Premessa Se fermiamo gli italiani per strada e

Transcript

Premessa Se fermiamo gli italiani per strada e
Premessa
Se fermiamo gli italiani per strada e chiediamo loro chi erano Prometeo,
Giasone e Protesilao, con ogni probabilità finiremo col raccogliere solo
risposte inesatte, se non addirittura, boh? di stupore. In compenso, però, i
fermati saprebbero dirci tutto su Beautiful e Dynasty. Evidentemente c'è
stato un cambio di guardia tra i personaggi mitici: fuori Adone e Afrodite e
dentro Ridge e Sue Ellen. Eppure, a pensarci bene, la mitologia greca è più
che mai presente nei nostri discorsi. Sempre più spesso infatti si sente
dire: «Quello è un narcisista», oppure «Quell'altro ha il complesso di
Edipo», o ancora «E stato un supplizio di Tantalo», pur senza che nessuno
sappia in realtà chi fossero Narciso ed Edipo, e che avesse fatto di così
terribile Tantalo da meritarsi un supplizio.
Personalmente cominciai a interessarmi di mitologia all'età di quattro anni.
Mio padre mi regalò un libro della UTET intitolato La leggenda aurea degli
Dei e degli Eroi, libro che conservo tuttora e al quale, ovviamente, sono
legato come Linus alla sua coperta. A quattro anni, non sapendo ancora
leggere, mi limitavo a guardare le figure:
tra le mie preferite, quella di Saturno
che si mangia la pietra ritenendola l'ultimo dei suoi nati.
I miti (e non soltanto quelli greci, naturalmente) sono la prima forma di
narrativa di cui si abbia notizia. Ma come nascono i miti? Nascono in un certo
periodo storico, da un particolare ambiente sociale, all'interno del quale la
figura dell'eroe occupava la posizione di massimo prestigio.
La principale differenza fra i miti greci e i miti d'oggi sta nel fatto che
le vicende private dei personaggi allora venivano affidate alla tradizione
orale, piuttosto che alle pagine dei rotocalchi. Ma il succo è lo stesso: non
a caso, infatti, mithos in greco vuol dire racconto.
Tra il IX e il Vl secolo avanti Cristo, non esistendo ancora la televisione,
i Greci trascorrevano gran parte delle loro serate ascoltando un «Omero
qualsiasi», ovvero un cantastorie che in cambio di un buon piatto di minestra
raccontava le avventure degli Dei e degli Eroi. Non potendo, però, ricordare
tutto a memoria, i cantori dell'epoca si specializzavano sui singoli miti,
dando origine a dei veri e propri serial, per poi tramandarseli a voce di
padre in figlio. Ebbene, propongo di riprendere questa bella abitudine,
approfittando anche delfatto che raccontare attraverso il mezzo televisivo
equivale grosso modo a essere invitati a cena da almeno un milione di
italiani.
Con il presente videolibro, insomma, è mia intenzione ricalcare le orme di
Omero e dei grandi aedi dell'epoca classica (fatte, ovviamente, le debite
proporzioni).
I due video e il libro contenuti in questo cofanetto dovrebbero fornire al
lettore due diversi livelli di conoscenza del mito: il primo (quello del
video) per chi si accontenta del solo racconto, e il secondo (quello del
libro) per chi invece desidera sapere qualche cosina in più e risalire alle
fonti.
Un'ultima precisazione: il lettore nei filmati non vedrà attori truccati da
Dei, o da Eroi, bensì si dovrà accontentare (nel bene e nel male) della mia
persona in qualità di raccontatore unico. I motivi di questa scelta sono
dettati dal fatto che il mito è di per sé un massimo, ovvero l'essenza stessa
del concetto che si vuole rappresentare. Detto terra terra, perfino la più
affascinante fra le top model e Mister Universo non ce la farebbero a
incarnare Afrodite e Marte, ovvero il Massimo della Bellezza e il Massimo
della Violenza. Viceversa la parola, con il suo potere evocativo, stimolando
l'immaginazione di chi ascolta, finirebbe con l'avvicinarsi di più all'idea
che si vuole rappresentare.
L.D.C.
L'Arte amatoria
I Greci lo chiamavano Eros e i Romani Cupido, ma sia i primi che i secondi lo
raffiguravano come un ragazzino nudo e riccioluto dell'apparente età di
cinque anni.
Dispettoso fino alla perfidia, Eros era spietato con le sue vittime. Quando
un poveraccio veniva ferito da una delle sue frecce, Dio o mortale che fosse,
non aveva scampo: s'innamorava della prima persona che gli capitava a tiro !
In realtà, il birbante disponeva di due tipi di frecce, quelle d'oro e quelle
di piombo (duo tela pharetra diversorum operum. . . ): con le prime inoculava
l'amore e con le seconde la repulsione.
Un giorno Apollo, solo per avergli fatto una ramanzina, come la si può fare a
un bambino capriccioso, si beccò una freccia d'oro in pieno petto che, oltre a
farlo soffrire come una bestia, lo obbligò a invaghirsi di una ninfa, Dafne,
che a sua volta era stata colpita da una freccia di piombo.
Di chi sia figlio Eros, e in quale circostanza sia nato, è ancora oggetto di
discussione: per alcuni sarebbe figlio di Afrodite e Ares, per altri di
Afrodite ed Ermes, per altri ancora del Caos, oppure del Vento e della Notte.
C'è infine chi sostiene che sia sbucato da un Uovo d'Argento emerso dal
Nulla e che, subito dopo, abbia
creato il Cielo, la Terra, il Sole e la Luna. Per altri invece è un
ermafrodito dalle ali d'oro con ben quattro teste, una di leone, una di
vacca, una di serpente e una di ariete, ciascuna delle quali,
rispettivamente, ruggiva, muggiva, sibilava e belava. Mo', va' a capire il
significato allegorico di tutte quelle teste! Misteri della mitologia.
I sostenitori della tesi «Eros progenitore emerso dal Caos» affermano che
senza amore non nasce un bel nulla, e che quindi deve essere stato per forza
lui il primo a entrare in scena. La tesi opposta, invece, obietta che il
sesso, da solo, basta e avanza per far nascere chicchessia: ne fa testo Zeus
che disseminò di figli tutto l'Olimpo limitandosi a praticare lo stupro
all'ingrosso ai danni di Dee, ninfe e signore di buona famiglia. Alla fine
tutti d'accordo nel dire che all'inizio ci fu unicamente il sesso, e che solo
in un secondo momento si entrò nell'età dell'amore con Eros e le sue temibili
frecce.
Ora, però, lasciamo queste dispute al giorno in cui affronteremo la
cosmogonia ed esaminiamo più da vicino il problema che ci interessa: amare è
un'arte oppure un qualcosa di naturale, d'istintivo, che si può praticare
così, alla buona, senza alcuna preparazione specifica?
Su questo argomento Ovidio ci ha lasciato addirittura un poema: L'Arte
amatoria, ovvero il «manuale del perfetto latin lover». Per il nostro poeta,
infatti, far bene l'amore presenta più o meno le stesse difficoltà del guidar
bene un carro nelle gare del Circo, o del perfetto approdo di una nave in
porto durante una notte di burrasca. Detto
con altre parole, secondo Ovidio, come è necessario frequentare una scuola
per prendere la patente, così è indispensabile leggersi tutta la sua Arte
amatoria per imparare a far bene l'amore. Se non mi credete, eccovi l'inizio
del poema:
Se è vero che per condurre una nave a vela o un carro leggero ci vuole
un'arte, perché non dovrebbe esserci un'arte anche per condurre l'Amore? Come
Tifi era il più bravo fra i timonieri, e Automedonte il più bravo fra gli
aurighi così anch'io cercherò di essere per voi il Tifi e l'Automedonte
dell'Amore.
Dopodiché, passa ai consigli pratici:
In primo luogo, cercati una persona da amare, poi, una volta che l'hai
individuata, cerca di conquistarla. Il terzo impegno sarà quello di far durare
questo amore il più a lungo possibile.
E aggiunge:
Il cacciatore di cervi sa dove sistemare le reti, o in quale valle recarsi per
catturare un cinghiale. Chi invece va a caccia di uccelli conosce benissimo i
boschi, così come chi è appassionato di pesca conosce a menadito i fondali
più pescosi. Allo stesso modo chi cerca l'amore, se vuole avere un po' di
fortuna, dovrà recarsi nei luoghi più affollati di belle donne.
Ma dove sono questi luoghi? Ovidio non ha dubbi: a Roma.
Roma ti offrirà quante donne vuoi, e tutte così belle che a un certo punto
sarai costretto a dire: «Ma questa città possiede davvero tutto quello che
c'è di più desiderabile al mondo». Le belle ragazze che vi prosperano,
infatti, sono più numerose delle spighe di Gargara, dei grappoli d'uva di
Metimna, dei pesci del mare, degli uccelli dei boschi e delle stelle del
cielo. Venere, non a caso, ha fissato qui la sua dimora. Se ti attirano gli
anni acerbi, lei ti procurerà una ragazzina adatta ai tuoi desideri, se
invece la preferisci nel fiore degli anni, te ne potrà procurare addirittura
mille, se infine è l'età matura quella che più ti soddisfa, allora, credimi,
non ci sono limiti:
ne potrai avere così tante che nemmeno proverò a contarle.
Una volta individuata la città, Ovidio passa a elencare i luoghi pubblici, a
suo avviso, più pescosi:
Come le formiche vanno avanti e indietro in lunga fila, portando il grano con
la bocca, o come le api, sparse sui campi profumati, che volano di fiore in
fiore, così le donne, tutte eleganti, corrono in massa agli spettacoli più
affollati. Di sicuro vanno a teatro per guardare, ma anche per essere
guardate. Il teatro, infatti, è un luogo pieno di rischi per la castità e il
pudore.
Segue l'elenco di tutti i luoghi idonei all'abbordaggio.
Anche i Fori, chi lo avrebbe mai detto, sono adatti all'amore. Colà, spesso,
al facondo oratore viene a mancare la parola: quando meno se lo aspetta,
infatti, il poverino viene irretito da Amore. E di IMi
ride la bella Venere, che proprio lì accanto ha il suo tempio: poco prima
quell'oratore era solo un avvocato, ora, di punto in bianco, è diventato un suo
cliente.
E come dimenticare le corse dei cavalli di razza: il Circo, con tutta la
folla che si ritrova, offre molti vantaggi. Non è necessario far segni con le
dita per inviare messaggi, né attendere cenni d'intesa: volendo, ci si può
sedere accanto alla donna prescelta, e nessuno ci potrà dir nulla. E già,
perché le linee divisorie costringono tutti a stare gli uni addosso agli
altri, che lo si voglia o no, e saranno proprio le regole del luogo a favorire
un contatto più ravvicinato con le ragazze. A questo punto, dovrai attaccare
discorso: una qualsiasi frase basterà ad avviare la conversazione. Potrai
chiedere, ad esempio, da buon tifoso: «Di chi sono quei cavalli laggiù?». E se
ti accorgi che lei fa il tifo per qualcuno, fallo anche tu per lui. Quando
poi sfilerà la processione degli Dei in avorio, mi raccomando: applaudi più
di tutti Venere. Se poi, come spesso succede, un po' di polvere le cadrà sul
vestito, pensa tu a mandargliela via con le dita; e se la polvere non c'è,
mandagliela via lo stesso.
Anche i banchetti, con la tavola imbandita, offrono a volte buoni approcci. Il
vino predispone l'animo all'amore e lo rende più vulnerabile alla passione:
L'inquietudine si dissolve man mano che viene versato il vino. Allora nasce
spontaneo il riso e perfino un poveruomo comincia a farsi audace. A quel
punto, spariscono i dolori, gli affanni e le rughe della fronte. Per contro,
spunta la sincerità, così preziosa ai nostri giorni. Ai banchetti, spesso, le
ragazze sono solite rubare il cuore ai giovani, e questo mettere insieme Venere,
e
vino è come aggiungere fuoco al fuoco.
Detto in latino suona meglio: Et Venus in vinis, ignis in igne fuit, ma il
latino, si sa, è sempre più suggestivo dell'italiano; in questo caso, poi, c'è
anche l'assonanza tra Venus e vinis ad abbellire l'espressione.
Una volta individuati i luoghi adatti, Ovidio passa in rassegna le strategie
di attacco. Non sempre, dice, è conveniente mostrarsi vogliosi; anzi, in
alcuni casi, potrebbe addirittura essere più vantaggiosa l'indifferenza.
Sono sicuro che se ci mettessimo d'accordo tra di noi maschi, di non far il
primo passo con alcuna, le donne di certo prenderebbero l'iniziativa. Sui
molli prati, infatti, è sempre la vacca a muggire al toro, ed è sempre la
cavalla a nitrire al maschio, ogniqualvolta viene la stagione degli amori.
A volte però le cose non sono così semplici, ammette Ovidio, tuttavia bisogna
tentare lo stesso.
Coraggio, e provaci con tutte! Ce ne sarà, dico io, almeno una, fra le tante,
che si lasci conquistare! E che si concedano o meno, non dimenticare che le
donne sono sempre ben liete di essere corteggiate.
Piuttosto, suggerisce Ovidio, cercati degli alleati:
ad esempio, fatti amica una delle sue ancelle.
Sarà lei infatti a renderti più facili gli approcci;
bada bene, però, che sia al corrente dei più reconditi pensieri della sua
padrona, e che sia complice muta dei suoi svaghi segreti. Sceglierà lei il
momento più propizio per comunicarle i tuoi messaggi (anche i medici badano
al momento adatto) e le parlerà quando vedrà in lei l'animo ben disposto
a lasciarsi conquistare. L'ancella, pettinandole i capelli al mattino, le
parlerà di te, e dopo aver giurato che stai lì lì per morire d'amore,
aggiungerà di suo parole persuasive. Mi chiedi se sia indispensabile sedurre
anche l'ancella? Non sempre: se è bella fallo pure, cerca però di farti prima
la padrona e poi la serva.
Ma non basta:
Devi fare sempre l'innamorato, simulare a parole le ferite d'amore. Cerca con
ogni mezzo di convincerla che è stata lei a trafiggerti. Bada che non dovrai
faticare molto a farglielo credere, dal momento che non c'è donna al mondo
che non si ritenga degna di essere amata. Gli elogi alla bellezza, poi, fanno
sempre piacere, anche alle donne oneste, e perfino alle vergini. Se ciò non
fosse vero, non si capirebbe perché Giunone e Minerva si siano tanto
arrabbiate quel giorno in cui vennero considerate da Paride meno belle di
Venere.
Prometti senza paura (le promesse attirano sempre le donne) e chiama pure a
testimoni gli Dei.
Giove, dall'alto, se la ride delle bugie degli amanti:
non appena le ascolta, infatti, dà subito ordine a Eolo affinché le disperda
nel vento.
Dopo averlo istigato a mentire, Ovidio si attende dall'allievo una reazione
indignata, o quanto meno esitante. Ma a questo punto è già pronta la sua
replica: anche le donne mentono, anzi in genere mentono di più!
Ingannare chi inganna, questa è la regola! Le donne poi, nella maggior parte
dei casi, sono una razza sacrilega. E allora, coraggio: perfino le lacrime ti
potranno essere d'aiuto, e fa' che lei veda bene le tue guance inumidite. E
se le lacrime tardano a venire (giacché a volte non vengono a tempo debito),
bagnati pure gli occhi con la saliva.
Questo è, in sintesi, quanto consiglia Ovidio (a noi uomini, ovviamente)
nel primo libro dell'Arte amatoria. Nel secondo invece elenca, a una a una,
tutte le strategie per far durare l'amore quanto più a lungo possibile, e ci
dice: «Se, grazie a me, avete appreso l'arte della cattura, sarà ancora
grazie a me che apprenderete l'arte del mantenimento». (Arte mea capta est,
arte mea tenenda est.)
Cominciamo con l'esaminare il caso in cui un'amante avida ci chiede un
regalino particolarmente costoso. Andateci piano, suggerisce Ovidio, e
ricordatevi che ci sono donne capaci di ridurvi sul lastrico a forza di
regalini.
Se un venditore, un vero bellimbusto, poco poco si accorge che la tua donna è
una spendacciona, subito ne approfitterà per sciorinare in tua presenza la
propria mercanzia. Lei allora ti chiederà di darci solo un'occhiatina, tanto
per dimostrare il tuo
buon gusto, quindi comincerà a baciarti sulla guancia affinché tu le regali
qualcosa. Giurerà che per anni e anni non ti chiederà più nulla... e che
quell'acquisto è per te un vero affare. A quel punto non avrai più scampo:
anche se trovassi la scusa di non avere con te il denaro, il venditore ti
chiederebbe un impegno scritto, roba da pentirsi di aver imparato a scrivere.
Certo Ovidio non doveva avere una grande opinione delle sue concittadine: con
ogni probabilità, però, lui, nell'Arte amatoria, parla solo delle cortigiane
e non già delle matrone romane che, viceversa, pare fossero molto virtuose.
Avessi dieci bocche e altrettante lingue non riuscirei mai a elencare tutte
le arti scellerate delle donne!
Ma senza un regalino o un'attenzione di tanto in tanto, come faremo a
mantenerle al nostro fianco?
Con la parola, sostiene Ovidio, solo con la parola.
Dei poveri io sono il poeta, giacché molto ho amato in povertà; e se non
potevo permettermi regali, in compenso regalavo belle parole.
La guerra la si faccia con i Parti, con l'amica elegante invece ci sia sempre
la pace, lo scherzo e tutto ciò che genera amore. Se di fronte a questo
atteggiamento lei non sarà dolce e cortese, allora sopportala e tieni duro: in
poco tempo si ammorbidirà. Un ramo d'albero si piega se lo curvi con grazia,
se Ci metti invece tutta la tua forza si spezza. Perfino le tigri e i leoni
della Numidia si piegano con le buone
maniere, così come nei campi il toro, un po' alla volta, finisce per
accettare l'aratro.
Se lei fa resistenza, cedi: solo cedendo risulterai vincitore. Cerca di
recitare la parte che lei crederà opportuno assegnarti. Se ti accorgi che
critica, critica anche tu. Quando approva, invece, approva anche tu. Se ride,
ridi, se piange, piangi.
E non considerare una vergogna (è una vergogna che le risulterà gradita)
che la tua mano virile possa reggerle lo specchio.
Se ti dirà: «Troviamoci al tal posto», rinvia ogni cosa e corri. La folla non
rallenti il tuo cammino. E se non hai un mezzo di trasporto con cui andare,
miliTanta flessibilità sorprende in un uomo come Ovidio. Seppure, a ben
guardare, non di flessibilità si tratta, ma di cinica disistima nei confronti
della persona amata. Mi spiace per Ovidio, ma un amante come quello da lui
descritto nell'Arte amatoria non verrebbe accettato da nessuna delle donne che
noi oggi frequentiamo.
La sincerità, ad esempio, è una dote assolutamente sconosciuta al poeta.
Sentite cosa consiglia al suo allievo:
Se hai a cuore di tenerla legata, fa' in modo di apparire incantato dalla sua
bellezza: se indosserà una porpora di Tiro, fa' l'elogio delle porpore di
Tiro, se sarà in tessuto di Coo, dille che il tessuto di
Coo le dona. Se la vedi adorna di gioielli d'oro, falle capire che per te lei
è più preziosa dell'oro, se invece indossa solo una tunica, allora dille con
entusiasmo:
«Mi metti il fuoco addosso!»
«Moves incendia», e questa sarebbe la frase che, secondo Ovidio, dovremo
urlare, estasiati, ogniqualvolta vediamo la nostra donna vestita in modo
casuale.
E inutile, adesso, stare a elencare tutte le tattiche che Ovidio suggerisce
nel manuale, e andiamo direttamente al capitolo della infedeltà: quelle
dell'uomo e quelle della donna. Per l'uomo il poeta non ha dubbi: tradire è
un'arte.
Tu nega, nega sempre, anche se le cose che hai nascosto con cura venissero
alla luce, anche se fossero lampanti. E comunque non mostrarti mai remissivo
o più dolce del solito, che questi sì che sarebbero indizi chiarissimi di
colpevolezza. Non risparmiarti invece con le reni e ricordati che la recente
avventura va smentita in un solo modo:
andando a letto insieme.
Devi metterle le braccia intorno al collo e accoglierla piangente sul tuo
petto. Dàlle continuamente baci mentre piange e soprattutto falle provare i
piaceri di Venere. Solo così si potrà dissolvere la sua collera: col trattato
di pace dell'amplesso.
Dopo tale premessa, Ovidio fa un raffronto tra il mondo della preistoria,
dominato dalla forza bruta, e il mondo suo, regolato dall'amore.
All'inizio c'era solo una massa confusa, all'interno della quale non era
possibile distinguere gli astri, la terra e il mare, finché un giorno la
terra fu posta sotto il cielo e il mare intorno a essa. Allora le selve
accolsero le fiere, l'aria accolse gli uccelli e i pesci trovarono rifugio
nelle limpide acque. L'uomo invece vagava nei campi deserti e ubbidiva solo
alla forza bruta. La sua casa era il bosco, l'erba il suo cibo e le foglie il
suo giaciglio. Fu ilpiacere dell'amore ad addolcire gli animi selvaggi.
S'erano fermati per caso l'uomo e la donna nello stesso luogo: ciò che fecero
quel giorno lo appresero da soli, senza alcun maestro. A quei tempi non si
conosceva ancora l'arte di amare, ma Venere compì lo stesso il suo dovere.
Coraggio, ordunque, che questa è la medicina giusta per calmare l'amante
adirata: non esistono al mondo altre vie per riappacificarsi. Fare all'amore è
una medicina più efficace di qualsiasi filtro di Macaone.
L'amore però, ammette Ovidio, non è sempre un tenero idillio, anzi, il più
delle volte è pena e sofferenza.
Si prepari l'amante a superare molte prove, e si ricordi che i piaceri sono
scarsi e le pene di gran lunga più abbondanti. Quante sono le lepri sul monte
Athos, le api sull'Ibla, le bacche sul ceruleo albero di Pallade, le
conchiglie sui lidi, tante sono le pene nell'amore.
Ed ecco cosa deve essere pronto a sopportare un uomo se vuole diventare un
perfetto amante:
Ti diranno che è uscita, e proprio mentre te lo stanno dicendo tu la
scorgerai girare per casa attraverso un'apertura. Ebbene, in quel caso dovrai
convincerti che è uscita davvero e che se l'hai vista è perché sei un
visionario. Se dopo aver ottenuto un appuntamento per trascorrere con lei una
notte d'amore troverai la sua porta sbarrata, stendi il tuo corpo sulla nuda
terra e aspetta. E se, dopo aver supplicato a lungo la donna crudele, i
battenti resteranno chiusi, lascia sull'uscio le rose che ti ornavano il capo.
Non è vergogna, in nome dell'amore, sopportare gli insulti e le percosse di
una donna, né baciare i suoi piedi delicati.
Queste cose Ovidio le scrive, ma non le pensa.
Infatti, dopo una decina di versi, si lascia andare e sbotta:
In quest'arte, lo confesso, non ho ancora raggiunto la perfezione: sono io
stesso inferiore ai miei precetti. Se davanti a me un estraneo facesse
segnali alla mia donna, non riuscirei mai a sopportarlo! Di sicuro mi farei
prendere dall'ira. A volte, infatti, è meglio non sapere. Ciò detto, ragazzi,
eccovi un consiglio prezioso: evitate di cogliere in flagrante le vostre
donne!
E qui, per avvalorare la tesi, Ovidio racconta il celebre episodio di Efesto
che scopre Ares e Afrodite, nudi, a letto insieme. In due parole, il mito
racconta come Efesto, il Dio zoppo, sospettando di essere tradito da sua
moglie, avesse messo nel proprio letto una rete d'oro, robusta quanto
invisibile.
In tal modo l'industrioso Dio riuscì a imprigionare i due amanti, dopo di che
chiamò intorno al letto
tutti gli Dei dell'Olimpo perché si rendessero conto di persona fino a che
punto la moglie era una svergognata. Risultato finale: Efesto venne schernito
da tutti e la vista di Afrodite nuda eccitò anche Ermes e Poseidone!
Il poeta conclude il secondo libro impartendo agli uomini una lezione
d'ipocrisia:
Non criticare mai i difetti delle donne! Ignorarli è una regola utile a
molti. Se, ad esempio, c'è qualcosa che non tolleri, cerca di rassegnarti:
ricordati che più il tempo passa e più ti abituerai. Scegliendo i termini
giusti, poi, si possono addolcire le peggiori magagne: se lei è strabica le
potrai sempre dire che è simile a Venere, se invece ha gli occhi slavati dille
che somiglia a Minerva; e poi ancora: se è magra le dirai che è snella, se è
grassa che è fiorente, se è bassa che è minuta, e così di seguito: invece di
sottolineare un difetto, evidenzia il pregio che le è più vicino.
Il terzo libro dell'Arte amatoria Ovidio lo dedica invece alle donne, e dal
primo all'ultimo verso è prodigo di consigli per il gentil sesso. Sotto
sotto, il poeta è preso dagli scrupoli: dopo aver speso due interi libri a
dirne peste e corna, ora fa marcia indietro ed è pronto ad ammettere che le
donne non sono tutte uguali:
Non bisogna rovesciare su tutte la colpa di alcune:
che ogni ragazza invece sia giudicata per le azioni che ha commesso! Se è
vero che è esistita un'Elena sulla quale furono lanciate accuse infamanti, è
altrettanto vero che è esistita anche una Penelope
che, al contrario, ha atteso fedele per due lustri, e poi per due lustri
ancora, che il marito terminasse il suo errare dopo aver a lungo combattuto.
A questo punto, perché non insegnare anche alle donne le strategie dell'amore?
Ho dato le armi ai Danai contro le Amazzoni, non mi resta ora che dare le
armi anche a te, Pentesilea, e alle tue schiere. Scendete or dunque in guerra
gli uni contro gli altri, ad armi pari, e che vinca colui a cui andrà
maggiormente ilfavore delfanciullo che vola.
Ovidio passa poi ai consigli pratici.
Innanzitutto lavatevi! Che il viso, in particolare, venga lavato ogni mattina
con acqua appena attinta, che l'incuria non annerisca i denti, che l'aspro
odore di capro non alligni mai nelle vostre ascelle, e che le gambe non siano
irte di duri peli.
Dono divino è la bellezza, ma quante di voi, in tutta onestà, possono dire di
essere belle? Gran parte delle donne infatti non possiede quel dono. Se le
femmine di una volta non curavano molto ilproprio corpo, era perché a quel
tempo anche gli uomini non erano curati. Andromaca indossava una ruvida
tunica, ma era anche la moglie di un duro soldataccio, e quale veste avrebbe
potuto mai indossare una donna come la moglie di Aiace sapendo che il marito
viveva giorno e notte coperto da sette pelli di bue?
Forse c'è ancora qualcuno a cui piacciono questi
personaggi del passato, io, per quanto mi riguarda, ringrazio gli Dei di
essere nato oggi.
Ed ecco una vera e propria lezione di trucco:
Con un velo d'argilla aumentate il candore della pelle, e se qualcuna di voi
ha il viso esangue che usi pure il rosso artificiale. Con un segno ben fatto
riempite il vuoto sotto le sopracciglia e con un sottile cerone coprite le
guance che la natura vi ha dato.
Non abbiate vergogna di segnare gli occhi con la cenere, oppure con il croco.
Ma che il vostro innamorato non veda mai i vasetti delle creme messi in bella
mostra sulla toilette: l'arte dell'amore giova all aspetto solo se è ben
nascosta. I cosmetici aumentano la bellezza ma sono brutti a vedersi. In
pubblico non vi consiglierei mai di usare il midollo di cerva o di
spazzolarvi i denti. Chiudete allora la porta della vostra camera e non
mostrate mai agli altri un'opera imperfetta.
Non siano mai in disordine i capelli. La mano che li cura, a seconda dei
casi, può donare o annullare la bellezza. L'acconciatura giusta non è di un
solo tipo: ogni donna può scegliere quella che più le dona, e prima che agli
altri chieda consiglio al suo specchio. Un ovale allungato vuole una
scriminatura senza orpelli (così, infatti, era solita pettinarsi Laodamia).
Un viso rotondo invece preferisce che tutti i capelli siano raggruppati sul
capo in modo da mostrare le orecchie. Una lascerà che i capelli le ricadano
dolcemente sulle spalle, un'altra se li legherà tutti all'indietro come la
Dea Diana, allorquando, sollevata la tunica, andava a caccia di atterrite
fiere.
Con voi donne la natura è stata benigna: mentre a noi uomini la testa, con
gli anni, diventa a volte nuda, voi avete modo di tingervi i capelli che si
sono imbiancati con le erbe di Germania e l'artificio spesso vi procura un
colore ancora più bello di un tempo.
Quanto all'abbigliamento, Ovidio lo consiglia non troPPo vistoso, ma nemmeno
troppo dimesso.
Una sobria eleganza è quella che attrae: non venite avanti con vesti
appesantite e trapunte d'oro. Con tanti colori che ci sono in giro, a prezzi
modesti, che follia è mai questa di portare addosso un intero patrimonio?
Ecco il celeste, il colore del cielo quando è sgombro di nuvole, ed ecco
l'azzurro intenso, il colore che imita le onde del mare e che penso sia
quello preferito dalle ninfe, e il croco, il colore del mantello che copre la
Rugiada allorquando la Dea aggioga i cavalli del mattino. Poi abbiamo
l'ametista, il viola cupo, il rosa pallido, il marrone delle castagne, quello
più chiaro delle mandorle e via dicendo. Quanti sono i fiori che la primavera
produce, tanti sono i colori che la lana è in grado di assorbire. Ma bisogna
anche essere bravi a saperli scegliere: un tono scuro si adatta di più alle
carnagioni candide (stava bene infatti a Briseide
allorquando fu rapita), mentre il bianco si addice maggiormente alle brune (e
la figlia di Cefeo ben lo sapeva quando calpestò la terra di Serifo).
E passiamo ai comportamenti. Qui Ovidio diventa un vero e proprio maestro di
bon ton: sa tutto su come ci si deve sedere, mangiare, bere,
camminare, ridere, sdraiarsi sul triclinio e via dicendo. Consiglia il giusto
tono di voce da mantenere durante le conversazioni, e le principali arti che
bisogna conoscere per brillare in società.
Se sei piccola è meglio che tu stia seduta, se non altro per non sembrare
seduta quando stai in piedi, e nel triclinio fai in modo di stare ben
distesa, per minuta che sia la tua statura, e anche qui, affinché nessuno
misuri la tua taglia mentre sei sdraiata, cerca di non mostrare i piedi
drappeggiandovi sopra la coperta.
Chi ha l'alito pesante non parli mai a digiuno, e si tenga a distanza dal
viso dell'uomo con cui parla.
Quando si hanno i denti grandi o irregolari è preferibile non ridere: si
corrono meno rischi. E se proprio scappa una risata, fate in modo di aprire
la bocca moderatamente e di coprire le radici dei denti con le labbra. A
volte è meglio piangere. In verità, anche per piangere è necessario uno
stile: le donne di classe, infatti, piangono, ma lo fanno scegliendo il
momento giusto e i modi più appropriati.
imparate a camminare con passo femminile giacché anche l'andatura fa parte
della vostra eleganza:
attira o mette in fuga lo sconosciuto che vi guarda.
Alcune donne muovono i fianchi con arte e fanno gonfiare la tunica
ondeggiante, altre invece, al pari della sposa rubiconda del burino umbro,
camminano a gambe larghe facendo grandi passi. E anche qui, come in tante
altre cose, ci vuole misura: se è rozzo un certo tipo di andatura, anche
l'altro non è
consigliabile, essendo manierato più del lecito.
La voce è quanto mai importante: spesso, infatti, quando è armoniosa, fa da
mezzana nelle vicende d'amore. Le Sirene erano strani esseri marini che con
voce melodiosa attiravano a sé tutte le navi, anche le più veloci. Quando
Ulisse le udì, per poco non si liberò dai lacci, e se non ci riuscì fu solo
grazie ai suoi compagni che per non udire le voci delle Sirene si erano
turate le orecchie con la cera.
Una ragazza dovrebbe sempre saper cantare, suonare l'arpa e danzare. I
ballerini, infatti, il pubblico li ama, tanto eleganti sono le loro movenze.
E qui Ovidio si lascia prendere dal suo stesso gioco e passa, armi e bagagli,
dalla parte delle donne.
Indica loro i luoghi più giusti per mettersi in mostra, ed elargisce a piene
mani decine di piccoli suggerimenti.
A voi ragazze belle è utile la folla: andate e venite, fuori di casa a
passeggio. Chi mai conoscerebbe Danae se fosse rimasta sempre rinchiusa nella
torre fino alla vecchiaia? Una bella donna, invece, ha il dovere di offrirsi
allo sguardo della gente: tra i tanti che la guardano, ce ne sarà pure uno
che resterà abbagliatO! Che la ragazza si soffermi in ogni luogo, desiderosa
di piacere: se l'amo è pronto, prima o poi un pesce abboccherà.
In amore non esistono remore, incalza Ovidio, perfino i funerali, a volte,
possono tornare utili!
Funere saepe viri vir quaeritur (spesso è al funerale di un marito che si
rimedia un altro marito). Ed ecco, invece, come comportarsi alle
feste.
Arrivate sempre in ritardo, e con eleganza fate il vostro ingresso a luci già
accese. Più lunga sarà stata l'attesa, più gradita diventerà la vostra
presenza.
L'attesa è una grande ruffiana. Anche se siete brutte, sembrerete più belle a
quelli che hanno già bevuto. Prendete pure i cibi con le dita, ma, mi
raccomando, fermatevi prima di essere sazie, mangiate sempre un po' di meno
di quello che vorreste mangiare, e lo stesso valga per il vino. Insomma fate
in modo che la mente e le gambe restino ben salde a terra. in altre parole,
se una cosa è una, evitate di vederla doppia!
Fin qui, Ovidio si è perso nei dettagli. L'argomento, però, che più interessa
il sesso femminile è un altro: lei, la donna, vuol sapere come deve
comportarsi quando è corteggiata da un uomo che le piace. Deve cedere o
resistere? E se decide di concedersi, è meglio che lo faccia subito, alle
prime avances, o che attenda un pochino al fine di accrescere nello
spasimante il desiderio? Il poeta in proposito non sembra avere idee molto
chiare: all'inizio è favorevole al lasciarsi andare, poi, all'improvviso,
cambia parere e opta per la difesa a oltranza.
Finché ti è consentito dichiarare l'età, goditi la vita: gli anni se ne vanno
come acqua che scorre, e l'ora che hai appena trascorso non può più tornare
indietro. L'età scivola via con passo lieve, e tu, che
ora respingi gli innamorati, sappi che un giorno, da vecchia, giacerai sola
nel letto e sentirai tanto freddo a causa della solitudine. Oh te infelice,
con quanta rapidità le rughe ti trasformeranno la fisionomia! E allora, dammi
retta: segui l'esempio delle Dèè e non rifiutarti alle voglie degli uomini.
Anche ammesso che loro t'ingannino, a te cosa costa? In fondo resta tutto
come è: fossero anche in mille a prendersi il piacere, tu non ci perderesti
nulla. Il ferro si consuma, la pietra con l'uso si assottiglia, mentre quella
parte che avete voi donne si mantiene integra e non teme alcun logorio. Alla
fin fine, cosa ci perdi se poi con l'acqua ti lavi?
Che il piacere di Venere tu possa sentirlo in completo abbandono, sin nelle
fibre più profonde, e che il godimento sia uguale per entrambi. I giochi di
Venere sono mille, dal più semplice (di quando i due corpi giacciono l'uno
accanto all'altro) al più complicato. Non cessino mai per te i giochi d'amore
e i dolci mormorii, e che in questi giochi si odano pure parole lascive. Ma
se per colmo di sfortuna la Natura ti avesse negato di provare i piaceri di
Venere, allora simula le gioie più dolci con ingannevoli suoni. Bada soltanto
che non se ne accorgano: crea con i movimenti e gli sguardi le espressioni
estasiate di chi sta godendo, e che le parole e l'ansimare possano abilmente
fingere il tuo godimento.
Verso la fine del libro, però, il poeta ci ripensa e consiglia un
atteggiamento più riservato:
L'attesa per gli innamorati è sempre stimolante, purché non sia troppo lunga.
Non mostrarti facile
alle pretese dello spasimante, ma non respingerlo neppure con durezza: fa'
che egli senta, nel medesimo tempo, timore e speranza.
Per poi diventare addirittura crudele nei confronti del maschio.
Ciò che viene dato con facilità alimenta a fatica un amore: ai piacevoli
giochi si mescoli talvolta un rifiuto. Lascia che il tuo amante resti in
attesa, fuori della porta, e che supplichi, minacci e urli nel buio della
notte: «O porta crudele perché non ti apri». Il dolce viene presto a noia,
una bevanda amara invece spesso è stimolante. Ciò che impedisce alle mogli di
essere amate è il fatto che i mariti godano dei loro favori ogniqualvolta ne
hanno voglia. Tu metti invece fuori della porta un servo che gli dica a muso
duro: «Qui non si passa», e per giunta fagli credere che ha un rivale e che
non è il solo ad avere accesso al tuo letto.
Poi si rende conto di ciò che sta scrivendo e geme:
Ma dove mi sono lasciato trasportare?! E folle affrontare in tal modo il
nemico, consegnandosi prigioniero spontaneamente e facendogli anche da
informatore. L'uccello non mostra al cacciatore il modo migliore per farsi
catturare, la cerva non insegna a correre ai cani inseguitori. Ma ormai è
fatta:
ho già consegnato alle donne di Lemno le spade con le quali verrò trafitto.
L'importante, però, è che si dica: «Ovidio fu il mio maestro».
#
Il simposio
Il tema dell'Amore fu l'argomento principale di una celebre cena, tenutasi ad
Atene 2407 anni fa (anno più, anno meno) in casa del poeta tragico Agatone.
Oltre al padrone di casa erano presenti i seguenti signori: Fedro,
Eurissimaco, Pausania, Aristofane, Socrate e Aristodemo (quest'ultimo, in
verità, non invitato). Sul tardi arrivò anche Alcibiade con il suo seguito.
Tutto quello che venne detto in tale occasione fu trascritto fedelmente,
parola per parola, da Platone nel più bello dei suoi dialoghi: il Simposio.
Simposio, detto alla buona, vuol dire banchetto.
Quello greco, in particolare, aveva regole molto rigide: prima ci si lavava
le mani, poi gli schiavi portavano il cibo, quindi ci si lavava di nuovo le
mani e infine si ascoltava una flautista suonare. Il clou del simposio, però,
stava tutto nel finale, e per la precisione nel momento in cui si cominciava a
bere e a parlare: i commensali si mettevano in testa una coroncina di alloro,
forse in onore di Apollo, e sceglievano il tema della serata. Il vino, in
genere, era molto allungato, un po' perché costava caro e un po' perché
bevuto allo stato puro era considerato un veleno. La misura degli
annacquamenti variava alquanto: si oscillava dalle tre parti di acqua e una
di vino alle tre parti di acqua e due di vino, e si arrivava a tanto solo nel
caso che ci si volesse ubriacare.
Il dialogo inizia con Aristodemo e Socrate che s'incontrano per caso lungo
una strada di Atene, una di quelle strade, precisa Platone, «che sembrano
fatte apposta per parlare e camminare».
Aristodemo vide Socrate lavato da capo a piedi e calzato con i sandaletti,
cosa che faceva alquanto di rado, e gli chiese dove andasse così in
ghingheri. E Socrate gli rispose:
«Vado a cena da Agatone, giacché ieri, alla sua vittoria, me ne sono scappato
per paura della confusione. Gli ho promesso, però, che sarei tornato oggi per
i festeggiamenti, ed ecco il motivo per il quale mi sono fatto così bello:
per andare da bello in casa di un bello. Tu, piuttosto, cosa ne penseresti di
venire a cena con me, seppure non invitato?» E Aristodemo rispose:
«Ci verrei senz'altro, sempre però che la mia presenza fosse di tuo
gradimento.» E Socrate:
«Allora seguimi, o Aristodemo, in modo che potremo avvalorare il proverbio
che dice: "A tavola dei grandi, vanno i grandi senza invito".» In realtà il
proverbio non diceva affatto così (per la precisione, diceva che a casa degli
umili vanno i grandi senza invito), ma dal momento che agathos voleva dire
anche «buono e nobile», Socrate subito ne approfittò per farci sopra un gioco
di parole.
Comunque, umile o grande che fosse, il giovane Aristodemo s'imbucò lo stesso,
e noi, da queste poche battute, abbiamo capito che anche a quell'epoca c'era
il problema degli imbucati. Venivano chiamati parasitos, nel senso di «coloro
che mangiano con».
Una volta giunti alla porta di Agatone, Socrate disse ad Aristodemo di
avviarsi da solo giacché lui voleva sostare un attimino a riflettere. Dopo di
che si bloccò in mezzo alla strada, in pratica come una statua di marmo, e si
mise a pensare. A Socrate capitava spesso questo fatto di estraniarsi dal
resto del mondo: una volta (si dice) lo avrebbe fatto per un'intera notte,
non solo, ma a piedi nudi in mezzo alla neve. Quella volta del Simposio,
invece, ci restò solo un paio d'ore e giunse a tavola quando gli altri erano
quasi alla frutta.
«O Socrate,» gli disse allora Agatone, facendogli spazio sul triclinio
«distenditi accanto a me, e fa' che io pure possa avvalermi, toccandoti,
della sapienza che mi è venuta incontro fuori della mia porta.» «Sarebbe bello,
o Agatone» rispose prontamente Socrate «che la sapienza fosse di tale natura
che, come l'acqua, scorresse dal più pieno al più vuoto.
In questo caso, però, avvicinandomi a te, sarei io a riempirmi della tua
sapienza, dal momento che la mia è robetta di poco conto, mentre la tua è COSì
grande che è stata capace di farti prevalere su tutti i poeti davanti a
trentamila Elleni!» Chiaramente Socrate lo stava sfottendo e Agatone se ne
accorse subito, tant'è vero che gli rispose alquantO risentito) «Sei
insolente, o Socrate, ma tra poco sarà qui Dioniso a constatare chi di noi
due è più pregno di sapienza. Ora, però, tu pensa a mangiare.» Andata via la
flautista, prese la parola Eurissimaco. «Se siete tutti d'accordo,» disse
l'insigne
medico «io proporrei come argomento della serata l'Amore Che ciascuno,
procedendo da destra verso sinistra;
faccia un bel discorso in lode del Dio, e che sia il giovane Fedro a
cominciare, dal momento che lui è anche il primo da destra.» Iniziò cosi la
lunga carrellata degli oratori. Fedro, all'epoca era poco più di un
ragazzo e, con ogni probabilità, quello per lui doveva essere il primo
simposio: non si sbilanciò quindi più di tanto e si mantenne sulle generali.
«Amore è un Dio potente e meraviglioso per molte ragioni, non ultima la nascita:
deve essere considerato infatti il più antico degli Dei,
e, ovemai ne dubitassimo ce lo conferma Esiodo allorquando sostiene che fu
lui il primo a emergere dal Caos.
Ebbene amici, così come Amore è un Dio meraviglioso, anche coloro che amano
sono a loro volta meravigliosi, giacché sono tutti disposti a sacrificarsi
per la persona amata. Alcesti alla fin fine fu l'unica ad accettare la morte
al posto del marito, sebbene questi avesse ancora in vita entrambi i
genitori. Ciò detto, io affermo che chi ama è più divino di chi è amato, dal
momento che solo lui è pervaso dal Dio.» Il secondo a parlare fu Pausania, un
amico di Platone, da non confondere con l'altro Pausania, il viaggiatore,
quello che scrisse la Guida della Grecia.
«Ho l'impressione, o Fedro, che tu abbia parlato di Amore come se si
trattasse di un unico Dio, laddove essi sono almeno due, e noi tutti vorremmo
sapere quale dei due di questi Dei sia il più degno di essere onorato. Esiste
infatti l'amore celeste di Afrodite Urania e quello volgare di Afrodite
Pandemia.
Ebbene, sapete cosa vi dico? Che l'amore volgare di Afrodite Pandemia è
davvero volgare. Gli uomini che lo praticano corrono dietro alle donne,
desiderano i loro corpi più delle loro anime, e, intenti come sono a
raggiungere uno scopo così modesto, finiscono col prediligere le persone più
stupide, per l'appunto le donne. Al contrario il vero amatore, quello
celeste, preferisce i maschi, ammirandone la natura forte e l'intelligenza
più viva. Purtroppo da noi, in Grecia, la norma non è sempre chiara: in
Elide, in Beozia e presso i Lacedemoni, è onesto amare i maschi, nella lonia
e neipaesi barbari invece, proprio perché governati da tiranni, la pederastia
è considerata una pratica vergognosa. Ad Atene infine non si sa bene come
stiano le cose: a parole sono tutti permissivi, mentre nei fatti mettono i
pedagoghi alle costole dei figli per poterli meglio controllare, vietano ai
ragazzi più ambiti d'intrattenersi con gli amanti e inducono i loro coetanei
afare la spia. Ora io penso che l'amore in séper sé non sia una cosa né bella
né brutta, ma che tutto dipenda dal come viene fatto: se è fatto bene è
morale, se è fatto male è vergognoso.» L'omosessualità, e in particolare la
pederastia, era una pratica normale nella Grecia classica, ne fanno fede le
poesie di Alcmane a Sparta e quelle di Saffo a Lesbo. Non a caso l'amore tra
due persone del medesimo sesso è passato alla storia come «amore greco». Per
i maschi, i primi approcci sessuali avevano luogo nelle palestre, mentre per
le femmine il luogo più indicato per l'iniziazione erano le scuole di danza.
L'amante veniva chiamato erastes, l'amato eromenos, i bambini (sia maschi che
femmine) pais, e i ragazzini dai quattordici ai diciotto anni epheboi. Il
lottare insieme completamente nudi offriva molte occasioni d'incontro tra gli
adolescenti.
Spesso le palestre esibivano nei vestiboli una statua di Eros, e non già di
Ares, come sarebbe stato, invece, più lecito attendersi, dal momento che Ares
era il Dio della Guerra.
Dopo Pausania, avrebbe dovuto prendere la parola Aristofane, ma un singhiozzo
continuo glielo impedì. Il commediografo allora chiese a Eurissimaco di
sostituirlo o, in alternativa, di guarirlo all'istante con un rimedio. A me
questa faccenda del singhiozzo di Aristofane ha fatto crescere ancora di più
l'ammirazione che già nutrivo per Platone scrittore! E infatti mi chiedo:
quale filosofo d'oggi avrebbe mai interrotto la sua esposizione, solo per
raccontare il singhiozzo di un partecipante al convegno?
«Farò l'uno e l'altro,» rispose il medico «parlerò alposto tuo e nelfrattempo
tu tratterrai il respiro in modo da farti passare il singhiozzo. Sull'Amore ho
anch'io una mia teoria cke però è strettamente connessa al mio lavoro, ovvero
alla medicina. Pausania sostiene che ci sono due forme di Amore, mentre io
penso che ce ne sono moltissime: vedo infatti l'Amore, non solo negli uomini
e nelle donne, ma anche negli animali, nelle piante e in tutte le altre specie
viventi. Dovunque esiste una contrapposizione di valori (pienolvuoto,
caldolfreddo, amaroldolce, secco/umido) io scorgo la necessità di una
mediazione. Amore pertanto inteso come apportatore di armonia. La medicina, o
amici, è uno strumento del Dio Amore e di questo bisogna essere riconoscenti
al suo fondatore, al divino Asclepio. Quando l'amore volgare spinge l'uomo a
indulgere ai piaceri della tavola, ecco giungere di corsa l'Amore celeste che
sotto forma di medicina fissa il limite della giusta misura.
Un potentissimo starnuto coprì l'ultima frase di Eurissimaco, e forse gli
impedì di ricevere l'applauso a cui aveva diritto. Tutti, infatti, si volsero
verso Aristofane, l'autore dello starnuto, e il commediografo ne approfittò
per dare inizio al proprio intervento.
«Non ho più il singhiozzo» esclamò. «E trovo stupefacente che il Dio Amore di
cui parla Eurissimaco si sia servito di una cosa ridicola come uno starnuto
per ripristinare l'ordine nel mio corpo./» «Il tuo difetto, o Aristofane, è
quello di voler essere sempre spiritoso, a ogni costo» replicò sconsolato il
medico. «Ora, se non la smetterai, sarò costretto a montare la guardia al tuo
discorso, per capire, ogni volta, quando stai parlando sul serio e quando per
scherzo.» «Non dartene pensiero, o Eurissimaco, dal momento che sto per dire
cose solo ridicole e non spiritose. Per capire bene la forza dell'Amore, è
necessario che tu sappia quali prove ha sofferto la natura dell'uomo. In
origine l'umanità comprendeva tre sessi: gli uomini, le donne e certi esseri
strani, chiamati androgini, che erano maschi e femmine nello stesso tempo.
Tutti questi individui però erano doppi rispetto a noialtri: avevano quattro
braccia, quattro gambe, quattro occhi e via dicendo; e ciascuno di essi aveva
due organi genitali, tutti e due maschili negli uomini, tutti e due femminili
nelle donne, e uno maschile e uno femminile negli androgini.
«Camminavano a quattro gambe, ma potevano procedere in ogni direzione, come i
ragni. Avevano un caratteraccio tremendo: possedevano una forza sovrumana e
una sovrumana superbia, al punto da sfidare gli Dei come se fossero loro
pari. Zeus, in particolare, era indignato per la loro tracotanza:
non voleva ucciderli, per non perdersi i sacrifici, ma doveva pur reagire
alle loro intemperanze. Pensa e ripensa, un bel giorno decise di dividerli in
due, in modo che ciascuna parte avesse due gambe e un solo organo genitale; e
li minacciò che se avessero perseverato nell'empietà, li avrebbe divisi ancora
in due in modo da costringerli a camminare a bakelloni su una gamba sola.
Dopo l'intervento chirurgico , malgrado Apollo avesse provveduto a
cicatrizzare le ferite, gli uomini erano diventati infelici: ciascuno di essi
sentiva la mancanza dell'altra metà, i semiuomini cercavano i semiuomini, le
semidonne desideravano le semidonne, e la metà maschile degli androgini
correva dietro, disperatamente, alla metà femminile. Insomma, per ritrovare
la felicità perduta, ognuno di loro non vedeva l'ora di riunirsi con l'anima
gemella. Ed è appunto questa smania che si chiama Amore.» Dopo Aristofane
prese la parola Agatone. L'intervento del padrone di casa apparteneva al
genere in cui la forma prevale sui contenuti. In altre parole, Agatone non
disse nulla d'interessante: badò solo a impreziosire il discorso con
fronzoli, iperboli e frasi a effetto, le stesse, probabilmente, con le quali
aveva vinto le gare il giorno prima. Ciò nonostante, un lungo applauso lo
premiò alla fine. Agatone Si alzò in piedi per ringraziare, e subito dopo
Socrate (l'unico a non aver applaudito) prese la parola.
«Lo sapevo che sarei stato messo in crisi dalla bravura di Agatone» esordì
il filosofo, con una smorfia di disappunto. «Ascoltandolo mi sembrava di
udire i virtuosismi di Gorgia e poco ci è mancato che non me ne scappassi via
dalla vergogna. Nella mia ingenuità, infatti, pensavo che ognuno di noi
dovesse limitarsi a dire il vero e non già che fosse obbligato a fare
l'apologia dell'Amore, magari raccontando delle frottole.
Adesso non vi aspettate da me un secondo panegirico, se non altro perché non
lo saprei fare. Posso solo provare a dire la mia verità sull'argomento.» «Che
Agatone abbia parlato in modo sublime è vero,» lo contestò Eurissimaco «ma
che tu, o Socrate, sia in imbarazzo, non lo credo nemmeno se me lo giuri su
tutti gli Dei. Parla, ordunque, e raccontaci la tua verità!» «A istruirmi
sulle cose d'Amore» continuò Socrate «fu una donna della Mantinea; si
chiamava Diotima. Ella mi disse che Amore non era un Dio ma un Demone, come
dire qualcosa a metà tra un Dio e un mortale, e che non era né bello, né
brutto, né sapiente, né ignorante.» «A me sembra che tu stia bestemmiando!»
esclamò Agatone. «Come fai a dire che Amore non è un Dio?!» «Così disse
Diotima» si scusò Socrate, come a precisare: non sono io che lo affermo.
«Pare che il giorno in cui nacque Afrodite, gli Dei abbiano tenuto
sull'Olimpo un grande banchetto e che fra i tanti invitati ci fosse anche
Poros, il Dio dell'Espediente, o se preferite dell'arte di arrangiarsi. A
questa festa accaddero molte cose: arrivò Penìa, la Povertà, ma non la fecero
entrare perché era troppo malvestita, e lei rimase fuori della stanza del
banchetto nella speranza di rimediare qualcosa, un avanzo o una coscetta di
pollo. Poros esagerò nel bere: a un certo punto, completamente sbronzo, uscì
all'aperto e, fatti appena due passi, crollò al suolo. Al che Penìa,
vedendoselo davanti, lungo disteso, pensò bene di approfittarne. "Io sono la
Dea più povera, questo è Poros, il più furbo di tutti gli Dei: chissà che
accoppiandomi con lui non riesca a migliorare la mia sorte!" E dall'unione
della Povertà con l'Arte di arrangiarsi nacque l'Amore.» Un lungo mormorio
seguì le parole del vecchio filosofo. L'uditorio si fece ancora più attento:
voleva saperne di più di questo Amore, cosi diverso da tutti quelli che fino
allora erano stati descritti dai presenti. Socrate se la prese con calma:
bevve un lungo sorso di vino, poi si guardò intorno, quasi meravigliato di
aver suscitato tanto interesse con il racconto di Diotima, quindi cominciò a
descrivere il figlio di Poros e Penìa.
«Amore non è né bello, né delicato, come pensano molti, ma al contrario, a
somiglianza della madre, è duro, scalzo, vagabondo, uso a dormir nudo e sulla
nuda terra, sui pianerottoli delle case e per le strade, abituato a
trascorrere le notti all'addiaccio e sempre in compagnia della miseria.
Inoltre, come suo padre, è anche insidiatore dei belli e dei nobili, sempre
pronto a escogitare trucchi di ogni tipo, curiosissimo di apprendere,
inventare trappole, dedito a filosofare, terribile ciurmatore, stregone,
sofista...» Ebbene, ditemi se questo non è il ritratto preciso dello
scugnizzo napoletano immortalato da Sommer nei suoi dagherrotipi verso la
fine dell'Ottocento!
«Nudo, uso a dormir per terra, ricco di trappole, insidiatore dei ricchi e
dei nobili.» La descrizione di Socrate, però, non riuscì a soddisfare il
gusto oleografico dei commensali, e il primo a protestare fu proprio Fedro,
il più giovane di tutti.
«Come è possibile, o Socrate, che Amore non sia bello?!» chiese il ragazzo.
«Tu stesso l'hai detto, o Fedro: Amore è chi ama, non è chi è amato. Solo chi
è amato ha bisogno di essere bello. Chi ama, invece, ne può fare a meno, e
Siccome il Bello può identificarsi col Bene, chi vuole il Bello desidera
anche il Bene, e potrà essere felice solo quando lo avrà trovato. Scopo
dell'Amore è la procreazione del Bello.» «Vuoi forse dire» chiese ancora Fedro
«che se io desiderassi il Bello, lo potrei anche generare?» «Certo che lo
puoi, e genereresti contemporaneamente sia il Bello che il Bene!» rispose
Socrate infervorandosi. «Tutti gli uomini desiderano diventare immortali. Ma
come riuscirci? E semplice: partorendo il Bello e il Bene.
Ognuno fa di tutto per assicurarsi l'immortalità: c'è chi la cerca attraverso
la gloria, chi s'illude di ottenerla accoppiandosi a una bella donna, e chi,
fecondo nell'anima, lascia tracce di sé nelle opere d'ingegno. Ebbene questa
è la strada giusta:
cominciare dalle bellezze del corpo per pOI elevarsi, un gradino alla volta,
fino a raggiungere il Bene assoluto.» Considerare l'Amore come il frutto
dell'unione della povertà con l'arte della sopravvivenza è un'intuizione
eccezionale. Basta darsi una guardatina intorno per rendersi conto: il
dialogo, la solidarietà umana, il bisogno di agorà, il dividersi ogni giorno
le gioie e i dolori, sono tutte prerogative dei popoli poveri, così come la
privacy è figlia naturale della ricchezza Non appena una comunità raggiunge un
alto reddito pro capite, ecco far capolino la difesa strenua del benessere
già raggiunto: ognuno si chiude nel suo bunker, comincia a diffidare del
vicino di casa e prova persino un senso di fastidio ogni volta che lo
incontra in ascensore. Visto da questa angolazione, il Simposio anticipa di
quattrocento anni il Vangelo e in particolare il paradosso del cammello e
della cruna dell'ago.
Per quanto riguarda poi il collegamento tra il Bello e il Bene, Platone
considera l'Amore al pari di un ascensore che più sale e più trova inquilini
di prestigio: al primo piano incontra l'amore fisico, al secondo quello
spirituale, al terzo l'arte, e poi via via la giustizia, la scienza e la vera
conoscenza, fino ad arrivare al piano attico dove abita il Bene Assoluto.
Socrate aveva appena finito di parlare quando si udì un frastuono assordante
provenire dalla strada, poi un insistente bussare al portone e subito dopo la
voce di una donna, forse una flautista che chiedeva di entrare. Agatone ordinò
agli schiavi:
«Ragazzi, andate a vedere chi è: se è qualcuno dei nostri, fatelo entrare, in
caso contrario ditegli che siamo andati tutti a dormire.» Ed ecco la voce di
Alcibiade risuonare nel vestibolo: è completamente brillo, laflautista lo
sorregge per non farlo cadere. Dietro di lui un gruppo festante di compagni
di baldoria urla a più non posso.
«Salute, o amici,» esordì Alcibiade «e se accettate la compagnia di un
ubriaco, del tutto fradicio, eccomi a voi: io sono qui per incoronare il mio
amico Agatone, eccelso fra i poeti e bellissimo fra gli amici!» Così dicendo
Alcibiade cercò di sfilarsi dal capo una corona di alloro per appoggiarla
sulla testa di Agatone. Ma siccome barcollava, l'operazione non gli riuscì al
primo colpo, e questo gli impedì di vedere Socrate seduto accanto ad Agatone.
Il padrone di casa lo invitò ad accomodarsi e solo allora il giovanotto si
accorse del maestro.
«Tu qui, o Socrate, eproprio accanto al più bello della compagnia! Per Ercole:
le inventi davvero tutte pur di sdraiarti al fianco di chi desideri!» E
Socrate, rivolgendosi ad Agatone:
«Se puoi, o Agatone, cerca di aiutarmi, giacché costui è diventato per me un
problema: dal giorno in cui è nata tra me e lui una storia amorosa, non mi è
più permesso posare gli occhi su nessun altro. Mi fa mille bizze, mi ingiuria
in pubblico e a volte non riesce nemmeno a trattenere le mani. Bada che anche
ora non si scateni, e se diventa violento, difendimi Per cortesia, giacché
l'esaltazione e la follia amorosa di Alcibiade non conosce limiti.» A questo
punto Eurissimaco, noto propugnatore dell'Armonia, fece un timido tentativo
per ammansire Alcibiade.
«Ascoltami, o Alcibiade, mio giovane amico: prima del tuo arrivo, decidemmo
di bere e nel contempo di render gloria al Dio Amore nel miglior modo
possibile, cominciando a parlare dal lato destro della tavolata. Ebbene, al
punto in cui siamo, tutti abbiamo bevuto e parlato, e l'ultimo a parlare è
stato proprio Socrate. Ora, se non erro, tu hai già abbondantemente bevuto:
non ti resta quindi che dire la tua.» Quanto segue, signori miei, è di sicuro
la parte più bella del Simposio. Al di là, infatti, del contesto omosessuale
(che magari potrebbe anche infastidire qualcuno) l'amore che Alcibiade nutre
per il suo maestro è commovente.
«Vi accontento subito,» esordì Alcibiade a bassa voce «ma se per caso, o
Socrate, mi capitasse di raccontare qualcosa su di te che non fosse vera,
smentiscimi pure senza timore in presenza di tutti, giacché di proposito non
intendo dire menzogne.» Alcibiade fece una lunga pausa per poter ancora di
più accentrare su di sé l'attenzione dei presenti, poi, indicando Socrate,
riprese:
«Lo vedete quest'uomo? Proverò a farne l'elogio per immagini: lui è
somigliantissimo a quei sileni eSposti nelle botteghe degli
scultori, raffigurati in genere mentre stanno soffiando nel flauto. E forse
più di tutti rassomiglia a Marsia, il sileno nemico di Apollo: che lo sia
d'aspetto, nemmeno Socrate potrebbe negarlo, ma che lo sia anche per il resto
lo affermo io. E infatti è insolente come Marsia (e che non si azzardi a
negarlo se non vuole che lo metta a confronto, subito, con dei testimoni). E
più flautista di Marsia: quello almeno incantava gli uomini con la musica, lui
invece si serve della parola. Pensate che, quando l'ascolto, molto più che ai
coribanti mi batte il cuore. Ho ascoltato Pericle e gli oratori che vanno per
la maggiore, e se me ne chiedete un giudizio non ho difficoltà ad ammettere
che sono bravissimi, ma solo in presenza di Socrate ho sentito l'anima
ballarmi dentro e le lacrime sgorgare spontanee per effetto delle sue parole.
A volte, facendomi violenza, ho distratto le orecchie dal suo parlare e, come
con le Sirene, ho trovato scampo nella fuga.
Spesso, infine, mi sono sorpreso a desiderare che non fosse più tra i vivi,
pur sapendo che, se ciò accadesse, ne resterei sconvolto. E lui? Lui niente.
Lui non se ne importa. Lui va diritto per la sua strada.
Sappiate che se uno è bello per lui non significa nulla, né gli importa se
uno è ricco o possiede una di quelle doti che sono ambite da tutti. Un
giorno, illudendomi che gradisse la mia bellezza, mi reputai fortunato e per
compiacerlo mi misi ad ascoltarlo in silenzio. Era presente uno dei miei
servi e lo mandai via di corsa. Pensavo che prima o poi mi avrebbe fatto uno
di quei discorsi che in genere gli amanti fanno al loro amore non appena si
trovano soli, ma lui non disse nulla: discorse con me come al solito, e, una
volta terminata la giornata, mi salutò e andò via. Allora io l'invitai in
palestra a far ginnastica insieme, sempre sperando che almeno lì avremmo
combinato qualcosa. Ebbene, non ci crederete, ma facemmo ogni tipo di
esercizio, anche quelli più coinvolgenti: lottammo l'uno avvinghiato all'altro
senza che per questo accadesse nulla di significativo.
Accortomi allora che non riuscivo a concludere nulla, lo invitai a cena a
casa mia, proprio come fa un amante che tende una trappola all'amato. Ma
neppure il bere e il mangiare insieme lo smosse più di tanto; allora io,
fattomi coraggio, dopo un'ennesima cena lo invitai a restare, a parlare e a
bere fino a notte inoltrata, e quando volle andarsene, lo convinsi a dormire
con me col pretesto che ormai era troppo tardi per uscire. Riposammo l'uno
accanto all'altro, nel mio letto. Nella stanza non c'era nessuno:
eravamo soli... Ora, se racconto queste cose è perché vedo qui intorno tanti
miei compagni di sventura, vedo Fedro, Pausania, Agatone, Aristodemo, tutti
accomunati dallo stesso delirio e dall'entusiasmo dionisiaco per la
filosofia... Come stavo dicendo, quando spensi il lume e i servi furono
usciti, mi parve che non fosse più il caso di far troppe cerimonie, e allora
gli rivelai sinceramente le mie intenzioni:
«Dormi, o Socrate?»
No» mi rispose.
«Sai cosa ho pensato?»
«Che cosa?»
«Ho pensato che sei l'unico amante che potrei avere, degno di questo nome,
eppure, non so perché, esiti a dichiararti! Ora, io ritengo che non vi sia
nulla di più importante che il cercare di diventare migliori, e sono altresì
convinto che nessuno più di te potrà aiutarmi a raggiungere questo obiettivo.»
Ebbene, cosa credete che mi abbia risposto? Prima si è fatta una risatina
delle sue, e poi, con quell'aria finta ingenua che gli è solita, mi ha detto:
«Mio caro Alcibiade, se ho ben capito, tu vorresti barattare la tua bellezza,
fatta di forme, con la mia bellezza, fatta di contenuti. In pratica è come se
un mercante mi chiedesse di scambiare l'oro con il rame. Allora io a mia
volta ti chiedo: ma non ti sembra di voler guadagnare un po' troppo a spese
mie?»
A queste parole non mi trattenni: lo coprii con il mio mantello (era
d'inverno) e tentai di abbracciarlo, ma lui mi respinse. insomma, amici,
dormii con Socrate e mi levai al mattino né più né meno che se avessi dormito
con mio padre o mio fratello. E ora eccomi ridotto alla stregua di uno
schiavo, costretto come nessuno mai a girargli intorno. Consideratemi pure
ubriaco per quello che ho detto, ma non dubitate della mia sincerità. Queste
parole le dedico a te, o Agatone, affinché almeno tu non ti faccia ingannare
come me, ma anzi, reso edotto dalle mie sventure, te ne stia sempre in
guardia!» «Non mi sembri affatto ubriaco, o Alcibiade,» replicò Socrate, come
al solito sornione, «anzi, a mio avviso sei lucidissimo, dal momento che hai
fatto tutto questo lunghissimo discorso, apparentemente sconclusionato, solo
per raggiungere lo scopo che ti eri prefisso, e ciòè quello di mettere
zizzania tra me e Agatone!» «Hai perfettamente ragione, o Socrate,» esclamò
Agatone, alzandosi di scatto per poi andarsi a sedere alla destra del
filosofo, «non a caso infatti Alcibiade si è voluto sedere giusto tra noi
due. Ma io non gliela darò vinta e mi sdraierò di nuovo al tuo fianco!»
Questi erano i Greci del Simposio.
#
Il mito di Narciso
Negli anni Settanta, quando lavoravo alla IBM di Napoli, accadde un fatto
curioso che merita di essere raccontato.
Ci eravamo da poco trasferiti nella nuova sede di via Orazio ed eravamo tutti
felici e contenti per la magnificenza dei locali. Il nostro era uno dei più
bei palazzi che dominavano il golfo:
primo e ultimo piano, entrambi a perpendicolo su Mergellina, con un Vesuvio
di sfondo così vicino ma cosi vicino, da dare l'impressione di poterlo
toccare con le mani. Unico neo: l'ascensore «moscio», o per dirla in
linguaggio tecnico «non adeguato al dinamismo dell'azienda». D'altra parte,
l'edificio era stato progettato solo per uso abitativo, e non prevedeva
quindi un viavai di impiegati.
Dopo qualche mese di rodaggio, cominciarono a fioccare le prime proteste: sia
gli inquilini cosiddetti «civili» che i dipendenti IBM, erano fuori della
grazia di Dio. Il continuo andirivieni tra il primo e l'ultimo piano
provocava attese interminabili.
«Ieri» sbraitava una delle segretarie «sono rimasta sul pianerottolo per più
di un quarto d'ora!» Ovviamente non era vero: al massimo ci sarà stata cinque
minuti, il guaio pero è che a lei erano sembrati molti di più. Che fare? La
IBM decise finalmente di intervenire con i suoi potentissimi mezzi e creò
un'apposita task-force per risolvere il problema. Nel giro di un paio di mesi
fu varato il progetto SAFN (Secondo Ascensore per la Filiale di Napoli). E
nel frattempo, il portiere dello stabile, il mitico don Attilio, fu
incaricato dal nostro direttore di rilevare l'entità del traffico tra le 8.30
e le 10.
Don Attilio, da buon non-informatico qual era, prese un quaderno a quadretti
da poche lire, con la copertina nera, e con molta pazienza fece un segnetto
per ogni individuo che vedeva entrare o uscire dall'ascensore (per la
precisione: un'asticella per i «civili» e una crocetta per gli IBM). Alla fine
del rilevamento fu indetta una riunione per valutare i costi dell'operazione
e per convincere i condomini ancora riluttanti a non opporsi al progetto.
Erano presenti tutte le funzioni interessate: noi della filiale, la
task-force venuta da Milano e don Attilio con il quadernetto nero. Si stava
discutendo di quattrini e di permessi, quando dal fondo della sala il
portiere si alzò in piedi e chiese la parola.
«Che c'è don Attilio?» disse il direttore.
«Dottò, io ci avrei un'idea.» «E sarebbe?» «Dottò, scusate se m'intrometto,»
continuò a dire il bravuomo «ma io al vostro posto, invece di spendere tutti
questi milioni, metterei vicino al murO, a ogni pianerottolo, 'nu bellu
specchio: così la gente si guarda, il tempo passa e nessuno se ne accorge!»
Fu questa la soluzione vincente. La verità è che siamo tutti un po' narcisi,
anche quelli non propriamente bellissimi: ci piace guardarci nello specchio e
più di tutto ci piacerebbe vederci in televisione.
La tesi che siamo tutti narcisi, è bene chiarirlo non è mia ma di Freud.
L'inventore della psicoanalisi, all'inizio, era convinto che il narcisismo
fosse solo una perversione, poi, avendone trovato tracce in quasi tutti i
pazienti, gli venne il sospetto che si trattasse invece di una componente
comune della psiche umana, «complemento libidico dell'istinto di
conservazione». Detto più terra terra, ognuno di noi, anche quando ama,
pretende di riscontrare nel proprio partner dei segni di gradimento. Ebbene,
dice Freud, quando ciò accade è come se considerassimo la persona amata uno
specchio dove poterci guardare.
Narciso, diciamolo subito, era un po' narcisista. Fin da piccolo non manifestò
alcun segno di curiosità verso il mondo esterno: amici o amiche non ne
aveva, tantomeno fidanzate o amanti. Ma procediamo con ordine e cominciamo
col parlare dei suoi genitori.
Una bella mattina la cerulea Liriope, mentre prendeva il bagno nuda, fu
sedotta dal fiume Cefiso, «in un avvolgente gorgo» per dirla con Ovidio.
Dopo nove mesi...
la bella partorì tale un bambino che già poteva innamorar col riso;
e tosto consultò, s'era destino che lunga età vivesse il suo Narciso, che tal
nomollo. E a lei: «Sì» l'indovino «se non vedrà» rispose «il proprio viso».
Tradotto in parole più attuali, il
giorno stesso in cui partorì Narciso, sua madre chiese a un indovino, il
cieco Tiresia, quante probabilità avesse il neonato di giungere alla
vecchiaia. E Tiresia riSPoSe «Vivrà finché non vedrà la propria immagine.» O,
per essere più precisi, si se non noverit, che significa «finché non
conoscerà se stesso». Immaginiamoci come ci rimase la povera Liriope: fu
costretta a far sparire di casa tutte le superfici riflettenti, e come tali
gli specchi, i vetri, le pentole di rame, le lastre di argento e via
enumerando.
Giunto all'età di sedici anni, Narciso divenne il più bel giovanotto del
paese. «Dal monte Elicona al mare,» dicevano a Tespi «nessuno è pari, in
quanto a bellezza, al figlio di Liriope, e chiunque lo vorrebbe come amante.»
Ma il ragazzo, lo abbiamo già detto, non amava il prossimo suo.
Lui ben mille garzon, mille bramaro donzelle accarezzar; ma tal dispetto in
sì tenera età nutre e alterezza, che i lor voti non ode e li disprezza.
Nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae, come
dire che non si filava nessuno, né i maschietti, né le femminucce. Una volta
un ragazzo, un certo Aminia, gli scrisse un bigliettino:
«Dammi un pegno che m'ami, o dolce amico, ché, senza di te, preferirei
morire!» Ebbene, quale pegno, pensate, gli abbia inviato Narciso? Una spada!
Sissignore, proprio una spada, come a dire: «Ammazzati pure, tanto io me ne
frego!». E quello si ammazzò sul serio: si recò una sera davanti al suo
portone e s'infilzò con la spada che aveva appena avuta in regalo, dopo aver
invocato, però, sul capo dell'amato la vendetta degli Dei.
Che un uomo potesse suicidarsi perché non corrisposto da un ragazzo non era
un caso insolito nel mondo greco. In proposito, ricordiamo uno degli idilli
più struggenti di Teocrito, poeta siracusano del III secolo a.C., che ben si
adatterebbe al caso di Aminio e Narciso.
Un uomo appassionato amava un giovane crudele, bello d'aspetto, ma non di
cuore:
odiava chi l'amava e niente era dolce in lui, non conosceva Eros, né il suo
potere, né la forza del suo arco, né le amare ferite dentro il petto.
Ma l'amore, si sa, non si scoraggia per così
poco:
più viene ostacolato e più si attizza, e soprattutto passa sopra a qualsiasi
difetto della persona amata.
Anche così era bello: la sua collera dava nuova passione all'amante, che alla
fine non resse alla fiamma impetuosa. Andò a quella casa nemica e pianse
davanti alla porta. Baciò la sua soglia, e lasciò che il dolore fluisse.
«Ragazzo crudele, ragazzo di pietra, implacabile, indegno d'amore, io vengo a
portarti l'ultimo dono: il mio cappio.
Non voglio più affliggerti con la mia presenza:
io vado dove tutti gli amanti trovano il farmaco giusto per dimenticare, il
fiume dell'Oblio.
Seppure nemmeno accostandolo alle labbra, e bevendolo
tutto di un fiato, riuscirei a spegnere questo amore. Un saluto d'addio alla
tua porta.»
Detto fatto, l'amante s'impicca: fissa
il cappio alla trave della porta e sale su una grossa pietra.
Prima, però, di dare il calcio alla «pietra fatale», così come la definisce
Teocrito, supplica ancora una volta il ragazzo crudele.
Fammi un favore, fanciullo, in quest'ultima ora:
quando uscirai e alla tua porta mi vedrai impiccato, non ignorarmi: fermati e
piangi, solo un istante.
Poi staccami dal nodo e vestimi con i tuoi vestiti, e dammi un estremo, unico
bacio. Dona per un attimo le tue labbra al mio cadavere. Non temere: io non
potrò abbracciarti. E prima di andare via, grida forte, tre volte: «Riposa in
pace, mio caro».
E scrivi questo epitaffio: «Fermati viandante, è l'amore che l'ha ucciso.
Aveva un amico crudele!».
che il fanciullo fosse crudele, non ci sono dubbi;
Teocrito, infatti, chiude l'idillio scrivendo:
Aprì la porta il ragazzo e vide il cadavere, ma il suo cuore non ne fu
commosso e non pianse.
Se ne andò tranquillo alle gare del ginnasio e poi, come sempre, se ne andò
in piscina.
Più o meno così era anche Narciso: non aveva amici
e non parlava con nessuno.
Unica sua passione, la caccia, ovviamente da solo. E stava per l'appunto
cacciando un cervo, quando incontrò la bella Eco. Ma chi era Eco? Era una
ninfa dei monti, una delle Oreadi, celebre invece per la sua parlantina.
Si racconta che un giorno Zeus, avendo notato questa propensione di Eco per
il pettegolezzo, l'avesse spinta a distrarre sua moglie Era, in modo da
potersela filare con una sua amante, senza essere visto. «Tu,» disse alla
ninfa «raccontale le ultime novità dell'Olimpo, dille di quella volta in cui
Afrodite fu scoperta a letto con Ares, e di tutte le arrabbiature che si
prese Efesto, insomma, tienila impegnata per un paio di ore.» Era però si
accorse che Eco la intratteneva con sua accorta favella finché il consorte
con la rival fuggiva e la volle punire. Le mise
una mano sulla bocca e le tolse l'uso della parola.
«Da oggi in poi, le disse «con quella stessa lingua con la quale mi hai
frastornato, potrai solo raddoppiare i suoni che udranno le tue orecchie, e
non potrai parlare, se non al termine dell'altrui parlare.»
Povera Eco: non solo le avevano tolto la facoltà di spettegolare,
ma anche di comunicare i propri sentimenti all'uomo che amava. E già, perché
nel frattempo Eco si era perdutamente innamorata di Narciso. Com'era successo?
Beh, per caso, mentre vagava per le foreste sulle falde dell'Elicona.
Quando essa lo vide aggirarsi tra i boschi, si accese di tenero amore e di
nascosto ne seguì le orme, e quanto più gli si accostava, tanto più le
s'infiammava il cuore, così come lo zolfo che è in cima alle fiaccole prende
fuoco non appena vede la fiamma che gli si avvicina. Oh, poterlo fermare! Oh,
potergli rivolgere frasi amorose e suadenti preghiere
Ma come fare a dirgli tutto quello che aveva nel cuore? Lei, in
pratica era muta, era una che poteva solo ripetere le ultime sillabe che
udiva. Ecco, comunque, parola più parola meno, quello che si dissero quel
giorno Eco e Narciso:
«Chi è costei che m'insegue?» «... segucce.» «Cosa vuoi da me orribile donna?»
«... donnaaa.» «Lo vuoi capire o no che voglio restar solo!» «... solooo.»
«Vattene via, ho detto: vattene via!» .. viaaa» ripeté Eco, e Narciso se ne
andò.
E da quel giorno Eco, sentendosi rifiutata, visse in solitarie caverne e si
coprì di foglie il volto reso rosso dalla vergogna. E così accadde che la
passione e il dolore per il rifiuto ebbero ragione di lei: cominciò a
consumarsi dal di dentro, la pelle le si raggrinzì addosso, e nel giro di
pochi giorni sparì del tutto.
Di lei restò nell'aria solo la voce, o per meglio dire la capacità di
ripetere l'ultima parola che udiva.
Ormai Eco era diventata un suono.
L'episodio del
suicidio di Aminio e subito dopo ¨ quello di Eco, consumatosi per amore, rese
impopolare Narciso.
«Ma chi si crede di essere questo vanesio!» cominciò a dire la gente. «Che
possa essere rifiutato al pari di come rifiuta!» La voce, a forza di
circolare, giunse agli Dei e in particolare alla Dea di Ramnunte, la
terribile Nemesi. E così accadde che un giorno Narciso venne attratto da una
limpida fonte situata in mezzo ai monti. [Si trattava, racconta Ovidio, di un
minuscolo lago al quale non si erano mai accostati né pastori, né capre, né
uccelli, né fiere.
Qui, dall'arsura e dal cacciar
già lasso, tratto al bel di quel loco il giovinetto per dissetarsi un dì
rivolse il passo;
ma un'altra sete, ohimè, crebbegli in petto!
chè mentre chino a ber pende sul basso fonte, avvisa nell'onda il proprio
aspetto:
attento il guata, e tanto error l'ingombra, che stima corpo una fuggevol
ombra.
Ma cosa vide Narciso nell'acqua?
Per la prima volta vide i suoi occhi, e li scambiò per una coppia di stelle,
e per la prima volta vide i suoi capelli e li trovò degni di Apollo o di
Dioniso, e per la prima volta vide le sue guance ancora imberbi, il collo
d'avorio, la tenera bocca, e l'incarnato rosa misto al candore della neve.
Ignaro, cominciò a bramar se stesso. Lodò e fu lodato. Desiderò e fu
desiderato. E quante volte baciò la fonte ingannatrice, e quante volte
immerse nell'acqua le tremanti braccia, pur non riuscendo ad abbracciare la
persona amata!
Raramente un amante, rivolgendosi
all'amato, riuscì a essere più tenero di Narciso, il giorno in cui s'innamorò
della propria immagine! Sentite quel che fu capace di dirsi:
«Chiunque tu sia, ragazzo, esci dall'acqua e vienimi incontro! Perché hai
deciso di farmi soffrire?
Perché mi sfuggi? Perché fai di tutto per sottrarti al mio amore? Eppure
quando ti tendo le braccia, anche tu me le tendi; e quando sorrido, anche tu
mi sorridi, e quando piango anche tu piangi, e mischi le tue lacrime alle mie
nella medesima acqua.»
Da questo punto in poi il mito di Narciso si dirama in
diversi finali a seconda degli autori. Proveremo a citarne alcuni:
In una raccolta di favole del Duecento, nota come il Novellino, leggiamo che
il «molto bellissimo» Narciso, avvilito dall'inutilità dei suoi sforzi, si
lasciò cadere nel laghetto e, salute a noi, vi morì annegato, anche perché,
malgrado fosse figlio di un fiume e di una ninfa delle acque, non sapeva
nuotare. Eccovene la versione originale:
Narcis fue molto bellissimo. Un giorno avenne ch'e' si riposava sopra una
bella fontana. Guardò nell'acqua e vide l'ombra sua ch'iera molto bellissima:
incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l'ombra sua facea il
simigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, che
istesse nell'acqua, e non si acorgea che fosse l'ombra sua. Cominciò ad
amare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare; e l'acqua si turbò e
l'ombra spario, ond'elli incominciò a piangere sopra la fonte; e
l'acqua schiarando, vide l'ombra che piangea in sembiante sì com'egli. Allora
Narcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.
Più fantasiosa la versione di Pausania. L'autore della più
antica guida della Grecia sostiene che Narciso, in realtà, era stato molto
innamorato di una sua sorella gemella, morta di malattia, e che quando si
chinò sulla fonte per bere, gli sembrò di vederla rinascere.
Narcisso avea una sorella gemella, in tutte le altre cose simile a lui
nell'aspetto, così come ambedue avean simile la chioma e la veste con cui
erano vestiti, e alla caccia andavano insieme; si accese allora Narcisso
d'amore per la sorella. Allorquando però la fanciulla morì, recandosi egli ogni
giorno alla fonte, pur comprendendo che quella che vedeva altri non era che
la sua immagine riflessa, era pur sempre per lui un alleviamento alle pene
d'amore.
Ma torniamo a Ovidio e alle Metamorfosi.
Narciso è disperato: l'amato non risponde. A un certo punto, le
lacrime finiscono con l'increspare le acque e col far svanire l'immagine, al
che lui si mette a gridare:
«Fermati: non lasciarmi, o crudele, lo sai che ti amo! Mi sia concessa almeno
la vista dal momentO che toccar non posso.» Nel lamentarsi si lacerò la veste
e si percosse il petto nudo con le marmoree mani, e un rossore si diffuse sul
suo petto percosso.
Insomma, per chi non l'avesse ancora capito,
Narciso si uccise; con ogni probabilità infilzandosi con un pugnale, e si
racconta anche che in punto di morte abbia mormorato:
«Addio ragazzo delle acque, addio: io mi uccido per te, per non averti potuto
abbracciare. Giacché tu sei e rimarrai per me l'unico amore.» E da lontano si
sentì ripetere l'ultima parola:
«... amoreee.» Era Eco che, come sempre, ripeteva l'ultima parola.
Morto Narciso, si udì un funebre lamento: erano le sue piangenti sorelle, le
Naiadi, che gli offrivano le recise chiome. E già pronto era il rogo e già le
fiaccole tremavano al vento, allorquando il corpo sparì dalle rive accanto
alla fonte, e al posto suo venne trovato un fiore giallo, circondato da
candide corolle.
Il fiore nato dal corpo di Narciso
venne chiamato per l'appunto «narciso».
Appartenente al genere delle Amarillidacee bulbose, si presenta in natura a
volte giallo e a volte bianco; al suo interno, ma solo in alcune specie, si
intravedono minuscole macchie di colore rosso (è inutile precisare che per
alcuni dette macchie sarebbero la prova che il fiore nacque dal sangue di
Narciso). Ed ecco come il fiore viene raccontato dal marinista Giuseppe
Battista:
Fiore dopo la morte egli qui nacque, e fiore ancor, di se medesmo amante,
mira le sue bellezze entro l'acque.
(Giuseppe Battista, Il fatto di Narciso.) Si racconta anche che Narciso,
quando attraversò lo Stige per entrare nell'Oltretomba, si sia affacciato
nelle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non riuscì a
scorgere nulla, dal momento che lo Stige era il fiume dei morti, e perciò
torbido, fangoso, privo di qualsiasi riflesso.
Ebbene, Narciso ne fu contento:
«Vuol dire che solo io sono morto» mormorò. «e che tu non sei morto ancora!
Vivi sempre lassù, sul monte Elicona, in quella fonte di acqua limpida, nel
bosco dei miei sogni!»
#
I viaggiatori dell'Oltretomba
Da Orfeo a Totò (nel film Totò all'Inferno), i viaggiatori che hanno fatto
capolino nell'Oltretomba per poi tornare sulla Terra, Dante compreso, sono
stati moltissimi. Non potendo citarli tutti, ci limiteremo a ricordare quelli
più noti del periodo classico, e precisamente il platonico Er, Teseo, Ulisse,
Enea e il già nominato Orfeo.
Er, A volerlo giudicare oggi, quello di Er fu un caso di morte apparente: il
giovanotto venne raccolto esanime su un campo di battaglia e sistemato con
altri cadaveri su una pira funebre. Sennonché, mentre gli altri commilitoni
erano tutti in stato di avanzata decomposizione, lui, pur essendo morto da
più di dieci giorni, conservava uno strano colorito roseo; e così accadde
che, giusto un attimo prima che i sacerdoti si avvicinassero alla pira con le
torce in mano, lui tornasse in vita, più vispo che mai.
Una volta ripresi i sensi, Er raccontò quello che aveva visto durante i dieci
giorni in cui aveva fatto il morto.
«Uscita dal corpo, la mia anima si incamminò insieme alle altre e giunse in
un luogo meraviglioso dove si scorgevano quattro immense aperture: due
sprofondavano nel buio della terra, e due davano accesso al cielo. Proprio in
mezzo alle aperture sedevano i giudici; costoro invitavano i giusti a deviare
a destra per raggiungere il cielo, e glI ingiusTI a imboccare la strada degli
Inferi. I primi portavano scritti sul petto i loro meriti, mentre i secondi
avevano sul dorso l'elenco di tutte le loro malefatte.» Quando Er si fece
avanti per essere giudicato, venne subito respinto: i funzionari celesti gli
spiegarono che la sua presenza era da imputarsi a un banale errore delle
Moire; pur tuttavia, dal momento che era lì, che vi restasse pure, a patto
però che, una volta sulla Terra, raccontasse ai mortali tutto quello che
avrebbe visto. Confesso che, fin dalla prima volta che lessi questo passo
della Repubblica di Platone, mi piacque moltissimo l'idea che anche le Moire
potessero sbagliare.
Oltre le anime dei defunti in attesa di giudizio, Er vide anche quelle che
stavano per nascere di nuovo. Provenivano da turni di vita già vissuti e
fuoriuscivano dalle aperture del cielo, o dalle voragini degli Inferi, a
seconda che avessero appena finito di scontare il premio ricevuto o la pena
alla quale erano stati condannati.
Quelle che risalivano dalla terra erano tutte sozze e impolverate, le altre
invece, quelle che scendevano dal cielo, erano linde e luccicanti. Tutte però
confluirono nel medesimo prato, quasi si trattasse dI un raduno festivo, e
quelle che si erano conosciute in qualche altra vita si scambiarono
affettuosi saluti:
le anime che provenivano dal sottosuolo chiedevano notizie del mondo celeste,
e quelle che provenivano dal cielo erano curiose di sapere cosa ci fosse di
tanto orribile nel mondo sotterraneo. Si scambiavano in tal modo le loro
impressioni: le prime piangendo a dirotto per i patimenti sofferti, e le
seconde magnificando i godimenti celesti e le visioni di bellezza.» A detta
di Platone, la pena (o il premio) corrispondeva alla colpa nella misura di
dieci a uno. In altre parole, un assassino, per essere riammesso a nuova
vita, doveva soffrire dieci volte quello che aveva fatto soffrire alle sue
vittime.
A un certo punto Er vide un'anima che, pur non avendo scontato del tutto la
pena, cercava a ogNI costo di uscire da una delle voragini. Si trattava di
tale Ardieo, un feroce tiranno che nell'ultima vita vissuta, pur di
impadronirsi del trono, non aveva esitatO a uccidere il vecchio padre e il
fratello maggiore. Ebbene, non appena il dannato tentò di sgattaiolare
all'esterno, la voragine emise un suono assordante ed eruttò alcuni esseri di
fuoco i quali, rapidi come folgori, lo acciuffarono per i piedi e lo
scorticarono seduta stante, per poi trascinarlo a lungo su un tappeto di
piante di ortica.
«Ma ecco apparire davanti a noi una luce diritta come una colonna, molto
simile all'arcobaleno, ma più intensa e più pura [è sempre Er che racconta.
Questa luce teneva fermo il cielo cosi come una gomena riesce a trattenere un
triremi. Alla sua estremità era appeso il fuso di Ananke intorno al quale
giravano tutte le sfere. Sia il fuso che l'uncino erano di diamante. Il fuso
si svolgeva lentamente sulle ginocchia di Ananke. Intorno a lei cantavano le
Moire: Lachesi, Cloto e Atropo. Vestivano tutte e tre abiti bianchi e avevano
serti sul capo. Lachesi cantava il passato, Cloto il presente e Atropo il
futuro.» Ananke, ovvero la Necessità, ovvero il Destino era per i Greci la
Dea più potente dell'Olimpo.
perfino Zeus era costretto a sottostare ai suoi voleri senza discutere.
Quando Ananke aveva deciso qualcosa, non c'erano Santi, o per meglio dire non
c'erano Dei, capaci di farle cambiare idea! Per alcuni era la madre delle
Moire, per altri invece (tra cui Platone) solo la sorella maggiore. Le Moire
sovrintendevano ai vari momenti della vita. Cloto ne filava il fuso, Lachesi
misurava la lunghezza del filo e Atropo, colei che mai perdona, lo tagliava
con forbici inesorabili.
Er stava lì, estasiato, a guardare, quando gli si fece incontro un araldo:
«Anime dall'effimera esistenza corporea,» disse l'araldo «inizia per voi un
altro periodo di vita, preludio a una nuova morte. Non sarà un dèmone a
scegliere il vostro destino, ma sarete voi a scegliere il dèmone che
preferite. Il primo, infatti, che la sorte indicherà, sarà anche il primo a
decidere il tipo di vita che vorrà vivere. A questo punto, una volta che ha
compiuto la scelta, non potrà più tornare indietro, e nemmeno prendersela col
Dio.» Dette queste parole, l'araldo scagliò le sorti, ovvero i numeri in base
ai quali ognuno dei presenti sarebbe stato chiamato.
Tutti raccolsero il dado che gli era caduto più vicino, a eccezione di Er,
che stava lì solo per fare da testimone.
Subito dopo, l'araldo depose per terra innumerevoli sassi, ciascuno con la
scritta riguardante una vita. Ed ecco come le possibili esistenze ci vengono
elencate da Platone:
C'erano vite di ogni genere, di qualsiasi animale e di qualsiasi essere
umano. C'erano vite di tiranni, alcune durature, altre interrotte a metà,
alcune finite in esilio, altre ridotte in miseria. C'erano vite di uomini che
avrebbero raggiunto la celebrità, o per la bellezza, o per il vigore fisico,
o per l'attività agonistica, o per la nobiltà e la virtù degli antenati. E
così pure vite di gente comune, o semplici vite di casalinghe.
Insomma c'era di tutto: ricchezze e povertà, gioie e dolori, malattie e
salute, e ognuna di queste cose in misura diversa a seconda del tipo di vita.
Quelli che sceglievano senza riflettere, magari perché abbagliati dal
prestigio di un ruolo, finivano spesso col trovarsi in balia di un'esistenza
avvelenata dagli affanni e dai pericoli. Eppure l'araldo li aveva avvertiti:
«Anche chi si presenta per ultimo, purché sappia scegliere con la dovuta
saggezza, potrà vivere una vita tranquilla. Il primo ordunque faccia la sua
scelta senza precipitazione, e l'ultimo non si scoraggi!» Socrate subito ne
approfittò per dire che mai come in quella occasione risultò utile essere un
filosofo: non a caso, infatti, le vite migliori furono accaparrate da quelli
che, avendo sofferto in passato, più degli altri avevano avuto modo di
riflettere sul senso delle cose.
«Ilprimo a essere convocato dalla sorte» racconta Er «scelse la vita di un
tiranno potentissimo. A questa decisione era pervenuto spinto dall'ignoranza e
dall'ingordigia. Senza accorgersi, per sua sventura che il Fato gli riservava
moltissimi mali, tra cui quello di doversi divorare i figli.» La maggioranza
sceglieva in base a esperienze già maturate. Alcuni desiderando ripeterle
(seppure con maggiore fortuna), altri, invece, cercando di evitarle. Er vide
molti mitici personaggi compiere la loro scelta.
L'anima di Tamiri volle diventare un usignolo.
Aiace Telamonio, memore delle delusioni patite allorché gli vennero rifiutate
le armi di Achille, preferì nascere leone piuttosto che vivere in un mondo di
uomini ingiusti. E anche Agamennone, per pura ostilità verso il genere umano,
preferì infilarsi nel corpo di un'aquila piuttosto che in quello di un re.
La veloce Atalanta, stanca per aver partecipato a tante avventure, avrebbe di
certo scelto l'esistenza tranquilla di una madre di famiglia, se non si fosse
imbattuta nella sorte di un atleta più volte vincitore nelle gare olimpiche:
incapace di resistere al fascino della gloria agonistica, finì col
raccoglierne il dado.
L'ultimo a essere chiamato fu Ulisse: ebbene l'astuto figlio di Laerte, messo
sull'avviso dalle vicissitudini del suo interminabile ritorno, scelse la vita
di un uomo comune, a patto però che fosse priva di qualsiasi seccatura. Trovò
questa vita gettata in un angolino e ignorata da tutti. Quando la vide, disse
ad alta voce che l'avrebbe scelta anche se fosse stato lui il primo a essere
chiamato. Il mito si chiude così: con tutte le anime che, prima di tornare a
vivere, vengono invitate a bere le acque del Lete per dimenticare la vita
precedente.
A differenza degli altri, Er ebbe l'ordine di non bere le acque del Lete.
Come avesse fatto poi a rientrare nel suo corpo non seppe mai dirlo; disse
solo che tutto ad un tratto aveva aperto gli occhi e si era trovato seduto su
una catasta di legna, proprio mentre i suoi familiari stavano per appiccare
il fuoco.
Teseo
Teseo e Piritoo, diciamolo subito, erano due vecchi sporcaccioni:
malgrado avessero da un bel pezzo superato i cinquanta, vollero procurarsi un
paio di amanti di classe, e dal momento che, come si dice, avevano gli occhi
più grandi dello stomaco, decisero di rapire nientemeno che due figlie di
Zeus.
La prima a finire nelle loro grinfie fu la famosissima Elena, appena
dodicenne, a cui il Fato aveva riservato, fin d'allora, il ruolo dell'eterna
rapita. Per l'anagrafe, Elena era figlia di Tindaro e Leda, per i bene
informati, invece, una delle tante figlie che Zeus aveva disseminato nel
corso delle sue molteplici scappatelle.
I due, una volta messa al sicuro la prima preda in un castello dell'Attica
(se la giocarono anche ai dadi, e vinse Teseo), si guardarono intorno per
cercare la seconda. Ma chi scegliere tra le tante figlie illegittime che il
Padre degli Dei aveva messo al mondo? Pensa e ripensa, i due bricconi ebbero
la faccia tosta di chiedere consiglio proprio a lui, al divino genitore.
«Rapite Persefone,» suggerì perfidamente Zeus, ben sapendo in quali guai si
sarebbero andati a cacciare «posso garantirvi che la moglie di Ade, è la più
bella di tutte le figlie che ho generato!» Rapire Persefone voleva dire, in
pratica, scendere nell'Oltretomba, e questo a Teseo non piaceva per nulla; il
giuramento fatto, però, lo costringeva, volente o nolente, a seguire Piritoo
nell'impresa.
I due evitarono di traversare lo Stige e riuscirono a penetrare nel mondo
sotterraneo attraverso una porticina segreta situata in una caverna della
Laconia, in modo da presentarsi al cospetto di Ade quando questi meno se
l'aspettava. Una volta giunti davanti a lui, Teseo e Piritoo ebbero il
coraggio di chiedergli, spade alla mano, la consegna immediata di Persefone.
Il Re degli Inferi non batté Ciglio.
«D'accordo,» disse «prima però sediamoci a bere qualcosa.» E così dicendo
indicò loro due sedie collocate di fronte al suo trono. Queste sedie,
ovviamente, non erano sedie qualsiasi, bensì due «poltrone dell'Oblio», capaci
di sequestrare chiunque vi ci fosse seduto: nel senso che si tramutavano
immediatamente in carne, diventando un tutt'uno con il corpo del malcapitato.
Teseo e Piritoo restarono immobilizzati sulle poltrone dell'Oblio per un bel
pezzo, circondati da serpenti, mordicchiati dal cane Cerbero e frustati dalle
Moire, il tutto mentre Ade si divertiva a schernirli. Teseo, in particolare,
vi sarebbe rimasto chissà quanto tempo se un bel giorno Eracle, sceso giù
negl'Inferi per catturare il cane Cerbero, non fosse riuscito, con la sola
forza delle braccia, a liberarlo. Si racconta, però, che durante lo strappo,
buona parte delle natiche di Teseo restarono appiccicate alla poltrona, il
che spiegherebbe, a detta dei mitologi, il motivo per cui, ancora oggi, gli
ateniesi non dispongono di glutei sufficientemente adiposi.
Eracle e Teseo, prima di andarsene, cercarono di liberare anche il povero
Piritoo. Ogni loro tentativo, però, andò a vuoto dal momento che, come ci
provavano, un tremendo terremoto scuoteva tutta la terra. «Nec Letnaea valet
Theseus abrumpere caro vincula Pirithoo» dice Orazio, e bisogna credergli.
Ulisse
A differenza di Teseo e Piritoo, Ulisse non ebbe alcun bisogno
d'infilarsi in un cunicolo sotterraneo per raggiungere il mondo dei morti: vi
giunse spinto da una tempesta, dopo aver superato i limiti dell'oceano fino
allora conosciuto. Seguiamo la sua avventura, così come lui stesso la
racconta ai Feaci.
«Tutto il giorno le vele restarono tese. La nave aveva corso a lungo sul
mare. Il sole calò e tutte le strade cominciarono a ombrarsi. Giungemmo così
ai confini dell'Oceano profondo. E lì che abitano i Cimmerii, avvolti da
nebbie e da nuvole. Giammai il Sole li guarda con i suoi raggi splendenti,
né quando sale nel cielo stellato, né quando scende al tramonto. E su questi
infelici mortali sempre uguale si stende una notte funesta.»
L'eroe dagli occhi azzurri, dalla pelle scura e dai capelli
screziati di salsedine s'interruppe un attimo.
Immobili e in silenzio restarono i Feaci, da incantesimo presi nella sala
ombrosa.
«Una volta sbarcate le bestie, andammo lungo il corso dell'Oceano, finché non
arrivammo al punto indicato da Circe. Lì giunti, io scavai con la lama aguzza
una fossa lunga un cubito, in un senso e nell'altro, e versai un'offerta ai
defunti, prima di latte e miele, poi di dolce vino, e infine d'acqua. Cosparsi
quindi il tutto con bianca farina d'orzo, dopo di che giurai sulle teste dei
morti che, una volta giunto a Itaca, avrei immolato in loro onore la più
bella delle vacche sterili, e in particolare a Tiresia, e a lui soltanto, il
più bello dei montoni neri.» Tiresia, per chi non lo sapesse, era l'indovino
più illustre di tutto il mondo greco e Ulisse aveva un interesse personale a
evocarne l'anima, giacché solo Tiresia avrebbe potuto rimetterlo sulla buona
strada per raggiungere Itaca.
«Dopo aver così supplicato i morti, con voti e preghiere, afferrai e scannai
le bestie sul limite della fossa. Fosco come una nube si mise allora a
scorrere il sangue- A quel punto, dall'Erebo, cominciarono ad arrivare le
anime dei defunti: donne, ragazzi, vecchi provati dal dolore, tenere spose
dall'animo straziato, uomini uccisi in battaglia con le armi lorde di sangue,
alcuni con il petto ancora squarciato, tutti cercando di avvicinarsi alla
fossa con acuto gridio.
Mi prese una tale angoscia, che ordinai ai compagni di scuoiare e bruciare le
bestie e di pregare il possente Ade e la tremenda Persefone.» Ed ecco, come
in un film horror, le silouette dei morti che si accalcano intorno alla
fossa, smaniosi di bere il sangue delle vittime. Il primo a presentarsi fu un
certo Elpenore, un compagno d'arme appena morto.
Ulisse gli chiede il motivo del decesso e lui così risponde:
«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, mi colpì la mala
sorte e il troppo vino: dormivo ubriaco in casa di Circe e, invece d'imboccare
la scala, come avrei dovuto, mi gettai a capofitto dal tetto, rompendomi
l'osso del collo.» Subito dopo ecco farsi avanti la madre di Ulisse,
Anticlea. L'eroe ignorava la sua morte: l'aveva lasciata viva e vegeta nella
sua casa a Itaca e ora se la ritrova, ombra fra le ombre, nel mondo dei
morti. Vorrebbe parlarle, ma avendo scorto nel medesimo istante Tiresia,
l'indovino per il quale si era spintO fin lì, la prega di attendere.
Nel frattempo Tiresia gli chiede:
«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, perché mai, infelice,
lasciata la luce del sole sei venuto a vedere i defunti e questo tristissimo
luogo? Orsù, allontanati dalla fossa, togli l'aguzzo brando, e fa' che io
beva di questo sangue e ti dica parole veraci.» Tiresia, grato della bevuta,
gli predice tutto quello che gli accadrà tornando a Itaca, e questo
consentirà a Ulisse di rivolgere la sua attenzione alla madre che è sempre
lì, in attesa.
«O madre, quale fato di morte spietata ti vinse? Una lunga malattia o un
dardo improvviso [un infarto di Artemide saettatrice? Dimmi inoltre di mio
padre e di mio figlio, e svelami il pensiero e il volere della mia legittima
sposa, se mi è rimasta fedele o se ha sposato qualche nobile acheo.» Nel dire
queste parole, tre volte tentò di abbracciarla e tre volte lei gli si dileguò
tra le mani al pari di una nuvola di fumo.
«O madre, perché non mi aspetti quando voglio abbracciarti, in modo da
saziarci ambedue di gelido pianto? Oppure quello che io scorgo è solo un
fantasma, che a me l'insigne Persefone invia, affinché soffrendo possa gemere
ancora di più!» «Ohimè, figlio mio, Persefone non t'inganna:
questa è la legge degli uomini allorquando si muore!
I nervi non reggono più la carne e la furia violenta del fuoco li disfa non
appena la vita li abbandona di modo che l'anima vagola via, volando come un
sogno!» Così dicendo l'anima di Anticlea si ritrae, anche perché scavalcata
da decine e decine di altre donne che si ammassavano in folla intorno al
fosco sangue.
Tra le tante Ulisse scorge Antiope, Leda, Alcmena la madre di Eracle,
Epicasta la madre di Edipo, la bellissima Clori, Ifimedea, Fedra, Procri,
Arianna, Climene e tante altre.
Subito dopo le donne, però, ecco arrivare anche gli uomini, anzi gli eroi, ed
è con loro che Ulisse ha gli incontri più significativi. Il primo a
presentarsi fu Agamennone.
«Appena con gli occhi mi vide, subito mi riconobbe. Stridulamente gemeva,
versando pianto copioso, e con le braccia tese, avrebbe voluto abbracciarmi:
ma non aveva più né la forza, né il vigore di un tempo. Vedendolo, piansi
anch'io. Ne ebbi pietà, e parlando gli rivolsi alate parole:
O gloriosissimo Atride, o Agamennone signore degli uomini, quale fato di
morte spietata ti vinse? Ti vinse forse Poseidone, mentre eri sulle navi, dopo
aver suscitato un aspro uragano di venti, oppure ti uccisero a terra uomini
ostili, mentre razziavi buoi, greggi di pecore, e bellissime donne?
«E lui così mi rispose: "O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di
astuzie, non fu Poseidone a vincermi dentro le navi, e nemmeno gli uomini
ostili a uccidermi a terra; fu Egisto, invece, a prepararmi la morte con
l'aiuto della mia sposa funesta, invitandomi a casa a mangiare, e mi uccise
così come si uccide un bue accanto alla greppia. Con me furono soppressi
anche i miei compagni, al pari di porci dalle candide zanne in casa di un
ricco signore. Sul mio corpo cadde il corpo di Cassandra, la figlia di Priamo,
uccisa da Clitennestra esperta d'inganni. La cagna andò via e non ebbe
nemmeno il coraggio, mentre io scendevo nell'Ade, di chiudermi gli occhi e di
serrarmi la bocca, gettando, con il suo comportamento, vergogna su di sé e su
tutte le donne che nasceranno in futuro! Ciò premesso, o amico, non essere
mai franco con le donne e non raccontarle mai tutto quello che sai, bensì, se
conosci solo due cose, delle due digliene una, e l'altra tienila nascosta,
giacché delle donne non c'è da fidarsi".» Stavano ancora a parlar male delle
donne, quando ecco fare la sua apparizione l'anima di Achille.
L'eroe piangendo si rivolge a Ulisse:
«O divino figlio di Laerte, o Odisseo pieno di astuzie, come ardisti venire
nell'Ade, dove i morti privi di sensi dimorano?» E Ulisse a lui: «O Achille,
figlio di Peleo, tra tutti gli Achei di certo il più valoroso, sono qui per
farmi dire da Tiresia i pericoli a cui andrò incontro tornando a Itaca.
Nessuno più di te, comunque, può essere lieto, giacché prima, tra i vivi, eri
onorato al pari degli Dei, e ora tra i morti conservi ancora il tuo potere!».
«Non abbellirmi la morte, o illustre Odisseo!» replicò con amarezza Achille.
«Preferirei essere schiavo sulla terra di un uomo povero, piuttosto che il
primo tra tutti i defunti!» Seduto in disparte, in un angoletto, Ulisse
scorge anche Aiace Telamonio:
l'eroe greco ha lo sguardo truce, (è ancora fuori di sé dalla rabbia per il
torto subito, ovvero per essere stato ignorato dagli Achei, il giorno in cui
questi consegnarono a Ulisse, e non a lui, le favolose armi del Pelide
Achille.
Ulisse vorrebbe tendergli la mano ma non osa.
«O Aiace, figlio del grande Telamone, è mai possibile che nemmeno ora che sei
nel mondo dei morti riesci a scordare il rancore che nutristi per me
allorquando ti furono tolte quelle armi funeste!» Ma Aiace non risponde: si
alza e si va a mischiare alle altre anime dei morti.
Enea
Anche un altro reduce della guerra di Troia, Enea, arriva negli Inferi
senza proporselo. La sua nave troiana è ormai in vista delle coste campane.
Poche ore prima il suo timoniere, Palinuro, essendosi addormentato, è
scivolato a mare (primo caso di morte per colpo di sonno di cui si abbia
notizia nella storia dei trasporti). Enea si accorge che l'imbarcazione va
alla deriva e ne prende il comando.
Approda così, sulle spiagge di Cuma, la nave dei nostri progenitori. Di lì a
pochi passi c'è il lago d'Averno. Ebbene, chiunque abbia avuto modo di
visitare questo tristissimo lago, concorderà senz'altro con Virgilio che lo
indica come il luogo di transito più probabile tra il mondo dei vivi e quello
dei morti. Dai sinistri soffioni della vicina solfatara agli echi angosciosi
dell'antro della Sibilla, tutto concorre a rendere l'atmosfera magicamente
lugubre.
E Virgilio era uno che di magia se ne intendeva.
Enea ormeggia la nave e sbarca con tutti i suoi uomini. Fatti pochi metri, si
trova innanzi l'antro della Sibilla. L'immenso fianco della rupe si apre in un
antro.
Conducono a esso cento passaggi e cento porte, dalle quali erompono
altrettante voci: sono i responsi della Sibilla.
La Sibilla, per chi non lo sapesse, era una vecchia di settecento
anni, o per meglio dire, una veggente subentrata a un'altra veggente che a
sua volta ne aveva sostituito un'altra, secondo una prassi che durava ormai
da oltre settecento anni. Enea vorrebbe interrogarla per conoscere il luogo
esatto, in Italia, dove gli converrebbe fondare una nuova comunità. Sta Per
entrare ma ha paura.
«Che fai, o troiano, esiti?» gli urla allora la Sibilla. «Sappi che se non
supplicherai con voti e preghiere, giammai si apriranno per te le porte della
mia dimora.» «O divina sacerdotessa, presaga del futuro,» risponde Enea
«dimmi se è conveniente che i Teucri si stabiliscano nel Lazio con i loro Dei
erranti. Ché se così fosse, io innalzerei ad Apollo e a Diana un tempio, e a
te un enorme sacrario. Solo, ti prego, non affidare i tuoi responsi alle
foglie, affinché confusi, poi, non volino via in balia dei venti.» La Sibilla
esaudisce la sua preghiera.
«Sei da poco scampato ai pericoli del mare, o figlio di Anchise, e ora non ti
restano che i pericoli di terra. I Teucri giungeranno nel regno di Lavinio e
rimpiangeranno a lungo di esservi giunti: vedo guerre, moltissime guerre, e
vedo il Tevere tingersi di sangue copioso. Né ti mancheranno il Simoenta e lo
Scamandro, perché nel Lazio è già nato un nuovo Achille, anch'egli nemico
dei Teucri, così come a generare il male sarà ancora una volta una donna
straniera.» In che senso Enea non sentirà la mancanza dei due fiumi troiani,
il Simoenta e lo Scamandro? E presto detto: la Sibilla gli predice che anche
nel Lazio troverà vita durissima, la stessa vita durissima, in pratica, che
ha lasciato a Troia. Per quanto riguarda poi Achille e la donna straniera, la
profezia lo mette in guardia da Turno e dalla sua promessa sposa Lavinia,
che, passando dalle braccia del re dei Rutuli a quelle sue, finirà col far
scoppiare, al pari di Elena, una terribile guerra.
A questo punto però l'eroe si fa più ardimentoso e chiede alla Sibilla se è
vero che in quella zona c'è un'apertura sotterranea che immette direttamente
nel regno dei morti:
«Poiché si dice che la porta degl'inferi e la tenebrosa palude formata dal
rigurgito dell'Acheronte, si trovino in questi paraggi, mi sia concesso di
giungere al cospetto dell'amato padre: io lo sottrassi alle fiamme e ai mille
dardi degli Achei, portandolo sulle spalle. Ora, ti prego, o Divina, indicami
se puoi la giusta via e apri le sacre porte. Avrai pietà, cosi facendo, del
figlio e del padre!» E la Sibilla a lui:
«O nato da sangue divino, o figlio di Anchise, è facile scendere nell'Averno,
la cui porta è sempre aperta. Più difficile, invece, è il ritorno. Ma se
davvero vuoi affrontare la prova, allora cerca nelfolto del bosco un
ramoscello carico difoglie d'oro eportalo in dono a Proserpina. In quel caso,
e solo in quel caso, io stessa tifarò da guida.» Enea già disperava di
riuscire a trovare il sospirato ramoscello, quando due colombe (evidentemente
inviate dalla madre Venere) attrassero la sua attenzione. Le colombe si
alzarono in aria, quel tanto che bastava per farsi vedere, per poi dirigersi
velocissime in un punto del bosco. Seguendo il loro volo, l'eroe non ebbe
difficoltà a scovare il ramoscello d'oro, che si affrettò a mostrare alla
Sibilla.
V'era in quel luogo un'interminabile grotta, immane e di vasta apertura,
difesa dalle tenebre dei boschi e da un lago nero, sul quale nessun uccello
avrebbe mai potuto impunemente volare, tali erano le esalazioni che si
levavano da esso. I Greci lo chiamarono Aornon. Per maggior precisione,
Virgilio scrive: «Unde locum Grai dixerunt nomine Aornum», dove il termine
latino Avernum si è mutato in quello greco Aornon (a privativa più ornis,
come a dire: «privo di uccelli»).
Qui la profetessa collocò quattro giovenche dalle nere terga e versò vino
sulle loro fronti, invocando a gran voce Ecate, signora del cielo e delle
tenebre.
Enea, dal canto suo, sguainò la spada e sacrificò un'agnella nera alla madre
delle Eumenidi e una vacca sterile a Proserpina. Ed ecco la terra muggire
sotto i suoi piedi, ed ecco le selve agitarsi, ed ecco le cagne ululare tra
le ombre dei boschi.
La Sibilla a questo punto vieta ai compagni di Enea di avvicinarsi:
«Altolà, o profani!» grida la veggente. «E tu Enea, invece, vai! E giunta
l'ora in cui necessita il coraggio.» Così dicendo entra furente nell'immenso
antro, mentre Enea, con impavidipassi, le sipone al fianco.
Proprio davanti al vestibolo, sull'orlo delle fauci dell'Orco, il Pianto e i
Rimorsi incalzanti posero la loro orrenda dimora; ed e lì che abitano le
pallide Malattie, la triste Vecchiaia, la Paura, la Fame cattiva consigliera,
la turpe Miseria dal viso deforme, e poi, uno dietro l'altro, il Dolore, il
Sonno consanguineo della Morte, la Morte stessa e le malvagie Passioni,
mentre sull'opposta soglia sogghigna la Guerra cagione di lutti.
L'eroe e la Sibilla vengono immediatamente circondati da decine di mostri:
tra di essi scorgiamo i Centauri, il gigante Briareo dalle cento braccia, e
poi Scilla, la bestia di Lerna, la Chimera, le Gorgoni e le Arpie.
Ma non c'era da aver paura, essendo tutta una finzione: più o meno come
quando ci s'infila nel «Tunnel dell'Orrore» dei nostri Luna Park.
Enea, preso da improvviso tremore, afferra la spada e sta per volgerne la
punta ai sopravvenuti, quando l'esperta compagna lo frena: i mostri che lui
vede sono solo figure incorporee, ombre che volteggiano inoffensive, e che
nessun'arma potrebbe mai ferire. Il viaggio prosegue secondo le tappe
previste da tutte le escursioni nell'Oltretomba: prima l'incontro con
Caronte, il vecchio barcaiuolo sporco, brutto e cattivo, poi
l'attraversamento dello Stige quindi Cerbero, il ferocissimo cane a tre teste
(al quale la Sibilla dà da mangiare una focaccia farcita di sonnifero) e
infine il mondo dei morti propriamente detto.
Subito si udirono le grida delle anime in pena e l'alto vagire dei neonati
piangenti sul limitare della soglia. Accanto a loro, si lamentano i
condannati a morte per ingiusta accusa. Minosse inquisitore scuote l'urna,
giudica le vite e le colpe commesse. Più in la sono rinchiusi gli innocenti
che si diedero da soli la morte: oh, quanto vorrebbero i meschini sopportare
adesso i duri affanni a causa dei qualifuggirono la vita! Ma la legge a ciò
si oppone e li condanna tutti all'esecrabilepalude. Ed ecco i Campi del
Pianto: così chiamati in quanto celano le donne che un doloroso amore indusse
a morire. Tra di esse Enea scorge Fedra, Procri, Erifile, Evadne, Pasifae e la
lacrimante Laodamia. Il guaio è che, tra le suicide, Enea incontra anche
Didone, la regina fenicia che si è appena uccisa per colpa sua. A saperlo, si
sarebbe ben guardato dallo scendere nel mondo dei morti. Per coloro che non
avessero mai letto l'Eneide, informiamo che Didone aveva ospitato a lungo
l'eroe a Cartagine (innamorandosene pazzamente) e che Enea, dopo aver bevuto
e mangiato per un annetto a casa sua (lui e tutti i Troiani) se l'era
squagliata un bel mattino, infischiandosene di come l'avrebbe presa lei.
Certo è che quando se la vede davanti, ombra tra le ombre, lo sventurato non
sa proprio che fare:
balbetta, farfuglia, poi comincia a dire:
«O infelice Didone, vera ordunque e la notizia che avevi posto fine alla tua
vita con la spada! Ahimè, mi chiedo: sono forse io che ho provocato questa
morte? Mi siano però testimoni le stelle e gli Dei celesti, che a malincuore
partii dai tuoi lidi. Fu il volere di Giove, o mia regina, che mi costrinse a
imbarcarmi, e mai avrei potuto immaginare che la mia partenza ti avrebbe
fatto tanto soffrire!» Che faccia tosta! Eppure lei era stata così chiara il
giorno in cui lo aveva sorpreso a fare i preparativi per la partenza!
Facciamo un passo indietro e ascoltiamo quello che Didone dice a Enea
nell'Iliade.
«Ti accolsi naufrago e bisognoso di tutto, e da vera folle ti misi a
disposizione il mio regno. Salvai la flotta perduta e i tuoi compagni, e ora
tu mi vieni a dire che gli Dei e gli oracoli della Licia ti trasmisero per
via aerea, da lontano, l'ordine di partire. No, non ti trattengo, non
contesto le tue parole: insegui pure, se vuoi, la tua Italia tra i venti e
cerca pure il tuo regno tra le onde. Sappi però che ti auguro di Scontare
mille volte le tue colpe tra gli scogli, e d'invocare spesso il nome di
Didone. Sappi che ti tormenterò per sempre, anche quando la fredda morte avrà
separato le mie membra dall'anima. E anche allora ti apparirò sotto forma di
fantasma, dovunque tu andrai.» Beh, più chiaro di così, cos'altro avrebbe
potuto dirgli? In proposito sento il bisogno di citare anche una lettera
immaginaria che Ovidio fa scrivere a Didone (ma sapeva scrivere?) il giorno
in cui vide partire Enea. Eccone alcuni stralci:
Ricevi o Enea la lettera di Didone decisa a morire: le parole che leggi sono
le ultime che avrai da me... e non perché io speri che una preghiera ti possa
commuovere, ma siccome ho perduto, e con onta, sia l'onore che la purezza
dell'anima, cosa vuoi che mi possa più importare una parola in più o una
parola in meno.
Sei deciso a partire comunque, ad abbandonare l'infelice Didone, e gli stessi
venti che gonfieranno le tue vele porteranno via anche le tue promesse. Sei
deciso, o Enea, a correre dietro ai regni d'Italia, che tu stesso non sai
dove siano, e non ti attira Cartagine appena fondata. Tu fuggi ciò che è fatto e
insegui ciò che è ancora dafare... Un altro amore, immagino, ti attende,
un'altra Didone. Hai sempre bisogno di fare nuove promesse, per poterle
nuovamente tradire! Ma anche se trovassi un amore nuovo, non troveresti mai
una sposa capace di amarti come ti amo io... Io brucio come una torcia di
cera impregnata di zolfo, io brucio come il pio incenso gettato sui roghi
fumanti, io tipenso quando sono sveglia, io ti penso quando dormo, io tipenso
giorno e notte... Eppure, nonostante i tuoi empi disegni, non ti odio, lamento
solo la tua infedeltà, e il lamento fa sì che ancora di più io t'ami...
Respinto daiflutti ti accolsi in un rifugio sicuro: non avevo ancora udito
bene il tuo nome quando ti diedi il mio regno. E mifossi almeno limitata a
questo! Anche il mio corpo volli chefosse tuo!
Mifufatale il giorno in cui un temporale ci sorprese e ci costrinse a
ripararci in una grotta. E ora tu, pudore offeso, vendicati pure, esigi come
è giusto la mia punizione!
Non partire, o Dardanide, ti prego: se ti
vergogni di avermi in moglie, non chiamarmi sposa, ma ospite, o concubina. Pur
di essere tua, Didone sopporterà qualsiasi nome... Vorrei che mi vedessi
mentre scrivo: ho qui sul grembo la lama troiana che mi regalasti e dalle
guance le lacrime cadono sulla spada. Ben presto sarà il mio sangue a
bagnarla. Ah, come fu utile questo tuo dono, e quanto poco ti è costato
liberarti di me! Ora immaginiamoci l'incontro tra i
due nell'Oltretomba: lui le tende le braccia e lei gli volta le spalle.
Ella, rivolta altrove, teneva gli occhi fissi a terra ed era più dura di una
selce dura o di una roccia marpesia. Dopo di che si dileguò e fuggì ostile nel
bosco dove l'attendeva Sicheo, il suo primo marito.
Enea, è inutile dirlo, ci restò malissimo: avrebbe
voluto correrle dietro, spiegarsi meglio, ripetere ancora una volta che era
stato costretto dagli Dei, ma non ebbe nemmeno il tempo di fare un gesto che
la Sibilla già l'ammoniva: «Nox ruit, Aenea!».
«La notte corre, o Enea, e tu resti qui, impalato, a perdere tempo! Ora la
via si divide in due sentieri: il sentiero di destra che conduce fin sopra
l'Elisio e che ci porterà alla meta desiderata, e il sentiero di sinistra che
conduce all'empio Tartaro dove vengono punite le colpe.» Enea si volta e
scorge infatti a sinistra, sotto una rupe, un'ampia città circondata da un
triplice muro e da un vorticoso fiume di fiamme roventi: è il Flegetonte.
All'ingresso, su una ferrea torre, in veste di custode insonne, è assisa la
tremenda Tisifone, tutta avvolta in un mantello insanguinato.
Ma non è nella città dolente che Enea vuole andare: ormai ne ha abbastanza di
grida e di lamenti, lui desidera solo incontrare suo padre, il vecchio
Anchise, e dove cercarlo se non in quello che a quei tempi era considerato il
Paradiso, ovvero nei Campi Elisi? Lì infatti lo trovano, in fondo a una valle.
Anchise, quando vide Enea venirgli incontro sul prato, protese commosso
entrambe le mani, mentre copiose lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
«Alfine giungesti, figlio mio, e la pietà per ilpadre vinse la durezza del
cammino!» «Quante volte» gli risponde Enea «il tuo ricordo mi spinse a
scendere in questo luogo. Fa' adesso che io ti possa abbracciare, o padre, e
non sottrarti alla stretta!» Così dicendo, rigava il viso di copioso pianto, e
per tre volte cercò di abbracciarlo, e per tre volte il fantasma gli sfuggì
dalle mani. Anchise a questo punto mostra al figlio le anime non ancora nate
e tra di esse indica quelle che nasceranno dal suo sangue. Inizia così una
specie di passerella dei personaggi storici di Roma.
Uno dietro l'altro il lettore si vede sfilare davanti una decina di
condottieri. Anchise gli mostra Silvio, l'ultimo dei figli che avrà con
Lavinia, per poi proseguire con Procra,
Capi, Numitore e con un altro Silvio. Cita quindi Romolo e i suoi discendenti.
«Or volgi qui i tuoi occhi, o Enea, e guarda la gente romana: quello è Cesare
e quella la stirpe di Jiulio che nascerà sotto la volta del cielo, e quello è
Cesare Augusto, ilfiglio del Divo, chefarà rivivere nuovamente il secolo
d'oro nei campi, un tempo dominati da Saturno. Augusto estenderà l'Impero
Romano sui Garamanti, sugli Indi e sulla terra che giace oltre le stelle.»
Con questa rassegna di duci, il poeta rinunzia alla commozione dell'incontro
tra il padre e il figlio. D'altra parte, però, bisogna pure capirlo: il
poverino da poco si è visto sequestrare le proprietà che aveva nei pressi di
Mantova (lo Stato gliele aveva tolte per assegnarle ai veterani della
battaglia di Filippi) e solo un appoggio dell'imperatore avrebbe potuto
fargliele restituire. Come non cedere alla tentazione di una bella sviolinata?
Orfeo
Orfeo è il primo cantautore di cui si ha notizia nella storia
dell'umanità, e non poteva non esserlo dal momento che era figlio di Apollo,
il Dio della Musica, e di Calliope, la Musa del Canto. Quando Orfeo si
metteva a suonare accadevano cose incredibili: gli uccelli si fermavano in
aria come elicotteri, fino a creargli intorno alla testa una specie di
aureola, i pesci affioravano dalle acque e sporgevano il capo per meglio
sentire i suoi versi, gli alberi cercavano di avvicinarsi. comPatibilmente
alla lunghezza delle radici, e perfino le montagne lo seguivano passo dopo
passo.
Ma qual era il suo repertorio? In pratica solo canzoni d'amore, anche
perché Orpheus Euridicem ninpham amavit, ovvero amava una ninfa di nome
Euridice. Purtroppo però non era il solo ad amarla:
un altro corteggiatore, il truce Aristeo, anche lui figlio di Apollo, ambiva
alla mano della ninfa. E quest'ultimo era uno che con le donne andava per le
spicce: se una fanciulla gli piaceva un pochino, non stava lì a perdere tempo
con le poesie, ma subito le saltava addosso.
Un giorno in cui la bella Euridice stava facendosi il bagno, nuda in un
laghetto, accadde il fattaccio.
Silenzio, udite: fu un pastore, figliuolo d'Apollo, chiamato Aristeo, costui
amò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu di Orfeo, che seguendola
un giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo:
perché, fuggendo lei vicina all'acque, una biscia la punse e morta giacque.
Insomma Euridice, nella sua fuga per
sottrarsi alle grinfie del bruto, aveva pestato una vipera venendone poi
morsicata. Di chi la colpa? Dell'inseguitore o della fuggitiva? A sentire
Ovidio, tutta dell'uomo, secondo il Poliziano invece anche Aristeo era
innocente, in quanto innamorato. Si dice anzi che, correndo correndo, le
abbia detto:
Non mi fuggir donzella, che io ti son tanto amico e che più t'amo che la vita
e il core.
Ascolta, o ninfa bella, ascolta quel che io dico, non fuggir, ninfa, chi ti
porta amore.
Euridice però, innamorato o non innamorato che fosse, non lo volle nemmeno
sentire, e finì col rimetterci la pelle. Un pastore allora si assunse il
compito d'informare Orfeo.
Crudel novella io ti porto, Orfeo, che tua ninfa bellissima è defunta.
Ella fuggiva l'amante Aristeo, ma quando fu sovra la riva giunta, da un
serpente velenoso e reo, che era tra le erbe e i fior, nel piè fu punta:
e fu tanto possente e crudo il morso che a un tratto finì la vita e il corso.
Figuriamoci Orfeo. Dapprima pianse disperato, poi compose in onore della
defunta una decina di canzoni, facendo piangere per l'occasione anche i
leoni, le montagne e le querce. Una volta, però, esauritosi il pianto, gli
venne un'idea.
«Gesù, Gesù!» esclamò (ovviamente non disse «Gesù, Gesù» ma fa lo stesso).
«Se finora, con la sola forza del canto, sono riuscito a conquistare tutta la
natura, monti e boschi compresi, perché non tentare anche con gli Dei degli
Inferi? Vuoi vedere che, cantando cantando, riesco a commuoverli e a farmi
restituire Euridice?» Detto fatto, trova in fondo a una caverna un cunicolo
che si inabissa nelle viscere della terra e ci s'infila dentro. Scende giù di
brutto, finché non si trova la via sbarrata da un fiume: è lo Stige, il fiume
torbido che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. E qui, come è
ovvio, s'imbatte in Caronte, il «nocchier della livida palude», tanto per
citare anche Dante. Caronte, si sa, è un vecchio sporco e maleodorante
che non solo fa remare le anime dei morti, ma pretende pure di essere pagato.
(I Greci usavano mettere una monetina tra i denti dei defunti, proprio per
consentire loro di pagare il pedaggio a Caronte.) Ebbene Caron, dimonio con
gli occhi di bragia, non appena sente Orfeo cantare, non capisce più nulla,
e, non solo lo accompagna gratis sull'altra riva (remando lui), ma lo segue
anche per un pezzetto di strada con il volto estasiato.
Il secondo incontro che farà è quello con Cerbero, il cane a tre teste che
non lascia entrare i vivi e non lascia uscire i morti. Per la descrizione di
Cerbero, comunque, mi rimetto di nuovo al Divino Poeta. Cerbero, fiera crudele
e diversa, con tre gole caninamente latra sopra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba lunga e atra, e il ventre largo, e unghiate le
mani:
Graffia li spiriti, scuoia e disquatra.
Ma anche Cerbero viene ammansito dalla
bellezza del canto: guaisce un pochino e gli si accuccia ai piedi. Da
quell'istante tutto l'Oltretomba sembra bloccarsi per ascoltare Orfeo.
Cessano i tormenti dei dannati: Tantalo non ha più né sete né fame. La ruota
di fuoco a cui è legato Issione si ferma. Sisifo si riposa accanto al masso.
Le aquile di Tizio smettono di rosicchiargli il fegato. E così via. Ma non
basta: tutte le anime dei defunti accorrono a migliaia dai più remoti angoli
del mondo delle tenebre.
Tenui ombre provenienti dall'Erebo fondo, immagini opache, ormai senza luce,
attratti dal suo canto terreno, fitti a migliaia, come uccelli che si
rifugiono tra le foglie, per sfuggire alla fredda pioggia, o alla sera che li
ha sorpresi sui monti.
Madri, uomini, corpi di eroi generosi, bambini, vergini morte senza aver
conosciuto l'amore, e giovani arsi sui roghi sotto gli occhi dei padri.
La bellezza di questi versi è tale che mi
sembra doveroso, nei riguardi di Virgilio che li ha scritti, riportarli qui
di seguito in lingua originale.
At cantu commotae Erebi de sedibus imis umbrae ibant tenues simulacraque luce
carentum, quam multa in foliis avium se milia condunt, vesper ubi aut
hibernus agit de montibus imber, matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae impositique rogis iuvenes ante
ora parentum.
E finalmente Orfeo finisce davanti al trono degli Dei degli Inferi, Ade e
Persefone. Sempre suonando, il nostro cantautore chiede la grazia. Ed ecco,
parola più parola meno, il testo della canzone:
O regnator di tutte quelle genti c'hanno perduto la superna luce, udite la
cagion dei miei lamenti.
Pietoso Amor dei nostri passi è duce:
non per Cerber legar fei questa via, ma solamente per la donna mia.
Una serpe tra i fior nascosta e l'erba mi tolse la mia donna, anzi il mio
core, ond'io meno la vita in pena acerba, né posso più resistere al dolore.
Ma se memoria alcuna in voi vi serba del vostro celebrato antico amore, se la
vecchia rapina in mente avete, Euridice mia bella mi rendete.
Ma gli Dei tentennano, non sono ancora
del tutto convinti di poter infrangere le regole. Orfeo allora prova a
sostenere la tesi secondo la quale la fanciulla non avrebbe ancora finito di
vivere i suoi ustos annos, ovvero gli anni che le spettavano di diritto, e
chiede una proroga.
Per questi luoghi pieni di terrore, per questo Caos immane, per questo vasto
regno del silenzio, vi prego:
tornate a tessere la trama degli anni, troppo presto troncati di Euridice.
Tutti gli esseri, dopo la breve sosta del vivere, faranno capo a voi.
Chi prima, chi dopo, tutti tendiamo verso una sola sede, giacché questa è la
nostra definitiva dimora, e giacché voi reggete il regno del genere umano che
mai vedrà fine.
Anch'ella, quando avrà compiuto il suo tempo, e avrà vissuto i suoi giusti
anni, sarà vostra di diritto.
Io vi chiedo un prestito al posto di un dono. Se poi i fati mi rifiuteranno
la grazia, allora, di certo, non avrò più voglia di tornare, e in quel caso,
gioite pure per la morte di entrambi.
Ade a questo punto si commuove e consente a
Orfeo di portarsi via Euridice, a patto però che non la guardi mai in viso
finché si trova nel suo regno.
Io te la rendo, ma con queste leggi:
che lei ti segua per la ceca via ma che tu mai la sua faccia non veggi finché
tra i vivi pervenuta sia!
Questa del non guardare in viso le anime
dei morti doveva essere una legge inviolabile del mondo degli Inferi: anche
Orfeo, mentre canta e chiede la grazia ad Ade e Persefone, evita di guardarli.
Comincia così la risalita: davanti c'è Orfeo che suona la lira, seguito a
pochi passi da Euridice tutta avvolta in un velo bianco, e infine, a chiudere
la sfilata, Ermes, il Dio controllore, colui che dovrà testimoniare che i due
non si sono mai guardati.
«Carpitur acclivis per muta silentia trames, arduus, obscurus, caligine
densus opaca»
che tradotto in italiano vuol dire:
s'inerpicarono ovattati nel silenzio per un sentiero arduo, buio e
denso di opaca caligine.
All'inizio Orfeo è perplesso: non è affatto sicuro che Euridice lo stia
seguendo. In effetti, non sente nulla che si muova alle sue spalle, non un
rumore di passi, non un respiro... niente. E se lo avessero preso in giro? E
se gli avessero detto che lei lo avrebbe seguito solo per convincerlo a
tornare sulla terra? Poi pensa: è ovvio che non sento nulla: i morti non
fanno rumore. Vorrebbe voltarsi, ma non osa... Su questo fatto del voltarsi,
poi, Ade e Persefone avevano molto insistito: «Bada che se ti volti, lei
sparisce per sempre!». Ed ecco che, tutto ad un tratto, sente la sua voce:
una vocina flebile, sottile come un lamento... Euridice lo tenta: lo implora
perché si volti...
«Amore mio, perché non ti volti? Sono diventata cosi brutta che non mi vuoi
più guardare? O forse non mi vuoi più bene?» «No, non mi debbo voltare,»
grida Orfeo «questa non è Euridice. Questi sono gli Dei degli Inferi che mi
vogliono mettere alla prova!» E lei insiste: «Amore mio, ho freddo:
abbracciami come facevi un tempo. Ho tanta voglia delle tue carezze».
Orfeo resiste, e finalmente esce all'aperto. Non appena avverte sul viso il
calore del sole si volta, ma la sua Euridice, purtroppo, non è ancora «del
tutto» uscita dal cunicolo... per pochi centimetri è da considerarsi ancora
nell'Ade. Stando cosi le cose, la fanciulla viene di nuovo inghiottita dalle
tenebre e sparisce per sempre.
Pare che si fosse attardata perché le faceva male la caviglia, quella morsa
dal serpente.
Così gettata al vento la fatica, infranta la legge del tiranno spietato, tre
volte si udì un fragore nelle paludi dell'Averno.
Prima di dissolversi, Euridice ha il tempo di gridare:
«Ahimè, Orfeo, chi ci ha perduti?
:Senza pietà il Fato già mi chiama e un sonno di morte vela gli occhi miei
smarriti.
E ora addio: intorno mi assorbe una notte fonda, e ormai non tua, a te tendo
le mie inerte mani.» Così disse, e d'improvviso svanì in un profondo nulla,
come fumo che si dissolve nella brezza d'aria.
Persa per la seconda volta Euridice, Orfeo, disperato, si rifugia nel canto.
Con ogni probabilità è proprio con lui che nasce il proverbio «canta che ti
passa». Così, comunque, la pensa Ovidio, che nei Tristia suggerisce il canto
come unico rimedio che talora ci resta per alleviare i mali del mondo.
Se i miei libri avranno, come certo avranno, alcuni difetti, tu, o lettore,
scusali, se non altro per le circostanze in cui furono scritti. Ero esule e
cercavo sollievo (non la gloria) in modo che la mente potesse distrarsi dalle
sue sventure. Questa è la ragione per cui in genere si canta anche se si
hanno le catene nei piedi. Canta il condannato mentre scava la terra, e con
una rozza melodia mitiga la sua fatica; canta il rematore mentre, puntando i
piedi, trascina contrOcorrente la barca, e canta ilpastore allorché, stanco e
seduto su un sasso, si appoggia al bastone e rallegra le pecore al suono
della zampogna. E si dice che cantasse perfino Achille, desiderando
dimenticare che gli era stata tolta Briseide, così come cantava Orfeo,
attirando a sé le rocce e le selve, per lenire il dolore di aver perso per
ben due volte la sposa.
Innumerevoli poeti, scrittori e musicisti si sono
ispirati al mito di Orfeo. Gluck ne ha ricavato un'opera altamente suggestiva
(come non ricordare la famosa aria: «Che farò senza Euridice, dove andrò
senza il mio bene?»). In alcune versioni, Euridice segue muta Orfeo lungo
tutta la salita, in altre parla e lo tenta, in tutte però lui si gira prima
del tempo. Diverso dagli altri, comunque, il modo con cui Reiner Maria Rilke
ci racconta la reazione di Euridice:
... ora seguiva il gesto di quel Dio turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.
Era in se stessa come un alto augurio e non pensava all'uomo che era innanzi,
non al cammino che saliva ai vivi.
Ormai non era più la donna bionda che altre volte nei canti del poeta era
apparsa, non più profumo e isola dell'ampio letto e proprietà dell'uomo.
E quando a un tratto il Dio la trattenne e con voce di dolore
pronunciò le parole «Si è voltato», lei non comprese e disse piano: «Chi?».
Insomma per Reiner Maria Rilke quando si muore, si muore, e ci si dimentica
di tutto. E forse è anche giusto che sia così per lenire se non altro il
dolore di essere morti.
Il dopo-Euridice è quanto mai burrascoso per Orfeo. Fedele alla memoria
dell'amante morta, il poverino rifiuta qualsiasi compagnia femminile e si
dedica esclusivamente ai ragazzi. A sentire Ovidio, anzi, sarebbe addirittura
lui l'inventore della pederastia.
Ai popoli di Tracia fu d'esempio nel deviare l'amor verso i fanciulli,
cogliendone, prima della pubertà, la fulgida primavera e i primi fiori.
L'aver rifiutato le donne, però, finì col
costargli la vita: un giorno, infatti, il poverino s'imbatté in un corteo di
Menadi ubriache. Le sacerdotesse di Dioniso, prima cercarono di sedurlo, poi,
offese dal suo netto rifiuto, lo presero, lo fecero a pezzi e ne gettarono le
membra nel fiume Ebro.
Ecco quello che l'amor nostro disprezza!
Oh sorelle, oh sorelle, diamogli la morte!
Tu scaglia il tirso e tu quel ramo spezza, tu piglia il sasso, o il fuoco, e
gitta forte, tu corri e quella pianta lì scavezza.
Oh, facciam che pena il tristo porte!
Oh, caviamogli il cor dal petto fora!
Mora lo scellerato, mora, mora!
La testa di Orfeo, però, finì col
cadere proprio sulla lira e col restare miracolosamente a galla. Si racconta
anche che durante il tragitto si mise a cantare:
«Euridice» diceva. «O mia misera EuridicE!» E lungo il fiume le rive
ripetevano: «Euridice».
Zeus, commosso dalla lacrimevole storia, pose
la testa di Orfeo in mezzo al cielo, nella costellazione della Lira, e ancora
oggi, si dice, che nelle notti stellate è possibile udire il suo canto
d'amore.
#
Il mito di Protesilao
Cominciamo col dire che non si chiamava Protesilao, bensì Iolao. Il nome
Protesilao in greco voleva dire «primo fra tutti» e gli fu affibbiato solo a
morte avvenuta, in quanto fu il primo guerriero a morire nella guerra di
Troia.
Quella di Protesilao, comunque, fu una vita difficile. Già per nascere aveva
avuto i suoi bravi problemi: suo padre Ificlo, re di Filace, era rimasto a
lungo impotente, finché un medico-indovino di nome Melampo (famoso per la sua
capacità di capire il linguaggio degli animali) non gli consigliò di
sacrificare due tori agli Dei. E fu proprio in quella occasione che il bravo
Melampo riuscì a captare un breve scambio di battute tra due avvoltoi, che si
erano posati sulle carcasse delle vittime.
«Chi ha sacrificato questi tori agli Dei?» chiese uno dei due avvoltoi.
«E stato Ificlo, il re di Filace» rispose l'altro.
«Che tu sappia, è vero che Ificlo non può aver figli?» «Sì, è vero, e io ne
conosco anche il motivo: un giorno suo padre Filaco, dopo aver immolato un
ariete sull'ara di Artemide, gettò a terra il coltello del sacrificio, e
Ificlo, che all'epoca era ancora un fanciullo, rimase molto turbato alla
vista del sangue. Il padre, allora, per nascondere la lama, conficcò il
coltello in una quercia sacra, e questo offese la Dea, che inflisse a Ificlo
l'incapacità di generare.» Venuto a conoscenza del complesso di castrazione
che angustiava Ificlo, Melampo prese gli opportuni provvedimenti: come prima
cosa estrasse il coltello incriminato dalla quercia sacra, quindi ne asportò
tutta la ruggine per poi farla bere al re, sciolta nel vino. Nacquero così
due bambini: Protesilao e Podarce, famoso quest'ultimo per la sua velocità
nelle gare di corsa.
Ma com'era Protesilao? Manco a dirlo, bellissimo, e in quanto tale aveva
fatto innamorare di sé Laodamia, splendida figlia del re Acasto ed
eccezionale scultrice. Purtroppo Acasto si era opposto fin dall'inizio al
matrimonio: Protesilao, a suo dire, non era abbastanza ricco da poter
aspirare alla mano di Laodamia. «Figlia mia bella,» aveva detto Acasto «
tu ti devi convincere! Dal momento
che abbiamo urgente bisogno di stringere alleanze politiche, tu ti devi
sposare con il figlio di qualche re, e a me, a essere sinceri, questo
Protesilao non sembra uno molto potente.» «Ma è anche lui figlio di un re!»
protestò Laodamia, disperata. «Non sai forse che suo padre Ificlo regna su
tutta la città di Filace?» «Filace, bambina mia, non è una città, ma un
villaggio di pochissimi abitanti» precisò Acasto. «Non la puoi certo
paragonare con la nostra Iolco! E poi non ha sbocchi a mare, insomma non
conta nulla.
E se questo non bastasse, mettici pure che Ificlo è ancora molto giovane e
che Protesilao corre il rischio di succedergli solo tra vent'anni.» Laodamia
a queste parole rimase malissimo, e stava quasi per fuggire a Filace, dal suo
Protesilao, quando, all'improvviso, scoppiò la guerra di Troia.
Ora dovete sapere che, alcuni anni prima, Acasto aveva fatto un solenne
giuramento: quello di difendere, unitamente a tutti gli altri principi achei,
l'onore di Elena, vita natural durante. Il fatto che il troiano Paride
l'avesse rapita lo costringeva pertanto a partire subito per la guerra, e, a
essere sinceri, non ne aveva alcuna voglia.
«A me,» disse «delle corna di Menelao non importa assolutamente nulla. Io a
Troia non ci vado!» «Ma non puoi fare questa brutta figura» lo rimproverarono
i suoi consiglieri. «Tu hai giurato! Hai detto che avresti inviato a Troia
quaranta navi nere, comandate da un guerriero di sangue reale!
Ora, tu figli maschi non ne hai, hai solo una figlia femmina, e per di più
nubile... Chi vuoi che le possa comandare queste quaranta navi?» A queste
parole, il viso di Acasto s'illuminò:
«Un momento...» esclamò. «Mi è venuta un'idea!» E mandò a chiamare Protesilao.
Il giovanotto giunse di corsa e si sentì chiedere:
«Protesilà, tu vuoi sempre bene a Laodamia?».
«Certo che le voglio bene!» rispose il ragazzo, con
il cuore che gli saltava nel petto, un po' per la domanda, e un po' per la
corsa.
«E io te la faccio sposare,» aggiunse Acasto, dandogli una pacca sulla
spalla, «a patto però che te la sposi entro stasera.» «Entro stasera!?» «Sì,
o Protesilao, giacché abbiamo pochissimo tempo a disposizione, sia per il
matrimonio che per la prima notte. Il fatto è che domani mattina, di
buon'ora, mi devi condurre quaranta navi nere a Troia!» «Papà,» obiettò il
giovane «ma io la casa non l'ho ancora pronta...» «Fesserie,» tagliò corto
Acasto «o te la sposi oggi o non te la sposi più! Vatti a preparare e non
perdere tempo.» Tutto fu organizzato secondo i voleri del re. Gli sposi,
subito dopo il pranzo di nozze, si ritirarono in camera da letto, e
Protesilao, alle prime luci dell'alba, si sentì chiamare a gran voce da un
araldo.
«O Protesilao, principe di sangue reale e marito della figlia di Acasto, la
flotta ti attende!» E il giovane partì.
Ovviamente Laodamia pianse calde lacrime, né più ne meno di come avrebbe
pianto qualsiasi altra sposa al suo posto. Questi, dopo qualche mese, i suoi
pensieri:
Oggi i venti sono contrari e il mare è in tempesta, ma il giorno in cui mi
lasciasti dov'erano i venti sfavorevoli e dov'era il mare avverso? Allora sì
che i flutti avrebbero dovuto opporre resistenza ai remi!
Solo così avrei avuto modo di baciarti più a lungo.
Solo così avrei potuto farti più raccomandazioni. E invece quel vento in
poppa, tanto amato dai marinai, e tanto nemico del nostro amore, ti portò via
da me per sempre. Tu ti sciogliesti dalle mie braccia, o Protesilao, e mentre
io ancora mormoravo «addio», Borea tese le vele e ti trascinò lontano.
Finché riuscii a vedere il tuo bel viso, mi piacque guardare, e quando non
vidipiù la tua figura, seguii le vele, e quando non vidi più le vele, guardai
il mare deserto. Poi, all'improvviso, mi si piegarono le ginocchia e caddi
sulla spiaggia.
A stento il suocero Ificlo e il longevo Acasto mi rianimarono con
l'acqua fredda del mare. Come mi tornò la coscienza, così mi tornò il dolore
d'averti perso. Ora non hopiù voglia difarmipettinare i capelli, né mipiace
indossare vesti dorate. Passo le giornate vagando di qua e di là, senza meta,
in pratica dove mi spinge il delirio.
Che maledetto tu sia, o Paride, figlio di Priamo, bello ai danni della tua
stessa gente! E che maledetto tu sia, o Menelao, che per riportare a casa una
sola donna, finirai colfarnepiangerepiù di mille! E che maledetti siano Ilio,
Tenedo, Simoenta, Scamandro e Ida, tutti nomi che solo a sentirli pronunziare
fanno venire addosso una gran paura! Ma più di tutti io temo un tale che si
chiama Ettore; di lui Paride disse che ha la mano ferma e spietata. in ogni
modo, amor mio, ti prego, da Ettore guardati! Che lo affronti pure Menelao se
proprio lo desidera, ché almeno lui ha un motivo per farlo: è a Menelao,
infatti, e non a te, che è stata rapita la moglie. Che gli altri, insomma,
facciano la guerra, e che Protesilao faccia l'amore! (
Sulla nave ammiraglia, oltre a Protesilao, viaggiava anche un altro ospite
illustre: il piè veloce AChille, il più forte dei guerrieri achei.
Al suo arrivo la nave fu accolta dalla più gigantesca pietrata che la storia
ricordi: i Troiani, schierati a migliaia lungo le spiagge, scaricarono sugli
invasori una tempesta di selci, di frecce e di maleparole.
Il primo a ritenersi offeso, ovviamente, fu Achille:
l'eroe al grido di «Maledetti figli di Ilio» stava lì lì per saltare dalla
nave, quando fu bloccato dalla madre Tetide. E qui bisogna aprire una
parentesi, e spiegare cosa ci facesse una mamma su una nave da guerra achea.
L'invisibile Dea, avendo saputo da Apollo che il primo a sbarcare
sarebbe stato anche il primo a morire, si era piazzata opportunamente alle
spalle del figlio, pronta a intervenire al minimo pericolo; e difatti, come
si accorse che l'eroe stava per saltare, con una mano lo trattenne
afferrandogli la cintura, con l'altra dette una spintarella a Protesilao.
Risultato finale: il povero marito di Laodamia finì giusto sulla spada di
Ettore e rese l'anima agli Dei prima ancora, si potrebbe dire, di toccare il
suolo troiano. Ed ecco come Omero ci descrive il balzo di Protesilao:
Primo ei balzossi dalle navi, e primo cadde, trafitto dal dardanio ferro.
Balzossi un corno, preciso io, perché se non fosse
stato per la spintarella di Tetide, lui col cavolo che sarebbe balzato.
Laggiù, intanto, a Filace, c'era chi si struggeva dal dolore.
E la moglie in Filace, derelitta, le belle gote lacerava, e tutta vedova del
suo re, piangea la casa.
Se Laodamia si disperava, Protesilao, sebbene morto, era addirittura
furibondo! Troppo crudeli erano stati gli Dei! E d'altra parte, come dargli
torto? Aveva desiderato una donna per tutta la vita: a un certo punto, chissà
come, era riuscito a convincere il padre di lei a dargliela in sposa, e dopo
averla avuta per una notte soltanto (dicesi una), che succede? Viene ucciso
proprio quando sta per mettere piede sul suolo nemico, senza aver combattuto
nemmeno un giorno! E no: quello che è troppo, è troppo! E pensare che la
moglie, poche ore prima della partenza, lo aveva messo in guardia dallo
sbarcare per primo, ammonendolo: «Sors quoque nescioquem fato designat
iniquo, qui primus Danaum Troada tangat humum», ovvero...
«Mi hanno riferito che il Fato condannerà a morte chi per primo toccherà
l'ilio suolo. O infelice quella sposa che sarà la prima a piangere il marito
perduto!
Che delle mille prue dei Danai la tua possa essere la millesima a solcare le
affollate acque, e che tu possa scendere per ultimo, o mio dolce amore, dalla
nera nave!» Più chiaro di così! Eppure
Protesilao c'era cascato lo stesso: ma con chi prendersela? Con Elena che
aveva scatenato la guerra? O con Paride che l'aveva rapita? O con Menelao che
aveva voluto vendicarsi? O con l'Ananke (il Destino) che regolava le azioni
dei mortali? Luciano di Samosata, nei suoi Dialoghi dei morti, affronta il
problema e s'immagina un Protesilao furibondo che gira in lungo e in largo
l'Oltretomba alla ricerca di Elena:
«O Protesilao,» lo bloccò Eaco «ho sentito dire che vuoi strozzare Elena. Ma
perché detesti tanto la bella figlia di Tindaro?» «Perché è sua la colpa se
oggi son qui, in questo triste mondo di morti» rispose l'eroe. «Fu per
difendere il suo onore che lasciai incompiuta una casa, e vedova una giovane
e ardente sposa.» «Ma allora» obiettò giustamente Eaco «prenditela con
Menelao! Fu lui a trascinare noi Achei a Troia, e solo per riprendersi una
donna, una soltanto.» «Dici il giusto, o Eaco,» esclamò Protesilao, dopo
averci riflettuto, «è lui il vero colpevole» «Io, colpevole?» protestò
Menelao. «No di certo Epiù giusto, invece, che tu ritorca le tue ire su Paride,
giacché fu lui, contro ogni legge morale, a rapirmi la moglie il giorno
stesso in cui lo accolsi come ospite. E lui quindi, e non Elena, che
meriterebbe di essere strangolato, e non solo da te, o Protesilao, ma da
tutti i Greci e i barbari che perirono per colpa sua!» «Sì, penso proprio che
tu abbia ragione./» ammise Protesilao, e subito si volse verso Paride: «A noi
due, ora, o violatore di letti altrui: di certo adesso non mi potrai
sfuggire».
«Sei ingiusto, o Protesilao, a prendertela con me» gli rispose pacatamente
Paride. «Io, se ci pensi bene, sono uno che ti somiglia: sono un innamorato!
Il mio delitto è stato quello d'innamorarmi di una donna, così come, a suo
tempo, tu ti sei innamorato di Laodamia. La colpa allora, a ben guardare, non
è mia ma dell'Amore, che come ben sai è un sentimento involontario, perché
generato da un Dio che ci trascina dove lui ha già deciso!» «Ah, se potessi
avere Amore fra le mani: di certo lo strozzerei» urlò Protesilao.
«No che non lo strozzeresti, e ti spiego subito il perché,» lo contraddì
Eaco «perché lui non avrebbe difficoltà ad ammettere di essere stato la causa
del tuo innamoramento. Rifiuterebbe, però, sdegnato la responsabilità della
tua morte. Non dimenticarti, infatti, o Protesilao, che fosti tu a lanciarti
come un pazzo, primo fra tutti, sulle opposte schiere;
eppure eri consapevole d'aver lasciato in patria una giovane donna! La verità
è che in quel momento ti attraeva più la gloria che la sposa lontana.» «Io il
primo a lanciarmi? Giammai!» protestò Protesilao. «Fu il Fato a stabilire
chefossi il primo a toccare l'ilio suolo: cos'altro avrei potuto fare, se non
ubbidire?» «E allora perché te la prendi con questi poveretti?
Cerca il Fato piuttosto, e strozzalo.»
L'ingiustizia patita spinse sia Laodamia che Protesilao a protestare con gli
Dei. Lei si gettò ai piedi di una statua di Persefone e le disse:
«O Dea dell'estrema casa, tu che ben sai quanto dolore rechi la lontananza
della persona amata, al punto tale che tuttora dividi il tempo tuo tra il
marito affettuoso e la piangente madre, fa' che io possa rivedere ancora una
volta il mio amato bene.
Una sola volta egli mi ebbe, e una volta sola ancora oggi ti chiedo.» Lui,
invece, trovandosi negli Inferi, volle contattare di persona Ade e Persefone.
Ed è sempre Luciano di Samosata che ci riporta, pari pari, il dialogo.
«O re, o nostro Zeus,» iniziò a dire Protesilao «e tu, o figlia di Demetra,
non sdegnate la mia preghiera d'amore.» «Cosa vorresti da noi?» gli chiese
Ade. «E chi sei?» «Sono Protesilao, figlio di Ificlo filacio, il guerriero
acheo che morì per primo sulle spiagge di Troia.
Vi chiedo di lasciarmi tornare in vita per pochissimo tempo.» «Tutti quelli
che vengono qui esprimono questo desiderio, o Protesilao, ma nessuno di essi
lo soddisfa.» «Io non sto chiedendo di vivere ancora, o signore degli Inferi,
ma di rivedere ancora una volta, una volta sola, la mia giovane sposa. La
lasciai nel talamo, fresca fresca, per imbarcarmi sulla nera nave in partenza
per Troia. Qui giunto, ero appena sbarcato che fui trafitto da Ettore, il
figlio di Priamo. Oh me misero! Ancora oggi mi struggo d'amore e vorrei
rivederla, anche solo per un attimo, per poi tornarmene quaggiù rassegnato.»
«Come fai a ricordarti di lei?» Gli chiese Ade,
incuriosito. «Non hai forse bevuto l'acqua del Lete?» «Sì, l'ho bevuta, e
molta, ma la mia passione ha prevalso sul suo potere!» «Resta pur qui, o
Protesilao. Prima o poi anche la tua bella sposa scenderà in questi luoghi, e
in quell'occasione la potrai rivedere.» «L'attesa però, o Ade, sarebbe
insopportabile: se tu sei stato anche una sola volta innamorato, saprai bene
cosa vuol dire amare.» «Ma a cosa ti gioverebbe vivere un sol giorno accanto
a lei, perpoi tornare quaggiù con rinnovato dolore?» replicò giustamente Ade.
«La persuaderei ad accompagnarmi, e tu, invece di uno, avresti due morti.»
«Ciò non è lecito,» rispose Ade «non è mai avvenuto.» «Non è vero, non è
vero» obiettò Protesilao. «Per la medesima ragione concedesti a Orfeo di
portarsi via Euridice, e consegnasti a Ercole la mia congiunta Alcesti,
facendo loro la grazia.» «E vorresti comparire, brutto come sei, ridotto a un
teschio orribile, innanzi alla tua sposa? Di certo la poverina non ti
riconoscerebbe: si prenderebbe solo un grande spavento e scapperebbe via
lontano.
E tu avresti fatto tutta quella strada per niente.» «Se è per questo, marito
mio, il rimedio esiste» lo interruppe Persefone. «Da' ordine a Ermes di
toccarlo con la verga non appena raggiungerà la luce, e Protesilao tornerà a
essere bello e giovane come quandO entrò la prima volta nel talamo.» «Beh, se
è d'accordo anche Persefone, che costui sia riportato di sopra e rifatto
novello sposo. Ricordati, però, o Protesilao, che ti viene concesso solo un
giorno!»
Anzi, solo tre ore, a sentire i
mitologi. E così accadde che una notte, mentre Laodamia era a letto, insonne,
e ricordava lo sposo perduto, ecco apparire Protesilao.
L'eroe indossava ancora le armi con le quali era morto, e un filo di sangue
gli colava dalla gola.
«Tu qui, mio sposo!>, esclamò Laodamia.
«Sì, o Laodamia, e ardo all'idea di riaverti tra le assetate braccia. Ma
bando ai convenevoli: solo tre ore ci concessero gli Dei, e or non vorrei che
le tue frasi d'amore, seppur gradite, rubassero il tempo alle carezze audaci»
Protesilao, insomma, era impaziente: si accorse che il tempo volava e avrebbe
voluto impiegare tutte le tre ore che gli erano state concesse in un intenso
rapporto d'amore. Ma Laodamia, inaspettatamente, lo rifiutò. Tre ore non le
sembrarono una gran cosa, specialmente se messe al confronto con l'immensità
dei suoi desideri, e allora chiese allo sposo la cortesia di restare
immobile, nell'atteggiamento di chi sta abbracciando una donna, in modo da
poterlo ritrarre in una statua di cera.
«Quest'immagine, credimi,» gli disse Laodamia «è più di quanto non sembri:
potrò dirle ogni giorno tutte le tenerezze che voglio, le dolci parole d'amore
che in genere si dicono gli amanti, e potrò abbracciarla per farmi
abbracciare da lei. Me la stringerò al petto, proprio come se fosse un vero
marito, e gemerò con essa, fingendo che mi possa rispondere.»
Da quel giorno Laodamia prese
l'abitudine di vivere tra le braccia della statua: ci s'infilava dentro, e la
copriva di baci. Il padre, non vedendola più in giro per casa, la fece spiare
da un servo, e quando questi ritornò dicendo: «Sire, tua figlia vive giorno e
notte abbracciata a uno sconosciuto», dette ordine perché sfondassero la
porta della stanza da letto e gli portassero, mani e piedi legati, l'amante
misterioso.
Una volta scoperta la pietosa finzione, Acasto, ritenendo la figlia uscita di
senno, fece gettare la statua di Protesilao nell'olio bollente; ma Laodamia,
non appena vide il viso del suo amato sciogliersi nel calderone, vi si gettò
anche lei.
Racconta Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, che Protesilao fu
sepolto in Tracia, nel Chersoneso, e che accanto alla tomba nacquero alcuni
olmi maestosi i cui rami erano sempre fioriti, d'estate e d'inverno, a
eccezione di quelli più alti che guardavano Troia, e che non fiorirono mai.
#
L'asino d'oro.
La favola di Amore e Psiche ci viene raccontata da
Apuleio, uno scrittore africano del II secolo dopo Cristo, mezzo erudito e
mezzo mago, nel suo capolavoro, Le metamorfosi (più noto forse come L'asino
d'oro), un romanzo di avventure la cui lettura non mi stancherò mai di
consigliare agli appassionati del genere fantasy.
Per coloro che non ne sapessero nulla, proverò a raccontarlo per sommi capi.
Il protagonista del romanzo si chiama Lucio; è un giovanotto di buona
famiglia in cerca di emozioni. Sperando di trovarle in Tessaglia, una terra di
maghi e fattucchiere, arriva a Ipata, il capoluogo della regione. Ed ecco le
sue prime impressioni:
«In questa città tutto mi sembra assurdo, irreale, come se un infausto
incantesimo si fosse impadronito di ogni cosa: i sassi in cui inciampo
sembrano esseri pietrificati, gli uccelli che sento cantare uomini
piumificati, gli alberi che circondano le mura individui a loro volta
trasformati in uomini fronduti, e perfinO le acque danno l'impressione di
essere sgorgate da creature umane. Mi guardo intorno, stupito, e mi aspetto
che da un momento all'altro anche le statue si mettano a camminare, o le
figure degli affreschi a parlare, o gli animali a profetare.»
Lucio finisce con l'essere ospitato da un certo
Milone, un vecchio usuraio, sposato e senza figli.
Unica persona allegra della famiglia, una servetta, l'appetitosa Fotide. Il
giovane ha appena saputo dai vicini che la moglie dell'usuraio, la misteriosa
Panfile, è una strega.
«Evoca i morti, muta il corso degli astri, piega alle sue voglie gli Dei e
rende docili gli elementi della natura. Un giorno l'abbiamo udita minacciare
perfino il sole! E già, perché aveva ritardato troppo il tramonto,
impedendole d'iniziare i suoi incantesimi.» Lucio si
ripromette di mantenere le distanze dalla padrona di casa e di rifarsi con la
serva che dal canto suo si rivela molto disponibile. E un giorno che non
c'era nessuno in casa, ecco che se la ritrova innanzi, accanto ai fornelli,
più bella e provocante che mai.
«Indossava una candida tunichetta di lino, fermata in alto da una cintura
rosso vivo, e mentre, con le sue manine, faceva saltare il tegame, tutto il
corpo le vibrava nel medesimo tempo. Restai stupefatto da questa visione e mi
s'irrigidì anche un arnese che fino a quel momento era rimasto in riposo.
Sta lontano dal miofornellino, ragazzo, mi disse la ragazza "se non ti vuoi
far male! Sappi che se appena me lo tocchi ti sentirai
bruciare fin dentro le ossa, e a quel punto solo io, e nessun altro, potrà
venirti in aiuto!" Ma io non resistetti alla tortura della provocazione e la
baciai ardentemente sul collo, giusto all'attaccatura dei capelli. Poi
l'abbracciai con tutta la foga dei miei giovani anni e lei mi corrispose con
uguale ardore, e gareggiò a lungo con me in ogni possibile libidine, cercando
con la sua lingua profumata di nettare di incontrare golosamente la mia.
Una volta amoreggiato con la servetta, Lucio, curioso
com'era, cominciò a farle delle domande sulla padrona: «Ma è vero che è una
strega? E che cosa fa di tanto strano? E a che ora compie i suoi
incantesimi?».
«E così una notte mi condusse lei stessa, in punta di piedi, senza rumore, in
una stanzetta all'ultimo piano in cima alla casa, e mi fece spiare attraverso
la fessura di una porta.
Vidi Panfile togliersi di dosso tutti i vestiti, quindi aprire uno scrigno
che conteneva tanti vasetti. Ne prese uno, gli tolse il tappo e ne estrasse
un unguento che poi si spalmò con cura per tutto il corpo, dalle unghie dei
piedi fino alla cima dei capelli. Le sue membra allora cominciarono a
vibrare, le sue braccia a ondeggiare lentamente nell'aria, ed ecco spuntarle
addosso morbide piume, e poi ancora piume più robuste, e vidi il suo naso
indurirsi, e poi mutarsi in becco, e le sue unghie diventare artigli. Panfile
si era trasformata in gufo: emise un acuto stridio e prese il volo fuori
della finestra.» Lucio si stropicciò gli occhi,
incredulo. Un attimo dopo cominciò a tormentare Fotide perché gli procurasse
l'unguento magico: anche lui voleva diventare un uccello! Ah, poter volare,
sorvolare la città, poter entrare in tutte le case e poi tornare indietro per
riprendere le antiche sembianze! Fotide acconsentì: purtroppo, però, nella
fretta finì col prendere un vasetto per un altro.
«Come l'ebbi tra le mani, prima lo baciai, poi mi liberai dei vestiti, e
infine immersi due dita, avidamente, nell'unguento, per poi spalmarmelo ben
bene per tutto il corpo, così come avevo visto fare alla strega Panfile. A
quelpunto cominciai anche ad agitare le braccia, su e giù come fanno gli
uccelli, senza però ottenere alcun risultato pratico: le penne non spuntavano
e non spuntavano nemmeno le piume; piuttosto i peli del corpo erano diventati
ispidi come setole, e la mia pelle, così delicata, cominciava a diventar dura
come il cuoio. In fondo alla schiena poi mi era spuntata un'enorme coda. Il
viso infine mi s'era allungato, le narici allargate e le orecchie diventate
smisuratamente lunghe e pelose. Insomma, non c'era nulla in quella orribile
metamorfosi di cui avrei potuto menar vanto, se non fosse stato per il mio
arnese, divenuto all'improvviso lunghissimo.» Resosi
conto di essersi trasformato in asino, il povero Lucio cominciò a piangere,
anzi a ragliare, ma Fotide riuscì presto a consolarlo.
«Non ti preoccupare, amor mio,» gli disse «domani mattina di buon'ora, ti
darò da mangiare una rosa, e vedrai che tutto tornerà come prima.
Anche la mia padrona mangia le rose quando torna dai suoi
viaggi, e ogni volta ridiventa donna. Per il momento ti sistemo nella stalla
là insieme al tuo cavallo e agli altri animali.» Sennonché, durante la notte,
un gruppo di banditi, sfondata la porta d'ingresso, forzò con una scure il
nascondiglio dove Milone teneva nascoste tutte le sue ricchezze, e nel giro
di pochi minuti i briganti riuscirono a riempire d'oro e d'argento diversi
sacchi; il carico però si rivelò ben presto cosi pesante che i malviventi si
videro costretti a rubare anche il cavallo e i due asini (Lucio compreso) che
stavano nella stalla.
Durante il tragitto dalla casa di Milone al covo dei banditi, l'asino Lucio
si beccò tante di quelle legnate, ma tante di quelle legnate, che a un certo
punto invocò la morte. A ogni buon conto, una volta giunto a destinazione,
assistè alle varie riunioni dei briganti e ai loro litigi feroci per la
divisione del bottino. Tra le tante cose che vide in quei giorni, ci fu anche
una fanciulla bellissima che era stata appena rapita a scopo d'estorsione. La
ragazza, in attesa che i suoi genitori pagassero il riscatto, piangeva
disperata, e il capo dei banditi, non sapendo più che fare per calmarla,
l'affidò a una vecchia che da sola faceva da serva a tutti quei briganti.
Costei, resa gobba dagli anni e dagli acciacchi, prese le mani della
fanciulla tra le sue dita gialle e scheletriche, e le disse: «Se mi prometti
di non piangere, bimba mia, ti racconterò una bella storia...».
La favola di Amore e Psiche
C'erano una volta un re e una regina che avevano
tre figlie molto belle. Le due più grandi, però, seppure avvenenti,
rientravano nella normalità, la terza, invece, la più piccola, era così
incredibilmente bella da non poter essere descritta con parole umane. Molti
cittadini, infatti, e molti stranieri, avendo sentito parlare della sua
eccezionale bellezza, accorrevano in gran numero soltanto per vederla, e a
vederla restavano attoniti e le lanciavano baci.
Tutta quest'ammirazione, però, dette molto fastidio a Venere,
e, a essere sinceri, non le si poteva nemmeno dar torto: la Dea della
Bellezza fino a prova contraria era lei, e pertanto qualsiasi altra
pretendente al titolo, per di più di razza mortale, cioè inferiore, andava
eliminata immediatamente.
«E maipossibile che io, l'antica madre della natura, l'origine stessa degli
elementi, sia costretta a dividere gli onori dovuti alla mia maestà con una
ragazzotta, e a veder profanato nei cieli il nome mio?
Invano allora il pastore troiano preferì me alle altre Dee! Giuro che
chiunque sia questa sciagurata, non potrà godersi a lungo le lodi che mi ha
usurpato, e farò in modo che s'abbia subito a pentire di tanta illecita
bellezza!» Detto fatto, un bel giorno convocò suo figlio
Amore e gli disse: «Senti, ragazzo mio: qui c'è una stupida che va dicendo in
giro di essere più bella di tua madre! Si chiama Psiche. Tu ora, da bravo
figliuolo, me la colpisci con una delle tue frecce inesorabili e me la fai
innamorare di un mostro orrendo; così un'altra volta impara a fare la
smorfiosa!».
Il fatto è che la povera Psiche, pur essendo da tutti
considerata bellissima, non aveva ancora trovato uno straccio di fidanzato.
Le sorelle si erano felicemente accasate con due re stranieri (un po'
anzianotti in verità, ma abbastanza ricchi) e lei niente. I genitori erano
alquanto preoccupati.
«Vuoi vedere» dicevano «che tutta questa bellezza, invece di aiutarla, ha
finito con lo spaventare i pretendenti!» E allora il padre, preoccupato per
la grande infelicità della figlia, e sospettando un qualche odio da parte
degli Dei, andò lui stesso a Mileto per interrogare l'antichissimo oracolo di
Apollo. Ed ecco quel che il Dio gli ordinò:
Conduci tua figlia, o re, in cima a un altissimo monte, e vestila d'oro e
d'argento per un luttuoso matrimonio.
Non aspettarh uno sposo cresciuto da stirpe mortale, ma un fiero mostro
viviparo che svolazza alato nei cieli.
Un mostro? A forma di serpente? E perché mai?
Immaginiamoci la reazione di Psiche.
«O povera me!» urlò piangendo. «O quanto avrei preferito essere nata brutta e
deforme, piuttosto che andare incontro a un così crudele destino!» La volontà
degli Dei però andava rispettata, e Psiche, volente o nolente, fu
accompagnata in cima a una montagna da un corteo di amici e parenti, tutti
vestiti a lutto, e lì lasciata sola in attesa del mostro.
Quand'ecco che a un tratto un leggero zefiro le mosse il vestito, le gonfiò
la gonna e la sollevò dal suolo, ma con grazia, per poi trasportarla lungo i
fianchi scoscesi della montagna e, sempre con dolcezza, depositarla a valle
sul grembo di un prato coperto di fiori. Psiche, una
volta rimessi i piedi a terra, si guardò intorno e vide di fronte a lei una
reggia tutta d'oro e d'argento. Questa, pensò, non può essere che una dimora
costruita dagli Dei: troppo belle erano le sue mura, troppo imponenti i suoi
portali, troppo alte le sue torri. E anche l'interno del palazzo era degno di
un Dio: fin dall'ingresso, ad esempio, si intravedeva un susseguirsi di
saloni, l'uno più stupefacente dell'altro, soffitti in avorio e legno di
cedro, pavimenti in marmo e pietre preziose, pareti d'oro massiccio e via
dicendo. Insomma il meglio del meglio che ci si possa immaginare in fatto di
case!
La fanciulla attraversò le diverse sale come un automa: un po' era
terrorizzata da quanto le era accaduto, e un po' si sentiva attratta da tutte
le ricchezze che la circondavano. Quand'ecco che, all'improvviso, sentì delle
voci:
«Benvenuta, o Psiche. Non ti meravigliare delle ricchezze che vedi: tutto
quello che ti sta intorno è tuo. Va' pure nella tua camera da letto e riposa.
Quando infine lo vorrai, ordinaci pure un bagno.
Noi, di cui senti solo le voci, saremo le tue fedeli ancelle e ti serviremo
con la massima dedizione.
Una volta poi che avrai terminato le cure del tuo corpo,
ti prepareremo un banchetto regale.»
Beh, superato il primo impatto con la nuova realtà, Psiche
cominciò ad abituarsi alla casa. Tutto era splendido, luccicante e in
perfetto ordine; e ovemai avesse avuto bisogno di qualcosa, che so...
un unguento... una bevanda... bastava chiederlo alle voci, che subito
ubbidivano.
Insomma, per farla breve, che cos'era successo?
Null'altro che questo: il Dio Amore, nel prendere la freccia che avrebbe
dovuto far innamorare Psiche del mostro, si era inavvertitamente ferito, e
quindi si era innamorato lui della fanciulla. A questo punto, per godersela
in santa pace, si era costruito un pied-à-terre incantato, in modo che
nessuno al mondo (e soprattutto sua madre) lo venisse a sapere.
Nel frattempo, però, Psiche si era lasciata prendere di nuovo dal panico: in
tutta la casa non aveva trovato una sola lampada, o torcia o candela, che
potesse illuminare la sua stanza. Inutilmente ne aveva chiesta una alle voci.
«Il nostro padrone» avevano risposto le voci «non ama essere visto. Perciò
arriverà solo a notte fonda ed entrerà lieve come una brezza nella tua
stanza. Tu preparagli il letto e aspettalo con fiducia!» «Non vuole che lo
veda perché è un mostro!» pensò Psiche e si mise a piangere.
Nel buio più fitto uno strano rumore le giunse alle orecchie. Ella era sola
nel suo pudore di vergine e cominciò a tremare. Ed ecco che l'invisibile sposo
entrò nel suo letto e la fece sua. Ebbene, incredibile a
dirsi, il mostro non sembrava affatto un mostro; anzi, seppure al buio, al
tatto sembrava bellissimo! La sua pelle era vellutata come una pesca, i suoi
riccioli morbidi come quelli di un bambino, e le sue labbra tenere e ardenti.
Psiche se ne innamorò subito pazzamente, e durante il giorno non vedeva l'ora
che giungesse il tramonto per poterlo di nuovo abbracciare. La sua felicità
sarebbe stata completa se solo avesse potuto tranquillizzare la famiglia che,
a quel punto, di sicuro la credeva morta.
«Ti scongiuro, o mio adorato amore,» diceva al suo invisibile sposo «se solo
ti è possibile, conduci qui, a palazzo, le mie sorelle: fa' che possano
vedere con i loro stessi occhi fino a che punto sono fortunata! Consentimi di
dividere con loro la mia felicità.» Ma Amore la mise in guardia contro questa
eventualità.
«Ricordati, o Psiche,» le disse «che la felicità non è divisibile: l'unico
modo di conservarla è quello di non farla mai conoscere a nessuno!» Ma Psiche
continuò a insistere.
«Morirei cento volte piuttosto che perdere i tuoi dolcissimi amplessi!
Chiunque tu sia, lo sai che t'amo. Ma ti prego, tesoro, concedimi quest'ultima
grazia: fa' che il tuo fedele Zefiro trasporti qui le mie sorelle, così come
fece con me il giorno in cui salii in cima alla montagna.» E per convincerlo
lo baciò di più di quanto non facesse di solito, e gli sussurrò paroline
dolci, e gli si strinse addosso con tutto il corpo, e lo
attirò a sé dicendogli: «O mio dolce sposo di miele, o tenera anima della tua
Psiche!».
A quel punto Amore, vinto da quelle dolci lusinghe, benché a malincuore
acconsentì e le promise che avrebbe ordinato a Zefiro di condurre le sorelle
al palazzo. Immaginiamoci la felicità di Psiche quando vide
arrivare le sorelle: come promesso, Amore aveva inviato Zefiro in cima alla
montagna perché le sollevasse con dolcezza e le depositasse in fondo alla
valle. Una volta al palazzo, Psiche le accompagnò in giro per le sale e
regalò loro alcuni bracciali, poi parlò in modo entusiasta del marito. Si
scusò di non poterlo presentare, poiché era dovuto uscire per lavoro; a ogni
modo, ci tenne a precisare, il suo bel maritino tornava a casa tutte le
notti, magari solo per poche ore, ma sempre più affettuoso.
All'inizio le sorelle si commossero anche loro, poi l'invidia prese il
sopravvento e cominciarono a imprecare.
«Cieca, crudele e ingiusta Fortuna come hai potuto volere che tre sorelle,
nate dagli stessi genitori, avesserO una sorte così diversa l'una dall'altra?
A noi, che pur siamo le maggiori, hai destinato due mariti stranieri che ci
trattano come schiave, mentre a lei, l'ultima della famiglia, tutte le
ricchezze e forse un Dio per marito!» Ma quel che più
preoccupava le sorelle non era tanto l'evidente felicità di Psiche, quanto la
possibilità che un domani potesse avere come figlio un Dio, se non diventare
una Dea lei stessa. Psiche, infatti, in un momento di debolezza, aveva
confidato loro che era in attesa di un bambino e che si aspettava grandi cose
dal nascituro. «Una che ha come serve delle voci,» diceva la maggiore «una
che comanda ai venti, è chiaro che punta molto in alto e che prima o poi
finirà col diventare una divinità. E io invece, infelice, che ho per marito
uno più vecchio di mio padre, pelato come una zucca, brutto e avaro al punto
da tenere tutta la roba di casa sotto chiave!» L'altra lefaceva eco: «E
allora cosa dovrei dire io che sono costretta a sopportare un marito storpio
che non è in grado nemmeno di soddisfare le mie voglie! Sono sempre lì
afargli massaggi, a sfregargli le membra deformi e a preparargli impiastri
puzzolenti: queste non sono premure di mogli ma fatiche di schiave! E lei
invece? Tesori da ogni parte che non sa nemmeno dove metterli e un marito, a
detta sua, giovane e bello! Ma ti sei resa conto con quanta superbia ci ha
trattato? E con quale arroganza? Tutto quell'esibire ricchezze per poi
regalarci due cosine da nulla! Senti quel che ti dico: non sonopiù io se non
la butto giù dal piedistallo! Innanzitutto non dobbiamo mostrare a nessuno i
regali che ci ha dato, nemmeno ai nostri genitori, e poi non dobbiamo
raccontare che è viva e felice. La felicità non esiste, se non c'è qualcuno
che la conosce./».
Ma Psiche era stata così felice della visita delle sorelle
che supplicò ancora una volta Amore perché le facesse tornare.
«Bada,» l'avvertì Amore «che loro faranno di tutto per rovinare la tua
felicità: ti porranno mille domande, ti chiederanno che
tipo sono, ti convinceranno a guardarmi in viso e a quel punto mi perderai.
Sappi, o Psiche, che non è possibile guardare in faccia l'amore: se appena
appena lo vedi, anche solo per un attimo, lui sparisce per sempre!» Tutto
inutile: Psiche insisté tanto che Amore ordinò di nuovo a Zefiro di recarsi
in cima alla rupe.
«Gettatevi giù con fiducia» disse Zefiro alle sorelle e loro prontamente
ubbidirono.
Per la seconda volta il fedele vento le portò al palazzo.
Psiche le fece subito accomodare perché si riposassero dalle fatiche del
viaggio, poi preparò loro un bel bagno caldo, e infine le rifocillò con
pietanze e intingoli prelibati. Quindi comandò alla cetra di vibrare e la
cetra vibrò, alflauto di suonare e ilflauto suonò, al coro di cantare e il
coro cantò. Ma quel soave canto non fu sufficiente a cancellare, e nemmeno ad
attenuare, l'invidia delle sorelle. Le due perfide riuscirono a portare il
discorso sul tema che volevano affrontare, e le chiesero come fosse in realtà
questo marito, da quale città venisse e da quale famiglia.
Le pressioni furono tali e tante che a un certo punto Psiche non ce la fece
più e ammise che lei, in verità, suo marito non lo aveva mai visto, giacché
lui arrivava al palazzo solo di notte e nel buio più assoluto. Non l'avesse
mai detto: le due megere si misero subito a piangere.
Si schiacciarono bene bene gli occhi per spremere qualche lacrima, dopo di
che una delle due rivolse a Psiche queste parole:
«Povera te che non sai nemmeno a quali pericoli vai incontro! Ma per fortuna
tua, ci siamo noi qui a difenderti: abbiamo saputo con sicurezza che
quell'essere immondo che viene ogni notte nel tuo letto non è un uomo, bensì
un orribile drago col collo rigonfio di veleno e con enormi fauci al posto
della bocca. Sappi inoltre che ci sono molti contadini della zona e anche
alcuni cacciatori che lo hanno visto in faccia. Ebbene costoro hanno detto
che è un essere orrendo a vedersi! E non basta: dicono anche che è solito
ingrassare le sue vittime con succose vivande per poi divorarle non appena
hanno raggiunto il giusto peso. Ricordati quello che disse l'oracolo di
Apollo: Psiche dovrà accoppiarsi con un mostro.»
Inutilmente Psiche obiettò che quanto meno al tatto il suo amore non sembrava
affatto un mostro.
«Anzi» aggiunse «a me sembra tenerissimo!» Ma a forza d'insistere, le due
megere riuscirono a convincerla, e dopo averle dato una spada e una lampada
le dissero:
«Questa notte, non appena avrà preso sonno, tu guardalo ben bene in faccia:
se è bello, come dici, allora amalo più di prima. Se è un mostro, invece,
come diciamo noi, prima che ti possa far male, staccagli la testa con questa
spada!» Purtroppo, l'unico difetto di Psiche era la curiosità. Lei era più
che sicura che il suo uomo fosse bellissimo: lo sentiva, lo intuiva...
Eppure, come resistere alla voglia di vederlo dal momento che non l'aveva mai
visto nemmeno una volta? Del resto, si disse, che faccio di male se lo vedo
per un attimino solo? E quella notte, priusque VeneriS
proelus velitatus (dopo aver combattuto le battaglie di Venere), quando sentì
che il suo respiro si era fatto più regolare, accese la lampada e lo guardò
estasiata: era molto più bello di quanto lo avesse immaginato!
Non appena il cerchio della luce rischiarò il talamo, ecco che vide la belva
più dolce di tutte le belve.
E ammirò la divina chioma, madida di ambrosia, il collo bianco come il latte
e le labbra rosse come la porpora, e le ciocche dei capelli leggiadramente
inanellate che gli ricadevano sulle spalle e al cui sfolgorante bagliore
impallidiva la fiamma stessa della lanterna. E dietro le sue spalle, fulgide
e rugiadose scintillavano due ali bianche le cui piume, seppure immobili,
avevano di tanto in tanto leggeri fremiti come se fossero attraversate da
improvvisi brividi d'amore. Vinta da tanta bellezza,
Psiche si chinò per dargli un bacio, ma, così facendo, finì per inclinare la
lampada che aveva nella mano destra, facendo cadere una goccia d'olio
bollente sulla spalla d'Amore.
O audace e sfrontata lanterna, o indegna intermediaria d'amore, tu osasti
bruciare il Dio di ogni fuoco, tu che di certo sei stata inventata da un
amante che voleva protrarre anche di notte il suo piacere!
A quel bruciore il Dio si destò: vide tradita la sua fiducia e senza proferir
parola s'innalzò in volo. Ma Psiche riuscì ugualmente ad afferrarsi a una
gamba, e così, misera cosa aggrappata al suo amore, lo seguì, sospesa nel
vuoto, finché le forze non l'abbandonarono. A quel punto Amore non la volle
abbandonare senza almeno chiarire il perché sarebbe sparito per sempre, e
volò su un cipresso vicino a lei, dall'alto del quale, commosso, le disse:
«O povera e ingenua Psiche, anch'io ho disubbidito agli ordini di mia madre
Venere che ti voleva vedere schiava di uomo meschino. Forse ho agito con
troppa leggerezza, si dà il fatto che mi son ferito da solo e che ho finito
per invaghirmi di te. Anche tu, però, hai sbagliato: hai creduto che io fossi
un mostro e volevi tagliarmi la testa, proprio quella testa dove, invece,
brillano due occhi innamorati di te!».
E volò via.
Psiche, prostrata al suolo, lo seguì finché non lo perse di vista.
Amore, pur perdonando Psiche, o quanto meno giustificandola, come
prima cosa volle vendicarsi delle sorelle di lei, e dopo aver messo in giro la
voce di voler cambiare moglie, le convocò, separatamente, in cima alla
montagna, quindi disse a ognuna di loro che avrebbe voluto sposarla e le
convinse a lasciarsi cadere nel vuoto. Questa volta, però, non ordinò a
Zefiro di sostenerle, e le due sciagurate si sfracellarono al suolo.
Psiche nel frattempo si mise a girare il mondo in lungo e in largo alla
ricerca del suo perduto amore:
andava nei templi dedicati alla Dea della Bellezza e qui chiedeva ai fedeli:
«Avete visto un ragazzo bellissimo con i riccioli d'oro e le ali d'argento?
Si chiama Amore. E il figlio di Venere... E mio marito e mi ha abbandonata...
vi prego aiutatemi!» Ma Amore non poteva sentirla: per il bruciore
cagionatogli dalla goccia d'olio bollente (e dalla
delusione) si era rinchiuso nella stanza da letto di sua madre e si rifiutava
persino di andare in giro a fare innamorare i mortali. Allora il gabbiano, il
candido uccello che vola sull'onda del mare, raggiunse Venere che stava
nuotando nel profondo Oceano e le disse:
«Tutti i mortali sparlano di te e della tua famiglia, o Divina! Dicono che
sulla terra non c'èpiù nessuno che s'innamora perché tu te ne stai in
vacanza, qui nel lontano Oceano, e tuo figlio piange a causa di una
sgualdrinella! Non c'è più voluttà nel mondo, né bellezza, né desiderio, e
tutto è diventato rozzo, brutto e trascurato! Niente matrimoni, folli amori e
dolci amicizie, ma solo un immenso dilagare d'immoralità e di squallidi
rapporti!» «E chi è mai questa sgualdrinella che se la fa con miofiglio?»
chiese Venere stupita. «Eforse una ninfa? O una Musa? O una delle Ore? O una
delle Grazie?» «In verità non la conosco bene,» rispose il gabbiano «so solo
che si chiama Psiche.» «Psiche?!» urlò allora Venere. «Ancora lei! Quella
sfrontata che voleva usurpare il mio titolo! Ah, ma questa volta non se
lapassa liscia!» Per prima cosa, Venere rinchiuse Amore in
una cella d'oro onde impedirgli di correre in aiuto di Psiche Quindi lo
accusò di malvagità e lo minacciò che se non avesse smesso, subito, di
pensare a quella lì, lei lo avrebbe sostituito con un altro figlio, magari
adottivo, al quale avrebbe consegnato anche il suo arco e le sue frecce.
Infine emise un bando per catturare la fanciulla:
«Chiunque porterà Psiche, mani e piedi legati, riceverà in premio da Venere
in persona sette dolcissimi baci di cui uno, prelibatissimo, con la lingua in
bocca.» In proposito, onde difendermi da eventuali accuse di volgarità e
peggio ancora di umorismo, eccovi l'esatta citazione latina tratta dalle
Metamorfosi di Apuleio: «Et unum, blandientis, adpulsu linguae longe
mellitum». Il bando fu affidato a Mercurio ed ebbe un
enorme successo: tutti i mortali avrebbero voluto catturarla. A riuscirci
però non fu un uomo, ma una donna, un'ancella di Venere chiamata
Consuetudine. Costei, non appena vide una fanciulla bellissima piangere a
dirotto, le chiese se per caso si chiamasse Psiche e, avutane conferma, la
trascinò per i capelli davanti alla Dea.
«Eccoti finalmente, sgualdrinella!» invèì la Dea.
«Ti sei degnata ordunque di venire a conoscere tua suocera! O sei qui solo
per vedere tuo marito che soffre a causa delle ustioni che gli hai inflitto?»
Poi ordinò alle sue ancelle, Inquietudine e Tormento, di frustarla a sangue,
e quando queste gliela restituirono pesta e piangente, scoppiò in una grande
risata.
«E inutile che cerchi di commuovermi con il tuo ventre rigonfio: sappi che
non sono affatto felice di diventare nonna, alla mia età, nelfiore degli
anni». Quindi le si avventò contro e le fece a pezzi il vestito, perpoi
strapparle i capelli e graffiarle il viso.
Ma i guai per Psiche erano appena
cominciati.
Prima di ucciderla, Venere si volle divertire a torturarla.
«Se vuoi rivedere Amore» le disse «devi affrontare quattro prove: quella dei
semi, quella della lana d'oro, quella dell'acqua sacra e quella del vaso della
bellezza. Solo superandole tutte e quattro potrai riabbracciare mio figlio,
altrimenti sarai punita con la morte!» Alla parola «morte», un brivido scosse
la povera Psiche: la speranza, però, di rivedere Amore le dette la forza
necessaria per ascoltare.
«La prima prova» «Voglio mettere alla prova la tua abilità» disse Venere. ¨.Qui
per terra c'è un mucchio di semi diversi, tutti mischiati: tu adesso me li
separi, chicco per chicco, e poi me li raggruppi in mucchi diversi secondo il
tipo di semi. Io adesso debbo andare a una festa, al mio ritorno voglio
trovare il lavoro già finito!» Il mucchio era immenso:
c'erano semi di grano, d'orzo, di papavero, e poi ceci, fave, lenticchie...
insomma c'era di tutto. Psiche, avvilita, non ci provò nemmeno a separare i
chicchi l'uno dall'altro.
Come riuscirci entro mezzanotte? Forse nemmeno un mese le sarebbe bastato!
Sennonché...
.. . una formichina, piccina piccina, ebbe pietà di lei e maledisse la
crudeltà della suocera. La bestiola corSe a perdifiato per i campi e chiamò a
raccolta migliaia e migliaia di sue compagne.
«Abbiate pietà, o veloci figlie della madre terra: la sposa del Dio Amore è
in pericolo di vita. Correte in suo aiuto!» A queste grida, tutte le figlie
del popolo a sei zampe si precipitarono, una dietro l'altra, nel luogo dove
si disperava Psiche, e in men che non si dica divisero il cumulo di semi in
tanti mucchi separati.
«la seconda prova»Quando Venere tornò dalla festa, tutta
profumata e ingioiellata (forse anche un po' ubriaca), non credette ai suoi
occhi.
«Come hai fatto, maledetta? Qualcuno deve averti aiutato. Adesso però attenta
alla seconda prova, e guai a te se non la superi!» Quindi, dopo averle
gettato un pezzo di pane raffermo, aggiunse:
«Vedi quel bosco laggiù, accanto alfiume, con i cespugli che si specchiano
nell'acqua? Ebbene, lì pascolano, incustodite, alcune splendide pecorelle dal
vello d'oro. Voglio che tu mi vada a prendere un po' della loro lana
preziosa./» Psiche stava precipitandosi verso le
pecorelle, quando una canna che cresceva lì accanto la fermò appena in tempo.
«Dove vai fanciulla?» le chiese.
«Vado a prendere un po' di lana da quelle pecorelle.»
«Pecorelle!?» esclamò la canna. «Quelle sono belve terrificanti che ti
dilanierebbero con le loro corna acuminate. Non contaminare, o Psiche, con la
tua morte infelice le mie sacre acque. Sappi che finché il sole scotterà
quelle che tu chiami pecorelle saranno sempre rabbiosamente feroci. Non
t'accorgi con quale furore si scagliano contro i cespugli?
Aspetta piuttosto che giunga la sera: solo allora, e senza alcun rischio,
potrai raccogliere, scuotendo i rami, tutta la lana che vi è rimasta
impigliata.»
Psiche ubbidì, e anche la seconda prova venne superata. Ma
Venere non si dette per vinta: non appena la vide con la lana la coprì
d'ingiurie.
«La terza prova» «Brutta sgualdrina, credi forse che io non sappia chi ti ha
aiutato? Ma adesso voglio mettere alla prova proprio il tuo coraggio: vedi
quel monte altissimo con le pareti a picco? Ebbene, in cima a quel monte c'è
una tetra sorgente dalla quale sgorgano le acque che poi andranno a ingrossare
la palude stigia e il fiume Cocito. Arrampicati subito su quella vetta, lì
dove sgorga la fonte sacra, e riempi quest'ampolla di vetro con la sua gelida
acqua!» Psiche partì di corsa con la certezza che su
quelle pareti avrebbe chiuso la sua triste vita: troppo alta e troppo a picco
era la rupe per poterla conquistare con le nude mani. Perfino le acque che
scendevano giù dalle balze (e che sapevano parlare) le consigliàrono di non
cimentarsi in un'impresa così disperata. Fermati, o Psiche, che fai? Non
t'azzardare ad arrampicarti lassù! Vuoi forse morire?!» Ma proprio mentre
stava per iniziare la scalata ecco che un'aquila reale scese giù dal cielo e
le strappò di mano l'ampolla di cristallo, per poi riportargliela, cinque
minuti dopo, colma di acqua sacra.
«La quarta prova» Felice, con la sua ampollina, Psiche tornò da Venere. Ma
nemmeno la vista dell'acqua sacra riuscì a placare l'animo esacerbato della
Dea.
«Ormai mi sono convinta che tu sei una potente maga, o Psiche. Ma vediamo,
bambolina mia [mea pupulal, se riesci a portare a termine anche la quarta
prova. Prendi questo vaso e recati negli inferi, quindi consegnalo a
Proserpina e dille, da parte mia, queste parole: "Venere ti chiede di mettere
in questo vaso un po' della tua bellezza, giacché quella che lei aveva l'ha
dovuta consumare tutta per assistere il figlio suo malato". E bada a non fare
tardi perché devo truccarmi per andare a teatro.» Scendere
negli Inferi?! Questa sì che era un'impresa disperata! E anche volendo, si
disse Psiche come faccio a trovare la strada degl'Inferi? Altra idea non gli
venne se non quella di suicidarsi. E stava quasi per buttarsi giù di sotto da
una rupe, quando una torre improvvisamente le comincia a parlare.
Perché vuoi ucciderti, o Psiche, gettandoti nel vuoto?
Arriveresti sì nel profondo Tartaro, ma non potresti più farne ritorno.
Ascoltami invece: non lontano da qui c'è Lacedemone, la bella città
dell'Acaia. Tu cerca il Tanaro e da quelle parti scoprirai un cunicolo che ti
porterà dritta dritta nella reggia dell'Orco- Ma non andare in quelle tenebre
a mani vuote! Porta con te due focacce mielate e mettiti in bocca due
monetine. Poi incontrerai un asinaio zoppo con un asino zoppo che ti chiederà
aiuto: tu tira dritto e non tifermare. Quindi arriverai allo Stige, il fiume
dei morti, e vedrai un vecchio sporco e avaro, chiamato Caronte, che non
appena ti vedrà salire sulla sua barca ti chiederà il prezzo del traghetto. A
quell'orrendo barcaiolo tu darai una delle due monetine. Quando sarai giusto
a metà dello Stige, dalle acque limacciose affiorerà un vecchio che ti tenderà
la sua putrida mano e ti chiederà di farlo salire sulla barca, ma tu non
dargli retta. Poi incontrerai Cerbero, il cane a tre teste, e a lui getterai
una delle duefocacce (l'altra, mi raccomando, conservala per il ritorno).
Poi...» Poi, poi, poi... queste storie, lo si sa, non
finivano mai, anche perché erano inventate apposta per addormentare i
bambini. E così anche nella favola d'Amore e Psiche c'erano mille ostacoli da
superare. La nostra eroina, comunque, riuscì a fare tutto per bene: si fece
consegnare il vaso con la pomata della bellezza, debitamente chiuso, e fece
ritorno sulla terra.
Ormai più nulla si frapponeva al ricongiungimento con Amore. La stessa Venere
le aveva detto: «Solo dopo che avrai superato le quattro prove ti farò
rivedere mio figlio». E lei le prove le aveva superate tutte, dalla prima
all'ultima! Purtroppo però, le fatiche a cui si era sottoposta l'avevano
molto sciupata: le sue vesti erano stracciate, il suo volto devastato dai
graffi, i suoi capelli tutti sporchi per aver dovuto attraversare i fumi
dello Stige. Sarebbe bastata un pochino della pomata di Pro serpina, quella
chiusa nel vasetto, per farla tornare più bella di prima. La torre però le
aveva detto«Non aprire mai, o Psiche, per nessuna ragione quel vaso se non
vuoi morire!» Il vaso di Proserpina, infatti, conteneva un gas venefico che
prima faceva addormentare le persone che l'aspiravano, e poi le portava
gradualmente alla morte. Venere contava proprio sul veleno per eliminare
Psiche.
«Una donna,» aveva pensato la Dea «per quanto bella, non resisterà mai alla
tentazione di esserlo ancora di più, soprattutto se ad attenderla c'è il suo
grande amore!» E difatti Psiche, non appena restò sola, aprì il vaso
infernale per poter rubare un pochino di pomata...
Ma nel vaso non c'era nulla, nessuna bellezza, solo un Sonnoprofondo, davvero
degno dello Stige, che s'impadronì subito di Psiche, le si diffuse in tutte
le membra e la fece stramazzare alsuolo. Ancora un attimo e sarebbe morta...
quando dal cielo, veloce come il baleno, giunse Amore. Il giovane alato era
riuscito a fuggire dalla cella dove l'aveva imprigionato sua madre.
Amore come prima cosa rinchiuse il Sonno nel vaso, quindi
punse Psiche con una delle sue frecce affinché riaprisse gli occhi. Infine se
la portò in cielo da Zeus, il padre degli Dei, che dette da bere
alla fanciulla un bicchiere colmo di ambrosia e le disse:
«Bevi Psiche e diventa immortale! Amore non si potrà mai più sciogliere da te
e sarete per sempre marito e moglie!» Ebbero una figlia a
cui dettero nome Voluttà e, ovviamente, vissero felici e contenti.
La vecchia serva aveva appena terminato la fiaba, quando si rifecero vivi i
banditi. Erano reduci da una lucrosa rapina: alcuni di loro si lamentavano a
gran voce perché erano feriti, altri invece maledivano Giove, la montagna, la
pioggia e gli aspri sentieri. A parte ciò, avevano bisogno subito di bestie
da soma per trasportare il bottino, e quindi anche del nostro asino, che in
casi del genere ci andava sempre di mezzo.
La vita di Lucio continuò più o meno così, finché una sera, dopo la solita
razione di bastonate e un faticoso andirivieni con un carico pesantissimo,
finì con l'azzopparsi. A quel punto i banditi decisero di ammazzarlo.
«Per quanto tempo ancora dovremo dar da mangiare a questo asino zoppo e
maledetto?» chiese uno dei banditi, e un altro rincarò la dose: «E lui che ci
porta scalogna! Facciamogli fare questo ultimo trasporto e poi buttiamolo in
un burrone: sarà un ottimo pasto per gli avvoltoi!».
Lucio, però, pur essendo un asino, li udì distintamente, e si rese conto che
altro non gli restava che fuggire il più lontano possibile. Non appena vide i
briganti allontanarsi dal covo, dette uno strattone alla corda che lo teneva
legato alla greppia e con un calcio buttò giù la porta. La serva cercò di
sbarrargli il passo, ma la fanciulla, approfittando anche lei del trambusto
che si era venuto a creare, la gettò per terra, rincorse l'asino e gli montò
in groppa.
«E io,» racconta Lucio «felice di essere riuscito a fuggire, correvo più
veloce di un cavallo di razza. A volte poi, con la scusa di dovermi leccare
la pancia, piegavo indietro la testa e le baciavo ipiedini, nonostante le
botte che lei mi dava senza risparmio. Nel frattempo la sentivo sospirare: "O
Dei dell'Olimpo, soccorretemi! E tu, mio salvatore, se riuscirai a portarmi a
casa, sana e salva, e a restituirmi ai miei genitori, ti coprirò di onori e
ti farò mangiare solo cibi prelibati! Quindi pettinerò questa tua bella
criniera e ti adornerò con i miei gioielli difanciulla!".»
Purtroppo i banditi li riacciuffarono dopo poche ore, e per l'asino furono
botte da non credere. La sorte, però, non lo aveva abbandonato del tutto: il
fidanzato della fanciulla, fingendo di essere anche lui un brigante, entrò in
confidenza con i sequestratori e nel corso di una cena tra colleghi offrì
loro un vino al quale aveva aggiunto un potente sonnifero.
I banditi si addormentarono quasi di colpo, e all'alba si svegliarono tutti
in catene, per essere poi giustiziati da un boia, come d'altra parte avevano
largamente meritato.
Da quel momento in poi per Lucio cominciò una vita quanto mai travagliata
(ancora di più di quella che aveva finora vissuto). Cambiò, infatti, molti
padroni: finì nelle mani di alcuni imbroglioni che si
spacciavano per sacerdoti della Dea Siria, poi fu venduto a un mugnaio,
quindi a un ortolano, poi a un soldato e infine a due pasticceri. Tutti,
nessuno escluso, lo presero a legnate.
Mentre stava con i pasticceri, però, accadde un fatto curioso che impresse
una svolta radicale nella sua vita di asino: lasciato solo nel retrobottega,
invece di mangiarsi il fieno nella greppia, cominciò a rimpinzarsi di dolci e
di focacce. Notando le sparizioni, i due pasticceri, in un primo momento, si
accusarono l'un l'altro; poi, scoperto il vero autore dei furti, cominciarono
a raccontarlo in giro, e in men che non si dica, Lucio divenne un vero e
proprio fenomeno da baraccone. I suoi padroni lo avevano ammaestrato a
puntino (cosa, peraltro, abbastanza facile, dal momento che l'asino era pur
sempre un uomo) e così, attraverso opportuni segnali, riuscirono a farlo
assentire, negare, rispondere a cenni, ballare, sdraiarsi per terra e perfino
sedersi su un triclinio per mangiare come un comune mortale. Una volta
addestrato, lo vendettero a un ricco impresario che, tra le tante sue
attività, organizzava spettacoli popolari con gladiatori, belve e curiosità
di ogni genere.
A parte il successo come attore, Lucio fece innamorare di sé una nobildonna
che, dietro lauto compenso, volle trascorrere una notte d'amore con lui.
Sentiamo il racconto di quell'esperienza dalla stessa voce dell'asino:
«Quella sera, dopo aver cenato a tavola con il mio nuovo padrone, trovai
nella stanza da letto una bella signora che mi aspettava: la novella Pasifae
smaniava all'idea di avere un rapporto d'amore con me!
Quattro eunuchi ci prepararono il talamo: coprirono il pavimento con cuscini
di morbide piume, sui quali stesero una coperta di porpora di Tiro tutta
intessuta di fili d'oro, e sopra la coperta gettarono alcuni cuscini
profumati. Fatto ciò, tolsero il disturbo.
Rimasti soli, la signora si mise completamente nuda, togliendosi anche la
fascia di seta che le sosteneva il seno bellissimo. Quindi aprì un barattolo
di stagno e ne estrasse un unguento profumato con il quale prima spalmò se
stessa, da capo a piedi, e subito dopo me, e nelfarlo indugiò a lungo sul mio
naso. Infine mi baciò appassionatamente. I suoi baci, però, non somigliavano
affatto a quelli che in genere le puttane danno ai loro clienti nei bordelli,
bensi erano dei veri e propri baci d'amore, intervallati da frasi dolcissime
del tipo "Ti amo", "Ti desidero", "Ti voglio bene", "Senza di te non potrei
vivere!", eccetera eccetera.» Il povero Lucio, da una
parte era lusingato da tutte queste attenzioni, dall'altra però era molto
preoccupato per il rapporto che lui, asino, avrebbe dovuto avere da lì a poco
con la gentildonna.
«Ahimè, pensai, tra poco farò scempio della signora e il marito, per punirmi,
mi darà in pasto alle belve feroci. Con queste mie zampe ingombranti,
infatti, come avrei potuto montare una signora tanto delicata? E con quegli
zoccoli duri come avrei potuto accarezzarne le tenere membra, bianche come il
latte e dolci come il miele? Ma, soprattutto, comepoteva una donna, per
quanto posseduta dalla smania di avermi, tam vastum genitale suspicere?
Ebbene, non ci crederete: ma al grido di "Ti tengo, ti tengo, piccioncino
mio!" mi mostrò subito quantO fossero infondate le mie
preoccupazioni et prorsus totum recepit.» Il nuovo padrone
non solo non si oppose agli strani aCcoppiamenti di Lucio, ma pensò bene di
trarne un vantaggio economico e organizzò una specie di spettacolo porno a
beneficio delle masse.
Non riuscendo, però, a convincere nessuna femmina del luogo ad accoppiarsi
con l'asino (né tantomeno la nobildonna a esibirsi in pubblico), si fece
assegnare dalle autorità carcerarie una detenuta, un'assassina per la
precisione, già condannata a morte. La disgraziata, in effetti, non peggiorava
molto la sua situazione, dal momento che, asino o non asino, sarebbe stata
data, comunque, in pasto alle belve.
«Ma io, a parte la vergogna di dovermi accoppiare davanti a tutti (seppure
nelle sembianze di un asino), e a parte la ripugnanza che provavo per quella
donna malvagia e criminale, ero anche torturato dalla paura che le belve,
alle quali l'assassina era destinata subito dopo l'accoppiamento, avrebbero
finito con lo sbranare anche me che invece ero del tutto innocente. Tutto
preso da questi timori, non appena mi accorsi che il guardiano si era un po'
distratto, perché troppo impegnato a sistemare il nostro giaciglio d'amore,
infilai di corsa la porta più vicina e mi misi a correre a perdifiato finché
non giunsi a Cencrea, una nobilissima città bagnata dal mare Egeo. Una volta
in salvo, evitai di proposito il centro abitato e mi diressi verso la
spiaggia, dove, dopo essermi sdraiato sulle morbide dune, scivolai in un
piacevole sonno.» Il sogno fu quanto mai risolutore. Lucio
vide emergere dal mare una figura splendida di donna con i capelli morbidi e
ondulati che le scendevano in disordine lungo le spalle: era Iside in
persona, la Dea venerata da tutti gli Egizi. Un disco piatto, simile alla
luna, lucido come uno specchio, l'adornava nel bel mezzo della fronte.
Indossava un vestito di lino sottile dai colori cangianti, ora bianco
ghiaccio, ora giallo croco, ora rosso fiamma. Ma quello che più stupiva era
il suo manto nerissimo sul quale si vedevano luccicare decine e decine di
stelle.
«Eccomi a te, o Lucio.» disse la Madre di tutte le cose. «Io sono venuta qui
perché mi hai commosso con le tue mille sventure! E ora eccomi a te, benigna
e favorevole, nella mia qualità di signora degli elementi. Smetti pure di
lamentarti, o figlio, e caccia via per sempre il dolore, giacché oggi, per
opera mia, è già sorto il sole della tua liberazione. Adesso, però, segui
attentamente le mie istruzioni. Domani, a Cencrea, è il giorno del mio culto:
innumerevoli processioni attraverseranno la città da un capo all'altro.
Durante la cerimonia il sacerdote, per mio suggerimento, porterà con sé una
corona di rose. Tu avvicinalo senza timore, come se volessi baciargli una
mano, e mangia un paio di quelle rose. Vedrai che immediatamente ti si
staccherà da dosso la ruvida pelle dell'asino e tornerai a essere quello di
prima: un giovane alto, bello e di grandi speranze.
Ricordati, però, che da quel momento sarai costretto a consacrarti a me fino
alla fine dei tuoi giorni.» Lucio seguì a puntino tutte le
istruzioni, recuperò le fattezze umane e divenne un sacerdote d'Iside.
#
La sfortuna di essere belli
Essere troppo belli, a volte, può risultare altrettanto nefasto che essere
brutti. Basta pensare a Marilyn Monroe per rendersene conto. Volendo restare,
però, nell'orticello mitologico, racconterò le tristi vicende di alcuni
giovani famosi per la loro bellezza.
Il mito di Adone
Adone nacque dal rapporto incestuoso di sua madre Mirra con il nonno cinira.
La vicenda è una di quelle storie scabrose che in genere vengono sussurrate
in famiglia quando i bambini sono già andati a letto, e che misero in
difficoltà lo stesso Ovidio, nelle Metamorfosi.
«La mia poesia narrerà cose terribili» avverte il poeta. «Allontanatevi
quindi, o figlie, e anche voi, padri, restate ilpiù lontano chepotete dai
miei versi:
nel caso poi che la storia vi seducesse, allora sospendete la stima che avete
nei miei confronti, e rifiutatevi di credere anche a una sola parola di ciò
che ho scritto, e se infine la riterrete vera, accettatene almeno il castigo.»
Dopo questa abile premessa, destinata unicamente a evitare gli strali dei
censori, Ovidio comincia a raccontare la storia di Mirra, una fanciulla che
s'innamorò di suo padre cinira. A detta del poeta, la giovane era
perfettamente consapevole della sua colpa.
«Ahimè, dove mi trascina il pensiero? Cosa sto facendo?» esclama la poverina.
«Vi supplico, o Numi: opponetevi alla mia perversione, sempre che
diperversionesitratti. Eppure, apensarcibene, tutti gli esseri viventi si
accoppiano senza problemi, né si ritiene immonda una giovenca solo perché
offre il proprio dorso a chi l'ha generata, né la figlia del cavallo che
soggiace alpadre, né il capro che si congiunge alle femmine che ha procreato.
O come vorrei fuggire lontano dalla patria per impedirmi di commettere una
tale empietà!» Poi aggiunge:
«O donna impudica: non t'accorgi che con i tuoi desideri stai gettando
scompiglio perfino nelle parole? Non ti rendi conto che, ovemai riuscissi nel
tuo intento, saresti chiamata la sorella di tuo figlio e la madre di tuo
fratello?» Tale era la disperazione di Mirra, che un giorno meditò il
suicidio. Aveva già il cappio al collo, quando venne sorpresa dalla nutrice.
Dopo averla a lungo interrogata, la vecchia riUscì a estorcerle una
confessione, e a quel punto, pur di dissuaderla dai suoi propositi, le
promise un incontro d'amore col tánto agognato padre.
Ora, siccome durante i festeggiamenti in onore di Cerere, la madre della
ragazza, tale Cencreide, aveva fatto un voto di castità che le impediva di
andare a letto col marito, la nutrice propose all'anziano genitore cinira di
accoppiarsi con una giovane vergine. Unica condizione posta dalla giovane:
quella di non farsi mai vedere.
«Quanti anni ha questa vergine?» chiese Cinira.
«Gli stessi di tua figlia Mirra» rispose la nutrice. Tutto andò secondo i
desideri di Mirra: i due, padre e figlia, si accoppiarono per nove notti di
seguito con reciproca soddisfazione.
Accoglie il genitore nell'immondo letto la sua stessa carne, e chissà che nel
trasporto amoroso, a causa della differenza d'età, lui non le abbia detto a un
certo punto «figlia» e che lei non gli abbia risposto, non volendo, «padre»,
affinché alla scelleratezza dell'unione non facessero difetto i veri nomi. Dal
talamo incestuoso Mirra uscirà fecondata e per nove mesi porterà nell'utero
maledetto la grave colpa.
Una notte, però, cinira, spinto dalla curiosità, prese un lume e guardò in
viso la giovane amante.
Quando s'accorse che si trattava di sua figlia, fuori di sé dalla rabbia,
sguainò la spada e prese a inseguirla per tutta la casa e per i boschi
vicini, e stava quasi per raggiungerla, quando la poverina chiese aiuto agli
Dei.
«O Numi, porgete ascolto a chi vi supplica: io so di essere in colpa, né mi
sottraggo al duro castigo;
ma affinché non contamini i vivi, vivendo, e non offenda i morti, morendo,
cacciatemi, vi prego, da entrambi i regni e fate di me un'altra cosa, una cosa
che non sia né viva, né morta!» Gli Dei si commossero e la trasformarono in
un albero. Malgrado la metamorfosi, però, i fendenti del padre continuarono a
colpirla e da ogni ferita venne fuori una resina profumata, che per l'appunto
fu chiamata «mirra».
Al nono mese la corteccia si aprì del tutto e dette alla luce un bambino:
Adone.
Afrodite, incantata dal bel sembiante del neonato, di nascosto degli Dei, lo
chiuse in una cassa e lo consegnò a Persefone, la quale, appena l'ebbe
veduto, decise in cuor suo che non l'avrebbe più restituito.
Passarono gli anni e Adone diventò uno splendido giovane.
Di lui, in pratica, s'innamorano tutte le donne:
Segretamente scorre il tempo alato: nulla v'è di più rapido degli anni. Colui
che èfiglio di sua sorella e di suo nonno, colui chefino a pochi anniprima
era ancora in grembo a un albero, ora è diventato un bellissimo giovane, e fa
innamorare di sé perfino Afrodite.
L'idillio tra Adone e Afrodite esplose violento e scalzò dal cuore della Dea
l'altro amante, il nerboruto Ares, che ovviamente non era affatto contento di
come si erano messe le cose. La verità è che Adone era più bello, più tenero,
più affettuoso di Ares, e, a parte Afrodite, un po' tutte le donne del mondo
greco lo avevano eletto a loro favorito.
Diciotto o diciannove anni ha quel giovane: non punge il suo bacio, bionde di
lanugine sono ancora le labbra. Ma non si rallegri tanto Cipride, che anche
noi, non appena scenderà la rugiada, lo rapiremo per poi portarcelo dietro,
lì dove le onde schiumano sulle rive, e dopo esserci sciolte le chiome e
fatte cadere le vesti, giù fino ai malleoli, a seno nudo intoneremo un acuto
canto. Come detto, anche Persefone si era innamorata di Adone, e ben presto
la disputa tra le due divinità divenne così aspra che giunse all'orecchio di
Zeus.
Ora, se c'era una cosa che il Padre degli Dei non sopportava erano le beghe
fra le donne del suo entourage, e in particolare quelle per questioni di
alcova: trascinato quindi, suo malgrado, in questa contesa tipicamente
femminile, lasciò che a giudicare fossero le Muse, le quali, a loro volta,
decisero quanto segue:
«Il giovane resterà quattro mesi con Afrodite, quattro con Persefone e
quattro con chi vuole lui!» Ma Afrodite non si accontentò dei quattro mesi
che le erano stati assegnati, e quando si accorse che stavano per finire,
indossò la famosa cintura della seduzione, quella che faceva innamorare
chiunque la guardasse, e convinse Adone a passare con lei anche i quattro
mesi di sua pertinenza. Figuriamoci Persefone! Come una furia si recò da Ares
e gli raccontò l'ennesimo tradimento di Afrodite. Ares, allora, fuori di sé
dalla rabbia, si mutò in un gigantesco cinghiale e, durante una partita di
caccia, massacrò il rivale.
Racconta il poeta Bione che Afrodite si disperò a lungo per la fine del
giovane amante. Quando lo vide cadere, esanime al suolo, con le membra
squartate, si chinò su di lui e pianse tante lacrime per quante gocce di
sangue vide uscire dal suo corpo. E mentre le lacrime, cadendo a terra, si
trasformavano in rose, le gocce del sangue di Adone, contemporaneamente, si
mutarono in fragili anemoni.
Con Afrodite (si dice) piansero moltissime fanciulle. In quei giorni,
infatti, furono visti lunghi cortei di donne
vagare nei boschi, e per molti giorni, e molte notti si udirono canti funebri:
Muore il tenero Adone, o citerea:
e come faremo noi a vivere?
A lungo battetevi il petto, o fanciulle, e laceratevi le vesti.
Il mito di Titone.
Al bellissimo Titone andò anche peggio, se così si può dire. Il suo primo
errore fu quello di alzarsi troppo presto al mattino; d'altra parte faceva il
pescatore e svegliarsi di buon'ora era, per lui, un'abitudine quotidiana.
Siccome tra le Dee dell'Olimpo la più mattiniera era, ovviamente, Eos, la Dea
dell'Aurora accadde che un bel giorno (ti vedo oggi, ti vedo domani...) la
bella Eos s'innamorò di Titone.
Le Dee, all'epoca, erano non meno spregiudicate dei loro colleghi maschi;
Eos, pertanto, senza starci troppo a pensare, rapì Titone e se lo portò in
Etiopia.
A Titone la Dea partorì Memnone armato di bronzo, re degli Etiopi, e il sire
Emazione. La loro felicità sarebbe stata completa se
entrambi fossero appartenuti alla stessa razza. Purtroppo per Titone, però,
lei era un'immortale lui un povero pescatore che, seppure bellissimo, era
comunque destinato a morire. Eos, allora, pensò bene di rivolgersi in alto, e
si avviò a chiedere a Zeus, dalle nere nubi che egli diventasse immortale e
potesse vivere in eterno: e Zeus acconsentì con un cenno del capo, ed esaudì
il suo desiderio.
In verità, Zeus cercò di sconsigliarla in tutti modi:
«Pensaci bene, o figlia d'Iperione» le disse. «Sei davvero sicura che quello
che desideri sia l'immortalità di Titone? Tu lo sai che, una volta concessa
una grazia, non te ne potrò più concedere una seconda.» E lei rispose di sì,
dimenticandosi di chiedere, insieme all'immortalità, anche l'eterna
giovinezza.
L'adorabile Aurora non pensò nella sua mente di chiedere anche la giovinezza
e di tener lontana la rovinosa vecchiaia. E in verità, fino a quando egli
restò giovane, godette il suo amore presso le correnti dell'Oceano, ai
confini della terra; ma quando vide le prime ciocche bianche scendergli giù
dal capo e dal nobile mento, dal suo letto si astenne.
Insomma, la «concubina di Titone antico», come amava chiamarla Dante, non
appena lo vide invecchiare, lo mollò di brutto, e d'altra parte come darle
torto? Titone ormai, almeno come amante, non valeva più nulla. «E a che serve
vivere» si chiedeva Mimnermo «quando non si è più capaci di fare l'amore?» Mi
sia data la morte quando la gioia segreta, tenerissima, dei corpi allacciati
nel letto non sarà più alla mia portata.
Ah, come presto appassisce nell'uomo e nella donna il fiore della giovinezza!
Una nube d'angoscia, senza tregua, ottenebra l'anima, allorquando si profila
l'odiosa vecchiaia.
A quale età bisogna considerarsi vecchi? In proposito Mimnermo, poeta greco
del VII secolo a.C., non ha dubbi:
Destino di morte raggiungimi a sessant'anni, prima della malattia e prima
della buia insonnia.
In verità, sessant'anni a me sembrano pochini, perlomeno per quanto mi
riguarda. Pazienza per l'insonnia, dico io, ma ci sono tante altre gioie nella
vita, per le quali vale la pena di vivere, al cui confronto il sesso diventa
un optional: in particolar modo quando, con la terza età, la sensibilità
dell'uomo si modifica.
Titone, comunque, aveva da un bel pezzo superato il secolo allorché Eos, lo
rinchiuse, definitivamente, in una cella sotterranea, per poi passargli il
cibo attraverso un buco praticato nella porta. In effetti lei non ne
sopportava più la vista e soprattutto l'odore:
Titone, infatti, col passare degli anni, oltre a essersi accartocciato e
raggrinzito, emanava anche un terribile puzzo di cadavere... insomma era
diventato una schifezza.
Il disgraziato a questo punto avrebbe voluto morire, riposare in pace come
tutti gli altri esseri umani. Ma inutilmente aveva cercato di por fine ai
suoi giorni, o gettandosi giù da una rupe, o dandosi fuoco, o infilandosi in
una fossa piena di serpenti.
Non c'era stato nulla da fare: si era ferito, ustionato, era stato morso dai
rettili, ma non era morto.
Per forza: era immortale!
Invecchiare e non morire mai.
Questa fu la condanna che Zeus volle infliggere a Titone:
una condanna più amara della stessa morte!
Il mito di Piramo e Tisbe
Tranne Adamo, che non aveva
nessuno al quale attingere, tutti gli altri autori, chi più, chi meno, hanno
copiato da un predecessore. Magari senza volere, inconsciamente, ma hanno
copiato. Uno dei più sfacciati in tal senso è stato vvilliam Shakespeare: la
sua tragedia Romeo e Giulietta ripercorre, passo dopo passo, la triste storia
di Piramo e Tisbe, favola babilonese di due giovani innamorati, appartenenti
a due famiglie che si odiavano a morte.
Piramo, juvenum pulcherrimus, e Tisbe, praelata puellis (lui, bellissimo tra
i giovani, lei, prescelta tra le fanciulle) abitavano nello stesso edificio.
E fu proprio grazie a questa vicinanza che ebbero modo di conoscersi.
All'inizio si guardarono da una finestra all'altra del cortile, poi
s'incontrarono per le scale, infine si dettero i primi baci e si amarono
teneramente, come da copione.
Purtroppo, però, le loro famiglie si odiavano da sempre. Si trattava di odii
antichi, feroci, trasmessi di padre in figlio, consolidati nel tempo, le cui
ragioni, a quel punto, sfuggivano agli stessi interessati.
Una volta sorpresi a baciarsi, Piramo e Tisbe furono rinchiusi in due
sgabuzzini nelle cantine del palazzo. Ciò nonostante, continuarono a
sussurrarsi frasi d'amore: la parete divisoria che separava i due sgabuzzini
aveva una piccola crepa, una fessura invisibile a tutti fuorché ai due
innamorati; ma per dirla con Ovidio: quid non sentit amor?, di che cosa non
s'accorge l'amore?
O parete invidiosa, essi dicevano, perché ti opponi a coloro che si amano?
Pensa come sarebbe bello se ci offrissi una porta onde farci congiungere con
tutto il corpo, e se questo ti par troppo, cosa ti costerebbe aprirti un
pochino, quel tanto da consentirci almeno un bacio? Ma adesso non vogliamo
essere troppo ingrati: è certamente merito tuo se ci è stato concesso un
piccolo varco attraverso il quale far passare le nostre frasi d'amore.
L'amore, insomma, non si può incatenare: lo dice anche una vecchia canzone
napoletana.
E i due innamorati progettarono allora un piano per fuggire. Quando i
rispettivi carcerieri sarebbero venuti a portare loro la cena, li avrebbero
aggrediti di sorpresa e imbavagliati. Per quanto riguarda Tisbe, la nutrice
guardiana era una vecchietta mite, forse anche un po' ingenua; facilissimo,
quindi, da immobilizzare e toglierle le chiavi. Per Piramo, invece, la fuga
era ancora più semplice: si era messo d'accordo, corrompendolo, con il
custode incaricato del turno di notte.
I ragazzi si dettero appuntamento nel bosco di Nino, accanto a una fonte e a
un albero di gelso dai frutti bianchi.
Di soppiatto, al buio, esce di casa Tisbe: apre i battenti della porta di
casa con la massima cura per evitare di essere scoperta dai familiari. La
fanciulla ha il viso velato per non farsi riconoscere. Giunge alla fonte e si
pone a sedere sotto l'albero convenuto. Vede la luna che si specchia nella
fonte. Ma ecco apparire una leonessa: ha la bocca insanguinata per aver da
poco sbranato un vitello. Non appena Tisbe la scorge, con il cuore in
tumulto, si rifugia in un antro oscuro. Nel fuggire, però, si perde il
mantello.
La leonessa, nel frattempo, dopo essersi abbeverata alla fonte, e prima
ancora di rientrare nel bosco, vede il mantello di Tisbe e lo lacera con la
bocca ancora sporca di sangue. Piramo arrivò in ritardo: per scappare, aveva
dovuto attendere l'arrivo del carceriere con il quale si era messo d'accordo.
Giunse alla fonte mezz'ora dopo Tisbe; si guardò intorno, e scorse sotto
l'albero di gelso il mantello della fanciulla imbrattato di sangue. Accanto
al mantello le orme di un leone.
«Ahimè, cosa ho fatto! O sventurata: sono stato io a ucciderti amor mio! Tu
saresti stata degna di vivere una vita lunghissima, e io, invece, ti ho
costretto a venir qui di notte, da sola, in un luogo pieno di rumori
sinistri, enonhoavutonemmenol'accortezzadigiungere per primo! Ma adesso
basta: la stessa notte vedrà la fine dei due amanti!» Ciò detto raccolse il
mantello, se lo porto alle labbra, lo baciò con passione e subito dopo si
trafisse con un corto pugnale. Il sangue di Piramo raggiunse le radici del
gelso che da quel giorno mutò il colore dei suoi frutti, facendoli diventare
tutti neri.
- Ed ecco tornare Tisbe. La fanciulla ha ancora paura, nel contempo, però,
non vuole deludere il suo amante. Lo cerca disperatamente con gli occhi ed è
impaziente di raccontargli i pericoli che ha evitato.
Vede il gelso e non lo riconosce più percolpa dei frutti che hanno cambiato
colore; sta per andar via quando s'accorge che lì, steso a terra, c'è l'amor
suo.
«O Piramo, quale triste Fato ti allontanò da me? O Piramo, rispondimi! E la
tua amatissima Tisbe che ti chiama.» Ma Piramo non rispose: ebbe appena il
tempo di aprire gli occhi e di gettarle un ultimo sguardo.
Tisbe, allora, lo baciò sulle labbra, quindi gli tolse il pugnale dal petto e
se lo puntò sul seno.
«La tua mano e l'amore che nutrivi per me, o Piramo, ti hanno perduto, ma
anch'io ho una mano ferma, anch'io ho un amore capace di uccidere! E tu
albero, che adesso con le fronde copri il corpo suo straziato, e che tra poco
coprirai quelli di entrambi, conserva i segni di questa triste storia,
mantieni per sempre i tuoi frutti di color cupo, affinché siano confacenti a
pensieri di morte. E tu, padre mio, e tu, padre di lui, genitori
infelicissimi, fate in modo che almeno nell'urna i nostri corpi giacciano
insieme, l'uno accanto all'altro.» E così dicendo si trafisse con il
pugnale, ancor tiepido del sangue del suo amante sfortunato.
Anche Giulietta trovò il suo Romeo che stava esalando l'ultimo respiro, anche
lei lo baciò sulle labbra, anche lei si trafisse con uno spadino e anche lei,
inginocchiata accanto al suo uomo, mormorò struggenti frasi d'amore. Devo
però correggere quanto ho detto prima: non fu certo Shakespeare a copiare dai
babilonesi, bensì il Dio Amore a suggerire alle sue vittime le medesime
frasi, giacché, indipendentemente dal secolo in cui si vive, alla fin fine
gli innamorati si comportano sempre nello stesso modo. Possono essere ricchi
o poveri, viaggiare in tram o in aereo, parlarsi da un balcone all'altro o
col telefonino, essere immortalati da Shakespeare o dai baci Perugina, ma
prima o poi finiscono sempre col dirsi «ti amo».
#
Luciano De Crescenzo
ZEUS
I MITI DELL'AMORE
Disegni di Paola De Crescenzo e Raffaella Bacarelli
<ARNOLDO MONDADORI EDITORE
Dello stesso autore
Nella collezione I libri di Luciano De Crescenzo
Così parlò Bellavista
Raffaele
Zio Cardellino
Oi dialogoi
Storia della filosofia greca - I presocratici
Storia della filosofia greca - Da Socrate in poi
La domenica del villaggio
Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo
Elena, Elena amore mio
Nella collezione Illustrati
La Napoli di Bellavista
Nella collezione Oscar Bestsellers
Così parlò Bellavista
Storia della filosofia greca - I presocratici
Storia della filosofia greca - Da Socrate in poi
Oi dialogoi
Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo
Nella collezione Oscar Narrativa
Zio Cardellino