazione artistica
della realtà, come hanno fatto invece la radio e il cinema. Ma, come i mezzi di
trasporto, che furono il dono dell’ultimo secolo, la televisione muta il nostro
atteggiamento di fronte alla realtà [. . . ] soprattutto ci dà la sensazione della
molteplicità delle cose che accadono contemporaneamente in luoghi diversi
[. . . ] Diveniamo preda della pericolosa illusione che percepire equivalga a
conoscere e capire.5
In sostanza lo spazio del “conoscere” e del “capire”, tradizionale appannaggio della scuola, veniva invaso da nuove forme che però non si davano in alcun
modo consapevoli finalità formative. Esse risultavano tuttavia molto incisive sul
loro pubblico, anche perché si fondavano sul pensiero percettivo, che costituiva un
grande spazio da sempre non preso in considerazione dalla scuola, sofferente, per
Arnheim, di «disoccupazione dei sensi»6 .
Circa negli stessi anni, un discorso più articolato sulle funzioni dei media veniva elaborato da Benjamin; per quanto riguarda il frammento che qui segue, l’importante non è solo il fatto che il filosofo tedesco accenni alla televisione, ma che
ne parli in termini di spettacolo, inteso come un fatto intrinsecamente produttivo
nell’ambito della formazione.
La televisione propone nuove difficoltà, problemi, pericoli [. . . ] le sue possibilità di utilizzazione artistica saranno tanto più varie quanto più si riuscirà
3
Fra i vari passi che si qui potrebbero citare, ne ricordiamo uno di Rousseau: «Il teatro, senza
poter fare nulla per correggere i costumi, può contribuire parecchio ad alterarli. Favorendo tutte le
nostre tendenze, esso dà un nuovo ascendente a quelle che ci dominano; le continue emozioni che vi
proviamo ci indeboliscono, rendono più fiacca la nostra resistenza alle passioni e lo sterile interesse
che avvertiamo per la virtù non serve che a soddisfare il nostro amor proprio, senza indurci a praticarla» (J.J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, a cura di F.W. Lupi, “Presentazione” di E. Franzini,
Aesthetica, Palermo 2003, p. 64).
4 C. Nodier, “Introduction”, in R.G. de Pixerécourt, Œuvres choisies, Tresse, Paris-Nancy 184143, p. V.
5 R. Arnheim, “Vedere lontano”, in Film come arte, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 173-174.
6 Id., Il pensiero visivo, tr. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1974, p. 6.
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[. . . ] ad emancipare anche questo strumento dai compiti di mero reportage,
quanto più si saprà usarlo in funzione spettacolare.7
Il teatro didattico di Bertolt Brecht
Quando Benjamin parla di spettacolo, lo fa in un senso ben preciso, in riferimento
al “teatro epico” e “didattico” di Brecht, autore con il quale egli aveva «un rapporto
di amicizia e almeno in parte di sudditanza»8 . Il modello elaborato dal grande
drammaturgo è pensato fin dalle origini come forma pedagogica. Infatti Brecht
scrive:
Secondo l’opinione diffusa, fra imparare e divertirsi la differenza è molto
forte. Imparare può essere utile, ma solo divertirsi è piacevole. Indubbiamente lo studio, quale lo abbiamo conosciuto a scuola, è qualcosa di deprimente
[. . . ] Il desiderio di imparare dipende dunque da vari fattori, ma non si può
negare l’esistenza di un entusiasmo per lo studio, di uno studio gioioso e
combattivo.
Se non vi fosse questa possibilità di studiare divertendosi, allora veramente il teatro, per quella che è tutta la sua struttura, non sarebbe assolutamente in grado di insegnare.9
In coerenza con le teorie elaborate da taluni studiosi dell’epoca, anche Brecht
rifiuta l’empatia dei contenuti10 e il dilettantismo della concentrazione interiore11
che, dando luogo a «orge di sentimenti»12 , potevano impedire l’esperienza estetica vera e propria. Non bisogna mai «consentire allo spettatore di abbandonarsi
attraverso la semplice immedesimazione ad emozioni incontrollate e praticamente
inconcludenti»13 .
Il modello a cui una messa in scena, e quindi un attore, deve fare riferimento
è quello del «testimone oculare di un incidente stradale, il quale mostra ad un
assembramento di gente come è capitata una disgrazia»14 .
L’attore in questo contesto
non deve ammaliare nessuno15 [. . . ] bisogna ripulire la scena da ogni aura
magica e da ogni campo ipnotico, dal momento che il problema consiste
semplicemente nel facilitare il giudizio sul caso specifico. Egli dovrà quindi
7
W. Benjamin, “Intervista a E. Schoen”, in Tre drammi radiofonici, Einaudi, Torino 1978, p. 141.
C. Cases, “Introduzione”, in W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, tr. it. di A. Marietti,
Einaudi, Torino 1973, p. XI.
9 B. Brecht Scritti teatrali, tr. it. di E. Castellani, F. Fertonani e R. Mertens, Einaudi, Torino 1962,
pp. 65-66.
10 M. Geiger, “Vom Dilettantismus im künstlerischen Erleben”, in Zugänge zur Ästetik (tr. it. e
cura di G. Scaramuzza, Lo spettatore dilettante, Aesthetica Preprint, Palermo 1988, p. 35).
11 Ibid., p. 56.
12 Ibid., p. 41.
13 B. Brecht, op. cit., p. 63.
14 Ibid., p. 84.
15 Ibid., p. 85.
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avere il tono di chi cita, di chi legge, ma in fondo contraddice, perché non è
d’accordo16
avendo cura di fare in modo che il pubblico abbia a immedesimarsi con il dramma
complessivo che avviene sulla scena e non con le passioni del singolo personaggio.
In questa poetica, l’impressione di realtà incombente, tipica del melodramma,
è espressamente rifiutata, insieme all’immedesimazione, mentre l’iperbole permane, ma svolge una funzione essenzialmente ironica e comunque straniante, proprio
come garanzia di una non realtà, da intendere come astrazione: è il caso del messaggero, che entra in scena “a cavallo” nel finale dell’Opera da tre soldi, o del
testimone essenziale, «nella rappresentazione di un omicidio legale», che compare
all’ultimo momento nell’aula di un tribunale, su un cocchio «tirato da un cigno»17 .
In questo stile di rappresentazione ritornano diverse espressioni delle variabili
tradizionali, come la caratterizzazione, il sottotesto, addirittura il trucco, ma tutto è
reinventato. Benché, come scrive Brecht, il nostro oggetto consista nel descrivere
un incidente stradale, può essere importante poter prendere in esame anche quei
fattori che non risulterebbero assolutamente trascrivibili in un normale verbale e
che forse sono i più significativi per la comprensione attiva da parte dello spettatore.
Se compare ad esempio un personaggio col berretto a sghimbescio, questo dettaglio
può indicarci che è ubriaco, offrendoci un contributo significativo per comprendere
i fatti.
Nonostante la forte impostazione didascalica, Brecht non ha dubbi quanto al
fatto che il suo teatro sia in grado di restare teatro: «Il teatro epico è altamente artistico e riesce difficile immaginarlo senza artisti e senza arte. Fantasia, umorismo
e simpatia umana sono cose, fra molte altre, di cui non si può fare a meno»18 .
Tuttavia, come scrive C. Cases, in questo schema, «le preoccupazioni di contenuto sono molto forti [. . . ] il discorso prende le mosse dal dilemma tra il postulato della giusta tendenza politica e quello della qualità letteraria, dilemma
insolubile»19 , preso in esame a più riprese anche da Benjamin20 .
Anche altri autori espressero dubbi non sull’opera, ma sulla teoria di Brecht.
Grotowski ad esempio lo elogiò per non averla seguita affatto durante la stesura delle sue opere21 . Resta in ogni caso di grande interesse l’aver cercato di connettere
le variabili spettacolari a una forma molto esplicita di apprendimento, in sostanziale sintonia con varie teorie che si trovavano al centro del dibattito culturale negli
anni Trenta.
16
Ibid., pp. 97-98.
Ibid., p. 42.
18 Ibid., p. 93.
19 C. Cases, “Introduzione”, in W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, cit., p. XI.
20 Vedi ad esempio W. Benjamin, “Autore come produttore”, in Avanguardia e Rivoluzione, cit.,
p. 203.
21 «Difficile trovare uno spettacolo che abbia la forza di Madre Courage diretto da Brecht. È
stato un grandissimo regista. Fortunatamente non è stato fedele a se stesso, ha giocato con la sua
dottrina, il che è legittimo, e se ne è anche allontanato. Era un regista libero» (J. Grotowski, citato in
Awareness, dieci giorni con J. Grotowski, a cura di G. Vacis, BUR, Milano 2002, p. 139).
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Ad esempio, nel suo saggio sulla sociologia del linguaggio, Benjamin sembra
legittimare implicitamente il teatro didattico, dichiarando in sostanza che mimica,
dizione e gestualità costituiscono le sopravvivenze ancora operanti del linguaggio
primitivo e pertanto sono variabili fattuali della comunicazione.
Il problema tuttora dibattuto del rapporto fra linguaggio e pensiero [. . . ] non
può essere praticamente affrontato senza ricorrere ai materiali della psicologia animale; le nuove discussioni sul linguaggio gestuale e sonoro sono rese
possibili dall’etnologia22. [. . . ] In che cosa consiste dunque la vera natura
del linguaggio parlato? [. . . ] è solo una forma di un fondamentale istinto
animale: dell’istinto del movimento espressivo mimico mediante il corpo.23
A questo punto la “depressione scolastica” risulta facilmente assimilabile a
quelle teorie che intendono il pensiero o il linguaggio come un’arida «operatio per
se, cui non communicat corpus»24 . Ragionando in una prospettiva completamente
diversa, la dimensione teatrale risulta invece come quella in cui confluisce tutta la
ricchezza dei codici multimediali sopravvissuti all’interno dell’evoluzione; la funzione di questi consiste nel vivificare il linguaggio e, insieme a esso, la riflessione.
A questo punto il tradizionale divieto del teatro, in atto presso varie culture, si ribalterebbe nel dichiarare la necessità della messa in scena, intesa come un momento
assai pregnante tra le forme del comunicare e addirittura dell’apprendere.
Ponendosi in sostanza su questa stessa linea, L.S. Vygotskij, autore noto a
Benjamin25 , in alcuni passi essenziali di Pensiero e linguaggio afferma l’identità
dialettica dei due opposti processi di apprendimento e sviluppo che egli definisce
come «cammino dal basso verso l’alto» a partire dal concreto quotidiano, con tutte
le sue valenze emozionali, e come «cammino dall’alto verso il basso» a partire
dall’astratto26 .
In questo senso Bühler ha perfettamente ragione quando dice che il processo
di formazione dei concetti non consiste in un’ascensione nella piramide dei
concetti dal basso verso l’alto, ma che il processo di formazione dei concetti
va nei due sensi, come nel processo di scavo di un tunnel.27
Con queste premesse, largamente diffuse nell’ambiente di Benjamin e Brecht,
un “teatro didattico” non rappresentava un fatto empirico, ma la razionale appli22 W. Benjamin, “Problemi di sociologia del linguaggio”, in Critiche e recensioni, Einaudi,
Torino 1979, pp. 223 sgg.
23 Ibid., p. 249.
24 S.V. Rovighi, L’antropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1965,
p. 24. Qui S. Tommaso esprime lucidamente il punto di vista di una certa tradizione filosofica,
ripresa anche in epoca recente, dichiarando la totale separazione del pensiero dalla percezione e
dalla corporeità in generale.
25 Il saggio di L.S. Vygotskij “Le radici genetiche del pensiero e del linguaggio” risulta citato in
W. Benjamin, Critiche e recensioni, tr. it. di A. Marietti, Einaudi, Torino 1979, pp. 243 sgg.
26 L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, tr. it. di L. Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 287.
27 Ibid., p. 196.
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cazione di una teoria, che non aveva ancora trovato risvolti mediologici, ma aveva
dietro di sé una tradizione28 .
Cinema e radio dal punto di vista di un’avanguardia
Il concreto emozionale, che caratterizzava anche il linguaggio cinematografico,
non costituiva una novità nell’ambito dello spettacolo, dal momento che esso aveva già larghe manifestazioni nel teatro, ma la sua enorme diffusione consentita
dai nuovi media era qualcosa di non previsto dai vecchi schemi e apriva nuovi
orizzonti.
Già precedentemente era stato sprecato molto acume per decidere se la fotografia fosse un’arte, ma senza che ci si fosse posta la domanda preliminare:
se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere
complessivo dell’arte. I teorici del cinema ripresero ben presto questa male
impostata problematica.29
Al contrario, proprio la novità della situazione creatasi grazie alle nuove tecniche permette di ridefinire l’identità stessa dell’arte e dei suoi compiti sociali.
Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua esponibilità
è cresciuta in maniera poderosa [. . . ] l’opera d’arte diventa una formazione
con funzioni completamente nuove, di cui quella di cui siamo consapevoli,
quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta
come marginale.30
Vedendo il problema da un punto di vista più intrinseco, la cinepresa permette,
secondo Benjamin, di ritagliare la realtà in microscopici frammenti non percettibili
nella normale percezione della realtà a occhio nudo; in questo senso egli paragona
il lavoro dell’operatore cinematografico a quello dell’oculista e dell’otoiatra, che
esplorano segmenti del corpo praticamente invisibili in condizioni normali. Questa
esplosione della realtà in frammenti viene poi ricomposta nel lavoro di montaggio,
che ricostituisce in forma nuova i significati, andando ampiamente al di là di una
semplice riproduzione tecnica.
28
In questo ambito si colloca il coraggioso quanto impossibile tentativo, operato da Ejzenštein,
di sceneggiare Il Capitale di K. Marx. Sul valore educativo del cinema va poi ricordata anche una
curiosa confessione autobiografica del grande regista russo, che emerge proprio dal contesto culturale
di cui ci stiamo occupando. «Il contatto con l’arte porta lo spettatore ad un regresso culturale. Infatti,
il meccanismo dell’arte si definisce come mezzo per distogliere la gente dalla logica razionale, per
immergerla nel pensiero sensuoso [sic!] e per provocare in questo modo reazioni emotive [. . . ] Fu
Vygotskij a dissuadermi dal proposito, se non proprio di distruggere, almeno di abbandonare questa
vergognosa attività» (P. Montani, “Introduzione”, in S.M. Ejzenštein, La natura non indifferente,
a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1981, pp. XXIV-XXV).
29 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini,
Einaudi, Torino 1966, p. 29.
30 Ibid., p. 28.
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Anche la teoria dello choc cinematografico, erede del “brulichio” della metropoli, crea nuove condizioni di uso dei testi filmici e radiofonici, in quanto non si
richiede più una fruizione “raccolta”, perché i nuovi canoni artistici permettono di
penetrare nelle menti dei fruitori, creando nuove ovvietà, ma senza richiedere che
essi mettano in atto un vero e proprio sforzo di comprensione.
Anche qui, come già in ricerche precedenti sulla funzione sociale dell’arte nei
secoli passati, Benjamin si preoccupa di cogliere le modificazioni percettive operate dai nuovi mezzi nello spettatore31 . Qui egli evidenzia una funzione squisitamente mediatica come la percezione nella distrazione. Benché altri commentatori,
come C. Cases32 , intendano diversamente, sembra si tratti, per Benjamin, del chiaro sintomo di un cambiamento avvenuto nella mentalità del pubblico e che risulta
stabile proprio quando nuove ovvietà si manifestano nella distrazione.
Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi
[. . . ] La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre più
insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde
modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento più autentico
su cui esercitarsi.33
Tutto ciò ovviamente non poté che scandalizzare i sostenitori del valore di una
fruizione tradizionale dell’opera d’arte. G. Duhamel, ad esempio, si scaglia contro
il cinema, che egli intende come «svago per iloti distratti»34 . Anche Pirandello, in
un passo citato da Benjamin, esprime una dura condanna per ogni tipo di riproduzione tecnica, che a suo parere umilia gli artisti veri, imponendo a essi ritmi e forme
espressive estranee al loro modo di sentire, mettendoli «in esilio da loro stessi»35 .
Qui il risultato consisterebbe per gli spettatori in uno squallido divertimento, teso
a mettere in atto «le più stupide finzioni»36 .
Il punto di vista di Benjamin e Brecht è invece diametralmente opposto, dal
momento che essi vedono elementi di positività nei processo indotti dalla riproducibilità tecnica. Essi intendono forme e contenuti veicolati dai nuovi strumenti
come posti al servizio degli intellettuali per attività culturali. In questo quadro
non compaiono le mediazioni di potere legate alla prassi dei grandi apparati, che
emergeranno pesantemente già nel decennio successivo; i nostri autori non hanno
dirette esperienze cinematografiche37 , ma entrambi hanno prodotto programmi per
31
Per un attento esame di queste tematiche, ho fatto più volte riferimento ad A. Pinotti, Piccola
storia della lontananza. Benjamin storico della percezione, Cortina, Milano 1999.
32 «Benjamin [. . . ] alla fine del saggio, esalta addirittura la “ricezione nella distrazione” propria
del film (noi parleremmo di effetto subliminale) e la considera atta a mobilitare le masse» (C. Cases,
“Introduzione”, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 10).
33 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 46.
34 Ibid., p. 44.
35 Ibid., p. 32. Qui Benjamin riporta L. Pirandello, Diario di Serafino Gubbio operatore, Garzanti,
Milano 1993, p. 22 (cfr. anche p. 97).
36 Ibid., p. 60.
37 Ricordiamo, nel caso di Brecht, la collaborazione a un unico film: Kuhle Wampe (1927), regia
di S. Dudow, sceneggiatura di B. Brecht e E. Ottwald.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
un’emittente radiofonica. A questo proposito Brecht dichiara: «In questo grande
magazzino di suoni era possibile imparare in lingua inglese ad allevare polli con
l’accompagnamento del coro dei pellegrini e la lezione costava quanto l’acqua del
rubinetto»38 .
Il contesto radiofonico, secondo Brecht, richiede il teatro epico.
L’applicazione dell’arte drammatica epica potrebbe produrre risultati quanto
mai fecondi nel campo della radio [. . . ] Niente è meno adatto [alla radio] della vecchia opera lirica, che si prefigge di generare uno stato di ebbrezza; essa
infatti raggiunge un uomo che se ne stia isolato davanti al suo apparecchio
radio e, fra tutti gli effetti prodotti dall’alcool, nessuno è tanto pericoloso
quanto una sbronza solitaria [. . . ] l’arte drammatica epica [. . . ] soprattutto
con il suo atteggiamento didattico, potrebbe fornire alla radio un’infinità di
suggerimenti pratici.39
È però Benjamin a mettere in luce il profilo di un’emittenza mediatica in grado
a un tempo di educare e di non perdere l’audience, ciò che i vari dipartimenti
educativi dei decenni successivi riusciranno ben di rado a realizzare.
Si era convinti di disporre, con la radio, degli strumenti di una gigantesca
impresa di istruzione popolare. Cicli di conferenze, corsi di insegnamento,
manifestazioni didattiche d’ogni genere e pompate in grande stile iniziavano
e finivano con un fiasco [. . . ] l’ascoltatore vuole divertirsi e la radio non
aveva niente da offrirgli.40
Prima della radio non si conoscevano quasi modi di diffusione che corrispondessero a scopi eminentemente popolari, o di formazione popolare [. . . ] La
radio [. . . ] richiede una completa trasformazione e un diverso assemblaggio del materiale, che partano dal punto di vista della divulgazione [. . . ] che
non mobilita più soltanto la scienza verso il pubblico, ma nello stesso tempo
anche il pubblico verso la scienza.41
Uno dei radiodrammi realizzati da Benjamin si intitolava Che cosa leggevano i
tedeschi mentre i loro classici scrivevano. Qui, uscendo dai soliti schemi, il filosofo
tedesco si pone il problema di
affrontare direttamente la problematica scientifica [. . . ] Si è tentato di illustrare agli ascoltatori ciò che era in effetti così diffuso e popolare da consentire una tipizzazione: non la letteratura cioè, ma le chiacchiere letterarie di
quell’epoca [. . . ] questi dibattiti nei caffè e alle fiere [. . . ] influivano in modo non trascurabile sull’evoluzione di correnti poetiche e giornali [. . . ] Così
hanno contemporaneamente strettissimi rapporti con la problematica della ricerca letteraria progredita, che tende sempre di più a scrutare le condizioni
38
B. Brecht, La radio come mezzo di comunicazione, cit., p. 45.
Ibid., p. 48.
40 W. Benjamin, “Intervista a E. Schoen”, cit., p. 139.
41 Id., “Due generi di popolarità. Due considerazioni di principio a proposito di un radiodramma”,
in Tre drammi radiofonici, cit., p. 143.
39
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che erano poste alla creazione poetica degli eventi del suo tempo [. . . ] Ricomporre le chiacchiere sul prezzo dei libri, sugli articoli dei giornali [. . . ]
– di per se stesse le più superficiali che si possano immaginare – è uno dei
compiti meno superficiali per la scienza. La sua più bella affermazione consisterebbe nell’avvincere l’esperto non meno del profano, sia pure per diversi
motivi.42
Per ciò che si ricava da questo breve frammento, il problema centrale non riguarda i contenuti; Benjamin è invece preoccupato di strutturare uno stesso discorso in una stratificazione a più livelli, che corrisponda per un verso ai diversi livelli
di formazione del pubblico e per altro verso a una comunicazione fondata sulla dialettica concreto-astratto, secondo i canoni più avanzati delle teorie del linguaggio
elaborate negli anni Trenta, che già abbiamo esaminato.
I media degli apparati e i surrogati dell’aura
Quanto sopra riguarda alcune teorizzazioni, che non ebbero particolare seguito nella pratica quotidiana; del resto dagli scritti di Benjamin ricaviamo con chiarezza
che i grandi apparati erano interessati non a educare, ma a «imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e ambigue speculazioni, la partecipazione delle
masse»43 . Non stupisce quindi che le categorie fin qui prese in esame non siano state impiegate dai vari programmisti, esse tuttavia sopravvivono per noi come
criteri di lettura di vari processi di comunicazione.
Questo vale, in certa misura, per quella che Eco già vent’anni fa definì come paleotelevisione, con chiaro riferimento all’emittenza italiana, priva per alcuni
decenni di caratteristiche commerciali. Questa televisione «parlava delle inaugurazioni e dei ministri e controllava che il pubblico apprendesse solo cose innocenti,
anche a costo di dire le bugie44 [. . . ] sottomessa a censura e concepita per un
pubblico ideale, mite e cattolico, parlava in modo depurato»45 .
Tolto il caso della fiction, alla quale si attribuiva comunque un valore parabolico, il problema che si poneva ai programmisti era in sostanza quello di un puro
e semplice trasporto dell’informazione, in termini non lontani da quelli indicati
da Arnheim già nel 1930. A meno di alcune manipolazioni ritenute inevitabili
dall’apparato, un programma costituiva una sorta di adaequatio fra la rappresentazione e l’oggetto rappresentato, che manteneva una sua identità fisica e una sua
indipendenza rispetto alla messa in scena.
Questa televisione, dichiaratamente non educativa, ma anche, almeno in Italia, non commerciale, in una serie di casi poté effettivamente indurre “vicinanza”
rispetto a situazioni considerate in precedenza inaccessibili al cittadino comune.
42
Ibid., p. 145.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 36.
44 U. Eco, “TV, la trasparenza perduta”, in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, p. 163.
45 Ibid., p. 177.
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Questo, in particolare, nei casi in cui un palinsesto programmato in termini tutto sommato conformistici per un ambiente neocapitalistico, veniva presentato in
un contesto assai più arretrato, caratterizzato da una histoire immobile. Su questo
punto così si esprime un cronista italiano degli anni Cinquanta:
La televisione, piaccia o no ai signori che ne detengono le chiavi e la vorrebbero stupida e addormentatrice, sta lentamente minando nelle campagne,
sulle montagne e sulle isole tutto un modo di vivere quieto e immobile da
secoli. Mette mille fermenti, sveglia, induce alle impazienze, e ai confronti;
agita la sete del nuovo e del meglio, porta un soffio di civiltà comunque essa
sia.46
Se questa è la funzione svolta dalla TV nelle zone sottosviluppate della nostra
nazione, ben altro è però il ruolo da essa svolto nelle altre regioni. Già in due testi
pubblicati nel 1962 sia A. Bellotto che C. Mannucci47 denunciavano una certa invadenza dei media nell’influenzare le abitudini culturali e addirittura i ritmi di vita
familiare. Essi concordavano nel vedere nella televisione italiana molto paternalismo e una grossa tendenza a incoraggiare la mediocrità. In quegli anni tuttavia il
controllo era ancora contenuto, rispetto a ciò che sarebbe avvenuto dopo.
Quando negli anni Ottanta la concorrenza fra i vari apparati mise in moto meccanismi concorrenziali, tesi ad accaparrarsi sempre più pubblico, la TV, dando prova di un imprevedibile gusto speculativo, trasformò il dato di fatto da rappresentare in una sorta di “fenomeno”. Questo, contrariamente a quanto accadeva in
origine, giungeva al fruitore sempre più annientato dalla potenza della griglia che
costituiva la rappresentazione, dando luogo a un quadro d’insieme squisitamente
nominalistico, ma assai più potente del precedente nell’aggredire lo spettatore.
Se in precedenza si evitava di inquadrare una “giraffa”, o una telecamera non
in azione, a partire dagli anni Ottanta la loro presenza in campo, invece di mostrare
l’artificio, contribuisce a celarlo. Se in tempi passati per connettere i vari segmenti
si tendeva a usare una voce fuori campo, nel nuovo schema il presentatore tende
a comparire con invadenza, costituendosi come parte dello spettacolo. Siamo alla
cosiddetta Neo TV, dove non si distingue più fra i generi, né fra i ruoli, rompendo
separazioni che avevano costituito i cardini dell’emittenza negli anni precedenti.
Come scrive Eco,
a confondere ulteriormente le idee, è venuto il programma contenitore [. . . ]
A questo punto anche lo spettatore soprasviluppato confonde i generi. Sospetta che il bombardamento di Beirut sia uno spettacolo e che il pubblico di giovanotti che applaude in sala Beppe Grillo sia composto di esse46
P. Dallamano, “Il televisore”, Il Contemporaneo, n. 36, 1956, citato da M. Sorice, Lo specchio magico, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 28. Riportando il discorso in un ambito più formale,
T. De Mauro (Capire le parole, Laterza, Roma-Bari 1994) ha sottolineato la grande capacità di alfabetizzare l’Italia dimostrata dalla televisione durante i suoi primi anni, nelle ampie zone in cui si
parlava soltanto il dialetto locale.
47 A. Bellotto, La televisione inutile, Comunità, Milano 1962; C. Mannucci, Lo spettatore senza
libertà, Laterza, Roma-Bari 1962.
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ri umani. Insomma [. . . ] informazione e finzione si intrecciano in modo
indissolubile.48
Si tratta, in fondo, di una realizzazione routinaria e su larga scala di quanto era
già avvenuto una tantum e un po’ per caso nella famosa trasmissione di O. Welles
del 1938 cui già si è fatto cenno. Questa era stata offerta agli spettatori americani
durante la serata dell’Halloween, in assonanza con il clima di gioco che caratterizzava questa festa, ma terrorizzò un milione di persone, sia pure su un totale di sei
milioni di spettatori.
Fughe in massa, scene di panico, preghiere, accaparramento di cibo. Welles non era stato al gioco dei generi fra loro separati, in particolare finzione
da una parte e realtà, notiziari, dall’altra. Questa volta tutto era mischiato e
l’ascoltatore ha recepito l’intero messaggio come una descrizione di avvenimenti reali, senza tentare di verificarne la veridicità, magari anche soltanto
sintonizzandosi su di un’altra stazione radio.49
Quali che fossero le sue origini, la Neo TV sconcertò la critica; in particolare,
Eco, già nel 1980, scrisse alcune pagine di elogio nostalgico della paleotelevisione,
intesa come «una finestra che, dalla più sperduta provincia, mostrava l’immenso
mondo»50 . L’apparato televisivo si era deprecabilmente trasformato «da specchio
della realtà» in «produttore della realtà»51 . Per quanto una polemica “apocalittica” contro i nuovi canoni dell’emittenza non fosse ingiustificata, per quanto il
livello delle nuove trasmissioni fosse in molti casi peggiore di quello attuato in
precedenza, la metodologia messa in atto non rappresentava grandi novità rispetto
a fenomeni che Benjamin aveva già evidenziato cinquant’anni prima52 :
La stampa [. . . ] non solo avanza la pretesa che i veri eventi siano le sue
notizie sugli eventi, ma provoca anche questa sinistra identità, onde sorge
sempre l’apparenza che i fatti debbano essere prima riferiti e poi compiuti
[. . . ] la stampa è l’evento [. . . ] Ai fatti sensazionali e sempre identici che la
stampa quotidiana somministra al suo pubblico, [Kraus] [. . . ] contrappone
l’eternamente nuova notizia della storia della creazione, l’eternamente nuovo
incessante lamento.53
La Reality TV come esempio di relazione empatica
Se inizialmente la neotelevisione aveva spettacolarizzato i programmi informativi,
negli anni più recenti essa ha assimilato a un modello informativo anche ciò che
48
U. Eco, art. cit., p. 169.
R. Grandi, Radio e televisione negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 1980, p. 73.
50 U. Eco, art. cit., p. 176.
51 Ibid., p. 168.
52 Fra gli antenati della neotelevisione possiamo ricordare Il trionfo della volontà di L. Riefenstahl (1936), definito da Kracauer come «il trionfo totale del decorativo sull’umano». Già in questo
film l’evento risulta in buona parte costituito ai fini della rappresentazione; il risultato è la costruzione di una lontananza, definibile come la mistica del capo, enfatizzata e non ridotta dalla riproduzione
tecnica.
53 W. Benjamin, “Karl Kraus”, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 109.
49
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una volta sarebbe stato pensato come fiction. Faccio riferimento ai vari esempi di
Reality TV e di TV verità, che si sono succeduti negli ultimi anni sugli schermi.
Si tratta di trasmissioni tese a far emergere la “verità dei sentimenti”, mettendo
in scena per lo più personaggi reali, i quali si esprimono liberamente, in funzione
del contesto e di ciò che accade intorno a loro, senza seguire un copione prefissato.
Questi programmi si suddividono in tutta una serie di generi, fra cui ricordiamo le
situazioni familiari e le house series, con ambientazioni finzionali storiche, tese a
mettere in evidenza il contrasto fra consuetudini di vita in epoche diverse e infine
trasmissioni come il celeberrimo Il grande fratello.
La paradossalità di queste situazioni emerge anche da un esame sommario; infatti è vero che non esiste il copione e le trame sono aperte alla discrezionalità
degli attori, avendo come unico vincolo il trattare di legami sentimentali, invidie,
tradimenti; tuttavia il confine fra spontaneità e recitato, fra straniamento e immedesimazione, è indecidibile, infatti: «da un lato questi programmi affermano l’interesse per l’eccessivamente ordinario, dall’altro sostengono di aver al tempo stesso
raggiunto successo e popolarità grazie alla scoperta di vere e proprie star, cioè di
individui che acquistano un’identità al di là del ruolo che la serie ha creato loro»54 .
Rinascono le star, anche in ambiti come quello della Reality TV, che sembrava
non doverle prevedere affatto; questo in quanto l’industria culturale tiene a «conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla,
propria del suo carattere di merce»55 .
Questi nuovi protagonisti, a loro volta, benché improvvisino tutte le battute,
sono portati dal contesto ad assumere spontaneamente dei comportamenti dal sapore squisitamente melodrammatico, che risultano funzionali a una messa in scena
tutto sommato molto tradizionalista, se non conformista; ad esempio, in un certo
programma, «la star [. . . ] lentamente rifiuta di incarnare il ruolo di antisoggetto e
di provocare la propria non-accettazione, anzi vira il proprio atteggiamento in una
direzione di seduzione, ricercando per contro la propria accettazione da parte della
famiglia. Si trasforma in soggetto del volere [. . . ] ricerca una sanzione morale»56 .
Uno degli esempi più celebri di Reality TV è costituito in Italia da Il Grande
Fratello, per il quale valgono, grosso modo, tutte le regole sopra enunciate. La
struttura della trasmissione è nota, forse meno conosciuta è la sua genesi: la prima idea era stata quella di riprodurre filmicamente le fasi di un esperimento della
NASA relativo a un gruppo di uomini isolati nel deserto dell’Arizona, per simulare
una colonizzazione spaziale57 . Resta da spiegare come mai un progetto così settoriale e claustrofilo abbia potuto in seguito rappresentare un mito per le centinaia di
persone che hanno chiesto di partecipare alla messa in scena e per i milioni di spettatori che hanno seguito il programma, attuando nei fatti quello stesso entusiasmo
che P. Weir attribuiva al pubblico del Truman Show58 .
54
C. Demaria, L. Grosso, L. Spaziante, Reality TV, ERI, Roma 2002, p. 33.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 34.
56 C. Demaria, L. Grosso, L. Spaziante, op. cit., p. 79.
57 Ibid., p. 243.
58 Su questo tema rimando a un mio precedente articolo: G. Trimarchi, “Il padre e il labirinto,
55
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Per quanto riguarda la vita dei partecipanti, anche un testo della critica tutto
sommato non polemico con questo tipo di programmazione come quello già citato
parla in termini molto espliciti di «socialità forzata» e di «quotidianità estirpata
dal contesto»59 , all’interno delle quali il ricomparire di forme tradizionali, come
talk show, soap opera o game show sta a testimoniare che l’abolizione del copione non costituisce necessariamente un criterio di cambiamento. Ovviamente,
dal punto di vista dell’autointendimento, le innovazioni portate da questa trasmissione sono molte e tutte positive. «Ognuno di noi è raccontato da Big Brother,
che attraverso le modalità linguistico-produttive struttura il racconto [. . . ] la piena
concretizzazione di questo assunto fa di Big Brother una comunità modello, con
un’aura in grado di incidere profondamente sull’immaginario collettivo»60 .
In effetti questo immaginario è stato parzialmente reinventato rispetto ai programmi precedenti; lo spettatore è uscito infatti dalla consueta situazione di passività, ma senza riscattarsi dalla dipendenza. Egli può votare telefonicamente, partecipare a dibattiti in studio sulle dinamiche relazionali fra gli attori, o addirittura
scegliersi in Web un’unica telecamera, fra le sessanta in azione, avendo così un
personale punto di vista da cui guardare costantemente la scena. A dispetto delle
innovazioni, tuttavia, esattamente come nel caso di Paleo e Neo TV, il pubblico si
trova inserito in un sensibile schematizzato, che inibisce il pensiero attivo e alla cui
invadenza complessiva gli sarà difficile sottrarsi, nonostante la settoriale attività
propostagli durante la fruizione.
Durante la trasmissione, l’utente fruisce e gioisce della soapizzazione spontanea di uno spettacolo dedicato in forma iperbolica all’interiorità della persona:
questo lo induce a identificarsi nei vari racconti autobiografici, che lo sollecitano
a pensare alla propria autobiografia. In questo caso la TV assolverebbe una grande funzione, presentandosi non come finestra sul mondo, ma come finestra su se
stessi, con al centro la realtà dei sentimenti. Qui gli utenti tendono effettivamente
a viversi come attori, in quanto proiettano sullo schermo i propri desideri frustrati.
Si tratterebbe di una vera e propria necessità psicologica, al di là del desiderio di
apparire. Sarebbe una sorta di trionfo del désir de tout dire come utopia di tutti. La trasmissione realizzerebbe questa utopia, in forma molto coinvolgente per
lo spettatore medio, che vive nella finzione dei protagonisti il proprio desiderio di
raccontarsi.
Questo nell’autointendimento degli autori, ma di fatto il successo della trasmissione sembrerebbe piuttosto imputabile a un processo di empatia, o di proiezione
di conflitti latenti nello spettatore. I desideri frustrati trovano forse qui un punto
di sfogo, ma privo di un’elaborazione vera e propria e privo di soluzione. Al più
questo programma sembrerebbe solleticare inappagabili desideri di psicoterapia.
Volendo tornare al nostro schema di riferimento, potremmo osservare che la
riflessioni su P. Weir”, in B. Mapelli (a cura di), Adultità, Guerini, Milano 2000, pp. 195-201. Analoghi argomenti vengono anche affrontati in Fahrenheit 451 di F. Truffaut, desunto dal romanzo di
R. Bradbury. Va pure qui citato il celebre 1984 di Orwell.
59 C. Demaria, L. Grosso, L. Spaziante, op. cit., pp. 239 e 81.
60 Ibid., p. 242.
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Reality TV sembra porsi come un aperto fraintendimento di ciò che era stato definito come la dialettica lettore/spettatore, o «la legittima pretesa dell’uomo odierno
di essere riprodotto»61 in termini cinematografici. Non a caso Benjamin si era
espresso su questo tema, ma in termini assai diversi da quelli sopra indicati: «Il
lettore è sempre pronto a diventare autore, in quanto competente di qualcosa [. . . ]
nell’ambito di un processo lavorativo estremamente specializzato [. . . ] [in cui] la
rappresentazione mediante la parola costituisce una parte di quelle capacità che
sono necessarie alla sua esecuzione»62 .
Al contrario, ne Il Grande Fratello, assistiamo a un’esibizione della realtà
quotidiana, che sembra rientrare in pieno nelle “rappresentazioni illusionistiche”
e nelle “ambigue speculazioni” operate fin dall’inizio del secolo dall’industria
cinematografica63 .
Questo compare con evidenza, se teniamo conto del disagio espresso in varie
occasioni dai partecipanti alle varie puntate del programma, che percepiscono nel
contesto una sgradevole sensazione di menzogna64 , ma risulta ancora più evidente
se ragioniamo dal punto di vista dello spettatore, che esercita la propria vicinanza
su un oggetto falsificato. Ragionando nei termini consueti ad autori come Benjamin e Brecht, forse potremmo dire che in questi programmi, nuovi solo nelle
apparenze, lo spettatore può trovare motivi di immedesimazione in tautologie più
o meno lacrimose, senza che nulla abbia a modificare il suo modo di percepire la
realtà. Si tratta in sostanza di un brutto “irredimibile”, perché non circoscrive in alcun modo «zone di esperienza artistica misconosciute»65 , mentre risulta «consono
alla spaventosa banalità dell’oggi»66 .
Conclusione: la riproduzione tecnica come processo dinamico
L’ipotesi implicita nel discorso fatto sino a qui era che le categorie enunciate in
alcuni testi, scritti alle origini della mediologia, potessero presentare aspetti ancora
attuali, a dispetto del vertiginoso progresso delle tecniche, ma non dei metodi, che
ha accompagnato gli ultimi sessant’anni di prassi della comunicazione.
Dopo il percorso fatto, la risposta sembra risultare affermativa. Se Benjamin
intendeva già la fruizione artistica tradizionale come una sorta di educazione per61
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 36.
Ibid.
63 Ibid.
64 Ad esempio, da un’intervista a uno dei partecipanti risulta: «La TV ti rende ipocrita, [perché] se
fai il modesto la gente a casa ti vota e ci guadagni» (cfr. C. Demaria, L. Grosso, L. Spaziante, op. cit.,
p. 247). Va anche considerato che qui ci troviamo davanti a una sorta di medialità rovesciata, in
cui il comportamento di un piccolo gruppo è controllato da un’intera nazione attraverso sguardi che
fruiscono di 60 telecamere e attraverso le votazioni telefoniche, con le quali i partecipanti sgraditi
vengono eliminati di volta in volta. La funzione di controllo tradizionalmente esercitata dal regista è
qui affidata a ciò che i partecipanti fantasticano sul controllo telefonico operato dal pubblico.
65 G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, Il Tripode, Napoli 1995, p. 21.
66 Ibid., p. 28.
62
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cettiva dedicata alle masse, ancor più questo fenomeno riguarda lo sviluppo dei
media e la loro capacità di trascorrere fra lontananza e vicinanza.
Ragionando su varie sperimentazioni delle origini, possiamo ricevere utili suggestioni per definire ad esempio la cosiddetta Neo TV come una «fusione fra la
realtà e la macchina»67 . La prassi attuale, però, sembra costituire un dichiarato
fraintendimento di ciò che i dadaisti avevano sperimentato con ben altre mete e
partendo da ipotesi che niente hanno a che vedere con l’attività quotidiana dei media nella nostra epoca. Oggi infatti la parvenza di realismo nasconde la distruzione
della realtà fisica, costringendo tutto il sensibile in uno schema precostituito dalla
programmazione. Con una lucida intuizione, Adorno, già nel 1936 aveva scritto
che sul set «la realtà viene in tutto e per tutto mimeticamente costruita in modo
infantile e quindi fotografata»68 .
Quando poi la TV cerca di entrare in un ambito intimo, come nel caso de
Il Grande Fratello, si tratta pur sempre di “manovre illusionistiche”, che non sembrano dare nulla al pubblico, se non in termini di empatia. In sostanza i progressi
della tecnologia non hanno impedito fino a oggi allo spettatore di porsi ancora al
livello di «quei romanzi da quattro soldi che la sartina divora con le guance in fiamme»69 , sensibile al replicarsi dei soliti contenuti e completamente sorda davanti
all’omotonia delle forme.
Tutto ciò peraltro sembra ormai avviarsi a rappresentare il passato, perché le
tecniche si evolvono rapidamente, proponendoci nuove sofisticate versioni di ciò
che rappresentò nell’Ottocento la macchina a vapore. Oggi i grandi apparati continuano a gestire le forme tradizionali della comunicazione, ma contemporaneamente aprono nuove Higways, intese come una sorta di metaservizio, la cui gestione di
base è affidata agli utenti in una nuova forma non più mediatica, a senso unico, ma
dialogica. Questa forma richiede, sul piano culturale, un grosso sforzo immaginativo per inventare nuovi ruoli, ben diversi da quelli ormai consacrati da sessant’anni
di televisione70 .
Chiaramente qui un nuovo tipo di informazione non consiste più nel poter comunicare contenuti che sfuggano al controllo del sistema. Un ragionevole rinnovamento potrebbe consistere invece nello scoprire forme nuove, «che rappresentano
il punto di attacco per le energie letterarie del presente. Non ci furono sempre romanzi nel passato, non ce ne saranno sempre e necessariamente; non ci saranno
sempre tragedie, né il grande epos»71 .
In sostanza, ancora oggi, resta forse da reinventare una «cultura politecnica»
capace di trasformare l’autorità letteraria in «bene comune»72 , aprendo un orizzonte di comunicazione, che risulti di tipo nuovo, anche a prescindere dai contenuti.
67
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 56.
F. Adorno, citato in A. Pinotti, Piccola storia della lontananza, cit., p. 142.
69 M. Geiger, Lo spettatore dilettante, cit., p. 35.
70 Su questi temi, cfr. P. Ferri, Teorie e tecniche dei nuovi media. Pensare, formare, lavorare
nell’epoca della rivoluzione digitale, Guerini, Milano 2002.
71 W. Benjamin, “Autore come produttore”, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 203.
72 Ibid., p. 204.
68
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Tutto questo potrebbe trovare qualche punto di riferimento nella vecchia ipotesi
di una radio interattiva: si tratta di un sogno di Brecht che oggi la tecnologia ha
già messo in atto, ma che ci trova ancora sprovveduti quanto ai nuovi generi che
potrebbero legittimarlo.
Abbiamo preso in esame il nesso fra astratto e concreto, fra intellettuale e emozionale, in cui abbiamo riconosciuto parte delle problematiche legate a una scuola,
ma anche a una comunicazione mediatica, che Brecht auspicava come non deprimente. In questo stesso ambito credo si possa reperire qualcosa di molto attuale,
per dare fondamento a un metodo educativo che, se vuole raggiungere un pubblico distante senza annoiarlo, deve per forza assumere elementi spettacolari, come
indicava Benjamin, sia pure all’insegna dello straniamento, che non impedisce un
pensiero attivo e critico. Le categorie elaborate in questi ambiti dai nostri due autori sembrano quindi avere uno spessore non trascurabile, che può essere il caso di
non dimenticare in un momento di confusione come quello attuale.
W. Wenders, a proposito di certe incapacità, tipiche della nostra epoca, elaborò una penetrante metafora, descrivendo un gruppo di bambini portoghesi che
producevano una documentazione su Lisbona usando dei recentissimi camcorders.
Il progetto in atto consisteva nel realizzare un misterioso archivio digitale, delle cui
funzioni nessuno era in grado di render conto. In parallelo due vecchi signori svolgevano l’identica attività dei bambini, ma impiegando una ormai storica cinepresa
a manovella, «come se cento anni di cinema non fossero mai esistiti»73 !
In questa situazione di grande vuoto culturale, ma anche di spazio creativo, che
costituisce la nostra realtà, ritengo che una rilettura dei testi delle origini possa dare
contributi non trascurabili. Questi infatti potrebbero indurci a pensare la riproduzione tecnica dell’arte in relazione a nuove forme che per il momento si limitano a
profilarsi e alle nuove funzioni storiche che saranno chiamate a svolgere. In questo momento di riformulazione degli assiomi, forse potremmo riproporci un antico
problema: «Quali nuove forze [l’arte] arrecherà alla vita, che cosa libererà e che
cosa respingerà nel profondo»74 .
73
74
Lisbon Story (di W. Wenders, 1995).
L.S. Vygotskij, Psicologia dell’arte, cit. p. 344.
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