Numero 9 - CAMBIO - Università degli Studi di Firenze

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Numero 9 - CAMBIO - Università degli Studi di Firenze
CAMBIO
Rivista sulle trasformazioni sociali
Anno V, Numero 9/Giugno 2015
«Again there were predetermined evaluations at work.
A higher value was implicitly placed on the changeless
than on the changeable.»
Norbert Elias (1970)
[Indice/Index]
This Issue/Questo numero
5
Which Spaces of Recognition are Opening up for New Families? - a cura di Rossana Trifiletti
Introduzione alla sezione monografica
9
Il riconoscimento delle nuove forme di famiglia. Una controversa posta in gioco nella
recente politica familiare in Francia - Marie-Thérèse Letablier
13
Nel best interest dei bambini e delle madri surrogate - Brunella Casalini
29
Il fascino discreto delle famiglie omogenitoriali: dilemmi e responsabilità della ricerca
- Chiara Bertone
37
Same-Sex Families e genitorialità omosessuale. Controversie internazionali e spazi di
riconoscimento in Italia - Luca Trappolin, Angela Tiano
47
Eliasian Themes
The Formation of the “Figurational Family”: Generational Chains of ProcessSociological Thinking in Europe - Stephanie Ernst
Il mutevole equilibrio di potere tra i sessi. Uno studio di sociologia processuale: l’esempio
dell’antico Stato romano - Norbert Elias (traduzione di Vincenzo Marasco)
65
79
Essays and Researches
Lawyers in a Blocked Society. Career Expectations and Determinants of Professional
Success in the Italian Legal Labour Market - Andrea Bellini
101
Are Young Female Doctors Breaking Through the Glass Ceiling in Italy? - Elena Spina,
GiovannaVicarelli
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Contributions
Family Changes in Spain: Some Theoretical Considerations in Light of the Wellbeing of
Everyday Life - Teresa Torns
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Riflessioni sulle famiglie nella trasformazione della società italiana - Maria Luisa Bianco
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Upcoming Rights and Obligations. New Challenges for the European Citizenship Filippo Buccarelli
153
La Spagna dalla Prima alla Seconda Transizione: un’intervista a Fausto Miguelez - a cura
di Paolo Giovannini, Giulia Mascagni, Angela Perulli
165
Reviews and Profiles
Le ragioni degli altri. Mediazione e famiglia tra conflitto e dialogo di Elena Urso (a cura di) Valeria Gherardini, Riccardo Grippo
4
183
Persone finte Paradossi dell’individualismo e soggetti collettivi di Gian Primo Cella - Pietro
Causarano
189
Deconstructing Flexicurity and Developing Alternative Approaches di Maarten Keune, Amparo
Serrano (eds) - Luigi Burroni
191
Recommendations - Segnalazioni
195
Authors
197
Call for Papers
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[This Issue]
The ninth issue marks the fifth year of CAMBIO publications. As had happened with the interview to Marc
Lazar (which coincided with the tragic episodes of terrorism that devastated Paris and France in the first days of
January), this time too, albeit in completely different ways, the conversation with Fausto Miguélez, published in
the Section Contributions, has practically coincided with the important administrative elections of last May, which
have profoundly changed the political equilibrium in Spain, exercising an incisively innovative role also in the
European landscape.
The fifth interview to a European intellectual is one of the many points of interest of this issue. Among others, there
is first of all the topical theme of New Forms of Family, tackled in the monographic section, edited and introduced by
Rossana Trifiletti. Here, essays of various disciplinary leanings discuss and document the most delicate issues, from
surrogate mothers (Brunella Casalini) to same-sex parenting (Chiara Bertone) and homosexual families (Luca
Trappolin and Angela Tiano), to finally the controversial questions of recognition and of social politics directed to
new families (Marie Thérèse Letablier). Two sociologists of great scientific expertise, Maria Luisa Bianco (from
Italy) and Teresa Torns (from Spain) frame these themes in an original reading of the changes happened in their
respective countries. Lastly, the articulated spectrum of the transformation of family is completed by the twoway discussion (by Valeria Gherardini and Roberto Grippo) of a rich volume edited by Elena Urso: a prevalently
juridical formulation on the complex problems of domestic mediations.
Vincenzo Marasco renews CAMBIO’s commitment to presenting the Italian public with unpublished or littleknown works by Elias by translating the brief essay The Changing Balance of Power between the Sexes. A ProcessSociological Study:The Example of the Ancient Roman State. The essay, in the Section Eliasan Themes, is accompanied by
another by Stephanie Ernst, which bares personal witness to the formation of the “figurational family” in Europe,
reconstructing biographical notes through an interpretive frame of the sociology of science.
Confirming the interest for the transformation of work and professions, the Section Essays and researches presents
two contributions; the first, by Andrea Bellini, analyses the processes of social (im)mobility of Italian lawyers; the
second, by Elena Spina and Giovanna Vicarelli, focuses on the mutations of gender composition in the medical
class.
Finally, CAMBIO presents, in the midst of a European crisis, a very thought-through intervention by Filippo
Buccarelli on the variable meanings which are currently attributed to European membership and on what
possibilities can be identified in terms of the construction of European identity.
Although unusual, I would like however to signal, as well as the already recollected Book Review, two reviews which
(positively) digress into brief but conceptually dense interventions: one (by Luigi Burroni) on the deconstruction
of flexicurity and on alternative approaches collected in a volume by Keune and Serrano, and the other (by Pietro
Causarano) on individualism and collective subjects, starting from a recent and as always original volume by Gian
Primo Cella.
Lastly, as signalled by the Call for papers on our website, the monographic section in the next issue (V, 10,
December 2015) will be devoted to studies and pieces of research on the topic Work and differences, preferably of
anthropological and sociological denomination; the issue will privilege approaches and ethnographic methods
that are focused on the interrelations between forms, places and cultures of work, on the one hand, and social,
cultural, political and economic differences on the other.
CAMBIO will continue to host articles in Italian and English. Any proposals by scholars of other languages are
welcome; if the work is positively evaluated by our Editorial Board and referees, the authors will be asked for
a translation in one of the journal’s two “official” languages, with the possibility of also consulting the original
version online.
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[Questo Numero]
Con l’uscita del nono numero, CAMBIO entra nel suo quinto anno di vita. Anche questa volta, come era successo
con l’intervista a Marc Lazar per ragioni tutte diverse (cioè la sua coincidenza con i tragici episodi di terrorismo
che hanno sconvolto Parigi e la Francia nei primi giorni di gennaio), il denso colloquio con Fausto Miguélez che
pubblichiamo nella Sezione Interventi (Contributions) è venuto pressoché a coincidere con le importanti elezioni
amministrative del maggio scorso, che hanno mutato profondamente l’equilibrio politico in Spagna, ma hanno
anche esercitato un incisivo ruolo innovatore nello stesso panorama europeo. Questa quinta intervista ad un intellettuale europeo è certo uno dei non pochi motivi di interesse di questo
numero. Altri ne segnalo, e innanzitutto il tema di grande attualità affrontato nella parte monografica, quello delle
Nuove forme di famiglia, curata e introdotta da Rossana Trifiletti: dove in saggi di vario orientamento disciplinare si
discutono e documentano le più delicate questioni in gioco, dalle madri surrogate (Brunella Casalini) alle famiglie
omogenitoriali (Chiara Bertone) a quelle omosessuali (Luca Trappolin e Angela Tiano) fino alle controverse
questioni del riconoscimento e delle politiche sociali dirette alle nuove famiglie (Marie Thérèse Letablier). Temi
che due sociologhe di grande esperienza scientifica, Maria Luisa Bianco per l’Italia e Teresa Torns per la Spagna,
inquadrano in una originale lettura dei cambiamenti intervenuti nei rispettivi paesi. Completa infine l’articolato
spettro delle trasformazioni della famiglia la discussione a due (Valeria Gherardini e Roberto Grippo) di un
ricco volume curato da Elena Urso di prevalente impostazione giuridica sui complessi problemi delle mediazioni
familiari. Vincenzo Marasco traduce poi, rinnovando anche in questo numero l’impegno di CAMBIO a presentare al
pubblico italiano brani inediti e poco conosciuti di Elias, il breve saggio Il mutevole equilibrio di potere tra i sessi.
Uno studio di sociologia processuale: l’esempio dell’antico Stato romano; cui si accompagna, sempre nella Sezione Temi
eliasiani, un articolo-testimonianza di Stephanie Ernst sulla formazione della “famiglia figurazionale” in Europa,
dove note biografiche vengono ricomposte in una cornice interpretativa di sociologia della scienza. Confermando un interesse per le trasformazioni del lavoro e delle professioni, la Sezione Saggi e ricerche presenta
due contributi, uno di analisi dei processi di mobilità (e spesso di immobilità) sociale degli avvocati italiani (Andrea
Bellini), il secondo (di Elena Spina e Giovanna Vicarelli) sui mutamenti di composizione di genere nella classe
medica. CAMBIO presenta infine, in piena crisi europea, un intervento molto pensato di Filippo Buccarelli, sui variabili
sensi oggi attributi all’appartenenza all’Europa e su ciò che ne deriva in termini di possibilità di costruzione di
un’identità europea. Anche se è inusuale, vorrei però segnalare come questo numero ospiti, oltre alla già ricordata Book Review, due
recensioni che sconfinano (positivamente) in brevi ma concettualmente densi interventi: uno (di Luigi Burroni)
sulla decostruzione della flexicurity e sugli approcci alternativi raccolti in un volume di Keune e Serrano, e l’altro
(di Pietro Causarano) su individualismo e soggetti collettivi, a partire da un recente e come sempre originale
volume di Gian Primo Cella. Si segnala infine che nel prossimo numero (V, 10, Dicembre 2015), come indicato dal Call for papers sul nostro
sito, la parte monografica sarà dedicata a studi e ricerche sul tema Lavoro e differenze, preferibilmente di taglio
antropologico e sociologico, e privilegiando approcci e metodo etnografico che si situino nei punti di incontro tra
forme, luoghi e culture del lavoro, da una parte, e diversità sociali, culturali, politiche ed economiche, dall’altra.
CAMBIO continuerà ad ospitare articoli in lingua italiana e in inglese. Eventuali proposte di studiosi di altra
appartenenza linguistica sono benvenute: qualora siano valutate positivamente dal Comitato Editoriale e dai
referees, se ne chiederà la traduzione in una delle due lingue “ufficiali” della rivista, lasciando la possibilità di
consultare online anche la versione originale.
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Which Spaces of Recognition are Opening up for New Families?
a cura di Rossana Trifiletti
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[Le tendenze al riconoscimento delle famiglie same-sex]
Una breccia nel modello familista?
In questo nono numero di Cambio Rivista sulle trasformazioni sociali gli articoli ospitati nella parte monografica
presentano un doppio motivo di interesse: sono infatti, innanzitutto, contributi in grado di cogliere, ciascuno da
un punto di vista diverso, importanti frammenti di risposta all’interrogativo centrale della call centrata sul tema
delle possibilità e delle dimensioni attualmente apertesi anche in Italia per le nuove famiglie; ma possono anche
essere letti, al contempo, quali inviti - o forse meglio, esortazioni - a non sottovalutare la complessità della trasformazione in atto, soprattutto se alla ricerca di risposte plausibili. Le scelte degli autori in tutti e quattro i casi
hanno portato a percorsi che incrociano saperi diversi, condividono un approccio di genere, e risultano - in vario
e diverso modo - fedeli alla chiave interdisciplinare della rivista, pur muovendo da punti di vista e da ambiti di
raccolta delle evidenze empiriche piuttosto variegati e distanti.
Il saggio di Marie Thérèse Letablier propone, a partire dagli anni del dopoguerra e in un gioco di frequenti
rimandi e di comparazione spesso illuminante con il caso italiano, un potente affresco dell’evoluzione del quadro
valoriale e culturale di riferimento della politica familiare francese e della sua capacità di includere nuove forme
di famiglia con i relativi nuovi rischi sociali. Proprio la vastità dell’orizzonte temporale e il costante impegno di
documentazione anche quantitativa di ciascuna delle trasformazioni descritte qualificano questo primo contributo
quale utile sfondo sociologico e culturale anche per gli altri a seguire.
Il saggio di Luca Trappolin e Angela Tiano, da parte sua, raccoglie non solo - come è più consueto - un “inventario” delle forme di riconoscimento (sempre comunque parziale) delle same sex families approntate e definite dagli
organismi internazionali: nelle risoluzioni dell’Unione Europea o, più recentemente, nella giurisprudenza di vari
stati, Italia compresa; vi si descrivono efficacemente anche i fronti di conflitto e le reazioni più inaspettate alla
domanda di famiglia dei soggetti omosessuali da parte di movimenti emergenti che si mobilitano su questi temi1.
I due autori non si limitano dunque all’analisi alle controversie sul piano del dirsi famiglia, ma incrociano il tema
con le strategie concrete del fare famiglia che emergono nel dibattito internazionale e che vengono messe a fuoco,
in modo particolare, con i dati di intervista tratti da una ricerca qualitativa condotta in Italia. Si sottolinea così in
un certo senso la disarmante “semplicità” delle scelte di fecondità e del vivere quotidiano, delle donne lesbiche e
degli uomini gay, anche nel nostro paese: una quotidianità lontanissima dalle dispute di principio e, come tutte le
genitorialità contemporanee, fatta di esitazioni, di lavoro della parentela e di impegno quotidiano.
Ed è proprio in questo stesso senso che il saggio di Chiara Bertone riprende e approfondisce il tema di quanto
la vicenda delle same-sex families costituisca una specie di cartina di tornasole privilegiata nella quale poter leggere
più chiaramente le trasformazioni che stanno investendo tutti i tipi di forme familiari. Per argomentare questa tesi
Bertone ricostruisce il graduale arrivo nel nostro paese dei risultati di ricerche condotte altrove e la cumulazione
nazionale delle successive surveys sulle famiglie omogenitoriali: sia dal punto di vista della loro crescente visibilità
pubblica, sia da quello di una sempre più chiara implausibilità della loro definizione per differenza rispetto ad una
supposta “normalità” omogenea e “naturale”. In alternativa l’autrice ribadisce la necessità di uno studio capace di
rimanere metodologicamente più aderente all’approccio delle pratiche familiari raccomandato da David Morgan2
- così come già ci si era proposti in una esperienza formativa battistrada promossa dal Servizio LGBT del Comune
1 I cosiddetti approcci terapeutici del movimento ex-gay in particolare.
2 Come indicato nello stesso contributo di Bertone, il riferimento è a D.H.J. Morgan (1996), Family Connections. An Introduction to Family
Studies, Cambridge: Polity Press; e (1999), Risk and Family Practices: Accounting for Change and Fluidity in Family Life, in E. B. Silva, C. Smart
(eds), The New Family?, London: Sage.
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di Torino3 - che porta al centro anche il tema dell’adeguamento dei servizi sociali.
Il saggio di Brunella Casalini in un certo senso chiude il cerchio, proponendo un ritorno allo studio della
tematica della riproduzione in senso lato, così come formulata nell’originale dibattito femminista (a partire da
Carol Pateman4), dunque da una prospettiva capace di entrare nella complessità dei dilemmi morali introdotti
dalle moderne tecnologie riproduttive: come il biolavoro, la stepchild adoption, gli aspetti di mercatizzazione della
maternità surrogata e gli squilibri a livello globale che essa comporta. Su questo sfondo l’autrice esamina in modo
approfondito le implicazioni delle sentenze ormai famose della Corte di Giustizia Europea che condannavano la
Francia e l’Italia5 alla trascrizione di matrimoni omosessuali contratti all’estero, sentenze che anche Letablier,
da un lato, e Trappolin e Tiano, dall’altro, hanno considerato epocali nel proprio ragionamento. La sottile analisi
condotta permette all’autrice di poter rendere espliciti e per tutti più intellegibili i principi cui queste sentenze
intendono ispirarsi: riguardo al primo caso, che la filiazione biologica sia da considerare una parte del diritto del
minore alla propria identità; nel secondo caso, che una vita di fatto familiare sia comunque in grado di creare un
legame di filiazione, anche se i suoi presupposti erano illegittimi. Ed è proprio la più nitida definizione di questa
“cornice” che consente poi di trovare una spiegazione convincente e leggere più chiaramente nelle recentissime
sentenze di profonda svolta del Tribunale dei Minori di Roma e della Corte d’Appello di Torino l’ “effetto-ricaduta” di questi stessi principi, ormai in più casi recepiti anche nel nostro paese. E in un paese che - va ricordato - in
un quarantennio di tentativi parlamentari puntualmente andati a vuoto non è riuscito a riconoscere alcun diritto
nemmeno alle convivenze eterosessuali, si tratta indubbiamente di uno stupefacente segnale di cambiamento che
ci interroga.
Ben al di là dei rispettivi tentativi di riordino, esiste poi un altro - e non secondo - piano di portata per ogni
saggio: ciascuno dei contributi qui collezionati si rivela molto più ricco e generoso di suggerimenti preziosi proprio per comprendere e forse anche immaginare un’evoluzione del caso italiano. Un caso da tempo in stallo su
queste tematiche, eppure - se si sommano i molti indizi che i nostri autori già colgono e ci offrono per costruire
una riflessione non ideologizzata - scosso da segnali più o meno forti e prossimo ad aperture, tardive ma verosimilmente ineluttabili.
Il saggio di Marie Thérèse Letablier in realtà si pone interrogativi nuovi soprattutto sul retroterra culturale
delle posizioni politiche che arrivano ad esprimersi in politiche sociali (i référentiels). Ricostruendo la lunga ed
emblematica esperienza francese di politica della famiglia, l’Autrice ci mostra come le capacità e le sensibilità
non solo del sistema politico ma anche della società civile nel leggere correttamente (e fare fronte) alle trasformazioni familiari, presentino più di un punto di incontro e di contatto con le traiettorie del caso italiano, fino
forse a convergere nell’indicazione di alcuni importanti suggerimenti. Ma allo stesso tempo bene se ne coglie
la profonda diversità. A partire da analoghi schieramenti ideologici contrapposti fra familismo e modernismo,
fra tradizionalismo e individualizzazione dei diritti: nel caso francese – forte di un sistema maturo – è possibile
tentare, sperimentare e raggiungere compromessi, poi eventualmente correggibili; nel caso italiano, forse anche
per una minore solidità del tessuto associativo, tante sono ancora le mancate occasioni di cambiamento, e ripetuti
esiti di stallo. E questo certo impedisce una matura crescita del dibattito, che permetta considerazioni distaccate e di sguardo lungo come quelle del rapporto Théry6 sulla inversione di centralità della filiazione rispetto alla
coppia nella costruzione sociale della famiglia contemporanea. Nel nostro Paese, infatti, il solo pensiero di poter
incontrare proposte di analoga portata nei documenti richiesti dal governo rimane ancora più che lontano; ma non
è per questo meno vera anche per noi la conseguenza che il rapporto per l’HCF rileva: diventa oggi necessario
re-inventare un sistema funzionante di parentela e di obbligazioni familiari non più fondato biologicamente ma
capace di contenere tutte la variant family forms.
3 Si veda: Cirsde e Servizio LGBT della Città di Torino (2011, a cura di), Politiche locali LGBT: l’Italia e il caso Piemonte, Torino: Città di
Torino.
4 C. Pateman (1988), The Sexual Contract, Stanford: Stanford University Press.
5 Il riferimento è alle sentenze CEDEH Labassé e Menesson contro Francia e Paradiso e Campanelli contro Italia.
6 Il testo (redatto da Anne-Marie Leroyer) del Rapporto del gruppo di lavoro presieduto Irène Théry intitolato Filiation, origines,
parentalité. Le droit face aux nouvelles valeurs de responsabilité générationnelle è consultabile al sito http://www.justice.gouv.fr/include_htm/
etat_des_savoirs/eds_thery-rapport-filiation-origines-parentalite-2014.pdf
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In questo senso l’incrocio con le evidenze di ricerca riportate da Trappolin e Tiano sulla centralità tutta mediterranea dei nonni, dei rapporti intergenerazionali, della costruzione delle reti parentali e sociali nelle prassi di
omogenitorialità, fa indubbiamente riflettere.
E di nuovo in questa stessa direzione possiamo considerare convergenti alcuni spunti e inviti provenienti dai
due interventi sempre dedicati alle trasformazioni della famiglia e ospitati non nella parte monografica bensì
nell’omonima sezione. Nel primo, con giusta enfasi Maria Luisa Bianco invita alla riflessione su alcuni impropri
nessi causa-effetto o scansioni temporali del tutto irrealistiche (e troppo spesso tollerate) che sono utilizzate in
funzione ideologica nel discorso pubblico sulla famiglia, in particolare quelle sugli effetti familiari del lavoro delle
donne. Nel secondo, Teresa Torns, pur partendo da un approccio profondamente diverso, ribadisce la stessa necessità di attenzione alle reali pratiche quotidiane che sottolinea Bertone e che Trappolin e Tiano hanno raccolto.
Non è dunque un caso che ambedue i saggi, nuovamente, rilancino l’approccio di genere in tempi in cui lo si è
travestito da vuota ideologia, proprio in funzione strumentale contro le trasformazioni al centro dell’attenzione.
La lezione che mi sembra si debba trarre dall’insieme di questi contributi è quella della necessità di rovesciare
l’assioma della somiglianza. C’è un primo punto di vista lecito e vero: le problematiche affrontate dai soggetti che
scelgono e praticano l’omogenitorialità sono problematiche discendenti da un cambiamento profondo e attuale
riguardante tutte le forme di famiglia. Ma c’è anche un secondo punto di vista speculare al precedente e altrettanto lecito e vero: non è possibile inquadrare correttamente i problemi che le famiglie same sex si trovano a vivere
se non considerando nella loro complessità le trasformazioni di tutte le forme di famiglia oggi praticate, dunque
adottando uno sguardo largo e una visione di vasto orizzonte. È anche in questo senso che il confronto col caso
francese proposto dal saggio di Letablier è prezioso: proprio per la sua completezza, che sottolinea le nostre lacune di politiche sociali e familiari ma anche di riflessione culturale. Perché non si riflette ancora abbastanza in Italia
sulle famiglie monogenitore o ricostituite, mentre tutti i paesi europei lo fanno? Perché non ci si preoccupa della
labilità delle traiettorie di coppia e delle conseguenze delle loro rotture in termini di processi di impoverimento?
Perché non si tematizza l’inadeguatezza del sistema fiscale di fronte a tutto questo, in aggiunta all’inadeguatezza
delle politiche e dei servizi? Perché si tende a non considerare e a non indagare - come fa invece Torns per il caso
spagnolo, proponendo un’altra interessante comparazione tra paesi - l’esistenza e la forza del legame esistente tra
precarizzazione del lavoro e sempre più frequenti “scelte” di posticipazione del matrimonio? E perché non ci si
chiede, per lo meno in modo più sistematico, se e come questa precarizzazione impatti anche sulla durata possibile
delle traiettorie familiari?
Infine vale sicuramente la pena segnalare la doppia recensione - una della psicologa e mediatrice Valeria Gherardini, l’altra del Giudice Onorario del Tribunale per i minorenni Roberto Maria Grippo - di un interessante
volume a cura di Elena Urso7 sulla comparatistica delle prassi di mediazione familiare, che, in un certo senso, è
già aggiornato alla sopra ricordata proposta di Irène Théry di mettere al centro la filiazione, poiché si propone
di guardare alla mediazione non, come invece spesso avviene, come rimedio “magico” di troppi problemi, ma
nell’insieme del quadro di protezione dell’infanzia e dei minori, quadro che per l’Italia risulta comparativamente
lacunoso mancando «una normativa unitaria destinata ai diritti dei minori di età comparabile a quelle discipline di
ampio respiro presenti in altri ordinamenti giuridici» (Urso 2013, p. 67).
Ed è proprio questo insieme di ricerche comparative a ricordarci, come già il saggio di Brunella Casalini sottolineava, che una visione di sguardo abbastanza ampio non sta proprio più in un orizzonte soltanto nazionale.
7 Il testo è uscito per la Firenze University Press nel 2013 con il titolo Le ragioni degli altri. Mediazione e famiglia tra conflitto e dialogo. Una
prospettiva comparatistica e interdisciplinare.
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[Il riconoscimento delle nuove forme di famiglia]
Una controversa posta in gioco nella recente politica familiare in Francia
Title: The Recognition of New Forms of Family. A Controversial Stakes in the Recent Family Policy in
France
Abstract: This paper explores how the new family forms have been taken into account in the reshaping of
the French family policy.Three recent reforms are examined through the analytical frame of familialism
which was one of three drivers of the family policy when it was set up in the mid-20th century. Familialism
allows for a consideration of both moral, social and gender order that is on families. Firstly, change in
the family law is explored in order to assess how new family life arrangements are institutionalized.
Secondly, family policy responses to the new social risks resulting from change in the family life course
are explored. Then policy responses to change in the gender order within the family are examined.
Difficulties in implementing the policy change are discussed, highlighting the obstacles encountered by
the current government as well as the gap between the objectives and their implementation.
Keywords: Family Policy, Familialism, Parenthood, Work and Family Balance.
Fra le riforme sul tappeto dopo l’arrivo della sinistra al governo nel maggio del 2012 figurava fra le priorità
una riforma della politica familiare. Dopo la sua nomina il nuovo primo ministro non tardava a annunciare una
“rifondazione” della politica familiare, in particolare nella lettera d’ordine indirizzata all’HCF (Haut Conseil de la
Famille)1. In questa lettera il Primo Ministro incaricava l’HCF di stendere un inventario delle prestazioni familiari
finalizzato a proposte di riforma nel contesto della recessione economica, di deficit del ramo famiglia della
sicurezza sociale e di forti vincoli di bilancio. Poco dopo avrebbe richiesto sempre all’HCF un rapporto sulle Rotture
e discontinuità della vita familiare per mettere a fuoco più precisamente i bisogni delle famiglie monoparentali. In
parallelo a queste iniziative la nuova ministra della famiglia metteva in piedi tre gruppi di lavoro per preparare
le riforme che avrebbero dovuto essere incluse nella legge sulla famiglia del nuovo governo. La formulazione
della richiesta all’HCF e le titolazioni dei gruppi di lavoro annunciavano le linee principali della riforma: una
“ristrutturazione” del sistema delle prestazioni familiari, una “modernizzazione” del diritto che regola la filiazione,
l’adozione, la genitorialità, un “rafforzamento” del sostegno alla genitorialità, e l’instaurazione dei nuovi diritti dei
figli. Le riforme in questi ambiti avevano l’obiettivo trasversale di un migliore adattamento della politica familiare
ai bisogni delle nuove forme di famiglia.
Ci chiederemo qui in che misura le riforme iniziate a partire dal 2012 tengano davvero conto dell’evoluzione
delle forme di famiglia. Ci interrogheremo sulla possibile cesura introdotta da queste riforme rispetto ai fondamenti
valoriali della politica familiare francese, con particolare attenzione al suo quadro di riferimento culturale
1 L’Haut Conseil de la Famille sostituisce dal 2009 l’Alto consiglio della popolazione e della famiglia e le Conferenze della famiglia. L’HCF,
presieduto dal Primo Ministro ha il compito di animare il dibattito pubblico sulla politica familiare e quello di formulare progetti di
riforma. Si compone di una sessantina di membri che rappresentano l’insieme degli attori della politica della famiglia: rappresentanti dei
sindacati e del padronato, rappresentanti dei movimenti familiari, deputati e senatori esperti e rappresentanti dello Stato. Nel corso del
2014 ha formulato diversi rapporti che contenevano raccomandazioni al Governo: sui servizi per la prima infanzia, sulla disgregazione
familiare, sugli assegni familiari e nel 2015 un rapporto sulla familizzazione dei diritti di pensionamento.
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familista dal punto di vista duplice dell’ordine sociale e dell’ordine sessuato su cui è costruito. Ci focalizzeremo
in particolare su tre tipi di trasformazione delle forme di famiglia: 1- la diversificazione delle strutture familiari
e il loro riconoscimento istituzionale dal punto di vista della vita di coppia; 2- la diversità e la complessità delle
traiettorie di vita familiare e le loro conseguenze sulla genitorialità; 3- le trasformazioni delle relazioni di genere
nelle coppie e le risposte politiche alla “rivoluzione silenziosa” costituita dall’aumento dell’impegno lavorativo
delle donne. Questi tre tipi di trasformazione si articolano a tre diversi approcci di evoluzione delle politiche:
un approccio in termini di diritto di famiglia, un approccio in termini di risposta ai “nuovi” rischi familiari ed un
approccio in termini di risposte indirizzate ai genitori che lavorano.
Il familismo a fondamento della politica familiare francese
Quando alla fine degli anni ’30 e successivamente, dopo l’esito della seconda guerra mondiale fu realizzata la
politica familiare francese, erano tre gli obiettivi assegnati a questo settore specifico della protezione sociale: la
compensazione del costo dei figli per le famiglie, la redistribuzione fra le famiglie in funzione del numero di figli
e la promozione del modello di famiglia fondato sulla divisione sessuata dei ruoli e delle funzioni. I tre obiettivi
venero realizzati attraverso tre diverse misure: gli assegni familiari, il quoziente familiare e l’assegno per un solo
salario familiare, ribattezzato poi assegno per la madre a casa. La strutturazione delle tre misure le àncora a tre
distinti obiettivi di fondo: una finalità natalista, che incita le famiglie ad avere più figli, una finalità familista che
attribuisce alla famiglia la doppia funzione, di favorire la coesione sociale e di promuovere un preciso ordine di
genere e, da ultimo, una finalità redistributiva che risponde a un imperativo di solidarietà
Il familismo: ordine sociale, ordine morale, ordine sessuato. Basata su questi obiettivi la politica familiare francese
contribuisce a delineare un “modello” di famiglia, preferibilmente numerosa, cioè con più di tre figli e fondata
sulla complementarietà dei ruoli fra il capofamiglia che garantisce il reddito e la sicurezza economica e sociale
attraverso il suo lavoro e la moglie/madre che assume le funzioni domestiche di cura dei figli e delle persone
dipendenti, ma anche quelle educative e di mantenimento della casa. Così facendo la politica della famiglia francese
è indissociabile da una politica pronatalista come ha ben dimostrato Hervé Le Bras (1991). Ma questa politica è
egualmente connaturata al familismo che si è affermato alla fine della seconda guerra mondiale. Secondo questo
approccio culturale l’individuo esiste solo in quanto membro di una istituzione familiare. La famiglia viene così
investita di missioni nei confronti della società: la riproduzione, la socializzazione la cura dei figli e delle persone
dipendenti, compiti per i quali essa riceve aiuti e sostegni pubblici (Strobel 1997). Il familismo si è sviluppato sulla
base di preoccupazioni demografiche derivanti dal comportamento malthusiano dei francesi alla fine del XIX.
mo e all’inizio del XX.mo secolo dopo lo choc della disfatta militare del 1870 e poi della guerra del 1914-18. Il
familismo si è consolidato sull’idea che la famiglia incarni dei valori morali e assicuri la coesione sociale (Lenoir
2003). Il familismo è parimenti collegato a un ordine di genere, cioè agli assetti societari e politici che regolano i
rapporti sociali di sesso. Il regime sociale di genere che ne deriva si fonda sulla complementarietà dei ruoli maschili
e femminili, assegnando le donne alla sfera domestica e gli uomini alla sfera pubblica. Il ruolo delle donne tuttavia
è riconosciuto socialmente mediante una sorta di remunerazione che è l’assegno per le madri a casa, senza che
questo garantisca diritti sociali. Se le donne vengono “remunerate” in base al lavoro domestico svolto a casa, questo
non influisce sulla loro posizione subordinata rispetto ai mariti per quello che riguarda l’accesso ai diritti sociali e
alla sicurezza sociale che resta mediato in quanto “avente diritto a” oppure in quanto “persona a carico” per quello
che riguarda l’esercizio dei diritti genitoriali, ma anche il diritto personale al lavoro, a disporre a proprio nome
di un conto corrente o del proprio patrimonio o persino ad avere accesso a metodi “moderni” di contraccezione.
Le idee familiste hanno pervaso profondamente l’architettura del sistema di prestazioni familiari a partire dalla
sua fondazione a metà del XX.mo secolo:
• mediante un sostegno più sostanzioso alle famiglie numerose rispetto alle altre (gli assegni familiari in
origine sono dovuti a partire dal secondo figlio e il loro importo è progressivo a partire dal terzo figlio;
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• mediante una redistribuzione attraverso il sistema fiscale ed il suo principale strumento, il quoziente
familiare che si basa su un principio di equità orizzontale fra celibi e famiglie senza figli nei confronti delle
famiglie con figli, piuttosto che su un principio di equità verticale fra famiglie a redditi alti e famiglie a
redditi bassi;
• mediante l’assegno versato alle madri che rinunciano a lavorare per “remunerare” il loro lavoro domestico;
• mediante l’istituzionalizzazione del movimento familiare che assicura la base sociale di questa politica.
Nonostante l’assegno per le madri a casa, pilastro del regime di genere del dopoguerra sia stato soppresso alla
fine degli anni ’70, il mutamento di paradigma di cui questa soppressione è sintomo non comporta l’eliminazione
totale dei principi familisti né delle disuguaglianze di genere.
Le associazioni familiari, garanti dei fondamenti familisti della politica familiare. Se gli obiettivi natalisti e familisti
che fondano la politica familiare francese permangono in modo più o meno implicito (Letablier, Salles 2013), essi
restano presentificati nel dibattito pubblico in quanto rappresentati dal movimento delle associazioni familiari
che difende gli interessi delle famiglie. Le associazioni familiari in quanto partners istituzionali della politica
familiare a partire dal 1946, sono raggruppate nell’UNAF (Unione nazionale delle famiglie) e vengono consultate
regolarmente dal governo ogni volta che si introducono delle riforme. Le associazioni familiari giocano così un
ruolo centrale nella elaborazione e implementazione della politica familiare. Esse si esprimono su tutti i progetti
di riforma mediante l’intermediazione dell’UNAF. Esse alimentano così il dibattito pubblico nonostante la loro
grande eterogeneità e diversità ideologica (l’UNAF raggruppa associazioni riconoscibilmente di destra come di
sinistra, associazioni laiche come associazioni cattoliche …). Il regime di genere per come è stato istituzionalizzato
alla fondazione della politica familiare deve molto all’influenza della Chiesa cattolica, il cui peso politico passa
attraverso le associazioni familiari. L’influenza sul discorso pubblico come sulle politiche riguarda in particolare la
coppia, il ruolo della famiglia, l’educazione dei figli. Oggi che la pratica religiosa cattolica riguarda solo una frangia
limitata della società francese, il conservatorismo in campo familiare perdura come si è visto nelle manifestazioni
di opposizione alle riforme proposte dal governo socialista arrivato al potere nel 2012. Di fatto, il movimento
familiare conserva una capacità di mobilitazione delle famiglie ogni volta che siano rimessi in questione i valori sui
quali si è costruita la politica familiare, anche se le posizioni dello stesso UNAF si sono sensibilmente evolute nel
corso del tempo, tenendo conto delle trasformazioni delle forme di famiglia. Le manifestazioni di piazza del 2014
in occasione della riforma del diritto di famiglia che introduceva il «matrimonio per tutti» attestano tale capacità
di mobilitazione.
Una politica che non riesce a riformarsi
Prima di affrontare le riforme propriamente dette, è opportuno ricordare che la politica familiare in Francia
è un settore autonomo del sistema di protezione sociale, il settore Famiglia. Il bilancio dedicato alle famiglie
rappresenta all’incirca il 4,6% del PIL, e questo colloca la Francia fra i paesi dell’OCSE che consacrano una
quota fra le più elevate del PIL al sostegno delle famiglie. Le misure di sostegno delle famiglie includono vari
tipi di prestazioni monetarie (assegnazioni dirette ai genitori o sovvenzioni ai servizi), di servizi, o ancora di
deduzioni fiscali (quoziente familiare, deduzioni dei costi di custodia dei figli…). Tale politica è basata su un
largo consenso nella società francese, per lo meno sui principi (Hantrais, Letablier 1996). Ma l’attaccamento
della popolazione a questa politica ha il suo lato negativo: è difficile riformare questa politica, sia dal punto di
vista dei suoi obiettivi tradizionali che da quello dei suoi strumenti. Tali difficoltà non possono derivare solo
dalla resistenza di una minoranza, sono piuttosto il risultato, come dimostra Sandrine Dauphin, della difficoltà
a cambiare l’ordine sociale e l’ordine sessuato su cui si basa la società francese (Dauphin 2015). Sarà attraverso
questo doppio prisma della riproduzione delle diseguaglianze sociali e sessuate che ci proponiamo di analizzare
le resistenze alle recenti riforme, e in particolare alle riforme che si proponevano di adattare la politica familiare
francese alle trasformazioni delle forme di famiglia e della vita familiare.
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La modernizzazione progressiva della politica familiare A partire dall’inizio degli anni ‘70, la politica familiare si
è adattata mirando le prestazioni sulle famiglie più in difficoltà, ma anche riformando il diritto di famiglia per
tenere meglio conto delle aspirazioni delle donne verso una maggiore libertà e eguaglianza, e ridirigendo gli
aiuti ai genitori che lavorano, in particolar modo mediante sostegni ai vari tipi di custodia dei bimbi piccoli. Il
ri-orientamento della politica familiare verso obiettivi più sociali, che tenesse conto dei nuovi rischi familiari
e del cambiamento di modello che la crescente partecipazione al mercato dl lavoro delle donne comportava, è
proseguito sino ad oggi. Tale riconversione ha continuato ad accompagnare la trasformazione delle forme familiari
con maggiore o minore successo a seconda delle concezioni della famiglia dei partiti politici al governo e secondo i
rapporti di forza entro la società civile fra associazioni familiari e movimenti femministi. Come ha illustrato Jacques
Commaille, riformare la politica familiare in Francia non è compito facile per quanto lo zoccolo duro su cui è
costruita resiste alle sollecitazioni dei riformisti (Commaille 2001). La politica familiare si trova così intrappolata
fra ingiunzioni contraddittorie, fra aspirazioni conservatrici da un lato, favorevoli al mantenimento della politica
familiare come costruita alla metà del XX.mo secolo, in particolare in base alla coesione sociale che garantisce, e
dall’altro a aspirazioni riformiste che vorrebbero adattarla alle trasformazioni delle forme familiari e in particolare
alla diffusione di un modello di famiglia meno gerarchico e più democratico in cui i due genitori contribuiscano al
reddito del ménage e le donne siano più autonome. Tale doppia ingiunzione, familista e femminista ha contribuito
a dare forma alle riforme a partire dagli anni ’80 ed ai compromessi che sono stati realizzati.
I progetti di riforma del nuovo governo. Dopo il cambio di governo del maggio 2012 e il ritorno della sinistra al
potere viene annunciato un progetto di riforme della politica familiare. Si tratta per il nuovo Primo ministro
di “rifondare” la politica familiare su obiettivi più giusti, sia dal punto di vista delle diseguaglianze sociali che
delle diseguaglianze di genere. Si tratta parimenti di rendere la politica più efficace, dal punto di vista della
sua governance e del suo funzionamento allo scopo di ridurre la spesa pubblica. Si tratta, infine, di adattarla ai
mutamenti che investono sia le aspirazioni che i comportamenti in materia di vita familiare e di genitorialità.
Sotto la pressione delle limitazioni di bilancio la sinistra ha riportato nell’agenda politica la questione della
reintroduzione di un test dei mezzi per gli assegni familiari allo scopo di riservare questa misura alle famiglie con
maggiori bisogni. Un precedente tentativo di ristrutturazione degli assegni familiari per renderli socialmente più
giusti era fallito nel 1997 quando, costretto da un movimento di opposizione, il primo ministro socialista aveva
annullato la riforma. Dopo aspri dibattiti in Parlamento le proposta del nuovo governo socialista è passata, a
conferma di un orientamento sociale della politica familiare delineato da più di trenta anni. Gli oppositori della
ristrutturazione del sistema delle prestazioni familiari si sono disperati per la fine dell’universalità degli assegni
familiari anche se questa supposta universalità, fondata su una forma di equità orizzontale non trattava veramente
in modo equitativo tutti i bambini, ma teneva conto del loro numero e dell’ordine di nascita. Se tale trattamento
non egualitario non è stato rimesso in discussione dalla riforma, il principio di equità, al contrario, è stato rimesso
in causa a vantaggio di una redistribuzione più verticale degli assegni familiari, fra famiglie povere e famiglie
ricche, ormai escluse dal beneficio.
Le resistenze alle riforme: la sinistra sotto accusa. Il tentativo di riconoscimento nell’ambito della politica familiare
delle nuove forme di famiglia ha suscitato dibattiti accesi, sia nell’arena politica che nei media. Si è generato un
movimento d’opposizione che si è espresso in particolare nelle vie di Parigi e delle grandi città di provincia, e,
in modo ricorrente, davanti al Parlamento. L’opposizione alle riforme ha mobilitato certe associazioni familiari
legate per l’occasione ai partiti di destra, che non si erano espressi così dalla fine degli anni ’90, in prima battuta
contro il piano di riforma della Sicurezza sociale, e successivamente contro la riforma degli assegni familiari.
Le parole d’ordine proclamate nelle manifestazioni del 2013 e 2014 denunciavano una certa nostalgia per un
modello familiare che fa fatica a restare la norma, cioè, il modello “un papà, una mamma, e i loro figli”. Per questi
manifestanti, il ruolo della politica familiare è innanzitutto quello di promuovere un modello familiare, e non quello
di rispondere alle trasformazioni della società. Si iscrivono in questo modo alla tradizione familista francese. Messo
di fronte a questo movimento di contestazione il governo ha rimandato la discussione parlamentare del disegno
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di legge sulla famiglia. Il rimando a data da destinarsi è stato interpretato da alcuni osservatori come un passo
indietro di fronte alla piazza. La questione più importante sul tappeto era la riforma della filiazione, una riforma
contestata dalla parte più conservatrice della destra francese spalleggiata da alcune associazioni familiari riunite
nel Collettivo contro il matrimonio per tutti. Per il collettivo ed i suoi alleati il rinvio della discussione parlamentare
è stato vissuto come un successo che andava nel senso di preservare i fondamenti e gli obiettivi tradizionali della
politica familiare, del suo ruolo di orientamento dei comportamenti e tutela del modello di famiglia fondata su “un
padre, una madre e dei figli” come diceva in diverse riunioni lo slogan sui cartelli dei manifestanti della Manif per
tutti. Questo confronto fra conservatori e riformisti non è nuovo; non fa che proseguire tradizionali controversie
inerenti alla politica familiare francese.
E tuttavia, se la legge sulla famiglia come era stata programmata dalla ministra della famiglia non è arrivata in
fondo al suo percorso nella sua totalità, questo non ha impedito la realizzazione di diverse riforme. Queste sono
state preparate dai gruppi di lavoro composti da esperti, da attori politici e delle associazioni, da rappresentanti
della società civile. Alcune sono ancora nell’iter della discussione. L’HCF è stato mobilitato per prepararle, in
particolare la riforma delle misure di sostegno alle famiglie (Fragonard 2013), la riforme dei servizi per l’infanzia
(Haut Conseil de la Famille - HCF 2014a) e la riforma della politica diretta alle famiglie monoparentali (Haut
Conseil de la Famille - HCF 2014b).
Le nuove forme di vita familiare: il diritto di famiglia si adatta
Forme di vita familiare che non smettono di diversificarsi Da quasi quattro decenni, le forme di vita familiare
non smettono di diversificarsi. Non solo il matrimonio continua a perdere progressivamente il suo ruolo di
legittimazione della coppia e della formazione della famiglia, ma anche le forme di vita di coppia diventano più
distanti fra loro. Oggi il matrimonio non è più il segnale della formazione di una coppia o della famiglia. Mentre
nel 1972 si celebravano più di 410.000 matrimoni, nel 2014 sono 231mila, con una diminuzione del 78% negli
ultimi quaranta anni. Tale erosione del matrimonio delle coppie eterosessuali è compensata solo in parte dalla
crescita dei matrimoni fra persone dello stesso sesso dopo la legge del maggio 2013 che autorizza il matrimonio
per tutti. Da allora sono stati celebrati 17.500 matrimoni di coppie dello stesso sesso, di cui 10mila solo nel 2014
(Bellamy, Baumel 2015 et 2014; Mazuy et al. 2014). Inoltre, vivere in coppia, anche se sposati o legati da un Pacs
non significa necessariamente vivere sotto lo stesso tetto. Dei 32 milioni di persone maggiorenni che dichiarano
di vivere in coppia nel 2011, 72% sono sposati e condividono la residenza del coniuge, 22% sono in unione libera
e 6% hanno un Pacs (pacte civil de solidarité). Fra gli adulti che si dichiarano in coppia, 4% indicano che il partner
non vive nello stesso alloggio. Questa forma di vita di coppia riguarda soprattutto giovani di meno di 30 anni.
Fra 30 e 59 anni è solo uno su 10 che non risiede con il partner. La non coabitazione riguarda soprattutto le
unioni libere. 200.000 persone sono in coppie omosessuali ma non necessariamente vivono sotto lo stesso tetto.
Sei su dieci sono maschi e il 43% hanno un Pacs, ma la proporzione di pacsés cresce con l’età: dopo i 35 anni la
maggioranza delle coppie dello stesso sesso sono pacsées. Il 10% circa vive almeno una parte del tempo con un
bambino, generalmente di una precedente unione (Buisson, Lapinte 2013).
Queste cifre rivelano due principali cambiamenti rispetto alle forme di vita familiare: la disconnessione fra
vita di coppia e matrimonio e l’emergenza di forme nuove di famiglia, in particolare fra coppie dello stesso
sesso. Questo si traduce nell’aumento quasi continuo da decenni del numero di bambini che nascono fuori dal
matrimonio, attualmente in Francia più di uno su due (57%). Spesso il matrimonio interviene solo quando la
famiglia è già costituita. L’istituzione dei Pacs nel 1999 è stata una prima forma di riconoscimento dell’erosione
del matrimonio e della pluralità di vie possibili per la formazione della famiglia, ma è sto anche un passo verso
il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso, pur riguardando in maggioranza coppie eterosessuali. E’ stata
tuttavia l’autorizzazione al matrimonio per le coppie dello stesso sesso nel 2014 che ha suscitato la levata di scudi
degli oppositori di questa legalizzazione, poiché interferisce col carattere sacrale del matrimonio e con il suo
obiettivo ultimo, la procreazione e la filiazione. Se le coppie dello stesso sesso hanno ormai accesso al matrimonio,
l’accesso alla filiazione continua ad essere un problema.
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Le linee principali di un progetto di modernizzazione del diritto di famiglia Il rapporto richiesto dal governo su
«la filiazione, le origini e la genitorialità» (Théry 2014) esplora proprio le conseguenze in punta di diritto dei
cambiamenti nella concezione della coppia. La concezione totalizzante della coppia viene messa in discussione
dai progressi dell’uguaglianza, lasciando spazio ad una definizione alternativa di coppia, più libera, meno
gerarchica, più relazionale, fondata su un “duo” in cui la voce della donna conta. Il mutamento principale di questa
ridefinizione della coppia si materializza nella diffusione della coabitazione, nel declino del matrimonio e nella
crescita delle separazioni. Secondo Irène Théry, da questi cambiamenti consegue che l’asse della famiglia non
è più il matrimonio ma la filiazione (Théry 1993 e 2007). Il matrimonio diventa una questione di convenienza
personale e di libertà degli individui. Dall’altra parte la filiazione diventa il punto comune a tutte le situazioni
familiari e fa la differenza fra essere una famiglia oppure no. Diventa così necessario ripensare la filiazione per
tener conto delle molteplici vie d’accesso ai figli e dei molteplici modi di essere genitori. Ecco perché riordinare
su un piano giuridico le pluriparentalità si iscrive sull’agenda delle urgenze. L’aumento delle famiglie ricomposte,
la procreazione medicalmente assistita con donatore, l’adozione piena, l’omogenitorialita sono altrettante
situazioni che investono in profondità il nostro sistema di parentela. La diversità delle situazioni pone la società
davanti a nuove responsabilità. Per tutto questo la famiglia resta una istituzione poiché iscrive l’individuo in una
relazione, con riferimento a dei valori e dei significati. L’emancipazione femminile non comporta la dissoluzione
dell’istituzione, piuttosto la trasforma dandole un carattere meno gerarchico e, al contempo, meno stabile. In
questo modo, secondo Irène Théry, «la responsabilità di tutti noi [è] di re-istituire un sistema di parentela che
sia allo stesso tempo comune a tutti e pluralista» (2009: 152). Queste sono le ambizioni del rapporto di gruppo
consegnato alla ministra della famiglia.
Quello che viene rimesso in causa dalla irruzione di “nuovi genitori” sulla scena familiare è l’unicità del
riferimento biologico della genitorialità: si tratta di genitori più relazionali, presenti nel quotidiano, che investono
nella cura e nell’educazione, che possono condividere con i genitori biologici Questi genitori “di adozione” che
hanno un ruolo nella costruzione dei figli, nella loro educazione e nel loro sviluppo, pur non avendo spesso una
esistenza legale, non sono per questo meno genitori. Un numero crescente di figli sono inclusi nei sistemi di pluriparentalità, dividendo il loro tempo fra diverse famiglie, in un sistema che è suscettibile di mutamento, in base alle
traiettorie coniugali dei genitori e secondo i loro stessi desiderata. Si tratta quindi di orientare la riflessione sulla
pluralità di un sistema comune di filiazione, meglio adattabile alla pluralità delle situazioni e alla loro discontinuità
nel tempo. La posta in gioco diventa quella di pensare la famiglia al centro di un sistema di parentela al tempo
stesso comune a tutti e pluralista, capace di tenere conto delle diverse traiettorie biografiche dei figli ma di
riferirle a dei valori comuni di sfondo, a dei grandi principi che permettano al bambino di ritrovarsi nel sistema
delle parentele (Théry, 2014). É precisamente questa questione della filiazione e della pluri-parentalità che suscita
le resistenze più forti.
Una riforma incompiuta: le decisioni e le resistenze. Mentre la procreazione medicalmente assistita è ben consolidata
per le coppie etero, la sua autorizzazione per le coppie di donne, promessa nel corso della campagna presidenziale,
è stata rinviata. Avrebbe dovuto fare parte della Legge Taubira che introduce il matrimonio per tutti, ma la si è
cassata per l’opposizione del movimento La manif pour tous. Si doveva allora inserire nella legge sulla famiglia, ma
questa legge viene egualmente rinviata a segnalare l’imbarazzo del governo di fronte alle questioni che suscitano
polemiche. Anche la questione della maternità surrogata è rimasta in sospeso a causa dell’opposizione della
manif pour tous in nome della “difesa della famiglia”, minacciata secondo i manifestanti da queste due forme di
procreazione assistita. É soprattutto la maternità surrogata che suscita polemiche. La gestazione per altri non
è autorizzata in Francia e la possibilità di autorizzarla suscita forte ostilità. Il dibattito è stato rilanciato da una
decisione CEDH (Cour européenne des droits de l’homme) che ha condannato la Francia per il rifiuto di trascrivere
allo stato civile atti di nascita di bambini nati da madri surrogate negli Stati Uniti. La condanna avrebbe dovuto
permettere al governo di riconsiderare la questione. La Corte ha valutato che, nel nome del superiore interesse
del bambino, lo Stato non possa rifiutare di accordare la nazionalità ed i legami giuridici di filiazione a bambini nati
da una maternità surrogata, trasformandoli in “fantasmi della Repubblica”. Ma il consenso nell’attuale governo
è tutt’altro che evidente. Per il momento la questione resta in sospeso, in attesa delle decisioni della CEDH in
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risposta ai nuovi ricorsi depositati. Le reazioni suscitate dall’estensione del matrimonio alle coppie dello stesso
sesso hanno ben dimostrato che le resistenze non sono rivolte tanto alle questioni economiche quanto piuttosto a
quelle valoriali. Per i manifestanti nostalgici di una età dell’oro della famiglia, l’evoluzione delle forme familiari è
vissuta come una decomposizione dei valori familiari. La loro battaglia mira alle idee, in un movimento che ha per
obiettivo un riarmo morale e familiare della Francia che passi per la restaurazione del patriarcato e della morale
tradizionale.
La questione della genitorialità a fronte della discontinuità e alla crescente complessità dei percorsi di vita. Non solo
le coppie si sposano più di rado ma anche la durata della vita delle coppie è meno lunga. I percorsi della vita di
coppia sono meno stabili nel tempo, sottoposti a rotture e ricomposizioni. La discontinuità che caratterizza un
numero crescente di percorsi coniugali genera un aumento delle famiglie monogenitoriali che vivono con i figli
in modo principale o alternato. La discontinuità si traduce anche in aumento delle ricomposizioni familiari che
danno luogo a fratrie sempre più complesse per quanto riguarda le relazioni familiari o l’organizzazione della vita
quotidiana. Tali evoluzioni dei percorsi di vita sfidano le politiche familiari su almeno due aspetti: da una parte
interrogano i legami genitori-figli dopo le rotture e le ricomposizioni e più in generale i legami di parentela e
dall’altra interrogano le politiche nella loro capacità di assumere il rischio sociale che si genera nelle situazioni di
rottura e isolamento.
Nella Francia metropolitana una famiglia su cinque e composta da un genitore senza partner e almeno un figlio
minore, nell’85% dei casi la madre. Tale situazione è spesso transitoria poiché le famiglie monoparentali hanno
una durata media di 5,5 anni. La durata è inferiore per i genitori separati (in media 4,5 anni) che per i vedovi (5,5
anni) o per i genitori che non sono mai stati in coppia (10 anni di media). Le madri vivono più a lungo dei padri in
situazione di monoparentalità (5.6 contro 4.2 rispettivamente). Lo scarto si spiega in parte mediante il peso delle
madri che non sono mai state in coppia, la cui durata nella monoparentalità è più lunga I genitori mai in coppia
sono il 13% degli isolati ma il55% di loro lo sono da almeno 15 anni. Rappresentano così lo zoccolo duro della
famiglie monoparentali di lunga durata (Letablier 2011). Oltre a ciò i genitori con un livello più basso di diploma
restano più a lungo degli altri in situazione di monogenitorialità: secondo l’inchiesta sulle traiettorie familiari,
24% delle donne e16% degli uomini monogenitore lo sono da più di 10 anni se sono senza diploma mentre vi
ricade il14% delle donne e il 7% degli uomini con un diploma universitario (Buisson et al. 2015).
Questi dati dimostrano che le famiglie monoparentali non sono un insieme omogeneo né per le loro storie di
vita, né per i loro profili o le loro condizioni di vita. Ma, a dispetto di questa eterogeneità, presentano dei punti
comuni: sono in grande maggioranza composte da madri con meno figli delle madri in coppia e la loro situazione
professionale è differente, mentre le loro condizioni di vita sono più difficili di quelle delle altre famiglie. Il loro
sviluppo pone delle nuove sfide alle politiche con particolare riguardo alla gestione dei conflitti coniugali, alla
gestione delle relazioni genitori-figli e all’esposizione al rischio di precarietà delle condizioni di vita.
Il sostegno alla genitorialità La questione del sostegno alla genitorialità assume la doppia dimensione delle
competenze e delle responsabilità genitoriali, da una parte, e della condivisione delle attività e dell’implicazione
dei padri, dall’altra. Si tratta di affermare, da una parte, il contributo della famiglia all’ordine societario, in una
forma che ha potuto essere descritta come “governo delle famiglie” (Donzelot 1977)2 e, dell’altra, di introdurre
maggiore eguaglianza nel regime di genere. Le trasformazioni della famiglia sono state lette talvolta come
disintegrazione della società (Roussel 1989). Come ha sostenuto Pierre Strobel gli sconvolgimenti familiari sono
considerati responsabili del crollo dell’autorità tradizionale, a sua volta responsabile della delinquenza giovanile e
della diluizione dei valori morali (Strobel, 1999). Si ammette da circa un secolo che essere genitore richiede delle
competenza ed un apprendistato Era a questa esigenza che rispondeva la creazione della Ecole des parents nel 1929,
come associazione di pubblica utilità. Dagli anni 2000, i dispositivi mirati a sostenere i genitori nei loro compiti
educativi si sono sviluppati sotto la denominazione «sostegno alla genitorialità» Questi dispositivi che rilanciano la
2 La difficile traduzione del titolo francese police des familles è stata resa in italiano come governo delle famiglie perdendo un po’ il voluto
doppio senso che in francese sottolinea polizia come forza dell’ordine e come forza di irreggimentazione sia nei confronti delle famiglie
che attraverso di esse (n.d.t.).
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politica familiare si propongono di facilitare l’esercizio dell’autorità genitoriale vissuta insieme o separatamente.
La nozione contemporanea di «sostegno alla genitorialità» rimanda non solo ad una certa concezione dei ruoli
genitoriali ma anche ad una rappresentazione nuova del posto del figlio, divenuto soggetto, i cui interessi debbono
venire preservati ed il cui benessere assicurato (Martin 2014, De Luca-Barrusse 1994). La promozione della
genitorialità nelle politiche pubbliche indica che ordine familiare e ordine sociale sono fortemente correlati. La
famiglia resta garante di un sistema di valori mediante le virtù educative che le sono attribuite. Per tutto questo
la nozione contemporanea di genitorialità comporta un cambiamento significativo nella definizione dei ruoli dei
genitori verso una concezione più democratica ed egualitaria. La questione del sostegno alla genitorialità resta
sull’agenda del nuovo governo, come dimostra il rapporto su questo tema richiesto alla Inspection générale des
affaires sociales (Jacquey-Vasquez et al. 2013). Il rapporto elenca i dispositivi di sostegno in funzione dei loro
obiettivi: accompagnare le competenze mediante la messa in rete dei genitori, rafforzare il legame fra genitori e
scuola, prevenire la disgregazione familiare, informare e orientare i genitori. A seconda degli obiettivi i dispositivi
sono universalistici, indirizzati all’insieme dei genitori oppure mirati alle famiglie considerate vulnerabili rispetto
alla missione che la società si aspetta da loro. Una ricerca recente ha dimostrato che l’effetto della diversità delle
misure è quello di segmentare i genitori fra genitori “ordinari” che si confrontano con la disgregazione familiare
genitori popolari, svantaggiati nei confronti dell’istituzione scolastica, e genitori isolati esposti a difficoltà sociali
(Boisson 2010). Considerando la sua attuazione è possibile interrogarsi se questo obiettivo di responsabilizzazione
dei genitori non sia un tentativo di ri-familizzare i compiti di cura ed educazione, particolarmente in periodi di
recessione economica. L’ipotesi merita di essere formulata.
Da ultimo se il termine genitorialità fa scomparire il genere in nome della neutralità e dell’uguale trattamento
dei genitori, le ricerche empiriche sulla implementazione di queste misure di accompagnamento dimostrano
che di fatto esse si rivolgono essenzialmente alle madri (Boisson, Verjus 2005). Di fatto il ruolo centrale delle
madri nell’educazione dei figli ispira ancora fortemente le pratiche dei professionisti, che spesso si danno il
cambio con gli psicologi evolutivi. I ruoli differenziati di padri e madri restano pregnanti, non solo nei compiti
educativi ma anche nelle attività quotidiane di cura ai bambini, come dimostrano in modo ricorrente le inchieste
sui bilanci tempo (Ricroch 2012). Cionondimeno, anche se il principio di cogenitorialità non ha consenso né nella
popolazione né nell’arena politica, le ricerche dimostrano che il ruolo del padre nella vita familiare è ormai più
riconosciuto, in particolare fra i più giovani (Régnier-Loilier 2009).
Dall’autorità paterna alla coparentalità: i padri in prima linea A partire dalla legge del 4 luglio 1970 che ha istituito
l’autorità genitoriale congiunta ed ha messo fine alla “autorità paterna”, la questione della genitorialità non è più
uscita dall’agenda della politica familiare, essendo diventata una questione al tempo stesso di ordine societario
(prevenzione della delinquenza giovanile e lotta alle incapacità educative dei genitori) e di eguaglianza fra uomini
e donne (ordine di genere). Lo è tanto più in quanto la disgregazioni familiari comportano che si ricostruisca la
relazione dei figli col genitore con cui non si risiede più nella vita quotidiana. Dato che i figli dei genitori separati
vivono più spesso con le madri, sono i padri ad essere interpellati (Martin 1997). La nozione di genitorialità
valorizza il padre che si coinvolge nella quotidianità a svantaggio della figura del breadwinner e del pater familias,
detentore unico dell’autorità parentale.
L’autorità genitoriale consacra l’uguaglianza di diritti e doveri di padri e madri nell’educazione dei figli. Nel
migliore “interesse del bambino” e per promuovere l’uguaglianza fra uomini e donne, il coinvolgimento precoce
dei padri nelle attività genitoriali ha giustificato la creazione nel 2002 di un congedo di paternità di undici giorni.
Lo stesso anno è stata promulgata una legge che consacra il principio di co-parentalità e dispone che è nell’interesse
del bambino essere educato dai suoi due genitori, siano essi sposati, pacsés, conviventi, separati o divorziati. E’ una
legge intesa come contrappunto alla instabilità coniugale che conferisce diritti eguali a padri e madri, sviluppa la
residenza alternata per i figli di genitori separati o divorziati, istituisce la mediazione familiare per la gestione dei
conflitti che possono sorgere nelle separazioni coniugali.
Il divorzio o la separazione dei genitori, oltre alla fragilizzazione del percorso lavorativo della madre comporta
in molti casi una vulnerabilità della relazione padre-figli (Martial 2012). La politica familiare s’est fatta carico di
questa questione, non solo con l’adattamento delle norme relative all’autorità genitoriale ma anche con misure di
accompagnamento delle famiglie che alla voce «mediazione familiare» hanno la funzione di limitare i conflitti fra
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genitori separati sulla residenza, la contribuzione al mantenimento e all’educazione dei figli. I risultati di questa
politica restano tuttavia limitati. La celebrazione dei “nuovi padri” degli anni ’80 non resiste alla constatazione
dell’inerzia generale nella condivisione dei ruoli genitoriali.
E la politica di “paternità attiva” del primo decennio degli anni 2000 si è tradotta in mutamenti molto lenti delle
norme di paternità (Boyer, Céroux 2010). La presa in carico dei figli nella quotidianità resta infatti distribuita in
modo molto diseguale fra madri e padri che vivano insieme o separati. Ci si affida alla madre nel 77% dei casi di
divorzio e nell’84% delle separazioni (Chaussebourg, Baux 2007). Solo il 14% dei minori di 25 anni vivono solo
con il padre; la presa in carico paterna aumenta con l’età dei figli, vivono col padre il 3% di quelli sotto i 2 anni,
il 10% sotto i 6 e il 18% di quelli fra 17 e 24. Le situazioni di residenza alternata aumentano lentamente anche se
sono oggetto di aspre discussioni sulla loro reale utilità, come ha dimostrato il dibattito sul progetto di legge sulla
famiglia del 2014. Sono situazioni due volte più frequenti dopo un divorzio che dopo una separazione, decretate
nel 15% dei divorzi e nel 6% delle separazioni (Chaussebourg, Baux 2007).
Il contenuto dei dibattiti sulla residenza alternata riflette la pregnanza adelle rappresentazioni di genere della
genitorialità. Gli oppositori della co-genitorialità sostengono che un bambino sia meglio educato se affidato alla
madre (sottintendendo “che ha questo ruolo”) mentre i suoi sostenitori valutano positivamente l’eguaglianza fra
genitori e la divisione egualitaria delle responsabilità, nella coppia ancora convivente come dopo la rottura. Tra
i difensori della co-parentalità figurano un buon numero di associazioni di padri separati, impegnati nella difesa
della “paternità attiva”, mentre fra i suoi oppositori si contano un buon numero di psicologi e psicanalisti, difensori
dei ruoli tradizionali di genitore in nome del “migliore interesse del minore”.
Le famiglie monoparentali come famiglie a rischio? Se una parte delle famiglie monoparentali vive senza problemi
importanti specifici, per una parte di esse vivere da soli con uno o due figli significa condizioni di vita difficili,
difficoltà di accesso al lavoro, gestione affannata dei tempi e un livello di vita più vulnerabile di quello delle altre
famiglie (Chardon et al. 2008). Si può osservare infatti che il reddito iniziale per unità di consumo delle famiglie
monoparentali è inferiore del 25% a quello delle coppie monoreddito e del 54% a quello della coppie a doppia
partecipazione con figli. Inoltre solo la metà delle madri che crescono da sole i figli ha un impiego a tempo pieno
anche se garantisce la parte più sostanziale del reddito della famiglia. Queste famiglie sono così maggiormente
esposte al rischio di povertà che raggiunge un tasso del 57% prima dei trasferimenti sociali contro un 20% stimato
per l’insieme delle famiglie francesi e un 22% per le coppie con figli. Nei dati INSEE il loro rischio di povertà
relativa (60% del reddito mediano) passa al 32% dopo i trasferimenti sociali mentre lo stesso tasso è del 14%
per l’insieme della popolazione, del 6,5% per le coppie senza figli e del 12,7% per le coppie con figli (Houdré
et al. 2013). Infine una famiglia monoparentale su cinque accede al reddito minimo e due terzi di questi ménages
sono affittuari, in particolare nell’edilizia popolare mentre la maggioranza delle famiglie e proprietaria della casa
o in corso di acquisizione di tale proprietà. Un po’ meno di una famiglia monoparentale su 10 è ospitata, spesso
dai propri genitori. A causa della loro vulnerabilità, precarietà e povertà le famiglie monoparentali sono una sfida
per le politiche sociali e familiari. Il Primo ministro ha sollecitato all’HCF un rapporto di bilancio della situazione
economica e sociale di queste famiglie che formuli anche delle proposte di riforma delle misure esistenti (Haut
Conseil de la Famille - HCF 2014b).
La questione centrale per la politica familiare è quella di ridurre la povertà delle famiglie monoparentali. Si
tratta prima di tutto di invogliare i genitori soli ed in particolare le madri a partecipare al mercato del lavoro,
secondo le raccomandazioni delle organizzazioni internazionali. Le politiche di attivazione promosse dell’UE
dalla metà degli anni ’90 hanno questa popolazione come target e richiedono ai governi nazionali di attuare delle
misure di accompagnamento al lavoro da un lato e delle misure che rendano il lavoro più conveniente dall’altra. La
questione è stata abbondantemente discussa in Francia come negli altri paesi europei nel corso del primo decennio
degli anni 2000 (Letablier et al. 2011; Eydoux, Letablier 2009).
Resta una posta molto importante perché gli ostacoli a lavorare sono molti per le madri sole a bassa
qualificazione. Al contrario quelle più qualificate hanno un tasso di attività più elevato delle madri in coppia.
Ridurre la povertà delle famiglie monoparentali passa anche per una politica di sostegno che ne aumenti le risorse
mediante trasferimenti sociali. L’Allocation de parent isolé (API) istituita alla metà degli anni ’70 in aiuto delle madri
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sole in situazione di bisogno è stata soppressa come misura specifica e riversata nel Revenu de solidarité active (RSA)
che ha sostituito il Revenu minimum d’insertion (RMI) nel 2009. In questo modo le famiglie monoparentali non sono
più un target in quanto tali ma solo una categoria della popolazione povera. Di fatto per i genitori soli con diritti
di accesso al RSA la prestazione costituisce un reddito minimo vitale, mentre l’API era percepito piuttosto come
una remunerazione della propria attività di genitore prima che il figlio fosse preso in carico dai servizi educativi. I
trasferimenti sociali e il sistema fiscale contribuiscono a migliorare sensibilmente il livello di vita dei genitori soli.
Dopo i trasferimenti il loro reddito medio passa dal 55% al 68% di quello delle coppie con figli. Nell’insieme i
minori che vivono in famiglie monoparentali hanno un tasso di povertà dopo i trasferimenti inferiore del 40% al
tasso iniziale, pur restando tre volte superiore a quello dei minori che vivono con genitori in coppia.
L’articolazione fra vita professionale et vita familiare : il difficile riconoscimento del modello di famiglia «dual earner, dual
carer»
Il terzo ambito di politica familiare che tratteremo adesso è quello delle risposte alle trasformazioni familiari
interne, in particolare a quelle che risultano dalla crescente partecipazione delle madri al mercato del lavoro.
Questa partecipazione ha infatti indotto una rivoluzione nei rapporti intrafamiliari trasformando il modello del
male breadwinner in uno a due breadwinners. Da più di tre decenni la politica familiare francese si è progressivamente
adattata a questa rivoluzione silenziosa grazie ad una riassegnazione delle prestazioni, nel senso del sostegno alle
famiglie finalizzato a facilitare il doppio impegno professionale e familiare dei loro membri. Questa sensibilità inizia
alla fine degli anni ’70, quando le coppie a doppia partecipazione diventavano più numerose, con la realizzazione
di una politica di servizi per la prima infanzia e di congedi parentali. In seguito la politica familiare non avrebbe più
smesso di strutturarsi intorno a questi obiettivi di conciliazione fra vita familiare e professionale. Si risponde così
ad una triplice finalità, demografica, di rialzo e mantenimento della fecondità, di responsabilizzazione collettiva
rispetto alla cura ed all’educazione dei bambini, infine, di eguaglianza fra i sessi. Se l’obiettivo demografico è
meno esplicito da qualche anno dato il livello elevato della fecondità in Francia, l’obiettivo della parità fra i sessi
è stato riattivato dapprima all’inizio degli anni 2000 e poi dopo il 2012. Un esame più attento dei dispositivi di
conciliazione rivela tuttavia qualche ambiguità rispetto al riferimento culturale liberista che sottende l’azione
pubblica in questo campo. L’ooposizione fra quadro di riferimento culturale familista da un lato e femminista
dall’altro resta invece di attualità.
Un mutamento di paradigma negli anni ‘70 Come abbiamo accennato prima, all’origine, la politica familiare
mirava a promuovere un modello di famiglia fondato su una stretta divisione dei ruoli fra padre procacciatore di
risorse economiche e regista dell’ordine familiare e la madre incaricata del governo della casa, dell’educazione
dei figli, delle cure ai figli ed ai parenti. Centrata sulla riproduzione questa famiglia doveva essere numerosa.
Le prestazioni familiari consolidavano questo modello mediante diversi meccanismi di compensazione del costo
dei figli e attraverso l’attribuzione di un assegno di salario unico o di madre a casa finalizzato a remunerare le
madri per le loro attività domestiche. L’importo di questo assegno per la madre di due bambini equivaleva negli
anni ’50 al salario di un’operaia, con un forte incentivo quindi all’uscita delle madri dal mercato del lavoro
(Martin 1998). Questa istituzionalizzazione del modello di complementarietà dei ruoli poneva la donna sposata
in una situazione di dipendenza totale dal marito di cui essa era “a carico” per l’aspetto economico e “avente
diritto” per i diritti sociali. Negli anni ’60 e ’70 l’assegno perde di valore fino alla sua soppressione alla fine degli
anni ’70, mentre il modello familiare con due adulti attivi diventava dominante. Nel 1976 le coppie a doppia
partecipazione diventano maggioritarie. E’ questo il momento del cambio di paradigma della politica familiare,
quando la generazione dei baby-boomers, ora adulta non adotta più i comportamenti della generazione dei loro
genitori. Non solo le donne baby- boomers non si nascondono più dietro il matrimonio per proteggersi ma
fanno la scelta dell’autonomia e prendono le distanze dallo statuto di sposa e madre. Non solo aspirano ad avere
un’attività professionale ma controllano meglio la loro fecondità. La politica familiare cerca allora di rispondere
alle aspirazioni delle donne a lavorare e ad avere dei figli, riducendo il possibile conflitto fra i due impegni.
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Le misure di “conciliazione fra lavoro e vita familiare” cercano di tenere conto di questa doppia aspirazione,
soprattutto per limitare il calo di fecondità che potrebbe derivare da un impegno professionale troppo intenso. A
partire dal 1972 nasce una misura compensativa del costo della custodia dei bambini per le famiglie a basso reddito
in cui la madre lavora. Successivamente, a partire dagli anni ’80 si sviluppano i servizi collettivi per i bambini
sotto i tre anni con l’appoggio delle caisses d’allocations familiales, mentre si generalizza progressivamente la
scuola materna per i bambini da 3 a 6 anni. Nel 1990 si introduce un aiuto per l’impiego di una assistente materna
riconosciuta (AFEAMA). Il complément familial, un assegno destinato alle famiglie a basso reddito viene ridefinito
nel 1982 in un senso più favorevole alle famiglie a doppia partecipazione e alle madri sole attive sul mercato.
Nel 1985 viene introdotta l’Allocation parentale d’éducation (APE) destinata ai genitori che interrompano l’attività
lavorativa per occuparsi dell’educazione di un terzo figlio o di un figlio di ordine superiore. Questa misura sarà
molto criticata, in particolare da alcune correnti femministe e da alcuni sindacati che vedranno nella misura un
incentivo alle madri al ritorno a casa per la cura dei figli, allontanandosi dell’impiego attivo e da ciò che permette
l’autonomia economica.
Il quadro di riferimento culturale della «libera scelta» e le sue ambiguità La politica di conciliazione si articola su
due grandi tipi di misure:
- Servizi educativi per i bambini sotto i tre anni e scuola materna per quelli da tre a sei
- Un congedo parentale lungo (tre anni) accoppiato in certe condizioni di attività lavorativa precedente la
nascita con un assegno per il genitore che non usufruisce dei servizi
La politica di conciliazione può assumere sia la forma di sovvenzioni per le attrezzature ed i servizi, di assegni
versati ai genitori che di deduzioni fiscali
Nel momento della sua introduzione l’APE era sottoposta a condizioni di accesso assai restrittive (numero dei
figli, esperienza lavorativa pregressa…) ed ha polarizzato il dibattito fra familisti e femministe, poiché i primi
aspiravano ad un assegno che remunerasse il lavoro della madre e le seconde rifiutavano ogni forma di prestazione
che potesse indurre le madri a rinunciare all’impiego. In questa querelle fra modernisti e tradizionalisti il governo
ha assunto una posizione di compromesso in nome della libertà di scelta delle madri di almeno tre figli, che
potessero riprendere l’attività lavorativa al termine del congedo di maternità o smettere di lavorare per crescere
i loro figli fino a quando il più piccolo arrivasse a tre anni, età di ingresso alla materna. L’assegno è forfettario e
non calcolato sul salario precedente, l’importo abbastanza basso. Le condizioni di accesso sono state modificate
molte volte, nel 1994 per estendere il diritto alle madri di due figli, nel 2004 per riversare la misura nella nuova
Prestation d’accueil du jeune enfant (PAJE). Ma fino dalla sua introduzione questa allocazione ha sempre suscitato
controversie. In particolare viene criticata per le sue conseguenze sulle disuguaglianze non solo fra uomini e
donne ma anche fra donne e donne.
In effetti il principio giustificativo dell’azione politica che sottolinea la libertà di scelta dei genitori (di lavorare
o di occuparsi dei figli) deve essere confrontato con le pratiche d’uso dei servizi di cura dei bambini. Se si considera
l’insieme dei bambini sotto tre anni, la maggior parte (61%) è accudita dai genitori in congedo di maternità o
parentale o anche con altre soluzioni (ONPE, 2014). Quando i due genitori lavorano a tempo pieno la maggior
parte dei figli è affidata ad un terzo, che sia una assistante meternelle, un nido o più di rado una persona salariata
a domicilio. La diversità delle soluzioni di cura risponde almeno in parte alle diverse aspirazioni dei genitori : un
terzo dei genitori intervistati nel barometro sulla prima inanzia dichiarano che vorrebero occuparsene loro stessi,
mentre un quarto preferirebbe un nido, il 26% preferirebbe una assistante maternelle e il 17% non privilegia a
priori nessuna soluzione (Boyer, Pélamourgues 2013).
Ma le preferenze dei genitori sono lungi dall’essere soddisfatte e un buon numero deve venire ad una
transazione tra le soluzioni disponibili e i propri mezzi finanziari. Di conseguenza la famosa libertà di scelta della
soluzione di cura dei figli deve essere relativizzata. Nei servizi di cura collettivi il costo è calcolato in funzione del
reddito dei genitori e questo rende il nido particolarmente attraente per le famiglie a redditi bassi, ma la mancanza
cronica di posti non permette a tutte le famiglie che lo desidererebbero di accedervi. Ricorrere ad una assistante
maternelle è quindi spesso una soluzione di ripiego ma il suo costo non è riportato al reddito e la possibilità di
non pagare i contributi o le deduzioni fiscali possibili impiegando una assistante maternelle o una tata permettono
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un alleggerimento limitato. Le famiglie a basso reddito quindi non ricorrono a queste soluzioni ma piuttosto al
congedo parentale col rischio di difficoltà ulteriori per tornare sul mercato del lavoro.
Dalla sua introduzione3 anche il congedo parentale è stato oggetto di critiche, soprattutto per la sua lunghezza
(tre anni), del suo modo di compensazione (a forfait) e delle sue conseguenze sulle carriere professionali delle
donne. Il congedo parentale è stato continuamente denunciato da alcune correnti femministe e dall maggior parte
dei partiti politici di sinistra per i suoi effetti sulle disuguaglianze fra uomini e donne. La contestazione derivava
dall’idea che il congedo fosse molto simile ad una sorta di salario materno finalizzato all’uscita delle donne dal
mercato e alla restaurazione di un modello familiare obsoleto (Jenson, Sineau 1995). Le riforme successive del
congedo e soprattutto della sua compensazione non sono riuscite a superare le contestazioni di cui è stato fatto
oggetto. La sua apparente neutralità al genere (è accessibile a ambedue i genitori) non riesce ad incentivare i padri
ad utilizzarlo visto che meno del 4% dei padri aventi diritto vi ricorre. L’incentivo al congedo a tempo parziale
ha avuto più successo poiché la proporzione di madri che ricevono il CLCA (Complément libre choix d’activité)4 a
tempo parziale continua ad aumentare, limitando il distacco dal proprio lavoro. E tuttavia, se da un lato il congedo
a tempo parziale permette di mantenere un legame col posto di lavoro, le ricerche sui percorsi professionali
dimostrano che queste stesse madri restano spesso a tempo parziale anche dopo la fine del congedo (Boyer,
Nicolas 2012). Esiste una segmentazione delle modalità di conciliazione fra lavoro e vita familiare in funzione della
collocazione sociale delle madri. Quelle che hanno un livello di educazione e qualificazione elevato usufruiscono
poco del congedo e riprendono il lavoro dopo la fine del congedo di maternità, cioè quando il neonato ha circa tre
mesi; le madri meno qualificate e con i salari più bassi prendono un congedo parentale a tempo pieno e smettono
temporaneamente di lavorare prima di riprendere un lavoro, molto spesso nel mercato del lavoro precario. Una
parte delle madri di classe media opta per un congedo parentale a tempo parziale che permetta di combinare
maternità e lavoro. In tutti questi casi gli uomini sono poco inclini a interrompere la loro attività. In conclusione,
mentre la defamilizzazione delle attività educative è stata realizzata per i bambini da tre a sei anni inclusi nel sistema
educativo, la defamilizzazione resta parziale per i bimbi più piccoli. L’ultima riforma del congedo parentale del
2014, voluta dalla ministra delle pari opportunità aveva l’obiettivo di rendere il congedo più egualitario. Il CLCA
è stato ribattezzato per l’occasione PrePare (Prestation partagée d’éducation de l’enfant). Le condizioni di accesso a
questa prestazione sono state modificate in senso più egualitario.
Per ottenerla i genitori di un neonato debbono interrompere totalmente o a tempo parziale l’attività
professionale per sei mesi al massimo per il primo figlio, per tre anni per il secondo, ma condizione in questa
seconda fattispecie che il padre o l’altro genitore prenda almeno un anno di congedo. La prestazione può essere
attribuita ad uno solo o a tutti e due i genitori, successivamente o simultaneamente. La finalità è quella di incidere
sui comportamenti dal momento chela parte riservata al madre non è trasferibile alla madre. Se il padre non fa
valere il suo diritto, lo perde. La volontà dichiarata di coinvolgere maggiormente i padri nelle attività genitoriali
che era già obiettivo del governo socialista nel 2002 quando è stato introdotto il congedo di paternità, confligge
con il problema più strutturale della compensazione del congedo A differenza della riforma tedesca del congedo
che ha fissato la remunerazione in funzione del salario precedente, come nei paesi nordici, la compensazione in
Francia resta forfettaria e di importo contenuto, il che può incentivare solo le famiglie a basso reddito.
Di fatto la riforma del 2014 risponde di più a preoccupazioni di bilancio che ad una vera esigenza di promuovere
una reale eguaglianza fra uomini e donne nella sfera lavorativa come in quella domestica. Il risultato della riforma
è stato anche quello di ridurre la durata del congedo parentale per le madri di più di due bambini e quindi di
generare dei risparmi per la politica familiare. Per quanto invece riguarda la auspicata partecipazione dei padri
alle attività genitoriali restano tutti i dubbi, specialmente in circostanze economiche sfavorevoli. Da ultimo
l’eguaglianza di genere fa sempre fatica ad avere un posto nella politica familiare.
3 Il diritto dei lavoratori dipendenti al congedo parentale è stato istituito nello statuto del lavoro del 1977. Ma il diritto all’allocazione
parentale per l’educazione (APE) finanziata dalle Caisses d’allocation familiales è stato introdotto solo nel 1985.
4 Il CLCA (complément libre choix d’activité) ha sostituito l’APE (allocation parentale d’education) nel 2004 quando il sistema delle prestazioni per
i bambini piccoli è stato ristrutturato mediante una unica prestazione, la PAJE (prestation d’accueuil du jeune enfant). La possibilità di prendere
un congedo a tempo parziale ha avuto l’effetto di limitare ul numero delle madri in congedo a tempo pieno (per una diminuzione del 16% dei
beneficiari del congedo a tempo pieno tra il 2006 e il 2013).Sono in particolare le madri di classe media che scelgono il congedo a tempo parziale.
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Familismo vs. parità di sesso: due principi sempre antagonisti? Anche nel caso in cui la partecipazione delle madri al
mercato del lavoro sia alta, esse continuano a garantire una gran parte delle attività domestiche. Numero ed età dei
figli influiscono sull’attività professionale delle madri e il condizionamento è tanto più marcato quanto più basso è
il loro livello di formazione. Il tasso di attività delle madri da 25 a 49 anni varia dal 92% di media per le madri di
un figlio unico al 59% di quelle che hanno quattro figli o più, mentre il tasso di attività degli uomini mostra solo
deboli variazioni secondo il numero dei figli. Le madri di famiglie numerose hanno più di frequente bimbi piccoli
di cui si prendono cura da sole con un conseguente abbattimento del tasso di attività. Sono anche in misura minore
diplomate, altro elemento che abbatte la presenza sul mercato del lavoro: per le madri di un solo figlio il tasso di
attività varia da 80% per quelle senza titolo di diploma a 96% per le titolari di un diploma superiore. Con due figli
il tasso scende di tre punti percentuali, a una media di 89% ma con una variazione da 75% per le donne prive di
diploma a 94% per quelle con un diploma superiore. Così per le titolari di un diploma superiore avere uno o due
figli non fa quasi differenza, ma più il livello di educazione è basso e più è visibile l’effetto della maternità sul tasso
di attività. L’effetto è ancora più netto dopo il terzo figlio, caso in cui il tasso di attività scende al 78% di media
con una variazione che va dal 61% per le donne prive di diploma a 89% per le titolari di un diploma superiore.
La caduta del tasso di attività fra il secondo e il terzo figlio supera così i dieci punti percentuali in media, ma sono
quasi 15 punti per le madri prive di diploma e 5 per le titolari di un diploma superiore (Blanpain, Lincot 2015).
Se le politiche di conciliazione hanno incontestabilmente reso possibile la partecipazione delle madri al
mercato del lavoro pur mantenendo ul livello elevato di fecondità, la politica familiare continua ad avere difficoltà
nell’integrare il principio di eguaglianza fra uomini e donne nei suoi obiettivi. Storicamente la politica delle
pari opportunità è arrivata più tardi sull’agenda politica, quasi trenta anni dopo la politica familiare. L’obiettivo
principale delle pari opportunità era centrato sul mondo del lavoro per permettere alle donne di emanciparsi
economicamente (Dauphin 2010). Negli anni ’80 e ‘90, la politica familiare è stata condizionata da ingiunzioni
contraddittorie nei confronti delle donne, cercando di accompagnare le loro aspirazioni alla partecipazione al
mercato ma sempre temendo che l’emancipazione attraverso il lavoro avrebbe comportato ineluttabilmente una
caduta della natalità, il tallone di Achille di questa politica.
Gli oppositori di una politica di facilitazione del lavoro delle madri avevano anche il timore, come ricordavamo
prima, di una destabilizzazione della famiglia e dei valori su cui si fonda. L’idea di una famiglia meno gerarchica e
più democratica nel suo funzionamento, più egualitaria dal punto di vista dei diritti individuali poteva spaventarne
alcuni, in particolare le associazioni familiari più conservatrici. Ecco il perché gli ambiti di competenza della
politica familiare e della politica di pari opportunità sono rimasti a lungo impermeabili l’uno all’altro. Ciascuno
di questi due campi politici ha i suoi specifici reticoli di influenza, le associazioni familiari e i partiti conservatori
nel primo caso, le associazioni femministe e i movimenti politici della sinistra nel secondo. E’ solo nell’ultimo
decennio che il ministero delle pari opportunità si è interessato all’articolazione fra lavoro e vita familiare, ambito
tradizionalmente di competenza della politica familiare. Dall’inizio degli anni 2000 la conciliazione lavoro famiglia
viene vista come un corollario dell’eguaglianza dei diritti fra uomini e donne. Certamente la strategia europea
per l’impiego non è estranea a questo cambiamento di paradigma. E il lavoro delle donne non è più visto come
una opzione ma come una necessità che discende dal principio di eguaglianza. I dispositivi per la conciliazione non
sono più visti prioritariamente come un mezzo per mantenere alta la natalità ma, prima di tutto, come un mezzo
per facilitare la vita quotidiana dei genitori e come strumento di eguaglianza. Le stesse controversie sull’uso del
termine “conciliazione” illustrano il conflitto fra le due prospettive : quella della politica familiare, da un lato,
che utilizza il termine per specificare la sua politica dei servizi per l’infanzia, includendovi la compensazione
della perdita di reddito dovuta al congedo parentale (mediante la PAJE) e, dall’altro, quella della politica di pari
opportunità che rifiuta il termine stesso di conciliazione giudicato troppo familista e consensuale, preferendo
il termine articolazione che è riferito ai tempi di vita e ai dispositivi di sincronizzazione dei tempi sociali più in
generale. Certo il discorso politico si è evoluto verso una considerazione più puntuale dell’eguaglianza fra uomini
e donne. Tale evoluzione è sintomo dell’affrancamento dall’ordine di genere tradizionale verso un regime che si
potrebbe qualificare come “paritario” utilizzando le denominazioni di Nancy Fraser (1994), nella prospettiva della
progressione verso un regime più egualitario.
E tuttavia questa ricomposizione discorsiva nell’arena politica costituisce un indicatore molto limitato del
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mutamento effettivo. Nella pratica la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili si realizza molto lentamente. A
dispetto di un forte impegno dello Stato nei servizi educativi per la prima infanzia che contribuisce indiscutibilmente
alla defamilizzazione dei compiti di cura, la configurazione dei congedi parentali ed i principi che li hanno ispirati
sinora hanno limitato tale defamilizzazione, e questi limiti pesano tanto più quanto più la qualificazione delle
donne sul mercato del lavoro è limitata. Mentre i bisogni dei bambini non vengono rivisti al basso nemmeno in
tempi di restrizioni di bilancio, la configurazione dei congedi resta favorevole al self-care. La condivisione con i
padri di una parte del congedo resta una intenzione lodevole, ma ha scarsa probabilità di accelerare la dinamica
del regime di genere verso un modello dual earner-dual carer.
Conclusioni
Le riforme recenti della politica familiare segnano incontestabilmente dei progressi nel riconoscimento delle
trasformazioni che colpiscono le forme della vita familiare. Tali riforme hanno trovato impulso da parte del nuovo
governo arrivato al potere nel 2012, e sono state sorrette da una volontà di ridurre le disuguaglianza fra uomini e
donne, sia nella sfera privata che nella sfera pubblica, e in particolare sul lavoro. Con la istituzione del matrimonio
per tutti e la volontà di incentivare la co-genitorialità, e il rafforzamento dei dispositivi di conciliazione fra lavoro
e vita familiare, il quadro di riferimento culturale egualitario ha trovato il suo posto nella politica familiare, a
scapito delle resistenze al cambiamento che si sono fortemente manifestate nel corso degli anni 2013 e 2014.
Tali resistenze derivano da forze conservatrici che esprimono una certa capacità di presa delle forze cattoliche
tradizionali. La capacità di stallo di questi oppositori delle riforme ha limitato l’azione di governo. Non solo la
presentazione al Parlamento del progetto di legge sulla famiglia è stata rimandata, ma le stesse riforme sono
state limitate nei loro obiettivi. Un certo numero di proposte di riforma formulate dai gruppi di lavoro istituiti
dal governo nel 2012-2013 non sono arrivate in fondo a causa delle opposizioni sollevate. Questo riguarda in
particolare la procreazione medicalmente assistita, la maternità surrogata, lo statuto del terzo genitore nelle
famiglie ricomposte. Il rimando delle riforme che investono la filiazione attesta la capacità di bloccaggio delle
forze conservatrici affezionate a una forma di ordine morale.
Il familismo continua ad essere pervasivo nella politica familiare francese, sia nei suoi orientamenti valoriali
che nella sua strutturazione. La politica familiare resta centrata sulla famiglia in quanto cellula strutturante della
società. La difficoltà a introdurre un diritto dei bambini ai servizi per la prima infanzia è da questo punto di vista un
esempio emblematico della resistenza della società francese alla individualizzazione dei diritti sociali. La questione
dei servizi di custodia per la prima infanzia resta pensata in funzione del lavoro dei genitori e non in funzione dei
bisogni propri dei bambini come avviene nei paesi nordici. Allo stesso modo i redditi minimi assistenziali restano
dei diritti familizzati la cui entità dipende dal reddito del ménage e non dalla situazione personale degli individui,
sempre sulla base della supposizione che le coppie mettano in comune le loro risorse. Da ultimo la famiglia resta
una fonte di diritti e di vantaggi al momento del pensionamento. In sovrappiù il matrimonio resta nella maggior
parte delle situazioni la condizione per beneficiare dei diritti familiari come ad esempio nel caso delle pensioni
di reversibilità. L’ideologia familista resiste a dispetto del crollo delle sue basi sociali. La resistenza del familismo
s’incarna nella preoccupazione di conservare i due ordini fondativi della politica familiare francese: l’ordine sociale
e l’ordine sessuato. La famiglia è un impegno verso la coesione sociale, contro l’individuo e i valori promossi nel
nome della libertà individuale. La famiglia resta egualmente per alcuni un baluardo contro il disordine morale
che s’instaurerebbe nella società dal momento in cui si mettono in forse i valori che essa incarna, in particolare
i valori morali. I movimenti di opposizione alle riforme che si sono manifestati nelle piazze indicano che sono in
gioco due concezioni dell’azione pubblica: una concezione conservatrice qui concepisce l’azione pubblica come
garanzia di un ordine sociale e sessuato, e una concezione più “modernista” che la concepisce come risposta alle
trasformazioni che investono la società e la vita familiare in particolare.
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DOI: 10.1400/234054 Brunella Casalini
[Nel best interest dei bambini e delle madri surrogate]
Title: In the Best Interest of Children and Surrogate Mothers
Abstract: The aim of this article is to provide a short overview of some recent decisions of the EctHR
regarding children born to surrogate mothers abroad. These decisions have to be celebrated as they
recognize the best interest of the child. They seem to live the member states with few options to
enforce their legislation against surrogate motherhood arrangements once a child is born. Things so
standing, it is suggested that states should consider the possibility of legalizing surrogate motherhood
to avoid being complicit with global and local inequalities.
Keywords: Surrogate motherhood, Procreative Tourism, de Facto Family, the Best Interest of the Child,
European Court of Human Rights.
Le trasformazioni del moderno sistema di produzione post-fordista sono oggi strettamente intrecciate a profondi
mutamenti delle forme della “riproduzione sociale”, termine con il quale si fa riferimento a tutto quell’insieme
ampio e delicato di problemi che ha a che fare con la riproduzione della forza lavoro, la riproduzione delle forme
del legame sociale e comunitario e, in primo luogo, con l’organizzazione sociale della riproduzione della specie
(Bakker 2003), quindi anche con le scelte di fare o non fare figli e di come metterli al mondo dal momento che le
vie tradizionali non sono più le uniche percorribili grazie alle nuove tecnologie riproduttive. Il sempre più ampio
ricorso oggi alla maternità surrogata è sicuramente la questione che meglio mostra come i cambiamenti in corso
nel sistema della riproduzione sociale sollecitino una continua ridefinizione del rapporto tra sfera pubblica e
sfera privata, tra politico e personale, e una vera e propria riscrittura, almeno nei paesi ricchi dell’Occidente, del
“contratto sessuale” (Pateman 1997)1. È lo stesso processo di riproduzione biologica oggi a oltrepassare i confini
dello spazio privato familiare per estendersi al mercato del lavoro, del così detto “biolavoro” (Cooper, Waldby
2014: 29), un mercato caratterizzato da una evidente stratificazione della cura e della riproduzione secondo linee
di classe, etnia e “razza”2 (Rapp 2011). La possibilità di separare sessualità e riproduzione ha portato all’emergere
di un nuovo modo di concepire la produzione di esseri umani e all’affermarsi di una nuova concezione della
genitorialità (Flamigni 2015): l’essere aiutati, grazie alle nuove tecnologie riproduttive, a fare un figlio viene
sempre più sentito come rientrante nell’ambito della libertà di autodeterminazione e di autorealizzazione e
da alcuni rivendicato come un desiderio talmente forte da essere percepito come un bisogno e quindi come
Questo lavoro è debitore verso tutti i relatori presenti al seminario sulla maternità surrogata, organizzato da Elena Urso nell’ambito del Corso di sistemi
giuridici comparati avanzato, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, il 27 aprile 2015. Da tutti loro ho imparato moltissimo.
Ringrazio, in particolare, oltre a Elena Urso: Octavio Salazar Benítez, AntonioVallini, Michele Papa, Ester di Napoli, Ilaria Giannecchini, Stefano Biondi
e Anthoula Tekidou.
1 Non è questo il luogo per poter approfondire il discorso, ma gli attuali processi di esternalizzazione del lavoro di riproduzione sociale
- o di outsourcing of the self, come li definisce Hochschild (2012) - sembrano ridefinire il “contratto sessuale” tra uomini e donne secondo
linee marcate sempre più dall’età, dalla classe e dalla razza.
2 In tutto l’articolo il riferimento al termine “razza” rimanda all’accezione in cui esso è usato in un’ampia letteratura scientifica che va
dalle teorie dell’approccio intersezionale, ai critical race studies, ai postcolonial studies – per fare solo alcuni esempi. Non si fa riferimento
qui all’esistenza biologica delle razze, ma alla “razza” come costrutto sociale che, come il “genere” ha una realtà sociale per gli effetti
concreti che il fatto di essere “bianchi” o “neri” produce sulla vita delle persone.
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il fondamento di un vero e proprio diritto ad avere un bambino3. Che esista un diritto di fare figli è questione
eticamente controversa, così come lo è che tipo di famiglia possa essere considerata legittima titolare di questo
diritto, se di un diritto si tratta, nel momento in cui le famiglie assumono forme sempre più plurali e considerato
il desiderio di tanti single e tante coppie di fatto e omosessuali di avere un bambino.
Su temi eticamente sensibili come questi sarebbe sempre opportuno che le scelte pubbliche si muovessero con
cautela e attenzione alla realtà concreta più che privilegiando astratti formalismi, per non trovarsi a imporre rigidi
divieti che rischiano di risultare solo ideologici ed eticizzanti (come nel caso italiano è chiaramente risultato dal
destino che fin qui ha caratterizzato la legge 40) e tali da venire nei fatti scavalcati da soluzioni che consentono
di aggirarli – come è accaduto e accade nel nostro paese grazie al fenomeno del c.d. “turismo procreativo”,
che qualcuno preferisce definire “esilio procreativo”, perché quest’espressione meglio rende ragione delle molte
difficoltà che le coppie sterili devono affrontare quando si trovano costrette a rivolgersi a cliniche estere (Inhorn,
Patrizio 2009), e qualcun altro, in modo più neutrale, chiama cross-border reproductive care (Inhorn, Gurtin 2011).
Il rapido sviluppo della ricerca scientifica e i tempi sempre più veloci dell’innovazione tecnologica in questo
ambito hanno prodotto mutamenti importanti della morale e del senso comune sulle questioni relative alla vita
riproduttiva – sicuramente più lenti rispetto alle innovazioni tecnologiche e scientifiche, ma pure sensibilmente
evidenti proprio guardando al sempre maggiore ricorso alle nuove tecnologie riproduttive, compresa la maternità
surrogata, l’unica strada percorribile, quando fallisce l’adozione, per donne cui sono stati asportati utero e ovaie
e per le coppie gay. Sui mutamenti della morale e del senso comune che spingono in direzione di una inedita
“produzione di bambini” agisce la capacità di queste nuove biotecnologie di soddisfare importanti desideri, quale
quello di mettere al mondo un bambino, mediante la prospettiva di sempre più ampi spazi di libertà dal nostro
destino biologico.
Per quanto riguarda la maternità surrogata, vietata dalla legge 40, dai dati raccolti nel 2012 dall’Osservatorio
sul turismo riproduttivo contattando 33 centri/agenzie in 7 paesi (Stati Uniti, Grecia, Russia, Ucraina, Georgia,
Armenia e India) risulta che nel 2011 le coppie italiane che vi hanno fatto ricorso all’estero sono state 32, per
lo più rivolgendosi a cliniche russe e ucraine (Osservatorio 2012). In Francia, dove pure è illegale, nel 2011
risultavano 200 i bambini nati al di fuori del territorio nazionale attraverso la maternità surrogata (Barret 2014).
In alcune recenti sentenze la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU)4, sempre attenta a rimanere
in equilibro sul difficile crinale del rispetto dell’autonomia degli stati e della salvaguardia dei diritti umani
fondamentali, ha preso posizione in direzione di una definizione sempre più precisa e stretta dei margini di
apprezzamento entro i quali possono muoversi gli stati che hanno vietato la maternità surrogata nel proprio
ordinamento per ragioni di ordine pubblico, ovvero per ragioni che hanno a che fare con i principi etici o politici
ritenuti essenziali per l’esistenza stessa dell’ordinamento giuridico. Ricordo qui i contenuti di queste recentissime
e importanti decisioni della CEDH che per la prima volta toccano espressamente questo tema per poi sviluppare
alcune considerazioni più generali.
Nelle sentenze Labassée c. Francia e Mennesson c. Francia (26 giugno 2014), la Corte si è espressa sul rifiuto della
Corte di Cassazione francese di registrare l’atto di filiazione di due coppie di coniugi, che a causa della sterilità
delle rispettive consorti, sono ricorse entrambe alla gestazione per sostituzione (con ovociti non appartenenti alla
madre surrogata) negli Stati Uniti, rispettivamente in Minnesota e California, utilizzando il gamete maschile dei
committenti. In entrambi questi casi, la Corte di Strasburgo ha fatto riferimento al principio del best interest del
minore, condannando la Francia alla trascrizione sui registri di stato civile dell’atto di nascita rilasciato negli Stati
Uniti dove i coniugi committenti risultano padre e madre dei bambini.
Nel ragionamento che la Corte ha sviluppato in queste due sentenze la nozione d’identità risulta centrale al fine
di giustificare una restrizione del margine di azione dello Stato in materia di gestazione per sostituzione (Giugni
3 Originariamente la rivendicazione di un diritto a procreare era volta a limitare l’ingerenza dello Stato nelle scelte riproduttive, per
esempio attraverso la sterilizzazione forzata o al fine di affermare la libertà della donna di scegliere quando e se avere un bambino o
di ricorrere all’interruzione di gravidanza. Oggi, questa rivendicazione è avanzata anche dalle coppie sterili che chiedono il diritto al
pagamento pubblico delle spese per ricorrere alle tecniche di riproduzione assistita o artificiale. Dalla richiesta del riconoscimento di
un diritto di non interferenza si è passati così alla richiesta del riconoscimento di un diritto che comporta forme di sostegno in vista del
ricorso alle nuove tecnologie riproduttive. Sul tema, v. Warnock 2002; Eijkholt 2010.
4 Il riferimento in bibliografia è inserito come CEDH (Cour européenne des droits de l’homme).
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2014 e Lengrand, Planchard 2015). In particolare la Corte ha ritenuto la filiazione un aspetto fondamentale
dell’identità personale di un individuo e della sua vita privata, secondo l’art. 8 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo. Se, ad avviso della Corte, lo status giuridico imperfetto e, quindi, l’incertezza giuridica della
situazione di bambini nati attraverso la maternità surrogata all’estero non hanno creato difficoltà insormontabili
alle due coppie e ai loro bambini a vivere la loro vita familiare, esso senz’altro costituisce, invece, una minaccia
per l’identità dei minori in seno alla società, dal momento che nega loro il diritto alla cittadinanza francese, rende
incerti i loro diritti successori e non dà un riconoscimento ai loro legami di parentela. La Corte, in particolare,
riscontra una importante violazione del diritto all’identità e alla vita privata del minore nella negazione della
filiazione paterna, facendo esplicito riferimento alla «l’importance de la filiation biologique en tant qu’élément de
l’identité de chacun» (v. Mennesson c. Francia, §100). Scindendo la posizione giuridica dei figli da quella dei genitori
e soffermandosi sulla negazione del legame biologico esistente tra il padre e i figli nati mediante la maternità
surrogata, la CEDU sembra non spingersi in questo caso in una direzione tale da imporre agli stati di riconoscere
una genitorialità volontaristica, fondata esclusivamente sull’intenzione e la responsabilità, e scissa da qualsiasi
legame biologico – passo in direzione del quale qualche spiraglio si apre, sebbene con una serie di precisazioni che
vedremo tra breve5, nella sentenza che riguarda il caso italiano6.
Le due sentenze appena ricordate, divenute definitive il 27 settembre del 2014, si impongono come vincolanti
per la Francia e costituiscono un riferimento ineludibile per gli altri stati firmatari della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo. Ad esse già si sono richiamate diverse sentenze emesse alla fine del 2014 da alcuni tribunali
italiani (Trinchera 2014). Secondo le associazioni dei militanti in favore della maternità surrogata, nel caso
francese, la decisione della Corte europea rappresenta la possibilità di un epilogo felice per la storia di circa 2.000
bambini nati all’estero da madri surrogate che hanno vissuto fin qui in Francia in una condizione di fondamentale
incertezza sul piano giuridico, al punto da essere stati soprannominati fantômes de la République.
La sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia (27 gennaio 2015) presenta, come dicevo, ulteriori elementi di interesse
rispetto a quanto affermato dalla CEDU nel 2014. Le differenze fondamentali rispetto ai casi precedentemente
menzionati stanno nel fatto che nessuno dei coniugi risultava genitore biologico del figlio nato sulla base di un
contratto di maternità surrogata stipulato in Russia e che il tribunale italiano ha sottratto il bambino alla coppia
Paradiso e Campanelli, con la quale era vissuto per i suoi primi sei mesi di vita, decidendone prima l’affidamento
ai servizi sociali e quindi l’adottabilità. Non potendosi appellare qui alla filiazione biologica quale elemento
fondamentale dell’identità, la Corte ha fatto riferimento a due elementi: alla buona fede dei genitori committenti
relativamente al fatto che l’assenza del legame biologico fosse dovuta ad un errore la cui responsabilità non
fosse loro imputabile e all’esistenza di una vita familiare de facto che si era stabilita tra i genitori committenti e
il bambino e alla conseguente applicabilità dell’art. 8 CEDU al caso di specie, ammettendo il ricorso. I sei mesi
trascorsi dalla coppia con il bambino sono stati considerati sufficienti perché si creasse un legame familiare. Su
questa base la Corte ha ritenuto di poter considerare le misure adottate dalle autorità italiane un’illegittima
interferenza nella vita privata e familiare. Anche se l’attività delle autorità italiane è stata motivata dall’esigenza
di porre termine ad una situazione illegittima, la Corte ha rilevato che l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico
5 Ringrazio uno dei due referee anonimi della rivista per i suggerimenti che mi ha voluto offrire relativamente alla sentenza Paradiso
e Campanelli, che sarà oggetto di un riesame da parte della Corte, dopo che la Grande Chambre ha accolto, il 1 gugno 2015, l’istanza
presentata dal Governo italiano.
6 Di diverso avviso è Dominque Mennesson, fondatrice del Comité de soutien pour la Légalisation de la GPA (Gestation Pour Autrui) et l’Aide
à la Reproduction Assistée (C.L.A.R.A.), che in un suo intervento del gennaio 2015, fa notare: «L’arrêt s’appuie largement sur le rapport
Théry-Leroyer (paragraphe 38) qui préconise l’abandon du modèle pseudo-procréatif au profit d’une logique de responsabilité. Les
juges terminent leur analyse en citant la proposition ‘‘Pour les enfants nés de gestation pour autrui à l’étranger, il est proposé d’admettre
une reconnaissance totale des situations valablement constituées, et ce parce qu’il est de l’intérêt de l’enfant de voir sa filiation établie
à l’égard de ses deux parents d’intention’’. C’est le paragraphe 101 et non le 100 qui entraîne la décision avant que n’apparaisse la
conclusion générale au paragraphe 102. Ce caractère décisionnel du paragraphe 101 est d’ailleurs rappelé au paragraphe 108: ‘‘Eu égard
à sa conclusion selon laquelle il y a eu violation de l’article 8 considéré isolément dans le chef des troisième et quatrième requérantes
(paragraphe 101 ci-dessus), la Cour n’estime pas nécessaire d’examiner le grief tiré d’une violation à leur égard de l’article 14 combiné
avec cette disposition’’. C’est donc bien la non-transcription du lien de parenté avec le père mais aussi avec la mère qui a entraîne la
condamnation de la France» (Mennesson 2015).
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non può essere utilizzata in modo automatico, senza prendere in considerazione il miglior interesse del minore e
la relazione genitoriale (sia essa biologica o no): «la référence à l’ordre publique ne saurait tout fois passer pour
une carte blanche justifiant toute mesure, car l’obligation de prendre en compte l’intérêt superieur de l’enfant
incombe à l’État indépendamment de la nature du lien parental, génétique ou autre» (§ 80). In questo caso, quindi,
sebbene non si tratti di una decisione definitiva, e molto abbia contato la considerazione relativa alla “buona fede”
dei genitori committenti circa l’esistenza di un legame biologico che di fatto si è poi dimostrato inesistente,
la Corte ha aperto quanto meno uno spiraglio alla possibilità di un riconoscimento della famiglia fondata sulla
sola intenzione anche nei casi di maternità surrogata. Già in passato la Corte si era espressa in questo senso,
riconoscendo l’esistenza di vincoli genitoriali in assenza di un legame biologico, ma non con riferimento alla
maternità surrogata. Basta pensare al caso X e altri c. Austria del febbraio 2013, nel quale la Corte di Strasburgo ha
condannato l’Austria per aver negato ad una donna il diritto ad adottare il figlio della compagna, come permesso
alle coppie di fatto eterosessuali. La Corte EDU ha riconosciuto che la coppia viveva da tempo insieme in modo
stabile e che insieme aveva provveduto alla cura del figlio di una delle due, per cui la relazione tra i tre poteva
ben essere ricompresa nella nozione di “vita familiare”. Con un combinato disposto dell’art. 14 e 8 della CEDU,
la Corte ha quindi riconosciuto il diritto della coppia omosessuale all’adozione del figlio del partner, la c.d.
step-child adoption, laddove essa è consentita alle coppie di fatto eterosessuali. A questa decisione della Corte di
Strasburgo, che riconosce protezione giuridica nell’interesse del minore a situazioni consolidate, si è richiamato il
Tribunale per i minorenni di Roma accogliendo per la prima volta nel nostro paese, il 30 luglio scorso, nel nome
dell’interesse del minore, la richiesta di adozione avanzata da una donna convivente della mamma biologica della
bambina7 (cfr. Tribunale per i minorenni di Roma 2014). A X e altri c. Austria, oltre che alle sentenze Mennesson e
Labassée, ha fatto inoltre riferimento un’altra storica sentenza recente, del 29 ottobre 2014, emessa dalla Corte
d’Appello di Torino, che ha riconosciuto a una coppia di donne lesbiche la maternità congiunta di un bambino nato
in Spagna con fecondazione assistita eterologa, nella quale entrambe le madri hanno dato un contributo biologico,
perché una delle due donne ha donato i gameti all’altra. Le due donne sono sposate e successivamente divorziate
in Spagna. Una delle due è spagnola e l’altra italiana. In seguito al divorzio il tribunale spagnolo ha concesso
l’affidamento congiunto alle due madri. Il tribunale italiano ha riconosciuto il diritto della madre italiana ad
ottenere la trascrizione dell’atto di nascita del bambino, perché la mancata trascrizione potrebbe ledere il diritto
all’identità personale del minore e avrebbe conseguenze negative sia in relazione al suo status in Italia sia ai fini della
sua libera circolazione. La Corte d’Appello di Torino ha ricordato che secondo la CEDU «le relazioni omosessuali
non saranno più comprese soltanto nella nozione di “vita privata” bensì nella nozione di “vita familiare” contenuta
nell’articolo 8 (nello stesso senso la recente Corte EDU n. 19.2.2013 X e altri c. Austria; 7.11.2013 Vallianatos
e altri c.Grecia ric. nn. 29381\09 e 32684\09; 12.12.2013, C- 267,Hay)» (Corte d’Appello di Torino 2014)8.
Al di là delle differenze o continuità che, a seconda delle interpretazioni, si possono rintracciare tra le tre
sentenze CEDU sopra ricordate, una linea principale, coerente e comune di ragionamento mi pare chiaramente
riconoscibile: per la Corte l’interesse dei singoli stati a scoraggiare il ricorso alla maternità surrogata è legittimo,
ma se si vuole perseguire questo obiettivo lo si deve fare cercando vie che non ledano l’interesse del bambino,
cercando cioè di non far ricadere sul minore le conseguenze negative dell’atto compiuto dai loro genitori
committenti e quindi tenendo distinti l’illiceità del contratto di maternità surrogata concluso dagli adulti e la
sorte del minore (Lengrand, Planchard 2015). Fin qui, infatti, l’impossibilità o comunque l’incertezza relativa
all’effettiva possibilità di trascrivere gli atti di nascita è stata il principale strumento utilizzato dagli stati per
scoraggiare i propri cittadini dal ricorrere alla maternità surrogata all’estero.
7 La decisione è stata presa in base all’articolo 44 della legge 184 del 1983, modificata dalla legge 149/2001, che contempla l’adozione
in casi particolari. La bambina era stata concepita mediante procreazione assistita in Spagna, dove le due donne si sono anche sposate.
8 Nella sentenza della Corte d’Appello diTorino si legge: «Non è contestabile che, sia sotto l’aspetto etico che giuridico, nell’individuazione
della maternità, come della paternità, a seguito della procreazione medicalmente assistita eterologa, acquisti ulteriore rilievo il concetto
di volontarietà del comportamento necessario per la filiazione e quello di assunzione di responsabilità in ordine alla genitorialità così da
attribuire la maternità e la paternità a quei genitori che, indipendentemente dal loro apporto genetico, abbiano voluto il figlio accettando
di sottoporsi alle regole deontologiche giuridiche che disciplinano la PMA».
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Se ha ragione la Corte EDU a separare l’atto illegittimo degli adulti dal destino del minore, nell’interesse
superiore di quest’ultimo, e quindi a suggerire di scegliere vie alternative per disincentivare il ricorso alla maternità
surrogata, dobbiamo forse cominciare a chiederci quali vie più efficacemente potrebbero essere seguite. Forse,
prima ancora che ricorrere a vie che scoraggino sul piano penale la maternità per sostituzione anche attraverso
accordi bilaterali o multilaterali – come sembra suggerire la Conferenza dell’Aja sul diritto internazionale privato,
che ha cominciato a lavorare su questo tema dal 2011 e nel 2015 affronterà specificamente la questione della
maternità surrogata –, si potrebbe e dovrebbe pensare a misure che la scoraggino incoraggiando scelte alternative.
Penso, per esempio, alla possibilità di rendere più facili le adozioni, che oggi in Italia sono fortemente penalizzate
sia dai tempi di attesa sia dalla complessità dell’iter burocratico e che sono comunque escluse nel caso di single e
coppie gay e lesbiche. Penso anche alla possibilità di facilitare il ricorso ad altre tecniche riproduttive, e da questo
punto di vista non si può non guardare con favore il processo di progressivo smantellamento di tutti i divieti
contenuti dalla legge 40 in Italia. Ancor prima, sarebbe necessario, forse, interrogarsi più seriamente sulle ragioni
e gli ostacoli che inducono oggi tante donne a rimandare le loro scelte riproduttive quando è ormai troppo tardi9.
Deve far, comunque, riflettere la scivolosità della strada indicata dalla CEDU come via privilegiata per
salvaguardare il best interest of the child, ovvero la registrazione delle nascite avvenute all’estero e il riconoscimento
dell’atto di filiazione (strada scelta dalla Spagna nella 2010 e su cui ha fatto di recente un deciso passo indietro il
Tribunale supremo spagnolo con la sentenza del febbraio 2014 – de Toledo 2014), anche nei casi in cui la maternità
surrogata risulti vietata dagli ordinamenti interni degli stati per ragioni di ordine pubblico10. La domanda che
non può non essere sollevata a questo punto è infatti la seguente: se gli stati, pur avendola vietata sul piano
interno, nell’interesse del minore devono comunque registrare la nascita di bambini partoriti all’estero da madri
surrogate, non rischia, forse, di essere leso il principio di equità ed eguaglianza di trattamento verso tutti quei
cittadini che non sono in grado per ragioni economiche di rivolgersi a questa nuova tecnologia riproduttiva
mediante l’esilio procreativo? Indebolendosi il rischio di incorrere in sanzioni, chi ha disponibilità economiche
potrà più facilmente e serenamente compiere la scelta di cercare l’aiuto di madri surrogate all’estero; chi non ha
disponibilità economiche dovrà, invece, rassegnarsi e rinunciare ai propri progetti di genitorialità. Se, come scrive
Carlo Flamigni (2015), la diffusione su scala globale del mercato degli uteri in affitto si deve oggi all’“incontro
tra tecnologie della vita e ingiustizie economico-sociali globali” (le donne che oggi lavorano nell’ambito del
mercato riproduttivo e come madri danno il loro utero in affitto risiedono, tutt’altro che sorprendentemente, in
quegli stessi paesi da cui provengono le lavoratrici migranti impiegate nell’ambito del lavoro di cura o del lavoro
sessuale, care workers e sex workers, nei paesi più ricchi dell’Occidente), sempre più appare evidente che nell’attuale
sistema esse producano nuove diseguaglianze non solo a livello globale, ma anche a livello nazionale. Sembra
infatti configurarsi l’emergere di una cittadinanza censitaria, in cui tutta una serie di diritti sono riconosciuti
effettivamente solo a coloro che godono di un certo status socio-economico che permette di compiere al di fuori
del confini nazionali ciò che in Italia è vietato. Dietro il fatto del turismo o esilio procreativo, d’altra parte, c’è
un’importante realtà che uno Stato democratico non dovrebbe ignorare: è la realtà del pluralismo morale che
viene così costretto a manifestarsi attraverso le forme della mobilità internazionale (Penning 2002) – come pure
sappiamo in relazione al fenomeno del turismo medico per poter far ricorso all’eutanasia legale. Di fronte al fatto
9 Il tasso di fecondità totale in Italia è 1,39% (in calo rispetto agli anni precedenti: 1,42 nel 2012 e1,45 nel 2008). Alla nascita dei figli
l’età media delle madri è 32,1 anni e anche questa è in aumento rispetto agli anni precedenti (Mencarini, Vignoli 2014). Per capire come
la situazione sia andata evolvendo negli ultimissimi anni, basta riportare qui quanto al riguardo veniva scritto in un articolo del 2007:
«Nel nostro Paese meno di una donna su quattro tra le nate a fine anni sessanta è diventata madre prima dei 25 anni (contro oltre una su
tre, ad esempio, di Francia e Svezia). L’età media femminile al primo figlio, inferiore ai 25 anni a metà anni settanta, si trova ora oltre i
28 ed è in continua crescita. In particolare si arriva quasi ai 30 anni nell’Italia centro-settentrionale: uno dei valori più elevati nel mondo
occidentale» (Rosina, Testa 2007).
10 La scivolosità della posizione della Corte EDU emerge anche dalle osservazioni contenute al §19 delle opinioni di minoranza espresse
dai giudici Raimondi e Spano nel caso Paradiso e Campanelli, dove si legge: «[...] la position de la majorité revient, en substance, à nier la
légitimité du choix de l’État de ne pas reconnaitre d’effet à la gestation pour autrui. S’il suffit de créer illégalement un lien avec l’enfant
à l’étranger pour que les autorités nationales soient obligées de reconnaître l’existence d’une «vie familiale», il est évident que la liberté
des États de ne pas reconnaître d’effets juridique à la gestation pour autrui, liberté pourtant reconnue par la jurisprudence de la Cour
(Mennesson c. France, no 6519211), 26 juin 2014, § 79, et Labassee c. France, (no 65941/11, 2 Juin 2014, § 58), est réduite à néant».
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del pluralismo delle visioni filosofiche, morali e religiose comprensive e ragionevoli, come direbbe Rawls (1994),
lo Stato dovrebbe adottare una legislazione quanto più possibile neutrale che lasci al singolo libertà di scelta su
tutti quei terreni che risultano eticamente sensibili e controversi nel rispetto dei diritti individuali dei soggetti
coinvolti.
Se si arriva ad ammettere la registrazione di nascite avvenute all’estero tramite contratti di gestazione per
sostituzione, per le ragioni appena esposte, sarebbe più coerente rendere legale sul piano interno il ricorso a questa
nuova tecnologia riproduttiva e lavorare per produrre un quadro di standard internazionali condivisi, oggi assenti,
al fine di evitare la mercificazione e lo sfruttamento dei bambini e del corpo della donna. Un divieto sul piano
interno, in nome di un eticismo vuoto e astratto, che lascia nei fatti aperto il ricorso al turismo procreativo, rischia
di risultare nient’altro che una forma di ipocrita complicità con un’industria globale della maternità surrogata
che fin qui non ha fatto che rafforzare e ampliare la stratificazione e le disuguaglianze dell’attuale sistema della
riproduzione sociale tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Una regolamentazione sul piano interno darebbe
sicuramente migliori garanzie di arrivare a salvaguardare l’interesse del minore, la salute e i diritti della madre
surrogata, che oggi sappiamo essere spesso messa a rischio in paesi che, come l’India, la Russia e l’Ucraina, che
non prevedono alcuna specifica legislazione a protezione delle madri surrogate, e non tengono sufficientemente
conto del diverso potere contrattuale delle parti nei contratti di surrogazione, squilibrato in favore delle coppie
committenti (cfr. Bala 2014), e non ultimo anche l’interesse degli stessi genitori committenti, oggi in balia del
mercato delle società di consulenza legale, delle agenzie di intermediazione e delle cliniche estere.
La surrogazione può essere sfruttamento e mercificazione del corpo delle donne e dei bambini, come tante
autrici femministe temono, ma può anche essere un’importante esperienza di solidarietà e di reciproca conoscenza
tra adulti maturi e consapevoli, che decidono liberamente di imbarcarsi in questo progetto comune al fine di
dare vita a un nuovo essere umano. Così è stato, per esempio, nell’esperienza di Sandrine, una donna francese di
quarantadue anni, residente negli Stati Uniti, con due figli propri, che ha aiutato prima due coppie sterili e poi
una coppia omosessuale ad avere un bambino, per il piacere di provare ancora l’esperienza della gravidanza senza
la responsabilità di dover crescere un figlio e al tempo stesso poter dare gioia ad altre persone (D’Angelo 2015).
La testimonianza di Sandrine, che tra l’altro racconta di essere rimasta in contatto con la coppia omosessuale alla
quale ha donato un bambino, è un esempio di come uno degli argomenti spesso utilizzati da alcune femministe
contro la maternità surrogata, ovvero che offrire il proprio lavoro riproduttivo sia per una donna di per sé
degradante, risulta semplicistico e riduttivo in alcune circostanze (Satz 2010)11. Come osserva Amrita Pande
(2014), le posizioni di totale chiusura nei confronti della maternità surrogata risultano in genere fondate sulla
rimozione del fatto che sia l’idea del priceless child12 sia quella del rapporto esclusivo tra madre e bambino sono
costrutti sociali molto recenti.
E’ importante quindi prestare attenzione alle condizioni culturali, giuridiche, economiche e sociali in cui il
ricorso alle nuove tecnologie riproduttive, e alla maternità surrogata in particolare, rispetta un quadro di giustizia
riproduttiva, contribuisce ad un ampliamento delle scelte possibili, e ad un mutamento nella percezione sociale
della maternità, piuttosto che a creare nuove forme di controllo sul corpo e sulle scelte riproduttive delle donne.
Con uno sguardo attento alla complessità di una realtà che continuamente sfida le nostre convinzioni, è doveroso
cercare un dialogo sul piano internazionale che porti all’individuazione di regole e buone prassi che tengano
conto dei pericoli di un mercato del lavoro riproduttivo selvaggio, dei valori che vengono promossi mediante
la sua diffusione, delle nuove disuguaglianze prodotte dall’industria del “biolavoro globale” soprattutto in una
prospettiva di genere, delle norme sociali che sembrano venire in parte confermate, ma in parte anche totalmente
sovvertire da queste nuove tecniche che contribuiscono a far crollare il “fondazionalismo biologico” (Franklin
2011).
11 Per una discussione delle diverse posizioni femministe sul tema della maternità surrogata, si veda anche Franklin 2011.
12 Per la costruzione dell’idea del bambino come bene dal valore non quantificabile, si veda Zelizer (1985), testo al quale rimanda la
stessa Amrita Pande.
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[Il fascino discreto delle famiglie omogenitoriali]
Dilemmi e responsabilità della ricerca
Title: The Discreet Charm of Homoparental Families: Research Dilemmas and Responsibilities
Abstract: Facing the deep changes in the visibility and recognition of experiences of non-heterosexual
parenthood in Italy, and the growing attention research has been devoting to them, this article proposes
a sociological contribution to a needed reflection about dilemmas and responsibilities regarding the
definition of the object of research, and the frames provided in the training of workers and volunteers in
addressing these experiences. Prompted by an experience of training on family diversity in Torino, these
reflections focus on how to recognize and avoid the risks of a categorising approach. The perspective of
family practices is proposed as a possible analytical strategy to give account of the plural and situational
ways by which actors give sense to their doing family in everyday life, without refraining from dealing
with the symbolic and institutional weight of this term.
Keywords: Homoparental Families, Family Practices, Italy
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito in Italia ad un cambiamento profondo rispetto alla visibilità, e alle
prospettive di riconoscimento sociale e giuridico, delle esperienze di genitorialità non eterosessuali. Con questi
cambiamenti è fortemente intrecciata l’espansione altrettanto importante della ricerca in ambito giuridico,
psicologico, antropologico, sociologico. A chi si impegna nella ricerca e nella formazione si impone dunque una
continua riflessione su dilemmi e responsabilità, rispetto alle conseguenze dei modi in cui si costruisce l’oggetto di
ricerca e si definiscono le strategie analitiche. Si propone qui un contributo a questa riflessione, da una prospettiva
sociologica.
Una rivoluzione in dieci anni
Nel novembre del 2006 il convegno milanese Crescere in famiglie omogenitoriali. Contributi dal diritto, dalle scienze
psicologiche e sociali si presentava registrando un sostanziale vuoto di conoscenza da colmare: «In Italia manca una
letteratura scientifica a riguardo» (Cavina, Danna 2009). Era chiara in quell’occasione la percezione di assistere ad
un momento storico di passaggio, verso una più forte soggettività politica e maggiori possibilità di riconoscimento
sociale e giuridico per queste esperienze familiari anche in Italia. L’urgenza era quella di riconoscerla come una
realtà già esistente e non come la mera ipotesi a cui la confinavano le discussioni sulle “adozioni ai gay” (Trappolin
2009). La stessa associazione Famiglie Arcobaleno, che insieme a coraggiose studiose aveva organizzato l’evento,
era nata da poco, l’anno precedente. Parte di questo passaggio, di cui quell’evento voleva segnare una tappa
simbolica, era dunque la costituzione di queste esperienze come legittimo oggetto/soggetto di ricerca, che fino a
quel momento era stato esplorato da poche e pochi pionieri (Bonaccorso 1994; Bottino, Danna 2005).
Quasi dieci anni dopo, la realtà è radicalmente cambiata. L’associazionismo delle famiglie con genitori LGBTQ1
ha moltiplicato le adesioni e le azioni e si è diversificato, le esperienze di coppie dello stesso sesso con figli hanno
conquistato un’inedita visibilità pubblica. L’inerzia legislativa italiana è sempre più isolata rispetto ai Paesi a noi
1 Acronimo di Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans (transessuali/transgender), Queer. Questo acronimo è esso stesso una costruzione
variabile di categorie che si affermano come identità sessuali e di genere non normative, costruzione legata alla formazione di nuove
identità collettive: Intersessuati e Asessuali sono altri elementi spesso recentemente associati a questo acronimo.
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vicini e non ha impedito un faticoso ma efficace, seppure parziale, percorso di riconoscimento di questi legami
genitoriali nella giurisprudenza.
Altrettanto cambiato è il panorama della ricerca: le famiglie omogenitoriali sono divenute un oggetto di
studio non soltanto pienamente legittimo, ma particolarmente attrattivo. Nel corso degli anni si sono moltiplicate
le pubblicazioni su questo tema, orientate alla comunità scientifica, a educatori ed operatori dei servizi, e ad
un pubblico più vasto (per citarne alcuni, Cadoret 2008; Lalli 2009; Beppato, Scarano 2010; Schuster 2011;
Gigli 2012; Ronfani, Bosisio 2013), che hanno importato nel dibattito italiano i consolidati risultati della ricerca
internazionale e cominciato a tracciare, con originali ricerche, i tratti specifici di queste esperienze in Italia.
Impressione condivisa tra chi in diverse discipline tratta questo argomento nella didattica è che catalizzi anche
fortemente l’attenzione di studentesse e studenti.
Oltre al fascino per il senso di novità di cui le famiglie omogenitoriali sono portatrici, vi sono ragioni importanti
alla base di questo interesse. Da un lato, in queste esperienze possono essere letti più nitidamente cambiamenti
che stanno investendo le relazioni familiari nel loro complesso. E’ questa del resto la strada indicata da Giddens
(1995) quando aveva identificato nelle coppie lesbiche l’avanguardia di più generali trasformazioni dell’intimità,
verso relazioni più simmetriche, il cui ordine normativo costruito attraverso la negoziazione dalla coppia stessa è
sganciato da ruoli di genere predefiniti.
Al tempo stesso, le famiglie omogenitoriali sono riconosciute come portatrici di una radicale diversità che
mette in crisi tratti fondamentali degli attuali modelli familiari. Costituiscono dunque un oggetto di studio
privilegiato per capire come sta cambiando, e come cambierà, la famiglia.
Un’altra spinta importante allo sviluppo di saperi sempre più articolati ed accurati su queste esperienze
proviene dall’urgenza delle domande di conoscenza che arrivano non soltanto dalle associazioni, ma in misura
sempre maggiore da chi, operando in servizi, organizzazioni, o come professionista, è entrato o pensa di poter
entrare in contatto con queste famiglie: insegnanti ed educatori, assistenti sociali e altri operatori dei servizi sociosanitari, psicologi, avvocati.
La costruzione dell’oggetto di ricerca
Se guardiamo al contesto dove gli studi sulle genitorialità gay e lesbiche si sono principalmente sviluppati, gli
Stati Uniti, il percorso della ricerca mostra una forte connessione con l’urgenza delle domande che emergevano
dai genitori stessi come dalle istituzioni, e con la costruzione dell’omogenitorialità come problema sociale nel
dibattito pubblico (Clarke 2008). A fronte di un discorso pubblico sulle famiglie omogenitoriali come possibili
minacce al benessere del bambino, le prime ricerche in ambito psicologico a partire dagli anni Settanta hanno avuto
lo scopo di verificare empiricamente se le donne lesbiche potevano essere madri adeguate, mettendo a confronto
figli cresciuti in contesti diversi (coppie lesbiche e eterosessuali, madri sole) e misurando diverse dimensioni del
loro sviluppo (di genere, sessuale, emotivo, sociale) (per una rassegna cfr. Tasker, Patterson 2007). Questi studi
sono anche stati una risposta a un’esigenza più specifica e pressante in un contesto di crescente visibilità delle
donne lesbiche madri di figli nati in precedenti unioni eterosessuali: quella di fornire una base di conoscenza
empirica ai tribunali che dovevano decidere sull’affidamento dei figli in seguito a divorzio e che, in alcuni casi,
avevano negato l’affidamento alla madre in quanto lesbica.
Si costituiva così un oggetto di indagine, le famiglie omosessuali (prima quelle lesbiche e, più tardi, quelle
gay) - anzi due, anche le famiglie eterosessuali come loro termine di paragone - in forma difensiva, come risposta
a obiezioni e preoccupazioni su una loro minore adeguatezza rivelatesi senza fondamento empirico. Riflessioni e
ricerche successive hanno in parte rovesciato la prospettiva sulla “diversità” delle esperienze genitoriali di gay e
lesbiche, mettendone il luce gli elementi positivi come contesti di crescita generatori di capacità riflessive, meno
costrittivi nell’imporre modelli di genere, e il conseguente potenziale di cambiamento sociale (Stacey, Biblarz
2001).
Tale corpus di ricerche ha avuto un’importanza fondamentale nel contrastare ostilità sociale e tentativi di
patologizzare questi contesti di crescita, sgombrando la strada a posizioni inequivocabili di società scientifiche (dai
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pediatri agli psicologi)2 e a cambiamenti legislativi che comprendono il riconoscimento del legame genitoriale
per il genitore non biologico, l’accesso a forme di procreazione assistita come la fecondazione eterologa e alla
maternità surrogata, la possibilità di adottare come coppia, oggi presente in aree sempre più ampie del mondo,
dall’Uruguay alla Nuova Zelanda, dal Sudafrica alla Spagna3.
Questa stessa forte presenza sulla scena pubblica e la legittimazione sociale e giuridica ottenuta hanno aperto
al tempo stesso possibilità di interrogare la costituzione stessa dell’oggetto «famiglie omogenitoriali», definito
per differenza dalle «famiglie eterosessuali» (Hicks 2005). La maggiore visibilità ha svelato l’eterogeneità delle
identità, delle esperienze quotidiane e delle configurazioni familiari che a questa categoria sono associate, e la
difficoltà di definirne chiaramente i confini. Si sono articolati anche i soggetti che chiedono riconoscimento
per le specificità delle loro identità impreviste (bisessuali, trans, intersessuali), e la critica queer alla dimensione
oppressiva di categorie identitarie essenzializzanti ne ha messo in discussione il loro stesso utilizzo per inquadrare
le esperienze di genitorialità. È divenuto evidente come mettere a confronto una genitorialità limitata a coppie
(assunte perlopiù come monogame, conviventi e stabili) dello stesso sesso (composte da gay o lesbiche, cisgender)
e di sesso diverso (composte da eterosessuali, cisgender) che crescono figli insieme tagli fuori e semplifichi una
realtà di soggettività ed esperienze di coppia, di procreazione e di genitorialità molto più sfaccettata e variabile.
Le responsabilità della ricerca e i rischi dell’approccio classificatorio
Come rispondere alle domande di conoscenza di chi nel proprio lavoro e nella propria esperienza quotidiana
vuole, o anche soltanto deve, confrontarsi con esperienze di genitorialità non eterosessuali, facendo al tempo
stesso tesoro del percorso compiuto nelle riflessioni su possibilità e rischi della costruzione dei nostri oggetti di
ricerca? Questa domanda si pone oggi, in modo pressante, nel contesto italiano e occorre affrontarla tenendo
conto delle sue specificità.
In questo contributo propongo una riflessione su questi dilemmi, riprendendo a titolo esemplificativo
un’esperienza di attività di formazione realizzata a Torino alcuni anni fa, nel 2008, promossa dal Progetto Famiglia
della Circoscrizione 2 in collaborazione con il Servizio LGBT del Comune di Torino4. La richiesta, da parte del
Progetto Famiglia, era di un aiuto per includere nel loro lavoro l’attenzione a orientamento sessuale e identità di
genere, e saper rispondere ai bisogni delle famiglie LGBT. Occorreva al tempo stesso preservare l’ampia base di
consenso e collaborazione costruita dal Progetto famiglia, che comprende volontariato e associazionismo familiare
di diversa estrazione, anche cattolica.
Il percorso più ovvio ed immediato, in questo come in altri percorsi formativi, sarebbe quello di focalizzare
la formazione sulle caratteristiche specifiche, e sugli specifici bisogni, delle famiglie LGBT, consentendo ad un
pubblico interessato di operatori, volontari, cittadini di avvicinarsi ad un oggetto per molti ancora misterioso.
Oltre alla difficoltà di definire i confini che delimiterebbero le famiglie LGBT o le famiglie omogenitoriali, il
contesto di questa possibile strategia si presta bene, credo, ad ancorare alcune riflessioni più generali sui suoi
rischi.
Il primo rischio è quello di assecondare e riprodurre un orientamento classificatorio che reifica le differenze
(famiglie omosessuali vs famiglie eterosessuali) ed appiattisce la varietà e la multidimensionalità delle configurazioni
di relazioni di intimità, cura, affetto in cui sono coinvolte le persone. In Italia, questa categorizzazione per
differenza assume anche una dimensione temporale: le nuove famiglie, di cui quelle omosessuali sarebbero una
delle espressioni, contrapposte alla famiglia tradizionale. Questa contrapposizione può fondarsi infatti su una
specificità del contesto italiano, che ha sperimentato un lungo periodo di stabilizzazione delle esperienze familiari,
2 Si possono citare ad esempio le posizioni dell’American Academy of Pediatrics e dell’American Psychological Association.
3 Il sito dell’ILGA è un utile riferimento per un quadro globale ed aggiornato su questi mutamenti legislativi (www.ilga.org).
4 Il corso di formazione qui citato, progettato e realizzato dall’autrice insieme con la sociologa Francesca Zaltron, è stato parte di una
più articolata esperienza di collaborazione tra Servizio LGBT del Comune di Torino e Progetto Famiglia della Circoscrizione 2 che è stato
incluso come esempio di buona pratica nel Libro Bianco europeo sulle politiche di parità rispetto a orientamento sessuale e identità di
genere realizzate dagli enti locali (Coll-Planas 2011).
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che solo di recente ha conosciuto una nuova fase di pluralizzazione: la crescita dell’instabilità coniugale e l’aumento
delle convivenze e delle nascite al di fuori del matrimonio sono stati processi più tardivi e limitati rispetto a molti
altri paesi europei. Attraverso questo frame si costruisce quindi anche l’immagine di una famiglia del passato,
identificata con le generazioni precedenti, a cui si attribuisce statuto di esperienza omogenea e di modello di
normalità (e di naturalità) rispetto al quale misurare le nuove “diversità”. E su questa opposizione possono fondarsi
discorsi sulla difesa della tradizione familiare minacciata dalle nuove rivendicazioni di riconoscimento.
D’altra parte, un approccio classificatorio che presenti le famiglie LGBT, in particolare le famiglie omogenitoriali,
come problema sociale emergente, a cui occorre prepararsi per coglierne e soddisfarne i bisogni, può rappresentare
un terreno comune di consenso trasversale tra chi si occupa di servizi e iniziative di sostegno alle famiglie con
diversi approcci sociali e religiosi. L’efficacia del frame classificatorio sta anche nella sua compatibilità con
l’approccio terapeutico oggi prevalente nei servizi sociali, esito di un processo di individualizzazione dei problemi
sociali: gli operatori si preoccupano di individuare le caratteristiche dell’utente che consentono loro di collocarlo
in una categoria diagnostica o “problematica” e, dunque, di orientare l’intervento sulla base dell’“etichetta” del
bisogno speciale identificato (Scarscelli, in corso di pubblicazione).
Si prospetta però il rischio di sostenere questo consenso trasversale collocando le esperienze familiari “diverse
da” ciò che è considerata la normalità eterosessuale in una narrazione vittimizzante che legittima un impegno
per il loro sostegno ed inclusione, ma mantiene le gerarchie tra chi accetta ed aiuta, e chi è accettato ed aiutato.
L’importanza di narrazioni vittimizzanti, “della sofferenza”, nell’aprire spazi di inclusione in particolare all’interno
di contesti religiosi è stata messa bene a fuoco da Moon (2005). In una posizione di potere relativo, gli eterosessuali
creano «regole emotive» (Hochschild 1979) per gli omosessuali, impongono loro la sofferenza come biglietto
d’ingresso morale per essere ammessi nella comunità religiosa, dove gay e lesbiche possono ottenere conforto,
non eguaglianza. Attraverso queste narrazioni infatti il potenziale conflittuale delle espressioni più esplicite e
provocatorie dei movimenti LGBTQ viene neutralizzato, ridefinito come manifestazione di una sofferenza,
reazione all’ostilità sociale.
Seppure per molti versi estraneo alle autorappresentazioni proposte dalle associazioni, il rischio di
vittimizzazione è parte di una narrazione terapeutica anche quando ne è enfatizzato l’altro polo, la ricerca della
felicità. La sofferenza, infatti, ha un ruolo costitutivo nelle narrazioni del sé informate dalla cultura terapeutica.
Come Illouz (2008: 173) argomenta, la cultura terapeutica si fonda infatti su un paradosso: dato il suo imperativo
di un continuo impegno per livelli sempre più alti di auto-realizzazione, nonostante la sua apparente vocazione a
guarire, «deve generare una struttura narrativa in cui sono in effetti la sofferenza e la vittimizzazione a definire il
sé».
Attivando questa narrazione, si rischia dunque di riprodurre un sostegno alle esperienze familiari di gay e
lesbiche da una posizione di privilegio eterosessuale che non viene sostanzialmente messo in discussione, e che ne
delimita normativamente i confini. Infatti, nell’individuare il proprio compito come quello di aiutare (le famiglie)
a vivere una vita più felice, si assumono implicitamente i contorni normativi di questa felicità, quelli della
rispettabilità familiare o, nell’immagine proposta da Ahmed (2010), di un posto alla tavola dell’eteronormatività.
La prospettiva delle pratiche familiari
A fronte di questi rischi, occorre esplorare le possibilità di sottrarsi all’approccio classificatorio: tra queste, viene
qui discusso l’utilizzo della prospettiva teorica delle pratiche familiari, proposta da Morgan nel 1996 e sviluppata
da molta della sociologia della famiglia britannica. Riconosciuta come più capace di cogliere la complessità della
vita familiare, perché orientata ad esplorare i modi di fare famiglia nella vita quotidiana, piuttosto a definire cos’è
la famiglia, questa prospettiva “sposta l’agenda della ricerca lontano da un imperativo funzionalista che reifica
diverse forme di relazione in categorizzazioni tipologiche” (Gabb, Fink 2015: 9).
Nella definizione ripresa più recentemente da Morgan, «le pratiche familiari consistono in tutte le azioni
ordinarie, quotidiane che le persone fanno, nella misura in cui sono orientate ad avere qualche effetto su un altro
membro della famiglia» (Cheal 2002, cit. in Morgan 2011: 19). Attraverso questo concetto, Morgan propone
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di guardare a come gli attori definiscono in modo flessibile e situazionale quali pratiche costituiscono relazioni
familiari, cosa significa «fare famiglia», e attraverso queste pratiche agiscono e reinterpretano nella loro vita
quotidiana gli ideali normativi rispetto all’essere famiglia.
La prospettiva delle pratiche familiari è stata utilizzata in primo luogo nella ricerca empirica per esplorare
quelle che potremmo chiamare, nella vulgata italiana, le nuove famiglie, proprio per evitare di leggere esperienze
come quelle delle ricomposizioni familiari post-divorzio (Smart, Neale 1999) in termini di problemi sociali, e di
focalizzarsi sulle loro possibili problematicità o disfunzionalità. In un’ottica analoga, come antidoto al rischio di
reificare l’opposizione tra famiglie omosessuali ed eterosessuali e come strumento per cogliere l’eterogeneità e
la complessità delle esperienze quotidiane, questa prospettiva ha ispirato studi sulle esperienze di intimità, cura,
genitorialità non eterosessuali, come quello ormai classico di Weeks, Heaphy e Donovan (2011) dal programmatico
titolo Same-sex intimacies. Families of choice and other life experiments. Un ulteriore passo è proposto in una ricerca
sulle coppie di lunga durata con e senza figli (e che in parte coinvolgono persone LGBTQ), da Gabb e Fink (2015:
15), che argomentano come esplorare le pratiche quotidiane attraverso cui le persone agiscono e riproducono le
loro relazioni consenta di contestare
la stratificazione delle relazioni in diversi tipi distinti, focalizzandosi invece sui modi in cui i diversi tipi di pratiche
relazionali attraversano differenze categoriali come quelle di generazione, sessualità, coppia/genitorialità.
La prospettiva delle pratiche familiari corrisponde, di fondo, per gli studi sulle famiglia alla svolta performativa
che ha investito potentemente gli studi di genere. In chiave sociologica, possiamo identificare anche fondamenti
teorici comuni nell’ispirazione etnometodologica di Morgan (1996; 2011) e di Kessler e McKenna (1985) e West
e Zimmerman (1987). Se però la letteratura sulla performatività del genere è stata ampiamente recepita in Italia,
discussa e rielaborata (cfr. Sassatelli 2000), altrettanto non è avvenuto per la svolta performativa sulla famiglia (tra
le eccezioni, cfr. Zaltron 2009). Eppure, vi sarebbe un potenziale fruttuoso nel dialogo tra questa prospettiva e gli
studi sulle relazioni familiari e di genere italiani ispirati alla sociologia della vita quotidiana (Jedlowski, Leccardi
2003).
Morgan sottolinea la differenza tra l’utilizzo del concetto di pratiche familiari fondato sul pieno riconoscimento
delle sue implicazioni teoriche ed empiriche, e generali riferimenti al «fare famiglia»:
Quando le parole sono usate come un semplice termine di riferimento indicano poco più di un’ampia area di
indagine, definita approssimativamente da un interesse verso cosa le persone fanno piuttosto che verso la struttura
delle istituzioni all’interno delle quali queste attività avvengono (Morgan 2011: 162).
Eppure, ci sono a mio parere molte ragioni per sostenere l’utilità di questa prospettiva nel contesto italiano
(Bertone 2005 e 2009), a partire dalla possibilità di aggirare le contrapposizioni definitorie su “cos’è famiglia” che
informano il dibattito pubblico, riconoscendo al tempo stesso l’importanza centrale che le persone attribuiscono
alla vita familiare e a tutte le pratiche a cui associano il significano di «fare famiglia». A fronte di proposte di
approcci che abbandonano in concetto di famiglia per esplorare altre configurazioni di pratiche, riconducibili
alla dimensione della cura o dell’intimità, la proposta di Morgan continua infatti ad essere quella di mantenere
esplicitamente l’idea di famiglia al centro dell’analisi, in quanto saliente per gli attori, che vi attribuiscono
caratteristiche specifiche, legate a elementi di inevitabilità, ovvietà, incorporamento nel quotidiano, e non
sovrapponibile agli altri concetti proposti. Considerare le pratiche riconducibili al concetto di intimità (Jamieson
1998), ad esempio, comporta sì da un lato un ampliamento dello sguardo su legami importanti oltre i confini
di quelle che convenzionalmente sono considerate relazioni familiari, ma dall’altro lascia fuori parti importanti
della vita familiare. Occorre dunque, secondo Morgan, mantenere un focus specifico sul termine famiglia, per la
sua rilevanza per gli attori e per la sua capacità euristica, riconoscendone al tempo stesso la fluidità, il carattere
negoziato e variabile dei suoi confini e dei suoi caratteri costitutivi. Se ne può così anche esplorare l’uso strategico
da parte degli attori per ottenere riconoscimento sociale delle loro relazioni affettive e di cura (Bernstein,
Reimann 2001).
La prospettiva delle pratiche familiari consente anche di contrastare implicite associazioni tra pluralizzazione
delle esperienze familiari e allentamento delle responsabilità morali. Esplorando come le persone si orientano
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nelle loro pratiche familiari nel quotidiano, è stato messo in luce infatti come resti forte, nell’orientare i
comportamenti, il senso di obbligazione rispetto ai bisogni delle persone a cui si è connessi da legami di affetto
e sostegno reciproco (Williams 2004). Questa prospettiva consente di leggere anche la crescente diversità delle
esperienze genitoriali non tanto come assenza di responsabilità, forme di egoismo, quanto piuttosto come pratiche
in cui l’ideale normativo del buon genitore viene interpretato e negoziato concretamente nelle relazioni e nelle
condizioni date dalla propria vita quotidiana.
L’attenzione alle pratiche consente inoltre, secondo Morgan, di evitare la separazione a priori tra la famiglia e
gli altri contesti sociali: le pratiche familiari non sono limitate allo spazio domestico, ma investono dimensioni di
esperienza trasversali a contesti diversi, non solo le relazioni intime ma anche, ad esempio, il lavoro remunerato.
Morgan (1999: 16) propone di vedere «“la famiglia” come un colore primario, limitatamente interessante di per
sé, ma che assume tutta la sua significatività combinandosi, attraverso continue variazioni, con altri colori». Si
possono dunque esplorare gli intrecci e le tensioni tra dimensione domestica e rapporti con le istituzioni come
costitutivi dei modi in cui si definiscono significati e confini del fare famiglia. Un aspetto cruciale per le coppie
dello stesso che crescono figli in contesti come quello italiano in cui, a fronte della loro invisibilità nelle istituzioni,
«la dimensione personale, soggettiva, deve assumere su di sé l’onere di farsi istituente di un livello collettivo,
obbligando la famiglia omogenitoriale (e chi la sostiene) a fare del suo privato un fatto politico e a rendersi garante
di se stessa» (De Cordova, Sità 2015: 406).
Infine, assumere come punto di partenza le pratiche familiari può consentire di esplorare la salienza delle
relazioni intergenerazionali, smontando anche da questa prospettiva la contrapposizione tra famiglie omosessuali
ed eterosessuali (Bertone, Pallotta, Chiarolli 2014). Recuperando la consapevolezza dell’importanza di guardare
oltre la famiglia nucleare, alle relazioni intergenerazionali, che ha informato gli studi sulla famiglia nel nostro
Paese, si può esplorare come, nella quotidianità delle pratiche familiari, convivono sotto lo stesso tetto modi di
“fare” omosessualità ed eterosessualità, e si scompongono e ricompongono i confini dei generi e delle sessualità.
Esplorare le pratiche attraverso i resoconti: note da un’esperienza formativa
La scelta di utilizzare la prospettiva delle pratiche familiari ha caratterizzato il percorso formativo torinese
prima citato, come rispecchiato dal titolo scelto: Fare famiglia oggi. E’ rimasto tuttavia nel sottotitolo, Nuove forme,
nuovi significati, un richiamo al frame che contrappone nuove e vecchie esperienze familiari, seppure il corso abbia
avuto l’obiettivo di metterlo in discussione.
L’aspetto forse più istruttivo di questa esperienza è stata la prima reazione dei partecipanti (oltre i cinquanta
mediamente nei sei incontri previsti) alla dichiarazione esplicita della prospettiva con cui è cominciato il corso,
non centrata su cos’è famiglia, ma su come si fa famiglia nella vita quotidiana, e delle domande proposte: con chi
avete fatto famiglia in questi giorni? Come coltiviamo i legami di affetto, solidarietà, cura per noi sono importanti,
a quali diamo il significato di famiglia? Si è potuta percepire una reazione di diffuso sollievo ed interesse, che
mi sembra di poter interpretare come un senso di liberazione che nell’abbandono di un frame classificatorio, e
potenzialmente conflittuale, vedeva la possibilità di altre, forse più interessanti e coinvolgenti, possibilità discorsive.
Queste possibilità sono state esplorate attraverso il coinvolgimento dei partecipanti nella produzione di
resoconti (Orbuch 1997) sulle pratiche familiari. Scene di vita familiare tratte da film, da discutere insieme,
sono state il punto di partenza per attivare resoconti riflessivi. La vita familiare ha una dimensione di ovvietà,
di routine, di naturalezza che rende per molti aspetti invisibile il continuo lavoro di costruzione di confini e
significati del fare famiglia che avviene inserendo le esperienze familiari proprie e altrui in un quadro di senso.
Attraverso rappresentazioni impreviste di vita familiare si è tentato di produrre esperienze di rottura degli assunti
di fondo che rappresentano ciò che viene visto ma non notato, ciò che dà alla vita quotidiana il suo carattere appunto - familiare, oggettivo (Garfinkel 1967). Parte importante di questo lavoro è stata la proposta di pratiche
impreviste non tanto, o soltanto, in relazione a forme “nuove” come le famiglie omogenitoriali, ma anche rispetto
alle famiglie del passato, per attivare riflessività sulla costruzione data per scontata e naturalizzata della famiglia
“tradizionale”. La cancellazione delle origini, la naturalizzazione di una costruzione che è invece storicamente
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situata delle pratiche familiari, ricorda Morgan (1999), è del resto un aspetto importante del loro incorporamento.
E, possiamo aggiungere, sta a fondamento della percezione di minaccia all’ordine naturale suscitata dalle famiglie
omogenitoriali.
La costruzione dei caratteri e dei confini dello spazio familiare è stata ad esempio esplorata attraverso scene
(dalla vestizione di Maria Antonietta alla vita di cascina dell’Albero degli zoccoli) lontane dall’immagine di spazio
domestico del modello borghese moderno, scene che hanno innescato riflessioni dei partecipanti anche sulla
pluralità delle proprie esperienze, soprattutto come figli. Analoga strategia ha riguardato le pratiche variabili
di cura ed educazione dei bambini - e la pluralità di figure coinvolte - esplorati a partire da scene dai film già
citati e da altri come La balia, Tre uomini e una culla, La mia vita in rosa. Come esito complessivo del percorso,
nelle riflessioni sulle immagini proposte dagli stessi partecipanti per rappresentare cosa significava per loro fare
famiglia, la discussione sulla variabilità di confini e significati del fare famiglia (inclusa la tavolata della famiglia
allargata del film Le fate ignoranti, o il disegno di una bimba per la festa delle sue due mamme) ha preso forme in
gran parte lontane dall’opposizione tra vecchio e nuovo.
Conclusioni
La sfida di cui le esperienze non eterosessuali di genitorialità sono portatrici non investe soltanto assunti diffusi
su confini e caratteristiche della vita familiare. In un momento importante in Italia, che segna il fiorire della
ricerca su queste esperienze e l’ampliarsi della loro visibilità e dei loro spazi di riconoscimento, esse interrogano
le stesse categorie interpretative con cui sono studiate e la nostra responsabilità di ricercatrici/ricercatori, nel
costruirle, verso le vite dei soggetti di cui parliamo e scriviamo.
Si è voluto qui contribuire a tale riflessione, rilevando i rischi di un approccio classificatorio che individualizza,
semplifica e confina le esperienze in determinate storie raccontabili (Scarscelli, in corso di pubblicazione). La
prospettiva delle pratiche familiari è una delle possibili strategie analitiche per evitare questi rischi e dare conto dei
modi plurali e situazionali con cui gli attori danno senso al loro fare famiglia nella vita quotidiana, senza rinunciare
a confrontarsi con la forza simbolica ed istituzionale di questo termine. Se la riflessione ha qui riguardato l’utilità
di questa prospettiva per un dialogo con i saperi applicativi di chi si occupa di sostegno alle famiglie, le strategie di
ricerca e le innovazioni metodologiche che da essa sono scaturite (Gabb 2008) potranno anche dare un importante
contributo allo studio dei mutamenti familiari in corso nel nostro paese.
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DOI: 10.1400/234056 Luca Trappolin, Angela Tiano
[Same-sex families e genitorialità omosessuale]
Controversie internazionali e spazi di riconoscimento in Italia1
Title: Same-sex Families and Homosexual Parenthood. International Controversies and Spaces for
Recognition in Italy
Abstract: Lesbian and gay parenthood is the most adversed topics of the recognition of lesbian and gay
families, both from the point of view of the concession of rights and the one of social legitimation.
In Italy, the sociological research on the recognition of lesbian and gay families with children is not
comparable to the international one. Nevertheless, the development of a political discourse on the
rights of lesbian and gay people – with or without families, with or without children - by European
institutions is broadening the interest of Italian sociologists. The article analyses the experiences of
12 gay Italian lesbian and gay parents in order to understand how they negotiate and achieve social
legitimation in front of their families of origin, local institutions and neighbours. Results show that
lesbian and gay families with children give an important contribution for the pluralization of practices
and meanings related to the family. At the same time, they reproduce some crucial features supporting
the hegemonic interpretation of the family: the centrality of the couple and the importance of blood
ties for the definition of kinship.
Keywords: Lesbian and Gay Families, Lesbian and Gay Parents, Transformations of the Family, Assisted
Reproductive Technologies, Surrogacy.
Introduzione
Tra i cambiamenti nei modi di fare e dire la famiglia che si rendono visibili nei paesi occidentali, le declinazioni
della famiglia e della genitorialità proposte dalle donne lesbiche e dagli uomini gay costituiscono il fenomeno che
interroga più in profondità gli assetti regolativi, dando vita alle discussioni più conflittuali.
Le dispute attorno alle forme o alle ipotesi di riconoscimento delle relazioni affettive tra persone dello
stesso sesso - soprattutto se implicano la presenza di figli - sono comuni a tutti i contesti nazionali, seppure
con contenuti e modalità diverse. Da molti anni negli Stati Uniti il tema del same-sex marriage e le politiche a
favore della genitorialità lesbica e gay sono oggetto di una vera e propria “guerra culturale” alimentata dalle
organizzazioni tradizionaliste cattoliche e dal movimento ex-gay. In Europa, accanto ai dibattiti interni dei singoli
stati, il divieto di discriminare le famiglie lesbiche e gay è diventato uno dei temi centrali utilizzati dalle istituzioni
sovranazionali per definire l’orizzonte simbolico verso cui gli stati ritenuti “meno moderni” - tra cui l’Italia - e i
migranti provenienti da culture definite come “premoderne” dovrebbero tendere.
In Italia il dibattito è più recente, ma non per questo meno acceso. Le domande di riconoscimento delle
famiglie gay e lesbiche e la tutela della genitorialità omosessuale hanno ottenuto recentemente significative
risposte istituzionali. Al tempo stesso, l’opposizione a tali diritti ha guadagnato nuova visibilità e nuovi contenuti
1 Il lavoro è frutto della collaborazione tra i due autori. Dovendo tuttavia attribuire le singole parti, l’Introduzione e i paragrafi 1 e 2 sono
stati scritti da Luca Trappolin, mentre i paragrafi 3, 4 e 5 sono stati scritti da Angela Tiano. Le Conclusioni vanno attribuite a entrambi.
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Luca Trappolin, Angela Tiano DOI: 10.1400/234056
grazie alla reazione delle gerarchie cattoliche - spalleggiate da organizzazioni tradizionaliste e da alcuni gruppi
politici di centro-destra - contro la cosiddetta “ideologia del gender”.
Nelle pagine che seguono discuteremo il riconoscimento formale e sociale delle famiglie omosessuali all’interno
di questi dibattiti più ampi. Ci focalizzeremo poi sulle principali direzioni di ricerca sociologica sulla genitorialità
di lesbiche e gay, all’interno delle quali si sta collocando anche la sociologia italiana. Infine, proporremo alcune
riflessioni sulle strategie che madri lesbiche e padri gay attivano per includere le proprie esperienze genitoriali
all’interno delle reti sociali dei loro contesti di vita - come quelle delle loro famiglie di provenienza e dei servizi
per la prima infanzia. I racconti di 12 genitori italiani di ambo i sessi ci aiuteranno a mettere a fuoco la costruzione
di spazi di riconoscimento sociale in un paese dove tali esperienze sono prive di legittimazione formale.
Le controversie sulle famiglie gay e lesbiche nel dibattito statunitense ed europeo
Le molteplici forme del riconoscimento formale delle famiglie gay e lesbiche nei paesi occidentali - dalla
civil partnership al same-sex marriage, dall’accesso all’adozione o alla stepchild adoption (talvolta definita anche
second-parent adoption) fino al ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita - sono materia di
dibattito in diversi segmenti della sfera pubblica. Spesso l’oggetto delle discussioni chiama direttamente in
causa le trasformazioni nelle definizioni del gender, in particolare per quanto riguarda la fissità del rapporto tra
genere e corpi e la complementarietà tra uomini e donne nella sfera familiare. In altri casi, invece, il tema
delle famiglie gay e lesbiche rientra nelle retoriche di costruzione dell’identità e della cittadinanza nazionale
e sovranazionale. In questo paragrafo ci focalizzeremo sui contesti discorsivi più interessanti all’interno
dei quali - negli Stati Uniti e in Europa - la questione dei diritti delle famiglie gay e lesbiche è collocata.
Negli Stati Uniti l’accesso al matrimonio da parte di coppie gay e lesbiche è una proposta nata sulla scia delle
sentenze della fine degli anni Sessanta del secolo scorso a favore del «matrimonio interrazziale» (Chauncy 2004;
Viggiani 2015). All’inizio degli anni Settanta sono poi emerse le domande di riconoscimento della maternità
lesbica (Benkov 1994; Stein 1997). Oggi le agenzie americane di surrogacy stanno dando un impulso decisivo
alla nascita del mercato internazionale degli aspiranti padri gay. In questo contesto di forte dinamismo, dove
l’espressione di punti di vista contrapposti segna regolarmente il confronto politico e divide l’opinione pubblica,
l’opposizione al riconoscimento dei diritti delle famiglie gay e lesbiche sembra concentrarsi attorno a due contesti
discorsivi principali.
Il primo è il tentativo di delegittimare l’omosessualità sul piano etico-morale, rifiutandosi di considerarla
come una forma della vita sessuale e affettiva al pari dell’eterosessualità. In questo caso, chiamare in causa i
«valori tradizionali della famiglia» o il «benessere dei bambini» per opporsi al same-sex marriage e alla genitorialità
omosessuale sarebbe espressione di una nuova forma di omofobia - più nascosta e politicamente corretta - che
si è adeguata alla normalizzazione delle identità gay e lesbiche (Stein 2005). Il secondo contesto discorsivo è
relativo alle politiche della maschilità promosse dall’alleanza tra le organizzazioni tradizionaliste cattoliche e il
movimento ex-gay per riaffermare la distinzione asimmetrica tra uomini e donne (Clarke 2001; Robinson e Spivey
2007; Stewart 2008). Per un verso, si stigmatizzano le famiglie lesbiche richiamando la necessità di rimettere al
centro della vita familiare la figura del padre (eterosessuale), inteso come guida normativa per tutti i componenti
del nucleo e, più in generale, per l’intero equilibrio della società. Per altro verso, si propone un’interpretazione
dell’omosessualità (maschile) come scelta reversibile e curabile attraverso l’identificazione con modelli eterosessuali
costruiti sul principio della complementarietà tra i sessi.
In Europa - dove la Danimarca nel 1989 è stato il primo paese a riconoscere la civil partnership per le coppie
gay e lesbiche - le controversie nazionali ripropongono alcuni temi presenti nel dibattito americano. Il lavoro di
Adam Jowett (2014) sulle argomentazioni contro il same-sex marriage riportate dalla stampa britannica e le analisi
sulla cosiddetta “ideologia del gender” in Francia e in Italia (cfr. Garbagnoli 2014) esemplificano tale continuità.
Ci sono tuttavia delle specificità, principalmente riferite alla costruzione dell’identità nazionale nei paesi
dell’ex-blocco sovietico (Kulpa e Mizieliñska 2011; Xhaho 2015). Qui l’opposizione ai diritti delle persone gay e
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lesbiche è una partita giocata principalmente sul terreno della squalificazione dell’omosessualità in ragione delle
culture di genere che sostengono le rappresentazioni dell’onore e dell’orgoglio nazionali. Le pressioni esercitate
dalle istituzioni europee per la depenalizzazione dei comportamenti omoerotici e l’implementazione di politiche
contro gli homophobic hate crimes sono le questioni più discusse, ma la contrarietà al riconoscimento delle famiglie
gay lesbiche non è affatto un tema marginale.
La specificità più significativa riguarda però la dimensione sovranazionale. Dalla metà degli anni Novanta,
il Parlamento Europeo include stabilmente il divieto di discriminare le famiglie formate da gay e lesbiche tra
i principi fondativi del suo intervento. Ne sono un esempio la risoluzione A3-0028/94 sulla «parità dei diritti
degli omosessuali nella Comunità», la relazione del 2003 sulla «situazione dei diritti fondamentali nell’Unione
Europea» curata dalla Commissione per la libertà ed i diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni del Parlamento
Europeo (A5-0281/2003), la risoluzione «sull’omofobia in Europa» del 2006 (C 287/E) e la risoluzione del 2012
sulla «lotta all’omofobia in Europa» (2012/2657-RSP).
All’azione del Parlamento Europeo si affianca quella del Consiglio d’Europa che ha recentemente denunciato
il diverso trattamento subito dalle famiglie gay e lesbiche e dai soggetti che le compongono nelle politiche e nelle
rappresentazioni mediatiche degli stati membri (Council of Europe 2011).
Anche l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali gioca un ruolo significativo in questa partita. I due report
sull’omofobia negli stati membri - il primo sui sistemi giuridici e il secondo sulle percezioni sociali - hanno
puntato il dito contro quei paesi in cui le famiglie gay e lesbiche sono escluse dai sistemi di tutela e non hanno
raggiunto una sufficiente legittimazione nell’opinione dei cittadini (European Union Agency for Fundamental
Rights 2007; 2008). Al tempo stesso, il rapporto della medesima Agenzia sulle sfide ai diritti fondamentali nella
Comunità Europea (Ibid. 2012) ha incluso tra le questioni più urgenti la tutela della libertà di movimento dei
componenti dei nuclei familiari formati da gay e lesbiche.
I dati e le informazioni divulgate, il modo in cui sono commentati e le esortazioni al rispetto dei diritti rientrano
in un discorso più generale delle istituzionali sovranazionali finalizzato alla definizione dell’orizzonte morale della
vita sessuale e affettiva nello spazio europeo (Gerhards 2010). Il principio del riconoscimento delle famiglie
gay e lesbiche accompagna quello della protezione dalla violenza omofobica nella costruzione di una serie di
distinzioni culturali. La prima è quella tra paesi più “moderni” e paesi “meno moderni” dentro il contesto europeo,
distinzione che prende la forma della polarizzazione tra Europa settentrionale ed orientale (Stulhofer, Rimac
2009). La seconda distinzione è quella tra l’Europa complessivamente intesa e i paesi arabi limitrofi (e le comunità
di migranti che da questi provengono) dei quali viene rappresentata l’arretratezza sul piano della tutela delle
libertà individuali secondo traiettorie di culturalization della cittadinanza e di sexualization dell’interpretazione
della differenza culturale e religiosa (cfr. Mepschen, Duyvendak, Tonkens 2010).
All’interno di queste politiche discorsive l’Italia occupa una posizione scomoda. L’assenza di riconoscimento
formale delle coppie gay e lesbiche e delle loro aspirazioni genitoriali unita al sostanziale rifiuto delle ipotesi
omogenitoriali nelle opinioni dei cittadini aiutano a rafforzare l’immagine dell’Italia come uno tra i paesi “meno
moderni” della vecchia Europa. A questo risultato contribuiscono anche le organizzazioni gay e lesbiche nazionali
che forniscono alle reti associative europee informazioni relative all’Italia. Un esempio significativo è il più recente
rapporto sui diritti umani delle persone LGBTI in Europa curato dalla sezione europea dell’International Lesbian,
Gay, Bisexual, Trans & Intersex Association che denuncia «l’indisponibilità della classe politica [italiana] a rispondere
alle richieste della comunità LGBTI di aprire una discussione riguardante l’uguale accesso al matrimonio e altri
diritti» (ILGA-Europe 2013, 127, traduzione mia).
Tuttavia, nonostante l’immobilità del sistema politico centrale, le domande di riconoscimento delle famiglie gay
e lesbiche hanno ottenuto importanti risposte istituzionali che potrebbero configurare trasformazioni più ampie
in un futuro prossimo (cfr. Prisco 2013). Nell’aprile del 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il
divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita previsto dalla legge 40/2004. La notizia è stata accolta
come segno di un’imminente apertura all’accesso a tale tecnica anche da parte delle donne lesbiche, single o in
coppia, che ne risultano formalmente escluse sin dalla prima regolamentazione delle strutture pubbliche del 1985
(Trappolin 2006, 309). Dopo la presentazione di diversi progetti di legge sostenuti da una mobilitazione che risale
alla fine degli anni Ottanta – e in un contesto nazionale dove la trascrizione all’anagrafe di matrimoni tra persone
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dello stesso sesso contratti all’estero è oggetto di scontro tra comuni e Governo – nel mese di marzo del 2015
la Commissione Giustizia del Senato ha approvato il testo base per la Regolamentazione delle unioni civili tra persone
dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. Il disegno di legge riserva le unioni civili alle sole coppie omosessuali
e fornisce una risposta anche alle loro attese genitoriali attraverso la possibilità di adottare il figlio della persona
convivente (stepchild adoption).
Infine, dopo che dai primi anni del 2000 l’opinione pubblica italiana ha potuto verificare l’esistenza e la
diffusione dell’omogenitorialità anche nel nostro paese (cfr. Trappolin 2009 e 2010), le organizzazioni che danno
voce a queste esperienze hanno potuto festeggiare una serie di sentenze che ne recepiscono alcune istanze. Si tratta
di decisioni che, allo scopo di preservare il benessere dei minori d’età, hanno riconosciuto la funzione genitoriale
svolta dalla partner di una mamma lesbica e la funzionalità del loro nucleo familiare. Esempi sono la sentenza della
Corte di Cassazione del gennaio 2013 che ha stabilito che la presenza di una relazione lesbica non può permettere
ad un ex-marito di sottrarre i figli alla loro madre; la sentenza del Tribunale dei Minori di Roma dell’agosto 2014
in base alla quale una donna può ambire ad adottare i figli della sua compagna; la sentenza del Tribunale di Palermo
dell’aprile 2015 che ha accordato all’ex-compagna di una madre il diritto a non venire esclusa dalla relazione con
i suoi figli che aveva aiutato a crescere negli anni della convivenza.
Considerate complessivamente, queste inversioni di tendenza nella prassi giurisprudenziale mettono in
questione l’immagine dell’Italia come paese insensibile ai mutamenti delle strategie di famiglia e delle esperienze
genitoriali. Ciò che emerge è la presenza di punti di vista plurali anche dentro le istituzioni che devono rispondere
alle esigenze di vita quotidiana degli uomini e delle donne che «fanno famiglia al di fuori dell’eterosessualità»
(Bertone 2005). Al tempo stesso si rendono visibili i segnali di un mutamento già avvenuto nel tessuto sociale.
L’inconciliabilità tra identità omosessuale e aspettative di genitorialità sta perdendo definitivamente la sua
plausibilità agli occhi delle persone lesbiche e gay, anche se sembra permanere in ampie fette dei campioni di
popolazione coinvolti nelle survey internazionali e nazionali (Trappolin 2006; European Union Agency for
Fundamental Rights 2008; D’Ippoliti, Schuster 2011: 30-36; Istat 2012). Ma ancora più significativamente viene
a galla l’esistenza di pratiche locali di rinegoziazione dei modi di dire famiglia che passano attraverso l’inclusione
delle esperienze omogenitoriali nelle reti familiari allargate e la collaborazione con i servizi.
Il tema del riconoscimento nella ricerca sociologica sulla genitorialità lesbica e gay
Come si inseriscono i temi del riconoscimento formale e sociale all’interno della più ampia ricerca sulle
famiglie omogenitoriali? Quali aspetti di mutamento e di continuità con il contesto sociale vengono evidenziati? In
questo paragrafo tenteremo di rispondere a questi interrogativi considerando i più recenti sviluppi dell’interesse
sociologico verso le same-sex family con figli.
Nel panorama internazionale è ben radicato un settore di ricerca che prende in considerazione sia le madri
lesbiche (Slater 1995; Stein 1997) che i padri gay (Lewin 2009). Esso rappresenta un importante segmento dei
Gay and Lesbian Studies e un filone innovativo dei Gender Studies e della sociologia della famiglia. Gli sviluppi di
queste ricerche - documentati anche in alcuni lavori di studiose italiane (cfr. Bottino, Danna 2005; Bertone 2008;
2009; Ruspini, Luciani 2010) - possono essere grossomodo sintetizzati in tre tappe. L’assunzione di un’iniziale
posizione “difensiva” riguardante lo sviluppo psico-sociale dei minori che vivono in questi nuclei ha lasciato il posto
all’interesse per l’organizzazione della vita familiare per poi giungere all’individuazione di aspetti di mutamento
più generali che interessano tutte le relazioni familiari.
L’interesse per la questione del riconoscimento formale di questi nuclei ha ricevuto una forte sollecitazione
dallo sguardo critico della Queer Theory sulle implicazioni sociali del raggiungimento dei diritti. Nel quadro di
un più generale scetticismo verso la normalizzazione dell’omosessualità favorita dalle identity politics, gli studiosi
che coltivano tale approccio hanno più volte denunciato gli effetti inattesi derivanti dalla focalizzazione delle
organizzazioni mainstream sul same-sex marriage e la genitorialità lesbica e gay (cfr. Warner 1993; 1999). Le
argomentazioni proposte si basano su due ipotesi. La prima è che le strategie di assimilazione alle famiglie eterosessuali
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finiscano per riprodurre la struttura eteronormativa responsabile della costruzione delle stesse minoranze sessuali;
la seconda - ampiamente sostenuta dalla letteratura sulla intersectionality - è che l’inclusione nel diritto di famiglia
avvantaggi i gay e le lesbiche che non sono discriminati per caratteristiche diverse dall’orientamento sessuale,
penalizzando ancora di più sul piano sociale le esperienze affettive che non si conformano agli standard vigenti.
In risposta a queste critiche si è sviluppato un dibattito che riprende le prime discussioni sulle potenzialità
trasformative delle famiglie omosessuali con figli (cfr. Hayden 1995; Naples 2004; Stacey 2006) e promuove una
più attenta analisi delle esperienze concrete di omogenitorialità. Ciò permetterebbe di mettere in luce come,
attraverso le reti in cui sono inseriti i minori d’età, questi nuclei costruiscano occasioni di riconoscimento sociale
che problematizzano i significati egemoni della famiglia e della genitorialità (Bernstein, Reimann 2001; Bernstein
2015) anche a vantaggio di modelli di relazione alternativi a quelli fondati sulla coppia genitoriale (Walters 2014).
Parallelamente, il tema della mancanza di riconoscimento formale ha dato impulso ad almeno due importanti
filoni di ricerca. Il primo si concentra sul modo in cui tale mancanza incide sull’organizzazione delle relazioni tra
i partner. Esemplare a questo proposito è il lavoro di Jonnian Butterfield e Irene Padavic (2014) sui nuclei formati
da donne lesbiche. Si tratta di una ricerca che mette in questione la distanza - che si dava per scontata (Blumstein,
Schwartz 1983) - tra i modelli di divisione del lavoro di cura “inventati” da questi nuclei e le asimmetrie tipiche
delle famiglie tradizionali eterosessuali. Al contrario, il timore della convivente della madre lesbica di non poter
più vedere il figlio della sua compagna nel caso la relazione si rompesse la indurrebbe ad assumere una posizione
subordinata rispetto alla partner, assumendo di fatto il medesimo ruolo di deferenza che definiva il corretto
comportamento delle mogli nei contesti patriarcali.
Il secondo filone di ricerca si riferisce invece ai progetti di genitorialità di lesbiche e gay che ricorrono
alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e alle strategie da loro attivate per conquistare spazi di
riconoscimento sul piano della relazioni sociali. Nel caso delle aspiranti madri lesbiche (Dalton, Bielby 2000;
Dunne 2005; Jones 2005; Ryan, Berkowitz 2009; Nordqvist 2010), le ricerche mettono in luce come la
progettazione di coppia di un percorso di maternità rappresenti una strategia - anche consapevole - per negoziare
con l’intorno sociale una legittimazione di sé su più livelli: in quanto donna (per le madri), in quanto madre e
compagna (per le partner delle madri), in quanto famiglia (per entrambe). Al medesimo scopo, le partner delle
madri si servono delle possibilità tecnologiche offerte dalla fecondazione assistita per rafforzare il loro legame
con i figlio delle proprie compagne. Esse infatti selezionano il donatore sulla base del criterio delle somiglianze
fenotipiche. Questo è un aspetto che si inserisce nello studio dei processi di costruzione sociale della parentela e
dei legami primari: nel nostro caso, l’attenzione è puntata sulla somiglianza somatica che si sostituisce al legame
biologico confermandone la centralità.
Il caso degli aspiranti padri gay è meno indagato, ma gli studi che sono stati pubblicati (Ryan, Berkowitz 2009;
Dempsey 2013; Murphy 2013) mettono in luce molti aspetti di continuità con le traiettorie delle donne lesbiche:
l’aspettativa che la genitorialità porti ad un’integrazione maggiore del nucleo familiare e il forte investimento nella
selezione del materiale biologico (e delle donne che “prestano” il loro corpo) al fine di far valere la somiglianza
fenotipica come base del legame primario. Tuttavia, il fatto che i gay ricorrano alla surrogacy (maternità surrogata)
solleva ovviamente questioni specifiche. In primo luogo, le ricerche sono focalizzate sul “lavoro identitario” che
gli aspiranti padri devono compiere per integrare nella loro biografia tutti i passaggi previsti dalla surrogacy. Qui
ci riferiamo principalmente all’intervento delle aspettative normative della maschilità - come la preservazione
dell’onore maschile - nella gestione della scelta di “diventare padri” ricorrendo al mercato. In secondo luogo, e in
maniera più problematica, il ricorso alla surrogacy da parte dei gay amplifica le criticità già sollevate per le coppie
eterosessuali (Roach Anleu 1992; Corradi 2008): la surrogacy configura uno sfruttamento del corpo delle donne
da parte di uomini facoltosi e, al tempo stesso, alimenta la riproduzione di disuguaglianze razziali nella scelta del
materiale biologico e dei soggetti da coinvolgere. Nelle Conclusioni avremo modo di ritornare su questi temi per
sollevare ulteriori aspetti critici che emergono dalle interviste che abbiamo raccolto.
La ricerca sociologica italiana riesce per il momento solo a sfiorare i processi di mutamento messi a fuoco
dalla ricerca internazionale in ragione della carenza di dati empirici. Tuttavia, è stato fatto qualche passo avanti
rispetto alla situazione dei primi anni del 2000. In un recente passato, la discussione sociologica si poteva avvalere
essenzialmente di (pochi) dati relativi alle forme sociali della maternità lesbica, della paternità gay e alle attese di
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genitorialità (Danna 1998; Lelleri et al. 2005; Allegro 2006; Trappolin 2006; Barbagli, Colombo 2007; Lelleri,
Prati, Pietrantoni 2008). Oggi, invece, riusciamo a disporre di informazioni più dettagliate. Innanzitutto, la ricerca
comparativa a livello europeo ci offre informazioni più aggiornate sulla diffusione delle esperienze di genitorialità
lesbica e gay. I dati relativi all’Italia raccolti dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (European Union
Agency for Fundamental Rights 2014) rivelano che, su 10.804 lesbiche e gay interpellati, le madri sono il 15%
- percentuale che triplica quella intercettata dall’unica survey precedentemente disponile (cfr. Lelleri, Prati,
Pietrantoni 2008) - e i padri il 5%2. Inoltre, il 12% delle coppie conviventi dichiara di vivere con un minore d’età3.
In secondo luogo, lo sviluppo recente della ricerca sociologica italiana ha messo a tema due importanti
aspetti legati all’omogenitorialità. Da un lato, le ricerche che si sono occupate della rappresentazione sociale della
genitorialità lesbica e gay (Trappolin 2009; 2010; Istat 2012) hanno evidenziato come il mancato riconoscimento
sociale delle famiglie omosessuali in Italia non riguardi la dimensione delle relazioni orizzontali tra adulti, bensì
quella intergenerazionale tra genitori e figli rispetto alla quale il discorso pubblico sembra tralasciare le esperienze
concrete. Dall’altro lato, le ricerche qualitative sui nuclei omogenitoriali (prevalentemente formati da donne)
hanno indagato più a fondo il tema del riconoscimento sociale prendendo in considerazione l’integrazione dei
genitori omosessuali all’interno delle reti parentali e dei servizi (Bottino 2008; Cavina, Carbone 2009; Danna
2009; Gigli 2011; Bosisio, Ronfani 2013). L’immagine che emerge da questi lavori è quella di un’effettiva
capacità di questi nuclei di promuovere percorsi di trasformazione dei significati della genitorialità e della famiglia
sfruttando le opportunità fornite loro dalla partecipazione a contesti di socializzazione centrati sui bambini.
Nei paragrafi seguenti discuteremo ulteriormente la dimensione sociale del riconoscimento della genitorialità
omosessuale presentando i primi risultati di una ricerca nazionale ancora in corso sulle madri lesbiche e sui padri
gay.
La ricerca: le interviste ai genitori
Le 12 interviste qui presentate fanno parte di un progetto di ricerca molto più ampio e in corso di svolgimento
sul tema delle esperienze di genitorialità nelle coppie formate da persone dello stesso sesso4. L’analisi fa riferimento
alle narrazioni di entrambi i partner di 3 coppie di uomini e 3 coppie di donne - intervistati separatamente tra il
mese di febbraio e il mese di maggio del 2015 - che convivono con figli avuti nell’ambito di un progetto di coppia.
Questi nuclei - nel nostro caso tutti a doppio reddito - in letteratura vengono definiti «pianificati» (Bottino, Danna
2005; Bertone 2008) o «famiglie intenzionali» (Moore, Stambolis-Ruhstorfer 2013) in relazione al fatto che i figli
non provengono da precedenti relazioni o esperienze familiari.
Tutti gli uomini gay sono diventati padri facendo ricorso alla surrogacy, o GPA5, oltreoceano; due donne sono
diventate mamme con la fivet6, mentre una è ricorsa a un’inseminazione artificiale. Tutte hanno scelto, seppur per
motivi diversi, cliniche in paesi europei. Nella Tabella 1 vengono riportati i principali dati socio-demografici delle
persone intervistate. Tutte compaiono con nomi di fantasia.
2 Il campione nazionale è così composto: 2.136 donne lesbiche; 8.668 uomini gay; 805 donne bisessuali e 996 uomini bisessuali. La
categorizzazione si basa sull’orientamento sessuale dichiarato dalle persone intervistate. Le percentuali che abbiamo riportato non
tengono conto del campione di uomini e donne che si definiscono bisessuali. Per questi ultimi, la percentuale di madri è analoga a quella
delle madri lesbiche (15%), mentre tra gli uomini che si definiscono bisessuali i padri raggiungono il 50%. Il metodo di interrogazione
del database, tuttavia, non permette di verificare le composizioni dei nuclei familiari omogenitoriali.
3 Anche in questo caso non è possibile distinguere i nuclei familiari femminili da quelli maschili.
4 Si tratta del progetto di dottorato della scrivente attivato nella Scuola di dottorato in Scienze Sociali dell’Università degli Studi di
Padova.
5 Gestazione per altri.
6 Fertilizzazione in vitro con trasferimento dell’embrione.
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Inserire Tabella 1 (vedi file separato)
Età
Pietro *
Maurizio
Flavio *
Alessio
Enrico *
Manuele
Maria *
Claudia
Brunella *
Elena
Stefania *
Elvira
Età figli
51
52
54
37
36
43
35
31
44
45
46
47
Gemelli
7 anni
6 mesi
4 anni
16 mesi
5 anni
Gemelli
3 anni
Titolo di studio
Scuola media
Laurea
Diploma
Laurea
Laurea
Laurea
Laurea
Laurea
Laurea
Diploma
Laurea
Dottorato
Professione
Impiegato
Dirigente
Impiegato
Infermiere
Lav. Autonomo
Libero Profess
Impiegata
Impiegata
Cuoca
Lav. Autonoma
Insegnante
Editor
Residenza
Centro Italia
Nord-Est
Nord-Ovest
Centro Italia
Centro Italia
Centro Italia
Le persone intervistate sono state reclutate usando le reti dell’associazione Famiglie Arcobaleno, di cui fanno
parte, alla quale abbiamo illustrato le domande conoscitive della ricerca. Si tratta perciò di soggetti accomunati
dalla medesima propensione a rivestire la propria esperienza di un significato politico. Dal momento che l’obiettivo
della nostra analisi è far emergere le strategie utilizzate per guadagnare spazi di riconoscimento sociale, questa
è una caratteristica che li rende particolarmente “interessanti”. Naturalmente, la scelta di utilizzare le reti di
un’unica associazione comporta dei limiti che non possono essere aggirati, per quanto i nostri intervistati abbiano
storie di militanza tra loro disomogenee. Ne consegue che le traiettorie biografiche e i sistemi di significato che
l’analisi fa emergere non possono essere generalizzate. Ci sono madri e padri omosessuali che scelgono strategie
di inclusione sociale che non prevedono la visibilità, e quest’ultima può avere significati diversi a seconda del frame
in cui viene inserita.
La scelta di intervistare separatamente entrambi gli adulti del nucleo è stata utilizzata in altre ricerche
internazionali sulle famiglie lesbiche e gay (cfr. Weeks, Heaphy, Donovan 2001). Nel nostro caso, essa rispondeva
all’obiettivo di indagare le aspettative individuali relative alla genitorialità e le strategie attivate anche verso le
reti familiari della/del partner senza limitare la spontaneità del racconto. Oltre che ampliare lo spettro delle
esperienze considerate, ciò permette di far emergere difformità interne alle coppie ed eventuali tensioni sui temi
oggetto della ricerca.
La traccia di intervista semi-strutturata metteva al centro le seguenti aree tematiche: il percorso di formazione
della coppia; l’emersione del desiderio di genitorialità; la negoziazione con la/il partner; le strategie per diventare
genitori; la gestione del lavoro di cura; i rapporti con la famiglia di origine; la gestione della visibilità con le/gli
insegnanti e nell’ambiente di lavoro; le relazioni con i vicini.
.
Progettare la genitorialità
Diventare genitori è una tappa molto importante a livello personale, di coppia e sociale, per la vita di una
persona adulta. Non fanno eccezione i gay e le lesbiche che abbiamo intervistato. Nonostante le famiglie in cui
entrambi i genitori sono dello stesso sesso creino stupore (Barbagli, Colombo 2007), dai racconti emerge che il
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desiderio di genitorialità è stato molto forte, frutto di una progettazione consapevole e condivisa. Vi sono però
delle differenze tra gay e lesbiche. Per i primi il desiderio di paternità è visto come percorso “naturale” di qualsiasi
altra coppia stabile che vive insieme e si ama, una tappa. Entrambi i partner si aspettano di “diventare papà” in un
percorso di vita a due.
E’ questa la nostra famiglia che, piano piano, è cresciuta con … ed è cresciuto in noi anche il desiderio di allargarla.
Di allargarla, avere dei figli (Maurizio, 52 anni).
E’ stata una cosa su cui probabilmente all’inizio ho spinto più io e poi, poi quando ci siamo trovati… diciamo insieme
ecco, in termini di motivazione, di sentirci, sentirci pronti, per quanto uno possa essere pronto no? Uno non è mai
pronto a fare il genitore (sorride) e naturalmente, però, quando ci siamo detti va beh proviamo ecco, nel senso che
l’idea della genitorialità faceva parte del nostro progetto di vita comune (Pietro, 51 anni).
Nelle coppie di donne, invece, il desiderio di diventare mamma è molto forte e presente inizialmente da una
sola parte. Questa aspettativa viene poi portata all’interno della relazione dove viene negoziata con la partner.
Emerge chiaramente che le donne che desideravano diventare mamme sono quelle che poi di fatto lo diventano:
Ma, io l’ho sempre pensato francamente, cioè non ho mai pensato che non … cioè, pensare che non avrei dovuto
avere figli per me, cioè, ma penso non mi sia proprio sfiorata questa idea. Ma guarda, più che l’istinto materno ho
sempre pensato che avrei avuto dei figli e ora non so se per la famiglia che ho avuto, anche perché penso che non tutte
le donne debbano averne […]. Io, invece, boh, ho sempre pensato che avrei avuto figli, quindi quando ho cominciato
ad avere 30 anni, Elvira 33, ho detto: «ma i figli?» (ride), però poi c’ho messo cinque, sei anni per convincerla perché
lei non voleva, perché diceva che le sembrava una cosa assurda (Brunella, 44 anni).
Nei racconti delle madri legali, la maternità non viene messa in discussione dall’aver intrapreso una relazione
con un’altra donna e, di conseguenza, l’orientamento sessuale non viene percepito come un ostacolo alla maternità.
Anzi, trovarsi in una relazione stabile legittima questo desiderio, è una spinta alla sua possibile realizzazione. Per
gli uomini, invece, emergono delle perplessità circa la compatibilità tra orientamento sessuale e paternità. Anche
se il desiderio è sempre stato forte, ancora prima di trovarsi all’interno di una relazione stabile, l’orientamento
sessuale veniva visto come un ostacolo, sia a livello simbolico che a livello pratico:
Eh… ognuno di noi porta con sé delle storie, che sono la propria vita e io mi portavo la mia, cioè quella di un apparente
eterosessuale che ha cercato di avere dei figli e non ne ha potuti avere eh… poi per ragioni… eh, per ragioni varie
quel rapporto è finito ed è finita anche l’idea di poter avere dei figli, sempre pensando che i figli potessero nascere
soltanto da un uomo e una donna o al massimo sotto un cavolo o li portava la cicogna (Flavio, 54 anni).
Ma la preoccupazione più grande tra le coppie di uomini è legata al benessere di figli cresciuti da due padri
e senza una madre. Importante, in questa fase di ricognizione e maturazione del desiderio, è l’incontro con
Famiglie Arcobaleno che svolge un ruolo cruciale ancora prima che nelle coppie arrivino dei figli. Rispetto alle
donne, gli uomini rivelano un bisogno più forte di documentarsi, di essere rassicurati. Leggono libri e cercano
informazioni su internet sulle famiglie formate da due uomini con bambini. Famiglie Arcobaleno, oltre a fornire
le prime indicazioni rispetto a come muoversi e in quali paesi, dà loro un esempio tangibile del benessere dei figli
che crescono con due mamme o due papà. Legittima il desiderio di genitorialità: se queste famiglie ci sono, se
esistono, allora è giusto:
[…] dopo aver letto non ero ancora completamente convinto di questo percorso, comunque il nostro percorso e
abbiamo deciso di conoscere, che poi i libri e la teoria, puoi dire tanto, ma la cosa fondamentale per noi era vedere
la pratica, vedere questi bambini negli occhi, capire quello sguardo, capire realmente se c’era qualcosa dentro di noi
che stonava. E quindi ci siamo iscritti a Famiglie Arcobaleno e in quell’occasione abbiamo visto, è stata … secondo
noi … per me è stata una rivelazione emotiva, sentimentale incredibile. Allora abbiamo visto tante famiglie, tanti
bambini e tutto molto naturale come, come chiaramente è, eh … con, e dove realmente non c’è nessuna differenza,
né dinamiche positive, né dinamiche negative […] tutte le dinamiche di tutte le famiglie. E quindi da li in poi ci siamo
sicuramente rassicurati, abbiamo deciso di intraprendere il percorso (Enrico, 36 anni).
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Per le donne che non sono mamme legali dei figli, invece, il desiderio di maternità è più debole, all’inizio
quasi assente. Esso emerge all’interno della coppia attraverso l’esplicitazione del desiderio della partner. Infatti,
poi, nessuna di loro diventerà il genitore legale, a differenza dei papà gay che, nonostante le perplessità iniziali,
diventano i genitori legali dei loro figli. In seguito appoggiano il desiderio della compagna e, dopo un po’ di
tempo, condividono il progetto genitoriale come mera conseguenza di una vita a due e di una famiglia:
E quindi è nata sta storia: bella, importante, però lei dopo un poco già tampinava con questo desiderio della maternità.
Io non ne volevo sapere, cioè per me era, era lontanissimo dai miei progetti, non era, non era minimamente
contemplata. Non c’avevo mai pensato, un po’ perché t’ho detto, perché non avevo neanche mai pensato che due
donne … poi non mi volevo sinceramente complicare la vita. […] Mi spaventava l’idea di un figlio, forse perché mia
sorella aveva avuto mio nipote e … diciamo (ride), la sua esperienza non mi aveva rassicurato (ride). […] Io non ci
vedevo tutto questo aspetto bello, gioioso della famiglia … del mulino bianco (Elena, 45 anni).
Se per le coppie di uomini Famiglie Arcobaleno legittima il desiderio di paternità, per le “mamme non legali”
l’associazione riveste un ruolo completamente diverso. Vengono introdotte dalle loro compagne nell’associazione
con la speranza di incrementare un desiderio poco presente, o del tutto assente, ma l’impatto non è sempre
positivo. L’opinione prevalente è che Famiglie Arcobaleno proponga un frame legato ai canoni più tradizionali della
famiglia italiana, sovvertendo quella che invece era stata la prospettiva politica del lesbismo degli anni Sessanta
e Settanta che andava contro le logiche patriarcali ribellandosi alla subordinazione e sottomissione delle madri e
delle mogli nella famiglia:
[…] questa maternità lesbica, in qualche modo, aiuta anche a, ridimensiona anche l’immagine sovversiva che tu
puoi avere di una … di una lesbica o del lesbismo, perché comunque ti riconduce all’interno di un ruolo molto più
tradizionale. Perché il fatto che una mamma che è lesbica e sta con un’altra donna, non lo so. Poi dipende da uno come
se lo vive, come dire, ultimamente anche da parte di questi, dei genitori che appartiene a varie associazioni, genitori
omosessuali, c’è questa voglia di normalità che in realtà mi sembra che non sovverta assolutamente nulla, se non il
bisogno di sentirsi confermati in ruoli codificati […]. Secondo me c’è anche proprio, è anche proprio una questione
di conformismo no? non è che il fatto, che la scelta sessuale, o il fatto di essere genitori omosessuale, in qualche modo
ti immunizza da, da tutta una serie di regole, magari c’è un desiderio di normalità (Elvira, 47 anni).
Per le coppie dello stesso sesso condividere il desiderio di genitorialità è solo il primo passo per la sua
realizzazione. Il secondo passo è la scelta del paese, della clinica e/o dell’agenzia. Per gli uomini una scelta
importante riguarda la selezione della “donatrice” e della “portatrice”. I futuri genitori hanno a disposizione dei
profili molto dettagliati di donatrici e profili di portatrici. In questi profili, principalmente per le donne che
donano gli ovuli, non solo sono indicate le caratteristiche genetiche ma anche i loro hobby, le abilità, le passioni.
Principalmente vengono scelte in base a somiglianze fisiche con i genitori, soprattutto rispetto al colore della pelle
e ai tratti europei-mediterranei.
Allora, la scelta è stata dettata, in parte, per quanto riguarda la donatrice, su delle caratteristiche fisiche, allora
togliamo la parte della salute che quella è la prima […] al di la di quello, ti ripeto, bastava che fosse europea e che
avesse una bellezza normale […]. Europea perché non volevamo mettere guai su guai, non so se hai capito cosa
intendo dire, cioè voglio dire già non sapevamo che cosa stavamo scatenando nel, nel nostro, vicino a noi, se poi
l’avessimo presa anche di colore, no va beh, ecco (Flavio, 54 anni).
La scelta della“portatrice”, invece, è legata più da un’affinità emotiva. Per i nostri intervistati è importante che
esse siano disponibili a mantenere un rapporto con la coppia e con i figli. Si tratta infatti di una figura definita come
molto significativa, soprattutto per spiegare al bambino come è venuto al mondo pur essendo stato desiderato
all’interno di un contesto di amore tra uomini.
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Ai nostri figli abbiamo detto che è colei che li ha portati nella pancia. Non è una nostra parente in senso stretto, non è
la loro madre, e … è stata colei che li ha accolti perché gli abbiamo spiegato da piccolissimi che le pance degli uomini
non sono adatte, non sono adatte a portare avanti una gravidanza, quindi ad accogliere dei bambini e avevamo bisogno
di una donna che ci aiutava in questo. Per ora non abbiamo introdotto la figura della donatrice perché ci sembrava
un po’ complesso da spiegare, però appena potranno capire un pochino di come funziona la riproduzione umana, la
genetica, allora introdurremo anche questa figura. Però sanno che (nome portatrice) ci ha aiutato, ci ha prestato la sua
pancia, si è resa disponibile a farli crescere nella sua pancia ecco. Quindi non c’è un legame parentale, la chiamiamo
zia o mamma surrogata, mamma di pancia, come altri nostri conoscenti fanno (Maurizio, 52 anni).
Le coppie di donne, invece, non scelgono il donatore con modalità così accurate, scelgono solo il gruppo
sanguigno: è la clinica che lo fa per loro in base alle schede che la coppia compila. Solo per una coppia era
importante avere un donatore anonimo “aperto”, ovvero disposto a conoscere la bimba una volta diventata
maggiorenne. Questa coppia è l’unica che non è ricorsa ad una fivet e la mamma legale non si è sottoposta a nessun
tipo di cura ormonale e medica per rimanere incinta. Hanno optato per una via “naturale” in una clinica dove il
concepimento non è incentrato sulla medicalizzazione, ma è inteso come momento intimo della coppia.
Abbiamo visto che nelle copie lesbiche porta avanti la gravidanza colei che la desiderava. E nelle coppie di
uomini? Chi dona lo sperma e per quali motivi? Superate le prime perplessità rispetto alla genitorialità omosessuale,
come negoziano questo desiderio condiviso? La scelta è di tipo strumentale-razionale, il ragionamento è basato
su tre variabili: età, lavoro e rete familiare. Per quanto riguarda il primo punto – l’età – per le coppie di uomini è
importante che ad iniziare la procedura sia il più anziano, così da non far passare ulteriore tempo per un secondo
figlio e non far diminuire le possibilità di riuscita. Il lavoro – secondo punto – è un aspetto che viene preso molto
in considerazione: chi ha un lavoro stabile e a tempo indeterminato ha diritto al congedo di paternità. È questa
un’opportunità da non sottovalutare per non gravare eccessivamente sulle reti di supporto. L’ultimo punto, ma
non meno importante, riguarda la famiglia di origine. Per le coppie di uomini è importante valutare chi dei due
abbia dei genitori che non siano già nonni, così da non togliere loro la gioia di sentirsi pienamente rappresentati
in questa veste, grazie ai legami di sangue.
[…] abbiamo preferito eh impiantare quelli di Pietro per un sacco di motivi anche familiari, perché … io non avevo
già più i genitori e, e quindi ho pensato che, magari, i suoi genitori avrebbero potuto sentire più suoi se i bambini poi
portavano il suon cognome. […] Ne abbiamo parlato insieme ma io, soprattutto, ero convinto che per i suoi genitori,
che all’epoca erano entrambi in vita, fosse importante che portassero il, il cognome dei figli (Maurizio, 52 anni).
Nonostante le preoccupazioni delle coppie di uomini siano molto forti all’inizio, dopo la nascita del figlio il
contesto familiare – in particolare la famiglia di origine – del “padre non legale” accoglie con grande gioia e amore
l’arrivo dei nuovi nipoti, al pari di quelli avuti da altri figli o figlie. Lo stesso succede nelle coppie di donne:
[…] i miei genitori si sentono nonni esattamente come se fossero miei figli, biologicamente miei figli, loro sono miei
figli” (Manuele, 43 anni).
Tra gli aspetti che vengono a galla nella fase in cui si progetta un percorso di genitorialità trova posto anche il
tema del coming out. Uomini e donne che non hanno mai rivelato apertamente la propria omosessualità in famiglia
si sentono legittimati a farlo nel momento in cui decidono di avere un figlio. Le motivazioni sono principalmente
due: la prima è che un figlio rende visibile una relazione di coppia, la legittima consacrandola come famiglia. La
seconda è che per il bene dei figli è giusto presentarsi come due padri o come due madri. Tuttavia, il progetto
di genitorialità non viene rivelato prima che si inizino le procedure previste dai servizi e dalle agenzie. La
preoccupazione principale non è la reazione dei familiari, che si dà per scontata: è bensì la delusione di vedere
infranto il sogno di diventare nonni qualora i tentativi non andassero a buon fine. I familiari che, invece, si sono
dimostrati titubanti circa le scelte di genitorialità dei loro figli, con la nascita del nipote hanno messo da parte
tutte le perplessità.
Cambia, cambia la relazione, tanto più che, nel mio caso […] gliene avevo anche parlato della relazione con Elvira ma
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diciamo rimaneva sempre un po’ nebulosa, un non detto, dopo i figli eh… sono stata molto diretta, molto chiara e
all’inizio è stata dura insomma, c’è stato un momento di… beh, quando gli ho detto che ero incinta era super felice
perché ormai non ci sperava più (ride) (Stefania, 46 anni).
Strategie e forme di riconoscimento della genitorialità
In letteratura l’esplicitazione della propria omosessualità in seguito alla nascita di un figlio viene definita
diplaying family (Finch 2007; Almack 2008). Si tratta di una nuova forma di coming out: le coppie gay e lesbiche
negoziano con la loro famiglia di origine la propria visibilità e queste, a loro volta, la presentano alla loro rete
sociale.
Le sei coppie intervistate mettono in atto quotidianamente delle strategie di riconoscimento sociale date
proprio dall’interazione con gli altri nei diversi contesti sociali. E’ nella rete familiare che si negozia in modo
esplicito e diretto la visibilità e il riconoscimento del ruolo genitoriale ricoperto da entrambi, non solo dal padre
o dalla madre legale. E’ importante per la coppia che le loro famiglie di origine siano consapevoli delle aspettative
di parità dei partner nell’esercizio della responsabilità genitoriale, soprattutto in presenza dei loro figli. La
negoziazione del riconoscimento della “madre non legale” è basata su un lavoro quotidiano e costante con i propri
familiari circa i termini più corretti da utilizzare in presenza dei bambini. Le “mamme non legali” sono coloro
che più soffrono di questo mancato riconoscimento sociale. Non avere alcun diritto sui figli che loro crescono le
rende più fragili anche dal punto di vista emotivo. Essere chiamata mamma, al pari della mamma legale, ha una
valenza simbolica, essere riconosciuta dalla rete familiare legittima il suo ruolo di madre che legalmente non vene
contemplato.
Però, ecco, sul riconoscimento c’è sempre, soprattutto da una parte di famiglia, magari un po’ di fatica a capire che
siamo entrambe mamme […]. E… però si, fanno un po’ di fatica a riferirsi a Claudia come mamma, quindi ogni volta
dicono «Laura vai dalla Claudia» e io invece «Laura, vai da mamma Claudia». Allora magari mia nonna si corregge,
«si, mamma Claudia», cioè deve sempre un po’ essere riassestata” (Maria, 35 anni).
L’inclusione nelle reti familiari è molto forte, soprattutto dopo la nascita dei figli, e viene marcata fortemente
durante i vari riti familiari. In particolar modo il Natale è la festa per eccellenza dove la famiglia viene messa al
primo posto. Se prima di diventare genitori, nonostante la convivenza, la coppia continuava a trascorrere il Natale
separatamente, con l’arrivo dei figli le cose cambiano radicalmente. Si negozia la soluzione più adatta per tenere
unita la nuova famiglia che si è creata, cercando di non perdere i contatti con le rispettivi reti familiari. Emerge,
indistintamente tra donne e uomini, che la scelta più ricorrente è l’alternanza: si cerca di turnarsi il più possibile in
modo da passare le feste con tutti. Oppure si utilizzano le ricorrenze per mettere insieme entrambe le famiglie di
origine, così da non dover rinunciare alla compagnia di nessuno e in più consolidare la rete familiare della coppia.
Per quanto riguarda le relazioni con l’ambiente extra-familiare, nelle coppie di uomini la visibilità come
genitori e coppia appare più immediata date le forti aspettative sociali riguardanti la presenza della madre nella
cura dei bambini.
Per noi è inevitabile il coming out […]. Quando siamo in autobus e la vecchietta di turno si gira e dice «dov’è la
mamma», non posso dire «la mamma è a casa» davanti ai miei figli, perché chiaramente loro diranno «ma come?
Ma perché stai mentendo? Perché non stai raccontando la nostra storia vera? Se menti vuol dire che c’è qualcosa di
sbagliato in questa storia». Quindi in ogni occasione noi dobbiamo raccontarci, a volte devo dire anche con fatica ah
però, ormai siamo abituati (Enrico, 36 anni).
Il riconoscimento sociale della genitorialità delle coppie formate da due persone dello stesso sesso, dunque,
passa attraverso la quotidianità del loro essere famiglia. La strategia scelta – che per molti versi rispecchia
l’adesione delle persone intervistate all’associazione Famiglie Arcobaleno – è presentarsi come nucleo familiare
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per dare la possibilità di far vedere ad altri la propria realtà, a prescindere dalla condivisione o meno di tale scelta.
L’inclusione nelle reti sociali riguarda anche altri contesti relazionali: la scuola, il vicinato e il lavoro. Così
come nelle rispettive famiglie di origine, anche nel contesto scolastico dei loro figli la strategia della visibilità è di
tipo diretto. I genitori – uomini e donne indifferentemente – si presentano apertamente come famiglia formata
da due persone dello stesso sesso. La strategia è funzionale al riconoscimento della genitorialità: durante gli Open
Day i genitori si presentano ai vari nidi apertamente, fin da subito si rendono visibili come famiglia formata da due
papà o da due mamme. La motivazione principale è il bisogno di capire qual è la reazione degli o delle insegnati
nei confronti di questa situazione familiare:
Io ho fatto tutto il giro dei nidi, Maria era ancora in maternità quindi li ho fatti io e dicevo a tutti che Laura c’ha due
mamme per vedere la reazione (Claudia, 31 anni).
Noi ci siamo presentati da subito come due padri, abbiamo spiegato come erano nati i bambini per evitare, sai, queste
cose per cui uno è il padre e l’altro chi è, lo zio, boh, non si sa. E’ bene essere chiari fin da subito (Pietro, 51 anni).
Oltre all’approvazione iniziale da parte dell’insegnante i genitori si trovano, poi, ad affrontare un contesto più
ampio di relazioni nelle quali sono inseriti i loro figli: i compagni di classe e i loro genitori. Le persone intervistate
non riferiscono episodi di discriminazione o maltrattamenti nei loro confronti o verso i loro figli. Tuttavia, esse
sono consapevoli del fatto che avere un atteggiamento aperto non equivale ad accettare automaticamente la
loro forma familiare e/o l’omosessualità in generale. Ciò che, però, per loro è importante è che i loro figli
possano vivere in un clima di accoglienza con i compagni e le maestre. Partecipano, inoltre, ai vari compleanni
dei compagni di classe e, di contro, invitano nelle loro case i compagni di scuola con le rispettive famiglie per
festeggiare i compleanni dei propri figli.
Il coming out non è esplicito, invece, per quanto riguarda la rete di vicinato. Non per timore di eventuali
reazioni negative, ma perché non pensano di dover esplicitare direttamente la loro realtà a persone che non
sono amici, familiari o parenti. Tuttavia, tutti danno per scontato che i loro vicini siano a conoscenza della loro
realtà familiare, grazie anche alla presenza dei bambini. In questo contesto non solo prevale il non detto, ma ciò
non desta preoccupazioni come invece accade con le famiglie di origine. Nonostante tutto, i vicini manifestano
solidarietà nei confronti di coppie in cui è appena nato un bambino, anzi è proprio la nascita che rende questi
rapporti più stretti.
Oltre alla visibilità, all’interno della rete sociale si negoziano anche strategie di aiuto reciproco. In questo senso,
il ruolo principale viene svolto dalle famiglie di origine, e uno marginale dagli amici e dal vicinato, soprattutto per
quanto riguarda le necessità improvvise causate dalle difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Le figure dei nonni,
ove presenti, risultano essere indispensabili nella gestione dei figli. Sono principalmente le nonne che si occupano
del lavoro di cura dei nipoti ma non solo, aiutano anche nella gestione della casa contribuendo ai lavori domestici.
Mentre i nonni hanno più un rapporto ludico con i nipoti e si occupano degli aiuti economici. La lontananza
geografica di almeno una delle due famiglie di origine viene narrata come un fattore che genera problemi. Tanto
che alcuni genitori scelgono di avere una seconda casa vicina al figlio o alla figlia, mentre altri - rimasti soli nel loro
contesto - si trasferiscono definitivamente vicino ai figli, soprattutto alle figlie.
Nelle famiglie, indipendentemente se formate da coppie di due donne o di due uomini, l’aiuto non è solo
quello ricevuto. L’aiuto viene anche dato, seppure - come affermano loro stessi - in misura minore rispetto a
quello ricevuto. L’aiuto dato ai propri familiari, principalmente, è di tipo pratico e burocratico, con genitori
che non hanno dimestichezza con la tecnologia, compiere commissioni piuttosto che accompagnarli per visite
mediche. Raramente si dà aiuto di tipo economico. La lontananza è una variabile che, insieme al lavoro, alla
mancanza di risorse e la poca competenza, viene utilizzata come scusa per spiegare lo squilibrio nella divisione del
lavoro familiare, precisamente nel dare aiuti.
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Conclusioni
Riflettendo sulla propria esperienza genitoriale, una delle donne intervistate - Elvira - si stupisce di come si
siano venuti a definire i rapporti con la sua famiglia di origine: «nei momenti critici di bisogno è incredibile come
sia la famiglia tra virgolette di sangue quella che torna ad essere fondamentale, su cui fare affidamento». Il sostegno
fornito dalla rete della famiglia allargata si qualifica quindi come un aspetto sorprendente per la sua efficacia e
gratuità, per quanto lo si desse per scontato o per quanto si sia fatto per ottenerlo. Probabilmente, questo stupore
si riscontrerebbe in tutte le famiglie italiane data la dimensione di obbligo morale che struttura la relazione tra
genitori e figli nel nostro paese. D’altro canto, il medesimo stupore appare più giustificato nel caso dei genitori
omosessuali che sono costretti a fare le loro scelte in un contesto che, almeno istituzionalmente, non li prevede.
Ma l’affermazione di Elvira rivela anche come le esperienze omogenitoriali non traggano solo dalle reti
comunitarie le risorse necessarie per far fronte alle incombenze della vita quotidiana, come invece suggerirebbe
l’etichetta di families of choice che ha riscosso tanto successo nella letteratura internazionale (cfr. Weston 1991).
I “legami di sangue” sono inclusi tra quelli più significativi, dai quali si ottengono sia riconoscimento che aiuti
materiali nei momenti di bisogno. Come peraltro emerge dalla ricerca internazionale, i nostri intervistati
testimoniano di come la famiglia di origine rientri anche nelle aspettative e nella negoziazione del progetto di
genitorialità, nel momento in cui si può scegliere quale dei due partner sarà il genitore legale.
Inoltre, l’importanza del “legame di sangue” si dimostra cruciale nella legittimazione delle nuove famiglie.
Nel quadro dei mutamenti e delle continuità a cui i nuclei omogenitoriali danno vita, il potersi presentare come
“entrambi ugualmente genitori” agli occhi degli altri, muovendosi in modo strategico nel mondo delle tecnologie
riproduttive e ribadendo l’egemonia della coppia come nucleo genitoriale “naturale”, rimanda ad un complesso
meccanismo di “costruzione sociale della biologia”. Si tratta certamente di aspetti già noti in letteratura, ma che
finora non sono mai stati associati alle “domande di famiglia” provenienti da gruppi specifici.
Se riferito ai genitori gay, tutto ciò non è esente da criticità, molte delle quali hanno già alimentato ampi
dibattiti centrati sul tema dello sfruttamento del corpo delle donne nei casi in cui il progetto genitoriale si avvalga
della surrogacy. A questo dibattito noi aggiungiamo un tassello. Le narrazioni dei padri gay che abbiamo raccolto ci
dicono che le donne che hanno “prestato” il proprio corpo per la surrogacy vengono incluse nella rete di riferimento
delle nuove famiglie, anche se solamente come soggetti narrati. Ai figli nati da questi corpi viene spiegato che le
donne che li hanno partoriti non sono le loro mamme. Ciò è perfettamente funzionale agli scopi di legittimazione
che questi nuclei perseguono. Ma mostra anche un aspetto più problematico: la costruzione sociale del “legame di
sangue” che legittima socialmente le coppie gay risulta possibile solo escludendo tout court la rilevanza del corpo
femminile che dona la vita. È questo probabilmente un nuovo aspetto della degenderizzazione - ovvero l’idea
dell’intercambiabilità tra i sessi e il conseguente offuscamento delle disuguaglianze - che viene sollecitata dalle
trasformazioni sociali di cui le persone gay e lesbiche si fanno portatrici.
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[The Formation of the “Figurational Family”]
Generational Chains of Process-Sociological Thinking in Europe1
Abstract: Norbert Elias explained that «there are more generations needed to fulfil» the aim of
establishing process theoretical thinking. Now we realize that in fact it was and still is continued. Having
been embedded in a specific phase of modernisation after World War Two the scientific reception
of Norbert Elias’s work impressed a whole generation. Elias had an enormous impact and meaning
for a generation that is now in retirement: whilst he was a «grandfatherly teacher», an «intellectual
grandfather» or friend for the ones he was also a «sparring partner», «window opener» and «giant» of
Sociology for others. By interviewing ten of his scholars, assistants and colleagues I therefore ask for
the fascination of Norbert Elias as a person and as a scientist embedded both in changing international
and national scientific communities. Focusing his oeuvre and biography the conditions of reception and
interpretation of sociology from exile became clear within a European carrier group of the «second
generation» of process sociological thinking. «In- and Out-group» relations, «Master-Scholar» relations
developed in a continuously ambivalence of intellectual friendship, competition, recognition as well as
rivalry.
Keywords: Norbert Elias, Processual Sociology, Eliasian Scholarship.
Introduction
The topic of scientific schools, of scholar generations and sociology of intellectuals came into focus again in
recent times (Möbius 2010; Bude 2002; Jung 2012; Welz 2012). In the following, a specific, so far neglected
generation of post-war European sociologists will be considered as they stood, and may be still stand, beside
the popular mainstream sociology of Marxism, on the one hand, and Empiricism on the other. In the meantime,
we have learned a lot about Talcott Parsons, Theodor W. Adorno, Karl Marx, Max Weber, Antonio Gramsci,
Michel Foucault and Pierre Bourdieu, as to mention some of the most popular and classical sociologists. Although
Norbert Elias’s (1897-1990) famous book The Civilizing Process is by now amongst the top ten of the ISA sociology
bestseller list, in the international context we know little about the founder of process theory, his biography and
oeuvre outside the Eliasian expert world and the interdependent dissemination of process-sociological thinking
in current European sociology. Studying society beyond the traditional antagonism of individual versus society
or macro versus micro sociology, Elias’s theory was, and indeed still is, very inspiring and innovative to enforce
sociological thinking about social developments and humans in terms of interdependencies, balances, forward
and backward movements of society instead of, for example, disruptive changes. Moreover, he is one of the few
sociologists helping to look simultaneously at macro and micro developments of society. Elias, as a Jewish-German
intellectual, was also one of the first European sociologists coerced to go into exile. Especially from this exile
position and experience not being able to return to Germany, he lived and worked in many European countries.
As one of the non-intended side-effects of this specific situation he built up a school, although he did not want to.
1 I would like to thank, first of all and in particular, the interviewees Artur Bogner, Eric Dunning, Maria and Johan Goudsblom, Richard
Kilminster, Hermann Korte, Stephen Mennell, Helga Nowotny, Karl-Siegbert Rehberg, Abram de Swaan and Cas Wouters, who have
readily offered me incomparably interesting and confidential insights. Elke Korte I thank very much for her professional support and
Marion Keller for her constructive enquiries and clarifications for the Frankfurt time. This interview study was financially supported
by the Elias Foundation Amsterdam and the Division Sociology of the Department for Social Economics at the University of Hamburg.
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In my article, I focus on this singular scientific school-building process by asking to what extent it is an actual
school and what its specific glamour is. I will do this by regarding the conditional framework of a particular spacetime, scientific and social constellation of academic friendships, competition and rivalries, because of their effect
on the history of reception and the establishment of process theory:
The success and the efficiency of sociology during a certain epoch, its topics and theories, its fashions and methods,
are substantially shaped by the respective generation that bore it and their relationship to the preceding and succeeding
generation. (Wolf, Burkhart 2002: 421)
The examined scientists from Europe are more or less presented in a chronical order of Elias’s life course,
starting from the first meeting via the academic influence up to the personal meaning that Elias had for the
interviewees. They represent the next and still living first or rather second generation2 of process-sociologists
that had been decisively shaped by Norbert Elias, in the post-war era, while Elias himself experienced from a
specific position the German Empire, the ascent and downfall of the Weimar Republic and the cumbersome new
beginning. Already in its early days, sociology had been immediately exposed to these extreme political shifts.
The Nazi terror and the subsequent Second World War caused a massive caesura both in the German and in the
European scientific community this has not only left its marks on the efficiency and compatibility of the sociological
“schools of thought”. For sociology in the late Weimar period this also meant that the Jewish sociologists, like
Horkheimer and Adorno, Mannheim and Elias, Freudenthal and Freund, were exiled, and their academic careers
were abruptly interrupted or even aborted. Due to a specific conditional framework of a sociology in and coming
from the exile that will be subsequently outlined, Elias’s figurational sociology, his process-theoretical thinking,
had only been belatedly received by the members of the 1968 generation in the Federal Republic. It is astounding
to track, how the gradual reception of Norbert Elias’s process theory had evolved from a «decades-long lack of
response» (Schröter 1997: 201) to overcrowded lecture theatres and the appreciation of the «persuasiveness
of (his) reasoning» (ibid.: 7). Therefore it is worthwhile to interview the most popular and dense connected
competing members of the “figurational family” or network reflecting “how it all began”.
Some studies have already been presented about the young Elias in the circle of the Heidelberg sociologists
during the interwar period, his time in exile, in England and in the Netherlands (Blomert 1999; Hackeschmidt
1997, Korte 2013; Goodwin, Hughes 2011; Goudsblom 1990, 2011). The following reflections for the first time
delineate the development of a successive establishment of process-theoretical thinking in West Germany and
Europe from the narrative perspective of reciprocal interrelations of Elias’s (by now retired) companions. This
process of establishment took place via England, the location of his exile and the Netherlands, where Elias had
lived since the early eighties until his death in 1990. During his engagement with the transition of power relations,
social inequality and civilization processes, Elias formulated the thesis that it takes three generation to recognize
effective changes in societal processes and modes of thought.
The insights, gathered in the following, into the becoming of a figuration of process-sociologists are not only
made as an examination of the establishment process of a sociological approach from outsiderdom to the classics.
Moreover, the study, which surveyed ten to eleven selected second-generation process theorists, also aligns itself
with the newest perceptible advance in disclosing «sociology as a key science of the (young) federal republic»
(Rehberg: 2010).
An indispensable contribution was provided by Norbert Elias, who spoke from a specific exile position as a
Jewish-German intellectual and outsider. The insights in this particular nexus help in particular to answer the
question on what kind of a constellation of personality this school-founding mode of thought is based. On the
other hand, it renders comprehensible to what extent the look on long-term societal changes had been neglected
in post-war sociology and gradually asserted itself, not least due to the power relations in a developed international
network of researchers. Elias had to face these power relations in the context of his multiplicate and biographically
2 The interviewees have met each other during this era on many conferences and other occasions. Some became friends, colleagues or
supervisors of younger scientists in the network. Three of them represent the Dutch, English and German members of the Norbert
Elias Foundation some had been Elias’s assistants. The Dutch colleagues represented the Figurational Sociology Research Group at the
sociological institute of the University of Amsterdam whereas the English and German colleagues researched at different universities.
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defining new beginning and for each of the given constellations of academic friendships and rivalries: in a quasipermanent state of uncertainty on the run via Switzerland to Paris, where he mingled with the milieus of exiles
and literati.Then, after his emigration to England, he arduously earned anew his reputation while in Leicester; this
eventually culminated in him being widely accepted as a renowned sociologist.
Against this backdrop, the present article is going to reconstruct the international / European nexus of a specific
scientific community which played an essential role in the scientific process of establishment of Norbert Elias and
his process theory. The timeframe here considered stretches from the time of his escape in 1933 via the 1950s in
English exile to the 1970s and the belated Elias reception in Germany. Since the 1980s, an institutionalization of
process-theoretical research is recognizable that has been marked, inter alia, with the establishment of the Elias
Foundation in Amsterdam. This analysis will concentrate on the first, the founding generation with its founding
father Elias and the second generation of figurational sociologists, who were born in the time interval from
1932 to 1953 and who will be introduced according to the stations of Elias’s exile. The examination is based on
the evaluation of guided German and English interviews with selected first-generation process theorists, who,
as colleagues, friends and pupils in England, the Netherlands and Germany are counted amongst the inner and
broader circle of the figurational-sociological scientific community and, by association, as the first supporters. In
Germany, it was predominantly the members of the ‘68 generation for whom Elias and his process-theoretical
approach had a great appeal. The extent to which Elias’s approach offered them alternatives to the antagonizing
main currents of Positivism and Marxism is likewise going to be elaborated.
Firstly, after a brief look at the work and biography, central terms, like exile, figuration and intellectual
friendship, will be clarified. After that, the accesses to process theory - also in their application upon themselves
– will be outlined, before the pertinent ’68 generation will be portrayed, using selected passages, as a generation
of its time. In doing this, a particular nexus of «in- and outgroup» relations is made visible. They have emerged,
around Elias as a «master of self-dramatization», from a «master-pupil-relation» in the context of a constant
ambivalence of intellectual friendship, colleagues, competition and appreciation in different cultural scientific
traditions. By way of example, processes of getting to know the other person, the collaboration and the personal
efficiency for the mode of thought of the (self-proclaimed) Eliasians will be looked at.
Elias’s oeuvre and biography
In a video recording dealing with Martin Heidegger (Feyerabend, Gembardt 1985) and in his programmatic
text on science and the hierarchy of values (Elias 1974), Elias discloses his specific anti-essentialist view on
ontological and metaphysical notions of eternity. Elias also counted amongst these personified abstractions the
genie cult, taking as an example Mozart (Elias 2010). With hindsight, the cult did distinguish many an Elias
admirer, as will be shown in the following. Elias, born in Breslau in 1897, in particular strove against worldenraptured, essentialist conceptions, with which he found himself confronted in the environment of the German
Empire and its idealist and historic conception of the world. For him, this reasoning, which additionally did not
go beyond a creation of ideal types, was far from the everyday life of the people. His own life, in contrast, was a
life full of fractures: he returned as wounded person from the First World War into a world that was «no longer
his/one» (Korte 2013: 81); he started an argument about Kant with his doctoral adviser Hönigswald; during his
postdoctoral qualification with Alfred Weber and Karl Mannheim, he experienced the rise and downfall of the
Weimar Republic; he even dared to attend incognito a propaganda event by Adolf Hitler; and, as one of the last
members of the institute and before the henchman of the Sturmabteilung arrived, he disposed of incriminating
material of the pursued Red Front student body at the Frankfurt Institute of social research (Korte 2013). After
that he fled to the French and English exile, where at first he eked out a living with a stipend from the Jewish
Refugee Foundation in London. With his Frankfurt colleague, Siegfried Fuchs (Foulkes), he founded a group
analytic movement, engaged in adult education and carried out research at the London School of Economics. On
Whitsun 1940, he was all of a sudden alleged to be a «hostile foreigner», «potential spy» and «member of the
fifth column» (Korte 2013: 89), deported, together with his friend Alfred Glucksmann, to the Isle of Man and
interned with Nazi Germans (Glucksmann 1999: 56).
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In view of this fate, all individual coping strategies and mental survival units in this exile are relevant in
perpetuity. In Leicester, Elias finally began his professional advancement; this led him from being a lecturer to
becoming a professor of sociology in Ghana, which had just freed itself from British colonial rule. In the course
of the many visiting professorships in Germany (Münster 1965, Konstanz 1972, Aachen 1976/77, Bochum and
Frankfurt 1977), the Netherlands (Amsterdam 1969, 1970, Den Haag 1971) and the USA (Bloomington 1979,
1982), Elias, eighty years of age, received belated gratification and recognition when he was awarded the Theodor
W. Adorno Prize in the country which had persecuted him decades ago.
Even though it was never meant to be a school3, the pertinent generation of process sociologist displayed a
specific constellation of personalities (Blomert 1999: 330) along with the affective and hierarchical character of
teacher-pupil relationship, as well as family-like coherences (Stichweh 1999: 19-23). Even though one certainly
cannot talk of jaundiced guardianship or ritual surreptitious practices, as it had been the case in the circle around
the literate Stefan George (Raulff 2009), rituals and cultures of memory, a certain ethos and style in continuing
process theory, formed a part of this as well. In answering the question of the figuration sociological nexus of
process theory in, and coming from, the exile, it is neither about making Elias the «subject of a case study in
psychoanalytical theory interpretation» (Schröter 1997: 193). Nor should the debate on an «idealization pressure
of his hungry disciples» (ibid.: 207), or even an Elias exegesis faithful to the original, be addressed. Nevertheless,
the question concerning his source of power and affective aspects, his intellectual embedment that affected Elias
and his works from 1968 onwards at the latest, is relevant. This should by no means proceed on assumptions about
static and essentialist conditions of work and person:
It would be wrong to see Elias as a fully-formed homo clausus, instead he has experienced several developments in his
personal opinions and scientific considerations; although one can certainly say that the basso continuo of his sociology,
which [deals] with the development of figurations and the people who constituted these figurations with each other,
had always been present. (Korte 2013: 58)
One of these situations was the unburdened and hungry post-war generation, of whom Elias was veritably fond
and who, in turn, was likewise fascinated by him. His thinking and the central terms will now be briefly illustrated.
Figurations
With the term figuration, Elias has added to his essentialism critique, which was referred to at the beginning of
the essay, the questioning of the antagonistic tradition of individual versus society. By contrast, at a comparatively
early point, he developed a model of the reciprocal, i.e. interdependent, dependency of humans. In doing this,
it was important for him to free himself both of the metaphysical idea of a free-floating or purely instrumentally
rational performing actor and of the negative, static and reified concept of power. This means that the cohabitation
of individuals is always structured by certain constellations and dynamic networks of relationships, which change
in the course of long-term processes. Depending on the significance that one individual has for the others in this
field of force, his or her position can turn out to be more or less powerful. The examination of the history of his
work, its actors in the context of their reciprocal interwoveness, presents itself as a process-oriented analysis of
power that is linked to the context of its time and puts demands on a “distance in engagement”.
3 Stichweh (1990: 19, 23) states on the topic of scientific schools that though they are lacking explicit entry and membership rules,
one never quits them but continuously enhances one’s mode of thought and possibly passes it on to the next generation. Moreover,
they are marked by an especially affective and hierarchical character of teacher-pupil relationship with family-like multigenerational
coherence. Hence, the term scientific community, or the currently popular term network, may rather be applicable in order to avoid a
conceivable hierarchy in the rather static pupil-teacher relationship of the scholastic concept. Rather it is the latency and reciprocity of
knowledge that is pertinent. For schools Blomert emphasizes that they arise from» corresponding constellations of personalities», as e.g.
in Heidelberg in the 1920s (1999: 330). Historic events, too, had an effect on the schools: with the expulsion and murder of critical,
Jewish intellectuals, the Heidelberg tradition, for example, had been terminated.
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Conditions of the study
Deploying a scientific biography as a source for knowledge-sociological research, the «history of work,
individual biography/biographies and societal developments [should be understood as] closely interwoven» (Korte
2013: 8). Already the beginning of process theory as a work, accrued in exile without institutional connection and
long tradition (Goudsblom 2011: 34), indicates particularly difficult conditions. In order to develop a knowledgesociological method that corresponds to process-theoretical thinking, the recently modified methodology and
research strategy of a reconstructive process and figurational analysis is helpful (Treibel 2008; Baur, Ernst 2011). It
can be applied in such a way that process theory itself can be identified as a sub-discipline of its own with positions,
rules and norms as well as values. The respective central means of orientation, control and communication of
science, like discourse and debate, appreciation and reception, as well as institutionalization, should be equally
considered. Finally, the balances of power in the changes to social sciences need to be pointed out (Treibel 2008).
The sampling is determined, on the one hand, by the interviewees’ membership in the generation during the postwar period and, on the other hand, by their central or peripheral positions in the competition-oriented, as well
as family-connoted, network of European process theorists. The coding and the content-analytical, reconstructive
process analysis (Ernst 2010) of the interviews have been done with MAXQDA.
It is remarkable that there are not many female sociologists in the second generation with whom Elias has
collaborated during the post-war years. Helga Nowotny, who was very much impressed by the «exemplary clarity
of [Elias’] thinking» (Nowotny: 667)4, never explicitly considered herself an «Elias-scholar» but rather a «lateral
entrant» (Nowotny: 77-79), while the social psychologist Maria Goudsblom, who was friends with Elias, and the
sociologist Elke Korte contributed rather informally to the figurational network.
Another aspect is the issue of understanding the foreign reality, which, on the one hand, is a methodological
fundamental problem of social research as it is, to understand and explain the “subjectively intended meaning” of
what was said. And, on the other hand, it is about taking the presence of foreign language in the interviews as a
second-order interpretation frame (Tuider 2009). Inevitably, it has to remain incomplete, because the translated
and newly interpreted text is being reconstructed from differing perspectives.
Figuration analysis of a generation of intellectuals
This segment follows Goudsblom’s (1979: 194) proposal to, «when examining any social figurations [...],
attempt to empathize with the empirical world of the various groups of people who constitute the figuration»
and extrapolate the knowledge background of the interviewees in the context of their time. To understand the
genesis of a “we-perspective” of a network of the figurational family, means to primarily clarify, with regard to
the excessively used generation concept5 (Bude 2000: 193), what it is that distinguishes this generation. The
reconstruction of biographical memory is embedded in the institution science (Kohli 1981).
In the establishment of process theory, one group of intellectuals encounters an exile-intellectual and contributes
to the gradual growth of a long-term «community of argumentation» (Blomert, Treibel 2013) that was based on
trust and friendship, as well as rivalry and competition. According to Jung, the intellectual is characterized by a
dilemma: searching for the subjective self-assertion in the tension field between the «socially isolating moment
of thoughtful loneliness» and the «consensual thought of proximity relating to the ideal of friendship» (Jung
2012: 47). In the course of this, shared experience and contentions are mediated in a manner that the «mental
egocentrism does not collide with the dictate of friendly affinity» (Jung 2012: 49). To this are added a defining
key and effect experience as well as a specific expectation (Moebius 2010:56). A generational unit does not suffice
to define the practices of distinction of the «generational context» (Moebius 2010: 56; Mannheim 1970: 8). In
addition, the initial sparks and processes often cumulated into feelings of emotional turmoil and self-transcendence
4 The references to the interviews are made, according to the MAXQDA guidelines, in paragraphs and with nominal associations. The
anonymization of the interviewees has been deliberately waived.
5 Bude names as examples for the methodically uncontrolledly diffusing generation concept popular-cultural fashions, political history,
biography regimes or value orientation.
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in the naming of oneself and the forming of legends and group myths (Moebius 2010: 51). Although Elias, as a
pupil of Karl Mannheim, was not a generational theorist, his picture of a “torch relay of the generations” and the
two- to three-generation-model in the context of the issues of change, immigration, integration and emancipation
can be transferred onto the establishment phase of process-theoretical thinking. This specific approach, ensuing
from multiple initial sparks, met with a special anti-dogmatic group of intellectual supporters and effect, when it
reached the members of the generational context born between 1932 and 1953.
Thus, the labels used in the interviews, from «Elias clique and Elias circle» (Bogner: 286) via «discipleship»,
«church» (Rehberg: 562) to «courtly society» and «sectarian formation» (Rehberg: 562, 727 ff., 113) are to be
seen as significant (external) designation (out-group) of the group examined here. As a self-description of the ingroup, terms like figurational family, «academic survival unit» (Kuzmics 2013), «genius» and «heroic sociology»
stand out.
This “hungry, unloaded” generation then meets the optimistic-pragmatic post-war sociologists, born between
1925 and 1930, who affected the societal-public debate as «charismatics of the outset» (Bude 2002) in a pacified
society under reconstruction; but who, for some of the interviewees, provided insufficient guidance. Instead, during
the formation phase of sociology between subject-specific expansion and dismantling, this generation assumed an
air of ideological criticism. Many were able to quickly recognize Elias as a «representative of an unblemished
grandfather-generation» (ibid.: 272), who wanted to expand his alternative draft into a Marxist class theory. This
was often combined with an idealized «master-apprentice» or pupil-teacher relationship (Schröter 1997: 281;
Korte 2013). Contemporary testimonies suggest that an encounter and collaboration with Elias could, on the one
hand, mean that one would outgrow oneself and perform at one’s best potential. On the other hand, in particular
during the process of writing and composition, one was «not [allowed to] disagree» and was occasionally used for
the «self-expansion» (Schröter 1997: 28) of the, by no means unpretentious, master (Firnhaber, Löning 2003;
Mennell 2006: 1). Against this background, the exemplary portraits are introduced hereafter. First and foremost,
with Eric Dunning, Hermann Korte and Johan Goudsblom, the second generation of process sociologists during
the “arduous outset” of the establishment, differentiated according to age and culture, will be mentioned. They
are followed by the group of those who encountered Elias in the 1970s during his late career. Aachen, Bielefeld,
Bochum, Amsterdam and Leicester become the most important stations.
Selected portraits of European Eliasians
The exiled, asserts Said, lives in a
transient state, having neither actually arrived in the new world nor completely detached from the old, half involved
and half distanced, nostalgic and sentimental, on the one side, an assimilated newcomer or secret outcast, on the other.
Skilfully securing one’s own survival becomes the life maxim, with all the risks attached to becoming comfortable and
rigid – a danger that should never be lost sight of. (Said 1997: 55)
This particular form of existence also accounts for Elias’s paradoxical starting position (Elias 2005, Korte
1988). He, like almost 12.000 other intellectuals and scientists, became a witness and victim of the downfall of
the Weimar Republic, as his academic career was violently interrupted and discontinued during the arising Hitler
fascism. The League of Nations recorded about 500.000 refugees who were forced into exile; this signifies the
migration, in particular to the USA, of a whole academic culture. 392 social scientists can be found on the List
of Displace German Scholars. The Institute for Sociology of the economic and social-scientific faculty of the newly
founded reform university Frankfurt, at which Elias worked since 1930 after his Heidelberg years with Karl
Mannheim, was already closed down in 1933. During this time, the first social-scientific faculty of Germany lost a
third of its scientists (Wolff 1988) and its «critical substance towards the traditional lines of thought in Germany,
historicism and idealism» (Krohn 1987: 21). After the end of the war, the exiled were not able to seamlessly
resume their engagement at the German universities, because as remigrants they were subjected to multiple
resentments and, apart from that, despite every re-education, former Nazi-abiding or suspicious scientists
continued their working (Wittebur 1991:8).
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In this specific transitions from old to new life, Elias, as a social and «intellectual outsider» (Korte: 169), was
able to develop unusual vantage points and particular perspectives. Certainly his power and outsider theories, which
was completely against the mainstream of the then prevalent conflict-, action- and consensus theories (Goudsblom
1979), were often shaped by biographical experiences of relative powerlessness. His «life in marginality» (Said
1997: 71) merged into the formation of a scientific existence at the Department of Sociology of the University
of Leicester after his return from deportation. Here he met with his early patron Ilya Neustadt, with whom he
then became a backbone of the department. As the only sociologists who were cosmopolitically oriented, they
laid the foundations for the, in British sociology by now renowned, Leicester sociology. However, by the mid1970s, due to a «gruesome dispute» (Korte: 297), the formerly reciprocal, friendly relationship had turned
into a unilateral dependence of the less powerful Elias (Goodwin, Hughes 2011). As a nation already equipped
with a considerable islander-self-confidence about the own way of life, Elias described the English academic
tradition as «superficial and compliant» because nobody should be «seriously injured» (2006b: 101). Whether in
Leicester, too, the British «method of realistic yielding» prevailed, we do not know. In any case, the subject, hardly
established at the universities, was struggling for recognition in the context of its increasing internationalization
and institutionalization under American leadership. During the construction period, the gradually expanding
English sociology was guided by language philosophy, empiricism, positivism. This was said to have downrightly
tortured Theodor W. Adorno, who had fled to Oxford (Said 1997: 61). Elias, in contrast, first had to translate his
German texts into English. Initially, they were widely ignored or not taken seriously at the «talking department»
(Goudsblom: 131), for example by the increasingly strengthening colleagues Sydney Holloway, John Goldthorpe,
Percy Cohens and Anthony Giddens (Goudsblom: 97; Dunning: 58; Goodwin, Hughes 2011). In this fragile
nexus, Elias, as an outsider and oldest department member, fell «between all stools» (Gleichmann et al. 1982: 31;
Goudsblom: 89 ff.). Initially, Elias was «not [yet] in a position to demand such an attitude of intellectual respect
from his colleagues» (Gleichmann et al. 1982: 35).
The first encounter with the 20-year-old Eric Dunning also took place at this time. Dunning, a football-loving
economics and German studies major at the former University College Leicester, met a reader who gave courses
in social structure and social philosophy. Elias helped him with the search for a suitable examination subject and
was thus, for Dunning, a supporting, benevolent «academic father» and «friend» (Dunning: 19), who completely
changed the life of the «working class boy» (Dunning: 46 ff.):
Ernst: «So he was also very important to you as the first one who taught you sociology?»
Dunning: «Absolutely yes. But his approach to sociology, complex though it is - the fact that it synthesizes psychology,
sociology and history, that really appealed to me. My brother was of course a Marxist and it gave me some ammunition
to argue against my brother.» (Dunning: 17)
Dunning explained to Elias sport disciplines, like cricket and the offside rule in soccer, or carried out research
about public schools. Together they planned publication and, in the context of the differentiation of sociology,
became the leading scholars in the field of sociology of sport (Dunning: 35 ff., 125). It was not until the 1980s,
that Elias’s texts were increasingly translated and published by Dunning, Kilminister and Mennell (Featherstone
1987; Mennell: 6; Dunning: 125). Richard Kilminister, born in 1943, was at that time still a doctoral candidate
of Zygmunt Bauman and was editing, in painstaking collaboration with Elias, the late work on symbol theory
as well as the English collection of essays. While for Mennell, born in 1944, a rather detached relationship, that
was occasionally marked by distrust, turned into admiration for his later «patron» and «mentor» (Mennell: 81),
Kilminister was rather quickly sure that he had found a genius in Elias. Mennell had already entertained a twoyear exchange of letters in the context of his translation of Was ist Soziologie? (What is sociology?) before meeting
Elias in London for the first time in 1972. While reading the power-theoretical chapter on game models, «the
penny dropped» (Mennell: 6). Since he was at that time grappling with the micro-macro-problem of economics,
he found in the game models an ideal solution. During a personal meeting with Elias, the inexperienced lecturer
from Exeter realized «why phenomenology was a load of rubbish» (Mennell: 8 f.):
I think Parsons went completely off the rails in about 1951 when he adopted all the A.G.I.L. stuff from Robert
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Bales. […] But the point is that in relation to the big issue, what’s called the macro-micro problem or the individualand-society problem, I was enough of a hard-nosed economist to see that the use that sociologists were trying to
make of economics was a load of nonsense. […] In other words, “rational choice” ultimately provides only post hoc
explanations. Obviously, at the time of my accidental encounter with Elias, I was a young and inexperienced lecturer.
In my lectures on sociological theory in those first few years at Exeter I was still struggling with the macro-micro
problem. I thought Parsons had gone completely off the rails, and was just playing with a conceptual Meccano set.
Then I read the Game Models chapter of What is Sociology? and everything slotted into place. (Mennell: 8 f.)
When he wanted to compose an English introduction to the life and works of Elias in the latter’s lifetime,
the young Eliasian, who had always been convinced that Elias was «a sociological intellect in a different league
from Parsons [and, S.E.] infinitely the greater sociologist», found himself in conflict (Mennell: 14). Suggestions
on the English edition of Involvement and Detachment (Mennell: 24 f.) had also been intentionally ignored by Elias.
Nonetheless, for him, Elias remained the most convincing sociologist: «He had such a penetrating mind, whereas
poor old Talcott was building castles in the air. That was clear to me as a young man almost immediately on
meeting Norbert» (Mennell: 10 f.). In 1985, Mennell, supported by Elias and Goudsblom, wrote about «The
Cultivation of Appetite» (1988). Kilminister had been tremendously stimulated, in particular in Leicester in the
courses of this «remarkable man» (7), who, in his eyes, had genius-like traits:
I found his approach, his attitude, his work life-affirming. Whereas, the dominant paradigms of the time that I was
raised in, you know “American mainstream Sociology” or “Marxism”, I found them to be ultimately sterile and
destructive in their implications. Whereas, Elias’s (…) work offers, a vocation, offers a way forward. It’s positive, it’s
life-affirming, there is a heroism in it. (Kilminster: 430)
Despite all the adoration and admiration expressed here, in the end the only co-authorships with the reserved
Elias, and, with that, a mutual cooperation, were only reached in the cases of John L. Scotson in The Established and
the Outsiders, (2010) and of Eric Dunning in Quest for Excitement (1986).
With regard to the next station in the Netherlands, one encounters another constellation of relations. One of
his first Dutch colleagues, the Nietzsche follower Johan Goudsblom, for example, experienced phases from initial
«ignorance» to deep commitment for the advancement of the Eliasian work (Goudsblom 2011: 32 f.). He had been
introduced to Elias in Amsterdam in 1956 during the third ISA conference (ibid.: 34). For Goudsblom, who came
across Elias’s process book while preparing for an examination in social psychology, this was a complete change
of direction on his original way to becoming a historian. It is remarkable, that the then-24-year-old describes his
relationship to Elias explicitly not as a pupil-teacher relationship. For him, Elias was rather a «sparring partner»
and a friend (Goudsblom: 311). Eventually, in 1968, Goudsblom invited Elias to Amsterdam where he could
offer him an institutional, academic environment. With numerous publications he contributed to the spreading of
process-sociological knowledge, for example Sociology in the Balance (1977), Fire and Civilization (1995), but never
became a co-author.
Before his reception in Germany, Elias, furthered by Johan Goudsblom, found special attention in particular
in the Netherlands. His way of thinking caused a paradigm change in the local sociology which had only become
academic in 1921 and, after the Second World War, had been involved in the dominating trends of structuralism,
positivism, empiricism and survey research. At the same time, a certain pluralism had been maintained in the
Netherlands (Goudsblom 1990;Van Doren 1965: 29), while in Germany the fronts had hardened in the positivism
dispute around Karl Popper and Theodor W. Adorno. In 1976, the Figurational Sociology Research Group at the
sociological institute of the University of Amsterdam was founded. It was renamed Process-Sociological Research
Group in 1990. Meeting every two months, a continuous, professional and informal communication had come
into being and, as a consequence thereof, a broad recognition culture:
Since Elias’s writings provided the common perspective of the Figurational Sociology Research Group, the images
and self-images of the group were directly connected with the vicissitudes of the reception of Elias’s work in the
Netherlands. (Goudsblom 1990: 17)
Together with his German colleagues, Korte and Gleichmann, Goudsblom edited the essay collection Human
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Figurations (1977), which was published in celebration of Elias’s 80th birthday, as well as the materials volumes of
1982 and 1984.
Another protagonist is Cas Wouters, who, in turn, found in Elias an «intellectual grandfather» (Wouters:
1058) and friend, who also advised him on personal issues. Between the two an unusual, cordial and reciprocal
relationship evolved, as well as a close professional collaboration. Wouters not only translated The Established and
the Outsiders into Dutch. Together with Elias, he also developed the thesis of informalization in civilization theory,
in order to capture the loosened manners since the 1960s. Elias even composed the preface for Van Stolks and
Wouters’ empirical-theoretical study Vrouwen in tweestrijd (1983) which he praised as «factual, thorough» work of
a «solid» research (1987: 9).
And in the grandfather there is the age difference […] and, also the warmth of the relationship. Mostly the warmth of
the relationship and the intellectual does not mean that it is only intellectual because there was a warm relationship
in the first place but I also think he was an intellectual grandfather because my intellectual father has been Joop.
(Wouters: 1060 f.)
Despite all warm-heartedness, this relationship, as well, was not free of conflict. Wouters had been respected
comparatively quickly as a colleague, but he, too, had to (successfully) ward off Elias’s attempts to not only
formulate Wouters’s idea of informalization but also to dictate during Wouters’s typing (Wouters 688; 2007). In
turn, Elias’s approach to the parent-child relationship or the changed dealing with death had been influenced by
Wouters (Wouters: 563 ff., 626 ff.).
Against this inspiring backdrop, and with some grounds for confidence that the “baton of knowledge” would be
passed on to the next generation, Elias founded the foundation of the same name in Amsterdam in January 1983.
Goudsblom takes stock:
Our aim was certainly not to create a particular parochial branch of sociology named “figurational sociology”.
(Goudsblom 1990: 15)
Nevertheless, process sociology in the Netherlands had and has the image of a distinctive approach. This now
leads to one of the next key figures in Germany, Hermann Korte. After the sociology of the Weimar period had
been rejected as already outdated in the 1950s, and Parson’s structural functionalism as well as pure empiricism had
been favoured (Korte 2005: 16 ff.; Goudsblom 1982: 41), Elias’s guest residencies in Munich, Aachen, Bochum,
Berlin, Konstanz, Bielefeld and Frankfurt caused the resumption of the critical sociology of the pre-war period.
Bit by bit, great theoretical drafts and comparisons were again debated. The need to account for the past instead
of supressing it was enormous during the «golden era» of the burgeoning economic miracle. In the light of the
positivism dispute, this opened additional doors for Elias. Sociology, in the context of educational expansion and
reform of higher education, was at that time still subjected to substantial enlargement.With the guest professorship
at the small institute for sociology in Münster, the cultural- and socio-anthropologically oriented Dieter Claessens,
and his Kant- and Marx-oriented student assistant Hermann Korte, as the «strongest advocates» (Korte 2005: 43)
ensured that, «after bitter years of exile, Elias for the first time [returned] to a German university» (Korte 2013:
51). At this time, the «staunch Parsonian» (Korte: 29) Heinz Hartmann, Helmut Schelsky and Dieter Claessens
taught at the Westphalian provincial town. It was the latter for whom Korte, after his training as a social worker
and sociologist, worked as a research fellow. The lectures by Elias, says Korte, «we gladly attended and I know a
great number of fellow students from that time who all remember Elias’s lectures. [...] The man was erudite, he
was a good orator, he did not deceive his students» (Korte: 31 ff.). He was a «part of the campus» (Korte: 39 ff.).
Korte’s process-theoretical research covered, inter alia, sociological theory, history of sociology, sociology
of city and space, industrial and migration sociology as well as biographical research. Similarly to Mennell and
Kilminister, he, too, received strong intellectual suggestions from Elias, which went beyond the, then likewise
popular, Marxist approach:
In terms of science, it certainly provided me with the opportunity, at the end of the 1970s, of finding a more farreaching approach than the Marxist approaches in sociology: with the three elements [...]: with regard to humans,
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with regard to processes [and] to comparisons (Korte: 595).
As a «privileged companion of a great thinker and friendly elderly gentleman» (Korte: 595), Korte observed
that Elias’s way of thinking noticeably transitioned from an evolutionary approach to a differentiated and
acknowledged process theory. Despite the conflicts, which could be noted in this case as well and were based
on Korte’s intention to write an Elias biography, he eventually not only became a good friend of the «venerated
teacher» (Korte: 241). Moreover, he also Korte became an advisor, disseminator and mediator. With the material
volumes on the theory of civilization (Gleichmann et al. 1979, 1982), a «strong push» (Treibel 2008:13) of a
broad reception of Elias took place after the initial impulse, which continues until today.
The professional competitive struggles of the sociological “schools” in the 1970s, inter alia described by
Siegbert Rehberg, should also not be forgotten. Unfortunately, the Hanoverian colleague Gleichmann, who died
in 2006, could not be questioned about this. That Rehberg, unlike the others already introduced, is not counted
as a member of the “in-group” makes his view particularly interesting. As a result of Rehberg’s intermediation,
Elias had been offered a professorship at the University of Aachen in 1977. However, he, like Mennell before in
London, made the faux pas of addressing Elias as a former Mannheim assistant:
«It could not have gotten any worse. He actually ossified. It was clearly visible that it shocked him.» (Rehberg:
55-63)
Rehberg initially «did not understand the full scope» of this incident. It was not until years later, when «I
kept noticing repeatedly that Karl Mannheim was a traumatic context, in his life in exile» (Rehberg: 63) that
the mistake became obvious. For Rehberg, in his position at the fringe of the Elias circle and «without being an
Eliasian», a «sociological fusible core and energy torque in the midst» (Rehberg: 1003) was formed by Elias. In
particular the impact from the exile was significant in the work and life story of Elias:
Elias has brought me to this, for example, that the constellation of the German development of sociology in the horizon
of the return to Germany, and through the exile for German sociology, is so important. Not as a compensation, but
also as an instruction on the history of the 20th century. [...] This was simply a kind of intuitive consequence of the
encounter. That is why I would say that this [...], without any school situation, has shaped me. At the same time, I have
always seen this from the outside, have always seen the competition [amongst the Elias followers, S.E.]. (Rehberg:
1017)
From 1978 onwards, Elias found new self-confidence at the renowned Centre for Interdisciplinary Research (ZIF)
of the reform-university Bielefeld (Firnhaber, Löning 2003: 89). He worked hard, virtually next door to Niklas
Luhmann, to «expand the alternative concept to Marxist class theory» which had been begun in the process book
(Schröter 1997: 197). In order to experience him, like, for example, at the Bielefeld ZIF conference on the Theory
of Social Processes in June 1984, many of his colleagues and students arrived in Bielefeld from Germany and abroad;
amongst them, inter alia, Helga Nowotny, Annette Treibel, Stephen Mennell, Cas Wouters, Johan Goudsblom,
Hermann Korte and Richard Kilminster (Feyerabend, Gembardt 1985).
Here, Elias worked with his assistant Artur Bogner (1989) on the German edition of Über die Zeit (Essay On
time). In Bogner’s view, shaped by the optimistic and reform mood of the 1970s, nobody could get close to Elias,
since he was the one who dealt with contemporary problems particularly well: «I think, Elias for me is one of the
greatest sociologists of the 20th century and it is not in the same league his followers are in» (Bogner: 298 ff.).
With this, already implied inter- and intra-generational competitive relationships can be suspected. Especially as,
with regard to the establishment of a scientific school, Schröter6 denies Elias any «organisational vigour», although
the «considerable charisma of his person» (1997: 7) did impress. Endued with a particular «pedagogical eros»
(Firnhaber, Löning 2003: 117), Elias provided this specific nexus with the necessary personality and means of
identification for the establishment of a scientific school of thought whose constitution was vied for by the second
generation. In the end, Korte and Goudsblom concurred that Elias, admittedly keen on conflict, was «very careful
6 The fact that it was, of all people, Michael Schröter, one of the closest and last colleagues of Elias, who refused to be interviewed, may
also be considered part of this conflictual connection.
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in dealing with other people» (Goudsblom 421 ff.; Korte: 153) and that he fashioned personal relations almost
always as «teacher-pupil relationships» (Korte 2013: 8). Nevertheless, these relationships had transformed, «very
slowly» (Goudsblom: 114 f.), from teacher-pupil relationships or reciprocally inspiring colleagues into friendship,
though without ever reaching an equal footing (Korte: 462).
For many of the interviewees, Elias has remained a genius, even though the “master of self-dramatization”
and self-confident performer had always rejected this assertion for himself and, in his Mozart study, absolutely
deconstructed the genius cult. These partly depicted professional and institutional approaches already refer to the
interdisciplinary and internationally connectivity of process theory; at the same time a lack of synchronization
in the effect of this specific sociology coming from the exile has to be established. Here we have to agree with
Rehberg, who, already in 1982, has spoken about an «institutional balance system of a detached existence in an
interrupted life» (Rehberg 1982). As a long-term perspective, this balance system of a figurational network can
be described as definitely successful and efficient. Germany and the Netherlands had initially been more successful
than England, which very much followed the American mainstream. After Australia, Austria, France, Switzerland,
Italy, Brazil, Japan, Russia and Israel, theoretical knowledge will certainly also become increasingly prevalent
there.
Conclusion
The article exemplarily sketches aspects of intellectual inspirations and collaboration as well as the
acquaintanceship with one of the most notable German-British sociologists. Many aspects and persons had to
remain unmentioned. Elias probably best-known work The Civilizing Process is by now amongst the top ten of the
ISA sociology bestseller list7, after seemingly having had a too prevalent «fragrance of the past» (Korte 2005: 42)
following the Second World War. 90 years of age, three years before his death, Elias had, by all means, not had
the feeling that «I have done my work» (Elias 1996: 93). «How to proceed hereafter is the concern of the later
generations» (ibid.: 51).
The second generation, who has expressed some views here, has managed, with an anti-dogmatic, highly
reflexive attitude and a committed-detached thinking, to set out on a cumbersome way in long-term processes;
so that now an unagitated Elias reception is part of the basic education in sociology. This is also ascribable to the
third, quasi great-grandchildren, generation of process-sociologists, who have become efficacious with further
introductions to Elias in the context of «canonizing of sociology» (Treibel 2008: 24) in the 1990s. Since then
a series of papers on civilization and process theory has been established under the aegis of Annette Treibel,
Reinhard Blomert and Helmut Kuzmics in the Springer VS press; as well as the new Suhrkamp edition of the
complete works, looked after by Treibel, Blomert and Kuzmics on behalf, inter alia, of the Elias Foundation, as well
as the English complete edition The Collected Works of Norbert Elias, looked after, inter alia, by Stephen Mennell. A
further indication for the establishment of a specific scientific community is the international Figurational Network
with a newsletter of the same name, the internationally advertised Norbert Elias Prize, the journal Human Figurations
and the Norbert Elias Chair. And, not least, the complete personal estate of Norbert Elias can be studied at the
German Literature Archive in Marbach.
7 Here a comparison with Elias’s (2013) integration theory immediately suggests itself, which says that it takes three generations to
render societal outsiders into established. This may also hold true for scientific innovations who, in their time, still are deemed to be
discarded but later on reach the status of classics.
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[Il mutevole equilibrio di potere tra i sessi]
Uno studio di sociologia processuale: l’esempio dell’antico Stato romano
(traduzione di Vincenzo Marasco)
1. Può apparire un po’ inappropriato che mi proponga di parlare dei cambiamenti dell’equilibrio di potere
tra uomini e donne? Senza dubbio è più consueto applicare il termine equilibrio di potere alle relazioni tra gli
Stati. Spesso, questi potenti Stati si confrontano l’un l’altro armati fino ai denti. Se uno di loro accresce il proprio
armamentario letale, l’equilibrio di potere cambia in suo favore. Un potere rivale può allora sentirsi minacciato
e, a sua volta, accrescere i propri armamenti, ripristinando così l’equilibrio di potere iniziale. Ma gli uomini e le
donne, legati o meno nel vincolo coniugale, raramente si confrontano l’un l’altro armati fino ai denti. Ha senso
allora parlare anche nel loro caso di cambiamenti nell’equilibrio di potere? Io penso di sì. Pochi esempi possono
illustrare perché.
Di tanto in tanto mi capitava di incontrare nelle strade di Londra un attempato signore indiano con sua moglie
che, vestita in sari secondo la moda indiana, camminava con contegno due o tre passi dietro di lui. Sembravano
conversare appassionatamente, eppure non si rivolgevano uno sguardo. Il marito le parlava a bassa voce, senza
voltare la testa, come interpellando l’aria vuota davanti a sé, mentre lei rivolgeva la sua risposta senza alzare gli
occhi, nonostante, talvolta, mostrasse una chiara risolutezza.
Questo, a mio parere, è un esempio vivente di una relazione di potere impari tra i sessi, e, forse, anche di
ciò che è stata definita una “armoniosa disuguaglianza” (Van Stolk, Wouters 1987, cap. 5). In particolare, ci
permette di capire che in queste situazioni ci stiamo confrontando con un tipo di diseguaglianza che è stata a
tal punto codificata dalla società in questione, da diventare non solo una abitudine, ma anche una disposizione,
parte dell’habitus sociale degli individui. Il controllo esercitato dai costumi sociali si è dunque profondamente
trasformato in una seconda natura e, così, in un’auto-costrizione. Un uomo e una donna cresciuti all’interno di
questa tradizione non potrebbero, senza difficoltà, infrangerla senza perdere il rispetto di sé e del proprio gruppo
- nonostante tale comportamento risultasse alquanto strano nelle indaffarate strade di Londra.
Vedendoli, non ho potuto fare a meno di ricordare altri, e forse più espliciti, esempi di equilibri di potere
asimmetrici tra i sessi, rappresentati da forme di codici sociali ineludibili. Ad esempio la spaventosa tradizione che
imponeva alle vedove di un bramino di ardere vive nella pira funeraria del marito.
————
Nel 1984, parlando ad una conferenza, Elias raccontò che, poco dopo aver composto Il processo di civilizzazione, aveva iniziato a lavorare
ad un lungo testo dattiloscritto in lingua tedesca sul “mutevole equilibrio di potere tra i sessi”. Ci aveva lavorato, a quanto disse, perché
sentiva che scrivendo Il processo di civilizzazione non aveva reso giustizia al tema, dedicandovi un solo capitolo. Sfortunatamente, nel
1972, Elias lasciò questo dattiloscritto sul pavimento della sua stanza dell’Università di Leicester in occasione di un incarico come
Visiting Professor all’Università di Costanza. In quella circostanza, gli addetti alle pulizie dell’Università approfittarono della sua assenza
per rimettere ordine nella sua caotica stanza, consegnando così all’inceneritore il testo originale. Il saggio qui tradotto costituisce una
successiva ricostruzione di Elias della prima parte di questo lavoro, che riguardava il rapporto tra i sessi nell’antica Roma. Una prima
versione fu proposta in lingua inglese, nel 1985, in occasione della prima Lettura de il Mulino a Bologna. Il testo fu poi successivamente
rivisto, tradotto in tedesco e pubblicato la prima volta nel Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie nel 1986. In lingua inglese
fu pubblicato la prima volta nel 1987, in Theory, Culture and Society, 4(2-3), integrato con le nuove correzioni effettuate sulla versione
tedesca. È questa la versione che qui traduciamo, così come proposta in Elias N. (2009), The Collected Works of Norbert Elias, 16, R.
Kilminster, S. Mennell (eds.), Dublin: University College Dublin Press, © Norbert Elias Foundation, Amsterdam. Le informazioni
riguardanti le vicissitudini di questo saggio contenute in questa nota sono riprese dalle Note to the text dello stesso Collected Works, alle
pagine xix-xx [ndt].
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In questo caso, l’usanza era inserita in un equilibrio di potere tra sessi così sbilanciato da far sì che la moglie dovesse
seguire il marito nella morte come fosse una sua proprietà1: in quanto donna, non rappresentava una persona nel
pieno dei propri diritti, non le era permesso avere una vita propria. Ancora, una usanza cinese prevedeva che le
donne dovessero fasciarsi i piedi talmente stretti da esserne menomate. Il risultato di questa pratica era che le
donne camminavano con difficoltà, perdendo così molta della loro libertà di movimento. In ognuno di questi
casi, era possibile che le mogli di una particolare famiglia disponessero di una tale forza di carattere rispetto ai
loro mariti così da potersi guadagnare individualmente una posizione di comando nella gestione delle questioni
familiari. Nella società nel suo complesso però, gli uomini come gruppo sociale gestivano molte più risorse di
potere delle donne. Il codice sociale vigente relegava, quindi, le donne in una posizione inequivocabilmente
subordinata ed inferiore rispetto agli uomini.
2. Colpisce che il tradizionale codice di condotta delle classi medio alte europee sia stato, a tal proposito,
piuttosto ambiguo. Per lungo tempo, almeno fino al diciannovesimo secolo, le donne sposate nella maggior
parte dei paesi europei non avevano il diritto alla proprietà; di regola, la legge chiudeva più spesso un occhio
sull’adulterio maschile rispetto a quello femminile; le relazioni sessuali di un uomo non sposato venivano entro
un certo limite perdonate, mentre quelle delle donne non sposate erano severamente condannate e stigmatizzate.
Eppure, benché in questi ed altri aspetti il tradizionale codice di condotta europeo riflettesse la disparità di potere
in favore degli uomini, sotto altri il quadro appariva differente.
Non esistevano regole ferree tese a dimostrare pubblicamente il fatto che la donna fosse proprietà del marito,
o almeno socialmente inferiore all’uomo, quali quelle indicate dagli esempi che ho riportato. Agli uomini era
anzi richiesto - e il fatto può sorprendere - di comportarsi pubblicamente con le donne nella maniera solitamente
riservata alle persone socialmente superiori e dotate di maggior potere. E così, secondo queste regole, ogni uomo
che si rispetti avrebbe dovuto attendere all’ingresso per consentire alle donne di passare per prime una porta, o
non avrebbe dovuto sedersi a tavola fino a che le signore non avessero a loro volta preso posto. I rituali di saluto
differivano sotto alcuni aspetti tra Paese e Paese ma generalmente tendevano a favorire le donne. In alcuni casi stava
a loro scegliere se, per la strada, salutare o meno un conoscente; in altri, per un gentleman era d’obbligo togliersi
il cappello e salutare profondamente qualora avesse incrociato una signora di sua conoscenza per la strada; e c’era
poi il più ovvio segno di subordinazione sociale, una volta tipico degli incontri cerimoniali tra il sovrano ed i suoi
sudditi: il bacio della mano. In molte società europee, baciare la mano di una signora faceva parte integrante del
cerimoniale di saluto che un gentiluomo doveva mettere in scena al momento della visita o del congedo dalla casa
di una signora ed anche quando si incontravano per la strada, e in una sua forma in qualche modo ridotta questo
comportamento si può ancora ritrovare al giorno d’oggi nei circoli di famiglie bene in alcuni paesi dell’Europa
centrale. Ci sarebbero altri esempi, che posso però tralasciare qui.
Come si può vedere, questo codice di condotta prevedeva che le donne fossero trattate in pubblico come
persone di un più alto grado sociale. Non ci potrebbe essere contrasto più grande con i codici andrarchici2
menzionati in precedenza, che richiedono pubbliche dimostrazioni dell’inferiorità sociale della donna. Anche
ad un rapido sguardo, il problema che qui incontriamo è piuttosto chiaro: il codice europeo di buona condotta,
nonostante la sua generale impostazione andrarchica, aveva incorporato alcune marcate caratteristiche ginarchiche.
Un tale codice, una volta così pervasivamente osservato nelle [società] europee e nelle società colonizzate in altri
continenti non può mai essere il prodotto di un evento accidentale o di un capriccio: è sempre il segno, per così
dire, di una cristallizzazione dello sviluppo e del conseguente cambiamento delle strutture di potere dei paesi in
1 L’amministrazione imperiale britannica ebbe qualche difficoltà ad abolire questa tradizione.
2 I tradizionali concetti di patriarcale e matriarcale non possono essere usati in questo contesto. Essi si riferiscono agli uomini nella loro
qualità di padri e alle donne nella loro qualità di madri. Preferisco allora i termini andrarchico, inteso come “a dominanza maschile”,
e ginarchico, “a dominanza femminile”, ai due concetti più tradizionali in quanto un dominio degli uomini non è necessariamente, e
certamente non in questo caso, identico ad un dominio dei padri, né uno delle donne a quello delle madri.
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cui è - o fu - in uso. I rituali della passeggiata della coppia indiana, [o] la pira della vedova del bramino, riflettevano
una disparità tale nell’equilibrio di potere tra i sessi che le donne erano costantemente tenute a dimostrare la
propria inferiore posizione attraverso i propri comportamenti. Il codice europeo di cui ho dato solo pochi esempi
era, in questi aspetti, più equivoco e ci si presenta come un problema aperto e, in un qualche modo, sorprendente.
In questa sede non posso che limitarmi ad introdurre questo problema che può affinare la nostra percezione
dell’ampia varietà di relazioni di potere in questa o in altre aree. Inoltre, non ho certo intenzione di privare della
gioia della scoperta coloro che adorano risolvere gli enigmi irrisolti.
Il concetto di equilibrio di potere consente, come si può vedere, la messa a fuoco di variazioni e gradi nel
differenziale di potere tra gruppi umani. La nostra tradizione di pensiero ci ha confinato per troppo tempo a
semplicistiche polarità statiche, come quella tra governanti e governati, mentre abbiamo evidentemente bisogno
della possibilità di immaginare un approccio più graduale, della possibilità di dire “più” o “meno”. I due codici
di condotta di cui ho parlato, quello indiano e quello europeo, rappresentano un equilibrio di potere tra i sessi
sbilanciato in favore degli uomini. Ma i differenziali di potere tra i sessi sono evidentemente molto maggiori
quando la pressione sociale è in grado di indurre una vedova a farsi ardere viva, di quelli che possono essere
riscontrati tra le donne del diciannovesimo secolo come la Nora di Ibsen3 o l’Irene di Galsworthy4 che, benché
sottoposte ad un regime dominato dagli uomini, disponevano già di una qualche possibilità di resistenza. E le
deboli tracce ginarchiche sparse nel codice europeo, intrinsecamente andrarchico, mostrano, inoltre, la necessità di
disporre di un vocabolario maggiormente differenziato.
3. La tradizione europea, nel suo ininterrotto sviluppo, risale all’antichità del vicino oriente e greco romana.
Lo si può delineare attraverso il Medioevo fino ai tempi moderni. Ma il processo di cambiamento, per quanto
ininterrotto, non segue un semplice sviluppo unilineare. Per quanto riguarda l’equilibrio di potere tra i sessi,
il processo non è partito da una situazione di totale sottomissione delle donne in tempi remoti mostrando via
via gradualmente una diminuzione delle diseguaglianza. Al contrario, è possibile in questo millenario sviluppo
ritrovare numerosi balzi verso una diminuzione delle diseguaglianze tra donne e uomini - la maggior parte dei
quali all’interno di un singolo strato sociale e, probabilmente, legati a simultanei o susseguenti contro-balzi.
Uno di questi balzi ebbe luogo ai tempi della Repubblica romana e nel primo Impero. Portò da una condizione
di estrema soggezione sociale delle donne nei confronti degli uomini, sia prima che durante la vita matrimoniale,
ad una situazione di virtuale eguaglianza tra i sessi all’interno del matrimonio. Si tratta di uno sviluppo piuttosto
sorprendente - il primo nel suo genere, stando alle mie conoscenze, all’interno di una società-stato - che ha
condizionato i costumi matrimoniali per tutta la durata dell’Impero romano e oltre, influenzando la concezione
del matrimonio della prima chiesa cristiana, benché molti dei suoi rappresentanti rimanessero a favore di una
restaurazione o preservazione delle vecchie diseguaglianze di genere. La questione di se e quanto, questo primo
grande slancio verso un equilibrio di poteri maggiormente egualitario tra i generi all’interno del matrimonio,
abbia avuto una diretta influenza sul successivo sviluppo europeo, è ancora materia di indagine. Ma lo sviluppo
romano rimane, comunque, degno di attenzione in sé e per sé: la questione delle condizioni che hanno prodotto
tale balzo verso una maggiore eguaglianza tra uomini e donne è un problema la cui rilevanza va ben oltre l’età
classica a cui si riferisce l’esempio, anche se al momento è possibile solo intravedere la sagoma della soluzione.
4. Per provare a comprendere la relazione tra uomini e donne nella Roma del primo periodo, dobbiamo
mettere da parte molti dei concetti familiari in uso ai nostri tempi. Usiamo ancora il termine famiglia derivato
dal latino familia, ma l’innegabile discendenza delle parole occulta le profonde divergenze del loro significato. Lo
stesso si dica per matrimonio e per gran parte delle parole contemporanee con antecedenti latini.
I documenti giuridici dello stato romano mantengono ai nostri occhi, in merito al matrimonio o alle relazioni
3 Nora, personaggio di Herik Ibsen (1828-1906), in Casa di Bambola (1879) [ndc].
4 Irene, personaggio de La saga dei Forsyte, ciclo di romanzi di John Galsworthy (1867-1933), in particolare Il Possidente (A Man of Property,
1906), Nella ragnatela (In Chanchery, 1920) e Affitasi (To Let, 1921) [ndc].
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tra sessi e a molti altri aspetti della vita sociale, i costumi e le norme caratteristiche della fase pre-statale o tribale
nello sviluppo del gruppo umano che adesso indichiamo come Romani. Una caratteristica strutturale dello stato
romano, su cui si dovrà tornare successivamente, chiarifica tale sopravvivenza di condizioni pre-statali nelle leggi e
nelle tradizioni di una società-stato. Nel caso delle pratiche matrimoniali la perpetuazione di condizioni pre-statali
nella Repubblica romana viene confermata dalla somiglianza di tali costumi con quelli in uso presso altri gruppi
tribali indo-germanici che sarebbero apparsi nella documentazione scritta della storia europea solo molto più
tardi, spesso quasi un migliaio di anni dopo. Così, la pratica degli antichi romani di un matrimonio per compera,
in latino coemptio, ha il suo corrispettivo nel matrimonio germanico per mezzo di un kaup5.
Per di più, la famosa storia del violento ratto dei romani ai danni delle donne dei loro vicini sabini ci ricorda
utilmente come, in quelle antiche fasi, fosse difficile procurarsi delle donne, vuoi perché quelle del proprio
clan erano tabù vuoi perché le neonate femmine erano più trascurate dei maschi. I giovani uomini prendevano
dunque le mogli al di fuori del proprio gruppo. Vale a dire che, se potevano, le prendevano con la forza; oppure,
se necessario, davano qualcosa in cambio - in altre parole, le compravano.
Interpretare il diritto romano senza considerarne la coerenza sociologica può essere fuorviante. Acquisire
una moglie tramite compravendita appariva una forma normale di matrimonio, come emerse di nuovo, quando
le tribù nomadi germaniche si stabilirono in una prima forma di statualità, nella trascrizione latina dei costumi
precedentemente privi di registrazione6.
Nella società romana le donne non sposate, dalla nascita in poi, erano soggette a un atto violento o a una
transazione tra i maschi appartenenti a differenti gruppi familiari. Col tempo però sì è assistito a un cambiamento
significativo, probabilmente dopo un periodo di transizione. I rozzi nobili guerrieri della Roma del primo periodo
si trasformarono, grazie ai bottini di guerre vittoriose e allo sfruttamento delle popolazioni soggiogate, in una
piccola oligarchia aristocratica immensamente ricca che governava un vasto impero in espansione. In tal modo
raggiunse, nel corso di generazioni, un più alto livello di civilizzazione. I matrimoni delle figlie, e spesso anche
dei figli, tra grandi famiglie diventavano una questione di politica dinastica, di rivalità per il potere e lo status tra
i membri delle famiglie senatoriali. Se nel periodo precedente, il marito pagava la famiglia o la tribù per le figlie
in età da matrimonio, probabilmente perché erano relativamente rare, successivamente erano proprio le grandi
famiglie dell’oligarchia senatoria a pagare i pretendenti desiderati per le proprie figlie - il cui numero era nel
frattempo cresciuto - sotto forma di dote. Così, nel diritto romano, differenti regolazioni derivanti da diversi stati
di sviluppo, come il matrimonio basato sul pagamento o sulla dote, potevano trovarsi spesso fianco a fianco. Ma
è improbabile che le istituzioni sociali e le tradizioni stesse cui queste regolazioni si riferivano continuassero ad
esistere contemporaneamente.
5. La linea di sviluppo delle relazioni tra sessi nella repubblica romana è più chiaramente visibile se, per
5 Un matrimonio era in larga misura dipendente dalle relazioni tra gruppi tribali autogovernantesi. Nella incessante lotta per la
sopravvivenza in cui vivevano tali gruppi nelle prime fasi, il matrimonio tra una figlia di un gruppo e un figlio di un altro rappresentava
un mezzo per costruire tra i due legami di alleanza e amicizia. Il matrimonio, e il dono nuziale che sembra da sempre aver accompagnato
la pratica matrimoniale, veniva programmato per costruire pace ed amicizia tra due gruppi. L’accettazione del dono da parte dell’altro
gruppo era segno che i suoi membri avevano intenzione di confermare tale legame. Il rifiuto significava che essi non erano intenzionati
a entrare in relazioni amichevoli e pacifiche. È importante comprendere che la donna stessa costituiva un dono che un gruppo parentale
dava ad un altro, in quanto rendeva possibile generare figli per l’altro gruppo. Ma il gruppo che donava la donna si aspettava qualcosa in
cambio. In tal senso le prime forme di matrimonio si possono descrivere come matrimonio per compera.
6 Un esempio che, in forma attenuata eppure ancora vivida, illustra il concetto di donna come parte della proprietà comune dei maschi
del gruppo parentale è costituito dalla seguente norma giuridica: se un uomo desidera sposare una vedova deve pagare una certa somma
di denaro ad ognuno dei suoi parenti maschi fino al quinto o sesto grado di parentela. Più elevata nel caso del padre o i fratelli che
per gli zii o i cugini, e via diminuendo per gradi. A tale stadio di sviluppo, i gruppi parentali di quel tipo, per i quali è difficile trovare
termini adeguati nel vocabolario di uno stato nazionale industrializzato - “famiglia estesa” è un’impropria denominazione etnocentrica probabilmente avevano ancora le caratteristiche e le funzioni di una unità di sopravvivenza. Con tutta probabilità i loro membri lottavano
l’uno per l’altro in caso di attacco e se necessario si vendicavano l’un l’altro. È probabilmente in considerazione di gruppi di questo tipo
che i sacerdoti talvolta estendevano il taboo dell’incesto ai parenti fino al sesto e settimo grado.
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facilitarne la comprensione, ricostruiamo l’ordine sequenziale degli eventi a partire dalle prime fasi. Sono queste
ad essere probabilmente più distanti da coloro che vivono in uno degli Stati nazionali internamente pacificati dei
nostri giorni.
Nel percorso da tribù a Stato, uno dei principali requisiti per la sopravvivenza di un gruppo o di un individuo,
anche nella vita di ogni giorno, era la superiorità di forza fisica. L’inferiorità sociale delle donne nella Roma dei
primi tempi, quasi certamente molto tempo prima della leggendaria fondazione della città, era allora intimamente
connessa alla loro relativa debolezza fisica. Alcune donne potevano essere più forti di qualche uomo, ma come
gruppo sociale nel complesso gli uomini si trovavano in una situazione di superiorità sia per la forza fisica che per
la consapevolezza di tale forza. Nei periodi della gravidanza e del parto, le donne necessitavano di protezione e,
inoltre, il loro svantaggio venne aggravandosi con la diffusione dell’uso di armi di ferro relativamente pesanti.
Non si può, infatti, comprendere l’estrema inferiorità di potere delle donne indicata dall’usanza maschile
di comprare una moglie - con beni o denaro - dai suoi parenti maschi, se non si considera che essa era propria
di una fase in cui la guerra e le altre forme di violenza fisica tra gruppi umani erano praticamente onnipresenti,
se comparati a oggi; e in cui la sopravvivenza di un gruppo dipendeva in gran parte dalla forza o dalle abilità da
combattimento dei propri membri, specialmente dei maschi. Tali capacità erano di conseguenza determinanti
per lo status e il rango delle persone. In una società guerriera di questo tipo, le donne, considerate inadatte al
combattimento, finivano anche per non essere considerate come esseri umani capaci di autodeterminazione. Se
un uomo prendeva una donna dai suoi parenti con la forza, o se la comprava, ciò significava in effetti che la moglie
era una proprietà del marito. Come per le sue altre proprietà, egli poteva disporne a proprio piacimento7.
Forse possiamo capire meglio perché familia nella tradizione romana non significa ciò che significa per noi l’unione di un marito, una moglie, e prole con una diseguaglianza relativa moderata o una virtuale uguaglianza tra
i sessi. Tradizionalmente il termine romano familia si riferiva all’intera casa e a tutte le proprietà del capofamiglia
maschio, incluso sua moglie, i suoi figli, il suo bestiame e i suoi schiavi. La difficoltà che talvolta oggi possiamo
incontrare nel comprendere il concetto romano di familia è strettamente connessa all’incapacità di cogliere
le connessioni tra la struttura della famiglia di oggi e le caratteristiche strutturali dell’organizzazione che noi
chiamiamo Stato.
Nelle società più sviluppate del ventesimo secolo molte delle funzioni svolte in precedenza dal capo di un
ampio gruppo parentale o di una grande casa - incluse le funzioni di pacificazione interna, quella di giudizio su
conflitti interni e soprattutto quella di guida negli scontri di attacco e di difesa per la sopravvivenza, con altri
gruppi - sono ora saldamente confluite nel governo dello Stato. In quei primi periodi della Repubblica romana il
livello di integrazione statale godeva di poca autonomia e disponeva di risorse di potere assai scarse rispetto agli
anziani patrizi, i capi delle case, i patres familias. Il senato era una assemblea di questi capifamiglia. A chi poteva
rivolgersi una moglie se veniva picchiata dal marito o se le veniva preferita una concubina? Un uomo del suo
gruppo familiare avrebbe potuto intervenire per suo conto, ma ciò dipendeva fortemente dalle effettive risorse di
potere, militari od economiche del proprio gruppo rispetto a quello del marito. Nelle prime fasi della Repubblica
non esisteva una autorità centrale abbastanza forte da imporre il proprio volere o la propria legge sui potenti capi
delle famiglie patrizie.
Così, a rendere ragione del grande differenziale di potere tra uomini e donne - e conseguentemente della
grande inferiorità sociale delle donne - non era la relativa debolezza fisica di una donna di per sé, ma tutta la
struttura della società in cui, tra tutte le facoltà umane, la forza fisica e la capacità di combattimento erano
ritenute funzioni del più elevato ordine.
Oltre alla capacità di combattimento, solo il possesso di poteri magici costituiva una fonte di potere sociale
altrettanto importante - la funzione sacerdotale ancora una volta sta fianco a fianco a quella bellica. I romani,
tuttavia, erano gli eredi di una tradizione tribale in cui la rivalità tra preti e guerrieri si era largamente decisa a
favore di questi ultimi. Ogni gruppo familiare aveva le proprie divinità familiari, ed era il comandante, il capo
del clan, in breve il pater familias ad esercitare anche le funzioni di sacerdote. I romani avevano anche, ovviamente,
fin dal primo periodo, divinità sia maschili che femminili comuni. Ognuna di queste divinità possedeva le proprie
7 Il diritto romano aveva mantenuto anche un’altra forma di matrimonio. Un uomo poteva acquisire diritti su una donna per usucapione.
Egli poteva reclamarla come sua, a quanto pare senza pagare un prezzo in cambio, in quanto ne aveva disposto per qualche tempo.
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sacerdotesse. Queste, le Vestali, occupavano una posizione speciale tra le donne di Roma; in particolare nei primi
tempi, in virtù dei propri poteri magici e della loro relazione con il mondo degli spiriti. La rinuncia al matrimonio
e, più in generale, ad ogni contatto con gli uomini era il prezzo da pagare per questo potere.
6. Le altre donne delle classi sociali romane più elevate conducevano una vita assai confinata, almeno fino alla
fine della seconda Guerra Punica. Fino a quando lo Stato romano non acquisì un effettivo monopolio sull’uso
della forza fisica o riuscì a dotarsi di funzionari desiderosi e capaci di far rispettare la legge e le decisioni delle
corti - se necessario, anche contro l’opposizione delle famiglie più potenti - le donne dipesero totalmente dalla
protezione offerta loro dai parenti maschi. Erano quindi questi uomini ad avere il controllo sulle donne di Roma,
di fatto almeno fino alla sconfitta di Cartagine, e ancora più a lungo nel diritto romano. La Repubblica romana fu,
e rimase fino alla fine, uno stato guerriero. Le donne di Roma, escluse dalle cariche civili e militari, erano nella
tipica posizione di un gruppo di outsider rispetto allo Stato, e per molto tempo la loro posizione, agli occhi degli
uomini, fu quella di persone a metà, di esseri umani di specie inferiore.
A questo proposito, niente è più significativo del fatto che i romani non avessero la consuetudine di dare alle
proprie donne un nome proprio, come si faceva invece nel caso degli uomini. Per distinguerle l’una dall’altra non
usavano altro che la forma femminile del nome del gruppo familiare del padre, della sua gens o clan: se il padre
faceva parte della famiglia dei Claudi, tutte le sue figlie erano Claudia. Per identificarle era possibile aggiungere
“la maggiore” o “la minore”, la “prima” o la “seconda”. Non ritenevano necessario per loro un nome proprio dato
che non le vedevano come individui nel senso in cui percepivano se stessi.
Per lungo tempo le donne romane furono di fatto, e anche di diritto, sempre sotto la protezione - ma potremmo
anche dire, di proprietà - di un uomo e, prima del tardo secondo secolo a.C. e forse anche del primo, esse non
conducevano un’esistenza indipendente. La loro tutela era affidata al padre, o ai loro fratelli o ad altri membri
maschili della loro famiglia.
Vi erano due forme note di matrimonio nella classi elevate romane: nella prima, con l’atto, il controllo della
donna passava al marito, ed era il matrimonio cum conventione in manum mariti; nell’altra, questo trasferimento della
tutela della sposa dalla famiglia di origine al marito non avveniva. La differenza tra queste due forme giuridiche
nel corso del tempo assunse una grande importanza, poiché la seconda di queste forme di matrimonio - in cui
il controllo rimaneva in capo alla propria famiglia e non passava nelle mani del marito - alla fine divenne, in
particolare dopo la definitiva sconfitta di Cartagine, la leva con cui le donne sposate riuscirono a liberarsi di fatto
e poi anche di diritto dal controllo di ogni uomo, e di agire come individui nel pieno dei propri diritti. Ma questo
processo di emancipazione piuttosto sorprendente fu un processo graduale; con tutta probabilità una condizione
di eguaglianza nel matrimonio si affermò pienamente e venne largamente accettata solamente nell’ultimo scorcio
del secondo secolo a.C. e forse non prima della soglia del primo.
Al fine di cogliere nella migliore prospettiva possibile tale sviluppo emancipativo, può essere utile riassumere
i più grandi svantaggi di cui soffriva la condizione delle donne durante le prime fasi della repubblica romana: una
donna non poteva detenere proprietà, e ciò è piuttosto comprensibile essendo a quei tempi una specie di proprietà
degli uomini della propria famiglia o del marito; una donna non poteva divorziare di propria iniziativa, mentre il
marito poteva divorziare da lei; alle donne era proibito bere il vino, e proprio questo motivo, dopo l’adulterio, è
quello più spesso menzionato come ragione per cui un uomo divorziava da sua moglie.
7. È forse necessario aggiungere che il matrimonio romano non necessitava di forme di legittimazione o
registrazione da parte dell’autorità religiosa o statale8. La Repubblica romana non disponeva di mezzi istituzionali
per tenere sotto il controllo dello Stato la vita sessuale delle persone, e così neppure il matrimonio. Non esistevano
uffici in cui poter registrare né un matrimonio né, quando accadeva, un divorzio. A più riprese, l’autorità statale
romana, ogni qualvolta che, gradualmente, raggiungeva una maggiore autonomia rispetto ai potenti gruppi
8 Una situazione molto simile si può ritrovare nelle società germaniche medievali fino al tredicesimo secolo e in misura minore anche
oltre. Riguardo queste condizioni e questi cambiamenti che avevano luogo a quei tempi, vedi Michael Schroter 1985 e 1987.
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familiari, cercò di guadagnare il controllo sulla vita matrimoniale delle classi elevate. Ma la vita sessuale delle
persone rimase, a quanto sappiamo, un fatto che riguardava puramente gli interessati, ed era esclusa dalle questioni
ufficiali. Il matrimonio nella Roma repubblicana era ancora in larga parte una istituzione a livello pre-statale, un
affare di clan o di unità familiari - o, come si può dire, una istituzione privata. Tale istituzione trae origine, come
ho già ricordato, da una transazione tra gli uomini di un gruppo familiare e il futuro marito o addirittura il gruppo
familiare di quest’ultimo.
Lo stesso vale per il divorzio. La legittimazione di un matrimonio o un divorzio veniva dal circolo dei parenti,
degli amici, a volte dei vicini o dei rappresentanti della comunità locale. Una conferma ci viene da una istituzione
pre-statale romana minore. Se un marito intendeva divorziare dalla propria moglie, poteva convocare un iudicium
domesticum, una riunione di parenti e amici che presumibilmente agivano più o meno come istituzione che sanciva
la legittimità del divorzio, ma che probabilmente aveva anche la facoltà di discutere l’intera faccenda e svolgere
un’opera di mediazione tra marito e moglie. Anche quando lo Stato romano si dotò di istituzioni proprie che
potevano trattare le faccende matrimoniali, come quella dei Censori, tali funzionari continuarono a dover fare
affidamento sulle vecchie istituzioni pre-statali. Così nel 307 a.C., il Censore destituì un membro del Senato
poiché aveva divorziato da sua moglie senza riunire un consilium amicorum9. Ancora Augusto, ansioso di contenere
la forma di divorzio facile e informale diffusasi nella fase finale della Repubblica e che attribuiva alle mogli gli
stessi diritti dei mariti in merito alla decisione di porre fine al proprio matrimonio, pubblicò una legge secondo
la quale cui ogni divorzio poteva essere riconosciuto valido solo se formalmente pronunciato in presenza di sette
testimoni, in una sorta di ritorno in auge del vecchio “concilio degli amici”.
Ma il decreto dell’Imperatore ebbe evidentemente un effetto limitato sulle pratiche dominanti. A quello
stadio, le tecniche organizzative e forse persino le risorse finanziarie di cui disponeva l’autorità statale non erano
sufficientemente sviluppate da permettere ai tentacoli burocratici di estendersi alla sfera coniugale.
Il cambiamento nell’equilibrio di potere tra mogli e mariti verificatosi con lo sviluppo della società romana,
dunque, non è imputabile principalmente a una deliberato intervento legislativo. Esso fu innanzitutto un
cambiamento dei costumi, che rifletteva un più ampio cambiamento nella società nel suo complesso. Si può dire,
infatti, che questi cambiamenti siano avvenuti all’interno del quadro della legislazione tradizionale, semplicemente
attraverso una sua reinterpretazione oppure grazie ad un diverso uso di vecchie prescrizioni giuridiche alle quali
si sommò quel minimo di legislazione che permetteva l’adattamento alle mutate usanze. Rispetto alle proprie
norme formali i romani erano molto più conservatori di quanto lo fossero rispetto ai propri costumi.
8. Non mancano certo segnali, al di fuori dall’ambito del diritto, circa l’ampiezza e la direzione del cambiamento.
Si veda, ad esempio, l’epitaffio sulla lapide di una moglie romana del secondo secolo a.C.:
Hospes, quod deico, paul/um est, asta ac pel/ege.
Heic est sepulcrum hau pulcrum pulcrai feminae.
Nomen parentes nominarunt Claudiam.
Suom mareitum corde dei/exit souo.
Gnatos duos creavit, horunc alterum in terra linquit, alium sub terra locat.
Sermone lepido, tum autem incessu commodo.
Domum servavit, lanam fecit. Dixi. Abei.10
[Amico, non ho molto da dire; fermati e leggilo. Questa tomba non bella è per una bella donna. I
suoi parenti gli dettero il nome di Claudia. Amò suo marito nel profondo del cuore. Ha dato alla luce
due figli, uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel
portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito. Va’ pure]
9 Valerio Massimo, Factorum et dictorum meemorabilium (trad. it. 1971).
10 Hermannuss Dessau (1954-5, ed.), Inscriptiones Latinae selectae, 3, Berlin: Apud Weidmannos, 1954-5, riportato in M. I. Finley (1968:
30).
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Questo epitaffio è stato chiaramente redatto o commissionato dal marito o da un altro parente della defunta.
Sono state portate alla luce numerose iscrizioni di questo tipo, e tutte raccontano la stessa storia. Questo testo
è in gran parte convenzionale: rappresenta la ricetta in base alla quale, secondo un marito romano, una donna
possa essere considerata una buona moglie. Ma la laconica brevità di questo specifico epitaffio ci colpisce anche
per una nota individuale. Sembra quasi che il committente di questa iscrizione avvertisse i segnali dei cambiamenti
a venire, e volesse affermare con un certo sprezzo: «così era questa donna e, per Dio, così una donna dovrebbe
essere».
Le donne di quell’epoca, come Finley (1968) ha messo in luce, erano mute, cioè mute per noi. Ma dal poco
che sappiamo, è piuttosto chiaro che durante il secondo e il primo secolo avanti Cristo si sviluppò tra gli uomini
un qualche tipo di confronto pubblico sul ruolo delle donne nella società romana, tra coloro che propugnavano
un cambiamento e altri che vi si opponevano con tutte le proprie forze. Sono rimasti alcuni frammenti delle voci
di questi ultimi, e in particolare di quella di Catone, che si riferisce abbia detto: «gli uomini romani dominano il
mondo e sono dalle donne dominati»11. Coloro che si opponevano ai cambiamenti ne sottolineavano soprattutto
gli aspetti negativi: si riferivano alla immoralità crescente, alla licenziosità di donne e uomini e all’arroganza
delle donne. L’epoca in cui i romani raggiunsero una condizione di civilizzazione tale da permettere loro
di emulare i greci nell’eleganza del linguaggio, nella sensibilità del sentimento e del gusto, nelle arti e nelle
letterature, fu contemporaneamente un’epoca in cui molti di loro guardarono con nostalgia e rabbia al passato di
Roma, considerandolo come periodo migliore, in cui la vita degli uomini e delle donne era più austera e i loro
comportamenti sempre virtuosi.
È più facile comprendere ciò che è davvero accaduto se lo si guarda da una certa distanza. Può dunque
essere utile (riprendendo un punto già citato precedentemente) riassumere alcuni dei tratti salienti rivelatori
dell’equilibrio di potere tra uomini e donne della classe patrizia romana prima che cominciassero a cambiare, per
confrontarli poi col nuovo scenario.
Il cambiamento non fu improvviso; si trattò di un mutamento graduale che ebbe come punto di svolta, come
accennato in precedenza, la definitiva sconfitta e distruzione di Cartagine, che sancì di fatto l’irreversibilità della
posizione egemonica di Roma nel Mediterraneo.
Secondo il vecchio ordine, le donne nubili erano sempre sotto il controllo dei membri della propria famiglia.
Veniva poi scelto per loro un marito in accordo con gli interessi della famiglia. Sposandosi, il controllo sulle
donne poteva o passare al marito, oppure restare in mano agli stessi parenti maschi. In questo lungo periodo, per
quanto ne sappiamo, le donne non detenevano proprietà, ricevevano scarsa istruzione e non avevano il diritto
di divorziare dal marito per propria iniziativa. Mentre le relazioni extra coniugali degli uomini erano date per
scontate, quelle delle donne potevano rovinare completamente la loro vita sociale.
Nella seconda metà del secondo secolo avanti Cristo si avvertì un certo cambiamento in direzione
dell’emancipazione che poi maturò nel corso del primo. Ne fu un segnale il fatto che le ragazze nubili partecipassero
più liberamente alle opportunità educative aperte ai loro fratelli. Alcune di loro acquisirono presto una certa
dimestichezza con la letteratura, la filosofia e la scienza greche, erano capaci di conversare in termini paritari con
i giovani uomini istruiti ed erano abituate guardare al di là dei doveri domestici propri della tradizionale matrona
romana.
Fondamentale fu per il nuovo ordine, soprattutto, il diritto al possesso delle proprietà da parte di una donna
sposata. Come prima, le giovani donne venivano date in matrimonio secondo gli interessi dinastici delle loro
famiglie. Ma il divorzio, che era sempre stato una questione facile e informale per gli uomini, ora lo diveniva anche
per le donne. La moglie poteva dire: «intendo divorziare», tanto quanto il marito. Con l’aiuto dei liberti, che
agivano come i propri uomini d’affari, ognuno al momento di lasciarsi recuperava le proprie proprietà, e questo
era quanto.
Inoltre, mentre nel caso di una giovane donna ancora nubile la politica familiare imponeva di norma la scelta
del marito, una volta divorziata era la donna stessa a decidere se risposarsi di nuovo e, in caso affermativo, chi
scegliere come marito. In aggiunta, mentre in passato le relazioni extra matrimoniali erano tollerate, e di fatto
11 Il riferimento è all’opera di Plutarco Vite Parallele, in particolare al confronto Aristide-Catone. Per la versione italiana cfr. Plutarco
(2011), Vite parallele. Aristide - Catone, Milano: RCS [ndt].
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date per scontate, solo per gli uomini sposati, ora la società tollerava maggiormente, benché entro confini più
stretti, anche le relazioni extraconiugali delle giovani donne maritate, se condotte con l’appropriata discrezione.
Si diceva che il motivo del divorzio di Augusto dalla prima moglie fossero state le sue proteste per le relazioni
extraconiugali del marito. Si diceva anche che Tiberio, il figlio del primo matrimonio di Livia, seconda moglie di
Augusto, fosse il frutto dell’amore clandestino tra Livia e l’Imperatore avvenuto durante il primo matrimonio.
In epoche precedenti, una matrona romana sarebbe stata disonorata al solo sospetto di un adulterio. Nella tarda
Repubblica e poi nell’Impero, storie del genere venivano spesso raccontate senza problemi: a Roma si spettegolava
volentieri e nessuno, a quanto pare, stava peggio di prima.
9. Clodia, la donna alla quale Catullo ha dedicato alcune delle sue poesie più belle, era sposata quando lui
si innamorò di lei. Catullo era un provinciale, discendente da una famiglia di classe media; lei era invece una
gran signora, membro di una delle più antiche famiglie aristocratiche di Roma, la gens Claudia. Si trattava di un
tipo di relazione amorosa che, per quanto sappiamo, era nuova per Roma. E mette in luce i cambiamenti sia
nell’equilibrio di potere tra i sessi sia sulla società romana nel suo complesso.
Un giovane uomo, di grande talento, si era profondamente legato ad una gran signora che, benché ancora
giovane, era più vecchia di lui e superiore per rango, eleganza, esperienza e savoir vivre. Catullo, probabilmente
il principale poeta lirico della Repubblica romana, la amava appassionatamente. Prestando fede alle sue poesie,
lei corrispose il suo amore e gli assicurò, come si suol dire, “i suoi favori”. Poi Clodia lo abbandonò. Erano forse
divenuti oggetto di pettegolezzi? Si era stancata di lui? Catullo in ogni caso continuò ad amarla e allo stesso tempo
a rinfacciarle di aver giocato con lui. Per secoli, le sue parole - Odi et amo - hanno risuonato alle nostre orecchie12.
Egli le gettò in faccia queste parole: “ti amo e ti odio” - e, probabilmente, si trattò della prima volta in cui un uomo
dava espressione alla possibile ambivalenza dei sentimenti. Catullo morì ancora giovane. Si ritiene che la casa di
Clodia a Roma sia stata ritrovata, e che contenesse immagini dei culti misterici allora di moda a Roma13. Le voci
dicono che stabilì dei contatti con Cleopatra, quando la regina d’Egitto arrivò a Roma per visitare Cesare14. Suo
marito morì molto prima di lei, e per quanto si sappia non si risposò15.
Le relazioni quali quella tra Clodia e Catullo - tra un uomo giovane molto dotato ma socialmente inferiore e
una donna più vecchia e socialmente superiore - divennero molto più frequenti solo molto successivamente, al
tempo dell’amore cortese e della società di corte (cfr. Elias 2000; 2006 - ndc), finendo per essere, in qualche caso,
quasi una forma standardizzata di relazione tra uomini e donne. A Roma, rappresentava semplicemente una delle
possibili nuove forme di relazioni tra i sessi. Ed essa portava con sé, come si può vedere, tutta una nuova serie di
emozioni ed una accentuata sensibilità che si esprimeva, ad esempio, nella nuova ricettività del senso e del tono
delle poesie da parte del pubblico romano. Come si ritroverà poi nei componimenti cortesi e più tardi del barocco
(cfr. Elias 1987 - ndc), anche le poesie di Catullo non erano dirette ad un pubblico anonimo ma appartenevano
a ciò che noi adesso, in maniera piuttosto svilente, chiameremmo “poesia d’occasione”. Esse emergevano da una
12 Catullo, Carmina, 85: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris/ nescio, sed fieri sentio et excrucior [Odio e amo. Forse
chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento. Trad. it. Canti, a cura di S. Quasimodo (1955)] [ndt].
13 Alcuni autori hanno associato due fatti: Cicerone, nel Pro Caelia 36, afferma che la casa in periferia di Clodia fosse sul Tevere in modo
tale da renderle possibile guardare i giovani uomini nuotare e scegliere così quelli più attraenti; e nel 1878-80 i resti di una lussuosa casa
romana sono stati ritrovati sotto il palazzo della Farnesina sul Tevere, con stucchi e affreschi che possono essere datati al primo secolo
a.C. tale identificazione è solamente una delle varie possibilità. (informazioni fornite da T.P. Wiseman.) [ndc].
14 Benché, come Elias annotò in una variante scritta a macchina di questo saggio, Cicerone menzionasse Cleopatra nello stesso
contesto di Clodia, non c’è assolutamente nessuna evidenza che queste due donne si siano mai incontrate; le “voci” a cui Elias si riferisce
sembrerebbero essere The Ides of March di Thorton Wilder (New York: Harper, 1948), il quale descrive il suo lavoro “una fantasia su certi
eventi e persone degli ultimi giorni della repubblica romana” e che pone in contatto Clodia e Cleopatra come parte di una complessa
trama per assassinare Cesare. (Informazioni fornite da T.P.Wiseman) [ndc].
15 Questo paragrafo è stampato come una citazione non attribuita in tutte le precedenti versioni di questo saggio. Se è una citazione, la
fonte non è stata identificata. Noi abbiamo esaminato gli originali dattiloscritti e siamo inclini a credere che questo paragrafo sia opera
di Elias stesso [ndc].
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specifica situazione, sia personale che sociale, ed erano pensate per un pubblico di persone conosciute. L’arte
poetica di Catullo mostra chiaramente una specifica espressione del mutamento del rapporto tra donne e uomini.
Se comparato con la Roma del primo periodo, quando le donne erano assoggettate agli uomini, tale cambiamento
nelle relazioni tra i sessi appare in tutta la sua evidenza. Ora, nelle relazioni come quella tra Catullo e Clodia,
la donna è piuttosto inequivocabilmente in una posizione più forte rispetto all’uomo. Maltratta il marito della
donna che ama e le dice quanto la disprezzi: il mutato equilibrio di potere tra i sessi dà vita a forme molto nuove
di conflitto. Le poesie di Catullo ne rappresentano una durevole testimonianza.
10. La virtuale uguaglianza tra moglie e marito nei matrimoni romani fu unica ed ebbe una grande importanza
per il futuro. Per quanto ne sappiamo oggi, questa fu la prima volta nello sviluppo di società statali in cui le donne
poterono prendere il controllo delle proprie vite in un modo fino ad allora riservato ai soli uomini. E questo
cambiamento è andato di pari passo con un più alto livello di auto-disciplina nelle relazioni tra uomini e donne
sposati, fatto che a Roma trovò espressione in un aspetto peculiare dei matrimoni di classe elevata che vale la
pena di citare.
Benché non manchino esempi di sentimenti affettuosi e intensi di tra marito e moglie nella società romana, non
possiamo fare a meno di notare che la tradizione romana favoriva parimenti una curiosa freddezza tra i coniugi.
Spesso, si ha l’impressione che le donne dell’aristocrazia senatoria si auto identificassero molto più strettamente
con la propria stirpe che con quella dei propri mariti. Esse restavano dopotutto parte della nobile casa che
aveva dato loro i natali, mentre il matrimonio poteva essere un fatto transitorio. Inoltre, alcune testimonianze
suggeriscono che le nobildonne di Roma, come quelle di molte altre società, formavano una propria rete sociale,
chiaramente distinta da quella maschile, ma, al pari di questa, con propri canali relazionali e proprie convenzioni.
Posso forse illustrare la presenza delle donne come gruppo sociale distinto, come rete sociale dotata di
proprie convenzioni, con un esempio. Può rappresentare anche un utile esempio di un nuovo tipo di donne, o
più precisamente del cambiamento dell’habitus sociale o della struttura della personalità delle donne, che venne
alla ribalta tra il tardo secondo secolo e il primo secolo a. C. e che si protrasse a lungo a Roma nell’era cristiana.
La differenza rispetto al tipo di donna rappresentato dall’epitaffio citato in precedenza, la cui vita era limitata alla
gestione domestica e al servizio del marito, è impressionante. Non meno impressionante è la differenza tra questa
antica forma di matrimonio romana e quella messa in luce dall’episodio seguente.
Durante la guerra civile a Roma, nella seconda metà del primo secolo avanti cristo, quando Ottaviano (il
futuro imperatore Augusto), Marco Antonio e Lepido governavano lo Stato romano come triumvirato dittatoriale,
essi stabilirono l’imposizione di un enorme tributo su 1.400 donne particolarmente ricche, mogli o parenti vicine
di loro oppositori, banditi o fuorilegge. Le donne decisero di affrontare i legislatori e i governanti dello Stato in
maniera indiretta. Andarono quindi, seguendo quello che era probabilmente il costume delle donne romane, a far
visita alle mogli e alle madri dei triumviri e chiesero il loro aiuto. Ma se furono ricevute amichevolmente nelle
case di Ottaviano e Lepido, Fulvia, moglie di Antonio, le aggredì insultandole e le cacciò.
Le donne, afflitte, si risolsero allora per una mossa inusuale: andare insieme al Foro e spiegare pubblicamente
le loro obiezioni alla scelta dei dittatori, che in quel momento stavano tenendo là un’assemblea pubblica. Se
questa scelta poteva non essere inusuale per gli uomini, lo era sicuramente per delle donne - anche se si trattava
di donne patrizie. Ma i loro uomini erano fuorilegge e all’estero, dunque esse si presero la briga di presentare
personalmente le proprie rimostranze ai dittatori, alla presenza del popolo radunato nel Foro.
Normalmente le donne non prendevano parte ad assemblee e alle decisioni politiche del Foro. Costituiva
un insolito spettacolo un gruppo di nobildonne che si presentava davanti agli uomini di governo. Benché questo
episodio ci giunga attraverso uno storico antico appartenente a un periodo posteriore16, l’intera scena riveste una
notevole importanza se si vuole comprendere la natura singolare della relazione tra uomini e donne della classe
patrizia romana, e in particolare quella del relativo equilibrio di potere. Per alcuni aspetti, come si vedrà, questa
relazione era diversa rispetto a quelle esperite oggi. Il fatto che il racconto che ne abbiamo sia stato scritto solo
16 Appiano, Historia romana, De bellis civilibus, libro IV. [Per la versione italiana cfr. la traduzione di E. Gabba, D. Magnino (2001, a cura
di), La storia romana. Libri 13-17., Le guerre civili - ndt]
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qualche tempo dopo gli eventi non è di grande importanza: è stato comunque scritto per un pubblico di lettori
del mondo antico che dovevano avere una certa familiarità con il tipo di relazione tra donne e uomini descritta, e
ai quali doveva certamente sembrare meno strana di come può apparire oggi.
Il gruppo di donne apparve al Foro, e la folla - si narra - aprì rispettosamente una via per lasciarle passare.
Anche le guardie, la polizia del tempo, abbassarono le loro armi e lasciarono che le matrone giungessero di fronte
ai tre dittatori, i quali, di fronte a quella insolita visione, erano probabilmente sorpresi tanto quanto la maggior
parte del popolo. Il racconto ci dice che i tre governanti erano furiosi, ma una delle donne, Ortensia, figlia di un
noto oratore, cominciò a rivolgersi a loro come da consuetudine e, poiché la folla dava segnali di parteggiare per le
signore, i triumviri decisero di non ricorrere alla violenza e di ascoltare il discorso Ortensia. Questa, brevemente,
l’argomentazione a lei attribuita, chiara e concisa, com’era d’uso nell’antica Roma.
Per prima cosa spiegò perché esse avevano deciso di rivolgersi personalmente ai più alti magistrati dello Stato.
Come si confaceva alle donne di rango che volevano rivolgere una petizione alle cariche dello Stato, esse si erano
inizialmente rivolte alle loro signore; ma erano state trattate in modo indecoroso da Fulvia, moglie di Antonio.
Era stata dunque Fulvia, secondo Ortensia, a costringerle ad arrivare fino al Foro. Loro, i triumviri, le avevano già
private dei loro padri e di tutti i parenti maschi. Se ora si fossero presi anche le proprietà, le avrebbero ridotte in
una condizione non consona ai propri natali, al loro stile di vita e al loro sesso. Così continua Ortensia:
Se vi abbiamo fatto un torto, come dite che i nostri mariti hanno fatto, banditeci, così come avete fatto con loro. Ma
se noi donne non abbiamo additato nessuno di voi come nemico pubblico, non abbiamo raso al suolo nessuna delle
vostre case, non abbiamo distrutto nessuno dei vostri eserciti, né guidatone uno contro di voi; se non vi abbiamo
ostacolato nell’ottenere potere e onori, perché mai dovremmo condividere castighi di cui non abbiamo colpa? Perché
mai dovremmo pagare le tasse se non partecipiamo agli onori, agli ordini, alla gestione dello Stato, mentre voi su
questo siete già in lotta l’uno contro l’altro con risultati così penosi? Ci dite: «perché questo è tempo di guerra»? Ma
quando non c’è stata guerra, e quando sono state imposte tasse sulle donne che, in tutta l’umanità, ne sono esenti, in
virtù del loro sesso? A suo tempo, le nostre madri si resero superiori al loro stesso sesso e fecero delle offerte quando
voi eravate in pericolo di perdere l’intero Impero e la Città stessa nel conflitto con Cartagine. Ma esse contribuirono
volontariamente, non con le loro terre, i loro campi, le loro doti o le loro case - senza le quali non c’è vita possibile
per una donna libera -, ma solo con i propri gioielli, e anche questi non secondo una quota stabilita, non per la paura di
accuse o delazioni, non con la forza e con la violenza, ma donando soltanto ciò che intendevano donare. Che pericolo
c’è adesso per l’Impero o per la Città? Lasciate che la guerra coi Galli o con i Parti ci raggiunga, e in quanto a zelo
non saremo certo inferiori alle nostre madri. Ma per guerre civili non potremmo mai offrire nulla, né assistervi l’uno
contro l’altro! Non abbiamo offerto niente né a Cesare né a Pompeo. Né, d’altra parte, Mario o Cinna hanno mai
imposto tasse su di noi. Né lo fece Silla, che pure governava dispoticamente lo Stato, mentre voi sostenete che state
ristabilendo la Repubblica.
Mentre Ortensia così si esprimeva, i triumviri reagivano con rabbia di fronte a donne che osavano parlare ad una
assemblea pubblica mentre gli uomini tacevano; pretendevano che i magistrati rendessero conto delle proprie decisioni
e non erano disposte a fornire denaro mentre gli uomini offrivano il proprio servizio nell’esercito. Dettero dunque
l’ordine ai littori di condurle fuori dal tribunale e questi si apprestarono ad eseguirlo fino a quando non giunsero dalla
folla urla e grida. Allora, i littori desistettero e i triumviri dichiararono che una decisione sull’argomento sarebbe stata
presa il giorno seguente. E il giorno seguente la decisione fu di ridurre il numero delle donne che avrebbero dovuto
presentare una valutazione delle proprie proprietà da 1400 a 400, e fu decretato che tutti gli uomini che possedevano
più di 100.000 dracme, sia cittadini che stranieri, liberti e preti, e uomini di tutte le nazionalità senza eccezioni
dovessero (sotto la stessa minaccia di sanzioni e di possibili delazioni) dare a interesse una cinquantesima parte delle
proprie proprietà e contribuire con le entrate di un anno alle spese militari17.
Così come descritto da Appiano due secoli dopo, l’episodio è affascinante. Al pari di altri storici, per il suo
resoconto delle guerre civili romane dell’antichità egli può aver usato vecchie fonti e, come altri, ha fatto ricorso
all’immaginazione. La licenza degli storici gli consentiva di animare il proprio racconto con discorsi e conversazioni
inventate, come già avevano fatto Tucidide e Livio. La descrizione della comparsa di un gruppo di nobili matrone
di fronte ai tre governanti poteva essere o meno presente nelle sue fonti. Tuttavia, egli scriveva per gli abitanti
17 Ibid.
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dell’Impero romano. La sua capacità di inventare era limitata da ciò che il pubblico era in grado di comprendere
sulla condotta e sui sentimenti delle donne romane e sulle relazioni coniugali. Al lettore di oggi può sembrare
strano che le mogli e le figlie, donne imparentate con uomini fuorilegge e forse minacciate di morte, se ne stessero
quietamente a Roma -è quasi certo che non sia stato fatto loro alcun male - mentre i loro uomini se ne stavano
nascosti in quanto mortali nemici del gruppo al potere. Evidentemente, nel contesto romano non era così strano.
Si potrebbe dire, con qualche giustificazione, che gli uomini e le donne formavano due distinte sotto classi della
classe dominante nella società romana, e certamente non solo lì.
Quale che sia l’accuratezza storica dei resoconti di Appiano, la sua rilevanza sociologica è ragguardevole. Le
donne a Roma, una volta interamente soggette al dominio maschile, nella tarda Repubblica e nel primi tempi
imperiali divennero esseri umani capaci di autodeterminazione all’interno delle loro relazioni matrimoniali. Il
fatto che disponessero di mezzi indipendenti, di una rendita propria, giocò un ruolo centrale nella indipendenza
personale, sociale e anche matrimoniale. Nell’ambito del matrimonio esse avevano conquistato una piena
eguaglianza. Come i mariti esse potevano porre termine al proprio matrimonio, secondo il proprio volere o per
scelta consensuale.
Ho parlato di una certa freddezza nei modi di relazionarsi tra marito e moglie. Questo ne è un esempio. Non
c’è ragione di dubitare che esistessero nella società romana, come in ogni altro luogo, relazioni di amore, di
affetto, caratterizzate da sentimenti forti e intensi tra marito e moglie. Eppure le donne romane di classe elevata
erano, come si può vedere qui, quasi completamente escluse da quella sfera della vita che nell’epoca repubblicana
costituiva il centro gravitazionale delle attività e delle ambizioni di molto uomini. Erano in gran parte escluse dalla
partecipazione agli affari dello Stato. Nell’epoca imperiale, ovviamente, anche la maggior parte degli uomini della
classe senatoria fu esclusa da questa sfera. Questo episodio mostra dunque alcune caratteristiche delle relazioni
coniugali nella tarda repubblica e nel periodo imperiale significative per comprendere il cambiamento degli
equilibri di potere tra i sessi. Esso mostra l’indipendenza delle donne riguardo alla gestione delle proprie proprietà,
anche se forse in termini idealizzati. Dall’altro lato, può essere indicativo dei limiti di questa indipendenza che
la tradizione prevedesse che le donne, per portare avanti una petizione o influenzare un magistrato, dovessero
effettuare una visita e conferire con le donne della sua casa cercando di influenzare il marito attraverso moglie e
figlie. Questo è un esempio della rete sociale femminile cui mi riferivo in precedenza18.
Il fatto che a Roma, le donne coniugate, probabilmente per la prima volta nel corso dello sviluppo di uno
Stato, avessero raggiunto piena eguaglianza rispetto ai mariti, e che come questi potessero porre fine al proprio
matrimonio consensualmente e forse anche per volontà propria, ebbe conseguenze di vasta portata. L’influenza
di questo processo sui matrimoni può essere avvertita fino alla tarda epoca imperiale e sul diritto romano e poi
ecclesiastico fino al Medioevo. Comunque, come può esserci utile tenere sempre a mente, queste relazioni di
matrimonio tipiche dell’epoca romana avevano aspetti molto differenti rispetto alla relazione egualitaria dei nostri
tempi19.
Nello sviluppo delle società europee è possibile incontrare uno stadio in cui uomini e donne formano, per certi
aspetti, gruppi sociali differenti. Ci sono sfere della vita degli uomini da cui le donne sono escluse e viceversa. Ma
nelle società europee questa separazione tra sfere sociali e la formazione di gruppi distinti per uomini e donne
spesso è andata di pari passo con una pronunciata diseguaglianza tra i sessi nella vita matrimoniale. Nella società
18 L’affermazione che le donne non dovevano pagare le tasse, se confermata, sarebbe ovviamente di grande interesse. Ma non ho trovato
conferme. Potremmo anche domandarci se l’esenzione femminile dalla tassazione non fosse minacciata ai tempi di Appiano.
19 Oggi ci si aspetta, come un fatto naturale, che le donne supportino quel partito e quell’ideologia politica che può consentire al marito
di raggiungere una carica di prestigio, e che lo stesso facciano i mariti qualora le loro mogli siano attiva nella carriera politica. Inoltre,
negli stati multi partito di oggi, i politici che occupano alte cariche devono dare l’impressione di essere un esempio vivente di ciò che
è ritenuta la relazione coniugale ideale, pena il rischio di perdere voti o di danneggiare seriamente le chance di carriera del coniuge
impegnato in politica. Mentre, nella pratica, una relazione moglie-marito relativamente egualitaria spesso richiede continui sforzi di
stabilizzazione, i politici dei nostri tempi sono chiamati a mettere in scena per il mondo esterno il quadro di una identificazione coniugale
ed una stabilità praticamente senza difficoltà. Agli uomini politici dell’antica Roma, e alle donne, non era richiesto tale requisito. La
Clodia di Catullo supportava attivamente la fazione populista di Cesare e del suo stesso fratello, mentre suo marito simpatizzava con
i conservatori di allora. Ma la società romana ai tempi della Repubblica era tutt’altro che una società democratica, era una oligarchia
aristocratica.
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romana, esso si accompagnava ad una virtuale eguaglianza nella vita matrimoniale. L’episodio che ho citato ne può
essere una esemplificazione.
Vi sono altri racconti romani di donne che si riuniscono in gruppi segregati, in raggruppamenti religiosi,
persino nella forma di un senato femminile, e in altri modi che confermano l’impressione che un circuito sociale
femminile separato era e rimase, anche nell’era cristiana, una caratteristica della vita romana. Le donne ricche
avevano pochi doveri domestici. Legami stretti con la propria famiglia di origine, possibile affetto ma anche
una certa freddezza tra marito e moglie, e una rete sociale propria delle donne - queste caratteristiche insieme
delineano un quadro piuttosto coerente.
11. È necessario aggiungere qualcosa sulle ragioni dello sviluppo di un equilibrio di potere più bilanciato nello
stato romano. È opportuno ricordare come, nello sviluppo delle società umane, eventi considerati negativi siano
spesso derivanti da altri ritenuti positivi ed eventi positivi a loro volta possano derivare da quelli negativi. Nel
cercare delle spiegazioni, allora, è meglio tralasciare desideri e valori che abbiano a che fare con il “positivo” e il
“negativo”, e accontentarsi della semplice scoperta di ciò che accadde e perché.
Nel corso di quattro o cinque secoli Roma fu sottoposta ad uno sviluppo che la trasformò, dalla città-stato
che era, nella capitale di vasto Impero. Il gruppo dirigente di Roma, la classe senatoriale, cioè la principale
responsabile di questa trasformazione, subì un mutamento corrispondente: dall’essere una classe di contadini
guerrieri divenne una aristocrazia detentrice di alte cariche militari e civili, proprietaria di patrimoni immensi
e molto altro ancora. Nel discorso di Ortensia di fronte ad Ottaviano e Antonio troviamo la descrizione del tipo
di proprietà che consentivano ad una nobildonna di condurre una vita indipendente appropriata, come lei dice,
al proprio rango sociale. Una signora derivava il proprio reddito principalmente dalla proprietà terriera che
includeva, ovviamente, un esercito di lavoratori schiavi e di liberti in qualità di supervisori o amministratori. In
più, una signora possedeva una vasto tesoro in gioielli, in parte per l’uso personale e in parte, senza dubbio, come
riserva per i giorni difficili.
La prima ragione da citare in merito al mutamento nella relazione tra moglie e marito è la graduale
accumulazione di grandi ricchezze nelle mani delle famiglie aristocratiche di Roma. Tuttavia se ci si limita a
considera l’accumulazione di ricchezza come frutto del commercio o di altre attività economiche non si comprende
appieno tale connessione.
La nobiltà romana era tutto fuorché un gruppo di mercanti. Era essenzialmente una nobiltà guerriera, e
successivamente una aristocrazia di detentori o ex detentori delle più alte cariche militari e civili. La ricchezza
crescente di Roma, come quella di molte altre società dell’antichità, derivava direttamente dalle guerre. Bottini
di guerra, vendita di prigionieri di guerra come schiavi, tributi da popoli soggiogati, ricchezze accumulate come
governatori o comandanti militari di province, da queste ed da altre analoghe opportunità di posizioni derivava
la ricchezza di Roma. Dalle classi dominanti, che tenevano per sé la maggior parte di questa ricchezza, qualche
cosa pioveva sulle altre classi. Pane e spettacoli circensi - la distribuzione del grano gratis a tutti i cittadini romani
e l’accesso libero agli spettacoli dei gladiatori finanziati dai ricchi - erano le due vie grazie alle quali i cittadini
romani partecipavano alla crescente ricchezza delle classi superiori. Se si possa parlare di un autonomo sviluppo
economico, realizzatosi indipendentemente dagli sviluppi interni e esterni di uno Stato, è oggetto di dibattito. Ma
questo non vale certamente per il caso di Roma.
Una delle principali leve del cambiamento nelle relazioni tra mariti e mogli fu la transizione da una condizione
in cui le donne erano in effetti parte delle proprietà dei loro mariti, e come tali non possedevano alcuna proprietà
autonoma, a una condizione in cui le donne divennero pienamente detentrici di diritti di proprietà. Come ho già
sottolineato, la trasformazione avvenne principalmente nel costume e con cambiamenti legali minimi. La forma
legale per mezzo della quale si realizzò questo mutamento di costume fu la norma che consentiva ad una donna
di sposarsi senza trasferire al proprio marito la tutela maschile sulla propria persona e così anche le proprie
proprietà. In questo caso la tutela e il controllo su una donna sposata rimanevano appannaggio del padre o, in caso
della morte, di uno degli zii o dei fratelli.
Con il passare del tempo e con il crescere, talvolta impetuoso, della ricchezza della aristocrazia romana, sembra
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che la consuetudine di dotare le figlie di possedimenti personali - oltre al necessario corredo in gioielli - si sia
diffusa nelle cerchie di alto rango. Una volta che la figlia fosse stata maritata, il marito riceveva una dote di cui
poteva avere l’usufrutto o forse anche il possesso, ma le proprietà di sua moglie rimanevano formalmente sotto il
controllo dei parenti maschi di lei. Nel corso del tempo divenne comune da parte dei parenti maschi di una donna
sposata il non fare uso delle prerogative per controllare lei e la sua proprietà. In tutta probabilità, questi uomini
erano già ricchi abbastanza e così finì per divenire abitudine, per le donne sposate, trattare le proprietà ricevute
dalla famiglia come proprie, e controllarle direttamente. La formula legale di un matrimonio sine conventione in
manum mariti divenne dunque il principale veicolo per un cambiamento nei costumi che attribuì alle donne sposate
il controllo de facto sulla proprietà. Ma vi furono anche nuovi aggiustamenti della legislazione che facilitarono il
processo, come ad esempio la legge che consentiva alle donne di entrare in possesso delle proprietà lasciate loro
in eredità.
12. Comunque, questo cambiamento nei costumi non sarebbe potuto avvenire senza un cambiamento nella
struttura dello Stato Romano. Una delle caratteristiche dello sviluppo che avvenne a Roma, come in altri stati,
è che la legislazione divenisse più imparziale, meno influenzata dalle differenze di potere o di status tra accusati
e accusatori, e che vi fosse una più rigorosa applicazione della legge. Questo aspetto del processo di formazione
statale giocò un ruolo decisivo nello sviluppo di una maggiore eguaglianza tra i sessi all’interno dei matrimoni.
Fino a che un marito poté usare la sua maggiore influenza sui tribunali e sulle forze dell’ordine, o semplicemente
la sua superiore forza fisica per strappare alla moglie il controllo sulle proprie proprietà, le donne furono costrette
a rimanere in una posizione di inferiorità sociale. Catone, in uno dei suoi caratteristici discorsi, osservò che ai
suoi tempi le donne detenevano il controllo sulle proprie proprietà invece che consegnarlo ai propri mariti. Al
massimo i loro mariti potevano averlo come prestito. Quando poi il marito si trovava in ritardo coi pagamenti,
esse si spazientivano e lo facevano cercare dagli ufficiali20.
Così una condizione decisiva che rese possibile una maggiore eguaglianza tra le donne sposate e i loro mariti fu
costituita dallo sviluppo dell’applicazione della legge, che protesse le donne dalla collera e dalle minacce dell’uso
della forza fisica da parte del marito, e che garantì la sicurezza personale e dei beni sia alle donne che agli uomini.
Forse può essere utile in questo contesto ricordare la storia di un altro Appio Claudio che visse in un’epoca
precedente e più brutale. Quando crebbe la domanda di partecipazione nelle questioni pubbliche delle masse, la
nobiltà guerriera la provò ad arginare al solito modo, cioè per mezzo di una dittatura. In questo caso per mezzo
di un regime autocratico guidato da un consiglio di dieci persone. Appio Claudio ne fu il capo, come ci racconta
Dionigi di Alicarnasso21. La storia è quasi certamente una leggenda, eppure presenta una caratteristica che è
coerente, e tipica, rispetto a un periodo in cui la legge aveva la funzione di disciplinare la condotta della gente
comune, mentre le classi elevate ed i gruppi più potenti si sentivano al di sopra della legge.
Appio Claudio si innamorò perdutamente di una bella plebea chiamata Virginia. Non poteva sposarla, poiché non
potevano essere contratti matrimoni regolari tra nobili e donne del popolo. Così egli inviò alle sue nutrici grandi
somme di denaro, suggerendo alcune strade che gli consentissero di sedurre la ragazza. Una frase, nel racconto, è un
chiaro indizio dei tempi. Egli ordinò ai suoi messaggeri di celare alla donna chi fosse l’ innamorato della ragazza, e
di dire soltanto che si trattava di una persona tale da essere in grado, a piacimento, di recare danno o sostegno. Dato
che non ebbe successo, ricorse alla violenza. Fece rapire la fanciulla da un suo uomo. E quando il padre della ragazza
e il suo promesso sposo andarono a protestare, Appio Claudio rispose che la madre della ragazza era stata una delle
sue schiave. A quel punto il padre riconobbe che di non poter avere la meglio con un uomo così potente che diceva di
amare sua figlia. Chiese però il permesso di prendere congedo da lei. La abbracciò e la condusse gentilmente di fronte
ad un banco di un macellaio, afferrò uno dei coltelli e la pugnalò a morte.22
20 Aulo Gellio, Noctes Atticae, XXVI, 6.1 [trad. it. Notti Attiche, a cura di G. Bernardi Perini (2007) - ndt].
21 Dionigi di Alicarnasso, Antiquatum Romanarum, XI. 28-38, riportato in O. Kiefer (1953: 10) [trad. it. Le antichità romane, a cura di F.
Donadi, G. Pedullà (2010) - ndt].
22 Ibid.
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La storia ricorda quella assai più famosa di Lucrezia. In quel caso la morte della ragazza minacciata aveva
rappresentato il leggendario preludio della liberazione di Roma dal dominio di un re straniero, e così l’evento
conquistò una certa fama. Nell’altro caso, il racconto adombrava la fine di un dominio senza limiti di una nobiltà
guerriera che si sentiva al di sopra della legge. Finché i nobili rimasero al potere, Virginia rimase meno famosa di
Lucrezia. Benché leggendaria, la storia di Virginia illustra un aspetto del processo di formazione dello Stato che
giocò un ruolo centrale nel cambiamento dell’equilibrio di potere tra i sessi, non solo a Roma ma anche in altre
società. Una delle condizioni che poteva favorire una certa diminuzione delle diseguaglianze tra uomini e donne in
una società era costituita dalla crescita di una organizzazione statale; e in particolare delle sue istituzioni giuridiche
ed esecutive che potevano prevenire l’utilizzo da parte degli uomini della loro forza o della loro influenza per
imporre la propria volontà sulle donne.
Non è adesso il momento di affrontare il problema di come e perché uno Stato si sviluppi in tal modo. Il
dominio della classe romana elevata, che perdurava con un numero via via crescente di concessioni alla sempre
più ricca classe media e al popolo, fin dai primi giorni - ab urbe condita23 - fino alla sua definitiva sostituzione con
il governo imperiale, cessò in quel periodo di essere un regime in gran parte arbitrario trasformandosi in un
dominio di classe limitato da un elaborato corpo di leggi.
È comunque necessario citare un ulteriore fattore che operò come leva verso una maggiore eguaglianza tra
mogli e mariti. Ai tempi della Repubblica, Roma aveva già intrapreso un innegabile slancio di civilizzazione,
nonostante tale crescita fosse dovuta principalmente al successo in guerra. La ricezione della cultura greca e la
nuova creatività romana in letteratura, storiografia e filosofia, che presupponeva una crescente sensibilità del
pubblico di lettori, ne furono sintomatici. Si ebbe così un grande raffinamento nelle maniere e nell’amore. L’Ars
Amatoria di Ovidio ne è una testimonianza. Può non corrispondere al canone odierno di sensibilità sessuale,
ma indica certamente un avanzamento nel raffinamento nelle relazioni tra i sessi e di un maggiore controllo
nell’approccio degli uomini alle donne.
Al contrario dei vecchi tempi, le donne ora erano considerate come esseri umani nel pieno dei loro diritti,
e tali erano viste dagli uomini. Non è possibile comprendere adeguatamente come mai i costumi nella società
romana che inizialmente relegavano le donne e le loro proprietà sotto la tutela maschile gradualmente caddero
in disuso, senza considerare il salto di civilizzazione come una delle condizioni di questo cambiamento. Una
volta che a Roma fu raggiunto lo stadio di maggiore eguaglianza tra donne e uomini nella loro vita coniugale,
esso si mantenne per un periodo inaspettatamente lungo, anche quando l’organizzazione statale - in particolare
nella parte occidentale dell’Impero Romano - cominciò a deteriorarsi e con essa le condizioni che avevano reso
possibile il livello di civilizzazione raggiunto.
13. Nel corso dello sviluppo dell’umanità ci troviamo di fronte più e più volte a innovazioni gravide di
conseguenze che però in tempi successivi non sono più riconoscibili come tali in quanto date per scontate; esse
vengono accettate come autoevidenti o semplicemente come razionali. Rientra in casi di questo tipo il fatto che
le donne si trovino nella vita coniugale in una posizione di eguaglianza coi propri mariti. Comunque, ciò non
significa che le donne avessero raggiunto una posizione di uguaglianza rispetto agli uomini in altre aree della
società romana. Le donne a Roma erano e rimanevano escluse dalle posizioni militari e civili. È difficile dire
se in età romana le donne abbiano mai partecipato al commercio su lunga distanza o abbiano svolto la funzione
di pubblicane24, ma è piuttosto improbabile, né, per quanto è dato vedere, le donne romane partecipavano alla
produzione letteraria, filosofica, scientifica o nella ricostruzione storica. Tutte queste sfere di attività umana, per
23 Letteralmente, fin dalla fondazione della città - cioè, fin dalla sua leggendaria fondazione nel 753 a.C.; ab urbe condita è anche il titolo
in latino della Storia di Roma di Tito Livio [ndc].
24 L’Autore si sta riferendo alla pratica di devolvere, da parte dello Stato centrale, la responsabilità di riscuotere determinati tributi
a privati cittadini o gruppi, in cambio di una quota fissa stabilita precedentemente. Chi svolgeva questa funzione nell’antica Roma era
detto Publicanus [ndt].
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quanto possiamo dire, in età romana rimasero appannaggio, con rare eccezioni, degli uomini. Eppure, in termini
di sviluppo dell’umanità, il fatto che le donne nella tarda repubblica romana guadagnassero una posizione di
eguaglianza rispetto ai propri mariti nell’ambito della vita matrimoniale e mantenessero quella posizione per
molti secoli, nel periodo degli imperatori di Roma rappresentò una grande innovazione carica di conseguenze. E
lo fu per due ragioni principali. Mentre nel primo periodo repubblicano, come in molte altre antiche società, le
donne maritate non erano percepite né trattate come esseri umani autonomi, come individui depositari di propri
diritti, ma piuttosto come una proprietà o un’appendice dei propri mariti, il costume affermatosi nella tarda
repubblica e che si mantenne nei tempi d’oro dell’Impero consentì alle donne di trasformarsi in ciò che noi ora
denominiamo “individui” - capaci di prendere decisioni indipendenti e agire per proprio conto. Per molti secoli
nella società romana si ebbero esempi donne intellettualmente indipendenti. Esse scomparvero dall’Occidente,
comprensibilmente, quando, all’apparire di tribù erranti che dalla provincia si riversarono nelle città, il monopolio
della forza legittima da parte dello Stato si erose, lasciando, in alcuni casi, a nobili locali, precursori dei successivi
signori feudali, l’organizzazione di una opposizione sul territorio e di una qualche forma di protezione. Gli usi nativi
degli invasori germanici attribuivano alla donna una posizione inferiore, analogamente alle “norme”25 prevalenti
tra i romani dei tempi più antichi. Ciò, si può ipotizzare, contribuì all’erosione delle tradizioni matrimoniali più
egualitarie.
Comunque, finché gli imperatori e le loro legioni furono in grado di mantenere la pace interna, la Pax
Romana, all’interno dei confini imperiali, la tradizione di una forma di matrimonio relativamente egualitaria
sembrò perdurare tra le classi urbane più abbienti dell’Impero romano. Questa fu una delle strade con cui questa
innovazione della tarda Repubblica si rivelò di grandi conseguenze: essa si sviluppò nel tessuto della società romana
come una abitudine e si mantenne come tale con considerevole tenacia.
Alcuni brevi esempi possono essere utili ad illustrare quanto l’usanza avesse messo radici profonde. Forse
dovrei nuovamente ricordare che ciò che apparve prima come una consuetudine divenne poi parte codificata della
legge romana. Due aspetti giocarono un ruolo fondamentale come precondizioni del carattere egualitario del
matrimonio; probabilmente entrambi si presentarono all’inizio sviluppo come pratiche sociali. Il primo di questi
aspetti fu l’indipendenza delle mogli e dei mariti in merito alle proprie proprietà. Il secondo aspetto, non meno
importante, fu il carattere essenzialmente volontario dell’unione matrimoniale. La sua principale salvaguardia fu la
possibilità per ogni partner della coppia, delle mogli tanto quanto dei mariti, di dichiarare la propria intenzione di
porre fine alla relazione coniugale. In merito a questo aspetto le consuetudini matrimoniali della tarda Repubblica
romana del primo Impero erano più avanzate di molti ordinamenti giuridici delle società odierne.
Nella tarda Repubblica romana, il matrimonio tra persone di classe elevata divenne apparentemente sempre
più una associazione volontaria di una donna e di un uomo, che procedeva col consenso di entrambi. Quando la
consuetudine si trasformò in legge, in particolare ai tempi dell’Impero, si sviluppò tutta una serie di prescrizioni
legali che limitarono gradualmente il carattere volontario dell’unione matrimoniale senza tuttavia distruggerlo.
Esso contrastava duramente con l’insegnamento della prima chiesa la quale in principio richiedeva che un
matrimonio dovesse essere visto come una unione per la vita e dovesse dunque essere indissolubile fino alla morte
dei coniugi. Il diritto romano prevedeva invece diversi tipi di divorzio. C’era il divortium bona gratia, una forma
unilaterale di divorzio motivato da tutta una serie di ragioni che non avevano a che fare con il comportamento
negativo da parte di uno dei partner nei confronti dell’altro. C’era poi il divortium consensu, che consentiva alla
moglie e al marito di divorziare l’uno dall’altro con reciproco accordo. Se le due persone erano d’accordo, anche
nei primi tempi dell’Impero, non era così difficile trovare una ragione legale per divorziare che facesse al caso
proprio. E entrambe queste due forme legali di divorzio non comportavano alcun onere finanziario per i due
25 Il termine norma è spesso oggi mal usato. Anche i sociologi spesso lo utilizzano in termini filosofici, riferendosi con esso a dati
metafisici immutabili di origine sconosciuta che in qualche modo fluttuano al di sopra degli esseri umani. Qui lo si utilizza in modo
diverso. Qualunque cosa possa essere vista come norma che governa la condotta degli uomini nell’antica Roma appare ad una analisi più
attenta come una regola retrospettivamente astratta derivante dalle abitudini sviluppatesi in modo non pianificato: per esempio, quella
dell’uguaglianza tra uomini e donne in caso di divorzio. Tale norma può essere compresa e spiegata solo con l’aiuto di una ricostruzione
sociologica processuale, cioè una ricostruzione della precedente diseguaglianza tra i coniugi e del processo che da questa situazione
condusse ad una successiva parità. E poiché è anche il cambiamento nel potere tra gli stati o le tribù e al loro stati o tribù che sono il
centro di questo processo, si potrebbe affermare forse più in generale: le norme cambiano con le relazioni di potere.
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coniugi. C’erano inoltre altre forme legali di divorzio basate invece su misfatti o incapacità di uno dei partner, che
comportavano oneri finanziari per il colpevole. Ma non è il caso in questa sede di scendere nei dettagli.
Gli imperatori cristiani, dal tempo di Costantino, cercarono di inasprire le leggi matrimoniali e, tra le altre
cose, di rendere nuovamente più difficile divorziare. Una legge dell’imperatore Giustiniano arrivò fino al punto
di proibire il divorzio consensuale salvo il caso in cui entrambi i coniugi avessero avuto l’intenzione di entrare in
monastero26. Secondo quanto ci viene narrato, già il successore di Gustiniano, Gustino II, fu costretto a ritirare
questa legge a causa delle proteste dovute allo spaventoso aumento di aggressioni e avvelenamenti all’interno
di coppie sposate. A quanto pare gli Imperatori cristiani riscontrarono maggior successo nel loro tentativo di
restringere le possibilità di divorzio quando era il risultato di una decisione unilaterale di uno dei coniugi. Nel 331
d.C. l’imperatore Costantino formulò una innovazione giuridica che riformava il repudium iustum27, eliminando
questa fattispecie di ripudio legale del coniuge per i casi di minore importanza e limitandone l’applicazione ad
un ristretto numero di gravi motivi. È interessante vedere quali fossero. Una donna aveva il diritto di divorziare
dal marito nel caso in cui questi fosse un omicida, un avvelenatore o un brutale profanatore di tombe. Un marito
poteva invocare il divorzio dalla moglie solo nei casi di adulterio, sfruttamento della prostituzione o avvelenamento.
Notiamo qui una nota di strisciante diseguaglianza. L’adulterio del marito ovviamente non era una delle ragioni
per cui, secondo la legge di Costantino, una moglie aveva il diritto di divorziare dal marito. Non è però possibile
vedere nei codici del diritto romano lasciatici dagli imperatori fino al tempo di Giustiniano un ritorno al vecchio
stato di diseguaglianza, che consentiva solo al marito di porre fine al matrimonio con il divorzio. A dispetto delle
crescenti restrizioni, la giurisprudenza romana sul divorzio continuò a garantire l’eguaglianza dei due partner,
dato che entrambi mantenevano il diritto di avviare un divorzio. Secondo la legge romana, le donne continuavano
ad essere persone nel pieno dei propri diritti, come gli uomini. Questo possiamo vederlo anche nel fatto che, tra
le classi più abbienti, il matrimonio previo consenso da parte di entrambi i coniugi conquistò spazio all’interno
dell’Impero. Così come il divorzio, la definizione di un matrimonio rimase nella Roma imperiale, a dispetto di
tutti gli interventi legislativi a riguardo, un problema riguardante le famiglie o gli individui interessati - nonostante
la progressiva crescita, più o meno di successo, dell’intervento statale. Non richiedeva registrazione statale, né
alcun tipo di servizio ecclesiastico. La conduzione della sposa nella casa del marito - [definita] deductio in domum era la cerimonia che in qualche modo corrispondeva a ciò che ora noi chiamiamo matrimonio.
14. La giovane chiesa cristiana, nella sua lotta per cristianizzare la società della Roma imperiale, a sua volta
si romanizzò. Ne è un segnale il fatto che alcuni dei padri della chiesa avessero recepito l’idea che il matrimonio
dovesse avere il consenso di entrambi i partner - ovvero, anche della parte femminile. Ma la situazione era più
complicata.
Come ci si poteva aspettare, i Franchi, gli Anglosassoni e gli altri nuovi regni germanici si portavano dietro
abitudini matrimoniali caratteristiche di un precedente stadio di sviluppo. Tali abitudini erano simili a quelle
prevalenti tra gli stessi romani quando cominciarono a svilupparsi dal proprio stadio tribale, ma molto differenti
dalle abitudini matrimoniali prevalenti nella società urbana a loro contemporanea. Nei regni germanici il
matrimonio per forza o per compera, cioè senza il consenso della donna interessata, era ancora ampiamente
praticato. Le leges barbarorum28 ne sono una testimonianza. Così, uno di questi codici dei primi anni del settimo
secolo dopo Cristo affermava:
se qualcuno rapisce una giovane donna con la forza deve pagare al proprietario cinquanta scellini e successivamente
acquistare dallo stesso il proprio beneplacito (cioè, al matrimonio).29
26 Corpus Iuris Civilis, Novella 117 c.10, citato in Geffcken (1894: 25).
27 Le ragioni per giustificare una unilaterale dissoluzione del vincolo matrimoniale [ndc].
28 “Leggi dei barbari”, secondo il termine usato per descrivere molti codici di legge delle popolazioni germaniche, scritti in latino tra il
quinto e il nono secolo dopo cristo [ndc].
29 Giesen 1973: 27
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Il passo ci ricorda le norme del primo periodo romano. Tuttavia, ciò che può sembrare un semplice ritorno
ad un precedente stadio avviene in questo caso sotto condizioni molto differenti. L’eredità romana non era
interamente perduta. Era in qualche misura portata avanti dalla chiesa romanizzata.
Ho parlato prima di due modi in cui lo sviluppo delle relazioni tra i sessi nell’antichità romana ha lasciato il
segno sugli sviluppi successivi. I costumi matrimoniali dei romani, nonostante fossero sopravvissuti in qualche
modo nell’est, andarono perduti negli sconvolgimenti che seguirono la disintegrazione dell’Impero Romano di
Occidente. Un codice di legge romano però sopravvisse. Benché le sue norme fossero rimaste inattive per un
certo tempo, dopo un lungo intervallo, a seguito dello sviluppo di una nuova formazione statale appropriata, il
diritto romano fu riportato alla luce e studiato. Divenne anzi il modello idoneo per gli amministratori dei nuovi
Stati centralizzati e reso così di nuovo, selezionatamente, effettivo30.
Il segno lasciato dalle norme romane è visibile anche nel diritto ecclesiastico. In accordo con le consuetudini
romane, anche la chiesa sviluppò la dottrina secondo cui c’era bisogno del consenso di entrambi i coniugi, gli
uomini e le donne, affinché il matrimonio fosse valido. Ma se l’atto decisivo che desse validità al matrimonio fosse
il consenso verbale o la copula carnalis (il rapporto sessuale) rimase una questione aperta fino al dodicesimo secolo.
La scuola teologica di Bologna prediligeva la seconda ipotesi, quella di Parigi, e in particolare Pietro Lombardo31,
sosteneva invece la prima. La scuola di Parigi portava avanti l’argomentazione secondo la quale il consenso di
entrambi gli interessati, normalmente di fronte a testimoni, costituisse il momento decisivo per la validità del
matrimonio. È un efficace esempio del modo in cui, grazie anche all’aiuto di testi scritti, lo sviluppo di una età
precedente possa ancora far sentire la propria influenza quando lo sviluppo di una società nel suo complesso
offra le giuste condizioni, e nonostante che il prodotto delle sue conoscenze non sia più operativo e chiaramente
visibile.
15. Lo studio storico del passato, diretto com’è verso il particolare, spesso impedisce la comparazione; lo
studio sociologico la facilita. Oggi stiamo assistendo ad una accesa discussione sull’equilibrio di potere tra i sessi.
Ma c’è una tendenza a considerare i cambiamenti in tale equilibrio in una maniera esclusivamente volontaristica,
come se dipendessero esclusivamente dalla buona volontà o, al contrario, dalla cattiva coscienza delle persone
interessate. Senza dubbio, andare indietro nel tempo, al fine di considerare i cambiamenti dell’equilibrio di potere
tra i sessi all’interno della cornice di una società che è in qualche modo è molto differente da quella presente,
richiede una certa capacità di distacco. Ma se cerchiamo di compiere il piccolo sforzo di distaccarci dalle vicende
contemporanee, scopriamo che un tale approccio sociologico - che faccia i conti coi passati cambiamenti nei
rapporti tra i sessi - può forse essere utile per una migliore comprensione dei problemi presenti. In tal modo
possiamo comprendere meglio quanto i cambiamenti nell’equilibrio di potere tra i sessi non possano mai essere
compresi senza il riferimento al complessivo sviluppo della società.
Diventa evidente, ad esempio, che l’efficacia dello Stato nel proteggere le persone così come il reddito o la
proprietà femminile sia stato uno dei fattori responsabili dei cambiamenti nell’equilibrio di potere tra i sessi. Io
credo che sia un elemento importante anche oggi. È utile ricordare che in passato la condizione di uguaglianza
raggiunta dalle donne sposate venne ridotta ed erosa quando il monopolio centrale sulla forza fisica, uno dei
tasselli centrali della organizzazione statale, andò in frantumi in favore di signorie locali o invasori stranieri che
presero il sopravvento; e la violenza e l’insicurezza si diffusero nuovamente su tutta la società.
Infine, l’esempio romano può mostrare quanto la relativa parità tra uomini e donne sia legata da vicino con
gli stadi di sviluppo della civilizzazione. La sensibilità dalla parte degli uomini per le condizioni delle donne e
viceversa, un livello relativamente elevato e solido di auto-costrizioni - in altre parole un balzo di civilizzazione sono state una delle condizioni per l’avvio e la diffusione di forme più egualitarie di relazioni tra i sessi nell’antica
Roma. Mutatis mutandis, lo stesso rimane vero, io penso, ai nostri stessi giorni.
30 Elias sta alludendo al primo periodo moderno della storia europea, spesso caratterizzato come l’età delle tre R: Rinascimento,
Riforma e Ricezione del Diritto Romano [ndc].
31 Pietro Lombardo (1100-1160 circa) [ndc].
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DOI: 10.1400/234059 Andrea Bellini
[Lawyers in a Blocked Society]
Career Expectations and Professional Success in the Italian Legal Labour Market
Abstract: This article focuses on the changing conditions of Italian lawyers, starting from the widespread
idea - here assumed as a general hypothesis - of the law profession that, in many cases, could be a way
out for people with unfulfilled career expectations. In detail, a brief introduction situates the increase
in the number of lawyers in the context of an economy with a low capacity to create high-education
jobs, while the first section highlights the segmentation of the legal labour market. The second section
then examines the relationship between initial career expectations and professional success, also paying attention to social origins as a determinant of success or failure. Furthermore, it attempts to typify
and understand different choice patterns. For these purposes, the author presents selected findings of
a study on lawyers based in Florence.
Keywords: Professions, Lawyers, Labour Market, Social Stratification, Class, Status, Individual Choices.
Introduction: the paradox of Italian lawyers
Since the 1970’s, in the United States as well as in Europe, a substantial number of scholars have directed their
attention to a series of changes occurring in the structure of employment. Among them, Touraine (1969) and Bell
(1973) have adopted the concept of “post-industrial society” to describe a new phase in capitalist development,
which has entailed a decline in manufacturing and an expansion of service and information industries. In relation
to this phenomenon there has been a progressive contraction of so-called “proletarian” occupations and an increase
in managerial and technical positions. In this regard, referring specifically to the United States, Wright (1997) has
therefore spoken of a process of “de-proletarianization”.
However, some authors have gone further to theorise the rise of a “new class” at the top of the social ladder,
though using a variety of labels. Ehrenreich and Ehrenreich (1977a; 1977b), for instance, depicted a professionalmanagerial class formed by salaried mental workers, whose role in the social division of labour has been the
reproduction of capitalist class relations. Gouldner (1979), by contrast, spoke of a class of intellectuals, basically
antagonistic to capitalist interests. Based on a stronger theoretical framework and a wide range of comparative
data, a well-known work of Erikson and Goldthorpe (1992) instead portrayed the so-called service class - a
concept already employed by Renner and Dahrendorf, here used to indicate a group composed of professional,
administrative and managerial workers - as a still heterogeneous entity, but with a developing “demographic
————
This article and the research it refers to would not have been possible without the work of Franca Alacevich and Annalisa Tonarelli.
Barbara Saracino then helped us in data analysis. The author however assumes full responsibility for what is written.
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identity”. More recently, putting the emphasis on creativity as a more comprehensive heuristic concept, Florida
(2002) described the rise of a class of educated workers, namely the creative class.
Although they refer to occupational groups that are very different from each other, in effect, all these
contributions seem to converge in indicating a growing relevance of high-education occupations and an overall
tendency, among them, towards homogenization in the social and cultural fields.
Criticisms of the theory - some suggest “rhetoric” - of a new class of educated workers, whatever the label
used, came from Brint (1994). As regards the category of professionals, in particular, the author argued that their
rapid increase in the United States was accompanied by a splintering along functional, organizational and market
lines; hence, they are now composed of a different population mix, from both a socio-economic and a political
point of view. Brint explained this phenomenon as being a consequence of the move towards a new model of
professionalism, so-called “expert” professionalism, more profit-oriented, involving a closer association between
professions and business. This applied to new as well as old professions. «When a profession such as law grows
four times as fast as the population», he wrote as an example, «it is not surprising that a great many lawyers, in
their struggle to make a living, treat law as a trade solely for profit» (ibid.: 9). He then described professions as
internally divided occupations.
Other authors have stressed the ever-growing importance of professionals as agents of formal (or expert)
knowledge (Freidson 1986), who also play a key role in the legitimation of new institutional arrangements (Scott
2008; 2010) and, thereby, in the transformation and reproduction of the institutions of capitalism. In particular,
Scott (2008) depicted professionals as those who supply the “choreography” in the “dances” of individuals and
organizations, and has distinguished different types of professions, depending on the theoretic cultures they refer
to (cultural-cognitive, normative, regulative) and their roles (creative, carrier, clinical). On the other hand, he
concluded that all professionals take part in the creative process, though in different degrees and manners.
To sum up, what emerges from this preliminary picture is that: first, the post-industrial transition entailed,
among other things, a rise in the number of high-education occupations, but associated with a greater division of labour and
a differentiation of economic and social conditions; second, among them, professionals represent the most relevant group, in
both numerical and functional terms. This is true for the United States, to which most of the aforementioned authors
referred, and for all advanced capitalist countries, though with some specificities.
Figures 1 to 3 show a comparison between Italy and four other European countries.
The first finding is that, since the mid-Nineties, Germany, France and the United Kingdom have had a parallel
evolution of the ratio of high-education occupations to total employment. After a decade of quick-paced growth,
Italy instead registered a decline (see Figure 1). In 2013, their proportion was considerably lower in Italy than in
other countries, apart from Spain.
Figure 1 -Trends in the ratio of high-education occupations (managers, professionals, technicians) to total employment in five
European countries (1994-2013)
Years of the economic crisis
50.0
Percentage
40.0
Germany
France
Italy
Spain
UK
30.0
20.0
10.0
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
0.0
Source: Eurostat, Labour Force Survey
102
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DOI: 10.1400/234059 Andrea Bellini
The second finding is that, despite a traditionally higher trend of self-employment, Italy also has a lower
proportion of professionals (see Figure 2)1.
Figure 2 -Trends in the ratio of professionals to total employment in five European countries (1994-2013)
Years of the economic crisis
25.0
Percentage
20.0
Germany
France
Italy
Spain
UK
15.0
10.0
5.0
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
0.0
Source: Eurostat, Labour Force Survey
Figure 3 indicates Italy’s paradox in displaying a lower capacity to create high-education jobs while having the
highest number of lawyers (both as an absolute value and in proportion to the total population).This phenomenon
is a matter of concern for the professional community, which has long since complained of a saturation of the legal
service market. It should also be seen in light of the relatively low intra-generational mobility and the persistent
inequalities in career prospects, depending on social origins, as revealed by sociological research from Cobalti and
Schizzerotto (1994) onwards.
Figure 3 - Number of lawyers in five European countries (2012)
Absolute number of lawyers
5.0
226,734
200,000
160,880
150,000
3.8
174,279
4.0
3.1
2.9
131,337
2.0
100,000
56,176
50,000
3.0
2.0
0.9
1.0
(a)
UK
(a)
Sp
ain
b)
ly
(
Ita
a)
m
an
y(
(a)
Ge
r
Fr
an
ce
(a)
UK
(a)
ain
Sp
Ita
ly
(
a)
an
y(
Ge
r
m
ce
an
Fr
b)
0.0
(a)
0
Number of lawyers per 1,000 inhabitants
250,000
Notes: for the United Kingdom, only England and Wales are considered, but data include also legal advisors
Sources: (a) CEPEJ (2014); (b) Cassa forense
1The peak registered by all countries in 2011 is probably due to changes made in the classification of occupations (ISCO). In the 2008
version, in fact, a number of occupations - e.g. teachers, nurses, physiotherapists, occupational therapists, opticians, and musicians - have
been moved to the major group of professionals, while new occupations in ICT and the environment have been added.
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103
Andrea Bellini DOI: 10.1400/234059
In this context, the general assumption is that the law profession, in many cases, could be a sort of way out for people
holding a university degree in law, but not finding job openings in either the private or public sector, or in other legal professions
such as judge and notary. A corollary is that career expectations at the time of enrolling at the university could have an
effect on professional success. The scope of this article is to evaluate these hypotheses by examining this relationship,
also in consideration of the role of other variables - namely gender, age and social origins - commonly seen as
determinants of success or failure. Furthermore, it aims to typify and understand university- and career-related
patterns of choice.
In detail, the first section of the article seeks to highlight the key features of the Italian legal labour market.
Then, the second and central section addresses the above issues by presenting selected findings of a study on the
lawyers based in Florence. There follows a general reflection on the law profession - paraphrasing Parsons (1939)
- as a social structure.
Labour market segmentation and models of professionalism
As Brint (1994: 23) again wrote, «professions are, above all, a phenomenon of labor market organization». As
such, they presuppose the existence of a market demand for tasks that require specific education and training, and
a privileged access to the market itself. Many scholars, from Sarfatti Larson (1977) to Abel (1985) and Freidson
(1986), have put great emphasis on the role of (codified) knowledge in the creation and control of a professional
labour market. Freidson (2001) himself, then, suggested considering the professional labour market as a “third
type” of market, to be distinguished from the free market and the bureaucratic market, because of the presence
of mechanisms of closure which contribute to forming what Freedman (1976) had called a “protected” labour
market.
According to Freidson, ideally, the control of the labour market - expressed in the exclusive right to decide
“who is in and who is out” - would make it possible to maximize workers’ average income in light of demand,
and therefore reduce inequality within the professional group. From Mills (1951) onwards, sociological research
has revealed that, in reality, the legal professional market has always tended to be characterised by an internal
segmentation and stratification. As an example, see the studies on the lawyers of Chicago, from Carlin (1962)
to Heinz and Laumann (1982) and Heinz et alii (2005). In North America, again, see the “Bourdieusian” works
conducted by Dinovitzer (2006; 2011) and Dinovitzer and Garth (2007). In the United Kingdom, then, Francis
(2011) described divergent models of legal professionalism, pointing to the emergence of a so-called “contingent”
professionalism, increasingly “fluid” to respond to the challenges it faces in the twenty-first century.
As to Italy, already at the end of the 1960’s, Prandstraller (1967) and Giovannini (1969) spoke of a declining
profession.The latter, in particular, observed that in larger cities such as Milan, Rome and Florence a few organized
law offices had the monopolistic control of big business, in a situation of “pathological competition”, associated
with a “moral deterioration” of the profession itself. The author also noted a tendency to the “pauperisation” of
the legal market and focused attention on the conditions of “marginal” professionals, who were not part of an
organized law office and were thus excluded from big business. He then indicated the runaway expansion of the
profession as the main reason for this occurrence.
As a matter of fact, the discourse on the excessive number of lawyers and its economic and social costs is not
that new in Italy. Quite the contrary, it was already present in the first quarter of the twentieth century, when
Calamandrei (1921), a prominent Italian jurist, entitled one of his essays Troppi avvocati! (Eng. trans. Too many
lawyers!).
In recent years, in effect, this phenomenon has taken on alarming dimensions. Since the mid-1990’s, the
number of registered lawyers in Italy has grown at a steady pace, reaching a peak of almost 230,000 in 2012. In
the same period, the average assessed annual income was essentially stagnant and, with the onset of the crisis of
2008, has returned to the 1990 level. As a consequence, most of the new entries have found themselves below the
threshold of 45,000 euro, a substantial part of which is below 10,000 euro. The situation is even more serious for
women lawyers, whose average income is 54.6 percent lower than that of men (Bellini 2014).
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This has brought about deep organizational (and cultural) changes, involving career patterns and, generally, the
ways of practicing the law profession.
To assess these changes, Figure 4 reports an employment map describing the distribution of Italian lawyers
by professional status. In particular, following Ranci (2012), who was in turn inspired by a work of Savage et alii
(1992), three dimensions are taken into account: entrepreneurship, defined as the presence of employees; economic
independence, defined as the reliance on more than one client; and organizational autonomy, defined as the freedom
to decide where to work and/or to set work hours (labelled as “full”, “partial” or “none”, according to whether
both, one or none of the aspects can be freely decided). The analysis of these dimensions, in combination with
each other, distinguishes the area of formal independence from those characterised by different degrees of actual
dependence.
The first discovery is that relatively few lawyers have an entrepreneurial character, since they have at least
one employee (17.2 percent), while most of them are “fully independent” professionals with no employees (63.2
percent)2. Besides, a significant number have full organizational autonomy, but only one client (10.1 percent).
The remaining are above all “mixed” figures, with partial or no organizational autonomy and/or economic
independence (8.3 percent), while only 1.0 percent are “fully dependent” professionals.
Figure 4 - Self-employed lawyers by professional status (percentage distribution, missing = 0.4) (2013)
Source: Author’s elaboration on Istat microdata, Labour Force Survey
Hence, the individualist model still appears dominant as compared to the entrepreneurial one. Nevertheless, it
is likely that the former includes a growing area of marginality, probably comprising lawyers at the beginning of
their careers, who started practicing the profession with poor social and reputational capital. On the other hand,
different models of legal professionalism seem to be emerging. Of notable relevance is the semi-professional model,
comprising those who have full or partial autonomy, but who are economically dependent on a single client.
Among these, in addition to fully dependent professionals, there is a potential supply of aspiring “employee” lawyers,
protected from market risks, but with few prospects of advancement.
In general, all these groups are expected to include a certain number of vulnerable persons. It is assumed,
2 Here, the source of data is Istat Labour Force Survey. Istat collects the information each quarter by interviewing a sample of nearly
77,000 households, representing 175,000 individuals. Data are estimates based on this sample. It must be noted that, in 2013, those who
declared themselves as lawyers amounted to 1,637 valid cases, which is a significant number, but not sufficient to conduct analyses with
a high degree of disaggregation.
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in effect, that for many lawyers the individualist solution is not a deliberate choice, but the only way to enter
the profession. These, more than others, are highly exposed to low and discontinuous income. As regards semiprofessional lawyers, the reliance on a single client, especially if combined with the presence of organizational
constraints, can be seen itself as a factor of latent vulnerability.
Both phenomena, however, can be seen as moves away from the traditional model of liberal professionalism,
which was a matter of concern for the professional community, above all in relation to the issue of a (possible)
lowering of ethical standards and of the quality of legal services. A different perspective, the one assumed in this
article, is that of individual choices and their consequences for individuals themselves. In particular, it has to be
verified if the fulfilment or frustration of lawyers’ initial career expectations reflects to any extent on their socioprofessional status and if, in the absence of formal mechanisms that effectively limit access to the law profession
(e.g. the so-called “numerus clausus” for university students), there are hidden processes of social closure that are
likely to reproduce traditional patterns of stratification.
Research design and methods
The following section presents selected findings of a research project on lawyers based in Florence3. This study
pursued the aim of depicting an updated social profile of Italian lawyers, trying to go beyond a monolithic social
representation of liberal professions, linked to a commonplace idea of high status and personal success, and to
reveal the differentiation of work and life experiences. The choice of concentrating the analysis on Florence was
justified by the fact that the local Order of lawyers is of medium size, but it is embedded in an urban environment
which makes it a promising terrain for testing the research hypotheses4.
The project was divided into three main phases.
The first phase, exploratory, involved the conduction of focus groups with the representatives and members
of local forensic associations. Focus groups were mainly aimed at understanding how the restricted community
of “organized” lawyers represent the law profession. In detail, 7 focus groups were established, with a number of
participants ranging from 4 to 12, a total of 52, selected from 16 associations (see Annex 1).
The second phase was dedicated to a survey. This was conducted on the total number of members of the local
Order of lawyers (4,090 individuals in September 2013, when the research started). The survey instrument was
a structured questionnaire, with a variable number of closed questions (from 65 to 100), which was distributed
through CAWI (Computer-Assisted Web Interviewing). The overall response rate was 24.1 percent, a total of 964
individuals, who declared that they were actively practicing law as self-employed professionals5.
The third phase was based on biographical interviews with selected lawyers. The aim, in this phase, was to
explore individual experiences in depth, trying to identify different ways of approaching and practicing the law
profession and to better understand the social mechanisms that lie behind them. For this purpose, using a snowball
procedure and taking into account gender and age differences as well as the varieties of legal fields, we conducted
interviews with a sample of 26 individuals (see Annex 2).
3 The research project, promoted by the Department of Political and Social Sciences of the University of Florence and financed by the
Order of lawyers of Florence, was coordinated by Franca Alacevich.
4 The first results of this research were discussed by Bellini (2014), and Tonarelli and Bellini (2014). References to the project can be
found also in Alacevich (2014), Manzo and Pais (2014), and Tonarelli (2014).
5 It is likely that the method of distributing the questionnaire had a self-selection effect on the basis of the respondents’ ages, given that
age can be seen as a proxy of the propensity to use new technologies. Men over 64 years of age, in fact, are underrepresented, whereas
people under 35 are overrepresented. Variations are, however, lower than 6 percent. Women are also overrepresented, though by less
than 4 percent. The resulting sample is thus a non-probabilistic sample with good representativity in regard to age and gender.
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Analysis
A premise - If we assume that forensic associations are “privileged observatories” of the law profession, the
analysis of the focus groups seems to reinforce the hypothesis formulated at the end of the introduction.
What emerges clearly is a serious concern for the runaway increase in the number of lawyers, who must cope
with the saturation of relevant labour markets. A recurring argument is that the lack of job openings in both the
private and public sector, and in other legal professions, would induce many law graduates to engage in a career as
a lawyer, which, as such, would be a second choice or even the only possible choice. This is the case of those who aspire
to an “elite” profession such as judge or notary, but they are often doomed to seeing their expectations frustrated.
And it is also the case of those who are not really interested in practicing law as a self-employed profession, but
who aspire to a secure job, for example in banks or in public administrations.
Today, there is a different situation in the labour market: there are more or less a thousand “first-choice” job
opportunities every year, in Italy (judge, notary etc.). […] Hence, there are many people for whom the law profession
is a second choice, also because public administrations are not hiring and the private sector is no longer a feasible
option. At this point, the tens of thousands of law graduates are most likely to flow into the law profession, which is
the easiest choice. [FG2]6
A few years ago, […] one university student in four was enrolled in law. On paper, the Faculty of law opened many
doors, […] but if you aspire to become a judge with so few job opportunities... you hold the title, but the door is
closed… and a notary, forget it! The economic dynamics, then, have affected all relevant markets for law graduates.
[FG4]
Our profession has experienced an exponential growth, not related to the needs of the legal service market. […]
Perhaps, for many people it was an alternative to other careers, […] because banks, insurance companies and public
administrations no longer hire law graduates. [FG4]
In this regard, evocative expressions were frequently used, implying that the law profession is often seen as a
mere alternative to unemployment or inactivity. Furthermore, these images are associated with a discourse on
the vocational crisis, which - according to the participants in the focus groups - would affect the profession itself.
The law faculty, which has open enrollment, has become a “refuge for the damned”. Many don’t choose law as a
vocation… they graduate and wait for a competitive exam. Meanwhile they complete their apprenticeship and,
perhaps, they pass the exam… [FG2]
There is a feeling that the law profession is, today, a “refuge for the damned” for those who aspired to become judges
or even bank clerks. […] I think all of us have old friends that never wanted to become lawyers, whom we meet in
court after many years. [FG4]
If we consider the number of registered lawyers, we see that in the last decade they have increased tenfold. The
law profession has become a sort of “social shock absorber”. Job opportunities for law graduates have drastically
diminished in recent years. [FG5]
On the other hand, a sense of vocation is seen as an essential prerequisite for practicing the law profession,
especially in these negative circumstances.
Given the situation, you need real motivation to do a job like this… not only because you are a law graduate and
banks are not hiring [FG7].
That said, the representatives of the forensic associations addressed the numerical and vocational problems
above all in the context of a general issue of the decadence of the law profession.
6 Quotes from focus groups and interviews are translated from Italian and displayed, indented, without the use of quotation marks.
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We all agree on the fact that this decadence is due to the number [of lawyers] and to rules that do not safeguard the
function [of law]… This isn’t a search for utopia, it is a matter of vocation. [FG1]
There is a different feeling, today, due to the circumstances. Those of us who are a little older have a different
understanding of what colleagueship and professional ethics are. This has deteriorated because of the numerical
expansion, the lack of rules… [FG1]
If we are fighting over a bone with no more meat, it is a matter of ethics. [FG2]
In the following pages, we use data from the survey to evaluate the consistency of these arguments with the
“actual” situation of lawyers in Florence.
Life choice or second best? Determinants of professional success - The first part of the questionnaire was aimed at
outlining the different ways of entering the law profession. The starting point was a question about the career that
the respondents had in mind for themselves at the time of enrolling at the university. Table 1 shows the results.
Here, the finding is that only 54.8 percent of the respondents were aware from the very start of their university
studies that they would become lawyers. Among others, 28.7 percent had different ambitions. In particular, 21.8
percent wanted to be judges or notaries. On the other hand, 16.5 percent had no idea what they wanted to do
after graduating.
Table 1 -What career did you have in mind for yourself, when you enrolled at the university?
Lawyer
Judge or notary
Other (corporate legal officer, public service or armed forces occupation)
None
Total
Absolute value
Percentage
528
210
67
159
964
54.8
21.8
6.9
16.5
100.0
This figure alone could be sufficient to answer the main research question. For almost half of the respondents,
in fact, being a lawyer is not a “life choice”. Quite the reverse, for many of them it seems to be a “second best”:
they probably decided to practice law as a reaction to the frustration of their initial expectations. Here, further
questions arise regarding the variables that are likely to influence personal ambitions, and the relationship between
career expectations - their fulfilment or frustration - and professional success.
To investigate the first issue, gender, age and social origins are assumed as independent variables (see Table 2).
As regards gender differences, women seem to be less keen than men on engaging in a career as a lawyer (51.4
versus 58.1 percent) and more eager to become judges or notaries (26.3 versus 17.2 percent). Besides, young
people show a lower interest than older ones in the law profession (51.7 percent of those under 35 years of age
versus 64.6 percent of those 55 years of age or older); vice versa, the preferences for a career as a judge or a
notary increase as the age of the respondents decreases (from 11.5 percent of those over 54 to 28.1 percent of
those under 35).
To classify the respondents by social origins, a two-step cluster analysis was run using three input variables:
parents’ education; father’s occupation; and mother’s occupation. Moreover, a fixed number of three clusters
was established, corresponding to upper-class, middle-class and lower-class origins7. These are characterised as
follows: upper-class origins (20.9 percent of the total) - both parents with tertiary education, father lawyer, other
7 The silhouette measure of cohesion and separation indicated that the cluster quality was fair (0.30). Education of the parents resulted
as the most important predictor, showing a predictor importance score of 1.00.
108
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professional or teacher, mother teacher; middle-class origins (41.4 percent) - a parent with tertiary education
or both parents with upper secondary education, father staff employee, supervisor, manager or entrepreneur,
mother not employed/housewife, teacher or staff employee; lower-class origins (37.8 percent) - no parent with
tertiary or upper secondary education, father sales, craft or agricultural worker, office clerk or unskilled worker,
mother not employed/housewife, sales worker or unskilled worker.
Table 2, again, assesses the relationship between lawyers’ social origins, thus defined, and their initial career
expectations. In particular, the analysis seems to indicate that social origins are negatively related to the interest
in a career as a lawyer (from 59.6 percent of those of lower-class origins to 47.8 percent of those of upper-class
origins) and positively related to the interest in a career as a judge or a notary (from 17.9 percent of those of lowerclass origins to 27.4 percent of those of upper-class origins).
Table 2 - Career expectations by gender, age class, and social origins (percentage, total n = 964)
Lawyer
Expected career
Judge or notary
Other
Total
None
Gender
Man
Woman
58.1
51.4
17.2
26.3
7.5
6.4
17.2
15.9
100.0
100.0
51.7
54.7
52.6
64.6
28.1
23.8
18.5
11.5
7.9
6.9
6.0
8.0
12.3
14.6
22.9
15.9
100.0
100.0
100.0
100.0
47.8
53.9
59.6
54.8
27.4
22.6
17.9
21.8
8.5
6.3
6.9
6.9
16.4
17.3
15.7
16.5
100.0
100.0
100.0
100.0
Age class
Less than 35 years
From 35 to 44 years
From 45 to 54 years
55 years and over
Social origins
Upper class
Middle class
Lower class
Total
This suggests that social origins, as a variable influencing personal ambitions, operate in a different way from
gender and age. In effect, women and young people, commonly identified as the weak social components of the
profession, seem to be relatively less interested in a career as a lawyer and more attracted to a career as a judge or
a notary. If we consider social origins, we find exactly the reverse situation: people of lower social origins seem
to be relatively more eager to become lawyers and less keen on becoming judges or notaries. A further insight
helps clarify that there is no relationship between the three independent variables and that their effects on career
expectations must be studied separately. On the other hand, there is evidence that social origins have a stronger
influence, since the extent and direction of its effect are quite the same in each gender and age group.
One possible explanation could be that, for people of lower-class origins, a career as a lawyer represents in
itself a “project” of upward social mobility8, while those of upper-class origins, bred in educated families where a
professional was often present9, are more attracted to an elite profession such as judge or notary.
Here comes the second question: does the fulfilment (law as a vocation) or frustration (law as a way out) of career
expectations have an effect on professional success? And, furthermore, what is the role of social origins?
Professional success is not easy to define. In effect, income could be a good proxy, but it gives only a rough
8 In a study conducted a few years ago in the United States, Dinovitzer and Garth (2007) came to similar conclusions.
9 Of course, this is not true for those having at least one parent who is a lawyer. These are in fact most likely to follow in their parents’
footsteps. Nevertheless, they represent only 10.7 percent of the sample.
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picture of the status situation. We therefore decided to classify the respondents on a scale of socio-professional
status. Again, a two-step cluster analysis was run using four input variables: formal status (i.e. proprietor, coproprietor, partner of a law office or freelance associate10); presence or absence of freelance associates (only if
the respondent is proprietor, co-proprietor or partner); income class11; and frequency of the use of domestic
workers12. Again, a fixed number of three clusters was established, corresponding to middle-to-high, lower-middle
and low status, depending on the degree of “stability” in the profession13. Here, the choice of labels was made due
to the fact that the analysis seems to show a polarization of socio-professional situations, with an inclusive group
of individuals who have achieved a stable position in the profession, in contrast to a large majority who are in an
uncertain position. Among the latter, it was then possible to distinguish those who are in a vulnerable position
from those who are in a sort of grey area and are thus affected by a latent vulnerability. That being stated, the
groups are basically characterised as follows: middle-to-high status (29.1 percent) - proprietors, co-proprietors or
partners, with freelance associates, an annual income of 25,000 euro or more, highly frequent use of domestic
workers; lower-middle status (34.3 percent) - proprietors with no associates, or themselves associates, an income of
10,300 to 46,999 euro, frequent or sporadic use of domestic workers; low status (36.6 percent) - proprietors with
no associates, or themselves associates, an income of less than 25,000 euro, no use of domestic workers.
Incidentally, it is to be noted that the independent component is present in each cluster. What really makes
the difference is the presence of freelance associates, which characterises the middle-to-high status group. All the
lawyers in this cluster are in fact proprietors, co-proprietors or partners of organized law offices. The remaining
ones are mostly individual lawyers or associates. In this sense, the presence or absence of associates is a major
indicator of polarization, with the threshold of professional success - understood in a broad sense as the achievement of
a full inclusion in the profession - being between an annual income of 25,000 and 46,999 euro, and the threshold of
risk of exclusion falling between 10,300 and 24,999 euro. In this regard, the non-use of domestic workers, which
characterises the low status group, can be considered both as an indicator of low spending capacity - above all in
function of an effective organization of time - and a deviation from lawyers’ standard way of living.
Table 3, below, assesses the relationship between expected career (now assumed as an independent variable)
and socio-professional status. Here, the only finding is that those who wanted to become lawyers from the outset
are more often than others in the middle-to-high status group (32.0 versus 26.6 percent of those who wanted to
become judges or notaries), whereas those who had in mind other careers are more frequently in the low status
group (41.9 percent versus 35.0 percent of those who had in mind a career as a lawyer).
Table 3 - Career expectations and socio-professional status (percentage, total n = 862)
Expected career
Lawyer
Judge or notary
Other
None
Total
Socio-professional status
Total
Middle-to-high
Lower-middle
Low
32.0
26.6
19.4
27.3
29.1
33.0
37.0
38.7
33.1
34.3
35.0
36.5
41.9
39.6
36.5
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
10 Please note that “associate” is a false friend in the English language. It refers to a lawyer who is working for another lawyer proprietor
of a law office, but not sharing in the responsibility and liability for the acts of the law office itself. As such, this term refers specifically
to “economically dependent” lawyers.
11 Data refer to taxable income, as reported on the income tax return.
12 This is intended to be a plausible indicator of social status, as it reveals something relevant about lifestyles, but also an indicator of the
spending capacity in function of the organization of time, an aspect that is related to the capacity to achieve professional success.
13 Also in this case, the silhouette measure of cohesion and separation indicated that the cluster quality was fair (0.30). The presence of
associates resulted as the most important predictor (with a score of 1.00), followed by the use of domestic workers (0.77).
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The analysis in Table 4, introducing social origins as a third variable, clarifies some points. First, people of
upper-class origins are more likely than others to be in the middle-to-high status group, independently of their
expected career; conversely, those of lower-class origins are more likely to be in the low status group. Second,
those of upper-class origins also characterise the lower-middle status group, which seems to confirm the idea of
an on-going process of socio-economic polarization within the profession.
Table 4 - Trivariate relationship between socio-professional status, career expectations and social origins (percentage, total n = 862)
Expected career
Social origins
Middle-to-high
Lawyer
Judge or notary
Other
None
Total
Upper class
Middle class
Lower class
Total
Upper class
Middle class
Lower class
Total
Upper class
Middle class
Lower class
Total
Upper class
Middle class
Lower class
Total
Upper class
Middle class
Lower class
Total
34.9
31.8
30.9
32.0
40.8
20.7
23.0
26.6
23.5
13.6
21.7
19.4
25.9
31.1
23.5
27.3
34.1
28.1
27.6
29.1
Socio-professional status
Lower-middle
42.2
38.5
23.6
33.0
36.7
42.7
29.5
37.0
47.1
40.9
30.4
38.7
48.1
31.1
27.5
33.1
42.0
38.3
25.8
34.3
Total
Low
22.9
29.7
45.5
35.0
22.4
36.6
47.5
36.5
29.4
45.5
47.8
41.9
25.9
37.7
49.0
39.6
23.9
33.6
46.6
36.5
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
In conclusion, the relationship between lawyers’ initial career expectations and their socio-professional status
appears to be a spurious relationship. On the other hand, social origins seem to have a direct relationship with both
variables, which suggests that they play a mediating role between them (see Figure 5). If practicing law as a vocation
generally leads to a higher socio-professional status, this is truer for those of upper-class origins. On the whole,
social origins still appear as a (strong) predictor of lawyers’ professional success.
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Figure 5 - Types of relationships between career expectations, social origins and socio-professional status
Understanding choices (and their consequences) - This part of the article takes a step back and focuses on individual
choices concerning university and career, with the aim of identifying choice patterns and trying to understand the
mechanisms that lie behind them. For this purpose, it takes a deeper look at the lawyers’ biographies.
The analysis below relies on some postulates of a tempered methodological individualism. In particular, we
assume that, according to the principle of “instrumental” rationality, individual actors use their means to reach
certain goals and maximize satisfaction. On the other hand, this is always a “limited” rationality, which signifies
that actors have incomplete information about their alternatives, knowing only in part or not knowing at all the
related sequences of cause and effect, with an available time-period for making decisions that is often too short for
evaluating possible consequences (Boudon, Fillieule 1969). What is more, human behaviour is not always driven
by utilitarian criteria, but also implies the internalization of norms and values; in this sense, any action can be
seen as “rational” if the actor has good reasons for doing it (Boudon 1992). In effect, individuals make their choices
on the basis of their own preferences and on the information they have, though they act within a specific context
which determines their available options and strategies. Again, they are “reflexive” actors, who have «the capacity
to understand what they do while they do it» (Giddens 1984: xxii), but they are always «positioned or “situated”
in time-space […] and they are also positioned relationally» (ibid.: 83). Thus, human action can be understood
only by considering at the same time its “intentional” component (good reasons) and binding/enabling aspects of
the context (structural constraints).
From this perspective, individuals make their choices deliberately, though not being well-informed about all
available options and the possible consequences of their actions. As such, they are always somehow influenced
by the surrounding context. Those concerning university and career, however, should be regarded as “crucial”
choices, which influence the life courses of individuals, but also affect their identities as well as their preferences.
For this reason, they imply a higher emotional commitment, and therefore it is likely that individuals take more
time to acquire information and make conscious decisions. Hence, the range and quality of information will be
even more important in their making effective choices.
With all this understood, we propose to typify individual choices by looking at the presence (or absence) of a
“project” and - following the classic example of Weber (1922) - concentrating on the means-goals relationship and
the determinants of choices themselves. Specifically, four main patterns emerge from our analysis of interviews,
which could be labelled as vocational, instrumental, traditional and random choices.
1. “Vocational choices”. People belonging to this pattern had a solid long-term project, in which: the choice of
profession normally preceded their university enrollment; all means were used for reaching the goal of becoming
a lawyer; the outcome was coherent with initial career expectations.
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This is specifically the case of six interviewees. Each of them declared that they always wanted to be lawyers,
though with clear motivational differences in their choices. For some of them, in fact, being a lawyer was a value
in itself: they believed that law, as a “liberal” profession, might be a means to self-fulfilment.
I always thought I would be a lawyer. […] My course of study, then, was aimed at this goal. […] I already knew that I
wanted to do this, since my high school days. [06W32]
Law was my first choice. Since I was a child, I have always seen myself as a lawyer and I thought that I would be fulfilled
in this profession. [11W31]
I was motivated to follow the ideal of a liberal profession and felt that I had a vocation for the law profession, also
because of my character. [26W46]
For others, choices were more oriented toward universal values, such as justice, and were also associated with
a “romantic” view of the law profession. Nevertheless, for young people it appears as an abstract view, strongly
influenced by a somewhat stereotypical representation spread by the media.
I always wanted to be a lawyer. I think I was driven by the ideal of fighting against injustice, a romantic view of
lawyers, which was influenced, when I was a child, by movies, television, and so on. I always liked law. […] However,
I made my choice long before university enrollment. [09M31]
My choice of law was made while in high school, as a consequence of an ideal view of this profession. I did not live
close to people who practiced it, hence I formed my own idea of what the law profession would be like. And, as young
people often do, […] I idealized it. [10W31]
An older lawyer, instead, referred to personal experiences that left a mark on her life.
My choice of law was made many years ago. […] It was because of my social commitment in high school… I got
my secondary school diploma in 1969, hence I was able to take part in all the student struggles in the golden age of
feminism. [20W62]
A slightly different pattern was followed by two other interviewees, for whom the vocation developed later,
during their apprenticeship, as a slow growth of awareness.
They were the “Mani pulite” years and it was the vogue to study law. […] I didn’t want to be a lawyer at all costs. […]
I looked around, but then I started my apprenticeship and I developed a passion for it. [01W41]
I approached the law profession after graduation. […] I contacted an assistant of my thesis supervisor and applied
to him for an apprenticeship. […] Why did I choose to specialize in labour law then? It was for my own pleasure.
[07M48]
What is noteworthy about these kinds of lawyers is that they all place great emphasis on having made their
decisions with substantial autonomy. Being a lawyer was their own choice, sometimes even in conflict with the
opinions of highly influential actors, such as their parents or school professors.
My parents were probably not so happy about it, they believed there were no job opportunities… [09M31]
My high school teachers suggested I enrol in medicine, which was seen as a higher level faculty […] and, therefore,
I took the entrance exam and passed it. Then, after two months, I decided to follow my dream and enrolled in law.
[10W31]
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Furthermore, they show an inclination towards independence and a traditional view of the law profession.
Those in this group, in fact, are individual lawyers, proprietors or co-proprietors (not in partnership) of law
offices. Among the younger ones, however, two are already practicing as individual lawyers, though they rely on
office-sharing arrangements and maintain relationships of cooperation with their former employers in order to
overcome the difficulties inherent in the early years of practice; the other two are still freelance associates, though
they aspire to opening their own law office in the near future.
2. “Instrumental choices”. People in this group also had a project, but the outcome was inconsistent (or partly
so) with their initial career expectations. In their cases, the choice of profession came later, often at the end of
a difficult experience, and being a lawyer was above all a means for achieving certain goals, as a consequence of
either a pragmatic choice or the frustration of personal ambitions.
Here, a distinction needs to be made. Some interviewees, in fact, decided to become lawyers to achieve specific
goals, such as following the ideal of a liberal profession, being economically independent or earning more.
My choice was to enrol in law, initially not to become a lawyer, but […] to engage in a career as a notary, though I
soon abandoned this idea. […] I considered all possible careers of a professional character. […] I did not see myself
as an employee, I was sure I wanted to capitalise on my education and work as a professional… not necessarily as a
lawyer, but in any case not as an employee. [03M47]
I wanted to practice law as a profession. I was undecided between a career as a judge and a career as a lawyer. I
rejected all other options. I was driven by both an ideal and a pragmatic motivation: the ideal one was to pursue
a profession that I felt in line with my inclinations; the pragmatic one was to make a choice that would imply less
uncertainty for the future, given that if you engage in an open competition for judge posts, you need to spend a long
time studying and waiting for uncertain results. This means going through a more or less long period of “suspension”
after graduation. In my case, I wanted to be economically independent. [21M44]
I had doubts about being a lawyer when I enrolled at the university. […] While I was doing my apprenticeship in a
civil law office, I also started doing a Ph.D. and then engaged in an academic career, which actually was not a planned
decision. In any case, I was awarded a postdoctoral fellowship and then I was a research assistant and a contract
professor. The choice to start practicing as a lawyer during my academic career was essentially due to economic
reasons, because at first I earned very little. […] I’ve had my own clients since I was 23-24 years old. For the past
11-12 years I’ve practiced law exclusively. [25W53]
Others, instead, pursued generic goals, such as avoiding unemployment or a long study period.
Why did I choose law? […] I wanted to study political science, but I enrolled in law because it seemed that, at
that time, it would offer more job opportunities. Then, I decided to be a lawyer, […] because I was interested in
administrative law and being a lawyer would allow me to continue dealing with it. [12W53]
I chose law because I wanted to be a judge. So I entered university with this idea, but when I came to the end - I
completed my course of studies very quickly, in four years - I no longer felt like studying… Hence, I decided to
become a lawyer. [22W34]
I was somehow induced to choose law, in the sense that I wanted to enrol in philosophy, which was my actual
aspiration, but my father […] advised me to choose law, because there were more job opportunities at that time.
[23W41]
Again, however, the family seems to have had no direct (or a residual) role in influencing interviewees’ choices.
What they have in common is that, for them, being a lawyer was a second choice. Moreover, they had less
linear entry paths into the law profession and more heterogeneous careers. One interviewee’s story particularly
exemplifies the difficult life course of an aspiring judge, who also tried a career as a lawyer as a way to guard
against uncertainty.
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Actually, my goal was not to be a lawyer, but a judge. So, I graduated and enrolled in a preparatory course for aspiring
judges, held in Rome. […] Meanwhile, I started my legal apprenticeship in a civil and tax law office […], but I
managed to have time to carry on my studies. […] I also enrolled in post-graduate law school14. I then passed the exam
and received a post-graduate degree. […]
I took my first bar exam in 2003, but I didn’t pass it. Nevertheless, I continued to study. […] In 2004, I took my
second exam, but failed it again. I was demoralized and, therefore, I tried two open competitions for correctional
educators. […] In 2005, I took my third exam. I passed the written exam and I started preparing for the oral exam.
In the meantime, an open competition for judge posts was announced. […]
In 2006, I passed the exam with the compliments of the commissioners, who were perplexed by my tortuous life
path. In effect, I had graduated with honours and I am knowledgeable and experienced. […] At the previous written
exams, I helped other candidates, […] then they passed, while I failed. And this was frustrating. […]
I’ve wanted to be a judge ever since my school days... This was because my best friend’s mother was a judge and I saw
her as a personality. I still think about it, whenever I enter a courtroom… [05W40]
Also in this case, the individualist model is dominant, though it seems to be an arrival point - at the end of a
more or less long road - rather than a starting point. The choice of practicing as individual lawyers, anyway, was
perceived as “a leap into the unknown”, which prompted them to maintain informal relationships of cooperation
with former employers or colleagues and to adopt cost-sharing strategies, even into advanced age.
3. “Traditional choices”. These are choices driven by an imperative to continue a family tradition. People in this
group, in fact, had at least one parent or a close relative who was a lawyer. The project, therefore, was somehow
predetermined and, as a consequence, the decision to enrol in law and engage in a career as a lawyer was perceived
as a “natural” fact. Nevertheless, in three cases out of four, choices seemed to be aimed at taking advantage of this
situation rather than following a real vocation.
I enrolled in law not to become a lawyer, but because I was interested in law in itself. […] I thought it was more likely
that I would be a journalist, but there was my family, my father’s law office, and therefore it was quite natural for me
to become a lawyer. It was a typical pathway, […] a facilitated one. I wasn’t pushed to be a lawyer, also because my
father had retired. […] In any case, this helped me. [13M47]
It’s a family profession, both my parents are lawyers. So, it was quite a natural thing for me… [15M47]
When I finished school, I wasn’t sure of what I wanted to do. I was undecided between law and architecture, but my
father is a lawyer and, therefore, I chose law… a question of job opportunities. [16M38]
There are lawyers in my family, and they inspired me. I knew the ins and outs of this profession, because I’ve always
had it in front of me, in my family. And I got curious. [19M39]
Two interviewees, in particular, completed their legal apprenticeship at their fathers’ law offices, and one of
them continued to work there, though driven by a basically opportunistic reason.
I started doing my apprenticeship at my father’s law office. […] I’ve worked there since about ten years ago. […]
I cooperated with a young colleague, […] who asked me to follow him when he left the office, but I decided to
stay. Why? For economic reasons. The advantage of working with my father is that I don’t pay rent, which is quite
something. [16M38]
All of them identified themselves as independent lawyers, though - compared to others - they showed a
stronger inclination to cooperate with other people, either in an informal manner or in formalized partnerships.
4. “Random choices”. A number of cases are characterised by the absence of a recognisable project. Here, the
interviewees themselves defined their choices as “random”, though it is more correct to say that they have been
driven by emotional reasons, such as avoiding certain courses of study, trying a new one or even distinguishing
oneself from others.
14 Orig. lang. “Scuola di specializzazione per le professioni legali”.
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My choice of a university was random. I graduated from high school and then decided by elimination to enrol in law.
[08M48]
After high school all my friends enrolled in engineering. At that point, I decided to do something different and
enrolled in law. [18M45]
My choice to enrol in law was due to the fact that I was a diligent student… I had never studied law in high school
and I thought that I would like it. This was my real motivation […]: a new subject I thought that I would like to study.
[24W45]
Lack of information, in this case, seems to be a common denominator, which was sometimes associated with
lower-class origins.
My choice of the law faculty was random, […] I didn’t know exactly what law was. […] My parents always left me
free to decide, […] hence the choice was mine. [02W46]
My parents have a primary school education. I was the first university graduate in my family. [08M48]
No clear relationship, instead, can be identified between this specific choice pattern and the different models
of professionalism, which - because of the absence of a project and of family traditions as drivers of choice - is
more likely to be influenced by several intervening factors.
To sum up, our analysis showed that lawyers approach their profession following various choice patterns, which
in turn are reflected in different views of the profession itself and different ways of practicing it. Furthermore, some
concluding remarks can be drawn. First, choices supported by “coherent” projects seem to be related to more fluid careers and
more optimistic views of the future, while a non-fulfilment or absence of projects is often associated with perceived
uncertainty, even at an advanced career stage. Second, traditional and random choice patterns offer extreme
examples of the role played by social origins in influencing career paths. Here, what seems to make a difference is access
to information concerning job opportunities as well as professional contents and career dynamics. Finally, according
to the survey results, it is likely that social origins and the related differential access to information - which could
also be conceptualised in terms of cultural and social capital (Bourdieu 1980; 1986) - have a diversifying effect on
career paths also within the groups based on different choice patterns.
Conclusions: on the law profession as a social structure
Many years ago, Parsons (1939: 463) stressed «the importance of the professions as a peculiar social structure
within the wider society», which as such is distinct from business, not just because they are based on different
individual motives, but because they are governed by a radically different institutional pattern. The distinction
between altruistic and egoistic motives, he said, is thus a «false dichotomy» (ibid.: 467). More recently, as
already noted, Brint has described the rise of a new model of professionalism, more market- and profit-oriented,
involving an increasing overlap between professions and business. In effect, the market has grown in importance
as a principle of regulation in the professional field. As regards Italian lawyers, for instance, their great expansion
has brought about increased competition, based on low prices rather than on service quality. As a result, they are
even more influenced by (and dependent on) clients’ preferences and choices. What is more, their action seems to
be inspired by a goal-oriented rather than a value-oriented rationality.
As this article intended to prove, family is a fourth (hidden) agent of regulation, other than state, professional
community and market, which is likely to give a competitive advantage in the continuing struggle for profit (and, in
some cases, for existence). After all, this is not so new. In fact, the importance of social origins for lawyers in the
early stages of their careers, when they need to acquire clients, was already highlighted by Prandstraller (1967), in
the 1960’s. Nevertheless, the added value of this contribution is that it gives empirical evidence that: the pattern
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of law as a vocation is declining, involving slightly more than one out of two lawyers; a stronger motivation often
translates into a higher socio-professional status; this relationship is mediated by social origins; social origins have
a direct (and strong) relationship with professional success. Our analysis of the interviews has therefore shown
that: different entry paths to the law profession can be identified and understood in light of a variety of choice
patterns concerning university and career; choice patterns, in turn, are likely to be influenced by a differential
access to information; moreover, they are linked to different ways of practicing the law profession.
The community of Italian lawyers is facing profound changes in its economic and social structure, associated with
a vocational crisis. This will have considerable implications in the near future. If market regulation prevails, in the
absence of effective (and objective) selection mechanisms of lawyer candidates - from university to apprenticeship
and professional examination - social origins will probably continue to make the difference between success and
failure. A consequence could be a “perverse” selection, with people with comparatively low motivation reaching
higher positions, and vice versa. Another unintended effect could be a growth of the area of marginality. On
the other hand, State regulation, when imposing restrictions on the practice of the profession on the basis of
economic principles - e.g. compulsory registration with social security - runs the risk of being a mere means
of social exclusion. In general, greater commitment in the promotion of a professional culture is required. This
should be pursued at the level of the professional community as a whole, as well as in the everyday life of each
law office, since this is the common ground where tens of thousands of apprentices and young lawyers develop
their professional identities. In this sense, for example, it is important for law apprenticeship not to become itself
a mechanism of perverse selection or even an “anteroom” prior to the market test.
By way of conclusion, then, we may affirm that if we wish to understand a macro-phenomenon - such as the
expansion and stratification of a profession - we cannot exempt ourselves from examining it in its interaction with
the micro-processes - individual choices - on which it is founded. Similarly, macro and micro regulation should be
considered in their mutual influence.
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Anno V, Numero 9/Giugno 2015
119
Andrea Bellini DOI: 10.1400/234059
Annexes
Annex 1 - List and basic features of the focus groups with the representatives of local forensic associations
Code Target group
FG1
FG2
FG3
FG4
FG5
FG6
FG7
Total
Associations involved
Generalist associations
Administrative and tax law
Civil and labour law
Young lawyers
Criminal law
Family and child law
Territorial associations
Men
8
8
4
3
5
1
4
33
3
3
2
1
1
4
2
16
Number of participants by gender
Women
4
2
3
1
2
6
1
19
Total
12
10
7
4
7
7
5
52
Annex 2 - List of the biographical interviews with selected lawyers and main characteristics of the interviewees
Code
01W41
02W46
03M47
04M38
05W40
06W32
07M48
08M48
09M31
10W31
11W31
12W53
13M47
14W62
15M47
16M38
17M62
18M45
19M39
20W62
21M44
22W34
23W41
24W45
25W53
26W47
Gender
Woman
Woman
Man
Man
Woman
Woman
Man
Man
Man
Woman
Woman
Woman
Man
Woman
Man
Man
Man
Man
Man
Woman
Man
Woman
Woman
Woman
Woman
Woman
Age
41
46
47
38
40
32
48
48
31
31
31
53
47
62
47
38
62
45
39
62
44
34
41
45
53
47
Main field(s) of activity
Criminal law
Family law
Administrative law
Criminal law
Criminal law
Civil law
Labour law
Civil law
Criminal law
Administrative law
Administrative law
Administrative law
Civil and labour law
Family law
Labour law
Criminal law
Administrative and labour law
Administrative law
Criminal law
Family law
Administrative law
Civil law and arbitration
Family law
Criminal and family law
Civil, administrative and international law
Civil law
Note: the 5-digit code in first column includes the interview number (first two digits), a letter indicating gender, and another number
indicating age (last two digits).
120
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DOI: 10.1400/234060 Elena Spina, GiovannaVicarelli
[Are Young Female Doctors Breaking Through the Glass Ceiling in Italy?]
Abstract: In the second half of the twentieth century, the feminization of medicine increased in large
part of Western Europe. Due both to cultural and social models and to welfare policies, there was a
very limited increase in the female medical profession throughout the first half of the 1900s in Italy,
and a relatively larger one in the second half. Currently, the female incidence is 39.8%, placing Italy
among the last positions in Europe. The results of a pilot project research, carried out on a sample of
131 young physicians enrolled with the order of doctors of Ancona, seem to confirm that some changes
are currently taking place. Internalizing managerial outlook, showing high degree of self-confidence,
balancing work and private life as well as creating good relational and social networks, the women doctors’ behaviour allows us to imagine that the future scenario could be very different, although gender
discrimination still persists.
Keywords: Women Doctors, Gender Barriers, Generation, Leadership Positions.
Introduction*
In the second half of the twentieth century, the feminization of the medical profession increased substantially in
large part of Western Europe (De Koninck, Bergeron, Bourbonnais 1997; Riska 2001a, 2001b; Riska, Novelskaite
2008; Kilminster et alii 2007; Levitt et alii 2008; Elston 2009). In 2012, the highest percentages of feminization
are recorded in Finland (56.9%) but also in Portugal (52.1%) and Spain (50.3%) which suggests that parity has
been achieved, or will be achieved in the near future. In France (42.1%), Germany (43.7%) and the UK (45.7%),
the incidence of women doctors also stands at a very high level, in that it closely approaches 40% of the total.
Italy is still somewhat distant from gender equality in the medical profession with a feminization rate of 39.3%
(OECD 2012).
These figures raise two main issues: the first concerns the processes of feminization of the medical profession
during the twentieth century; the second regards the effects of this trend both on professional practice and on the
current leadership position of women.
With regard to the first issue, research on the professionalization of medicine (Parsons 1964; Wilensky 1964;
Freidson 1971a, 1971b; Sarfatti Larson 1977; Abbott 1988) is at the basis of long-period studies which seek to
reconstruct the genesis and structuring of the medical profession in various countries with more detailed study
on gender differences (Burrage, Torstendahl 1990; Malatesta 1996, 2006). Recently, Kilminster et alii (2007)
claim that further qualitative and longitudinal studies should be carried out as well as research that takes into
account the choices and behaviour of the new generation of male and female physicians. However, as Elias (2000)
claims, it is necessary to take into consideration that gender relations are not fixed but are maintained by the
This article is the result of the joint work of the authors. However, GiovannaVicarelli wrote “Introduction” and “The process of feminization in Italy: a long
term perspective”, while Elena Spina wrote “Hypotheses and Methods” and “Is there a new generation of female physicians in Italy”.The “Conclusions” have
been written by the two authors.
Anno V, Numero 9/Giugno 2015
121
Elena Spina, GiovannaVicarelli DOI: 10.1400/234060
interaction of various processes at different levels. The cultures and practices of medicine are interrelated with
the social contexts in which health care is delivered. The models of healthcare are of the same importance. In
fact, they define the conditions of access and of work, that vary over time, of male and female physicians and their
interactions with patients.
In regard to the second of the above issues, the existence of a close relation between the number of women
present in an organization and work performances has been proposed by a large body of literature since the
pioneering work by Moss Kanter (1977) (Gustafson 2008; McDonald et alii 2004). As concerns the current
position of women in the medical profession, some studies have focused on vertical segregation and deal with
the female difficulty to break the glass ceiling, and therefore to take on leadership roles (Riska 2003; McGoldrick
1994; Tesch et alii 1995; McManus, Sproston 2000). Gender studies offer several suggestions and tools which can
be used to interpret gender differences in medical workplaces (McManus, Sproston 2000; Riska 2001a, 2001b;
Riska, Wegar 1993). A report entitled Releasing Potential:Women Doctors and Clinical Leadership (Newman 2011) was
recently published, presenting a theoretical model useful to understand and analyse barriers to women’s careers
in medicine. The obstacles in achieving leadership roles are divided into two macro-fields. The first is related to
mindset and distinguishes between individual and organizational mindset; the second concerns structural barriers
and role conflict.
Hypotheses and methods
Given the above, a research was conducted to reconstruct, as Kilminster et alii (2007) claim, the development
of feminization of the medical profession in Italy and its current configuration in order to analyse possible
continuities or discontinuities regarding the two kinds of barriers, suggested by Newman (2011), which can be
distinguished between mindset, on one hand, and structural barriers and role conflict on the other.
Therefore, two research questions can be formulated as follows.
1. Through what phases and with what characteristics did the process of feminization of the medical profession take place in Italy?
2. Is a new generation of female doctors emerging, with different values and behaviours from those of previous generations, which is able to remove the traditional barriers to career progression?
In order to answer these questions, the research was carried out through the use of primary and secondary
sources.
A first line of inquiry, in fact, adopted a historical perspective to reconstruct the path of feminization of the
medical profession in Italy and its current configuration by using institutional and sectoral statistics.
A second line of inquiry focused on the values and behaviours of a sample of young physicians in the Province
of Ancona. The provincial order of Ancona comprises 2,902 members, representing 0.8% of the national total,
which amounts to 345,323. However, the age and gender composition of the provincial order of Ancona reflects
the national average. The sampling was carried out using the list of members enrolled for the first time with
the Order in the decade 2001-2011. Units belonging to each year of interest were extracted from the list until
reaching 20%, in order to reproduce in our sample the structure of the population by age and gender. The survey
was conducted through a self-administered, semi-structured questionnaire, which comprised 95 questions and
was divided into four sections: a) education, training experiences and reasons for choosing medicine; b) current
job; c) work and family; d) relationship with professional associations. Of the 136 selected doctors, 5 did not
respond (4 men and 1 woman): therefore, completed questionnaires were received from 131 doctors (47 men
and 84 women), with a response rate of 96%. The first significant data that emerges confirms the trend towards
a gradual feminization of medicine: 64.1% of the young doctors surveyed were women. The average age is 33.7
years, with no difference between men and women.
The following sections set out the results obtained by the two lines of inquiry described above.
The process of feminization in Italy: a long term perspective
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DOI: 10.1400/234060 Elena Spina, GiovannaVicarelli
Several studies (Vicarelli 2008, Vicarelli, Bronzini 2008; Bronzini, Spina 2008; Malatesta 2006; Tousijn 2000)
show that the first phase of the feminization of the medical profession corresponded, in Italy, with a residual
welfare and health insurance system. For almost one hundred years from 1880 to 1978, in fact, welfare provision
was of a benevolent/charitable nature, to which insurance-based social security schemes were increasingly added,
although these had clientelistic and particularistic forms inherited from the fascist period. The second phase of
the process (1978-2015), instead, coincided with the creation and implementation of the Italian national health
service – that is, with a universalist and institutional form of health protection guaranteed to all citizens through
direct (financial and managerial) commitment by the state and regional administrations.
The first phase can be divided into three different periods.
In the first period (1880-1922), the number of female medical students never exceeded 2% of the total: a
much lower proportion than those recorded in the same period in Scandinavian countries and Great Britain. In
Italy, as in Germany and France, numerous female pioneers originated from the countries of Eastern Europe
(Russia, Poland etc.), and they were of Jewish or Waldensian origin (Vicarelli 2008; Rennes 2007). Italy pursued
the path of non-gender separation in the educational and professional domains (Malatesta 1996, 2006). It thus
demonstrated, at least in normative terms, an egalitarian intent which was thwarted by custom and practice.
When the order of doctors was founded in 1910, no obstacles were raised against enrolment by female medicine
graduates and their entry into the profession. But in practice enrolment was denied to even the most prominent
female representatives of science and culture (for instance, Maria Montessori) or of politics (for instance, Kuliscioff,
a leading exponent of the Milanese socialist party). Consequently, the only areas of employment available to the
women pioneers were charitable and mutual-aid organizations, both of which were very limited in scope and also
territorially circumscribed.
In the second period, which coincides with the twenty years of fascism (1923-1943), the professional growth
of women was obstructed by the regime’s restrictive policy on female work: a policy largely similar to those of
France and Germany. Once again, the percentage of women enrolled at faculties of medicine (5% of enrolments
at medical faculties in the early 1940s) was very distant from the rates recorded in the same years in Finland
(21.3%) or France (20%), demonstrating the country’s continuing laggardness (Riska, Wegar 1993; Riska 2003;
Finnish Medical Association 2003; Hardy-Dubernet 2005; Vilain 1995; Lapeyre, Lefeuvre 2005). The creation of
the National Institute for the Protection of Maternity and Infancy (ONMI) introduced a new social-healthcare
system which ramified through the country. However, it was instituted in a manner that created few employment
opportunities for women doctors. Nor did mutualism develop to such an extent that it attracted female medicine
graduates into a free-professional sector with scarce guarantees and public tutelage. In Italy, moreover, women
doctors did not perform the central role in the eugenic policy that characterized their German counterparts
(Kopetsch 2004; Kuhlmann 2003; De Grazia 1993).
The decades after the Second World War, the third period (1944-1978), were years in which Bismarckian
welfare was much promoted. During the 1950s and 1960s, women doctors had to accept and adjust to the model
of male dominance and, therefore, to separate the familial and professional spheres. Employed more than men in
hospitals and in local public medical services, they did not compete against males in the sector of contracted free
professionalism proper to republican mutualism. In fact, most female medicine graduates decided to specialize
in paediatrics: indeed, fully 46.5% of them chose this speciality in 1955-56, with the addition of the 9.9% who
chose anaesthesia. Nor had the situation changed substantially in 1962-63 – apart from the 10.6% of women
graduates who specialized in “psychiatry and psychology”. In both periods, still very few Italian female graduates
chose to specialize in obstetrics and gynaecology (4.4% in 1955-56 and 3.5% in 1962-63, for a total of 21
women). Overall, five specialities (paediatrics, anaesthesia, psychiatry, hygiene, and odontostomatology) were
chosen by 72.9% of female medicine graduates in 1955-56, and by 65.5% in 1962-63 – figures which suggest that
these women doctors worked mainly in hospitals. These were often all-encompassing choices, in the sense that
women devoted all their resources to them, forgoing marriage or children. Becoming a doctor and practising the
profession was therefore a goal in itself to be pursued and cultivated over time.
The second phase of the process of feminization in the medical profession begins at the end of the 1970s when
Italy changed from a meritocratic and occupational health system to a universalist and publicly-regulated one
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(Ascoli 2011; Pavolini 2012; Vicarelli 1997, 2010). The institution of the Italian health service – which formally
ratified the predominance of general medicine over hospital care – created employment opportunities for women
doctors; nevertheless, they continued to prefer the hospital sector.The differences between health-service general
practice and public hospital medicine, in fact, were such that women found the latter more closely regulated in
terms of working hours and protection (maternity leave) and more attractive than the former. Despite being more
profitable, general practice still had the features of a free-professional, semi-entrepreneurial activity. Acceptance
of the “dual presence” model by the women belonging to this generation responded to their need to obtain “wellbeing” from mediation between different (familial and professional) interests (Saraceno, Balbo 1981; Saraceno,
Naldini 2013). For instance, women found it difficult to give priority to either work or the family.They tenaciously
defended a “non-choice” and sought to maintain a balance, however difficult, between the two domains.
Still marked, however, were power asymmetries, and the direct or indirect exclusion of women from the
professional networks in which organizational decisions crucial for their careers were taken. If one considers,
for example, the proportions of women in university academic staff from 1997 to 2011, one finds that they
constantly increased, but the values were still very low in the most senior posts: female full professors of medicine
rose from 8% to 15,5% (+7.5), associate professors from 19% to 27.4% (+8.4), and researchers from 32%
to 43% (+11); only two women are deans of faculty. If one looks at the structure of the national council of the
FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), which comprises all
the presidents of the provincial orders of doctors, one discovers that, for the period 2015-2017, five (4.7%) of the
council’s 106 members are women. Furthermore, regarding the managerial roles played in the INHS, the presence
of women still remains very low: for the period 2009-2010, just 9.1% of them were General Directors, 16.1%
Health Directors and 19.5% Administrative Directors. In 2013 just 14.7% of them were Head of Department
in hospitals and 30.2% were Directors of Health care Units (Ragioneria Generale dello Stato 2013). As often
confirmed by interviews conducted in those years (Vicarelli 2008), exclusion from these networks was put
forward by women doctors as a self-restriction of which they could be proud. It was, in fact, indicative of a moral
integrity and a professional purity at odds with the behaviour of the medical profession as a whole. From this
point of view, as gender identity was being sought, even unconsciously, it pushed towards self-improvement which
tended not to contest the substantial restraints imposed by the organization and the dominant power hierarchies.
In other words, the “iron maiden” trap seemingly operated for those women who, in the difficult endeavour of
reconciling their careers and their families, saw the creation of the National Health Service as promising a new
kind of medicine: a medicine which would emphasise the community, prevention, and the central importance of
the patient and his/her entire course of treatment.
However, despite the increase in female physicians in recent decades and the creation of the INHS, the glass
ceiling has not yet been broken and it is for this reason that it becomes of interest to investigate whether the new
generation of women will have the propensity to take on leadership positions in the future.
Is there a new generation of female physicians in Italy?
In order to answer the second research question, a pilot project research was conducted on a representative
sample of physicians of the Order of Ancona. To analyse the data from the second phase of our research, the model
proposed by Newman (2011) can be used (see Figure 1) as it offers the advantage of summarizing the major issues
which are traditionally considered as barriers to women’s career progression.
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Figure 1 - Barriers to career progression
Source: Newman (2011: 21).
This model outlines some of the obstacles identified in achieving a leadership role. These obstacles have been
well documented: they include role conflict and structural barriers, and individual and organisational mindset.
As regards mindset, it is «a set of assumptions, methods or notations held by one or more people or groups
of people which is so established that it creates a powerful incentive within these people or groups to continue to
adopt, or accept, prior behaviours and choices» (Newman 2011: 22). Mindset can be divided into individual and
organizational and it includes low personal aspiration, the perception of a traditionally male cultural environment,
a “boys club” and a lack of networking opportunities.
In particular, individual mindset is the lack of self-confidence, namely the lack of confidence in their personal
abilities, as well as low career aspirations; all of these are considered as a barrier for the acquisition of leadership
roles in the British report (Newman 2011). In order to continue to have fulfilling contact with patients as well as
to achieve a work-life balance, female doctors seem to reduce their threshold of expectations and appear to be
content achieving less than they aspire to.
Organizational mindset identifies a cultural dimension, namely the prevalence of organizational models which
have a traditionally male connotation and do not offer women the same opportunities as men (Newman 2011).
The Releasing Potential report highlights the different perception of men and women as regards the existence
of a discriminatory mechanism: men, though recognizing the limitations associated with women’s greater family
responsibilities, do not believe that these mechanisms exist or that they are gradually decreasing; women, on the
contrary, «identify barriers related to organizational culture or exclusion from networks» (Newman 2011: 22).
Role conflict and “structural” barriers include the triple burden of domestic, clinical and leadership
responsibilities, part-time work, the sessional GP contract, lack of role models and time dedicated to management
roles - the latter is also experienced by male colleagues.
As regards role models, the study reports that their lack «can affect career choices» and that «visible and
powerful role models would help women aspire to leadership roles» (Newman 2011: 27). Role models include
women in leadership positions (vertical dimension) and women doing the same job/speciality (horizontal
dimension) who are particularly inspirational during training, however, few are visible later in the careers of the
younger generation of physicians.
The British report claims that women physicians are over-represented in the sessional GP contract due to the
advantages it offers in terms of part-time work options and freedom from administrative responsibility (Newman
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2011). However, given the isolation and the inability to acquire additional roles, the female inclination to choose this
sector could be linked with their low inclination to leadership.Therefore, the GP sector is recognized by literature
as a low prestige field compared to other medical fields (Riska, Wegar 1993), as well as being characterized by
relative isolation, by difficult access to information and, above all, by a lower possibility of acquiring leadership
positions.
The British report considers part-time work as a limitation to the acquisition of leadership positions as it can
produce isolation and a lack of ability to develop additional roles.
A further critical aspect concerns the segregation generated by the dual role played by women in society:
that of mothers and wives and that of workers (Sinden et alii 2003; Walsh 2013). This aspect is recognized as
a significant barrier to women’s career progression as many British women physicians are experiencing a role
conflict that may lead them to relinquish leadership positions (Kvaerner 1999; Newman 2011). This could be one
of the reasons why many women doctors give up parenting or limit the number of children, often postponing the
age of conception of their first child.
Given the above, as this model includes many of the main traditional barriers to women’s career progression,
it can be used as a framework to interpret our research data.
Individual mindset
Looking at the perception that women physicians have of themselves as professionals, a high degree of selfconfidence comes to light: women perceive themselves as adequately prepared to carry out both the clinical part
of their job and the managerial tasks; they feel they are adequately trained in the communication process with
patients and they are satisfied with the relationship with the latter, thus confirming the female aptitude both
towards social relatedness and empathy (see Table 1).
Table 1 - Individual mindset (%)
W
M
I am required to perform clinical tasks for which I do feel adequately trained
59.5
56.5
I am required to perform managerial tasks for which I do feel adequately trained
58.4
57.8
I feel adequately trained to communicate with patients
66.3
66.7
I am satisfied with my relationship with patients
93.8
87.0
I feel satisfied with my current post
(average value on a scale 1-10)
I graduated in six years (on time)
I have obtained other higher professional or academic qualifications
6.2
33.1
16.0
77.1
6.1
31.8
34.0
66.7
I think that the professional growth of non medical staff will be positive for the quality
of care
33.0
30.4
Source: own data.
These data seem to be supported by the level of satisfaction with current job positions shown by the female
doctors interviewed who have probably met the expectations they had for themselves when enrolling in medical
school.
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The successes they achieved during their training period may have increased their self-awareness: at a national
level, in fact, more women than men graduated in six years and, of the total members enrolled, women are almost
twice as likely as men to register with the professional register before they are 29 years old (5,154 women and
2,932 men, data provided by FNOMCeO in 2012).
Women’s perception concerning the role played by other health occupations can also be considered as an
indicator of both their aptitude for leadership and their level of self-confidence. As concerns this, our survey
shows that the professional growth of these occupational profiles does not threat women’s professional autonomy
nor reduce the sense of security they have acquired: they favourably view the improvement of the status of these
occupations for the quality of care and feel sure that this will not lead to an increase of tensions between different
professions (see Table 1) .
Given this framework, it can be argued that women’s perception about their skills and abilities is not a limit to
their career progression in our sample; they believe in their own skills and competencies and this could support
their rise to leadership positions (Kvaerner et alii 1999; Eagly, Carli 2007; Carnes et alii 2008; Khan 2012).
Organizational mindset
Looking at macro level relationships, over 50% of female respondents (versus 30% of men) state that they are
very or fairly satisfied with the relationship with the hospital where they work. However, fewer of them (23.4%)
claim to receive good support from the health care organization, where a lack of women still persists in the top
posts. The male percentage, however, is not very high (28.9%) which may mean that the ability of healthcare
organizations to provide support is not connected to the gender of those who are in leadership positions (see
Table 2) .
Table 2 - Organizational mindset (%)
I am satisfied with the relationships with the hospital
I receive good support from hospital management
I receive good support from senior doctors
I am satisfied with the relationships with GPs
I am satisfied with the relationships with doctors from other specialist branches
My workplace presents good equal opportunities for female doctors
W
M
52.6
23.4
69.6
63.0
71.6
39.8
30.4
28.9
61.4
58.7
60.9
82.2
87.7
83.8
78.8
77.2
67.4
76.1
63.0
60.9
I think that my professional autonomy could be reduced by the following:
- mass media
- health managers
- national legislation
- politicians
Source: own data.
Moving on to micro-social relationships, the survey reveals that women do not consider the professional
environment where they work as a hostile place. Almost 70% of them feel they receive good support from their
senior colleagues (versus 61.4% of men). The gender gap can be explained by using the findings of a previous
survey carried out in 2004 on a sample of physicians enrolled in the provincial order of Ancona, Turin and
Cosenza (Speranza, Tousijn, Vicarelli 2009). Research showed that the relationships between male doctors are
imbued with greater competition than those established between women, which are instead based on cooperation.
This interpretation is supported by our data, in particular those data focusing on the level of satisfaction with
relationships with colleagues. Overall, a high level of satisfaction seems to emerge; however, women registered
higher values than men once again, proving that they tend to have a less conflictual perception about the medical
environment as well as a greater aptitude for teamwork.
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By contrast, the findings of our research concerning the existence of gender discrimination within workplaces
seem to reduce the importance of the changes revealed. Only 39.8% of female respondents feel they have the
same opportunities as their male colleagues, against 82.2% of the latter. Data concerning professional autonomy
seem to confirm the thesis that a male organizational culture tends to prevail. The survey shows that women,
far more than their male colleagues, are worried about the possibility that health managers, politicians, national
legislation as well as the media might reduce their professional autonomy (see Table 2). As all of these areas are
characterized by a dominant male presence, we can assume that women feel most threatened because of their
exclusion from these sectors; therefore, they may notice the existence of a different way of thinking.
Role models
Focusing on the vertical dimension of the role models, more than one-third of women have had the support
of a significant person during training but the percentage decreases looking at women who had received similar
support during their career (see Table 3). Usually the mentor was a doctor (met during training periods or at a
later stage) even though the number of respondents who indicate a relative is particularly significant.
Table 3 - Role models (%)
I have had a mentor during my training period
I have a mentor in my professional career
There are doctors among my relatives
One of my parents is a physician
I am married to a doctor
I come from an upper/middle class household
I have chosen to enrol in speciality training
W
M
36.6
26.5
38.6
8.3
19.7
83.3
75.0
36.2
29.8
23.9
25.5
43.5
89.4
78.5
50.0
21.0
24.2
4.8
100.0
24.3
27.0
35.2
13.5
100.0
My area of specialisation is:
- medical area
- surgical area
- diagnostic area
- public health area
Sub-total
Source: own data.
This leads to question the effects that kinship networks can have on the careers of young doctors. We therefore
investigated parental status in order to observe how family networks as well as original social capital have affected
their career. The first indicator we used was the self-recruitment rate which was useful not only to assess if a
hereditary mechanism still exists in the medical profession, but also to assess the professional support they have.
One-third of total respondents acknowledge the presence of other physicians among their family members, thus
confirming the «existence of a dense and extensive professional network surrounding doctors» as Vicarelli (2008)
claimed. Focusing on direct transmission alone, the survey shows that only 8.3% of women doctors (versus
25.5% of men) have chosen the same career as at least one of their parents and a lower proportion of female than
male doctors (20% versus 43.5%) are married to doctors.
Subsequently, the socio-economic status of the family of origin was used as it may be useful to evaluate the
amount of social capital on which young doctors can rely. Our data seem consistent with the results from other
Italian (Speranza, Tousijn, Vicarelli 2009) as well as international studies (Freidson 2001; Adams 1953) that
consider upper-middle classes as the major source of origin of professionals. Indeed, the majority of women come
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from families with a medium-high socio-economic status: if social class is linked to the amount of social capital,
as literature claims, the female sample would seem to rely on significant relational resources, which could affect
their chances of career progress.
Focusing on the horizontal dimension and hence looking at the post-graduate choices of young female doctors,
an encouraging trend seems afoot, which allows us to imagine a progressive reduction in gender segregation
(see Table 3). Women continue to favour some traditional areas of speciality, such as paediatrics and obstetrics
and gynaecology, whereas men continue to choose hygiene and preventive medicine, occupational medicine and
nutritional science. However, a greater female propensity to undertake more unusual careers than in the past can
be observed: a decrease in recruitment in medical and public health areas as well as a sharp increase in the surgical
and diagnostic field, which traditionally recruited male doctors, can be observed. This change would seem to
support the argument that the gender casting mechanism (Lambert, Holmboe 2005; Morrison 2006), which may
tend to exclude women from certain medical fields, especially those of diseases, and reserve them to other clinical
sectors such as those focusing on women’s and children’s wellbeing (Riska 2003), could be partially overcome.
Sessional GP Contracts
Due to its entrepreneurial nature, the GP sector has traditionally recruited a higher proportion of men than
women for many years in Italy. The lack of women in GP careers is probably due to the managerial traits of this
medical sector as well as to the observed low female aptitude towards managerial tasks. The access to this field
can be considered as a further cause of the lack of women in the GP sector. Those who choose GP training after
foundation training have to wait for concessions from the INHS and therefore «may be in a weaker position
compared to their colleagues who achieved a speciality in another field. Therefore, the path is longer and more
uncertain […]. This can be an obstacle to women who want to plan a family» (Bronzini 2006: 122).
However, signs of change seem to emerge from our research that document an increase in feminization: a
slightly higher percentage of women (20.7%) than men (17.4%) embark on this career path and are overtaking
the male population in this medical sector, at least in the province of Ancona.
It is not easy to trace the causes of the reversal of this trend: it can be ruled out that women are attracted
to this career path due to the greater flexibility and reduced workload that it grants, considering that the GP
interviewees state they dedicate to their work the same amount of time and the same resources as their specialist
colleagues. One of the reasons may lie in the progressive implementation of associative medicine that seems to
offer a number of advantages: from an organizational point of view it allows greater flexibility in terms of working
hours, ensuring the possibility of being replaced by colleagues; from an economic point of view this formula
allows them to take advantage of a number of incentives and to share costs.
Part-time roles and time available for leadership
While the British report considers part-time work as a limitation to the acquisition of leadership positions, this
does not represent a problem in Italy given the low use of part-time contracts in the medical sector. Furthermore
none of the interviewed professionals has a part-time work contract. In addition, the survey shows that women
physicians’ workload is remarkable, both in terms of hours worked and of patients visited. It appears, in fact, that
the clinical part of medical work engages women greatly: they see a higher number of patients per week than men
(respectively 61 and 40), spending the same number of hours working (average value 39) (see Table 4).
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Table 4 - Part-time role and time available for leadership (%)
W
I have a part-time contract
Average number of patients seen per week
Average number of hours worked per week
Average number of weekends worked in the last three months
Average number of night-shifts in the last three months
I feel emotionally drained from my work
I feel used up at the end of the workday
I feel tired when I get up in the morning and have to face another day on the job
I have not lost my sensitivity towards others since I started my job
M
0.0
61.0
38.7
4.6
6.0
52.4
61.0
62.2
63.8
0.0
40.0
39.4
5.0
10.0
47.8
52.2
45.7
58.7
Source: own data.
The considerable amount of work carried out by women results in a high level of stress: they feel emotionally
drained from their work, used and tired; nevertheless women seem to retain a degree of empathy stating not to
have lost their sensitivity towards people since they started work. Everyday clinical tasks make it difficult to find
extra time as well as further resources to engage in other activities such as leadership roles. This can represent a
limit to women’s career progression, reducing their opportunities for professional growth.
Child care
In regard to this issue, our data are considerably different from those reported in Releasing Potential, allowing us
to imagine a positive sign of change in the near future. Thus, in contrast to a relatively recent past, when women
who chose a medical career were often discouraged from getting married as well as from having children (Vicarelli
1989, 2003), our interviews showed that they get married more than men, having children in a percentage that is
twice that of their male colleagues (30% versus 17.8%) (see Table 5).
Table 5 - Child care
Average age (%)
I am married/cohabiting (%)
I have children (%)
I find it relatively easy to maintain a balance between my professional and personal life (%)
I am satisfied with the amount of time that work leaves me for family, social and recreational
activities (average value on a scale of 1 to 10)
My family life has not affected my professional career in terms of sacrifices and delays (%)
My professional career has not affected my personal life, slowing or preventing family stability (%)
W
M
33.9
72.6
30.0
59.0
33.6
51.1
17.8
64.4
5.64
4.97
57.8
61.0
69.5
61.7
Source: own data.
This result appears to be particularly significant as the men and women in our sample are of almost the same
age with few differences in terms of contractual strength and work environment. Indeed, they work mainly in
the public sector (67.4 % of men, 74.7% of women) and have a very similar long-term contract (34.2% of men,
32.7% of women) and a slightly different fixed-term contract (50% of men, 43.6% of women). In actual fact, the
latter type of contract is mostly a training contract due to the fact that 42% of the interviewed physicians (39.7%
of women, 45.9% of men) attend a specialization school. The data may be explained partially by the tutelage of
maternity granted by the 2007 Decree, which provides for new contractual rules for resident physicians. All the
provisions foreseen by Decree No. 151/2001 are applied to the latter, such as parental leave, days off and leave for
children’s sickness. From this point of view, it is evident how this training period coincides with the reproductive
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choices of young women doctor. On the other hand, recent national ISTAT data** reveal that the average age at the
birth of their first child is 31.3 for women and 35.1 for men and this would explain why the men in our sample,
with an average age of 33.6, have fewer children compared to their female colleagues.
Female respondents claim, moreover, relative ease balancing work and private life (59%) saying that their
family life has not affected (or excessively affected) their career, in terms of sacrifice and referrals. However, their
career choices seem to have affected their personal ones, slowing down or preventing family stability. Finally, it
is important to highlight that the level of satisfaction expressed by women in relation to the amount of time that
their job allows them to devote to family, social and recreational activities is rather low (see Table 5).
Conclusions
As regards the feminization of the medical profession, Italy’s position is the result of a very limited increase
in the female medical profession throughout the first half of the 1900s, and a relatively larger one in the second
half of the century. The process of feminization, in fact, was slow and difficult until 1970s as the residual and
categorical health system did not allow the development of the medical profession for women. Throughout this
period, in fact, the percentage of female doctors of the total remained quite limited: from 2% in the first years
of the twentieth century to 1970s. Since 1978, with the establishment of the INHS, the number of women who
enrolled and graduated in medicine grew to reach the peak in 2003 (60% of the total). However, despite the
increase in female physicians in recent decades and the creation of the INHS, the glass ceiling has not yet been
broken.
Being a pilot project research, our survey was carried out in a defined area and its findings, based on a limited
sample, cannot be generalized. Therefore, further investigation is necessary in this field. Nevertheless, the results
of our research seem to confirm that the changes currently taking place are significant and that, although gender
discrimination still persists, the future scenario could be very different. First of all, the younger generation of
women doctors registered with the provincial order of Ancona seems to have internalized a managerial outlook.
The skills they have proven to possess in carrying out managerial tasks as well as the high degree of self-confidence
they show, can positively affect their chances of achieving leadership roles. Secondly, without sacrificing marriage
and children, they display the ability to balance work and private life, breaking down several traditional barriers
to women’s career progression. Thirdly, they create good relational as well as social networks at micro and at
macro levels; they are experimenting different role models than in the past, both vertically and horizontally; they
are choosing unusual career paths, in terms of speciality training, thus reducing the existing gender gap. Finally,
despite their heavy workload combined with high levels of stress, women still retain their sensitivity.
Finally, it is appropriate to refer to the international debate on emerging models of professionalism and
therefore imagine that the young generation of doctors, particularly female doctors, fall within the lifestyle model
(Hafferty, Castellani 2010). It is a model in which autonomy, especially in organizational terms, is considered to
be very important, work-life balance is essential, while dominance, considered in traditional terms, is completely
irrelevant. The use of this approach obviously requires caution, considering the wide differences between the
American context, for which this paradigm was created, and the Italian one. In Italy, in fact, not only is there a
national health care system but the latter seems to offer more career opportunities for women today while losing
its traditional appeal for men, even more in the current economic crisis whose negative effects on public health
systems are already very evident.
Is it possible to imagine that the future of Italian women doctors will be different from the past? Will Italy be
able to align quickly with European countries, where the processes of overcoming gender differences in medicine
have been pursued more rapidly and with greater conviction? The recent election of a woman (previously president
of a provincial order) as president of the National Order of Doctors allows us to envisage a change of direction in
gender policy. The future is open.
** ISTAT statistics available at the website http://demo.istat.it/altridati/IscrittiNascita/index.html (Accessed: 2 June 2015).
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Contributions
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Teresa Torns
DOI: 10.1400/234061
[Family Changes in Spain]
Some Theoretical Considerations in Light of the Wellbeing of Everyday Life
Title (original): Transformaciones familiares en España: algunas reflexiones a la luz del bienestar cotidiano
Abstract: An analysis of family changes does not usually take into account the importance of well-being
in daily life. This article offers some theoretical reflections on this issue in the light of some studies
carried out in Spain on this apparent shortcoming. First of all, some studies about family changes are
reviewed. Then the article focuses on factors that may explain the issues raised. These include generational changes, among which the late coming of age of young Spaniards. The changes in dual-earner
couples, especially young couples, are noted. Changes relating to the calling into question of male hegemony will also be discussed. And, lastly, in the light of the results of a recent study on the difficulties
of promoting Long Term Care (LTC) services, it proposes taking into account the necessary relationship
between well-being in daily life and family changes.
Keywords: Family Changes, Well-being in Daily Life, Gender Gap.
Initial reflections
The family changes discerned in studies on family structure seem to be an indisputable fact. This finding
becomes one of the main indicators of the modernization of contemporary societies. And it is usually considered
a sign of the inexorable globalization in which we are caught up. In the EU environment it is also said that these
family changes are largely the result of family policies that the Welfare State has developed. Particularly in the
European countries where such interventions have taken place, with different approaches and paces throughout
the second half of 20th century. The current economic crisis, which began in 2007, has called welfare policies into
question, among which family policies. This issue is particularly evident in countries such as Spain, owing to the
austerity policies with which it has dealt with the crisis. However, it must be acknowledged that this problem is
not only the result of austerity measures, since that viewpoint overlooks the controversy about family policies
that was going on in Spain long before the crisis hit. Among other reasons because these interventions do not
always take into account the orientation and content of those welfare policies: family policies that tend to lump
together factors involving work, education, health, culture and housing as if they were exclusively family issues.
Interventions that do not take into account the socio-demographic structure of Spanish society, which has seen
more than three decades of an increased and habitually non-confronted aging process. A process, despite the aforementioned changes, whose family model continues to impose a sexual division of labor marked by a persistent,
tenacious gender asymmetry. All issues that should be added to the distrust of Spanish society toward the services
offered by the Public Administration, given the long tradition of paternalistic and interventionist welfare policies
in Spain, a tradition responsible for the chronic neglect of family needs. And, last but not least, it continues to
promote a family policy that, like other welfare policies, recognizes the social rights and duties of individuals but
that winds up applying them to families.
The reasons for this situation are discernible among the theoretical assumptions that dominate the analysis
of family changes. Whenever such research is carried out it becomes evident that most of these studies tend to
aim towards a macro-perspective that prioritizes a family model which allegedly exists, namely a nuclear family
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Teresa Torns DOI: 10.1400/234061
consisting of a couple with two children, which makes it possible to observe the undoubtedly varied changes and
diverse types of family models. But the underlying idea of a family considered as a harmonious and functional
whole, beyond those recognized as new. This vision is precisely what, among other things, impedes observing the
existence and persistence of the sexual division of labor. A division that, despite the aforementioned changes,
persists within the household. And that the analyses of families, developed from the macro perspective, seem
incapable of delineating. Perhaps because analyses of this kind continue to be too preoccupied with quantifying
how the coexistence or separations of couples affect the number or rearing of children, in relation to the careers
of parents, or in obtaining permits or parental resources, or other services offered by current family policies.
And too far from discerning why the sexual division of labor remains glacial, as indicated by researchers of the
EU policies in favor of women, which have been implemented over the past thirty years or more (Crompton,
Lyonette 2005; Karamesini, Rubery 2013). That is, the analysis of family changes in Spain are often obsessively
concerned with the family from the viewpoint of Welfare policies, and hence the macro outlook. And less for the
family that, although considered as the basic institution of society, does not contemplate as a theoretical horizon
the space of daily life. A space that is an essential key for focusing on the environment where it seeks out and
obtains its daily welfare or well-being in daily life. And, what is most disturbing about this macro perspective,
it takes for granted that that daily well-being is sought out obtained within the family, as something natural and
harmonious. A harmonious situation that most of the Spanish population continues to belie, even though the
family has increased in value as the most valued institution in the last thirty years.
The possible indicators of this contradiction must be found, for example, among the data concerning parental
work permits. Maternity leave, whose tracking points exceed 98% (according to the latest 2014 data), while
paternity leave (13-15 days) has not increased either in duration or in the percentage of the number of fathers who
request it. A situation that has remained unchanged in the past eight years, ever since the passing of the Spanish
equality law, in force since 2007. No success either, at least in relation to its media impact, in the reconciliation
of work and family life, which has also been regulated by law since 1999. The afore-mentioned contradiction is
also worth tracing among cases of gender violence, which also persist despite the fact that Spanish law has been
combating it since 2004. And Spanish society’s growing tolerance vis-à-vis these issues. But where the reality of
the figures1 shows how most women and children are assaulted in the household.Without forgetting the increasing
abuse of the elderly when they become fragile and require continued care in their daily lives. Or, in more genteel
terms, the tolerance toward the care drain (Bettio, Simonnazzi,Villa 2006) with which the Spanish society accepts
that their dependent family members be cared for by immigrant women whose work status is, to say the least,
questionable.
Important studies were carried out by pioneering feminist social scientists since the 1970’s: by Laura Balbo
in 1987, by Chiara Saraceno 1986; by María Angeles Duràn et al. 1988, to mention just a few Spanish and Italian
examples. And the analyses carried out from a gender perspective, including those promoting a critical view of
male hegemony (Connell 1995, Guasch 2012), usually the theoretical approaches that in broad outlines show
the importance of maintaining a micro perspective about the relationship between the family and daily wellbeing. A perspective that makes it possible to observe the tensions and conflicts that underlie family relationships
(Chabaud-Richter, Fougeroylass 1985). He has noted certain tasks conceptualized as domestic work and care
(Carrasco, Borderías, Torns 2011), which take place in a setting that transcends the family to become daily life.
And they have provided the best analyses of the inequalities in the social uses of time between men and women,
such as the Encuestas de Empleo del Tiempo indicate. But despite the plurality of these perspectives, the macro and
micro approaches that somehow hinge on the family and its changes and daily welfare are hardly touched upon.
Possibly because the gender perspective, more or less feminist, is usually confined to a kind of theoretical ghetto
that has been unable to contribute to the core of knowledge in the social sciences. Perhaps because the plurality
of paradigms is inescapable in sociology, as in other social sciences and epistemological plurality that barely exists
under the current hegemonic model of science. Or, probably, because of the trend of superspecialization, which
1 According to official data (Ministry of Health, Social Services and Equality), the law on gender violence has claimed a decline in the
number of fatalities. Thus the 72 women killed in 2004 have decreased to 54 women who died in 2014. But 66% of them were victims
of their partners, spouses or boyfriends in 2004, and that percentage has barely budged in 2014, reaching 67% .
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at present holds sway in the academic community. A situation where a certain Anglo-Saxon model of science
seems to prevail, beyond language, without the time and willingness to devote greater theoretical reflections, as
something easy or feasible.
Changes in family patterns
So, arguably, the most common analyses of family changes habitually typify and particularize in a rigorous
way the existing diversity of different family patterns, while maintaining a family concept based on minimal
common features. First and foremost among those traits considers that the family «is the most universal of social
institutions, but its historical forms have been too diverse to subsume them into a single concept» (Iglesias de
Ussel 1998: 293). A broad and abstract vision that underlies the idea of seeing the family as an institution that
differs in its morphology but with a few intrinsic functions which are basic to the proper functioning of society.
Namely, the rearing of children of up to three years of age and basic care for people affected by functional
dependence. A situation, the latter, which includes care for the elderly, when they become or are frail, given
the widespread practice of this care within the family (Casado 2014). As it is easy to see, these features do
not take into consideration, in the first case, the growing intervention and influence of the health care system,
present even before childbirth. Or the active participation of the educational system of which, however, families
increasingly demand greater involvement in the tasks of parenting2. In the second case, something similar takes
place. Thus, one can see how the appeal to the widespread practice of caring for dependents tends to mythologize
the relatively recent history of family care within the family (Montigny 1994). At a time when we are forgetting
how the increasing process of aging has become a problem of enormous proportions, which barely existed a few
decades ago. An appeal and an oversight that converge in a growing paradox: family studies tend to focus on the
relationship of parenthood, in a context like the Spanish one which presents a low birth rate. While they hide or
do not sufficiently show the conflicts and tensions that occur in family relationships as a result of ever-increasing
dependence. A paradox that for the most part involves women in the family’s daily life. And that while the abovecited concept of family makes explicit mention of functional care and extended family practice in the care of its
dependent members, the analyses based on this concept of the family does not make it possible to observe the
family changes that the above-cited paradox provokes from day-to-day in family life. That is, these analyses do not
take into consideration how such care includes, beyond conventional domestic-family tasks, the related emotional
support and attention provided to its dependent members. Or, of course, the tasks relating to the organization
and management of its dependent members, which form a key part of so-called family management. A set of
tasks that even in the best of cases is hardly in keeping with the satisfaction and positive values associated with
raising children, which are the basis of a harmonious vision of positive family values. On the contrary, they cause
a large number of women to pay a high price (measurable in time and health) for taking on that care (Duran
2006). Because most of them, although they may not undertake the hardest of the care tasks toward dependent
family members, sense them as an inescapable moral obligation. A particularly powerful feeling among women
of the sandwich3 generation (Williams 2004), especially visible among working class women (Torns, Borràs,
Moreno, Recio 2014). Women who, morever, also lack the personal, monetary resources or access to adequate
information, such as engaging the services of an immigrant woman who frees them or helps them to cope with
the harshness of the situation (Bettio, Simonazzi, Villa 2006).
Such questioning of the analyses of family changes, however, does not preclude recognizing changes in the
morphology of family composition in Spain. Specifically, according to a renowned family sociologist, such changes
can be summarized in the existence of a greater verticalization of family relationships and in the consequent
emergence of a “beanstalk” family structure. Because in his words: «82% of people are part of a family network
composed of at least three generations. However, the gradual decline in fertility has also decreased the number
2 A definition accepted according to the criteria of the International Family Conference, held in Doha in 2014.
3 The Sandwich Generation, a term coined by Anglo-Saxon, are those women in contemporary societies who must attend to the care of
their children and spouses, as well as take responsibility for the care and attention of their elderly as they become incapacitated.
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of children from generation to generation. Both processes are generating a structure of kinship networks that can
be described with a graphic metaphor of a “beanstalk structure”: one has many ancestors but few lateral kin and
descendants» (Meil 2011: 188).
In that same vein, family changes can also be seen from the data of Spain’s Housing Census. In this case, the 2011
figures note how in 10 years many families have shrunk by 3.2%. At that time 573,372 families were eligible for
social aid geared to that family type (grants, scholarships and tax relief). Aid which under the Spanish law of 1998,
of a markedly natalist orientation, favored families composed of a couple and three children, characteristics that
were beyond the reach of families with children affected by a recognized disability. A large family categorization
that includes rights to receiving such aid to families with ≥ 3 children up to 25 years of age who are still in school.
Or that, since 2007, extended such aid to families with two dependent children in the charge of a single parent,
irrespective of civil status. An expansion that currently extends to gay marriages recognized by law since 2005,
thanks to the policies of Zapatero’s last Socialist government. And that, given the widespread acceptance it has
met with so far in Spanish society, the current conservative Popular Party government has not dared to change.
Generational changes and family changes
Without wishing to enumerate the multiplicity of factors that affect family changes, and with the sole aim of
highlighting those that affect daily well-being, it seems beyond doubt that there is a need to emphasize generational
change.This change includes first of all the late coming of age of young people in Spain, and secondly, the changes in
dual-earner couples, most of them young, and lastly, the emergence of so-called new fathers, who are demanding
greater participation in parenting.
The late coming of age of young people is one of the most important changes of those mentioned, along with
the already mentioned aging process, some of whose issues we will look into in greater detail. Spain shares this late
youth empowerment with other Mediterranean countries experiencing this situation in sharp contrast with other
European countries. In this scenario it seems beyond doubt that a large part of the responsibility belongs with the
economic crisis, which has plagued the country since 2007, as a factor explaining this late youth empowerment.
Or in its most evident consequences, observable in Spain’s high rate of youth unemployment which this crisis has
caused4. However, we must not forget other analyses which indicated, even before the crisis, how family strategies
encouraged a late coming of age in Spain. This was true more than two decades ago, especially among young males
(Gil Calvo 2002). Gil Calvo has confirmed his previous certainties, emphasizing that the present widespread
tendency of families to favor a higher level of education for their children has contributed to this late coming of
age. Because, although an increased level of education is evident, particularly among young women, it has also had
a certain perverse effect, as he explains:
The low quality of training received (...), manifested by two interrelated features: early abandonment of
compulsory secondary education above 25%, with the highest figures in the OECD (...), and a strong mismatch
between supply and demand of skills among most young people, given Spain’s upside-down educational pyramid
with its excessive preference for a long study period to the detriment of a short one, which condemns them to
overqualification and underemployment at a thousand euros per month as the only alternative to the prevailing
standstill (...) Hence the fear of a loss of social status (...), because of the devaluation of educational degrees and
qualifications. (Gil Calvo 2014: 33).
The same situation can be observed through data provided by the Observatory for the Emancipation of Spain’s
Youth Council, on the residential autonomy of young people in Spain. Specifically, the government agency cited
how for the third trimester of 2014:
The rate of autonomy of the population of 16-29 years of age in Spain in 2008 marked a record high
since the beginning of the century, until the third quarter of 2014, where a fall of 16.46% is given. And
in the intervening six years, the rate of residential autonomy of young people in Spain went from 26.1%
to the current 21.8%, which means that just over two out of ten young people today achieve residential
4 The youth unemployment rate is 52.4% for young people between 16 and 24 years of age, according to data from the Labor Force
Survey (LFS), 3rd. quarter of 2014.
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autonomy and a peak of three out of ten has never been reached. In absolute terms, the reduction between
2008 and 2014 of the residential autonomy of young people has been much sharper, 32.02%, but it is
a figure influenced by the decline that has also been seen in the youth population as a whole, 18.62%
(Observatorio de Emancipación 2014: 2).
In short, it might be said that this late autonomization is the underlying reason for the previously mentioned
strong verticalization of family relationships. And it helps to explain, if only in part, the low birth-rate in Spain.
However, the relative increase of young dual-earner couples is the second factor that best explains the impact of
generational changes in family changes. On this point it is worth noting the results of the studies that account
for the difficulties encountered by young couples in establishing symmetric gender relations, when it comes
to facing the tasks of child rearing. This problem, on which even the most optimistic data on how dual-income
couples work out this problem do not seem sufficient in themselves. Thus, in a recent study that has qualitatively
analysed how young Spanish couples are facing the tasks of raising a first child, one reads: «as concerns dealing
with the difficulties of dividing up these tasks, it is still women who show a greater willingness to adapt their
work lives to their child’s needs, developing in great measure “adaptive preferences”». (Abril, Amigot et alii
2015:3). A vision, however, that is not shared by other analyses which indicate that the difficulties of reconciling
work and family life among young couples appear precisely in regard to the tasks of child care. These difficulties
reinforce the dominant social image in a Spanish society where the strong family tradition is firmly rooted in the
family model of the male breadwinner/female caregiver (Torns, Moreno 2008). A model and tradition that, far
from vanishing, maintain an enormous symbolic weight despite the family changes we have mentioned. And in
the face of this young Spanish women cannot but show surprise and a relative ambivalence. Since they believed
that these difficulties had been overcome, were a memory of previous generations of women, and that they have
changed, having a life project of their own. A project that has led most of them to be present on the labor market,
a position they defend, although unemployment and insecurity continues to plague them to a greater extent than
they do their male peers (Torns, Recio 2012; Plantega, Remery, Lodovici 2013). Moreover, they grew up under
the protection of equal opportunity policies, which they believed enabled them to make their own way in life, in
contrast to their mothers and grandmothers. But the arrival of the first child is a rude awakening, in the discovery
that a reconciliation of work and family life is not possible because they are left with little or no personal time.
And, furthermore, they become aware that these policies of equality, besides being insufficient, tend to treat them
as mothers rather than citizens.
Difficulties of this kind, which young couples experience on an everyday basis, are also highlighted by studies
based on the Encuesta de Empleo del Tiempo5. These analyses reiterate the persistence of sexual division of labor
among young couples before the arrival of the first child (Wormwood, Garcia 2011). With the data from their
2002-2003 Survey, these sociologists observed how, despite the changes in the male breadwinner/female caregiver
family model, some of its features have remained. The main reason for such change is due, according to them,
to a higher participation of young women in the female labor force. And they sustain the validity of this model’s
characteristics after comparing the daily time distribution in dual-income couples and those where only the man
is employed. They see the most equitable situation where double income or cohabiting young couples have no
children and the woman’s job affords her a decent purchasing power. And the greatest degree of inequality in
couples with children present in the home, especially highlighting the emergence of this inequality with the arrival
of the first child.
Similar and more interesting conclusions were reached by Sara Moreno (2015) in a recent study with data
from the last TSE, corresponding to 2009-2010. Her analysis confirms that the tasks of caring for and maintaining
a family-household «represent a limit for the equal distribution of housework by gender» (Moreno 2015: 2). But
she also notes how the female employment rate affects the unequal distribution while introducing the importance
of the life cycle as a factor explaining this inequality. That is, the data show at first how the unequal distribution
of housework by gender depends on whether or not the woman is employed and whether she works full- or parttime. Something relatively obvious because, in principle, it seems logical that if she has more free time she can
5 It is the Spanish version of the Harmonized European Time Use Survey (HETUS).
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devote more of it to these daily tasks. And it is well-known that the vast majority of part-time workers in Spain, as
well as in most European countries, are women. But where Sara Moreno’s analysis is most interesting is when she
notes how women’s employment does not explain the greater or lesser degree of the fathers’ participation in these
tasks. A participation, as other studies have pointed out (Torns, Moreno 2008), that focuses almost exclusively
on childcare. And concerning which Moreno points out how this greater participation of fathers in childcare,
particularly young fathers, is the factor that best explains the change or improvement in the unequal distribution
of tasks. Inequality in the distribution of basic tasks in order to seek and obtain daily well-being is, in Moreno’s
opinion, the cornerstone of gender equality. A confirmation made repeatedly clear in social science studies which
are sensitive to the gender perspective and which should be kept in mind as the keynote of some of their most
telling arguments. Namely, although the greater female participation in the labor market is absolutely necessary
for promoting greater equality in couples, it does not seem sufficient to bring about a change in daily well-being.
Since the change of mentality of males is a major factor to be considered in this scenario. A change of mentality
that makes a crucial difference, as this study points to its contribution to daily well-being through their increased
participation in childcare. And whether they forget or not to participate in the daily well-being throughout the
entire life cycle. But which is essential for questioning the norms, values and practices that establish the hegemonic
standards of males in contemporary societies.
This calling into question is, as is evident from the sum of what we are saying here, an obligatory change
to the end of renewing the social contract between the genders, today expressed in the afore-mentioned male
breadwinner/female caregiver family model. And, as will be recalled, it has been recommended by the best Welfare
State specialists of the past decades (Lewis 1998; Orloff 2009), to mention just some of them. Of like importance
at this point are some of the analyses that examine the consequences that the huge volume of unemployment
among men has had in the rejection of male hegemony. A rejection deriving from the difficulties that prolonged
unemployment has created for young men, especially noticeable among the young sons of the industrial working
class (McDowell 2003). Because this prolonged unemployment has prevented them from building a life around
the workplace, as their parents did. A study conducted in Spain (Borras, Moreno, Castelló, Grau 2012) shows how
the unemployment and precarious, discontinuous work histories of young men have devastated their expectations
of carrying on with the oft-cited family model. And how, however, the risk of not being able to become the main
breadwinners opens the way to other expectations of living their masculinity. Thus, the study shows how the
consequences of the male employment crisis are establishing new models of masculinity, where work activity
no longer occupies the center of their life project, expressing itself instead in the family changes evident among
young men in their greater presence and involvement in domestic work and care. A situation that, far from being
prevalent, manifests itself especially among young men of the urban middle classes. And this probably has to do
with the growing process of individualization characteristic of prosperous societies where consumption and leisure
time seem to fill with content the time freed by the loss of stable employment and decent working conditions6.
Daily welfare and family changes
From the arguments presented in the preceding sections there appears beyond doubt to be a need to consider
the importance of daily well-being in family changes. And to consider the crucial role that care, a hegemonic
concept that seems to prevail in the specialized literature, plays in this well-being. It is equally important to
acknowledge the afore-mentioned contributions of feminist social scientists in indicating the limits of the Welfare
State. In addition to their efforts to outline the socioeconomic and historical contribution of women to the well6 See the results of the latest research carried out by an investigative team led by Carlos Prieto at the Complutense University of Madrid,
where I myself have spoken together with three Spanish researchers, which analyses the objectification and perception of work, care and
free-time phases in Spanish society. The research, soon to be published in a Cinca edition entitled Trabajo, cuidados, tiempo libre y relaciones
de género en la sociedad española, analyses and compares the data from the TSE in Spain (2002-03 and 2009-2010). Starting from various
typologies of class, gender and age, it carries out a qualitative analysis to see how men and women of different generations and with
different professional and work situations perceive the relationship between those time phases and their contents, in accordance not only
with what they experience on a daily basis but with what they believe it should be.
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being in daily life. Contributions and assistance that, at present, become fundamental for shedding light on the
difficulties afflicting the European social model. Difficulties that were already present in the origins of the welfare
model, as the feminist analyses have made clear, and that the current crisis has only aggravated.
Thus, as these specialists state, the welfare model created in Europe after the Second World War was intended
to guarantee social protection of the active participants in the labor market, mostly males. But such guarantees
did not take into account the variability of care and welfare needs of people in their daily lives, throughout their
life cycle. Nor was it able to show the importance of the male breadwinner family model/female caregiver family
model that made it possible. A situation that was considered natural and not the result of a gender contract, and
although it was understood that such daily care needs were of paramount importance at the beginning of life, it
was not foreseen that the lengthening of the life cycle would eventually expose the model’s limits. A question
that remains at present, beyond the budget cuts that neoliberal policies have imposed on the more basic welfare
policies (education and health). And that becomes visible in the enormous impact that these actions have had on
the career paths of men and women. Or in their inability to adequately address the needs of daily care and welfare
as a result of the increased aging of the population.
In fact it could be said that to review the basis of the current European social model, which has always prioritized
the production of goods and services, there is an urgent need to rebuild and find new answers to the challenge of
rethinking daily well-being. And that to date the European social model has neglected or taken for granted the fact
that any adult person could cope with their daily well-being on their own terms. An assumption that masks the fact
that the vast majority of the population seeks and obtains its daily well-being through more or less equal exchanges
of care work, money, time, love, expectations, etc .. Exchanges that in Spain, as a Mediterranean country, have
their main place in the context of the family. A situation in which we must remember the importance of a daily
care and welfare that exist, even though that European welfare model has neither recognized nor valued them
sufficiently. And that the main reason for this lack of appreciation lies probably in the fact that this daily care
and welfare are usually referred to as an exclusively private or family matter. An institution that, from what has
been said here, is far from providing adequate and comprehensive attention to a problem whose tensions and
conflicts between genders and generations fully affect people’s everyday welfare. The second reason is that the
tasks necessary for ensuring that daily well-being are almost always paid for by female family members, as has been
shown in the previous sections. Or they are carried out by women in a condition of extreme subordination, as
occurs in Mediterranean countries with immigrant women. As we have repeatedly stressed, and as other targeted
studies on the Spanish situation have shown (Martinez 2011; Parella, Ferber 2012). A situation that makes Spain
a clear example of implicit and supported familialism (Saraceno 1995). And that the Spanish situation is a good
example of how the cultural model of family care has implications for the assessment of public structures. Because
family care support coexists with a welfare vision of public services, and society perceives and agrees that such
services are a logical and natural substitute for the family and are not claimed as an individual, universal right.
The results of a recent study on how to professionalize Long Term Care Services (LTC) in Spain (Torns, Borràs,
Moreno, Recio 2014) confirm the validity of the arguments in the preceding sections. The study has tried to
find proposals that would make feasible the social organization of care services7 (Daly, Lewis 2000), through a
greater and better professionalization of existing services in this area. Services considered necessary to address the
increasing social needs arising from the aging process. The study combined an analysis of existing quantitative data
on the size of the population concerned8 and a qualitative analysis, in order to form an idea of the dominant social
perception of the care tasks for elderly dependents. The qualitative analysis was performed through interviews
with social workers and specialists involved in existing services. And through interviews with people employed in
direct care services both in institutions and in licensed homes, regardless of whether they had a formal employment
contract.
The results showed that the need to professionalize the services mentioned barely occurred in the speeches
of those interviewed, but what did was a family care culture. And, most important, a social assistance guided by
7 Organización social is the Spanish translation of social care by the above named British authors.
8 Population projections in the short term, conducted by INE (Instituto Nacional de Estadística), show how the old age dependency ratio
(≥ 64 years of age of the population in relation to people between 15 and 65 years of age) was 26.14 in 2012 and will reach 35.1 in 2023.
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an ideal of care dominated by the desire of the dependent elderly and their family members to be cared for “at
home and with their family”. A preponderant perception that varies according to social class but that sees working
class women as those most trapped by that ideal, in the absence of their own or other monetary resources to cope
with this care. And this reflects a great complicity in welfare policies, in its restoring the loss of relief aid after the
relative failure of the so-called law of dependency9. A failure that according to the survey results is not only due
to the crisis. On the contrary, it is the afore-mentioned family and welfare context and socio-cultural values that
underlie the problems of professional services for existing long-term care. But the root of these problems must
be traced ultimately to the persistence of the observed ideal. An ideal that reinforces the need to consider family
changes in the light of what is happening in the area of daily well-being, as we have tried to describe it in these
pages.
Final considerations
If there is any doubt about the need to take into account the importance of daily well-being as a factor that
affects family changes, it suffices to recall that Maria Angeles Durán (2012) reveals how the overwhelming
majority of the Spanish population (91%) feels obliged to take on the care of their elderly dependents. Although
the study also adds that this sentiment is accompanied by a sense of overwork on the part of the women of the
family. Therefore, breaking the almost exclusive feminization of these tasks would promote and improve the
social organization of the existing daily care services. Because the future, beyond other considerations such as the
lack of adequate public services, is already an overwhelming present to a growing number of women. Women
who cannot tolerate this situation in the same way, since inequalities of class, ethnicity and age also affect their
attitudes toward and manner of realizing those care tasks. But they have in common the lack of cooperation or
(perhaps more to the point) the absenteeism of males in daily care tasks. Absences that also imply a growing female
presence, particularly on the part of those young professional women who live their life projects in the exclusive
prioritization of their work and professional obligations. And who at most only begin to see the problems of daily
well-being when the first child arrives. Hence the observed change among young dual-earner couples, involving
a self-criticism of hegemonic masculinity which for now is just prodding the consciences of a small minority,
especially young fathers eager to contribute to the daily care of their children. If that is so, the change will not be
sufficient because, at least for the moment, the societies of southern Europe do not seem to realize that their aging
populations require thinking through and reorganizing their daily welfare systems in a different way.
This is why, as a suggestion, we wish to offer some ideas to stimulate debate on the basis of these reflections.
First, the social organization of the daily welfare of the citizenry is absolutely necessary. It should come from
their immediate surroundings, and not from the family alone, that is from a broad and close cooperation of the
public administration and community. There needs to be a utilization and coordination of those already existing
educational and social health services, as well as leisure and free time. Not to mention the importance of rethinking
the institutions that provide, along the life cycle, other housing and cohabitational solutions, to enable citizens
in their everyday lives to find alternatives, if it is so desired or becomes necessary, to the sole resources of the
family. Hence, probably, the need to continue by rethinking the city and municipal services and to promote timely
policies (Balbo 1987; Torns, Borràs Moreno 2006). The environmental, social, cultural and family characteristics
of the people that must be attended to should also be taken into account, so that their voices and interests can
contribute to better serving their different needs. Therefore, to cite just one example, to the extent that the ideal
of wanting to be cared for “at home with the family” represents in Spain the most desirable option, it would be
urgent to promote new changes. An urgency that, in this case, should affect mainly the planning, organization,
9 In 2006 Spain approved the Law for the Promotion of Personal Autonomy and Care for Dependent Persons (LAPAD). It was the first
state law in the field of social services. It established a list of services (both institutional and home care services) and benefits (direct
economic benefits). The law, now suffering broad setbacks, regulated the conditions of access to these benefits, depending on a person’s
degree of dependence. It recognized care as a legal right, and the need to develop care services and consequent professionalization.
However, these objectives were not met, foremost among them the possibility of issuing cash benefits for non-professional caregivers.
An option that eventually became the main resource granted but that the current crisis has brought to an end.
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management and promotion of actions aimed at meeting the daily welfare needs of citizens in the last stages of
their lives. This would imply accepting that family changes, as broad and diverse as they may be, will not always
be able to seek out and achieve that daily well-being. And, in the process of socially organizing daily care to obtain
new resources and promote a new social consensus (Lewis 2007), it would be useful to devote more time and
effort to caring for oneself and others. And to devote less time and effort in order to produce fewer goods and
services. Some calls for sustainability before the risks posed by globalization. Perhaps a good way to address the
issue would be to meet the challenges posed by daily well-being, as we have tried to set forth here.
References
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[Riflessioni sulle famiglie nella trasformazione della società italiana]
Nel 2007, durante il secondo governo Prodi, fu presentato con scarso successo un disegno di legge sui
cosiddetti Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) e, dopo otto anni di silenzio parlamentare,
nel 2015 sembrerebbe essere nuovamente aperto il dibattito sul riconoscimento delle coppie conviventi, anche
dello stesso sesso. Oggi, come allora, la contrapposizione è fra chi vuole difendere la “famiglia naturale” e chi,
al contrario, sostiene i diritti individuali. Mi sembra che il discorso continui ad avere coloriture marcatamente
ideologiche, non presti sufficiente attenzione ai cambiamenti nella famiglia e non faccia i conti con l’attuale
situazione di anomia durkheimiana, in cui alla trasformazione progressiva dei comportamenti individuali non si è
accompagnato l’adeguamento delle regole pubbliche.
Al dibattito politico gioverebbe una maggior consapevolezza dei mutamenti multiformi nelle pratiche sociali e
dei loro effetti sulla famiglia. Non è in questione il pericolo della de-istituzionalizzazione della “famiglia naturale”,
bensì è urgente il riconoscimento dell’esistenza di forme di per sé autonomamente in atto e già diventate
“istituzioni”, se al termine si attribuisce il significato socio-antropologico di pratiche generalizzate, consolidate ed
entrate nella coscienza comune: da qui l’urgenza di riformulare l’apparato normativo.
In quest’ottica, strutturerò la mia riflessione con una serie di flash sulle principali caratteristiche delle convivenze
familiari odierne. Come espediente retorico per dare ordine al discorso, ricorro alla definizione classica di famiglia
quale nucleo di persone coabitanti «sotto lo stesso tetto»1, composto - secondo Remotti e Fabietti (1997) - da
almeno due persone, legate dal vincolo del matrimonio o da rapporti di parentela, con relazioni improntate ad
affetto e/o reciprocità e orientate alla riproduzione. Ciò al fine di enfatizzare per confronto le abissali differenze
rispetto ai modi concreti di fare famiglia rintracciabili nella nostra società.
Famiglie come nuclei di persone conviventi
Nel 1951 in Italia, su una popolazione di 47 milioni di abitanti, si contavano poco meno di 12 milioni di
famiglie, con un numero medio di 4 componenti (rimasto praticamente stabile rispetto ai 4,1 del 1861), mentre
nell’ultimo censimento del 2011 esse erano più che raddoppiate di numero, in parte, grazie alla crescita degli
abitanti a oltre 60 milioni (fra i quali però 4 milioni e 200 mila sono stranieri) e in larga parte a causa della
riduzione dimensionale dei nuclei che oggi, mediamente, contano soltanto 2,4 componenti ciascuno.
La piccola dimensione media attuale deriva dalla compresenza di una pluralità di forme familiari molto
differenti fra loro, che stanno sostituendo l’ideal-tipo diffuso nell’immaginario del ventesimo secolo e del “Mulino
Bianco” - giovane coppia con un paio di figli in età infantile o adolescenziale: oggi troviamo famiglie allungate (cfr.
Scabini, Donati 1988, a cura di) dove il figlio, spesso unico, continua a vivere fin oltre la piena maturità (il 60%
dei ragazzi fra 25-29 anni, e il 30% di quelli fra 30 e 34 anni abita ancora in casa), figli con un solo genitore, spesso
separato o divorziato, famiglie ricostituite in cui convivono, almeno a tratti, figli di coppie diverse, coppie senza
(ancora) figli, coppie di persone dello stesso sesso, coppie nella terza e quarta età, che - per la differenza nelle
speranze di vita fra i generi - sono destinate a trasformarsi a un certo punto in nuclei di donne anziane sole (spesso
1 Dal titolo di un testo seminale, cfr. Barbagli M. (1984), Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna:
Il Mulino.
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con badante straniera convivente).
Il matrimonio religioso, fino a pochi decenni addietro considerato il modo “normale” per creare una nuova
famiglia, sta diventando minoritario, perché cresce la quota di persone che optano per quello civile (41% nel
paese nel suo complesso e oltre il 53% nelle regioni del Nord), anche nel caso di prime nozze (dal 19% del 2008
al 24,5% del 2012). Fra i giovani diventa altresì sempre più diffusa la convivenza pre o senza matrimonio; inoltre,
tendenzialmente sono meno propense al matrimonio le coppie che si formano dopo un fallimento coniugale
(soprattutto della donna) e, paradossalmente, chi vorrebbe poterlo fare, come chiedono i gay, ne è impedito
dal diritto religioso e civile. A partire dal 1972 i matrimoni sono calati dell’1,2% all’anno e dopo il 2008 del
4,8%, sebbene contemporaneamente i matrimoni fra stranieri continuino ad aumentare. Inoltre sono in crescita
i divorzi, passati dal 9,7% dei matrimoni nel 1995 al 24,8% nel 2012. Essendo probabile che le convivenze senza
vincolo coniugale siano mediamente ancora più instabili, possiamo dire che sempre più le famiglie sono unioni
temporanee, fra persone in molti casi non sposate e, anzi, sempre più spesso, in una sorta di ossimoro, costituite
da persone sole.
D’altronde, è il caso di ricordare che un numero crescente di famiglie potenziali non vive neppure “sotto lo
stesso tetto”, perché i due partner scelgono di mantenere la precedente condizione abitativa da single; oppure uno
dei due (solitamente la donna) non vuole coinvolgere i propri figli in una nuova coabitazione, o deve prendersi
cura dei genitori anziani con i quali è tornata a vivere; oppure i partner (coniugati o meno) lavorano e vivono
in città lontane e le difficoltà occupazionali rendono ormai quasi impossibile la pratica, usuale in passato, di
licenziarsi (solitamente la donna) e cercare un nuovo lavoro vicino all’altro.
Famiglie e riproduzione
La funzione riproduttiva della famiglia è molto indebolita. Il tasso di fecondità italiano è da molti anni fra i più
bassi al mondo, nonostante si siano sempre pronunciate in favore della natalità la dottrina della Chiesa cattolica
e molte retoriche politiche. Messi di fatto in contrapposizione ruolo materno e lavorativo, le ragioni del declino
sono trovate nella nuova condizione conquistata dalle donne e nella teoria del gender: per alcuni la de-natalità è
effetto non desiderabile di tante conquiste sociali, per altri frutto avvelenato della contemporaneità.
Queste impostazioni rivelano una matrice ideologica che maschera l’evidenza empirica. Controllo delle nascite
e riduzione della natalità, infatti, sono fenomeno tutt’altro che recente, anzi più che secolare. Nelle tre regioni del
“triangolo industriale”, Piemonte, Liguria e Lombardia, la natalità è stata in calo almeno fin dal 1861, primo anno
per il quale sono disponibili dati censuari. A ruota sono seguiti prima il resto del Nord, poi man mano il Centro
e il Sud, questi ultimi proprio negli anni in cui il regime fascista per “difendere la razza” promuoveva politiche in
favore delle famiglie numerose.
Per farsi un’idea delle dimensioni anche temporali del fenomeno, basti rilevare che il quoziente di natalità
nazionale medio è sceso da 36,8‰ nel 1861 a 29‰ nel 1921, 25,5‰ nel 1931, 18,5‰ nel 1951, risale a 18,6‰
nel 1961, per poi crollare a 9,2‰ nel 2011 (Livi Bacci 1980;1987). Faccio notare, inoltre, che il famoso baby boom
degli anni ’50 non è stato altro che un piccolo recupero congiunturale dello 0,1‰, dovuto quasi interamente
all’effetto statistico dell’abbassamento temporaneo dell’età al matrimonio e alla nascita del primo figlio. Il numero
medio di figli per donna scende costantemente dai 5,65 delle donne nate nel 1851-61, ai 3,55 per le nate nel
1891-95, 2,35 per le nate nel 1926-30, con una lieve ripresa (2,42) per la generazione nata nel 1936-40, che
come abbiamo visto è stata protagonista del baby boom. Già nel 1976 si scende sotto quella che è considerata la
soglia di sostituzione, 2,1 figli per donna, fino ad arrivare all’1,4 odierno.
Tale trend rivela che i comportamenti riproduttivi sono sì cambiati, ma in modo progressivo, lungo almeno un
secolo e mezzo. Dobbiamo allora domandarci come, nel lungo periodo, si siano man mano trasformati i contesti
in cui gli attori hanno compiuto le proprie scelte riproduttive. A tal fine si dovrebbero dare risposte a tre insiemi
di interrogativi: chi ha fatto le scelte, vale a dire come cambiano gli attori che entrano nel processo decisionale
riguardante la procreazione e con quale potere (la coppia, il marito, la moglie, altri congiunti), perché le ha fatte,
ovvero come cambiano i progetti di vita individuali e di coppia, o le preferenze, come direbbero gli economisti
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e, infine, con quali vincoli, cioè come variano nel tempo le risorse (sono fattori centrali la scolarità dei genitori
e dei figli, le trasformazioni della struttura economica, l’inurbamento, l’aumento dei redditi, la riduzione della
mortalità infantile).
Sebbene le classi sociali siano state coinvolte con modalità e tempi parzialmente differenziati, una volta
innescato nelle diverse aree territoriali del paese, il processo è stato tale per dimensioni da interessare molto
rapidamente tutti i ceti. Nella generazione dei miei bisnonni, contadini poveri nelle campagne piemontesi, nati
a cavallo dell’Unità d’Italia, per contare i propri nati alle madri non bastavano le dita delle due mani, sebbene
non molti di quei figli siano poi riusciti ad arrivare fino alla vecchiaia. Ma già nella generazione immediatamente
successiva il controllo delle nascite è stato drastico (i miei nonni materni hanno avuto due figli, quelli paterni uno
soltanto nato vivo e questi numeri erano la norma fra i loro parenti e la gran parte delle famiglie intorno a loro).
Di questi pochissimi nati quasi tutti hanno raggiunto l’età adulta e questo, ovviamente, non è un dato secondario
nelle nuove strategie riproduttive. La mia scelta di avere un’unica figlia e quelle delle mie coetanee, allora, non
sono state una scandalosa rottura rispetto all’elevata fecondità del passato recente, perché, in media, noi non ci
siamo comportate in modo troppo dissimile da molte delle nostre nonne, se non fosse per l’età avanzata alla quale
abbiamo “accettato” di diventare madri.
E qui sta il punto: l’innalzamento dell’età al matrimonio (oggi 31,3 anni per le donne e 34,6 per gli uomini)
e alla procreazione (solo l’8,7% delle madri al parto ha meno di 25 anni, il 56,4% è di età fra 25 e 34 anni
e addirittura il 35% è ancora più anziana), sono stati fenomeni subitanei, a differenza dal calo della natalità.
Questo improvviso slittamento temporale in avanti è stato di grandissima importanza. Nel calcolo della fecondità,
infatti, i figli di un’intera coorte decennale, o addirittura quindicennale (le coorti 15-25 o 15-30 anni) a un certo
punto sono spariti dal novero perché le loro madri hanno deciso di ritardare la maternità. Questo fatto di natura
puramente aritmetica spiega il crollo rapido dell’indicatore, mentre abbiamo visto che la riduzione nel numero
medio dei figli generati dalle donne nel corso della loro vita è stata sì imponente, ma spalmata nel tempo. Storici
e antropologi, per altro, ci insegnano quanto i regimi demografici nei diversi sistemi sociali siano stati plasmati
dall’età normativa per il matrimonio e, in conseguenza, per la procreazione (insieme all’istituto del celibato dei
gruppi sacerdotali e monacali, l’esclusione dal matrimonio dei secondogeniti, ecc.).
L’indebolimento delle funzioni riproduttive della famiglia è accentuato dal fatto che i pochi figli sempre più
spesso nascono fuori dalla famiglia canonica, da genitori non coniugati (un nato su quattro ha genitori non sposati,
ma per il primo figlio la percentuale sale al 32%), o neppure conviventi (il 25% dei nati fuori dal matrimonio ha
genitori che non costituiscono una famiglia anagrafica), tanto che l’etichetta infamante di “ragazza madre” è ormai
caduta completamente in disuso, insieme alla percezione sociale di atto deviante.
Paradossalmente, lo studio delle tendenze demografiche è molto praticato dagli scienziati sociali, non solo
demografi, ma dà luogo spesso a notevoli errori di previsione. Per esempio, a metà degli anni ’70 si sosteneva
con grave preoccupazione che una bomba demografica, in soli venticinque anni, avrebbe portato a 65 milioni la
popolazione italiana (senza considerare l’ulteriore apporto degli stranieri), con 214 abitanti per kmq, rispetto
ai 180 precedenti (Federici et alii 1976). E pochissimi anni dopo, senza nessuna riflessione critica, con la stessa
grave preoccupazione, si è cominciato a paventare esattamente il fenomeno opposto, la pericolosa riduzione della
popolazione a causa del saldo demografico negativo.
Le donne cambiano le famiglie
L’andamento più che secolare della fecondità induce a riflettere sulla vulgata che sarebbero state le conquiste
delle donne a causare la progressiva riduzione della natalità. Il trend dei dati mostra, al contrario, che le prime a
limitare le nascite e a far decrescere la fecondità non sono state donne scolarizzate e impegnate in un’occupazione
retribuita esterna alla casa, allo scopo di meglio conciliare i figli con le loro scelte lavorative. Tali non erano le
giovani donne settentrionali negli ultimi decenni dell’Ottocento, né quelle meridionali negli anni ’20 del secolo
scorso. E’ piuttosto stata la preventiva liberazione dalle gravidanze continue, grazie alla scelta di controllare le
nascite, ad aver consentito a quelle donne e ancor più alle loro figlie, per la prima volta nella storia, di formulare
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progetti di vita personali e di agire strategicamente per procurare le risorse necessarie alla loro realizzazione
(educazione, professionalità, occupazione).
Il capovolgimento logico del nesso causale aiuta ad affrontare tanti interrogativi. Perché la fecondità è crollata
ancor più nelle regioni meridionali, dove l’occupazione delle donne non è mai decollata e, anche oggi, la condizione
femminile più probabile è quella di lavoratrice “mai incoraggiata”? Perché la natalità è bassa anche fra chi ha un
contratto di lavoro a tempo indeterminato, per esempio nell’impiego pubblico, in grado di garantire redditi sicuri
e relativamente elevati? E’ proprio vero che la maggiore probabilità di povertà per le famiglie numerose è causata
dall’insufficiente sostegno alla maternità da parte dello Stato? Oppure - al di là dell’innegabile grave insufficienza
delle politiche di contrasto alla povertà - non è forse vero che un numero di figli elevato si verifica con maggior
probabilità proprio nelle famiglie economicamente disagiate e culturalmente emarginate2?
Certo, ciò che oggi rende le famiglie straordinariamente diverse dal passato sono l’istruzione e il lavoro
femminile. Iniziamo dall’istruzione: per tutto il ventesimo secolo la scolarità delle donne è cresciuta e a partire
dal secondo dopoguerra molto più velocemente di quella degli uomini, i quali negli anni ‘80 sono stati prima
raggiunti e poi superati. Oggi, a livello di università il vantaggio femminile è del 50% e ogni due nuovi laureati
ci sono ben tre laureate. Inoltre, all’esame di terza media, al diploma e alla laurea le ragazze ottengono votazioni
sistematicamente superiori.
Un primo effetto importante dell’educazione femminile riguarda il mercato matrimoniale e, più generalmente,
quello sentimentale. Come è noto, nel passato era consistente la presenza di coppie con squilibri educativi in
favore del marito, dal che sono discese teorie sulle diverse strategie di genere per la mobilità sociale (Cobalti,
Schizzerotto 1994): gli uomini perseguirebbero il miglioramento della propria condizione mediante il lavoro e le
donne tramite il matrimonio. Possiamo però vedere la questione anche dal punto di vista dei vincoli posti dalla
struttura: di qualunque tipo fossero le logiche delle disuguaglianze educative, al momento della scelta della moglie
gli uomini laureati non erano in grado di trovare sul mercato matrimoniale sufficienti ragazze laureate e pertanto,
in grande numero, sposavano giovani donne diplomate; i diplomati, a loro volta, erano costretti dalla forza dei
numeri a scegliere mogli prive di diploma, e così via a cascata.
Oggi si sta verificando esattamente il contrario: la maggiore scolarità femminile e il grande sovrannumero
di laureate rispetto ai laureati rende inevitabile che si formino molte unioni (mediamente il 30%) in cui l’uomo
ha scolarità inferiore - che si tratti di matrimoni o convivenze è indifferente. Non sono a conoscenza di dati di
ricerca che provino se l’appartenenza di classe influenzi il processo. Si può ipotizzare tuttavia che le donne a
elevata scolarità, ma di modeste origini sociali e dunque con risorse ridotte per lo squilibrio di status, abbiano
maggiore probabilità di legarsi a partner meno istruiti. Se così fosse, si tratterebbe di un importante meccanismo
di diseguaglianza sociale sulla base del genere, che perpetuerebbe l’influenza ascrittiva della classe di nascita fin
dopo l’acquisizione delle credenziali educative3.
La scolarità femminile è determinante anche sul funzionamento delle famiglie e in particolare sulla socializzazione
dei figli. Molti dati di ricerca mostrano che il livello educativo della madre, più che non quello del padre, influenza
positivamente l’achievement dei figli, e ancor più delle figlie (cfr. Bianco 2010; 2009). Inoltre, esercita un effetto
analogo anche il lavoro. Sebbene tutte le retoriche tendano a presentare il lavoro femminile come un diritto
2 Colgo l’occasione per soffermarmi rapidamente anche sull’effettiva sussistenza di un diritto individuale a ricevere sostegno pubblico alla
scelta di generare numerosi figli. Trattandosi appunto di una scelta, essa non può essere assimilata ai rischi della vita (malattia, invalidità,
disoccupazione, ecc.) o agli eventi ineludibili (cessazione del reddito da lavoro in vecchiaia, necessità di istruzione e socializzazione al
lavoro in gioventù), ai quali è deputato il Welfare. Tra l’altro, secondo la Riforma delle pensioni che va sotto il nome della Ministro
Fornero, ciascun lavoratore percepirà esclusivamente secondo l’ammontare dei contributi versati. L’istituto della pensione da lavoro,
pertanto, è stato sottratto completamente al Welfare ed è diventato semplice erogazione di reddito da lavoro differito. Non so neppure
di argomentazioni rigorose sull’interesse pubblico nei confronti della numerosità dei figli, tale da giustificare il suo sostegno. Di norma
esso è dato per scontato e sottratto alla negoziazione nelle arene pubbliche. Sicuramente tali argomentazioni esistono, ma di certo la
letteratura scientifica e la pubblicistica più ampiamente visibili ne recano scarsa traccia. Mi sembra pertanto utile spargere fra i lettori il
piccolo seme del dubbio nei confronti di un main stream, a parer mio, soffocante per la sua assoluta conformità, essendo convinta che il
pensiero unico è sempre e comunque pernicioso.
3 Blau e Duncan per la prima volta, mediante un modello di path analysis, individuarono e misurarono l’influenza della classe di origine
sugli esiti sociali anche dopo l’acquisizione del titolo di studio. Cfr. Blau P. M., Duncan O.D. (1967).
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individuale a discapito dei figli, molti dati di ricerca mostrano un quadro alquanto diverso: a parità di tutto il
resto, le probabilità di istruzione dei figli, e ancor più delle figlie (probabilità che possono essere considerate un
buon indicatore del funzionamento della famiglia) aumentano grazie al fatto che la madre abbia un’occupazione
esterna alla casa, di qualunque natura essa sia (cfr. Bianco, Ceravolo 2009; Ferrera 2009; Accornero 2004-5). Il
lavoro, oltre a essere un diritto individuale conquistato dalle donne, dimostra di essere anche una risorsa, non
solo economica, per la famiglia, perché una madre che lavora corre minori rischi di insoddisfazione (e forse
depressione) e, soprattutto, è in grado di spendere per i figli competenze non disponibili alle donne inoccupate,
confermando l’ovvietà che sono importanti non la quantità teorica di tempo a disposizione, bensì l’entità e la
qualità delle risorse effettivamente e consapevolmente impiegate nella relazione genitoriale, insieme ai modelli
sociali di identificazione che si è in grado di offrire ai figli. Le disuguaglianze di genere che tuttora persistono sul
mercato del lavoro (basso tasso di attività, maggiore disoccupazione e precarietà, segregazione occupazionale,
redditi ridotti), oltre a ledere i diritti delle donne, producono disuguaglianze e ingiustizia anche nei confronti dei
figli.
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[Upcoming Rights and Obligations]
New Challenges for the European Citizenship
Main issues and assumptions
Perhaps as never before in recent years the issue of European citizenship has been the focus of attention of
national and EU authorities. The problem regards not only the functioning of the higher-level institutions. Nor
does it concern only the question of the still persistent diversity of the “local” juridical systems on the matter, for
instance, of granting citizenship status to migrants from other Member Countries or from territories outside the
EU borders.What is being discussed, despite the fact that those aspects are an integral part of the picture, is whether
it is now possible to identify a basically “shared” sense of membership by the different populations in a larger
collectivity than the decentralized ones in which they live. Obviously, the question is very complex and raises many
questions. Is it correct, for example, to talk in generic terms of a “sense of membership” without distinguishing the
many motivations on which it is based? Moreover, given that it is possible to make these clarifications, what does it
mean to speak in an equally absolute way of a sense of shared citizenship by entire populations? Social groups and
categories are extremely diversified by financial, professional, generational, gender and territorial circumstances.
Therefore they have different conceptions of the broader collectivity and are bearers among themselves of very
heterogeneous senses of identification.
The sum of these issues cannot be dealt with in the short space of an article. We intend, therefore, to approach
the issue on a more theoretical level of analysis, supporting our considerations empirically by reference to some
of the more recent research on the topic and to the latest data provided by the “Eurobarometer” survey program.
The hypothesis we want to investigate is how the bases of a sense of citizenship and inclusion are modified with the
transformation of the processes of the construction of social and personal identity of individuals in the aftermath
of the profound changes that have affected the structures of daily life in the advanced industrial countries of the
West since the spread of postmodern cultural models and post-fordist modes vis-à-vis the economy, production
and the workplace. In this paper, therefore, we will move in two directions. On the one hand, what we intend to
argue is that the decline of the great collective “narratives” has displaced the way in which people construct their
sense of self-awareness. With the progressive weakening of coherent cultural frameworks capable of providing
groups and individuals with recognizable horizons of sense for defining objectives and strategies of conduct, today
those “coordinates of relevance” are formed more and more in networks of membership “at the local level”. This
contextualization means at once greater contingency, mutability and higher exposure to the emotional components
of behavior. It also means - the second direction - a substantially different way of conceiving the rights and duties
that authorize and regulate the sphere of personal legitimacy.
Let us begin with a preliminary definition (which we will examine in-depth in the next section) of the concepts,
interconnected but analytically distinct, of citizenship, culture, rights and duties. The first term has two meanings.
One refers to the set of institutionalized procedures and codified rules that govern the processes of recognition
of social demands. The other refers to the sense of community through the shared destiny of a collectivity, in
which the sense of membership is tied to a set of common values, standards, vision of things and of the world,
and sensibility. Reeskens and Hooge (2010), referring to Kohn (1944), have recently spoken of civic citizenship and
cultural citizenship. Without ignoring their close relationship, we will focus on the latter. Unlike those who even
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today see cultures as almost reified realities, we will part from a more dynamic, processual and multidimensional
idea of them, derived from the interpretation of collective representations proposed by the social psychology of
Moscovici (with and edited by Farr, 1984).
In our third and final section, we will ask ourselves whether today it is therefore possible to speak of a European
identity in formation. The quantitative data, even though disjointed into individual categories, are incapable of
grasping the possible different content of meaning. The populations compared are often very different entities
in their political, cultural and constitutional configurations. The manifestation of a feeling of rejection, as of
an attitude of openness, may display a variety of gradations and motivations. Not to mention that European
integration is an ongoing process, a gradual extension to new realities that constantly alter the image of “others”,
always a constitutive condition of any identity construction. To overcome these difficulties, we will rely on Elias’s
concept of social habitus (Elias 1939; 1987), useful for reflecting on the social and economic conditions of a future
corpus of rights and duties on which to base a renewed covenant of plural coexistence on our Continent.
Citizenship
The term “citizenship” is one of the most difficult to define. In the case of nation-states, like those of most of the
Union1, things seem simpler. Here, over the centuries, even at the cost of conflicts that have separated culturally
cohesive populations or lumped together heterogeneous realities, single power centers have been forming that
have imposed in the space under their jurisdiction clear rules of access to the distribution of resources and
cultivated relatively shared sentiments of membership. However, there are controversial situations, for which the
codification of values, standards and rules about the prerogatives and constraints attributed to insiders can only
correspond in part to the range of rights and duties that people concretely have. Social integration, which is based
on the granted status of citizenship, is only in part a matter of form. The recognition of others as being included
also involves the application of attitudes that respond to rules of informal conduct that are not written into law
but that are part of the common sentiment which underpins both effective compliance with official regulations
(the constantly invoked gap between “formal constitution” and “material constitution”), and the manner in which
individuals and groups are in fact treated and considered2. Without taking into account that the real life chances of
individuals rest on the existence of a legal framework that establishes options and restraints for the actors but also
on their ability to act, being put in a position to do so, in order to seize available opportunities and correspond to
the obligations they presuppose.
Examples of situations in which the term “citizenship” undergoes these sorts of shifts are, in Europe, stateless
nations such as Scotland, Wales, Northern Ireland or Catalonia, very tight-knit communities subject to national
institutions felt only in part as legitimate and in which EU membership has generated mixed feelings of rejection
and identification with a supranational entity seen (in Scotland by its irredentists) as a possible guarantee of
local autonomy. Or, again, the “cross-border nationalities” (the Hungarian is one), culturally and linguistically
homogeneous populations for which membership in a secondary political-jurisdictional order is felt by many as a
way to protect “at a distance” their cross-border minorities. The most striking example, however, is the European
Union, which, as we know, is neither a confederation of states nor an intergovernmental body but an organization
“halfway” between those two modes, whose member countries delegate to it – in a process that has developed
since the EEC was founded in 1957 – important parts of their sovereignty in the fields of economic, monetary and
energy policies, up to, more recently, policies dealing with security, defense and international relations.
Since the early 1990’s, with the signing of the Maastricht Treaty which established it, there began the difficult
process of building a fully political entity capable of recognizing for the citizens of its member states a status of
“extended” membership with respect to that conferred by national authorities, and a set of rights and duties
1 Cyprus and Malta are two special cases: the former an “asymmetrical” state devoid of a unified national sentiment; the latter a
nationaless state (Loizides 2007; Constantinou 2007; Baldacchino 2009; Abela 2005).
2 In this regard, the case of the Rom and Sinti populations is emblematic, since most are European citizens though they are largely
treated as non-EU citizens.
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that can strengthen and generalize the “local” ones but that can also contest them in the event of a breach in
their decentralized environment. In 2000, the signing of the Charter of Fundamental Rights of the European
Union - which adopts, in founding its new supranational institutions, the principles of inviolability of human
dignity, freedom of conscience, expression and organization, freedom of movement, equality before the law and
non-discrimination - established for the first time a clarification and an expansion of the ways in which those
prerogatives can be enjoyed. Not only are they safeguarded throughout the Community, but the citizens of the
member states may exercise their right as an active and passive electorate to make nominations to the European
Parliament (to which they can present petitions), even when residing in a Country other than their own, and the
same is true in the case of the consultations for the municipal councils of the “foreign” cities where they reside.
They can demand impartiality in the administration of the issues that concern them and, against any violations,
turn to the figure of the European Ombudsman. The sense of a broader membership therefore emerges clearly
from the norm according to which those who find themselves in trouble in a foreign Country in which their own
is not represented diplomatically, have the right to the assistance of Embassies and Consulates of other Union
States present there.
However, this process of building an effective European citizenship encountered in subsequent years no few
setbacks, which reveal the discrepancies between formal and substantive meanings of the term we referred to, and
make it imperative to stress the sense of cultural membership that is always associated with that expression. In the
middle of the last decade, the Proposal for a Treaty of Adoption of a Constitution for Europe, considered necessary
for a peaceful handling of German reunification and to counter the proliferation of applications for membership
by the countries of the former Soviet bloc, ran aground before the negative results of the ratification referendum
in France and the Netherlands, with Great Britain postponing its decision indefinitely. Most of the institutional
and procedural innovations planned came into force only with the Lisbon Treaty in 2007. However, the aim of
formalizing a true Founding Charter was abandoned in the name of an intergovernmental character that, though
confirmed, has now been downsized. This setback revealed above all, in terms of the sense of attachment to a
broader community, an ambivalent situation difficult to comprehend.
First, it stems partly from a gradual deterioration of the economic situation, which has become structurally
manifest since 2008 but was developing beneath the surface since 2001, with the change in the geopolitical and
economic equilibrium triggered by the 9/11 attack. Political factors have therefore played an important role, both
in terms of the widespread uneasiness toward immigration and the risk of religious fundamentalism (hence the
tendency to reinforcement of local identities and claims for sovereignty in matters of defense and internal order),
and on the more diffuse level of the increasing difficulties of national authorities to deal with global changes,
which at that time were identified with the new European scenario.Yet, inasmuch as the Eurosceptic attitude has
undoubtedly grown since the early years of the new millennium (Eurobarometer 2007; 2012; 2013a), recent
research has uncovered very complex meanings behind those tendencies to mistrust and lack of interest (as well
as behind those of confidence and involvement).
The Lisbon Treaty of 2007, for example, meant only in part a kind of return to the original model of “regional”type integration that had inspired the birth of the European Economic Community (the conviction, that is,
that a supranational political entity could only come about by gradual negotiated increments in the number
of areas delegated at a multilateral level of government). A collective identity is never a definitively stable and
time-settled attribution of meaning. It is always the product (and the more so the more complicated the world’s
interdependencies become) of a communication process in which social groups and power groups change their
opinions strategically in line with the shifting circumstances in which they find themselves. Billig (1995) spoke
in this regard of a “trivial Europeanism”, nourishing itself on the concrete dynamics of the everyday life and that
suggests considering any cultural sentiment of membership as something depending mainly on how much the
institutions of the community in question influence the practical, immediate aspects of people’s lives. The same
holds true for the Eurosceptic attitudes, which may for example take on the meaning of a permissive consensus
(Inglehart 1997), an instrumental acquiescence (based on a cost/benefit calculation of how much membership
will make it possible to give and receive in terms of material resources), to the point of actual rejection (typical
for example of the older generation) because of a radical attachment to the values of one’s national tradition.
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These disparate motivations are ultimately affected by the limits that that negotiating strategy of integration has
determined regarding the effective status of European citizenship. Morviducci (2009) pointed out that if all the
rights stated in the Founding Charter are clear and well defined, the same cannot be said of the duties. The right
to protection in a foreign land by the authorities of a member state other than one’s own is for example linked to
the still scarce preliminary agreements of mutual assistance between the European states, as well as cooperation
between them and the third state where the deeds take place. It foresees even today not diplomatic protection in
all its aspects but only support in the event of humanitarian situations or traumatic events for the traveler or for
those who live permanently abroad.
Then, given the diversity of national legislation on the topic of internal immigration and conferment of local
citizenship, great disparities are also reported about movements within the Community’s territories themselves.
Cross-border sojourns of more than three months are conditioned, depending on the profile concerned (tourists,
students, workers, etc.) by economic self-sufficiency, the holding of a job and a health insurance policy. But the
possibility that this recognition also applies to family members “attached” to those traveling for educational and
professional reasons (with important repercussions for staying together) is still an unresolved question, about
which the European Court of Justice itself has issued controversial rulings. That of the denizenshiper - the “halfway
citizen”, having rights segmented by the absence of a coherent legal framework supported by comprehensive
cooperation - is not an exquisitely juridical figure, nor in the last analysis referable only to non-EU visitors. It is
a social and cultural identity, if it is true, as research shows (Zanfrini 2007; Ambrosini 2014; Benton 2014), that
the sentiment of integration seems everywhere less rooted among those who live for average periods in such illdefined conditions, compared to those staying abroad for shorter or longer periods.
Culture
For these reasons, the problem we would like to reflect on now is not how widespread is a civic sense of
citizenship in today’s Europe, but how present (and in relation to what conditions, even contextually differentiated
ones) is a cultural feeling of membership. The functional effectiveness of the mechanisms of official recognition,
representation and decisive appraisal of social demands is a prerequisite for the strengthening of a collective identity.
However, civic sense and cultural sentiment of citizenship are analytically different. The idea of a civil coexistence
basically based only on a functional logic is in reality contradicted by the fact that the people one meets and
interchanges and dialogues with are always rooted subjectivities, “individualities in interaction”, which relationally
construct the frameworks of meaning that guide their actions in the contingent, unpredictable circumstances
which they must deal with. To address the issue from this point of view, we must first briefly discuss the concept
of “culture”.
Usually, by this term we understand the heritage, formed in time, of world views, patterns of definition, criteria
of moral, aesthetic judgment, and taste, which mediates the relationships of a group toward the environment in
which it lives. From this perspective, cultures seem equipped with a distinct reality, different from that of the
natural things to which they give meaning3. Above all, their “historic” character urges conceiving them almost as
consistent, compact bodies of sense, as systems of orientation which, on contact, tend to collide and resolve their
conflict through dynamics of juxtaposition, subordination, incorporation or antagonistic impact.
If this hard form of cognitivism is adopted, the data of the latest Eurobarometer survey (2013b; 2014a, 2014b,
2014c) unequivocally show an increased sense of distrust and a weakened sense of membership. Nevertheless, there
also emerge some relevant indications of changes in feeling not easily comprehensible by simple interpretation.
While in the mid-1990’s, after the peak reached in the aftermath of German reunification (71%), the number
of the then fifteen member states that believed participation in the Community was a positive thing accounted
for 54% of the total, in mid-2013, after a slight recovery of that value between 2004 and 2007, those who still
held that opinion amounted to only about one in two, with the highest percentages of distrust in Spain, Greece,
Portugal and Italy, and with rather less critical positions in the Center-North of the continent (Sweden, Finland and
3 On the persistence and negative consequences for sociology of this as of other dualisms, see Elias (1970; 2009a; 2009b).
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Germany). The turning points were 2004 and 2008. This was the year of the beginning of the economic crisis that
has affected the entire industrialized West. The worsening of the international situation has certainly been one of
the causes of the growing disaffection. However, as demonstrated by some econometric studies (Serricchio et alii
2013), the material factor that seems to weigh most is not the generalized fall in GDP or the equally widespread
unemployment increase in almost all Member States, but the largely internal ones of budget deficit and the
ineptitude of the national ruling classes in facing this problem. The cultural dimension of citizenship responds to a
more complex logic than closeness or openness in relation to the deterioration of the global economic situation.
A logic that reveals a number of issues which call into question the “hard” interpretive key mentioned above.
From this point of view, of greater significance is the other point of rupture. In 2004 the European Union
expanded to other Countries, including some of the former Soviet bloc (Poland, Hungary, Romania and the three
former Baltic Republics). As it is known, one of the conditions essential to any process of identity construction,
personal or collective, is the sense of otherness. Self-awareness comes about in a dual movement of identification and
individualization: of positioning the other as someone different but not entirely different; of taking one’s distance
from him as an affirmation of one’s own specificity. It is never a linear, resolved process, but one constantly marked
by conflict. A manner of proceeding that, while enabling us to formulate a more problematic interpretation of
the survey data cited above, also allows us to grasp the multidimensional, stratified, contextual character of the
dynamics by which the sense of citizenship reproduces itself, shifting over time.
Moes (2009), in studying for example the European spirit of young Poles with higher levels of education, noted
the paradox of the coexistence, also present in other segments of the population, of two conflicting orientations:
a widespread attitude in favor of entering the EU and a strong attachment to the values of their national culture.
The author explains this apparent contradiction not only by recalling the distinction between “civic” citizenship
and “cultural” citizenship (once the first is acquired it tends to be taken for granted, and there emerges the weight
of differences of credo and convictions). He does even by stressing how the increasing familiarity with different
customs and lifestyles (the free movement across borders, the more numerous opportunities for educational
experiences abroad) often translates into a greater awareness and proud affirmation of their own traditions.
Such reasoning would seem to apply also to the changes in the public opinions of the “historical” Union States.
That drop of confidence in the positivity of membership, registered between the 1990’s and 2000, can certainly
be interpreted as the product of concern about what a widening of the boundaries would mean in terms of
economic uncertainty and confrontation with credos and ways of living experienced as geo-politically antagonistic
ever since World War II. How then can we account for the fact that, in the immediately subsequent period, that
attitude of confidence started to grow again? And how do we square all that with the fact that at the same time
(Eurobarometer 2013a; ECFR 2013) the perception of an affinity of values among different peoples was first
strengthened (accounting for 48% of those interviewed in 2006, and rising by as much as six percentage points
two years later), then weakened on the eve of the deepening crisis of 2008, and has settled today at 42% in 2013
(albeit with above average peaks precisely in those economically solid countries that might be driven to see, in
aiding those in need, a potential threat to their high level of well-being: Germany: 42%, Denmark 47%, Austria
50%, the Netherlands: 44%)?
To try to make sense of these conflicting data, we must start from a more dynamic conception of cultural
universes. In recent years, the social sciences have proposed different interpretations for grasping the nature of
the always contextualized process of mechanisms that produce personal and collective identities. The guiding
principle, beyond the different approaches, is that the meaning of action is inconceivable if disjoined from the
practices it informs. Values, norms, customs, beliefs, information enter into the channels of interpersonal and
group communication, and, through the interpretive adaptation that the actors carry out, they come out at
the same time confirmed and renewed, in a practical and symbolic movement that makes order and change
multidimensional processes. However, such a dynamic conception tends at times to underestimate both the
emotional dimension and the different density of the nuclei of meaning that make up the horizons of reference.
Collins (2004) shows that the “shading” of the ways that those orientations are experienced and applied depends
on the energy, the humoral exchange that is active in every contextual encounter into which subjects enter in the
course of their daily lives. He explains that these situations of interchange, with their affective impact, whether
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enabling or discouraging, motivating or depressing, depend in turn on the type of socially differentiated circles that
one frequents, and the kind of resources that circulate inside them. On theoretically similar bases, psychologists
who have studied social representations and their spread among the collectivity (Farr, Moscovici 1984 eds; Abric
1994) have shown how the symbolic pictures that guide actors do not make up a coherent, linear corpus of beliefs.
They resemble rather a stratified set of meanings, which has at its center a core of fundamental sense (made up
of those categories by which individuals endow the world with relevance, classify its objects, judge them, name
them) and, in the surroundings, peripheral areas of more malleable and flexible sense (regulatory frameworks,
preconceptions and stereotypes, aesthetic styles and tastes, attitudes of opinion), invested with different emotional
value and likely to change in contact with the unpredictability of events more quickly and haphazardly, with the
function of safeguarding, as far as possible, the resilience of the deepest cultural codes.
This theoretical perspective seems very useful for understanding the sentiment of membership and the complex
nuances with which it occurs. First of all, the contents that make up its substance, while always responding to an
insuppressible need for recognition and identification with a group, may be different and often not aligned among
them, given the diversity of circles of reference (especially in a complex, technological era like the present) about
which we can define and mature the expectations of our lives. And second, those strata of sense should not be
thought of as sedimentations encapsulated and independent from each other but as orientations that influence each
other reciprocally. The perception of membership in a group different from one’s original group (without one
awareness excluding the other) is nourished on multiple occasions of everyday life that especially the younger (and
educated) generations experience today more and more frequently, such as travelling abroad at low-cost, studying
in schools or universities in other countries, or even just familiarizing, in one’s own increasingly multicultural
cities, with food, customs, practices and lifestyles typical of foreign communities. The biggest advantage of this
approach, however, is being able to rethink the “bricks” that make up citizenship, the “rights” and “duties”, in a
certain way also in this case more as process and less as reification.
Usually, when it comes to these things we tend to believe that social inclusion is a linear, cumulative path,
punctuated by the conquest and recognition first of civil liberties and freedom of expression, and then of political
liberties and of the vote, and lastly social liberties consisting of access to work and assistance that this active
participation in the operation of society deems must be guaranteed with equity (Marshall 1947). Every prerogative
is felt as a condition of possibility of the next one: the dignity of human beings manifests itself in its capacity to
make its voice heard, and this is the more authoritative the more people are not threatened in the satisfaction of
their need for material subsistence and social security.What comes later is perceived as a principle of legitimacy of
the preceding ones: the lack of occupational certainty damages people’s psychic, physical and social integrity, and
the interests of the most vulnerable end up depending on those who are economically stronger. In the background,
the irrepressible role of the state, a source of institutionalization of constraints and permissions, a prerequisite for
the recognition of their holders, super partes guarantor of respect for obligations and ambitions.
This way of looking at things is, however, only partially satisfactory. The situation of non-EU migrants, who for
example in our country are granted (conditionally) certain services but no active or passive election rights, shows
how the enjoyment of certain prerogatives does not necessarily entail the fruition of others.The state is therefore a
variable of crucial importance, especially at a time like the present when the policies on labor, social welfare, health
care and the fight against poverty, remain a national responsibility, despite the broader strategies coordinated at
various levels. However, focusing the explanation of this institutional factor does not enable us to fully understand
the increasing difficulties that the systems of representation and government encounter today everywhere in
intercepting the new social interrogatives that arise in the public sphere and that expect from it attention and
answers. The biggest limitation is in many respects the ethnocentric nature of the approach. Here we are not
questioning the validity of certain values of Western culture and the possibility of a cross-cultural comparison with
different worldviews. The reference to work and the significance it still commands is emblematic. It is everywhere
an essential condition for self-determination and the construction of social and personal identity, and a likewise
inalienable prerequisite for effective citizenship. But it has not always had the standard form of employment,
nor has the legal system that has preserved its quality always been that of the thirty glorious years of the European
welfare state. It is for reasons like these that with the changes in the concrete social and economic conditions the
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content of those assumptions and values has also changed, in order for them to maintain a prescriptive relevance
for those involved.
Rights, duties
If we adapt a definition Coleman gives to it (1990), a right (along with its corresponding duty) can be thought
of as the possibility that an actor can receive from his interlocutor a conduct he deems fitting to satisfy his need
to transform a given situation in which he finds himself at that moment into a future he feels is better for the
protection of his interests.This definition evokes an extremely complex concept articulated in a series of analytical
dimensions that open the way to a reflection also on the many variables involved that we have previously referred
to. First the use of the term “better” in place of “more appropriate” makes it possible to transcend, while not
denying its importance, the strategic, utilitarian perspective that determines the rational choice perspective of
Coleman’s reasoning. Secondly, we talked about “possibilities”. The codification of a right and the formalization
of a duty do not mean automatically a surefire practicability of the former or prompt respect for the latter. There
are, as we have seen, declared rights and denied rights, prerogatives established only as principle and constraints
delineated only as an indication of future developments to be pursued, and all this recalls the issue of power
relationships and the role of the state in governing them. However, what is more important to emphasize are
the relational nature of the phenomenon and the dual contradictory character, individual and collective, that it
invariably presents.
When it comes to rights and duties, the claim for permission to do something is not the unilateral claim of an
individual but the request he makes in belonging to a group that society has decided to benefit with special treatment.
The question itself is not addressed to an interlocutor as such, but to him as member of a category likewise socially
judged as duty-bound to perform a service. The entitlement to rights and duties is always individual, but it is so in
function of a collective logic that involves, in addition to the afore-mentioned relations of authority, the common
reference, by requester and requested (both sub judice of a third-party public actor with sanctioning powers), to an
accompanying set of standards and values that lie at the basis of that system of requests. In the definition from
which we began, we talked about “reputation of compliance of the attitude of the interagent” and of “perception”
concerning the desirability of a future situation with respect to the one currently experienced. Whoever makes
these assessments (and the same holds true for whoever is obliged to respond) is at any rate one who affirms the
recognition of his faculty to conduct himself in a certain way, and he does so not in objective terms but always from
his specific perspective, which constantly changes in response to the changing circumstances he must deal with.
The claim to a right, just as the compliance with a duty, are therefore something inevitably embodied in the “local”
context in which both mature. And in this “locality” includes both the contingency of the events that defy over time
the institutionally defined boundaries of social inclusion and exclusion, and the unpredictability of the emotional
reactions and rationalizations caused by the repeated succession of those unexpected events. Lastly, it includes the
heterogeneity of the social circles in which those meanings are formed whereby the opposing parties give meaning
to their demands and thus move one another to action. The dynamics of rights and duties, the dynamics of the
sense of citizenship, run on the thread of this dialectical logic, contradictory but never divisible. On the one hand
the collective component, which establishes the codified architecture of the prerogatives and constraints that, in a
historically determined moment, respond to the complex play of social questions and answers; and on the other,
the individual and subjective one, which tends to call that order into question and to orient it towards different
forms of regulation.
The field in which this process is revealed today to its full problematic extent is that of work and the politics
of reform that Western countries have promoted over the last thirty years in an attempt to adapt the different
regimes of the welfare state to the changing economic and social conditions. The issue is very delicate. Since 2008,
in the face of a situation of substantial stagnation that has affected almost all the current EU Member States, the
unemployment rate has risen on the Continent by 4 percentage points, especially among young people under
the age of twenty-five (+8%) and with a worsening of its temporal and qualitative characteristics (long-term
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unemployment has risen by +2.6%). The lack of a job and, when one has it, its insecurity (in the last five years,
temporary workers have increased by two million and part-timers by 10 million, 60% of whom from the lack
of full-time positions), are still the main cause of the “old” and “new” poverties (Eurostat 2013a; 2103b; 2014;
Paugam 2013a; 2013b). What is in doubt therefore are the integration in the perimeters of a citizenship that the
European Employment Strategy has reiterated since 1997, as anchored at the entrance of the labor market and
the conditions of possibility of an active participation in the social life which is for example at risk for the by now
fourteen million 15-29er NEETs (Not in Education, Employment and Training). The delicacy of the problem,
however, lies above all in the fact that the interventions by which, in all national contexts, an attempt is being made
to stem this hemorrhage of resources seem to call into question, in the context of industrial relations models as
well as in that of the regulation of contractual forms of employment, the overall system of rights and duties that
for sixty years marked the boundaries of social and political democracy.
Since the 1980’s, with the computerization of production cycles and the adoption of methods of business
organization based on the principle of flexibility in labor supply, all the advanced industrial Countries have had to
face an increasing financial unsustainability of their welfare systems. The diversification of the profiles, induced
by the up-/downgrading generated by those innovations, soon turned into a segmentation of the labor markets.
The disarticulation of professional careers has gradually reduced the size of the tax base, creating endurance
problems for these systems. New needs for assistance, caused by the transposition of economic vulnerability into
existential embrittlement (and vice-versa), have put a strain on the efficiency of public service agencies, paving
the way for their privatization and decentralization of operations. Everywhere, though with adaptations due to
specific national traditions and local work cultures, income support measures have been increasingly linked to the
availability of individuals to mobilize actively in the search for employment.
Over time, according to an ideal-typical classification and an analytical periodization, the employment
policies of individual States were geared first towards a liberal Anglo-Saxon workfare approach (accredited by the
international economic authorities until roughly the mid-1990’s), then to an approach largely influenced by the
experiences of the Central European welfare-on-work experiences (with a reprise of neo-Keynesian interventions
such as the experimentation of reductions/redistribution of working hours and enhancement of socially useful
and volunteer activities), and lastly, since the middle of the past decade, with reference to a welfare-to-work
model inspired by the Danish experience of flexicurity (Muffels, Wilthagen 2013; European Commission 2013).
Flexibility of labor relations, greater management freedom to hire/fire, decentralization of the system of industrial
relations, tax exemptions on social security contributions paid by employers, went into the alternative offer of
a more incisive action of reintegration into the labor market, made up of personalized programs of vocational
training, managerially organized employment services by objectives, generous bonuses and unemployment
benefits, albeit conditioned upon compliance by users with the duties of upgrading and acceptance of offers even
if at a lower career level and pay scale.
Behind this strategy, what is taking place is a shift from a conception of place as property to one as liability,
as “function of responsibility”. Even more, it is a radical change in the way we understand work and the modes
of social security that instill a sense of group membership. Work differs according to its flow and dilution in a
plurality of contractual frameworks, and, by organizing it in differentiated fashion, it gradually abandons the
“occupation” form to take on that of an irregular commitment, alternated with training sessions and increasingly
structured inter-company career paths. With obvious consequences in relational and existential terms: a job is not
only a function but a place for relationships and socializing, from which people never detach themselves easily;
the unpredictability of work turns in the long-run into biographical uncertainty and an obstacle to planning
one’s life. What matters most are the implications in terms of mentality and the way individuals think about their
self-subsistence and social recognition. While until now the awareness of being considered part of a community,
and therefore of having the right to help through difficult periods, it depended on mechanisms of compensation
directly linked to one’s own work status, today those props depend more and more not on the job one has but
on the activities undertaken for finding it and the search for replacing it in case it becomes obsolete on the labor
market.The conditions of one’s certainty wriggle free from one’s social position and get linked to the unpredictable
dynamics necessary to win and maintain it. It is as if the sentiment of citizenship were no longer given once and for
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all but had to be constantly reconquered. And this in particular through the continued demonstration of a sense
of personal responsibility which, while it opens to the hope of success thanks to one’s merits, runs the risk of easy
failure understood as due exclusively to one’s personal inadequacy.
According to many authors (Gallino 2007; Schömann 2014), this new approach to the politics of employment
is nothing more than the revival of a neoliberal model that considers the welfare state as a burden and that tends
to dump its costs on the workers, safeguarding businesses and gradually eroding people’s fundamental rights.
Some stress the inapplicability of flexicurity principles outside of the specific context in which it was formulated
(Berton et al 2009), while others doubt its durability as a paradigm in light of the deteriorating employment
situation of the Danish experience following the onset of the international economic crisis in 2008 (Andersen
2011; Madsen 2013). Above all, the fear is that the kinds of policies and relationships of solidarity that it outlines
risks not corresponding to the widespread need for social security that is sweeping across Europe today, and
pushing the peoples of the continent to still seek in the nation states the safeguard of their quality of life and
therefore contributes to a further strengthening of the national habitus at the expense of forming habits of thought
marked by a broader and more cosmopolitan sense of membership (Crouch 2012b; 2013).
In order to judge not the obvious plausibility of this hypothesis but the degree of probability that the scenario
it outlines will come true, let us reflect for a moment on the concept of social habitus and its relationships with
those of culture, rights and duties as we have redefined them above. As is known, that concept, coming out of an
ancient tradition, was introduced into the sociological debate by Elias (1939; 1987; 1989: 207), who meant by
that expression the “social structure of personality” or “phase and model of individual self-regulation”, namely
that particular way of reasoning, feeling, thinking and acting which characterizes life within a specific, historically
determined community, and that plays its part in determining the patterns of perception, cognition, ethics and
aesthetics of its members through the processes of socialization and participation in the daily practices of that
group. Contrary to what is said by the other theories of action, Elias’s processual sociology does not consider that
sort of imprinting in an abstract, deterministic way. Habitus, to recover a definition given to it in a fairly similar
way by Bourdieu (1972; 1980; 1997), is not a mentality shaped by the introjection of values and norms that act
internally in random fashion. It is an attitudinal predisposition that is configured as a constantly dynamic, changing
process. It is first variably modulated in function of the social circles in which it is concretely involved, and the
more these multiply and differentiate, as is typical of the present time, the more that is articulated, complicated,
organized in diversified contents of meaning and significance that influence each other, suggesting the image of
several habitus, each hinging on the other. Secondly, it is a system (or a plurality of systems) of relevance that, in
addition to being internalized, are yet more deeply embedded in people’s psychic and organic nature, in the sense
that they shape sensory, cognitive styles of judgment and taste by which individuals relate unreflectively to the
world, but at the same time they are subjected to constant micro-adjustments, modifications and innovations
due to the unpredictability of real contingencies that occur in actual relational situations that those orientation
frameworks make it possible to face. On a par with rights and duties - which are therefore a part of it as founded
perception of a need to demand a particular service and the legitimate request for an obligation to respond to it
on the part of one’s interlocutor - the social habitus may also be represented as the product of a dynamic dialectic
between two dimensions only analytically thinkable as opposite and yet always symmetrical and complementary.
From one point of view, the collective dimension, what Elias calls the We-identity, refers to a common horizon
of meanings that detects the presence of others, though not as a negation of one’s own specificity in the name
of which one demands respect for a prerogative but as an irrepressible condition of one’s self-awareness and the
personally founded legitimacy of that request. From a second perspective, the individual dimension, the I-identity,
rooted in the lived experience of individuals and their groupings, results as it were from the transposition, on a
reflective level, of one’s own distinction thanks and with respect to those from whom one takes his distance; and
it is immersed in that weave of emotional exchanges, of power relationships, suffered or exercised attitudes of
inclusion and exclusion in which social demands and acts of conflict develop.
We-identity and I-identity are both integral parts of a person’s social habitus. The contents of awareness
of which they are made up – just as their endurance in the horizon of sense of the people and the emotional
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investment that distinguishes them, marking them with a certain hysteresis despite changing social situations –
get altered over time in relation to the transformation of the configuration of networks of interdependencies
that connect the actors, the positions they hold, the courses of action they undertake. The more those figurations
become differentiated and complex, the more so those who are immersed in it are driven to ponder the possible
consequences of their choices and to develop an unconscious ethos of self-control over their own emotional
urgings and their possible impulsive reactions. The process of western civilization - Elias writes - is marked by
the tendency of longue durée of the prevalence of the “I” consciousness over the “We” consciousness. But this group
reference is still an irrepressible one. Not only because, as mentioned, it is the condition of the reference in itself,
but because it is the constitutive human response to a need for survival that is not just physical and cultural but which
likewise concerns basically one’s self-recognition as a human being. In these terms, the national habitus is simply
a historically determined form of the social habitus, corresponding to the long historical period during which,
starting from the High Middle Ages, the gradual formation of the nation state has emancipated individuals from
relations with violent authorities typical of the local “survival units” (tribes, clans, families, feudal communities)
and has transformed them into “citizens”, guaranteeing their civil, political and social rights and seeing “in person”
to their sustenance and social recognition. However, since the configuration of interconnections is increasingly
overrunning national borders, what values do the I-identity and We-identity, as well as their dynamic relationships,
tend to take on? Does the possible change in the content of sense of these processes as a kind of idea of subjectivity
seem to emerge? Lastly, what social and occupational policies correspond to the possible culture of rights and
duties deriving from such a self-representation?
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DOI: 10.1400/234064 Fausto Miguélez
[La Spagna dalla Prima alla Seconda Transizione: intervista a Fausto Miguélez]
A cura di Paolo Giovannini, Giulia Mascagni, Angela Perulli
Firenze, 26 aprile 20151
Paolo Giovannini: Vorrei cominciare questa intervista affrontando il tema delle trasformazioni sociopolitiche che negli ultimi
decenni hanno investito la Spagna, approfondendo il confronto tra la prima transizione dal Franchismo alla democrazia, alla
seguente - molto più recente ma altrettanto importante - che tu chiami seconda transizione. Ti chiederei quindi, a partire da
questa tua indubbiamente molto forte valutazione, di inquadrare il fenomeno della seconda transizione con riferimento alla
prima…
Fausto Miguélez: Sì. Negli ultimi quattro-cinque anni, da Maggio del 2010, ci sono importanti movimenti in
Spagna, soprattutto tra i giovani. Sono movimenti che all’inizio si chiamavano degli “Indignati” e che poi, piano
piano, si sono aggiunti ad altri movimenti: di difesa della casa, di difesa del posto di lavoro, ecc.; tutti questi
movimenti, in larga parte con protagonisti i giovani, hanno in comune che vogliono tenere fuori le istituzioni e
gli attori politici e sociali tradizionali, cioè non sono presenti né i partiti, come ad esempio quelli della sinistra,
ossia PSOE e Izquierda Unida, né sono presenti, in maniera molto chiara, i sindacati. Questo va avanti fino all’inizio
dell’anno scorso, quando si fonda un nuovo partito, ossia Podemos, che è riuscito ad avere cinque deputati al
Parlamento Europeo e che sta avendo, in questo momento, il 20-25% di consenso nei sondaggi più recenti,
percentuale che lo colloca elettoralmente molto vicino a PP e PSOE2. Un partito che sta sorgendo a sinistra - anche
se a loro non piace definirsi partito di sinistra - ma che per come si pone e per ciò che dice sta andando a delineare
nuova sinistra: con forme organizzative molto diverse della sinistra tradizionale (assemblee, partecipazione diretta
dei cittadini), con l’esigenza di eliminare ogni forma di corruzione e con una visione diversa della redistribuzione
dei costi della crisi sui diversi ceti sociali. Proprio negli ultimi mesi poi è nato un partito su base nazionale
(prima esisteva soltanto nella Catalogna) che si chiama Ciudadanos, e che da poco ha incominciato a parlare di
rigenerazione della politica ma con una visione di destra, o meglio con dei progetti che sono progetti di destra:
una destra liberale moderna3. Pertanto in questo momento noi abbiamo i due vecchi partiti del parlamentarismo
1 L’intervista si è tenuta a Firenze in data 26 aprile 2015, dunque un mese prima delle elezioni regionali e amministrative, tenutesi il
24 maggio. Come è noto, il voto dei cittadini spagnoli ha decretato una netta perdita di consensi per i due grandi partiti tradizionali,
socialisti e popolari, a favore dei due movimenti Podemos e Ciudadanos. e dunque la fine del bipartitismo tradizionale che aveva fino ad ora
segnato la storia democratica della Spagna. Sulle conseguenze di questo voto Fausto Miguélez è ulteriormente intervenuto con una breve
nota scritta, riportata alla fine del l’intervista.
2 Nelle recentissime elezioni amministrative del 24 maggio 2015 il partito di Pablo Iglesias ha ottenuto ottimi risultati, conquistando
Barcellona e forse Madrid, e collocandosi tra le prime posizioni elettorali. Iglesias ha così visto premiata la sua scelta - presa nonostante
forti resistenze interne - di aprire all’elettorato moderato: con l’obiettivo, che sembra raggiunto, di rompere il tradizionale bipartitismo
spagnolo tra Partido Popular (PP) e Partido socialista obrero español (PSOE).
3 Ciudadanos – Partido de la Ciudadanía (C’s) è stato fondato nel 2006 a Barcellona, a partire dall’esperienza della piattaforma civica
Ciutadans de Catalunya. Si definisce partito progressista, costituzionalista, postnacionalista; il suo attuale presidente è Alberto Rivera.
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bipartitico, che erano PPE e PSOE, che si alternavano e che possono essere primo o secondo, secondo e terzo
ed assieme questi due nuovi che… Insomma, tutti e quattro. Stiamo passando da un bipartito a un quadripartito.
Da quanto mostrano le recenti elezioni regionali e locali i due vecchi partiti tendono ad andare giù e i due nuovi
salgono. Izquierda Unida é quasi scomparsa (in parte riassorbita all’interno di Podemos4)…
Più o meno sulla stessa percentuale?
Sì. Si collocano tra il 19% ed il 23%, pertanto ci sono quattro partiti più o meno allo stesso livello. Molta gente
che gravita intorno a questi due nuovi partiti, o gente che oggi sta prendendo consapevolezza di come molte cose
non erano state considerate o discusse o risolte in forma totalmente chiara, comincia a parlare della necessità di
una nuova transizione, che in concreto vorrebbe dire ritoccare la legge costituzionale. Ho dimenticato di dire che,
accanto a questo, c’è un altro fatto straordinariamente importante in Spagna, anch’esso risalente al 2010: l’anno in
cui molte regioni, da noi vengono chiamate Comunità autonome, rivedono i loro statuti. Nel caso della Catalogna
il nuovo statuto è rifiutato nei suoi articoli più importanti dal Tribunale Costituzionale. Si noti che gli stessi articoli
lì rifiutati sono invece ammessi per altri statuti regionali… Si è così scatenata una battaglia tra Madrid e Barcellona
che va aldilà delle possibili differenze statutarie e delle regole costituzionali e che alimenta, dal 2012 in poi,
una corrente molto forte – e con molto forte intendo al disopra del 40% nei sondaggi di opinione - che chiede
l’indipendenza della Catalogna. Molti Catalani chiedono da lungo tempo un referendum che permetta di decidere
sull’indipendenza: questo referendum non è stato mai concesso dal Governo spagnolo. Alla fine, nel novembre
2014, è stata fatta una consultazione “illegale”, (o non legale, diciamo così) alla quale però hanno partecipato
due milioni e mezzo di votanti su circa 5,5 milioni di aventi diritto in Catalogna: che è moltissima gente. Da una
parte dunque si parla sì di revisione della Costituzione, ma si va anche molto più in là essendo in gioco la richiesta
esplicita dell’indipendenza. Da un’altra parte però anche molti catalani non indipendentisti chiedono la revisione
della Costituzione per stabilire un rapporto diverso tra Catalogna, Paesi Baschi ed il resto del paese, e anche tra
loro in molti indicano la necessità di una nuova transizione.
Ora ho capito meglio perché quando parli di una seconda transizione parli di un processo che, in un certo senso, viene chiesto
con forza, ma che di fatto non è ancora in atto. Fai piuttosto riferimento ad un quadro dei cambiamenti intervenuti in campo
economico, in campo politico, in campo territoriale, in campo culturale, ecc. che potevano anche essi essere interpretati come
una sorta di transizione…Un cambiamento molto forte, molto radicale della società spagnola. Ecco, passando alla seconda
domanda, potresti fermarti un po’ su questi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi anni: i cambiamenti dell’economia,
della politica, della cultura, le autonomie…
Sì. Possiamo cominciare da questo perché poi precisamente nella spiegazione dei cambiamenti e anche nella
spiegazione di questa richiesta di seconda transizione vorrei arrivare un po’ a quella che sarebbe la mia ipotesi: di
una transizione non fatta totalmente bene, dove emerge la responsabilità della sinistra in una fase che, in una certa
misura, spiega quello che sta succedendo in questo momento. Dunque, per fare questa diagnosi iniziale vorrei dire
che se noi prendiamo gli ultimi quindici anni, dalla metà degli anni Novanta ad oggi, abbiamo come due periodi
Ciudadanos è oggi presente in tutta la Spagna, raggiungendo la rappresentanza in Parlamento della Catalogna e dell’Andalusia, nel
Parlamento europeo e in alcuni comuni della Catalogna. Nelle elezioni del 24 maggio 2015 ha registrato un buon successo, che gli
consente di aspirare alla terza posizione elettorale.
4 Podemos è un partito politico spagnolo, fondato nel 2014 da attivisti di sinistra legati al Movimiento degli Indignados. L’origine può
essere individuata nella pubblicazione del manifesto “Mover”: convertire l’indignazione in cambiamento politico, sottoscritto da una trentina
di intellettuali, personalità della cultura, del giornalismo, della società civile e della politica tra cui il professore di Scienze Politiche
presso l’Università Complutense di Madrid (UCM) Juan Carlos Monedero, l’attore Alberto San Juan; il professore di Scienze Politiche
presso la Open University Jaime Pastore, lo scrittore e filosofo Santiago Alba Rico, il sindacalista del Sindacato di Sinistra Candido
Gonzalez Carnero, la professoressa di Economia Applicata presso l’UCM Bibiana Medialdea. Anche se non figura tra i primi firmatari
del manifesto, da gennaio 2014 uno dei principali promotori e leader del partito è l’analista politico e nota figura televisiva Pablo
Iglesias, eletto parlamentare europeo nella tornata elettorale del 24 maggio, e segretario dello stesso Podemos dopo elezioni primarie nel
novembre 2014.
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chiaramente differenziati: il primo è un periodo di grande crescita economica, dove passiamo, per esempio,
da avere quattordici milioni di occupati ad averne quasi ventidue milioni: un periodo incredibile di sviluppo
dell’economia e dell’occupazione. Però, e questo secondo me è molto importante, la classe economicamente
dominante ha impostato sì una grande crescita economica, ma fortemente speculativa, e inoltre fortemente
vincolata alle istituzioni politiche. Se per esempio guardate le liste delle grandi multinazionali, trovate che di
colpo la Spagna comincia ad avere multinazionali dalla fine degli anni Novanta e sono tutte quante nell’edilizia e
nei servizi.Tutte quante queste compagnie si sono fatte grandi in Spagna e poi hanno comprato o acquisito imprese
all’estero: in America Latina, ma anche in Germania, in Gran Bretagna, … Mi riferisco per esempio alla telefonia,
ai servizi di acqua e di elettricità, alle banche, all’edilizia, ai servizi aeroportuali…
Però in Spagna il settore dell’edilizia è sempre stato quello più dinamico…
Sì, ma voglio dire che questa classe economicamente dominante ha avuto due grossi impulsi di crescita: uno
attraverso il controllo dell’amministrazione, dalla quale venivano i grandi contratti, i grandi investimenti… Per
esempio, diverse imprese si sono fatte milioni e milioni in Spagna con un progetto, “sintomo” di una mania di
grandezza che non c’è in nessun altro paese europeo, che quelli che sono un po’ assennati dicono non era necessario:
il treno ad alta velocità e il disegno di estenderlo dappertutto nel paese. Il treno ad alta velocità ormai arriva da
Madrid alla Catalogna, a Valencia, in Andalusia, nelle Asturie; arriva nei Paesi Baschi; ma in futuro arriverà anche a
Galizia, Extremadura e Portogallo. È una spesa faraonica. Benché i treni, in Spagna fossero abbastanza malmessi e
avessero sicuro bisogno di modernizzazione, non era certo necessario puntare su un modello radicalmente nuovo
di rete, con il coinvolgimento di tutte le linee. Prioritaria era sicuramente quella Madrid-Barcellona, da sempre
deficitaria…
Ma da quanto c’è precisamente l’alta velocità?
L’alta velocità ha avuto inizio con la prima linea Madrid-Siviglia costruita nel 1992, durante il governo
socialista, perché Siviglia fu capitale culturale. La seconda linea fu la Madrid-Barcellona nel 2008: tranne la prima,
tutte le tratte si sviluppano dal 2000 fino ad adesso. Quindi, è vero che tutti i paesi hanno delle linee ad alta
velocità, ma di queste dimensioni non esistono tanti esempi… Invece, e qui viene anche il problema politico, i
governi spagnoli che col nuovo modello di trasporto su rotaia hanno mantenuto la Spagna centrale-radiale, non
hanno voluto attendere ad alternative più coerenti con la necessaria relazione da un lato con l’Unione Europea e
dall’altro lato con quel territorio dove, se si eccettua l’area di Madrid, abita la maggioranza della popolazione della
Spagna: l’asse del Mediterraneo. Cioé, in molti pensano che le nuove comunicazioni per le persone e le merci
debbano andare de Cadiz al confine con la Francia, passando per il tratto di costa sul Mediterraneo, ovviamente
con un paio di collegamenti con Madrid. Soluzione più ragionevole ed efficace economicamente. Con l’alta
velocità si sono create moltissime nuove imprese nell’edilizia, ma anche nei servizi, e molte sono poi diventate
multinazionali. Per esempio una di queste imprese sta costruendo il treno tra La Mecca e Abu Dhabi; un’altra sta
costruendo un treno ad alta velocità negli Stati Uniti. Quindi, questo è il mio argomento: grazie alla possibilità
che hanno avuto di rafforzare la loro esperienza, le loro strutture e la loro organizzazione in Spagna, alcune
imprese spagnole hanno fatto il balzo verso una struttura multinazionale. Insomma, questa sarebbe una delle
gambe dello sviluppo nel senso detto. L’altra gamba è una pratica assolutamente speculativa dell’economia: di
fatto se guardiamo quello che è successo in Spagna dalla metà degli anni Novanta fino alla crisi vediamo una grande
espansione dell’edilizia. I governanti insistevano su questa strategia come se fosse una grande cosa: costruivano
più case l’anno che in Germania, Francia e Regno Unito messe insieme. Per chi erano queste case? In gran parte,
per la popolazione, che era cresciuta dai trenta milioni degli anni Cinquanta ai quarantacinque attuali. Inoltre
durante il franchismo l’edilizia popolare era stata un’edilizia di bassissima qualità, pertanto c’erano molte famiglie
che volevano cambiare casa. Poi noi abbiamo avuto in dieci anni l’ingresso di cinque milioni di immigrati, i quali
a loro volta ovviamente volevano una casa; infine - ultimo dei grandi fattori economici - l’esplosione del turismo:
la Spagna è sempre stato un paese turistico ma adesso ha 60 milioni di turisti all’anno. Per molti di questi turisti
c’era la possibilità di comprare o affittare case, soprattutto sulla costa, per cui molti spagnoli investivano nelle
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case destinandole a quel particolare tipo di locazione. Insomma, il fattore delle costruzioni, il fattore del turismo
e poi la crescita di nuovi bisogni e servizi di bassa qualità, per esempio di imprese di pulizia per le quali si aveva a
disposizione una forza di lavoro poco pagata, gli immigrati (quasi tutti impiegati o nelle costruzioni o nei servizi di
bassa qualità o nell’agricoltura). Molta gente che durante questi anni aveva incrementato un po’ i propri guadagni
aveva questa possibilità di avere dei servizi a buon mercato. Insomma questo è un boom economico che comincia
la sua veloce parabola discendente quando cade il castello dell’edilizia, in quanto con l’edilizia cadono le industrie
e i servizi legati all’edilizia. Per fare un esempio si pensi ai servizi legati all’edilizia come la ristorazione: tanti bar
e ristoranti, che vivevano proprio di questo perché situati nei punti in cui si costruiva, di colpo non hanno clienti
e chiudono.
Tu accenni anche a cambiamenti che riguardano i valori della società spagnola…. È un cambiamento di questi ultimi dieci,
quindici anni o di più lungo periodo? E come lo valuteresti?
Per rispondere bisogna andare indietro verso il passaggio dalla dittatura alla democrazia. I valori prevalenti
nella sinistra e tra gli antifranchisti non di sinistra - come i repubblicani, ma non solo - erano valori di uguaglianza,
solidarietà, partecipazione… insomma, valori universalistici. La transizione fu un lungo passaggio, che inizia
diciamo dal 1970 o poco dopo. Perché già alcuni anni prima della morte di Franco, avvenuta nel 1975, c’è stato
un movimento molto importante, durato fino all’arrivo dei socialisti al Governo nel 1982. Questo è il periodo
della transizione, in cui si produce il cambiamento politico, in cui si fa la Costituzione, le nuove leggi, e le cose
cominciano a funzionare in un’altra forma. Secondo me in questo periodo di transizione succede una cosa molto
importante, ossia che quel che sembrava essere il movimento o la corrente ideologica e di valori più importanti,
che è questo che ho descritto, ispirata alla lotta antifranchista, che chiedeva più uguaglianza, più solidarietà, più
partecipazione… Arriviamo alle urne, alle prime e seconde elezioni politiche, cioè a quelle del 1977 e poi alle
elezioni regionali e locali del 1979, ecc.: il partito di sinistra che prende la maggioranza di voti non è il partito
che rappresentava questi movimenti – ovvero, principalmente, il Partito Comunista ed altri piccoli partiti - ma il
PSOE, il quale arriva alcuni anni dopo, nel 1982, al Governo ed arriva con una stragrande maggioranza di voti. È
vero che da quel momento si fanno le leggi, si comincia a funzionare, e la politica in Spagna comincia a muoversi.
Però a mio parere in quel passaggio la sinistra, e soprattutto la sinistra al governo, dimentica o lascia da parte
una cosa molto importante: non fa una revisione della fase precedente, del franchismo. In Spagna la fase della
dittatura e quella della guerra civile si chiude drasticamente con un patto tacito tra le parti. Soprattutto, lo ripeto,
la fase della dittatura franchista: tantissime erano le cose successe in quel periodo delle quali si doveva almeno
parlare, che si dovevano chiarire; non dico che si doveva mandare qualcuno in prigione, ma una discussione e un
chiarimento sarebbero stati necessari per non dimenticare e non tornare a ripetere certe cose. È solo con molto
ritardo – forse troppo tardi – che durante il governo Zapatero è promulgata la così detta Legge della Memoria
Storica5. Durante la transizione si scelse invece di non chiarire questa situazione arrivando ad un patto tra le forze
politiche, tra le quali credo che dobbiamo includere non soltanto il partito di destra UCD6, dopo PP e il PSOE, ma
anche il PCE di Santiago Carillo… Io credo che tutti quanti pensassero, probabilmente in buona fede, che fosse
meglio dimenticare il passato il più rapidamente possibile e cominciare una nuova fase…
Ma questo si lega anche al discorso della corruzione?
Sì. Appunto volevo parlare adesso della corruzione. Quello che a me interessa molto sottolineare è che volendo o non volendo - questa politica arriva a produrre dei cittadini politicamente addormentati, cioè silenti.
5 La Legge 52/2007 del 26 dicembre, comunemente conosciuta come Legge della Memoria Storica, ratificata dal Congresso dei Deputati il
31 ottobre 2007, a partire dal disegno di legge già approvato dal Consiglio dei Ministri in data 28 luglio 2006 durante il mandato di José
Luis Rodriguez Zapatero come primo ministro, riconosce e amplia diritti e le misure a favore di coloro che hanno sofferto persecuzioni o
violenze durante la guerra civile e la dittatura, e prevede inoltre per tutte le amministrazioni pubbliche di Spagna l’obbligo di rimozione
di simboli, targhe e monumenti commemorative del regime franchista (comprese le intitolazioni toponomastiche).
6 Unión de Centro Democrático (UCD).
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Non dico tutti, ma molti votano guidati dalla paura: per esempio i pensionati che hanno paura di perdere la
pensione. Mi ricordo che Felipe González7 diceva che se la Spagna non fosse entrata nell’OTAN (Organización
del Tratado del Atlántico Norte; in italiano NATO, ndr) si metteva in rischio la normalizzazione e si mettevano in
pericolo le loro pensioni… Questo ti sta dicendo che i cittadini non sono cittadini che hanno un’autonomia
di giudizio. Io credo che in gran parte siamo rimasti come sudditi, quello che si voleva che fossimo sotto il
franchismo; sudditi che adesso hanno più benessere, hanno teoricamente più diritti, ma debbono essere guidati…
Dunque, questo spiega anche la corruzione politica. In Spagna abbiamo avuto due istituzioni alla base di questa
corruzione. La prima è l’istituzione politica e soprattutto l’uso indebito degli investimenti pubblici: quando
c’erano degli investimenti pubblici da assegnare ad un’impresa, abbiamo scoperto recentemente che tantissimi
politici, soprattutto di destra ma in certe regioni anche di sinistra, li assegnavano a questa o a quell’altra impresa
e avevano una commissione in cambio. La seconda forma di corruzione è invece riconducibile al controllo delle
casse di risparmio: le casse di risparmio in Spagna erano potentissime, le banche erano tantissime ed avevano il
risparmio dei cittadini in una forma molto consistente; c’erano dappertutto, con sedi locali, regionali, nazionali…
Per esempio la cassa di risparmio di Barcellona (La Caixa), quando era cassa - adesso è una banca normale - era la
terza banca della Spagna: non era una cosa di poco conto! Ai consigli di amministrazione partecipavano politici,
banchieri, sindacalisti: e anche lì si stanno scoprendo nuclei di corruzione incredibili, che arrivano a toccare anche
i sindacalisti. Su queste pratiche corruttive i due partiti più grandi non fecero molto perché le cose cambiassero…
Non fecero, se non nel senso dell’alternanza: adesso governiamo noi, dopo governate voi. Approvarono infatti una
legge elettorale, basata sulle circoscrizioni elettorali provinciali, secondo cui è molto difficile che un terzo partito
possa entrare in gioco, anche ottenendo molti voti. Insomma, una legge elettorale fatta per favorire il bipartitismo.
C’erano soltanto due eccezioni a questo bipartitismo, i Paesi Baschi e la Catalogna: in Catalogna c’era un partito
nazionalista molto forte, e così anche nei Paesi Baschi. Lì, siccome il territorio elettorale era più piccolo, questi
partiti avevano ovviamente una rappresentanza, e potevano perfino arrivare a governare nei governi regionali.
Di fatto il partito nazionalista catalano governò ventiquattro anni di seguito. Nei Paesi Baschi era un po’ più
difficile ma, insomma, anche il Partito Nazionalista Basco8 governò molti anni. Dunque, poi questi partiti, sia il
partito nazionalista basco sia il partito nazionalista catalano, offrivano ai partiti “nazionali”, quasi sempre senza
maggioranza assoluta, la possibilità di governare, chiedendo però in cambio di non guardare nella maniera più
assoluta a quello che succedeva dentro i governi della Catalogna e i Paesi Baschi. Mi ricordo che nel 1985-86,
quando al governo centrale c’era Felipe González, scoppiò uno scandalo tremendo in una banca che gestiva Jordi
Pujol9, la Banca Catalana. Ci furono grandi manifestazioni perché Jordi Pujol, che ne era il gestore prima di entrare
in politica, già governava la Comunità autonoma. Ci furono grandi manifestazioni nella Catalogna di appoggio
a Jordi Pujol, contro il Governo centrale; di colpo le indagini si bloccarono, si fermarono, dissero che non era
successo niente… Solo da poco tempo si è scoperto che Jordi Pujol e la sua famiglia erano invischiati in una trama
di corruzione tremenda. Sostennero che l’inizio della loro grande fortuna era riconducibile ai soldi che il padre
di Jordi Pujol aveva lasciato loro in Svizzera… Molti pensano invece che abbia avuto origine dalla Banca Catalana
come giustamente si diceva nel 1985-86. Insomma, voglio dire che la corruzione in Spagna è una cosa che è
arrivata ad essere strutturale. E secondo me questa scarsa solidità della cultura democratica dei cittadini è stata
perseguita apposta. Non si capisce come nella scuola elementare o secondaria non ci siano materie che spieghino
il franchismo, la dittatura! Se si guardano i programmi, franchismo e dittatura erano sempre in fondo. Sono uscite
inchieste che chiedevano ai giovani chi era Franco, cos’era la dittatura: la maggioranza non lo sapeva. Credo che
questa ignoranza ci parli di un cambiamento culturale e morale che poteva fare la sinistra e che invece non fece.
Un vero cambiamento, che avrebbe consolidato e resa più forte la cultura politica dei cittadini, mettendoli in
grado di sapere quello che avessero voluto… Tutto questo è transitato nella vita quotidiana e noi troviamo adesso
7 Felipe González Márquez è stato segretario generale del Partito Socialista Spagnolo (PSOE) dal 1974 al 1997, e Presidente del Gobierno
per tre volte, dal 2 dicembre 1982 al 5 maggio 1996.
8 Partido NacionalistaVasco (PNV); in lingua basca: Euzko Alderdi Jeltzalea (EAJ).
9 Jordi Pujol i Soley è un politico spagnolo, fondatore - nel 1974 - del partito Convergencia Democrática de Cataluña, e dal 1980 al 2003
Presidente di Governo della Catalogna.
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in Spagna, a mio parere, un profondissimo individualismo e una situazione di competitività accresciutissima, come
se la logica del competere tipica dell’economia fosse passata alla vita civile e normale di ogni giorno: noi siamo,
per esempio, uno dei paesi meno sensibili ai problemi ecologici…
Ma tu hai parlato soprattutto del cambiamento di valori delle forze politiche in gioco, vero? Dicendo che naturalmente questo
ha avuto anche dei riflessi sui cambiamenti di valore della gente comune, però più come sudditi che come cittadini…
Sì.
Ecco, ma c’è stato, cosa di cui si parlava molto anche ai tempi di Zapatero…, c’è stato anche un forte cambiamento nella cultura
della società spagnola rispetto alla sua tradizionale configurazione di valori?
Sì. Tutte queste cose forse hanno un chiaroscuro: cioè, è vero che Felipe González e, soprattutto, Zapatero
hanno dato un impulso molto forte a cambiamenti a livello dei rapporti sociali generali della società, per esempio
sul tema degli intellettuali, dei matrimoni tra gli omosessuali, dell ’uguaglianza tra uomini e donne, dei diritti
civili in generale, ma probabilmente si è trattato piú di un cambiamento promosso dall’alto e non con una nuova
educazione delle persone… Sul piano legislativo è stato fatto moltissimo, sicuramente molto di più rispetto
ad altri paesi, però a livello di cultura e di valori quotidiani questo non è entrato “nella testa e nelle attitudini”
della gente. È poi vero che nello stesso periodo in cui venivano approvate queste leggi il Governo continuava
a mantenere i privilegi della Chiesa Cattolica; che la grande lotta riguardo all’interruzione della gravidanza è
una lotta che si è risolta sempre con punti a favore e punti contrari… Anche nel Governo Zapatero si arrivò ad
un compromesso tra la sinistra e la destra perché c’era fortissima la presenza della Chiesa, e non soltanto nella
mente dei credenti, che poi secondo me non lo sono tanto… Torno a quanto mi riferivo prima: se si voleva fare
una revisione di quarant’anni di dittatura si doveva parlare anche della Chiesa, della Chiesa come istituzione,
come potere economico, come potere politico. Faccio un esempio: in una delle tantissime riforme educative
che si sono fatte in questi decenni (undici riforme educative, ogni Governo ne aveva una) il secondo Governo
Zapatero riesce a introdurre una materia che si chiama educazione civica. Sia detto per inciso: secondo me quella
materia si doveva mettere nel 1977, non trent’anni dopo. Comunque sia, quando arriva il PP10 la toglie e torna a
mettere come materia non obbligatoria - ma che comunque può essere scelta e fare media- religione: e la gente
non protesta massivamente. Anche quelli che privatamente ti dicono di essere cattolici ma che gli fa schifo che la
religione sia insegnata a scuola, non protestano pubblicamente. Per questo insisto tanto sul problema della cultura
politica dei cittadini. I governi socialisti e soprattutto il Governo Zapatero hanno fatto molte riforme: molto
interessanti, molto buone e seguendo un’ottima linea. Credo però che abbiano avuto meno forza per cambiare le
cosa nella società civile per due motivi: primo, perché non sono entrati nella mente e nei comportamenti di tanti
cittadini per le ragioni di cui ho parlato prima; secondo, per gli scarsi investimenti: per esempio la legge per la
dipendenza11, che veniva considerata dal Governo Zapatero il quarto pilastro dello stato del benessere… Ma non
si può fare una legge e dotarla di pochi soldi… Così le donne continuavano ad essere le caregiver delle persone
dipendenti, perché queste ricevevano un sussidio molto basso. Adesso arriva la crisi, arriva il PP ed è una buona
scusa praticamente per bloccare la legge… Non eliminarla, ma bloccarla; per cui dal 2011 non esistono persone
in situazione di dipendenza, salvo quelli già definiti tali in precedenza… E poi c’è il tema dei giovani: quello che
noi abbiamo visto negli ultimi quindici anni è che tantissimi giovani semplicemente non votavano. I giovani si sono
mossi dal 2010 dicendo che loro non avevano partecipato alla transizione, che loro non si sentivano rappresentati,
che questa politica non risolveva i problemi reali (che erano i loro problemi), che la metà di loro non aveva il
lavoro, che c’erano molti senza casa… Insomma, queste cose i partiti non le risolvevano e pertanto bisognava
cambiare la politica e ridiscutere tutto… Sono stati i giovani i veri protagonisti di questi movimenti in Spagna ed
anche quelli che stanno dando il loro supporto ai due partiti di cui parlavo prima.
10 Partido Popular (PP).
11 Il riferimento è alla legge per l’autonomia delle persone in situazione di dipendenza (Ley de la dependencia), entrata in vigore nel 2007,
che stabiliva un nuovo diritto sociale per i cittadini in situazione di dipendenza, quello di ricevere una prestazione pubblica.
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Posso esporre un altro problema? Si lega al discorso delle autonomie o addirittura dell’indipendenza di alcune regioni, cioè il
rapporto tra nazionalismo centralista spagnolo e questa tendenza verso l’autonomia, e recentemente verso l’indipendenza, che
ad un certo punto - tu dici - coinvolge anche il capitalismo locale. Cosa significa questo? Che c’è un capitalismo nazionale o
multinazionale ma anche tutta una serie di capitalismi locali che hanno giocato un ruolo importante nella contrapposizione
al nazionalismo centralista?
Sì. Guardiamo che cosa é succeso alla Catalogna, in particolare durante tutta la fase dei governi nazionalisti
catalani di Jordi Pujol, cioè dal 1983. Salvo un breve intervallo in cui il Governo l’avevano i socialisti con Izquierda
Unida-Iniciativa per Catalunya e con un partito tradizionalmente indipendentista che aveva poca forza - adesso
Izquierda Independentista Catalana ne ha davvero molta - in tutto questo periodo il Governo catalano sviluppò una
politica in Catalogna molto simile a quella del Governo spagnolo verso la Spagna. In Catalogna esistono due grandi
nodi di capitalismo locale e regionale: uno è quello industriale, in quanto la Catalogna assieme ai Paesi Baschi è la
base industriale della Spagna, ma certo l’importanza dei Paesi Baschi, date le loro dimensioni, è minore. Pertanto
l’industria spagnola è fondamentalmente l’industria catalana, che è l’industria più moderna, che ha innovato, che
è più forte nelle esportazioni, e che è una industria di piccole e medie imprese; a questa industria il Governo della
Catalogna diede un supporto, un appoggio molto importante. Poi c’erano le casse di risparmio, alcune molto forti
come quella di Barcellona, che aveva una base territoriale molto catalana anche se negli ultimi anni si era estesa per
tutta la Spagna. Nella regione si sviluppò il capitalismo moderno dei servizi: servizi collettivi come elettricità, gas,
acqua, e servizi generali come la sanità sono stati privatizzati… sono stati decentralizzati e concessi ad imprese
private. E questo capitalismo locale trovava l’appoggio del Governo regionale della Catalogna, un governo
nazionalista, non indipendentista. C’era un equilibrio tra i governi e il capitalismo regionale, senza che fosse del
tutto chiaro quando e come il governo regionale potesse fare il passo verso la rivendicazione indipendentista. Il
problema è che pian piano questo nazionalismo, questo governo nazionalista cambia per il rifiuto della Spagna a
ridiscutere la relazione tra Catalogna ed il resto del paese. Per capire più in concreto questo aspetto: se il potere
centrale trasferisce i soldi delle tasse dalle regioni più ricche alle regioni più povere si ha un certo livellamento, in
base al principio secondo cui tutti gli spagnoli devono avere gli stessi servizi. Così prima di questo trasferimento la
Catalogna magari era la terza regione in investimenti in servizi pubblici per abitante, mentre dopo i trasferimenti
- cioè al momento della verità - passava ad essere in decima o dodicesima posizione, per cui anche i servizi reali
perdevano qualità. Questo perché? Perché la maggioranza dei cinque milioni di immigrati entrati in Spagna in
dieci anni sono andati a Madrid,Valencia e soprattutto in Catalogna. Con la conseguenza che si aveva una domanda
aggiuntiva in sanità, in educazione, in servizi di ogni tipo, per cui i catalani non avevano sufficienti fondi e a causa
di ciò cominciarono a chiedere una revisione dei criteri dei trasferimenti, un nuovo contratto fiscale. Si aggiunga
che esisteva un precedente, sotto questo aspetto: i Paesi Baschi e Navarra hanno uno statuto economico speciale.
I baschi ne godono da parecchi secoli, da quando si unirono a Castiglia, e i navarresi dai tempi delle Guerre
Carliste12, come ricompensa per la loro fedeltà. Dunque la nuova Costituzione spagnola rispettò questo che,
sostanzialmente, vuole dire che i baschi e i navarresi riscuotono le loro tasse e poi…
Se le tengono.
Sì, se le tengono e pagano allo Stato soltanto i servizi che lo Stato dà loro, ma sempre con grandi discussioni
e mesi e mesi di negoziazioni. Insomma, se tu guardi i numeri vedi che i baschi e i navarresi contribuiscono
molto poco al sostegno delle regioni spagnole meno sviluppate. Gli “equilibri” della redistribuzione dipendono o
meglio godono principalmente del contributo della Catalogna; pertanto per molti anni i catalani hanno avanzato
la richiesta di ridiscutere questo assetto, magari con un cambiamento parziale della Costituzione. Insomma, il
problema è che i disequilibri demografici sono ormai più importanti, e comunque diversi da quelli che erano nel
momento della redazione della Costituzione. Siccome su questo il governo socialista, e poi il governo del partito
popolare, si sono completamente bloccati, arenati, chiusi, molta gente e molte, molte più persone sensibili a
12 O anche Carlistadas: il riferimento è ai diversi episodi di guerra civile combattuti Spagna durante il XIX secolo.
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queste cose hanno detto che non c’era altra uscita se non l’indipendenza. Lo stesso partito di Jordi Pujol, che aveva
governato quasi ininterrottamente la Catalogna ed era nazionalista e per niente indipendentista, si è riconvertito
all’indipendentismo. Anche se le grandi banche come la cassa di risparmio di Catalogna o la cassa di risparmio di
Barcellona (che è adesso la seconda banca spagnola, con il nome di Caixabank) e le grandi imprese non ne vogliono
sapere dell’indipendenza, però il capitalismo locale è molto importante, per molte piccole e medie industrie è
importantissimo, così come per certi servizi, che credono che se hanno l’indipendenza dovranno pagare meno
tasse… Ma molta gente crede all’indipendenza come possibilità di uscire della crisi. A mio parere, davanti a
questo c’è un primo sbaglio dei partiti governanti in Spagna che non sono stati capaci di avere una certa capacità
di negoziazione e di vedere come le cose si potevano mettere un po’ meglio per le finanze catalane. Perché la
Catalogna è la regione che in questo momento ha il deficit più alto. Ma c’è anche un secondo sbaglio, della sinistra.
che fino ad adesso non ha saputo spiegare bene ai catalani perché potesse essere conveniente per loro di continuare
come parte della Spagna e perché conviene cercare la soluzione dei problemi entro confini che dovrebbero essere
non quelli regionale ma piuttosto quelli spagnoli ed europei. Al di là di questo però, torno a ripeterlo, se sono
tanti i catalani che vogliono il referendum, è democratico che sia cosi.
Ma di fronte a questi cambiamenti di cui hai parlato, i partiti della sinistra tradizionale come reagiscono? Li capiscono? Sono
in grado di fronteggiarli?
Ti stai riferendo alla questione dell’indipendentismo, o più in generale?
Più in generale a questi processi di cambiamento, anche politici, cui tu hai accennato. E che però dietro hanno un cambiamento
di valori, di rapporti tra generazioni, di mutamenti nella struttura delle classi, per cui i riferimenti tradizionali della sinistra
sono cambiati o scomparsi.
Sì. Secondo me nei due partiti tradizionali della sinistra ci sono due modi diversi di vedere le cose, di vedere
quello che sta succedendo in questo momento, di vedere i cambiamenti che si sono verificati e di quale potrebbe
essere la soluzione, quali le conseguenze. Il Partito Socialista pensa che l’origine di tutte queste cose stia negli
ultimi anni, cioè nella crisi, con l’obbedienza dei governi spagnoli alla politica di austerità della Commissione
Europea e della Germania, per i tagli che si sono fatti all’educazione, alla sanità, ai servizi pubblici e che pertanto
bisogna rimettere a posto questo assetto. E poi parlano di dare più partecipazione ai cittadini in risposta a quello
che sta succedendo con l’ascesa di nuovi partiti. Ma non vanno più indietro. E io credo che dovrebbero andare
più indietro perché potrebbero vedere le radici storiche di questo che sta succedendo in quanto l’indignazione, la
non partecipazione, la diffidenza di molte persone verso i partiti e la politica hanno radici storiche. Altro punto.
Se tu guardi la distribuzione dei voti secondo l’età, fatta all’inizio di quest’anno dal Centro di Ricerche Sociologiche13,
che è quello più solido, Ciudadanos non appariva ancora il quarto partito che ho detto, perché veramente è un
fenomeno degli ultimi tre mesi… Ora siamo alla fine di Aprile14: a gennaio il partito Ciudadanos non compariva in
questi sondaggi, cioè aveva meno del 3,6%, mentre oggi figura al 18% dei voti, …guarda come stanno cambiando
le cose! Se poi si considera il voto per fasce di età, i voti del PP sono voti di elettori con più di sessantacinque
anni; i voti dei Socialisti, che sarebbero il secondo partito, sono voti da chi ha più di quarantacinque anni; al di
sotto dei trentaquattro anni né i socialisti né il PP oltrepassano il 10%, i giovani non li votano; mentre invece il
nuovo partito, Podemos, ha quasi il 30%, il 27,8% per essere precisi. Insomma, i vecchi partiti, la vecchia sinistra
vivono dei vecchi votanti, di quelli che hanno paura di perdere qualcosa -come i pensionati - o che hanno paura dei
cambiamenti, su cui si può avere influenza e capacità di controllo. Circa Izquierda Unida che, io credo, negli ultimi
anni è il partito che ha le ide più chiare, il suo grande errore è stato che nel 2010, quando cominciano tutti questi
nuovi movimenti, non ha avuto la capacità di scendere in piazza con la gente. Ha avuto paura. E oggi, pur avendo
buone idee e proposte, non ha la fiducia dei cittadini.
13 Centro de Investigaciones Sociologicas (CIS), http://www.cis.es/cis/opencms/en/
14 Come si è detto, l’intervista si è tenuta il 26 aprile 2015.
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Paura di perdere consenso?
Sì, perché molti di quelli che andavano nei nuovi partiti erano militanti di Izquierda Unida ed era abbastanza
naturale che ne fossero attratti. Inoltre, anche se molto localmente, alcuni politici di Izquierda Unida sono anch’essi
caduti nella rete della corruzione. Per esempio due mesi fa è scoppiato uno scandalo incredibile intorno alla
Cassa di Risparmio di Madrid15, che era insieme a quella di Barcellona la più grande, e che poi si è convertita
durante la crisi in una banca denominata Bankia. Questa aveva un buco di ventiquattromila milioni di euro che i
contribuenti spagnoli hanno avuto di pagare con i prestiti europei (è parte di ciò che è chiamato “riscatto parziale”
spagnolo). Dunque, si scoprì che i direttori di Caja Madrid e di Bankia, che era la sua filiale, quella in cui si era
convertita, avevano distribuito a tutti i dirigenti, al Consiglio di Amministrazione, al Consiglio Rettore, al Consiglio
Consultivo, al Consiglio di Controllo, delle carte di credito con credito assolutamente aperto e illimitato. Ora,
il secondo che aveva speso di più con quella carta di credito - quasi mezzo milione di euro - era il rappresentate
di Izquierda Unida. La gente non poteva capire come anche la sinistra, politici e sindacalisti, potesse fare parte di
questo gruppo di corrotti; e anche se non è vero che sono tutti uguali, anche se i corrotti sono solo alcuni, queste
furono alcune delle ragioni per cui Izquierda Unida che poteva quasi naturalmente progettare un cambiamento con
nuovi movimenti, non ebbe il coraggio di mettersene alla guida. Di fatto i dirigenti, i leader di Podemos, sono degli
ex di Izquierda Unida, tutti quanti…
E quindi quando parli di disorientamento della sinistra intendi dire che è un disorientamento pratico più che un disorientamento
culturale…Pratico nel senso che ci sono questi episodi che citavi….
Ma io direi che la differenza tra la sinistra di PSOE e la sinistra PCE16 (poi Izquierda) è stata sempre questa: nel
caso del PSOE l’attuale situazione di disorientamento pratico era ed è un disorientamento di valori ideologici,
nel caso di Izquierda Unida è pratico, perché io credo che il PSOE arrivi al potere avendo il ricordo e ispirandosi ai
princìpi del Partito Socialista prima della guerra. Di fatto i socialisti non avevano un’organizzazione interna tranne
che nei Paesi Baschi e nelle Asturie, che erano però realtà molto piccole. Pertanto, siccome in cinque anni arrivano
al potere ed arrivano al potere con una maggioranza assoluta e quindi devono ricoprire tutte le cariche che ti
puoi immaginare, entra nel PSOE ogni tipo di persona, anche persone che non hanno la cultura della sinistra. Io
mi ricordo di aver sentito alcuni leader del PSOE dire negli anni in cui cominciava la grande espansione, quindi
soprattutto negli anni Novanta, che anche quelli di sinistra hanno diritto di arricchirsi…
… attraverso la politica…
No necessariamente, ma attraverso gli stessi metodi coi quali fanno soldi i capitalisti. Credo che il PSOE non ha
fatto ciò cui mi riferivo poco fa perché doveva lavorare immediatamente con quello che aveva, e quello che aveva
erano persone che erano state franchiste o che non si erano schierate e cominciavano ad essere socialisti senza però
avere necessariamente una cultura di sinistra. Cioè il partito non aveva sufficienti risorse umane per portare avanti
un cambiamento politico e istituzionale in un paese che usciva da una dittatura.
Senti, passiamo ad una cosa che tocchi… un po’ di sfuggita ma di cui abbiamo parlato e cioè: tu dici che un altro momento
importante è l’ingresso della Spagna nell’Unione Europea, no?
Sì.
Ecco. Poi metti insieme giustamente questo aspetto di integrazione europea con il processo di globalizzazione. Analizziamo questi
elementi. Mi pareva di capire che secondo te c’è anche qui un aspetto molto critico nei confronti dell’ingresso della Spagna
15 Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid.
16 Partido Comunista de España (PCE).
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dell’Unione Europea. Come lo leggi? Lo si può vedere in tanti modi, dal punto di vista economico, istituzionale, culturale, ecc.
Gli spagnoli, per esempio, sono entrati volentieri nell’Unione Europea? Sono europeisti? Hanno cambiato atteggiamento negli
ultimi decenni? Insomma, come la leggi questa transizione? Perché anche quella è una transizione, in un certo senso…
Direi che gli spagnoli sono, secondo i sondaggi dedicati al tema, molto europeisti: credono nell’Europa, credono
che il futuro sia l’Europa, però poi quando si tratta di votare il Parlamento Europeo votano di meno. In parte si
tratta dello stesso “effetto sondaggio”: la parole e le opinioni espresse poi non necessariamente si traducono in
realtà. Se tu li compari con i tedeschi o con i francesi, a parole gli spagnoli erano molto più europeisti, ma non
sono tanto sicuro che sia cosi nella mentalità e nei valori. E neppure ci sono movimenti tesi a promuovere una
unione politica europea, i partiti non riescono ad avere la mobilitazione dei cittadini nelle elezioni europee. Per
contro, negli ultimi anni gli spagnoli cominciano a diffidare un po’ della possibilità che abbiamo di uscire dalla
crisi e tornare a livelli accettabili di benessere attraverso l’Unione Europea. Però secondo me il tema all’inizio non
fu soltanto quello di una accettazione o meno da parte degli spagnoli, perché quello che era più ferventemente
europeista era il Governo, in questo caso il Governo socialista, anche se la sua era una visione molto strumentale
perché il Governo socialista sapeva che con l’ingresso poteva ottenere dei fondi molto importanti dall’Unione
Europea. Per esempio, se ricordiamo quella che era la Spagna alla fine degli anni Ottanta e quella che era 20 anni
dopo, ci rendiamo conto di cosa hanno significato in Spagna i soldi europei; se vediamo le autostrade, i porti,
gli aeroporti, l’aspetto di molte città, possiamo constatare come i soldi europei abbiano avuto un certo ruolo
(anche sulla occupazione nell’edilizia). Di fatto, guardando le cifre, tra l’ingresso nel 1986 ed il 2007, cioè in quel
periodo di tempo, la Spagna ottenne il 25% dei soldi europei, il 25% di quello che veniva distribuito…
Bravi.
Appunto per quello io credo che sia stato un ingresso molto strumentale, che non era accompagnato da
un’educazione politica di quel che è l’Europa, e di quello di cui abbiamo bisogno. D’altra parte, l’Europa non ha
fatto il passo che doveva fare, ossia di convertirsi in un’entità politica: fondamentalmente continuiamo ad essere
un mercato con alcune possibilità e alcuni diritti individuali molto interessanti e molto importanti, anche con
una moneta comune; però non siamo gli Stati Uniti di Europa, non abbiamo un’unione fiscale, non abbiamo una
politica industriale europea, non abbiamo una politica europea dell’occupazione, neppure sindacati europei solidi
ed attivi …
E non abbiamo una politica sull’immigrazione…
Infatti. Pertanto io credo che queste cose non si ottengono soltanto con le pressioni dei capi di Governo
nelle riunioni di Bruxelles, ma si ottengono se veramente nella cittadinanza c’è una forza per far confluire i
diversi stati europei nell’Unione Europea… Di fatto il Governo spagnolo era molto interessato, da un punto di
vista strumentale, ad entrare nell’Unione Europea perché sapeva che avrebbe ottenuto molte risorse e che poi
questi fondi sono molto poco controllati. Ogni tanto l’Unione Europea effettua dei controlli su alcune cose ma,
insomma… Ad esempio, in Spagna ci sono scandali clamorosi sulla formazione dei disoccupati, …
Tutto il mondo è paese.
Ma è stata una cosa incredibile il modo in cui si sono sprecati i soldi…. Non c’è, di fatto, controllo perché il
controllo che fa l’Unione Europea è formale: “Avete fatto il corso?”, “Sì, l’abbiamo fatto”; “Tanti studenti?”, “Sì,
tanti”; “Tanti professori?”…. Le risposte potevano essere mezze verità o del tutto false. Cioè, gli stessi organizzatori
figuravano come studenti, facevano tutti i corsi, e figuravano anche gli amici, per non parlare di come venivano
pagati i professori, altro campo in cui c’è stata corruzione… Non posso parlare di quel che succede negli altri
paesi, ma nel caso della Spagna posso dire che non c’è stata un’educazione europeista, sui diritti europei, su
quello che poteva significare un’Unione Europea. Quello che dicevano gli spagnoli, quando venivano effettuate i
sondaggi, era che erano favorevoli all’Europa e dicevano di sì perché con la moneta unica, i turisti vengono da ogni
parte dell’Europa, quindi: “Siamo europei!”… Io credo che non sia una risposta, diciamo, profonda.
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E invece da un punto di vista dei vincoli economici che ha comportato l’ingresso in Europa, questo è stato vissuto negativamente
dagli spagnoli?
Direi che dal punto di vista di certe imprese è andata molto bene perché la circolazione dei capitali, delle
merci è andata molto bene. Però adesso molti spagnoli si stanno accorgendo che dopo l’introduzione della moneta
comune il livello dei costi in Spagna è salito moltissimo, di più di quello che è stato l’incremento dei salari. Noi
non abbiamo quasi differenze nei costi di tante cose con il resto d’Europa –la casa, la benzina, l’elettricità e il gas,
l’acqua, certi prodotti alimentari- e invece continuiamo a stare molto in giù per quanto concerne i salari. Non
parliamo poi della crisi… Noi siamo il paese in cui negli ultimi anni le disuguaglianze sono cresciute di più rispetto
all’Europa, insieme alla Lituania. Lo dice la OCDE, non lo dicono gli esperti spagnoli.
E c’è stato anche un grande aumento della povertà.
Sì.
Si potrebbe dire che si è creata anche una seconda società di poveri?
Sì. Ma io credo che quello che succede nelle società e nelle città moderne è che se tu non li cerchi non li trovi
i poveri, trovi soltanto quelli che fanno accattonaggio nel centro della città, ma la povertà non la trovi se non ti
lasci guidare da quelli che sanno come vive la gente. Da noi la povertà è cresciuta in una forma importantissima
negli ultimi anni, quasi fino al 29% della popolazione secondo dati ufficiali: in questo momento in un milione e
ottocentomila famiglie nessuno lavora, in un milione di famiglie non entrano soldi legalmente, ma probabilmente
entrano da lavori in nero. Sono cresciute in maniera assolutamente smodata tutte le istituzioni di carità. Ma poi se
tu giri nel centro di Barcellona o di Madrid il povero non lo trovi veramente, perché anche questa nuova povertà
spesso è di gente che non vuole essere vista…
Una sorta di povertà nuova. Che si mimetizza.
Appunto.
Ma è anche legata alla crisi delWelfare State…
Sì…
Questo aumento della povertà è anche aumento della disuguaglianza, no? Tu accenni al fatto che c’è una crisi finanziaria
e che quindi i sostegni alle famiglie, agli individui sono molto diminuiti e questo è stato uno dei fattori di crescita della
disuguaglianza e della povertà, vero?
Sì…
Ecco, ma sono scelte obbligate dalla difficoltà della situazione economica o sono in qualche misura scelte politiche che vogliono
indirizzare la società spagnola in un’altra direzione?
La mia ipotesi è che se noi compariamo la crisi del 1929 e la crisi del 2008 e gli anni seguenti, dalla crisi del
1929 i paesi uscirono, alcuni prima ed altri dopo, con delle risorse interne, cioè ricostruirono il mercato interno
dei consumatori, del lavoro, la banca, ecc… Perché giocarono dei fattori politici, economici, sindacali interni e
ci fu un recupero interno che poi si estese ad altri paesi. Invece quello che sta succedendo con la crisi economica
oggi lo dobbiamo, secondo me, guardare ed analizzare già a partire dal 1980, con uno sguardo necessariamente
storico. Se per esempio facciamo riferimento alla pubblicazione di Thomas Piketty Il capitalismo nel XXI secolo si
vede come la ricchezza dell’1% o del 10% della popolazione che fin dal inizio del 1800 sia in Europa che negli
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Stati Uniti era molto alta, comincia a calare negli anni delle rivoluzioni, tra il 1912 e il 1915 e va scendendo
lentamente fino agli anni 1970, cioè durante i periodi delle politiche socialdemocratiche, delle lotte sindacali,
delle società del benessere. Da qui torna a salire, lentamente ma costantemente, fino ad oggi: sia che le tappe
siano state di crescita o di recessione, i ricchi continuano ad accumulare e le disuguaglianze crescono. Cioè,
secondo me quella in atto è una “contro-rivoluzione” mondiale aperta dagli anni Settanta, dove c’è un grande
attore mondiale: le multinazionali, le grandi banche… Insomma, se volete, alcune delle crisi attuali, come quella
greca, si spiegano meglio come salvataggio delle banche alleate con certe forze politiche. Invece dall’altra parte,
dal lato dei partiti di sinistra e dei sindacati, dei lavoratori e dei ceti medi (anche piccole imprese) non c’è un
movimento internazionale ma anzi queste organizzazioni sono ogni giorno più locali che in passato. Noi non siamo
riusciti a fare neppure un sindacato di livello europeo vero, reale, che andasse oltre la burocrazia. Il mercato che
interessa alle grandi multinazionali e alle imprese esportatrici e alle grandi banche è un mercato globale in cui tre
o quattro miliardi sono dei “buoni consumatori”, ovunque essi siano, in Spagna, in Cina, in Italia o in Germania.
Gli altri tre o quattro miliardi saranno i “working poor” o quelli che ancora sono meno di quello, che dovranno
lavorare dodici ore o quindici ore, … Ma insomma, gli interessi dominanti hanno abbastanza con un mercato di
tre o quattro miliardi, per adesso, perché il denaro non pianifica a 30 anni. E intanto quelli che hanno la peggio
in questa situazione non hanno strumenti mondiali, globali, per costruire una opposizione. Caso mai continuano
ad avere idee nazionalistiche, anzi le moltiplicano: la Catalogna, l’Italia con la Lega, la Scozia, e una certa sinistra
che pensa che l’indipendenza sarebbe l’occasione per costruire un nuovo piccolo paradiso, una nuova Svizzera,
isolati di quel che succede intorno a loro. Io credo che non usciremo da questa crisi, nel senso di ritornare alla
situazione che c’era nel 2006. Sono convinto che non ritorneremo al 2006 e resteremo con società più duali,
come dicevo appunto prima, con una concorrenza più alta, lavoro di minor qualità e invece una fascia, uno strato
di professionisti che saranno mondiali, globali, operanti in grandi imprese globali. Da qui a poco avremo poi trenta
milioni di cinesi ricchi che verranno a Firenze a vedere le meravigli del Rinascimento... Ma la maniera di ridurre
disuguaglianze e mantenere il massimo di stato del benessere è giocando la partita internazionale: prima a livello
europeo poi a livello mondiale.
Già ci sono…
Già sono arrivati: questo è il mercato globale. Il mercato adesso è così e pertanto anche la società sarà cosi…
Credo che oggi si possa parlare di struttura sociale mondiale, perché se guardi alla Germania, pensi che la Germania
è ricca e che i paesi del Sud Europa come la Spagna, il Portogallo e la Grecia sono paesi poveri. Ma se cominci a
guardare quello che sta succedendo alla Germania, e non limitandoti all’oggi ma a partire dal 2002 con la riforma
di Gerhard Schröder, ti rendi conto che è allora che il quadro cambia. Alcuni mesi fa uscirono le statistiche
dell’ufficio federale tedesco sulle pensioni, sono delle statistiche ufficiali: il 48% dei pensionati non hanno entrate
superiori ai settecento euro, il 48%! È vero che se questi hanno dei bisogni possono avere degli aiuti, non so, per
il trasporto e per la casa, però gli aiuti si possono togliere se arriva un Governo che li vuole togliere. Lo stesso si
può dire per quei sei-sette milioni di tedeschi che fanno i “mini-jobs” e poi hanno dei sussidi: anche questi sussidi
si possono togliere; ci sono molti milioni di tedeschi che guadagnano poco e pertanto avranno delle pensioni basse
e questo delle pensioni, secondo me, è il passo successivo, cioè se le cose non cambiano molto noi andiamo verso
una società dove i pensionati saranno persone con un potere di acquisto basso. Insomma, la nostra è una società
dove in ogni paese ci saranno fasce ampie di povertà, anche in Germania.
Giulia Mascagni: Posso chiedere una cosa? Riguardo al tema della povertà che “non si vuole far vedere”: è una povertà in qualche
modo nascosta e occultata perché, diciamo, frutto di un movimento discendente, di una perdita di posizioni nella scala sociale?
Sì.
GM: Sono persone che hanno visto peggiorare le loro condizioni…
Esatto.
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GM: Quindi si potrebbe parlare di vulnerabilità sociale e non ancora di povertà perché forse hanno delle aspettative, delle
speranze di miglioramento… Quello che cercavo di capire era se questa discesa nella scala sociale di tante persone, con un
peggioramento delle loro condizioni economiche e di vita, si lega a un certo tipo di protesta politica…
Guarda, prendiamo in considerazione la questione dal punto di vista, per esempio, dell’occupazione: noi nel
1995 avevamo quattordici milioni di occupati mentre nel 2007 avevamo ventidue milioni di occupati, cioè otto
milioni in più. Lì è cominciata la caduta perché gran parte di questi occupati erano nell’edilizia, o nell’industria,
ma in società legate all’edilizia. In questo momento risulta che un milione e ottocentomila lavoratori disoccupati in
Spagna hanno quarantacinque o più anni; questi hanno molte difficoltà a tornare a lavorare, moltissime difficoltà…
Non dico che sia impossibile, ma è molto difficile perché chi andava a lavorare nelle costruzioni o nell’agricoltura
erano spesso immigrati, o erano donne che avevano lasciato il lavoro familiare o uomini con livelli educativi bassi.
Da noi, per esempio, tra la metà degli anni Ottanta ed il 2007 il tasso di occupazione femminile è passato da
ventotto a cinquantotto: con quell’età e con una struttura produttiva così poco qualificata queste persone, essendo
molte di loro senza una vera qualificazione, molto difficilmente torneranno a lavorare- E pertanto sono tagliati
fuori, avranno dei lavoretti, avranno qualche sussidio ma sono tagliati fuori: inoltre, questi sono impauriti perché
hanno figli e quindi neppure protestano, protestano i giovani. Per quello ho parlato prima della cultura politica,
perché se questi non fossero impauriti e non avessero una mentalità da sudditi protesterebbero, uscirebbero per le
strade: perché è vero che da noi il 55% dei giovani non ha lavoro, però il gruppo più in pericolo non è quello dei
giovani, che hanno tutta la vita per trovare una soluzione, ma sono queste persone che hanno la quasi certezza di
non tornare ad avere un lavoro come quello che avevano o, in molti casi, di non avere più nessun lavoro.
GM: Hanno una situazione in bilico. Forse ancora riescono a temporeggiare con le risorse che hanno da parte, però prima o
poi…
Non tanto perché una cosa che dimostrano le statistiche è che il sistema economico ha indotto moltissime
persone ad un indebitamento bestiale… Il debito in Spagna - il grosso debito! - è quello privato, non quello
pubblico che è molto meno che in Italia. Queste persone hanno migliaia e migliaia di euro da pagare per la casa,
per la macchina, per altri beni, ma soprattutto per la casa… Sono persone che hanno vissuto in una fantasia
economica, perché sembrava che questo fosse un fenomeno di accrescimento economico che non si sarebbe più
fermato. E poi c’è un altro gruppo molto importante di persone di classe media, ossia i professionisti - quelli
… come me per esempio - che avevano una buona posizione nel lavoro e i cui figli sono rimasti tagliati fuori.
C’è una situazione “spettacolare” in Spagna, e non da adesso. Ora è più marcata ma esisteva ormai dal 2006; una
situazione nata all’ombra di una fantasia speculativa, ma che sotto sotto già stava avvenendo… I giovani maschi
se ne andavano dalle loro case a trent’anni nel 2007 e oggi saremo a trentuno o trentadue anni: insomma, tanti e
tanti giovani devono andare fuori, alla stregua di quello che succede anche in Italia, ma tanti altri non vanno fuori
e fanno lavoretti. Anche quello che dice il Governo del PP che nel 2014 l’occupazione è cresciuta quasi di mezzo
milione statisticamente è vero, ma se tu vai a vedere quell’occupazione vedi che sono contratti di quindici giorni,
di un mese…. Insomma, statisticamente alla fine dell’anno il numero resta quello, ma sono contratti temporanei
e a tempo parziale, meno di venti ore, con dei salari bassissimi. Molta gente che guadagnava millecinquecento euro
al mese, contattata oggi per lo stesso lavoro più o meno ne guadagna ottocento di euro.
Angela Perulli: Io invece vorrei tornare su un altro punto che hai sollevato poco fa. Tu giustamente parlavi, e la cosa mi ha
incuriosita molto, di questa fantasia sotto la quale le persone avrebbero agito, dell’illusione di una crescita…
Loro pensavano che fosse reale, ovviamente.
AP: Sì sì, certo. Questo mi ha ulteriormente rafforzata in una curiosità che, fin dall’inizio, volevo porti. In Italia, negli anni
2003-2004, si sviluppò un certo dibattito non solo tra i cittadini ma anche tra gli intellettuali, gli analisti, politologi ed
economisti in particolare, che guardavano alla Spagna come alla sorella che aveva avuto una capacità più matura di gestire
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proprio la transizione dalla dittatura alla democrazia. Ci fu un dibattito abbastanza vivace intorno a un libro di Víctor PérezDíaz17…
Sì.
AP: Che poteva essere appunto dei primi anni 2000 e che fu ripreso in Italia da Michele Salvati con una tesi abbastanza critica
proprio nei confronti della sinistra ed in particolar modo nei confronti di quella dimensione valoriale della sinistra, che tu
lamentavi un po’ invece come mancante in Spagna; l’ipotesi era - ora la dico in modo molto brutale - che la Spagna è stata
molto più capace di gestire questa transizione perché non si è poggiata su chimere di tipo ideologico e quindi valoriali: seguendo
un percorso meno traumatico di fatto ha favorito uno sviluppo di tipo economico, ma anche da un punto di vista politico ha
favorito un’alternanza appunto non traumatica, tant’è vero che si parlava di un “conflitto normativizzato”, non ricordo quale
era esattamente l’espressione…
Sì.
AP: Questa ipotesi fu ripresa in Italia, anche da parte di alcuni intellettuali, che dialogano con la sinistra, come Salvati, per
criticare fortemente il ruolo avuto dal Partito Comunista ed anche dai sindacati italiani perché ritenuti troppo legati ad una
certa immagine del mondo e quindi a determinati valori…
Ideologici…
AP: Ora però se io metto insieme queste ipotesi con le cose diverse che tu hai detto all’inizio della nostra chiacchierata di
oggi, sostenendo una tesi che a me pare diametralmente opposta, cioè che in Spagna casomai sono mancati senso valoriale e di
principio e che quindi forse questa transizione è stata pacifica e tranquilla perché non si sono affrontati i problemi…
Sì, ma perché c’è stato piuttosto un patto tra le élites…
AP: Che, come dire, ha rimosso il problema… Cioè, lo ha nascosto, non è che lo ha affrontato in modo tale…
Sì, mentre invece la sinistra, soprattutto il PSOE, presentava questa decisione come un atto di generosità della
sinistra che ha voluto rimuovere il passato perché, veramente, il passato era un passato crudele, molto legato alla
destra ed al franchismo e questo… Questo è credibile secondo me, però quando tu vedi quel che è successo a
posteriori ti rendi conto che puoi ripensare il passato, parlare del passato senza volere la vendetta…
AP: Ecco, mi chiedo, questa dimensione valoriale che si potrebbe tradurre anche in un’idea del mondo, dello sviluppo, delle
relazioni sociali, delle società: quanto è la dimensione che ancora manca proprio per sviluppare quello che tu adesso ci stavi
dicendo, cioè un sindacato capace di muoversi a livello mondiale, un’Europa che non sia un’Europa della finanza e dei piccoli
aggiustamenti politici… In conclusione mi sembra che sia dall’analisi che hai fatto che dai problemi che hai sollevato emerga in
realtà anche il bisogno di ricostruire delle basi che non siano semplicemente da aggiustamento economico dell’esistente o trovare
la formula elettorale migliore per come si sviluppa il dibattito in Italia, è facile trovare punti di contatto con la situazione del
nostro paese - Ma che, in qualche modo, anche gli ultimi movimenti emersi sembra cerchino un bisogno di valori di immagine del
mondo… Di ricostituzione di un’idea che non sia più ideologica ma che comunque sia un’idea generale o no?
Sì, dove le persone vengano viste come esseri umani piuttosto che come soggetti economici.
AP: Esatto. È un po’ quello che manca e che, per esempio, se io faccio un confronto con l’Italia, è quello che caratterizza in termini
17 Il riferimento è al volume di Víctor Pérez Díaz Spain at the Crossroads: Civil Society, Politics, and the Rule of Law, edito da Harvard
University Press, Cambridge, MA, nel 1999. Il testo è stato poi pubblicato nella versione tradotta in italiano nel 2003 per la casa editrice
Il Mulino, con il titolo La lezione spagnola. Società civile, politica e legalità, e con un saggio introduttivo di Michele Salvati (Spagna e Italia:
un confronto).
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di assenza il dibattito politico degli ultimi mesi.
Sì. Io credo che la domanda che tu stai proponendo non abbia una facile risposta. Ma se torno per un attimo alla
Spagna e alla transizione pensando ai valori, creo che se accetti il passato –guerra civile e dittatura- senza critica,
rischi che molti cittadini possano assumere i valori di sottomissione, di sumisión, come valori che continuano ad
essere vigenti, lo stato paternalista o lontano come qualcosa che no fa parte delle tue responsabilità (ingannare il
fisco non è mal visto), il feroce individualismo come una risposta naturale quando le cose vanno male alla società.
Quello che sta succedendo in Spagna, in Inghilterra ed in altri paesi va proprio nella direzione opposta, seguendo
il tuo ragionamento, cioè i localismi come l’indipendentismo catalano o della Scozia dal punto di vista dei valori,
fuggono dai problemi pensando che un paese piccolo e più ricco abbia più chances di salvarsi e ricostruire tutto
daccapo. Ma in un mondo come quello attuale, la globalizzazione economica, politica, culturale dei valori non
va indietro. I cambiamenti dovrebbero essere mossi e promossi a partire dalle grandi regioni come l’Europa:
l’Europa dovrebbe pensare sul serio a convertirsi in un’istituzione politica che fosse anche un territorio solidale
con il resto del mondo. Cioè, io credo che se noi vogliamo cambiare dobbiamo lottare in Europa e di questo ne
ho una piena consapevolezza: l’Europa ha la capacità di garantire un certo benessere, e di fare in modo che questo
benessere si diffonda aldilà dell’Europa, altrimenti io non vedo un’uscita… Penso che non esista la soluzione
spagnola né quella italiana né quella catalana, non esistono queste soluzioni, però è vero che non abbiamo tantissimi
strumenti. Per esempio, i poteri economici hanno le grandi multinazionali, che hanno rapporti con i governi
più importanti, con le istituzioni economiche globali, il Fondo Monetario Internazionale, ecc. – hanno dunque
maggiori possibilità. La sinistra, i sindacati, i movimenti non hanno tante possibilità di “legarsi” tra loro, anche
perché abbiamo degli ostacoli molto elementari come quello linguistico per esempio. Noi eravamo un mondo
fatto di paesi e le cose andavano bene o andavano male al suo interno. In ogni paese la sinistra poteva perseguire
una regolazione dell’economia e con questo favorire il benessere dei paesi europei; questa è la capacità che aveva
la sinistra o anche i movimenti di regolare, di tenere sotto controllo lo Stato e i poteri economici. Insomma,
se tu guardi agli inizi dello stato di benessere nei paesi nordici è esattamente così: un patto tra Governo, classe
dominante e poteri sociali. Oggi i patti interni penso che non garantiscano il benessere dei cittadini a cui questi
patti farebbero riferimento...
AP: All’interno di stati…
All’interno dello Stato, chiaro.
AP: Adesso abbiamo delle dinamiche economiche che sono sovranazionali…E continuiamo però ad avere una strumentazione
concettuale e pratica di intervento misurata sul livello statale.
Sì: se hai degli strumenti che operano solo a livello statale non hai nessuna capacità di controllare l’economia
o il sistema finanziario, perché la dimensione oramai è europea…
AP: C’è un dislivello tra le due capacità e qui sta il problema.
Tra i molti problemi più inerenti alla quotidianità che abbiamo visto oggi, molti non hanno una soluzione se
non di tipo europeo: la povertà, l’immigrazione, ecc. Che deve fare l’Italia? Deve risolvere da sola il problema
della pressione immigratoria in questo momento, quando molti di questi migranti sono gente che fugge dalla
situazione politica nei loro paesi? Non può farcela l’Italia da sola.
AP: Bene, grazie. Hai qualche altro punto?
Ho cercato di adottare una visione storica e di respiro europeo perché oggi l’analisi dei cambiamenti sociali ed
economici deve essere a questo livello e con questa prospettiva. E anche le soluzioni che si possono pensare non
possono che venir fuori su questi piani.
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Le elezioni del 24 maggio in Spagna. Nota aggiornata dell’autore
Il 24 maggio si sono svolte in Spagna (limitatamente alle regioni non a statuto speciale) le elezioni locali e
regionali. Nel complesso il PP ha perso in notevole misura, altrettanto è successo al PSOE, mentre hanno ottenuto
forti consensi i due nuovi partiti, Podemos e Ciudadanos. Nella politica di alleanze che si sta sviluppando dopo queste
elezioni le cose sono però più complesse. Le grandi città - Madrid, Barcellona, Valencia e Saragozza - saranno
governate da formazioni civiche nelle quali svolge un ruolo molto attivo Podemos; lo stesso accadrà in molte altre
città medie e piccole. Il PP ha perso molti capoluoghi di provincia, mentre il PSOE ne ha vinto alcuni che non
aveva, grazie all’appoggio esterno di Podemos. Ciudadanos dà il suo appoggio esterno al PP in alcune città, ma non ne
governa nessuna. Il cambiamento può essere definito radicale a livello comunale, dove gli elettori e le liste civiche
hanno punito non solo il PP, ma a volte anche il PSOE, che si è visto spiazzato da formazioni fortemente orientate
al cambiamento (anche se questo cambiamento non sempre proviene dai nuovi partiti). I governi regionali stanno
ancora discutendo, in quanto il tempo su cui possono contare è maggiore. Ma la tendenza generale è la seguente:
il PP perderà una gran parte delle regioni dove governava, in molte delle quali con la maggioranza assoluta; le più
importanti sono Valencia, Aragona, Castiglia. Il PSOE può tornare a governare nuovamente le regioni che aveva
perso nelle precedenti elezioni, ma ora con l›appoggio esterno di Podemos; lo stesso succederà in Andalusia, ora
però con il sostegno esterno di Ciudadanos. I risultati delle regionali prefigurano una mappa politica molto diversa
dall’attuale, di cui si vedrà un seguito nelle elezioni politiche generali del prossimo novembre. In termini generali,
si può dire che è avanzata la sinistra, nei governi locali con liste civiche e Podemos, e nei governi regionali con gli
appoggi esterni (ma senza entrare al governo), di Podemos e. in un caso (quello dell’Andalusia), di Ciudadanos. I
cittadini vedono questo cambiamento con ottimismo, anche se molti esperti ritengono che i governi possano
andare incontro a difficoltà per il difficile equilibrio che dovranno mantenere nella gestione politica quotidiana.
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Reviews and profiles
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Book Review
[Le ragioni degli altri. Mediazione e famiglia tra conflitto e dialogo. Una
prospettiva comparatistica e interdisciplinare]
Elena Urso (a cura di), Firenze: Firenze University Press, 2013, ISBN 978-88-6655-323-6
Il ruolo che può essere svolto dalla mediazione familiare appare sempre di più decisivo al fine di superare le
difficoltà determinate dall’eccessiva fiducia che i cittadini ripongono nelle tradizionali forme di tutela proprie
del modello del contenzioso (leggi la giustizia civile). I conflitti familiari possono infatti produrre conseguenze
negative di lunga durata sui minori d’età, coinvolti, loro malgrado, nella spirale di contrasti causata da genitori
che, invece di prendersi cura di loro, non sono in grado di rendersi conto che l’assenza di comunicazione e il
costante contrasto e contrapposizione tra loro, in quanto nucleo allevante, produce danni alla salute dei loro
figli. Sempre di più, ultimamente, si sono osservati in ambito di mediazione notevoli miglioramenti, in quanto si
è gradualmente innalzato il livello di preparazione dei mediatori familiari, si sono istituite associazioni, a livello
nazionale ed internazionale, per coordinare la loro attività, si sono definiti standard etici e redatti codici di condotta.
Al contempo, le autorità politiche statali hanno preso atto del rilevante impatto proprio dei meccanismi atti a
favorire il raggiungimento di accordi, tra le parti confliggenti, tramite il ricorso ai diversi metodi di risoluzione
dei conflitti (descritti dall’acronimo ADR - Alternative Dispute Resolution).
In un primo momento, uno degli scopi considerati più importanti, attribuibili all’ADR, è stato quello
della riduzione del carico di lavoro delle corti. Successivamente, dopo che la mediazione è stata riconosciuta
come uno strumento dotato di propria autonomia, è stata legittimata dai rappresentanti del mondo politicoistituzionale come strumento che a pieno titolo è espressione di un valore primario, quello della pacificazione, e
indipendentemente dalle valutazioni inerenti i capitoli di bilancio dello Stato. Eppure il rapporto tra mediazione e
diritto non è tutt’ora facile da definire. Basti pensare alle tensioni crescenti che hanno caratterizzato in particolar
modo la fase immediatamente successiva all’entrata in vigore in Italia della disciplina in tema di mediazione civile e
commerciale, che rendono evidente l’irrisolta querelle tra sostenitori di una funzione imprescindibile del difensore
tecnico nel procedimento di mediazione, o meglio dell’avvocato iscritto all’albo e dell’intrinseca capacità di
quest’ultimo di agire come mediatore, e i fautori di una visione incentrata, all’opposto, su una concezione che dà
risalto alla complementarietà tra le funzioni e i compiti attribuiti, rispettivamente, alla professione forense e ai
professionisti con una formazione specifica, in tema di mediazione, compresi, fra questi, quelli che hanno ricevuto
una iniziale formazione giuridica. Per superare simili difficoltà, a livello nazionale ma anche internazionale, risulta
necessario accrescere il livello di comprensione e di reciproca collaborazione tra avvocati, magistrati ed esperti
che operano nel settore della mediazione. Ciò presuppone una conoscenza approfondita delle implicazioni sociali
e psicologiche delle controversie in ambito familiare, connesse alle interazioni tra i componenti della famiglia e, al
tempo stesso, il riconoscimento della presenza di linee di confine, tra le diverse aree di competenza e d’intervento.
Nell’ambito di questo scenario il presente volume, che raccoglie diversi contributi, molti dei quali presentati
in occasione di un ciclo biennale di incontri comparatistici, svoltisi presso l’Università degli Studi di Firenze ed
organizzati dalla curatrice, si pone l’obiettivo di proporre una visione critica ed interdisciplinare del tema della
mediazione familiare. Il volume rappresenta, pertanto, una proposta per rendere più costanti e dedicati gli sforzi al
fine di creare un’estesa offerta formativa, che sia aperta a tutti gli esperti potenzialmente interessati: dai mediatori
ai legali, dagli operatori dei servizi sociali a quelli delle strutture educative e sanitarie.
Al riguardo si osserva una progressiva convergenza, fra gli studiosi del diritto, circa l’esigenza di sviluppare
un metodo basato sull’interazione e sull’interdisciplinarietà, che sia in grado di contrapporsi alle visioni isolate,
riflesso della tradizionale suddivisione tra aree del sapere e, dunque, delle corrispondenti specificità delle distinte
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conoscenze professionali. Il carattere interdisciplinare del presente volume può infatti apparire come una sfida
improba, ma sembra l’unica strada da percorrere per assicurare che si possano compiere reali passi in avanti al fine
di assicurare una reale effettiva tutela giuridica, che aumenta nella misura in cui si va verso l’ampliamento della
disponibilità di efficaci rimedi di natura preventiva, che siano legittimati e riconosciuti da tutte le istituzioni aventi
compiti precisi, perché solo così è possibile ipotizzare di evitare il verificarsi di danni ormai facilmente prevedibili.
Nella prima parte del lavoro si affronta il tema della ‘giustizia mite’, grazie ad una serie di saggi dedicati
alla prospettiva filosofica, psicologica e formativa, nonché ai profili giuridici della materia. Lo scopo è quello
di evidenziare come si possa pensare ad un sistema di gestione dei conflitti, specie quando questi possono
riverberarsi negativamente sui componenti più vulnerabili della famiglia – i minori d’età – ricorrendo ad un
metodo ‘non giudiziale’, ossia a metodologie e strumenti idonei a tutelare i diritti in modo disancorato dalla
dinamica processuale.
Nella seconda parte, la mediazione è considerata con riferimento a quel che può ritenersi il suo fulcro o aspetto
cardine, ossia in relazione alla crisi della coppia. A tale tematica sono dedicati contributi specifici, che descrivono,
in primo luogo, la recente esperienza dei principali ordinamenti di common law, analizzata da giuristi stranieri,
docenti presso diversi atenei in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Australia, tenuto conto altresì delle indicazioni
promanate dal diritto dell’Unione Europea. Quindi sono analizzati alcuni ordinamenti europeo-continentali:
quello tedesco e spagnolo in un confronto con i modelli accolti in alcuni dei Paesi dell’America Latina.
Si prende in esame, quindi, un insieme di questioni attualmente oggetto di un acceso dibattito, in quanto
correlate alla comparsa di modelli tradizionali ed innovativi, nell’ambito delle relazioni familiari. La terza
parte, infatti, si sofferma sulla funzione preventiva della mediazione, sui suoi limiti, sulle questioni correlate alla
coesistenza di diversi modelli familiare, di matrice ora tradizionale, ora innovativa. Dopo aver delineato i confini
tra i casi mediabili e quelli non mediabili, nell’ottica civilistica e penalistica, si considera la delicata problematica
dell’ascolto del minore, sia nel procedimento penale sia in quello civile.
Il volume tratta, in seguito, il tema della violenza e dell’abuso, di cui si propone, innanzitutto, un inquadramento
sotto il profilo medico e, successivamente, una disamina svolta secondo una prospettiva comparatistica, che spazia
dal diritto statunitense a quello australiano e sudamericano, senza trascurare la visione europea. Infine, si dà
spazio ad una riflessione incentrata sulle garanzie da apprestare a tutela dei soggetti coinvolti nel conflitto, non
solo all’interno della famiglia, ma anche nel più ampio contesto educativo e sociale. Il volume propone una serie
di riflessioni che si incentrano su quei modelli di famiglia spesso descritti come “diversi”, in quanto alternativi
rispetto a quello prevalente, nella società occidentale. Si prende, infatti, in esame il ruolo della mediazione nel
diritto marocchino, per passare al tema delle mutilazioni genitali, considerato alla luce di una visuale filosoficopolitica, medica e comparatistica, finalizzata ad evidenziare le tensioni fra tradizione e modernità, in seno ai conflitti
familiari, per concludere con una serie di considerazioni dedicate al ruolo dell’educazione, ad uno sguardo sulle
‘nuove famiglie’ e alle esperienze della mediazione di conflitti come strumento di tutela della sicurezza urbana,
compiute nelle realtà locali. In particolare tra quest’ultime, l’esperienza relativa alla gestione dei micro-conflitti
in ambito sociale, appare di rilevanza strategica in un mondo globale in cui i processi migratori non possono
essere fermati ma solo regolamentati e che in ogni caso hanno un forte impatto sia sulle comunità migranti che su
quelle accoglienti. La città, infatti, è da sempre luogo di incontro e di scontro sociale e ad oggi uno dei fenomeni
più complessi che le città si trovano a governare è quello del processo di proliferazione massiva dei conflitti di
“seconda generazione” (familiari, di vicinato, interculturali). A fronte di tale fenomeno, le istituzioni pubbliche,
con il loro tradizionale arsenale di politiche repressive di produzione di ordine sociale, stentano a fornire risposte
performanti, trascurando o trattando a distanze temporali inaccettabili quei conflitti, andando così a tradire il
proprio mandato di tutela di gestione della sicurezza pubblica, ma contribuendo anche a generare la sfiducia e la
percezione di insicurezza nel corpo sociale. Il volume presenta un’esperienza di mediazione dei micro-conflitti
sociali, che permette di osservare come la mediazione può costituire un volano elettivo per la ri-apertura dei canali
comunicativi, stimolando le parti a prendersi cura del conflitto del quale sono portatrici in maniera costruttiva,
consensuale ed effettiva. La moltiplicazione di questi micro-assetti di recupero della responsabilità da parte dei
cittadini dei conflitti che li riguardano direttamente, costituisce il primo passo per promuovere una più ampia
capacità di auto-organizzazione sociale, che si esprime anche nella graduale riduzione della delega ad istituzioni
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lontane nella gestione dei micro-conflitti sociali.
Il testo si rivolge a tutti coloro che a vario titolo si occupano di gestire controversie familiari che tangenzialmente
o direttamente incrociano la giustizia civile, dagli avvocati agli psicologi, dai sociologi agli operatori dei servizi
sociali e delle strutture educative, fino ai mediatori tout court, in modo da offrire una proposta conoscitiva di
comparazione socio-giuridica del tema della mediazione, tale da arricchire il panorama di conoscenze e competenze
e, al contempo, offrire un bagaglio fatto di strumenti che tra loro si compenetrano per operare secondo criteri di
efficacia ed efficienza in tale ambito.
(Valeria Gherardini)
Il bel libro sulla mediazione familiare curato da Elena Urso appare sicuramente esaustivo della complessa
problematica e segna un punto di riferimento importante per chi voglia addentrarsi per la difficile strada della
mediazione nella risoluzione dei conflitti.
Una problematica che, al momento riscuote consensi e successi soprattutto fra gli studiosi e fra gli operatori
sociali con diversi accenti e sfumature fra gli uni e gli altri.
In particolare gli operatori sociali guardano alla mediazione come ad una sorta di mantra salvifico che dovrebbe
risolvere o almeno limitare i tanti insuccessi che appartengono al vissuto fisiologico delle professioni sociali.
Mi riferisco in particolare modo agli assistenti sociali agli psicologi ed agli educatori che purtroppo
costituiscono anche la base antropologica cui attinge a larghe mani la nascente professione del mediatore familiare;
sicché l’insuccesso delle professioni sociali nella risoluzione, sia pure virgolettata, delle situazioni di disagio delle
persone si riverbera spesso sulle procedure mediative accumulando frustrazioni e sfiducia nella possibilità di
risolvere i conflitti senza darsele di santa ragione.
A parte lo sfogo personale sulla insufficiente professionalità delle professioni sociali il merito ed il difetto
del libro sta nella ristrettezza dell’orizzonte culturale chiamato a discutere del tema.
Difatti, nonostante la conclamata interdisciplinarità, il dibattito rimane nell’ambito accademico, ovvero,
rimane, rinchiuso nel recinto della teoria dove sostanzialmente è nato e cresciuto.
Vedo in verità fra gli autori molti operatori della mediazione familiare ma anche in questi casi, che dovrebbero
in parte avvicinare il mondo accademico alle prassi di lavoro sul campo, il livello esperenziale più significativo
e soprattutto teorico speculativo.
Naturalmente questo è un merito del libro perché è chiaro che chi si confronta con un testo voglia trovarci
tutto e possibilmente anche il contrario di tutto perché nel confronto e nella opposizione delle tesi si vivifica la
conoscenza scientifica.
Tuttavia, nel caso specifico, l’aspetto teorico del problema non tiene conto di una realtà effettuale che è molto
diversa da come la immagina lo studioso il quale, per dirla più semplicemente, spesso confonde l’essere con il
dover essere.
Ora, l’ambito delle problematiche familiari investe davvero una pluralità di soggetti che s’identificano in
massima parte con gli esponenti stessi della famiglia allargata e con gli insegnanti là dove ci siano figlioli in età
scolastica; con la stessa rilevanza è sempre presente il medico, appunto, di famiglia ma anche il prete là dove ci sia
l’osservanza di un culto religioso.
Molto più raramente partecipano e conoscono la problematica familiare assistenti sociali, psicologi, educatori,
avvocati, magistrati e quando ciò avviene stiamo parlando della patologia della famiglia che, per quanto possa
essere sempre più diffusa, rappresenta una minoranza non rappresentativa dell’universo di studio in oggetto.
Voglio dire che mi piacerebbe che qualcuno desse voce soprattutto a quella pluralità di soggetti che nulla ha a
che vedere con le istanze patologiche che si sviluppano nella famiglia.
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Perché, in verità, molto ci possono insegnare le famiglie non patologiche in materia di mediazione e di
risoluzione dei conflitti atteso che la patologia familiare nelle diverse sfaccettature alla fine si identifica con
l’incapacità a gestire la mediazione.
La principale osservazione che si può fare alla indiscussa fiducia nella mediazione per la risoluzione dei
conflitti è quindi la singolarità della pretesa di voler utilizzare il principale sintomo del disagio per risolvere il
disagio stesso. Questo aspetto non mi sembra sufficientemente sviluppato nella discussione
Segnalato, allora, che la problematica della mediazione familiare non può rimanere solo speculazione
accademica ma deve necessariamente confrontarsi in primo luogo con gli stessi attori e con gli operatori che
intervengono sulla patologia familiare, a volte anche aggravandola, gli aspetti che più mi hanno intrigato nel
volume di cui parliamo sono legati alle mie esperienze professionali dapprima come operatore sociale del disagio
e da ultimo come giudice del tribunale dei minori. Se non mi sbaglio fra gli autori ho visto qualche avvocato ma
non mi sembra di aver visto giudici.
Se così è si tratta di una grave lacuna perché nel disagio patologico della famiglia il giudice è soggetto
importante ed a volte risolutivo. Voglio sperare che non si tratti di una scelta ma piuttosto di una semplice svista
che può derivare certamente dalla normale riluttanza dei giudici ad esporsi al di fuori dell’ambito giudiziario.
Ma potrebbe anche essere una scelta perché l’idea che il giudice possa essere considerato non il medico
della famiglia patologica ma la stessa causa della patologia della famiglia non è certamente peregrina e di certo
appartiene al dibattito politico sociale atteso che stiamo parlando di funzioni e competenze stabilite dalla legge.
Io stesso, molti anni fa, ho sostenuto questa tesi in relazione alle competenze del Tribunale dei minorenni
nel disadattamento minorile. Per la cronaca siamo negli anni settanta ed il luogo è un’aula universitaria dove
discutevo la mia tesi di laurea sulla giustizia minorile, relatore Domenico De Masi.
Oggi, ho cambiato idea e non certo perché mi sono trovato a vivere l’esperienza del giudice minorile ma
soprattutto perché è cambiato il contesto operativo della giustizia minorile.
In quegli anni la risposta istituzionale alla devianza minorile, come del resto per qualsiasi diverso tipo di
devianza, era esclusivamente di tipo repressivo ed il giudice era sostanzialmente l’amministratore della repressione
istituzionale, ovvero, colui che infliggeva esclusivamente misure punitive quali il riformatorio giudiziario - misura
di sicurezza detentiva inflitta quando non era possibile infliggere una condanna penale per ridotta incapacità
d’intendere e volere - la casa di rieducazione destinata a minori che non avevano commesso alcun reato ma che
erano solo disadattati, ovvero, davano fastidio agli adulti; il carcere minorile in caso di reati anche minimi; esisteva
già l’istituto della messa alla prova ma non era certamente la misura più in voga fra i giudici di allora.
Il giudice minorile, oggi, ha a disposizione un ampio strumentario di misure che possono essere graduate in
molti modi e gli è praticamente inibito l’uso di misure restrittive della libertà che era appunto la principale critica
rivolta ad un sistema giudiziario che aveva la pretesa di perseguire obiettivi educativi fondati sulla costrizione e
non sulla libera scelta dell’individuo.
Questo modesto escursus nelle reminiscenze del passato di chi scrive non è dettato dalla nostalgia di tempi
ormai andati ma nasce proprio da un tema ricorrente nel libro curato dalla Urso e che per altro m’intriga
parecchio.
Mi riferisco al richiamo dell’esigenza di una “giustizia mite” ed appunto mi veniva da pensare cosa avrebbero
scritto in proposito se avessero conosciuto la giustizia minorile negli anni settanta, diciamo, prima della riforma
della legge sull’ordinamento penitenziario del “75.
Il tema della giustizia mite viene introdotto per affermare le possibili alternative alla giurisdizionalizzazione
delle vicende che si sviluppano nelle famiglie investendo soprattutto le competenze minorili.
Ora la mitezza della giustizia, a mio avviso, viene invocata sopratutto per quanto riguarda le competenze
amministrative e civilistiche a fronte del potere del giudice ad entrare a gamba tesa nelle vicende della famiglia.
Ma il giudice entra nelle vicende familiari perché non c’è accordo; ad esempio va citata l’esperienza
del Tribunale per i minorenni cui, per un certo periodo di tempo, è stata attribuita la competenza sulla
regolamentazione dei rapporti genitoriali delle coppie di fatto con figli quando decidono d’interrompere la
relazione.
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Bene. In questo caso non vi è alcun obbligo a recarsi dal giudice neppure per omologare un accordo fra le parti
eppure abbiamo visto le coppie di fatto litigare come o più delle coppie sposate che si separano mettendo persino
a repentaglio l’integrità psico fisica dei figli che a volte devono cautelativamente essere sottratti alla patria potestà
dei genitori ed affidati ai nonni ai sensi dell’art.333 del codice civile.
L’invocazione della giustizia mite quando si riferisce all’ambito civilistico della famiglia sconta l’equivoco
pericolosissimo, per le parti più deboli, della cultura dei pannisporchichesilavanoinfamiglia .
Una cultura antica che penalizzava soprattutto le donne ed i bambini; quanti casi di abuso si sono consumati fra
le mura domestiche? e quante recriminazioni, in questi casi, sul mancato intervento dei servizi e del magistrato?
In materia penale, francamente, mi pare difficile essere più miti se in tutto il Paese la popolazione detenuta
minorenne ammonta a poche centinaia di persone; se la maggior parte dei processi si conclude con il perdono
giudiziale o con la messa alla prova anche in caso di reiterate condotte delinquenziali persino di una certa
gravità; se le uniche condanne detentive inflitte sono relative a condotte recidivanti in assenza dell’imputato
extracomunitario irreperibile sul territorio nazionale che non verrà neppure a conoscenza della condanna inflitta.
Dall’eccesso di carcere, che da giovane operatore ho vivamente contestato, al niente di niente carcere di oggi.
Il minore, anche sorpreso in flagranza di reato, viene rinchiuso in un carcere minorile per un tempo limitato e
breve dopo di che la misura deve essere revocata o sostituita con altra misura non coercitiva quale l’inserimento
in comunità dalla quale, appena il minore arriva, può andar via, anche subito, senza che ci possa essere altra
possibilità di trattenerlo fino al processo; sicché costui non subirà neppure la punizione del processo e del giudizio
che, secondo i teorici della giustizia mite, andrebbe sostituito con le procedure delle mediazione.
Questo scenario è relativo al minore extracomunitario e si fonda sul presupposto dell’irreperibilità; per il
minore italiano o, per essere più precisi, per il minore residente e reperibile, la condanna penale del carcere è
rarissima e viene applicata solo per reati gravissimi mentre per la maggior parte dei casi si considera il processo già
una punizione ed il conseguente perdono giudiziale viene applicato quasi in automatico; quando non è possibile
la misura del perdono, in assenza dei requisiti previsti dalla legge, si ricorre alla messa alla prova che, in sostanza,
obbliga il ragazzo a fare le cose che normalmente fa o farebbe un ragazzo con l’impegno aggiuntivo in attività di
servizio volontario alla comunità presso enti ed associazioni di carattere assistenziali.
Anche la mediazione, pur prevista dall’ordinamento, è rarissima e devo dire che, nel corso della non breve
esperienza come giudice minorile, mi è capitato di vederla applicata pochissime volte con grande gioia del
collegio giudicante e sopratutto del giudice estensore che risparmia la scrittura di una sentenza più complessa.
In verità. nel processo penale minorile la parte lesa non ha letteralmente voce in capitolo e non può costituirsi
come parte nel processo ma può solo assistere alle udienze riservando ogni azione risarcitoria ad una eventuale
causa civile nei confronti dei genitori del minore autore del reato. Non vi è alcun interesse fra le parti a trovare
il modo di conciliare la vertenza perché come si è detto il giudice è già mite di suo ed il ricorso alla mediazione
è una misura che ha una fortissima concorrenza nell’istituto della mesa alla prova che, come è noto, comporta, in
caso di esito positivo della prova, addirittura l’estinzione del processo. Inoltre, la mediazione, sarebbe comunque
a costo zero perché l’alternativa è una lunghissima causa civile dagli esiti incertissimi.
Bisognerà chiedersi, poi, se la parte lesa, anche nel processo ordinario per adulti, abbia davvero voglia di
mantenere una qualche relazione con l’autore del reato presupposto imprescindibile per avviare la mediazione.
Io penso proprio di no e nessuno potrà mai convincermi del contrario.
In realtà la mediazione nel nostro ordinamento giuridico non è una prassi extragiudiziale ma è sempre e
comunque una questione che riguarda principalmente il giudice che la dispone e l’avvocato cui viene demandato
il compito di gestirla nell’ambito di una procedura che rimane giudiziaria a tutti gli effetti.
La vera alternativa sarebbe l’attivazione di percorsi diversi e del tutto indipendenti da quelli giudiziari cui
ricorrere solo come estrema ratio.
Ma come si fa se si considera che in questo paese c’è il più alto indice di litigiosità e ci sono più avvocati che
in qualsiasi altro paese?
La più recente normativa in materia di mediazione, per ora, non sembra aver sortito i risultati sperati ed il
superamento della pregiudiziale ostilità del mondo forense non sembra far bene sperare dato che appare, anche
in questo caso, singolare che una professionalità vocata alla gestione del conflitto si sia riciclata per la gestione
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della mediazione.
Ma una speranza c’è ed è quella di stimolare la crescita di una cultura della mediazione con l’obbiettivo
ambizioso di diventare il Paese meno litigioso.
A tale proposito mi è sembrato molto interessante il saggio di Maria Martello dove si analizzano i processi
d’insorgenza di una cultura del conflitto proprio tra i banchi scolastici ma dove esiste anche la possibilità d’imparare
la mediazione.
Mi viene da pensare che con la teoria del funzionamento di una bicicletta di cui si sa tutto con assoluta certezza
nessuno è mai riuscito ad imparare ad andare in bicicletta; per imparare occorre salire sul sellino e pedalare,
cadere e rialzarsi.
Così come per tante attività umane che si possono fare senza sapere necessariamente come funziona e perché
funziona la mediazione, comunque la si voglia definire, richiede l’esercizio e la pratica, il tentativo e l’errore;
quindi la scuola quale migliore palestra per capire quanto sia più conveniente mettersi d’accordo piuttosto che
litigare.
(Roberto Grippo)
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Gian Primo Cella, Persone finte. Paradossi dell’individualismo e soggetti collettivi
Bo­logna: il Mulino, 2014,
ISBN: 978-88-15-25436-8
Questo libro - lo si scopre fin dall’inizio, ma viene riaffermato più volte anche nelle sue conclusioni - nasce da
un interrogativo che però è anche, in certa misura, una sorpresa per lo studioso. E’ pure una reazione del sociologo
di fronte alla «diffusione a tratti inarrestabile, non solo nelle scienze sociali, di argomenti di taglio individualista
per interpretare le relazioni e le dinamiche sociali, proprio nel momento in cui si affer­mano e talvolta dominano
attori e soggetti di tipo collettivo» (p. 7). A questo parados­so, si accompagna la scoperta di una «finzione» che
«ci permette di considerare i sog­getti collettivi come se fossero soggetti individuali», fino al punto di inventarli
come “perso­ne” e quindi – in quanto “maschere” di hobbesiana memoria – capaci non solo di rap­presentazione ma
anche di rappresentanza, di rispecchiamento ma anche di interpre­tazione (pp. 13-18, 60-61): appunto le «persone
finte» del titolo (pp. 35-37), individui metaforici che riu­niscono soggetto (standing for) e attore (acting for) in
configurazioni collettive che non si esauriscono nella sommatoria o nel rispecchiamento delle singole individualità
(e volontà) che le compongono. Questa finzione e questa in­venzione non bastano però a risolvere il paradosso
olsoniano (del free rider) nel compor­tamento so­ciale dell’astratto individuo razionale – l’idealtipo del pensiero
economico – rispetto al soddisfacimento cooperativo dei suoi bisogni e interessi particolari (pp. 23-24). E’ ne­
cessario allo­ra ricorrere alle categorie del riconosci­mento e quindi dell’identificazione e della distin­zione, accanto
a quelle del contratto, per indagare quel meccanismo di attri­buzione da parte del soggetto individuale al soggetto
collettivo (pp. 53-55), che permet­te a que­st’ultimo, in quanto «persona finta», di parlare e agire “in nome di” e
“per conto di” come se fosse un individuo, senza esserlo ovviamente nella realtà non metaforica.
A Cella interessano dunque i soggetti/attori collettivi nella loro relazione sociale duplice con l’individualità, nel
senso che sono composti da singoli individui ma si com­portano, sono riconosciuti, sono rappresentati anche come
individui/persone: un percor­so teorico ma anche storico in cui si corre il rischio di incontrare però «individui
che non sono persone, persone che non sono individui, individui che sono persone collettive, soggetti collettivi
che non sono persone» (p. 8). In particolare all’autore interessano i soggetti collettivi capaci di esprimere una
funzione di rappresentanza in sistemi pluralistici di relazioni fra gruppi organizzati (come quelli sindacali) e quindi
governati al loro interno dal principio di maggioranza. Si tratta di quei soggetti collettivi «entro i quali gli individui
cercano di essere rappresentati non tanto da altri soggetti individuali (come avviene quasi sempre nelle assemblee
politiche elettive), quanto attraverso la struttura del gruppo stesso» (p. 123), che si costituisce in soggetto
collettivo passando da una fase delle origini, di identificazione e riconoscimento, come attore. Quattro “discorsi”
sono coinvolti diretta­mente nel definire questo specifico soggetto collettivo: la teoria della rappresentanza; la
teoria della decisione; la teoria della formazione del soggetto (individuale e collettivo) e quindi la costruzione
dell’identità e il riconoscimento sociale; la teoria del potere performativo (e quindi il rapporto con le teorie
del linguaggio). Accanto a questi “discorsi”, Cella ne accosta altri due indiretti: la teoria della democrazia nelle
organizzazioni di rappresentanza; l’azione collettiva con i suoi paradossi già richiamati rispetto agli orientamenti
individuali (pp. 66-90). Siamo di fronte al «mistero del ministero», a quell’«alchimia della rappresenta­zione», a
quella «magia» (qui Cella cita Bourdieu) che «costituisce non solo il soggetto collet­tivo, ma an­che il gruppo che
proprio attraverso questo soggetto pretende di essere rap­presentato» (p. 84).
Molte altre sorprese ci riserva questo testo di Cella, che – per quanto apparente­mente sintetico – è di una
ricchezza notevole, talvolta erudita sempre colta (che spazia non solo dai teori­ci sociali ma agli storici, ai filosofi,
ai linguisti, ai giuristi, agli economisti), senza tuttavia perdere mai di vista l’asse centrale della sua argomentazione
e il suo filo con­duttore. Da questo punto di vista il recensore è in difficoltà a dar conto in poco spazio della
complessità raffinata espressa da questo lavoro, esplicita ma anche tante volte al­lusiva verso altri stimoli e altre
ipotesi: tanto più il recensore è in difficoltà se è uno stori­co e come tale poco attrezzato. Ci troviamo di fronte a
sor­prese che servono ad esem­plificare i paradossi di cui sopra, come nel caso del richiamo al famoso medievista
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Ernst H. Kanto­rowicz (lo studioso dei “due corpi del re”, quello naturale, mortale, e quello mistico, proiezione
del ruolo, immortale), il quale, fuggito negli USA dalla Germania nazista, casualmente scopre, sbalordito, che
l’ordine benedettino, come tutte le orga­nizzazioni ecclesiali e le confraternite religiose, per il mondo americano
sono giuridica­mente di­ventati né più né meno che corporations e quindi degne dell’epigrafe Inc. esattamente come
le imprese: per lo storico europeo certe istituzioni tradizionali si presen­tano così, al di là dell’Oceano, come
«persone inattese, e sorprendenti» (pp. 92-94). Sono sorprese che si aprono improvvisamente ad altre piste
teoriche e metodologiche: ad esempio nel­l’approfondito confronto di Cella con lo «strano indivi­dualismo di un
grande teorico so­ciale» quale James S. Coleman (cui viene dedicato tut­to il II capitolo, pp. 39-57), nel tentativo
di superare da una parte le aporie dell’individualismo me­todologico imperante e dall’altra quelle del realismo
olistico e strutturalista in crisi, un confronto che ricorre per tutto il lavoro di Cella.
Queste sorprese rispondono inoltre agli interessi che più recentemente l’autore ha svi­luppato nella sua
riflessione scientifica, mostrando una straordinaria curiosità: in termi­ni di contributo al dibattito teorico nelle
scienze sociali, come è avvenuto già nel prece­dente Tracciare confini del 2006; ma anche nei termini di una
problematizzazione di un tema di studio a lui caro, quale quello della sociologia del lavoro e delle relazioni
indu­striali, nella misura in cui Cella ha approfondito la questione – in più momenti nel corso degli ultimi anni –
tornando sopra le culture sindacali, la loro formazione e interazione costitutiva e il loro essere soggetti e attori
collettivi, aggan­ciandosi alle dinamiche di lungo periodo. In fondo, l’attenzione al linguaggio e alla co­struzione
culturale che ne deriva nella costituzione dei fatti sociali, in Cella si sposa al suo tradizio­nale interesse verso gli
attori collettivi, e segnatamente per le organizzazioni di rappresentanza degli interessi funzionali come i sindacati.
D’altro canto indagare quel particolare soggetto collettivo che è il sindacato serve anche ad illuminare la natura
delle «persone finte» in generale, nel loro rapporto con i singoli individui che ad esse si riferiscono.
Sono elementi che si ritrova­no tutti in questo ultimo libro e sono ben sintetizzati dal confronto che l’autore
svolge in più punti con il discorso giuridico, da una parte, e dall’aggancio che cerca sempre con la dimensione
storica dei processi sociali, dall’altra. Per usare una sua «facile frase a effetto, non è il diritto [ma può valere anche
per altre forme di linguaggio meno cogenti] che cambia perché cambia la società, ma è la socie­tà che cambia
perché cambia il diritto» (p. 95). Per inciso, come lo stesso Cella sottoli­nea, diritto e storia sono due am­biti di
confronto cui la teoria sociale negli ultimi decen­ni si è sostanzialmente sottratta o che comunque ha sottovalutato,
privandosi di ogni spessore non solo spaziale ma anche temporale rispetto ai fenomeni indagati e lasciando
spazio così alla naturalizzazione del discorso economico sul comportamento dell’indi­viduo razionale. Non è un
caso quindi che le citazioni iniziali del volume siano di Wil­liam F. Maitland e Hans Kelsen, a ricongiungere le
indicazioni che sulle «persone finte» possono venire dalla tradizione di common law anglo-sassone e da quella conti­
nentale del diritto positi­vo. Come non è un caso che in questo lavoro di Cella ricorra, soprattutto all’inizio e alla
fine del libro, il riferimento alle origini storiche dei fonda­menti giuridici delle personae fictae nel diritto canonico
e nella costituzione della Chiesa e degli ordini religiosi come cor­pus mysticum, da cui deriva poi tutta la storia
dell’ordinamento sociale medievale e moderno e della sua storia di corpi e istituzioni intermedie fino allo Stato
come perso­nalità giuridica (pp. 10-11, 94-113).
Il problema di Cella, in quanto sociologo, è non solo analizzare, clas­sificare, tipicizzare il compor­tamento dei
soggetti e degli attori collettivi nel presente, ma indagarne la specifica na­tura e quindi tener conto delle origini
(p. 91). In questo senso la parte finale del libro dedicata al voto di maggioranza, alla sua affermazione nella
dinamica sociale e al suo senso nel trasformare e ridefinire la funzione di rappresentanza (pp. 114-118), chiude
un po’ il cerchio fra individuo e soggetto collettivo: l’autore cita Norberto Bobbio, all’in­terno di una lunga
digressione storica sulle origini medievali del principio maggiorita­rio, quando dice che «il passaggio dalla regole
dell’unanimità a quella della maggioran­za avviene sempre con il costituirsi di un corpo collettivo» (p. 116), ovvero
è il rico­noscimento come «persona finta» ad un soggetto agente per conto di tutti e a cui viene attribuita da tutti
i componenti singoli del gruppo questa facoltà.
(Pietro Causarano)
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Maarten Keune, Amparo Serrano, Deconstructing Flexicurity and Developing Alternative Approaches:Towards New Concepts and Approaches for Employment and Social Policy
London, Routledge, 2014, ISBN: 9780415634267
Ci sono dei libri che per varie ragioni, difficili da riassumere nel breve spazio di una recensione, ruotano attorno
a un’idea forte che costituisce la loro struttura portante e che sono in grado di esplicitare con grande chiarezza il
loro principale messaggio chiave. In alcuni di questi casi si tratta di libri che vale davvero la pena leggere, e questo
avviene soprattutto quando ruotano attorno a idee chiave di particolare rilevanza per la comprensione delle
trasformazioni delle società contemporanee e quando ci offrono degli strumenti che contribuiscono a rafforzare
la nostra cassetta degli attrezzi di scienziati sociali. Il volume curato da Maarten Keune e Amparo Serrano si
colloca proprio tra questi contributi utili e fortunati: ruota attorno a un tema centrale, e ne analizza le principali
implicazioni dal punto di vista teorico e empirico tenendo assieme in modo coerente contributi di studiosi di
varia estrazione disciplinare – quali Colin Crouch, Carlos Prieto, Maria Jepsen, Günther Schmid, Robert Salais,
Bénédicte Zimmerman, Hartley Dean e Dominique Méda – ed esplicita molto chiaramente le proprie finalità dal
punto di vista cognitivo. In particolare, il volume si concentra sulla costruzione sociale e politica del ‘concetto’ di
flexicurity che negli ultimi anni è diventato uno dei principali strumenti di un paradigma di policy che ha una diretta
ricaduta sulle modalità con cui le politiche del lavoro sono costruite e soprattutto sui loro contenuti. I contenuti
dei vari capitoli del volume ci raccontano molto dell’importanza delle idee, della loro influenza nello strutturare
le azioni di governi, parti sociali, istituzioni internazionali, ed evidenziano che le idee che sono il risultato di un
processo complesso, fatto da conflitti, da relazioni di potere, da interpretazioni diverse e contrapposte.
Prima di scendere più nel dettaglio sul contenuto del volume credo sia però utile far riferimento molto
brevemente al dibattito in cui il volume può essere inserito, proprio per evidenziarne i caratteri innovativi e
qualificare meglio il suo possibile contributo in termini di offerta di nuovi strumenti di analisi. Si tratta di un
dibattito che popola le scienze sociali, e in particolare lo studio del lavoro e del welfare e della loro regolazione,
oramai da una quindicina d’anni. È un dibattito che si può far risalire all’uscita nel 2001 del volume curato da
Peter Hall e David Soskice su Varieties of Capitalism, uno dei libri più influenti del filone di studio sul capitalismo
comparato. Tale volume ha dato avvio a una importante stagione di ricerca che ha visto come protagonisti studiosi
provenienti da diversi campi disciplinari, dall’economia alla scienza politica, dalla sociologia alla storia economica
per arrivare al diritto. È anche grazie a questi lavori che è stata evidenziata l’importanza del rapporto tra assetto
regolativo e dinamicità economica, che sono state approfondite le ragioni per cui alcuni modelli danno vita a
maggiore diseguaglianza rispetto ad altri, che sono state chiarite le tendenze recenti di riorganizzazione di alcune
importanti arene istituzionali come il mercato del lavoro, il welfare o le relazioni industriali. Negli ultimi tempi,
però, tale filone sembra aver perso parte della sua spinta propulsiva; o meglio sembra che la gran parte delle cose
più rilevanti sul tema della varietà dei capitalismi siano già state dette. Tanto che ci sono autori di riferimento per
questo campo di studi, come ad esempio Wolfgang Streeck (2011), che sostengono che occorre iniziare a guardare
nuovamente al capitalismo e non tanto ai capitalismi.
Quello che ai fini di questa recensione è utile sottolineare è che tale momento di “stallo cognitivo” ha
paradossalmente contribuito a dar nuova linfa a questo filone di studi: come spesso succede nei momenti di crisi
di alcuni paradigmi, si sono progressivamente diffuse prospettive analitiche più eterodosse, punti di vista nuovi,
approcci metodologici di tipo innovativo. Tra questi elementi di novità un ruolo di grande interesse viene da un
tema tipico della sociologia, che però sino a oggi era passato un po’ inosservato in tutto quell’ampio filone di
studi che rientra nella cosiddetta comparative political economy. Si tratta del tema delle idee e di come queste sono al
contempo frutto e causa dei processi di trasformazione sociale. Solo per fare qualche esempio di volume recenti
e interessanti su questo tema, si vedano i lavori di Campbell e Pedersen su come nascono le idee di policy e su
come queste indirizzano le politiche (2014) oppure i volumi di Crouch (2011) e di Schmidt e Thatcher (2013)
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che si chiedono da dove venga la forza e la persistenza delle idee neoliberiste, o il volume di Mark Blyth (2013)
che approfondisce su uno dei concetti che più stanno influenzando la politica economica dei paesi europei, quello
di austerità. È in questo quadro che si colloca il volume curato da Keune e Serrano, che guarda a temi tipici del
filone della varietà dei capitalismi e della comparative political economy, come appunto la regolazione del lavoro e
del welfare e i suoi effetti, partendo però proprio dall’importanza delle idee, e in particolare dall’analisi di uno
dei concetti chiave che hanno guidato le riforme degli ultimi anni, appunto quello di flexicurity. Nel far questo
gli autori e i curatori offrono una serie di elementi di grande interesse, alcuni dei quali provo a richiamarli nella
seguente e non esaustiva lista.
Il primo è legato al fatto che nel volume si distingue chiaramente – e opportunamente - tra il concetto in
questione e i contenuti che gli vengono dati; l’interpretazione del concetto di flexicurity può infatti variare dalle
situazione e dagli attori che lo usano. A questo proposito è particolarmente indicativa la sezione riportata nella
prima parte del volume dove si mostrano le differenti interpretazioni da parte dei sindacati e dei datori di lavoro
a livello europeo (ETUC e BusinessEurope): entrambi, sindacati e datori, sono ovviamente a favore dell’utilizzo
di tale concetto, ma lo interpretano in modo molto diverso e spesso contrapposto. Tanto che verrebbe da pensare
che proprio la plasticità del concetto di flexicurity sia un suo specifico punto di forza dal momento che consente di
usarlo in modo vago e poco definito, così da poter legittimare le politiche più diverse.
Il volume è interessante anche perché sottolinea con forza come concetti di policy di grande successo – come
appunto quello di flexicurity – non si diffondono perché sono migliori di altri o perché offrono una chiave di lettura
che ci consente di risolvere determinati problemi. In altre parole, nel volume non viene affatto utilizzata una
prospettiva “funzionalista”, come invece fa chi sostiene che tale concetto si è affermato perché ha dei contenuti che
si sposano perfettamente con le riforme ‘necessarie e inevitabili’. Come ben mostrano i vari contributi di questo
volume, invece, tali concetti si affermano a seguito di vere e proprie battaglie cognitive, e il loro successo è frutto
di rapporti di potere (si vedano su questo punto i capitoli di Crouch e di Prieto), ed è sempre possibile individuare
concetti e percorsi che sono alternativi e magari anche più efficaci ma che non si sono affermati con tanto successo
(si veda la seconda parte del volume, con i capitoli di Salais, Méda, Schmid).
Terzo aspetto interessante. Gli equilibri di potere che portano all’affermarsi di determinati concetti sono
instabili, o come dicono i curatori nel loro capitolo introduttivo: the contents and meanings of these concepts are the
result of permanent struggles and fluctuating balance of power. Tale instabilità ci spiega anche la caducità di alcuni concetti
chiave, che ad un certo punto iniziano a non essere più utilizzati per essere progressivamente o bruscamente
rimpiazzati da altri. E questa potrebbe essere anche una interessante pista di ricerca, che non è sviluppata nel
volume, volta ad approfondire le trasformazioni nella regolazione dell’economia e del lavoro legandole a come
sono cambiati nel tempo i concetti chiave a cui i policy-makers hanno fatto riferimento; da questo punto di vista,
solo per fare un esempio, sarebbe molto interessante guardare a come è cambiato il concetto di solidarietà, che
ha molti punti di contatto con quello di flexicurity, e come tali cambiamenti siano andati di pari passo con una
importante serie di trasformazioni che hanno toccato l’architettura regolativa del cosiddetto modello sociale
europeo.
Un quarto elemento di interesse è legato al fatto che, mostrano gli autori, tali concetti non sono neutri, ma si
basano su una “visione del mondo” che presuppone un determinato tipo di concezione del lavoro, della giustizia
sociale, della disoccupazione, delle politiche del lavoro; la flexicurity non ci dice solo che è necessario combinare
flessibilità e sicurezza, ma ci offre una chiave che ci suggerisce anche come flessibilizzare il mercato del lavoro e
quali forme di sicurezza promuovere (si vedano i capitoli di Keune e Serrano, Jepsen, Crouch, Prieto). E questo con
risultati finali che possono andare in una direzione imprevista e anche perversa rispetto alle intenzioni originarie:
i vari capitoli del volume mostrano infatti come tale concetto abbia favorito, nelle sue varie forme e modalità di
applicazione, la realizzazione di riforme che invece di promuovere un equilibrio bilanciato tra flessibilità e sicurezza
hanno promosso diseguaglianza, crescita di occupazione di bassa qualità e un indebolimento dei diritti sociali. Più
in generale, tale concetto ha influenzato uno spostamento verso politiche del lavoro volte all’attivazione e che
enfatizzano la responsabilità individuale dei soggetti. E su questi punti si aggancia l’analisi che si ritrova in molti
capitoli del volume sul ruolo che la Commissione Europea ha svolto nell’influenzare la diffusione del concetto di
flexicurity e il successo di alcune sue interpretazioni.
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Tutto questo ci rimanda direttamente a un ulteriore elemento di interesse del volume, relativo all’importanza
dei modi con cui si misurano i risultati delle politiche (si vedano i capitoli di Keune e Serrano, di Méda e di Salais),
ovvero gli indicatori che si scelgono per capire se si sta andando nella giusta direzione e per valutare l’operato
di attori pubblici e privati. Troppo spesso dimentichiamo lo stretto rapporto che lega obiettivi e indicatori delle
politiche e quanto la scelta degli indicatori da adottare non sia mai una scelta neutra o priva di conseguenze.
Ad esempio, si sceglie di valutare le politiche del lavoro attraverso indicatori che misurano il costo complessivo
per nuovo addetto creato oppure indicatori che mostrano la loro capacità di dar vita a un’occupazione stabile e
duratura nel tempo? Ci diamo come obiettivo quello di innalzare di un certo numero di punti percentuali il tasso
di occupazione, oppure quello di predisporre un set di indicatori complesso che ci offra informazioni sulla qualità
del lavoro creato? Le metriche che si usano per dare raccomandazioni di policy e per valutare le riforme che si
stanno mettendo in campo fanno parte di questo complesso insieme di fattori cognitivi che orientano in modo
molto marcato l’azione degli attori soprattutto laddove vi sono elementi di premialità, e per questo meriterebbero
una attenzione maggiore da parte di chi studia la governance socio-economica del capitalismo contemporaneo.
Infine un ultimo elemento di interesse del volume che vorrei sottolineare è dato dalla sua composizione che
tiene assieme due ‘famiglie’ di contributi. La prima che guarda alla flexicurity e alla sua ‘applicazione’ concreta su
una serie di temi chiave come l’andamento del mercato del lavoro, la qualità del lavoro e l’eguaglianza di genere
(i capitoli di Crouch, Prieto e Jepsen). Il secondo gruppo di contributi offre invece una discussione approfondita
su una serie di visioni ‘alternative’ sul funzionamento del mercato del lavoro e sulla sua regolazione, relative ai
cosiddetti transitional labour market, all’approccio delle capacitazioni, all’approccio etico al welfare, e a quello sulla
qualità del lavoro (capitoli di Schmid, Salais, Zimmermann, Dean e Méda). Diviene così possibile non solo vedere
le criticità del modo in cui tale concetto è stato utilizzato, ma anche approfondire alcune strade alternative che
sono state proposte proprio per superare tali limiti. A queste due parti fa da introduzione un bel capitolo di Keune
e Serrano che non si limita e ricordare i contenuti dei capitoli ma che anzi offre un quadro teorico complessivo
molto approfondito ed evidenzia in modo chiaro il valore aggiunto di questo lavoro.
Emerge così dal volume una chiara prospettiva analitica: si guarda a un concetto specifico che negli ultimi anni
ha influenzato la regolazione del lavoro di molti paesi europei, facendo luce sul processo di costruzione sociale
e politica che ha portato al suo ‘successo’, sottolineando le sue criticità e individuando delle possibili strade
alternative. È questa una prospettiva analitica utile? Può essere utile solo per l’analisi del concetto di flexicurity?
Evidentemente sì, è utile, ed evidentemente no, non serve solo a studiare il concetto di flexicurity: si pensi ad
esempio a quanto un approccio come quello utilizzato in questo volume potrebbe essere utile per studiare altri
concetti chiave che stanno guidando la regolazione del lavoro, come ad esempio quelli di investimento sociale
o di attivazione, ma si pensi anche ad altri concetti che hanno dominato gli ultimi anni di riforme e regolazione
del capitalismo europeo, come ad esempio il concetto di austerità (così ben studiato nel volume di Mark Blyth
sopra richiamato). Per questo guardare alle idee, a come vengono interpretate e alla loro complessa costruzione
può essere un percorso di ricerca di grande interesse per comprendere meglio le trasformazioni di quell’Europa
sociale ed economica che negli ultimi tempi sta attraversando un periodo così delicato e pieno di incertezze.
Riferimenti bibliografici
Blyth M. (2013), Austerity:The History of a Dangerous Idea, Oxford: Oxford University Press.
Campbell J.L., Pedersen O. K. (2014), The National Origins of Policy Ideas: Knowledge Regimes in the United States,
France, Germany, and Denmark, Princeton: Princeton University Press.
Crouch C. (2011), The Strange Non-Death of Neo-liberalism, Oxford: Polity Press.
Schmidt V. A., Thatcher M. (2013), Resilient Liberalism in Europe’s Political Economy, Cambridge: Cambridge
University Press.
Streeck W. (2012), E Pluribus Unum?Varieties and Commonalities of Capitalism, MPIfG Discussion Paper 10/12.
(Luigi Burroni)
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[Recommendations]
Cesare Silla, Marketing e desiderio. Una genealogia del capitalismo di consumo, Roma: Carocci editore, 2013, pp. 207,
ISBN: 978-88-430-6987-3
Following the Nietzsche-inspired Weberian method, the author develops a genealogy of consumer capitalism in
America between 1890 and 1930 through a deep historical search conducted on primary sources and archival
materials. The study traces back the conditions of emergence of consumer capitalism and shows how the twine
between the satisfaction of desires and the consumption of goods came into being and the reasons why it is still so
crucial for our lives nowadays.
Harmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Torino: Einaudi, 2015,
pp. 125, ISBN: 978-88-06-22662-6
Modern life is characterized by a general lack of time and an apology of haste. The study analyzes the causes and
effects of time acceleration processes generating new forms of social pathologies linked to relationship between
time and space, things and actions, the perception of self. The acceleration of time is now a “power” dominating
the modern society in a totalitarian way. Following the main thesis of Critical Theory, the author tries to draw a
theoretical way to fight the alienated society.
Stefano Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Bari-Roma: Laterza, 2014, pp. 141, ISBN: 978-88-58-11472-8
What is today the solidarity? Are we sure that is so “anachronistic” as claimed by the theory of liquid society? The
book analyses how this concept has changed over time, both from a legal point of view that social, showing a
fundamental characteristic: go beyond the logic of profit. This aspect shows that solidarity is the “root” for a new
concept of inclusive and open citizenship to the future.
Loretta Baldassar, Greeme Johanson, Narelle McAuliffe, Massimo Bressan (eds), Chinese migration to Europe. Prato,
Italy and beyond, London: Palgrave McMillan, 2015, pp. 376, ISBN: 978-11-37-40024-6
Through an analysis of Chinese migration to Europe (Uk, France and Italy), the book spotlights one of the most
extraordinary examples of Chinese migration to Europe: the city of Prato, Tuscany. Renowned for its historic
textile industry, Prato is now home to one of the largest populations of Chinese residents in Europe, a phenomenon
that is remarkable not only for its magnitude but also for the speed with which it has developed.
Maria Clara Rossi, Marina Garbellotti, Michele Pellegrini (a cura di), Figli d’elezione. Adozione e affidamento dall’età
antica all’età moderna, Roma: Carocci, 2014, pp. 302, ISBN: 978-88-43-07141-8
This volume examines the long evolution of adoption and custody of children, from the second millennium
BC until the nineteenth century, alternating between theoretical and analytical searches. The essays collected by
the editors outline a wide range of examples of family, even “extended”, which help to trace the history of this
institution always in transformation.
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Esther Dermott, Intimate Fatherhood: A Sociological Analysis, New York-London: Routledge, 2014, pp. 176, ISBN:
978-1-4338-1003-9
The book presents an interesting framework by which to explore the emotional aspects of fatherhood in contemporary Britain. Dermott points out that looking to the two roles (breadwinner and care-involved father) as
opposite is the result of an old sociological tradition to dichotomise reality: in fact, the two roles can coexist
within the same person. Making use of qualitative interviews and large-scale quantitative research, the Author
presents an acute sociological analysis of fatherhood in relation to time use, emotion, motherhood and public
policies
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[Authors]
Andrea Bellini, Ph.D. in Sociology, is research fellow at the Department of Political and Social Sciences (DSPS)
of the University of Florence. His main research fields are sociology of work, industrial relations, middle classes
and professions. He is author of a book entitled Il puzzle dei ceti medi, published in 2014 by Firenze University
Press.
Chiara Bertone, Ph.D., is Associate Professor in Sociology of Culture at the University of Eastern Piedmont,
Italy. Her main interests lie in gender, sexuality and family change. She has worked on sexual citizenship, nonheterosexual experiences and family relations, critical approaches to heterosexuality and masculinity. She is
currently working on the medicalisation of male sexuality in Italy. She is author of the volumes Whose Needs?
Women’s Organisations’ Claims on Child Care in Italy and Denmark (2002); Le omosessualità (2009); and co-editor of
Queerying families of origin (2014).
Maria Luisa Bianco is Professor of Sociology at the University of Piemonte Orientale. She is currently ViceDirector of the Department of Social Research and President of the Corso di Laurea Magistrale in Società e Sviluppo
Locale. Her research deals with the inequalities: at work and in the professions, in the educational process, and in
the relationships between the genders. Among her publications: La sindrome di Archimede (1982, con A. Luciano),
Tecnologia senza innovazione: l’informatica negli enti locali (1989); Classi e reti sociali: Risorse e strategie degli attori nella
riproduzione delle diseguaglianze (1996); Donne al lavoro. Cinque itinerari fra le diseguaglianze di genere (1997); L’Italia
delle disuguaglianze (2001, ed. by); Razionalità locali. Sociologia dei giovani adulti torinesi (2007, with F. Ceravolo).
Filippo Buccarelli is PhD in Sociology and since 2001 adjunct professor of Sociology, Sociology of Continuing
Vocational Training and Sociology of Deviance at the School of Political Science and the School of Humanistic
and Training Studies, University of Florence. Member of the Editorial Board of the CAMBIO-Review on Social
Transformations, he has been research coordinator of the Social Observatories of the Provinces of Prato and
Pistoia and he is currently Scientific Director of PoieinLab-Social Research.
Brunella Casalini is Associate Professor of Political Philosophy at the University of Florence, where she
teaches Political Philosophy and Theories of Justice and Social Intervention (Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”).
She works on issues related to gender, sexuality and disability. Her publications include: Femminismo e neoliberalismo
(2015, with L. Cini), in «Jura Gentium»; Giustizia, uguaglianza e differenza (2012); Globalizzazione e politica del
lavoro riproduttivo (2011, in A. Palumbo e V. Segreto, eds); Rappresentazioni della femminilità, postfemminismo e sessismo
(2011), in «Iride».
Stefanie Ernst completed her undergraduate degree in sociology, history and social anthropology at the
University of Münster. She has taught sociology at the universities of Dortmund, Münster, Osnabrück, Graz,
Copenhagen and Bloomington. Currently professor of sociology at the Institute of Sociology at the University of
Münster, she teaches at undergraduate and postgraduate levels. Her research interests include: sociology of work,
social theory, gender studies, diversity studies. Last published book: Soziologie. Konstanz: UVK Verlagsgesellschaft
(2011, with H. Korte). She is currently working on the topic Thinking in figurations: a knowledge sociological study
about the next generation of Norbert Elias scholars.
Valeria Gherardini Psychologist and Mediator, she is lecturer and coordinator of the Family Mediation area for
the Master in Mediation, University of Padua and University of Brescia. President of Pragmata Politika, a company
dealing with mediation in every field, she is a trainer working with national and International organizations and an
Expert of the Eu Commission - EACEA Executive Agency.
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Roberto Maria Grippo has been Executive of the External Penal Execution Office of Florence, Prato, Pistoia
and Arezzo. Honorary Judge at the Juvenile Court, he has been adjunct professor of Sociology of Deviance and
Penalty Execution at the School of Political Science, University of Florence. He is currently Vice President of the
Disciplinary Council of Tuscany Social Workers Order.
Marie-Thérèse Letablier is a sociologist, research director of the French National Center for Scientific
Research (CNRS) and a senior research fellow in the Paris Centre d’Economie de la Sorbonne (CES). She is also
associated researcher at the Institut National d’Études Démographiques (INED), and member of the Conseil Supérieur
d’Égalité Professionnelle. Her sociological works concern work, family and gender issues, and focuses on family/
social policies and reforms, reconciliation policies and practices between work and family life. Her research is
inclined to a strong comparative dimension, and recently it focuses on single-parent families as well as policies
to support parenting implemented by companies She has participated in various research networks funded by
the European Commission on family policies, admission policies for young children and reconciling work and
family life. Her main publications include books, articles and book chapters, including: Families and Famly Policies
in Europe (with L. Hantrais, 1996); Familles et travail: contraintes et arbitrages (2001, with J. Fagnani); Social Policies.
Epistemological and Methodological Issues in Cross-National Comparison (2005, with J-C. Barbier); Inégalités entre femmes
et hommes: les facteurs de précarité (2005, with F. Milewski et al.).
Fausto Miguélez, former Professor of Sociology at the Autonomous University of Barcelona, was the director of
the Centre d’Estudis Sociològics sobre la Vida Quotidiana i el Treball (QUIT). Recently named Professor Emeritus
in the same University, is currently involved in researches on social structure, industrial relations, labour market
policies and the relationship between time, work and everyday life. Among his last books: Nuevas organizaciones
del tiempo de trabajo.Tiempo de trabajo: balance de actuaciones en la Unión Europea (2006); Trabajar en prisión (2007).
Elena Spina is assistant professor at Università Politecnica delle Marche, Italy. Her main area of interest is
the sociology of professions, in particular social and health professional groups. Recent publications:, Self-help/
mutual aid as active citizenship associations: a case study of the chronically ill in Italy (with G. Giarelli, 2014) in
«Social Science & Medicine»; An evaluation of the professional status of Italian Midwives (2013), in «Evidence Based
Midwifery».
Angela Tiano Ph.D. student at the Doctoral School of Social Sciences of the Department of Philosophy, Sociology,
Education and Applied Psychology (FISPPA) of the University of Padova. She is currently working at a project on
gay and lesbian parents in Italy.
Luca Trappolin Assistant Professor of Sociology at the Department of Philosophy, Sociology, Education and
Applied Psychology (FISPPA) of the University of Padova, where he teaches Sociology of Differences. His main
fields of research are the transformation of gender identities, the social construction of homosexuality and
homophobia.
Giovanna Vicarelli is full professor of Economic Sociology at Università Politecnica delle Marche, Italy, and
chief director of the Centre for Research and Services on Social-Health Integration. Her fields of study are
professionalism and welfare policies, with particular focus on social and health systems. Recent publications:
Cura e salute. Prospettive sociologiche (2013, a cura di); Gli eredi di Esculapio. Medici e politiche sanitarie nell’Italia unita
(2010).
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Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali
Call for papers
Number 10 / December 2015
The monographic section of the December 2015 issue will focus on the following themes: Work and Differences.
The call aims at contributions, either of an anthropological or sociological perspective, preferably using ethnographic methods and approaches, which would fall into the possible and multiple points of contact between
forms of work, workplaces and work cultures - from one side - and their social, cultural, political and economic
differences - from the other. CAMBIO will welcome contributions of theoretical, empirical and applied research
that investigate the interaction between work and differences, whether of gender, culture, generation, nationality
or socio-economic position.The articles presented must deal with one or more of these differences (and/or actual
inequalities), considering them in their relationship with the various dimensions of work activity. Some fields of
inquiry and/or theoretical analysis can be identified:
a) in forms of work directly related to different backgrounds and nationalities of employers and employees (ethnic
businesses, transnational companies);
b) in the encounter between global dynamics and local work characteristics (multinational companies, outsourcing);
c) in the effects of the economic crisis on different categories of workers;
d) in cultures and forms of work, considered in their differences by generation, gender and geographical area.
The editors are also interested in evaluating contributions to the Journal’s non-thematic area, which includes
the Sections Eliasian Themes, Essays and Researches, and Contributions. They also invite profiles, reviews and recommendations of books, essays and scientific events. The invitation to participate in the selection is intended for
researchers from all fields of the social sciences, with no preference for particular theoretical or methodological
approaches. The texts - unpublished and not submitted simultaneously for evaluation by other journals - must be
sent by October 12th, 2015 to the editors, in docx, doc, or rtf format, according to the Indications for authors
published on our website, at:
[email protected]
The editors determine the publishability of contributions on the basis of the opinions of anonymous referees, in
accordance with the double-blind peer review formula. Exception is made only for articles in the Contributions
section.
The editors will inform authors of the outcome of the referee decisions, and hence acceptance or not of the
article within a month after its submission. The texts sent must be between 30,000 and 50,000 characters (spaces
and bibliographical references included). There must also be attached: a) a brief biographical note (approximately 600 characters, spaces included) with information about the university/institution of membership, research topics pursued, projects in progress, and major publications; b) a short abstract in English, in which the
gist of the article is indicated in a clear and concise manner; c) some keywords (3 to 6, at the close of the English
abstract) in order to recap with extreme brevity the subjects treated.
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Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali
Call for papers
Numero 10 / Dicembre 2015
La parte monografica di Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali in uscita a dicembre 2015 sarà incentrata
sul seguente tema: Lavoro e differenze.
La call intende promuovere contributi di taglio antropologico e sociologico, preferibilmente con approcci
e metodo etnografico, che si situino nei possibili e molteplici punti di incontro tra forme, luoghi e culture del
lavoro, da una parte, e diversità sociali, culturali, politiche ed economiche, dall’altra. Sono attese risultanze di
ricerca teorica, empirica ed applicata che approfondiscano l’interazione tra lavoro e differenze: di genere, di cultura,
di generazione, di cittadinanza, di posizione socioeconomica. Gli articoli proposti dovranno assumere nell’analisi
una o più di queste differenze (e/o vere e proprie disuguaglianze) considerandole nella loro relazione con le
diverse dimensioni dell’attività lavorativa. Alcuni campi di indagine e/o di analisi teorica possono identificarsi:
a) nelle forme assunte dal lavoro direttamente connesse con le diverse provenienze e nazionalità dei titolari e dei
lavoratori (imprese etniche, imprese transnazionali);
b) nell’incontro tra dinamiche globali e caratteristiche locali del lavoro (imprese multinazionali; processi di
delocalizzazione);
c) negli effetti della crisi sulle diverse tipologie di lavoratori;
d) nelle declinazioni - generazionali, di genere e di territorio - delle culture e delle forme del lavoro.
La Redazione è altresì interessata a valutare contributi per la parte non tematica della Rivista. Rimane inoltre
gradito l’invio di schede, recensioni e segnalazioni di libri, saggi ed eventi scientifici.
L’invito a partecipare alla selezione è rivolto a ricercatori di ogni ambito delle scienze sociali, senza alcuna
preferenza per particolari approcci metodologici o teorici. I testi - inediti e non sottoposti contemporaneamente
alla valutazione di altre riviste - devono essere inviati entro e non oltre il 12 ottobre 2015 alla redazione, in file
formato docx, doc, o rtf, seguendo le Indicazioni per gli autori pubblicate sul sito, all’indirizzo:
[email protected]
La decisione sulla pubblicabilità dei contributi spetta alla Redazione sulla base dei pareri di referenti anonimi,
secondo la formula del double-blind peer review. Sono esclusi da tale procedura solo gli articoli destinati alla sezione
Interventi. La Redazione si impegna a comunicare agli autori l’esito del referaggio e l’eventuale accettazione
dell’articolo entro un mese dalla sua presentazione.
I testi inviati devono essere compresi tra le 30.000 e le 50.000 battute (spazi e riferimenti bibliografici
inclusi). E devono essere corredati di: a) breve nota biografica (600 battute circa, spazi compresi) completa
di indicazioni riguardanti università/ente di appartenenza, temi di ricerca seguiti, progetti in corso, principali
pubblicazioni; b) abstract in inglese dove si indicheranno in modo chiaro e sintetico i punti salienti dell’articolo;
c) alcune parole chiave (da 3 a 6, in chiusura dell’abstract) per richiamare, in estrema sintesi, gli argomenti
trattati; d) per i contributi in italiano, titolo dell’articolo anche in lingua inglese.
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