Il mio nome è

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Il mio nome è
La Repubblica
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Il mio nome è...
Aloisia Mdenye ha 42 anni e oggi è a capo di un gruppo di allevatrici di mucche del distretto di Njombe, che vendono il latte
al caseificio “Kiwanda Cha Maziwa” nato da un progetto di cooperazione internazionale per l’autosviluppo promosso da
Cefa Onlus con il contributo di Granarolo nell’ambito dell’Africa Milk Project. La storia di Aloisia inizia nel 2001: “quando
ho capito che l'agricoltura manuale non era un'attività molto redditizia. Allora ho deciso di investire sull'allevamento di
mucche da latte e con i miei risparmi, senza alcuna esperienza nel settore né sussidi del governo, ho acquistato la mia prima
mucca...”. (photo courtesy of Alberto Moia)
In Swahili, “jina langu ni” significa “Il mio nome è”. Aloisia, Amina, Flora, Halima, Rachel, Stella,
Furaha ol tre al nome c'hanno messo anche la faccia per raccontare le loro storie di donne che in
Tanzania stanno facendo la differenza. Cancellando le differenze. Un recente studio della FAO ha
dimostrato che quando le donne hanno accesso al reddito ne destinano una percentuale più alta al
nutrimento, alla cura e all’educazione dei componenti della famiglia rispetto a quanto fanno gli uomini.
Così abbiamo deciso di proporvi queste 7 donne speciali che vivono in Tanzania, dove la partecipazione
delle donne alla vita economica, sociale, culturale e politica è uno dei fattori determinanti per la lotta
alla povertà e alle differenze di genere. Sono donne che non solo producono reddito, ma sviluppano
nuove competenze che poi riportano in famiglia e nella comunità, con vantaggi pratici immediati in
termini di benessere. E con vantaggi sociali sul lungo termine quando, grazie al loro impegno,
lentamente ma costantemente contribuiscono alla crescita e al rafforzamento dell’emancipazione e
della partecipazione delle donne e dei soggetti più deboli alla vita pubblica. E quindi iniziamo: il loro
nome è... di Serena Guidobaldi
FORZA
DONNE IMPEGNO LAVORO DIRITTI STORIE
Aloisia ha ricevuto l’unico aiuto solo pochi anni fa quando il governo centrale della Tanzania l'ha inserita nel
gruppo di allevatori da mandare in Kenya per una visita "didattica". “Per il resto ho fatto tutto da sola, e se
oggi ho 5 mucche e 3 vitelli, è perché mi sono rimboccata le maniche, dormo quattro ore per notte e uso
una bella dose di ujanja, che nella nostra lingua significa furbizia, vederci lungo”. Il marito faceva il
guardiano con uno stipendio di 40000 Tsh, ma quando il piccolo allevamento della moglie ha iniziato a dare
profitto (circa 300.000 tsh al mese di utile!) ha lasciato il lavoro per aiutarla.
(photo courtesy of Alberto Moia)
Aloisia è fiera dei risultati ottenuti “non solo in termini economici: i nostri tre figli possono tutti studiare e
sono in buona salute, e soprattutto sono orgogliosa di essere riuscita a far smettere di bere mio marito”.
Fra i suoi obiettivi c’è quello di migliorare la redditività del suo allevamento con capi di bestiame da vendere
e, soprattutto, riuscire a mantenere e pagare la scuola a un bambino di 9 anni, figlio di suoi vicini di casa,
ora rimasto orfano. (photo courtesy of Alberto Moia)
Amina Juma Athumani ha 40 anni e quattro figli fra i quali il più piccolo, di
due anni, affetto da una grave forma di disabilità mentale. “Non abbiamo i
mezzi e la possibilità di pagare qualcuno perché si prenda cura di lui, l’unica
soluzione è di chiedere aiuto ai vicini che non sempre sono disponibili. Ecco,
forse questa per me è la vera, grande sfida che devo riuscire a vincere”. Dal
2012 Amina è passata dall’essere una madre e moglie a produrre giocattoli
di tessuto. (photo courtesy of Laura Fantini)
Amina racconta: “È stato grazie ad Eileen, una signora americana, che sono
venuta a conoscenza di corsi per imparare a realizzare questi giocattoli. Era
lei che conduceva il progetto e mi ha convinta a provare”. Oggi per Amina
disegnare e cucire i giocattoli ha un doppio beneficio: quello di scaricare lo stress e i pensieri della vita
quotidiana, aiutando in casa e non facendo più mancare nulla ai figli. (photo courtesy of Laura Fantini)
Amina: “Prima vivevamo solo sulle spalle di mio marito, un venditore di patate al mercato di Manzese. Lui è
stato un mio grande sostenitore in questa decisione di lavorare con i giocattoli. Al lavoro mi descrivono
come una “gran lavoratrice”, e in effetti lo sono. Perché ho bisogno di lavorare ma anche perché mi piace:
l’indipendenza economica per me ha significato molto non solo in termini di sostegno in casa, ma
soprattutto in termini di autostima”. (photo courtesy of Laura Fantini)
Flora Kalatunga è coordinatrice del centro diurno di Mbagala gestito dal CEFA, rivolto a bambini disabili,
orfani e malati di Aids. Un'attività, quella di operatore sociale, che ha scelto per una personale propensione
ad aiutare gli strati svantaggiati della società cercando di offrire loro non solo assistenza, ma anche
opportunità di crescita e servizi. (Photo courtesy of Irene Carrara)
Flora: “Mi sono specializzata poi con bambini disabili, orfani o malati di AIDS perché sono quelli che hanno
ancora più bisogno di sostegno”. Sul concetto di offrire opportunità e servizi Flora insiste, perché spesso
l’ostacolo più difficile da superare è con gli altri membri della comunità, dai quali talvolta non viene
supportata. “Per il fatto che si lavora il più delle volte con le ONG, ci si aspettano contributi economici e
basta. Invece i progetti ai quali lavoriamo sono volti al coinvolgimento in prima persona nella crescita e
nella soluzione dei problemi della comunità". (Photo courtesy of Irene Carrara)
Flora spiega che "il primo ostacolo è far capire che a volte in un progetto ci sono aspetti più importanti delle sole entrate
economiche. Ma poi quando i risultati del lavoro cominciano a vedersi l’atteggiamento cambia ed è una grande soddisfazione
notare come anche i pregiudizi, con l’impegno, possano essere
scardinati”. (Photo courtesy of Irene Carrara)
Furaha Khalida Mohamed ha 27 anni, e il suo nome in swahili
significa “felicità”. Il suo volto sorridente campeggia nella
campagna pubblicitaria Employ Ability, realizzata per
sensibilizzare i datori di lavoro sull’inserimento lavorativo
delle persone disabili. Affetta dal Morbo di Pott, una forma di
tubercolosi che colpisce la colonna vertebrale, dopo le scuole
primarie Furaha non ha avuto la possibilità di proseguire gli
studi per le difficoltà motorie e l’impossibilità della sua
famiglia di sostenerla. Lei però ha deciso di frequentare un
corso di cucina e housekeeping grazie al quale, dopo uno
stage, ha trovato lavoro in uno degli hotel più lussuosi di Dar
es Salaam, lo Slipway Hotel. (photo courtesy of Khangarue – Media
production)
Furaha racconta: “Sono molto soddisfatta del mio lavoro ho
molta soddisfazione. Durante lo stage il supervisore mi disse
che mai avrebbe pensato che una ragazza piccola come me e
con le mie difficoltà sarebbe riuscita a lavorare in maniera così esemplare. Quello è stato uno dei giorni più
felici della mia vita”. Con uno stipendio regolare e i contributi pagati, Furaha può comprare i medicinali e
pagarsi le cure, ed è orgogliosa di non essere più un peso per la famiglia: “Il lavoro mi ha dato dignità e
rispetto. Ora gli altri mi guardano con occhi diversi”. (photo courtesy of Khangarue – Media production)
Halima Saidi ha 30 anni e produce gioielli di stoffa con un
design molto particolare, un talento che non sapeva di avere
finché nel 2011 non venne fortuitamente a conoscenza di “Jina
langu ni”, una delle attività generatrice di reddito sostenuta
all’interno del programma “Less is more” attuato da Cefa,
Radar Development, CCBRT e finanziato dall’Unione Europea e
dalla Fondazione Cariplo nell’ambito della Strategia Nazionale
per la Crescita e la Riduzione della Povertà (MKUKUTA) messa
a punto dal Governo tanzaniano.(photo courtesy of Laura Fantini e
Matteo Bortignon)
Halima ha una figlia di sei anni: “Farida era perfettamente sana, fu a
causa della malaria e febbre gialla contratte quando aveva poche
settimate che divenne fisicamente disabile. Per seguirla non riuscivo più a
lavorare. A quattro anni, quindi, la iscrissi al Mbagala Day Care Centre, e
lì ho scoperto Jina langu ni”. Dopo un training di due mesi, Halima ha
iniziato a lavorare sui gioielli di stoffa. Oggi ha acquisito capacità
tecniche e creative che le permettono di lavorare in proprio anche da
casa, dandole modo di seguire sua figlia e di avere una entrata economica indipendente. (photo courtesy of
Laura Fantini e Matteo Bortignon)
Halima racconta: “Mio marito ora è orgoglioso della mia scelta, e grazie
alla mia attività non solo sono indipendente dal suo stipendio, ma
riesco a mettere da parte i soldi per far studiare mia figlia e offrirle
così, oltre al cibo, alle cure e all’assistenza, quello che è il vero
strumento per il suo futuro. La cultura”. (photo courtesy of Laura Fantini e
Matteo Bortignon)
Rachel Kessi ha 42 anni ed è una gallerista d’arte specializzata soprattutto nella promozione delle arti visive
e performative di artisti locali. Dalla scultura e pittura alla danza, Rachel copre un po’ tutti i settori per i
quali nutre una vera e propria passione “ma non è solo un interesse personale”, afferma, “io credo
profondamente che la creatività abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale e culturale e debba
essere supportata. Inoltre sono anche convinta che l’arte possa creare opportunità di lavoro e promuovere il
nostro paese dando una immagine molto positiva". (Photo courtesy of Irene Carrara)
Rachel spiega che le arti figurative, soprattutto nei paesi dell’Africa Subsahariana, sono connesse anche alla
decorazione artistica degli oggetti quotidiani: “ho avviato un progetto legato al design, che coinvolge le
donne che lavorano ai telai per produrre anche oggetti per l’arredamento.” Dieci anni fa Rachel, dopo aver
vissuto all’estero, tornò in Tanzania dove aprì la “Mawazo Gallery”. Mawazo in Kiswahili significa “Idee e
pensieri”, e sulle idee e il pensiero aveva deciso di scommettere, nonostante le difficoltà burocratiche di
avviare una impresa dal nulla. (Photo courtesy of Irene Carrara)
Rachel: “Forse la vera difficoltà incontrata è stata quella di avere la fiducia degli artisti: molti di loro hanno
avuto esperienze negative con curatori o altre gallerie, e abbiamo lavorato molto per dimostrare la nostra
serietà: abbiamo in molti casi anche insegnato loro come calcolare il valore delle opere e le commissioni sulla
vendita, perché non sapevano come fare. In Tanzania non è facile conquistare la fiducia delle persone, ma
quando ci riesci si fidano ciecamente”. Ora la Mawazo Gallery è una delle più attive e quotate di Dar es
Salaam, ed è anche un centro culturale che promuove fiere dell’artigiano e di arte, rassegne di danza
internazionali come il Visa2Dance Festival. (Photo courtesy of Irene Carrara)
Stella Jailos Fweda ha 48 anni, e dal 1988 è redattrice capo presso la Casa Editrice “Tanzania Braille Press”. Dopo aver acquisito
la laurea magistrale al Chang’ombe teaching college ed essersi specializzata in Swahili e Storia alla Open University di Dar es
Salaam, nel 2006 ha fondato la ONG “Voice of Disabled Women in Tanzania – VODIWOTA” i cui obiettivi sono l’emancipazione
economica delle donne con disabilità in Tanzania. “Adoro quello che faccio: il lavoro alla casa editrice, la traduzione di libri in
braille, permette ai non vedenti di leggere. E l’attività della mia associazione aiuta le donne ad uscire dalle difficoltà e dalla
povertà.” Fin qui tutto normale, se non fosse che Stella nel frattempo ha anche cresciuto tre figli da sola, senza un marito, e tutto
questo lo ha fatto da non vedente, quindi superando lei in prima persona delle sfide per niente facili. (photo courtesy of Khangarue
– Media production)
Stella “Per portare avanti due occupazioni a tempo pieno, e a volte entrambe con urgenze cui far fronte,
basta sapersi organizzare. Il non potersi muovere in piena autonomia a causa della cecità rende tutto più
complicato e richiede un'organizzazione ferrea. Ma la mia famiglia mi ha sempre aiutata, sia nelle cose
pratiche che nel sostegno morale. La vera sfida, invece, è superare il senso di discriminazione che a volte
percepisci sul posto di lavoro”. Stella ha un posto di responsabilità alla Tanzania Braille Press, ma sente che
gli impiegati non hanno fiducia nelle sue capacità “Il mio grado di istruzione è alto, e il fatto che io sia non
vedente non significa che non possa dirigere il dipartimento che mi è stato affidato. Ma bisogna farglielo
capire”. E per farlo capire, non solo ai suoi colleghi, nella campagna di Radar Development Stella ci ha
messo la faccia. (photo courtesy of Khangarue – Media production)