l`indicatore forense - ordine avvocati livorno
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L’INDICATORE FORENSE Notiziario dell’Ordine degli Avvocati di Livorno PERIODICO QUADRIMESTRALE - anno V - n° 6 - DICEMBRE 2014 (Poste Italiane SpA - Spedizione Abb. Postale - 70% D.C.B. Livorno) L’Indicatore Forense 1 L’I N D I C ATOR E FORENSE L’INDICATORE FOR EN S E La redazione dell’Indicatore Forense e il Consiglio dell’Ordine augurano ai colleghi e alle loro famiglie Buon Natale e Felice Anno Nuovo Buone Feste SOMMARIO ) “Ne vale(va) la pena” di Vito Vannucci Pag. 3 ) “L’anno che verrà…” di Valter Maccioni Pag. 4 ) Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense di Marcello Monaci Pag. 5/6 ) “Possiamo ancora guardarci allo specchio?” di Andrea Dinelli Pag. 7 ) I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina di Leonardo Biagi Pag. 8 ) Jacques Verges: l’avvocato del Terrore di Leonardo Biagi Pag. 9 ) Dei delitti e delle pene di Federico Procchi Pag. 10 ) L’Avvocato penalista e la Deontologia: i rapporti con i testimoni di Franco Balestrieri Pag. 11 ) Essere avvocato di Cecilia Gradassi Pag. 12 ) Avvocata: un “ambiguo malanno”? di Aurora Matteucci Pag. 13/14 ) Angelo Froglia, genio e sregolatezza di Arrigo Melani Pag. 15/16 ) La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa di Roberto Cartei Pag. 17/18 ) Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni di Paolo Cotza Pag. 18/19 ) La rivoluzione della Geografi a Giudiziaria di Alessandro Viti Pag. 20/21 ) Grazie per ora di Davide Lera Pag. 21 ) Pillole di Processo Civile telematico di Marco Vitalizi Pag. 22/23 ) Il Legittimo Impedimento di Sandra Albertini Pag. 24/25 ) Salvis Iuribus di Renato Luparini Pag. 25 ) Regolamento interno del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno per l’accreditamento delle attività formative di Paolo Cotza Pag. 26 ) Piano dell’Offerta Formativa per l’anno 2015 di Paolo Cotza Pag. 27 ) Le statistiche di Marco Vitalizi Pag. 28 L’INDICATORE FORENSE Quadrimestrale registrazione c/o il Tribunale di Livorno in data 26 giugno 2009 al n.12 Redazione e Amministrazione: c/o Ordine Avvocati di Livorno, Via De Larderel 88, Tel. 0586/895064, Livorno. Stampa: Editrice «Il Quadrifoglio» Via C.Pisacane, 7 - Livorno Direttore responsabile: Bruno Damari Comitato di Redazione: Marco Vitalizi (coordinatore), Franco Balestrieri, Roberto Cartei, Davide Lera, Valter Maccioni, Federico Procchi. 2 L’Indicatore Forense di Vito Vannucci “Ne vale(va) la pena” “Ne vale(va) la pena” L’indicatore (finalmente!) ritorna in edicola e il “consigliere delegato”, Marco Vitalizi, è stato chiaro: entro il 31 agosto gli articoli devono essere pronti. Così, durante il (breve) periodo di vacanza mi trovo a pensare all’argomento su cui scrivere. L’ispirazione non mancherebbe: in particolare, avrei quasi già scritto “in testa” un pezzo sull’imparzialità del giudice. Il problema è che le considerazioni che vorrei fare traggono spunto da un episodio di vita (professionale) vissuta che, però coinvolge, personaggi del nostro Foro sicuramente riconoscibili anche se non nominati. Ne parlo con mio fratello il quale mi sconsiglia caldamente, ravvisando concretissimi pericoli di reato, ma mi suggerisce un’alternativa: “scusa ma non hai deciso di “ritirarti” e, quindi, che questo è il tuo ultimo mandato di consigliere? Allora scrivi un articolo di saluto”. Ed allora vada per il saluto, anche perché non so se ci sarà, prima della fine della consiliatura, la possibilità di far uscire un ulteriore numero dell’Indicatore da utilizzare a tale scopo. Già, ma come si saluta dopo 17 anni di consiglio di cui gli ultimi sette da presidente? Mi viene in mente un collega anziano, tra i più stimati e ben voluti, che un giorno, nel corso di una delle chiacchierate che spesso seguivano ai nostri incontri in ascensore, riferendosi alla presidenza, mi disse “ma chi glielo ha fatto fare” (mi ha sempre dato del Lei nonostante potessi, quasi, essere suo figlio). Gli risposi con l’articolo pub- conoscenze tecniche dell’avvocato e la commozione e la rabbia del figlio raccontava la storia del padre e del suo barbaro assassinio, un applauso forte, lungo, intenso e vero che esprimeva e manifestava la totale partecipazione e condivisione degli ascoltatori. Ecco, l’incontro con Umberto Ambrosoli è una di quelle cose che sono orgoglioso, come presidente dell’Ordine, di aver contribuito a realizzare, una di quelle volte in cui senti, davvero, di essere riuscito a “dare qualcosa”. Però, da buon livornese e, quindi, con spirito dissacratore, non posso chiudere il mio saluto in modo così serioso e, forse, un po’ enfatico (me ne scuserete). Voglio, invece, ricordare un episodio di tutt’altro genere che, nonostante risalga ai miei primi momenti da presidente non ho mai dimenticato. Seduta di Consiglio dedicata all’esame degli esposti. Come prassi chiedo ad ogni consigliere lo “stato” dei fascicoli dei quali è relatore. Giunge il turno di uno dei consiglieri “anziani”, persona (all’apparenza) particolarmente seria e compassata ed al quale era stato assegnato il caso (l’ennesimo) di due colleghi che litigavano per l’offensività delle espressioni usate da uno nei confronti dell’altro. Quel consigliere, così come accade in quei casi, aveva il compito di tentare una conciliazione tra i due litiganti. Gli chiedo: “come lo senti?” (riferendomi, ovviamente, al collega presunta parte offesa che sapevo essere stato contattato telefonicamente dal relatore). Mi risponde: “lo sento rigido” Non ho mai saputo se il doppio senso sia stato, o meno, volontario (anche se propenderei per la seconda ipotesi). So solo che scoppiammo tutti a ridere come accade, in genere, a scuola, quando ad uno studente scappa una frase con più o meno evidenti significati erotici. Insomma, si è trattato di uno di quei momenti in cui (fortunata- L’Indicatore Forense mente) si riesce a “tornare bambini” che, in fondo, è uno dei segreti della vita. L’episodio viene ricordato ancora oggi tra i consiglieri quando la situazione richiama, per alcuni aspetti, quella “originale” in cui fu pronunciata la battuta. Ecco, per me questo è stato il Consiglio, momenti di forte passione e tensione etica ed emotiva e momenti, altrettanto belli, di goliardia ed amicizia: un’esperienza appassionante. Per cui, riprendendo la chiusa del mio articolo del gennaio 2012 posso dire che “si, ne è valsa la pena”. NSE L’INDICATORE FORE ’Ordine degli Notiziario dell orno Avvocati di Liv Pagina 1 Foto di R. ONORATI Vito Vannucci blicato sul n. 1/012 dell’Indicatore nel quale spiegai le ragioni che mi avevano spinto a quella scelta e convinto a proseguirla, chiudendo così il pezzo: “ne vale la pena”. Oggi, al termine di quell’esperienza, la domanda che quel collega potrebbe pormi, probabilmente sarebbe: “Lo rifarebbe?”. La risposta sarebbe un “SI” deciso e senza incertezze. Infatti, senza entrare in racconti e bilanci dettagliati di questi sette anni (occorrerebbe, forse, l’intero numero dell’Indicatore), quel che posso dire, ma che per me è fondamentale, è che si è trattato di un’esperienza appassionante nel senso letterale del termine. E’ stata, cioè, un’esperienza che ha suscitato dentro di me passioni e sentimenti forti: passione e orgoglio per l’essere avvocato, delusione e persino rabbia per chi, anche all’interno dell’avvocatura, non percepisce la dignità e la bellezza di questa professione, perseveranza e decisione nelle battaglie, gioia per il raggiungimento dei risultati per cui si è ostinatamente combattuto - prima tra tutti l’approvazione della nuova legge professionale - lo stretto legame talvolta amicizia di quella vera e perciò rarissima - che si crea lavorando fianco a fianco, per anni, con altre persone. E’ stato grazie a queste passioni e sentimenti che, quasi, non ho sentito il peso dei sacrifici che pure, indubbiamente, ci sono stati. Il momento più bello? Ce ne sono stati davvero molti ma, forse, quello che mi ha lasciato il ricordo più forte è il pomeriggio (25.06.10) alla Camera di Commercio con Umberto Ambrosoli che, accettando la richiesta del Consiglio, venne a raccontarci “dal vivo” l’esperienza del padre, avv. Giorgio Ambrosoli, mirabilmente ritrascritta nel libro “Qualunque cosa succeda”. Auditorum della CCIAA completo in ogni ordine di posti; 270 paia di occhi che in un silenzio totale, fissavano Umberto Ambrosoli che, con parole nelle quali erano allo stesso tempo presenti le L’INDICATORE FORE NSE Notiziario dell ’Ordine degli Avvocati di Liv orno ALE QUADRIMESTR PERIODICO ANNO I n° 1 L’INDICATORE FORENSE Notiziario dell’Ordine degli Avvocati di Livorno 1 n.4:Layout INDICATORE 05/04/2011 16.03 Pagina 1 PERIODICO QUADRIMESTR ALE - ANNO I - n° 2 - DICEM BRE 2009 NSE L’INDICATORE FORE ’Ordine degli Notiziario dell 6.55 orno Avvocati di Liv Pagina 1 PERIODICO QUADRIMESTRALE - ANNO II - n° 3 L’INDICATORE FORE NSE Notiziario dell ’Ordine degli Avvocati di Liv orno 2011 III - n° 4 - APRILE ALE - ANNO QUADRIMESTR PERIODICO PERIODICO QUADRIMESTR ALE - ANNO (Poste Italiane SpA - Spedizione Abb. Postale - IV - n° 1 - GENNA IO 2012 70% D.C.B. Livorno) 3 di Valter Maccioni “L’anno che verrà……” “L’anno che verrà…” “L’anno che sta arrivando … porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando…” Questo ritornello, tratto dalla celebre canzone di Lucio Dalla, ben si attaglia ai futuri Consigli degli Ordini circondariali che saranno eletti nel gennaio 2015 sulla base della legge n. 247/12 e della normativa regolamentare ad essa collegata. Infatti la legge 247/12 introduce novità significative sulla composizione dei Consigli, sulle modalità di elezione dei consiglieri, la loro durata in carica. Il numero dei componenti del Consiglio dell’Ordine (art. 28/1° comma) è ancora determinato in proporzione degli iscritti all’Albo, ma rispetto alla precedente normativa si parte ora da un minimo di cinque membri per gli Ordini fino a cento iscritti per arrivare gradatamente ad un massimo di venticinque membri per gli Ordini che superano i cinquemila iscritti. Dunque, mentre i grandi Ordini salutano il superamento del limite massimo di quindici componenti stabilito dalla vecchia legge, gli Ordini come il nostro – che conta circa 850 iscritti vedrà il proprio futuro Consiglio ridurre i propri componenti dagli attuali quindici a soli undici. Da questo punto di vista possiamo dire che la nuova legge ci penalizza, a mio avviso ingiustificatamente, visto che il futuro Consiglio sarà chiamato a svolgere le proprie attività istituzionali con quattro consiglieri in meno rispetto a quanto è avvenuto nell’ultimo decennio. Una novità significativa è rappresentata dal fatto che i consiglieri dovranno essere eletti “in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra generi” con la previsione che “il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti”; a Livorno, su undici consiglieri, almeno tre dovranno quindi appartenere al genere meno rappresentato. Ciò va ad incidere sia sulla espressione del voto di preferenza che sulle modalità di forma- 4 zione delle liste dei candidati. In attesa dell’emanazione del Regolamento Ministeriale che fornirà le necessarie indicazioni in materia, ciascun elettore potrà esprimere un numero di voti non superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere; si potrà tuttavia superare detto limite qualora le preferenze siano destinate ai due generi. Per la formazione delle liste invece, quando in una lista non vi è la rappresentanza di entrambi i generi l’indicazione dei nominativi della lista non potrà superare i due terzi dei componenti complessivamente eleggibili; limite che dovrebbe permanere anche nel caso di lista che vi sia la rappresentanza di entrambi i generi ma il numero dei componenti sia comunque inferiore a quello degli eligendi. I futuri Consigli dell’Ordine dureranno in carica quattro anni, un tempo doppio rispetto a quanto è avvenuto fino ad oggi. Un periodo così lungo, se da un lato consentirà ai Consigli una programmazione più ambiziosa degli obbiettivi da realizzare, dall’altro presuppone che l’avvocato che intenda cimentarsi in questa avventura sia pienamente consapevole dell’impegno gravoso che va ad assumersi oltre che veramente convinto di portarlo a compimento senza cedimenti né rilassamenti fino a scadenza del mandato. Risultano eletti coloro che hanno riportato il maggior numero di voti, avuto sempre riguardo al rispetto dei generi. Il Consiglio, una volta insediatosi, elegge il Presidente, il Tesoriere ed il Segretario (la carica di vice-presidente è prevista solo per i Consigli con almeno quindici componenti, e quindi almeno per il momento al nostro Ordine sarà preclusa questa facoltà); per ognuna delle cariche si procede ad una autonoma votazione, e risulterà eletto - nell’ambito di ciascuna di esse - il consigliere che avrà riportato il maggior numero di voti. La nuova legge favorisce il ricambio dei componenti dei Con- sigli, introducendo per i Consiglieri il limite di due mandati consecutivi con possibilità di ricandidatura quando sia trascorso un numero di anni uguale agli anni nei quali si è svolto il precedente mandato. E’ previsto inoltre che “In caso di morte, dimissioni, decadenza, impedimento permanente per qualsiasi causa di uno o più consiglieri” subentra il primo dei nuovi eletti, nel rispetto e mantenimento dell’equilibrio dei generi; con la vecchia normativa, invece, la sostituzione del consigliere sarebbe dovuta avvenire attraverso una nuova elezione. Una novità sostanziale introdotta dalla nuova normativa è data dal fatto che davanti ai Consigli dell’Ordine non saranno più celebrati i procedimenti disciplinari (dal 1° gennaio 2015 demandati ai Consigli distrettuali di disciplina); i nuovi Consigli continueranno tuttavia a vigilare sulla condotta degli iscritti, permanendo l’obbligo di trasmettere al Consiglio distrettuale di disciplina gli atti relativi ad ogni violazione di norme deontologiche di cui sia venuto a conoscenza. I Consigli manterranno comunque una nutrita serie di compiti e prerogative elencati all’art. 29 legge n. 247/12, che vanno dal sovraintendere all’esercizio del tirocinio forense, a tutto ciò che concerne la formazione obbligatoria degli iscritti, al controllo della continuità, effettività, abitualità e prevalenza dell’esercizio professionale, l’attività di opinamento delle notule, i tentativi di conciliazione previsti dall’art. 13/9° comma delle n. 247 e l’intervento in contestazioni insorte tra gli iscritti tra loro e/o con i clienti, la costituzione di camere arbitrali ed organismi di risoluzione alternativa delle controversie (esigenza rafforzata alla luce delle recenti misure governative). Queste funzioni sono destinate ad incrementarsi ulteriormente nel momento in cui entreranno in vigore talune previsioni con- L’Indicatore Forense Valter Maccioni tenute nella nuova Legge professionale, in primis lo Sportello per il cittadino le cui incombenze si profilano davvero gravose; è questo il motivo per cui non appare ragionevole l’avere previsto, per Ordini con un numero di iscritti pari al nostro ormai abituato a lavorare con quindici consiglieri, un ridimensionamento dei componenti per circa un terzo. I nuovi Consigli dell’ordine avranno un Collegio dei revisori chiamato a controllare e verificare la regolarità della gestione patrimoniale del Consiglio. La nomina compete al Presidente del Tribunale; per gli Ordini con meno di 3.500 iscritti (come il nostro) la funzione è svolta da un revisore unico. In seno ai Consigli dell’Ordine composti da almeno nove consiglieri (quindi con almeno cinquecento iscritti all’Albo) è prevista la possibilità di procedere attraverso Commissioni di lavoro composte ciascuna da almeno tre membri, di cui possono fare parte (escluse le materie deontologiche o che trattino dati riservati) avvocati non consiglieri dell’Ordine. Questa previsione va nel senso giusto in quanto favorirà un maggior coinvolgimento propositivo degli iscritti nelle questioni che interessano, soprattutto a livello locale, la professione. Le novità, dunque, sono tante e l’impatto - soprattutto per quanto riguarda il nostro Foro - si preannuncia non di poco conto. Per questo, essendo interesse di tutti che le cose funzionino nel miglior modo possibile, è fondamentale il contributo costruttivo di ciascuno. Forza e coraggio Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense di Marcello Monaci NOTAZIONI SUL NUOVO CODICE DEONTOLOGICO FORENSE (entrata in vigore: 15 dicembre 2014) Bando ai preamboli. Tanto più che anche nel Nuovo Codice Deontologico è ‘(quasi) incredibilmente’ saltato il preambolo, pur premesso al Codice Deontologico che è ancor oggi ed ancor per poco - in vigore. * Seguendo l’ordine codicistico nella sua parte speciale, iniziamo quindi col porre l’attenzione su quelle che si presentano come le novità più salienti in tema di quei comportamenti che hanno mantenuto, od hanno ricevuto, il marchio della riprovevolezza, e quindi della deontologica scorrettezza. Ripristino del divieto del patto di quota lite. Mutuando la previsione da quella della legge ordinamentale - e non potendo com’è ovvio far quindi diversamente - è stato reinserito il divieto del patto di quota lite. V’è peraltro da dire che, sempre in - necessitata - aderenza alla legge, è stato previsto che, in sede di accordi tra avvocato e cliente sulla definizione del compenso, può, fra l’altro, esservi anche una pattuizione ‘a percentuale’ sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa essere di giovamento, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, per il destinatario della prestazione. Orbene, escluso con certezza che il compenso possa essere rappresentato da una parte dei beni o dei crediti litigiosi, dubbi ed equivoci riteniamo che potranno presentarsi in ordine ai limiti ed ai confini di un compenso pattuito sulla base di una percentuale parametrata sul valore dell’affare o sul vantaggio anche non patrimoniale che potrà derivarne al destinatario della prestazione. Doveri di informazione. Tra i molteplici doveri di informazione si ritiene qui opportuno segnalare sia l’obbligo informativo incombente sull’avvocato in ordine alla propria copertura assicurativa sia l’obbligo di esso avvocato, se richiesto, sia in corso di rapporto sia ed ovviamente ad avvenuta cessa- zione del mandato, di fornire al cliente ed alla parte assistita copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi - fatta eccezione per quanto concerne la corrispondenza riservata tra colleghi - concernenti l’oggetto e l’esecuzione del mandato, sia in sede stragiudiziale che giudiziale; con la possibilità peraltro per l’avvocato, e ciò anche senza il consenso del cliente e/o della parte assistita, di estrarre e conservare copia della documentazione ricevuta. Azione contro il cliente e la parte assistita per il pagamento del compenso. La novità consiste nel fatto che l’avvocato, per agire giudizialmente nei confronti del cliente o della parte assistita per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, è tenuto non solo a rinunciare, come è attualmente, all’incarico nell’ambito del quale si è registrata l’inadempienza nel pagamento dei compensi, ma anche e per di più a rinunciare nella intierezza a tutti gli incarichi ricevuti. Obbligo di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega. Visti i molteplici dubbi e dilemmi sorti al riguardo sotto il vigente Codice che hanno dato luogo a frequenti malintesi, dovuti talvolta ad obbiettive incertezze, ma anche, ed in più casi, a tortuose ambiguità se non anche, in una direzione e nell’altra, a veri e propri abusi, con conseguenti discredito professionale e personale tra colleghi e risentimenti di lunga o di infinita durata, il Nuovo Codice rende tale obbligo più stringente, prevedendo espressamente e chiaramente che l’avvocato che incarichi direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza, ove non adempia il cliente, deve egli personalmente provvedere a compensarlo. E’ stato in tal modo e per tale ragione eliminata la possibilità, come consente l’attuale Codice, di liberarsi dall’obbligo dando l’avvocato effettiva dimostrazione, ed anche postergando il proprio credito, di essersi inutilmente attivato sul piano dell’induzione del cliente a far fronte ai suoi obblighi. ‘Abuso’ della clausola di riservatezza in tema di divieto di produzione della corrispondenza scambiata con il collega. Una previsione assolutamente nuova è quella della rilevanza disciplinare attribuita allo scorretto comportamento dell’ avvocato che ‘abusi’ della clausola di riservatezza in ordine a corrispondenza che, in realtà, di per sé, nulla ha, e nulla contiene, di riservato. Quanto sopra perchè ci si è trovati troppo spesso a dover registrare, nel più vario ed eterogeneo scambio di corrispondenza, l’ (ab)uso dell’apposizione, in tutta leggerezza ed ad ogni piè sospinto, della locuzione di “riservata personale”, senza che ne ricorresse in effetti alcuna ragione giustificatrice né alcuna effettiva esigenza Dovere di verità. Sono state introdotte importanti novità in materia del dovere di verità nel procedimento da parte dell’avvocato. Rammentiamo come tale tema sia stato magnificamente trattato, tra gli altri, in occasione dell’incontro del 24 ottobre u.s. promosso dalla Camera Penale di Livorno. Qui ci limitiamo solamente ad una semplice segnalazione, anche perché le relative disposizioni codicistiche vengono affrontate in un distinto e specifico articolo di questo stesso Notiziario. Ascolto del minore. Anche sotto tale riguardo sono state introdotte molte, e molto significative, novità che, per ovvi motivi, in questa sede non ci è dato di poter adeguatamente riferire e rappresentare, in quanto, e tra l’altro, la delicatezza della materia e la articolata previsione dei comportamenti disciplinati dalle relative disposizioni del Nuovo Codice, onde non incorrere nel rischio di un nudo ed incompleto richiamo, necessitano di una analisi particolarmente attenta e debitamente scrupolosa. L’Indicatore Forense Marcello Monaci Rapporti dell’avvocato con le Istituzioni Forensi. Anche in ordine alle novità introdotte circa i vari profili dei rapporti dell’avvocato con le Istituzioni forensi riteniamo di non poterci intrattenere in questa sede. Le sanzioni. Sempre in ossequio alla previsione di cui alla legge ordinamentale, il Nuovo Codice Deontologico prevede espressamente per ogni comportamento costituente illecito deontologico la relativa sanzione edittale. Da notare, inoltre, v’è che il Nuovo Codice ha introdotto il meccanismo del possibile aggravamento e della possibile attenuazione della sanzione edittale. Da notare infine v’é la previsione anche codicistica dell’istituto del “richiamo verbale”, che, pur espressamente individuato dalla legge come uno degli esiti della decisione che definisce il procedimento disciplinare, non riveste peraltro in alcun modo il carattere della sanzione disciplinare. La tipizzazione “per quanto possibile” delle condotte. Il Nuovo Codice Deontologico, in forza e nel solco della legge ordinamentale, che ha spostato l’asse della prescrizione (oltre che della procedura) deontologica nella direzione della sfera della sanzione ( oltre che della procedura) penale, e quindi in direzione dell’ambito e dell’orbita del principio di legalità, ha provveduto, “per quanto possibile”, a caratterizzare e definire con la massima precisione auspicabile tutte le disposizioni normative codicistiche da esso dettate in ordine al comportamento cui è tenuto l’avvocato, dando ad esse il segno della determinatezza 5 Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense e concretezza nel momento e nell’atto della individuazione e della descrizione dei vari elementi di cui (ed in cui) si configura il fatto costituente l’illecito deontologico; e ciò appunto in osservanza del principio legislativamente imposto della tipizzazione della condotta. Il ‘nuovo sistema’, se indubbiamente va incontro a giuste e sacrosante esigenze garantistiche di tutela della posizione e dello ‘status’ professionale - ma anche personale - dell’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare, nel contempo apre, o lascia aperti, vari altri problemi. In primis, il principio di legalità, come ben sanno i penalisti, impone che se il fatto contestato non corrisponde perfettamente in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi alla fattispecie incrimintarice, il reato - nella forma contestata , e salva l’ipotesi della possibilità nel caso della derubricazione ad altro minore reato - non sussiste. E’ chiaro che l’osservanza dello stretto principio di legalità, esteso ora al campo disciplinare, non potrà che condurre alle medesime conseguenze. Quanto sopra equivale a dire che, ove i fatti contestati in sede disciplinare non corrispondano perfettamente a tutti gli elementi che ‘tipicizzano’ il comportamento costituente un illecito deontologico, si dovrà necessariamente pervenire ad una decisione di proscioglimento, non potendosi più, per la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione, ricollegarsi a “concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività”, come è avvenuto sino ad oggi in forza della prassi - invero ‘creativa’ della ‘norma incolpatrice’, riconosciuta peraltro esplicitamente legittima dalla Corte di Cassazione - secondo la quale la mancata corrispondenza tra contestazione e pronuncia disciplinare non portava necessariamente alla nullità della contestazione e/o al proscioglimento dell’incolpato ove l’organo giudicante avesse comunque rilevato nel comportamento dello stesso elementi di fatto in qualche modo riprovevoli per la funzione e l’immagine della figura e del ruolo dell’avvocato, individuando poi direttamente esso organo giudicante la adeguata sanzione in una tra quelle previste in via generale dalla vigente legge ordinamentale. 6 Diverso sembra essere il convincimento di alcuni autorevoli studiosi ed operatori di settore, i quali richiamano e fanno riferimento ad una ipotizzata “norma di chiusura” che sarebbe da individuarsi in una disposizione della legge ordinamentale, che farebbe da valido sostegno atto a corroborare la tesi della permanenza-sopravvivenza della autonomia normativa degli organi ordinistici, fondandolo sulla previsione e canonizzazione dei principi generali di indipendenza, probità, dignità e decoro, diligenza e competenza; principi, questi, parimenti e quasi del tutto pedissequamente ripresi ed inseriti nel Nuovo Codice. Sempre ai fini di una ritenuta sopravvivenza ordinistica dell’autonomia normativa, da parte degli stessi autorevoli studiosi ed operatori di settore viene invocata la determinante valenza del sintagma utilizzato dalla legge ordinamentale -”per quanto possibile” - a proposito della necessità della tipizzazione dei comportamenti costituenti illecito disciplinare, in forza della cui conveniente esegesi vengono richiamati e ritenuti applicabili i principi validi in tema di norme penali incriminatrici “a forma libera” per le quali la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono validamente affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice opera. Epperò a noi sembra che, nel caso in esame, si versi in tema di interpretazione della fattispecie incriminatrice - che è comunque sussistente ed anche e comunque predeterminata pur se in qualche modo vaga e sfuggente e che ha comunque in sè una sua propria specifica sanzione - e che si tratti quindi dei margini più o meno ampi della discrezionalità interpretativa riconosciuta a chi giudica, e non si versi pertanto in tema di vera e propria autonomia normativa disciplinare di cui alla norma di chiusura contenuta nell’attuale - ma perente - codice deontologico, secondo la quale le disposizioni specifiche del medesimo codice costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali ivi espressi. Una simile norma di chiusura non si trova - per l’appunto, e non per caso - riprodotta nel Nuovo Codice Deontologico. Ci troviamo qui, come è agevole desumere, davanti alla cruciale questione ed alla correlativa ruvida domanda se continuerà o meno a sussistere, e se sì, in quale ambito, con quale estensione, con quali limiti ed in capo a quali organi ordinistici, una qualche potestà ed autonomia normativa diversa da quella direttamente ed espressamente conferita dalla legge ordinamentale in capo al Consiglio Nazionale Forense in sede ‘codicistico-regolamentare’ A nostro (più che ultra peritoso) parere, mentre al C.N.F. è riconosciuta, come detto, dalla legge ordinamentale la potestà normativa in sede codicisticoregolamentare, e solo in quella sede, e quindi ovviamente, sempre in quella sede, anche - ma solo - in via modificativointegrativa, agli altri organi - ai Consigli degli Ordini territoriali a dar data dal 15.12. 2014 ed ai Consigli Distrettuali di Disciplina con il 1°Gennaio 2015) nessuna potestà è conferita e nessuna autonomia normativa viene e/o verrà riconosciuta. Distinzione (mancata) tra norme di comportamento aventi ovvero non aventi valenza disciplinare. La legge ordinamentale ha previsto - e dispone e statuisce - esplicitamente che il Codice Deontologico deve al suo interno individuare e distinguere quelle norme che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno una rilevanza disciplinare, e quelle che, non rispondendo alla tutela di un pubblico interesse, debbono essere dalle prime tenute differenziate non assumendo esse in alcun modo rilevanza disciplinare, potendo, esse, peraltro, a nostro avviso, avere una valenza sotto altri e diversi profili, quale quello di carattere civilistico, anche sotto l’aspetto dell’illecito nonché della loro idoneità, in caso di violazione, a fondare un giudizio di risarcimento del danno. Come abbiamo visto più sopra, nel Nuovo Codice Deontologico a tutte le norme di comportamento in esso inserite viene conferita rilevanza disciplinare prevedendosi per la loro violazione sempre ed in ogni caso una sanzione; e, comunque, esso Codice non prevede alcuna norma di comportamento non avente rilevanza disciplinare e non passibile quin- L’Indicatore Forense di Marcello Monaci di di sanzione. Orbene, al di là della legittimità della scelta di campo, e peraltro nella presupposizione che non è certo la semplice inscrizione nel codice tra le norme di comportamento ad attribuire ad essa norma, pur dotata di sanzione, il carattere di interesse pubblico - il quale, per sua natura, v’è ovvero non v’è - siamo sicuri che tutte le norme di comportamento previste nel Nuovo Codice rispondano alla tutela di un pubblico interesse? Così, ad esempio, siamo certi che risponda ad un pubblico interesse l’avere previsto come fatto deontologicamente illecito e l’averlo quindi reso passibile della sanzione disciplinare della censura il comportamento tenuto dall’avvocato che abbia abusato della clausola di riservatezza? Ovvero, ed ancora, in via più generale, siamo sicuri che anche altri comportamenti che attengono ai semplici e stretti rapporti tra colleghi o tra cliente ed avvocato rientrino effettivamente nella sfera dell’interesse pubblico? Anche il C.N.F. a dire il vero si è posto la domanda, essendo sorto evidentemente un qualche dubbio al riguardo. Epperò, ha poi deciso e deliberato per l’inserimento sempre e a tutto tondo anche di queste norme, non risolvendo peraltro il problema di fondo, che, per quanto a noi appare, potrà essere sempre riproposto, anche in sede disciplinare, sotto l’aspetto della legittimità di tali norme. Regime transitorio e principio di legalità. Altro effetto dell’”attrazione” della materia disciplinare nella sfera della azione, del procedimento e della sanzione penale, e quindi del connaturato principio di legalità, è quello che l’entrata in vigore del Nuovo Codice Deontologico, oltre a determinare, come è naturale ed ovvio, la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate, determina anche l’ulteriore conseguenza innovativa - rispetto al principio sinora seguito per cui tempus regit actum - che le norme contenute nel nuovo codice si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato. *** di Andrea Dinelli “Possiamo ancora guardarci allo specchio?” “Possiamo ancora guardarci allo specchio?” Da troppo tempo ascoltiamo, spesso costretti a fornire spiegazioni sul punto, luoghi comuni che caratterizzano oggi la Ns. professione; procedo in ordine sparso: - gli avvocati sono troppi (noi avvocati siamo troppi); nella sola città di Roma ci sono più avvocati che in tutta la Francia - è il momento di cambiare; ci vuole il numero chiuso - la professione così non può andare avanti; dobbiamo essere specializzati Ed innumerevoli altri ancora. Troppo spesso chi si occupa di vicende dell’avvocatura - anche al suo interno - dimentica un passaggio fondamentale; che ci piaccia o no il mondo è cambiato e con il mondo sono cambiati anche gli avvocati. Il sistema, di estrazione scacchistica, dell’”arrocco” attraverso il quale folte schiere di appartenenti al Ns. mondo cercano improbabili e comunque perdenti difese non può avere spazio alcuno. Chi, come chi scrive, segue da anni e con estrema attenzione le Assisi dell’avvocatura (ed il motivo è molto semplice: la passione per questa derelitta professione) non ha mai sentito proporre valide soluzioni per il futuro. Al contrario ha ascoltato raffinatissime e variegate critiche (peraltro tutte serie e credibili ma altrettanto demagogiche) agli errori del passato. Critiche che perlopiù provengono da chi ha per primo commesso quelli errori o meglio nulla ha fatto per evitarli nonostante le Cassandre dell’epoca certamente non tenessero la bocca chiusa. Ed infatti sono ancora tutti seduti ai posti di maggior prestigio della governance dell’avvocatura, talvolta abilmente scambiandoseli tra loro... La ragione (delle difficoltà di proporre soluzioni) è molto semplice: la battaglia è oramai perduta (la battaglia certamente, forse non ancora la guerra). Ed ecco allora il titolo e la provocazione contenuti e rappresentati in alcuni semplici esempi tratti da frammenti di vita quotidiana: siamo certi di guardarci allo specchio senza provare “spiacevoli” sensazioni dopo, ad esempio, essere usciti da uffici giudiziari all’interno dei quali imperversano segretarie, più o meno decorose (non solo nell’abbigliamento e nel portamento) che dispongono dei “ferri del mestiere” con nonchalanche pari a quella di avvocati navigati? Che presenziano ad udienze? Che quotidianamente provvedono ad attività proprie ed esclusive dell’avvocato (per essere chiari quelle che sino a poco tempo addietro erano chiaramente indicate alla voce “competenze” del precedente tariffario forense)? Ed ancora colleghe e colleghi, trasversalmente giovani e meno giovani, che quotidianamente manifestano, per primi a loro stessi, come NON si esercita la professione (domande improvvide, intasamenti in uffici sbagliati, mancato rispetto del personale di cancelleria, tentativi di evitare - o addirittura saltare - quelle file che ogni giorno dobbiamo percorrere per provvedere agli adempimenti della professione). Senza avventurarci in altre reali problematiche quali ad esempio quelle degli avvocati di strada (che ben poco hanno a che vedere con i protagonisti del noto libro di Grisham) ma che stanno veramente sulla strada perché non in grado di attrezzarsi uno studio, ed altro ancora.... Senza parlare del rispetto degli orari, dei cellulari che suonano sempre, ovunque, dell’assoluto disprezzo dei tempi (chi partecipa ai congressi sa bene a cosa mi riferisco in merito ai tempi e programmi da rispettare) e comunque e di tutte quelle altre piccole / grandi nefandezze che - ben consci - commettiamo giorno dopo giorno senza più una briciola di pudore. Ma soprattutto - lo spazio è e deve essere poco e mi avvio a concludere ma resto pronto a dibattere l’argomento con chiunque ne abbia interesse - la sovrana impreparazione anche di fronte a situazioni di vantaggio evidente (pensiamo all’udienza c.d. di smistamento in ambito penale) quasi sempre - se magari evidenziate da un giudice Andrea Dinelli sarebbe meglio un preventivo esame di coscienza ed una rivisitazione, a 360°, del modo di svolgere la Ns. comunque meravigliosa professione? Ed infine non posso dimenticare i Ns. principali interlocutori; i magistrati che si caratterizzano per la capillare organizzazione delle loro udienze, per il pervicace tentativo di evitare le attese, per il rispetto dei tempi “Il ritratto senza volto”, 1937 - René Magritte - vergognosamente giustificate con la, tanto canonica quanto insostenibile scusa, di aver poco tempo a disposizione!! Ed allora ripeto e (quasi) concludo: possiamo ancora guardarci allo specchio? O forse L’Indicatore Forense di deposito dei provvedimenti e dei protocolli, per l’estrema considerazione del ruolo dell’avvocato e … poi mi sveglio dal sonno e mi accorgo che forse di qualche specchio difettano pure loro. 7 di Leonardo Biagi I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina “Ieri non è più, domani non è ancora. Non abbiamo che il giorno d’oggi. Cominciamo.” Non a caso apro il mio intervento con questa considerazione, o più precisamente questa esortazione, di Madre Teresa di Calcutta, al “debutto” dei nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina. Noi Avvocati siamo estremamente inclini a rimpiangere il passato, e certo con questi chiari di luna è per certi versi comprensibile, e contemporaneamente siamo diffidenti, quando non intimoriti o altre volte giustamente arrabbiati, di fronte alle novità che riguardano la nostra professione. Ma abbiamo anche molto forte, come singoli un po’ meno come categoria, una delle caratteristiche umane più importanti per la sopravvivenza, cioè lo spirito di adattamento. I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina sono tra le novità probabilmente più importanti della legge 247/2012 e, come detto in premessa, sono stati accolti con qualche perplessità e alcune polemiche, secondo le migliori tradizioni, a partire già dalle prime elezioni dei nuovi Consiglieri di Disciplina. Ma una riforma in materia disciplinare, per quanto perfettibile, non poteva invero essere rinviata ulteriormente, ed i motivi sono noti a tutti. Innanzi tutto l’esigenza di uniformare il più possibile l’attività disciplinare, sia sotto il profilo del contenuto delle decisioni (e da qui anche la riforma del Codice Deontologico nella parte in cui introduce i limiti edittali delle sanzioni in relazione alle tipologie di illecito), sia soprattutto sotto il profilo dell’iniziativa disciplinare. Le statistiche hanno spesso rappresentato che l’attività ordinistica disciplinare non era territorialmente omogenea, e questa circostanza comportava inevitabilmente lo scoprire il fianco ai detrattori della cd. “giustizia domestica” sempre in agguato per proporre, di fronte anche alla inoperosità di alcuni Ordini o alle sollecitazioni dell’Antitrust (quando non di associazioni sorte a tutela interessi diffusi), soluzioni radicali e pericolose. 8 Pure forte era l’esigenza di potenziare la terzietà dell’Organo Giudicante la cui vicinanza all’incolpato era spesso fonte di critiche senza che mai nessuno si ponesse, tuttavia, il problema inverso della qualità e della reale equità della decisione che fosse assunta da soggetti diversi dai propri Colleghi del Foro. Il legislatore è dunque intervenuto con una soluzione equilibrata in grado di soddisfare le esigenze di cui sopra, risolvendo peraltro un altro importante aspetto del “vecchio” procedimento disciplinare, ovvero la necessità di evitare, per quanto possibile, la commistione tra “accusa” ed Organo Giudicante. Sotto questo profilo, operativamente assai importante, l’art. 58 del nuovo Ordinamento Forense stabilisce una netta distinzione tra il Collegio Giudicante e il Consigliere che dovrà, nei sei mesi successivi alla ricezione dell’esposto (da parte del CdO territoriale, che resterà il destinatario degli esposti o della comunicazione di una notizia di reato da parte della locale Procura), procedere all’istruttoria per poi proporre al Collegio giudicante, peraltro già precedentemente individuato, richiesta motivata di archiviazione o di approvazione del capo di incolpazione. Solo la pratica e poi la giurisprudenza del CNF e della Suprema Corte potranno risolvere alcu- ni problemi di carattere non solo operativo ma di garanzie dell’incolpato che potranno sorgere nella dinamica dei rapporti tra istruttore e giudicante, facilmente intuibili, ma certo il meccanismo voluto dal legislatore era probabilmente l’unico in concreto attuabile ai fini di cui sopra. L’influenza dei principi del processo penale è assai forte nel nuovo procedimento disciplinare. La prescrizione dell’illecito deontologico è evidentemente basata su tali principi, come anche la necessità di una maggiore attenzione alla formulazione del capo di incolpazione, la disciplina degli avvisi all’incolpato ed il suo diritto di difesa, sia durante l’istruttoria preliminare che durante la fase dibattimentale, nonché l’espressa previsione riguardante l’utilizzabilità di atti ed in genere le regole riguardanti lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale. Del resto, l’art. 59 n.6) lett. n) espressamente prevede che “per quanto non specificatamente disciplinato dal presente comma, si applicano le norme del codice di procedura penale, se compatibili”. Ho alcune e personalissime perplessità sulla “deriva” penalistica del procedimento disciplinare: il termine “deriva” è forse improprio e troppo forte, e non me ne vorranno gli amici penalisti. Ma ho come la sensazione, che spero si rivelerà infondata, che potranno subire un pregiudizio l’attenzione a quelle sottili e qualche volta impalpabili caratteristiche personali, relazionali, comportamentali, culturali che hanno distinto gli Avvocati, come singoli e come categoria, negli anni passati. Ciò, comunque e indubbiamente, a vantaggio di una più certa ed equa persecuzione dei comportamenti ben tipizzati nel nuovo Codice Deontologico. Intendo dire, il rischio della concentrazione nei CDD, L’Indicatore Forense Leonardo Biagi distinti e distanti dalle realtà e dalla quotidianità dei Fori locali, sugli illeciti tipizzati potrebbe andare a discapito di quell’attenzione che i CdO avevano il diretto e proprio dovere di porre di fronte a comportamenti dei singoli collocabili, ad esempio, in una zona grigia tra il deontolgicamente scorretto e il deontologicamente consentito ma la cui commissione o meno da parte degli iscritti poteva e può caratterizzare il livello di dignità e decoro dell’intera categoria. Quando magari, e più in generale, questa attenzione, già talvolta latente, non possa ulteriormente diminuire con l’alibi della sopravvenuta sostanziale incompetenza, sebbene nel Regolamento del CNF (ma non nella legge 247/2012) sia espressamente previsto il potere, nella pratica sempre oggetto di discussione, dell’acquisizione anche d’ufficio (ricavabile, ritengo, dal “comunque” di cui all’art. 11 comma 1) della notizia di illecito disciplinare da parte del CdO. Ultima notazione a proposito del Regolamento riguarda il cervellotico e disagevole, sebbene ipergarantista, criterio di composizione della sezione giudicante che, secondo molti, rischia di rallentare se non addirittura di paralizzare lo spedito funzionamento dei Consigli di Disciplina. E’ su questo che si sono per ora appuntate le maggiori critiche, ma non resta che iniziare a lavorare e vedere nella pratica cosa accadrà, seguendo l’esortazione di Madre Teresa di Calcutta. di Leonardo Biagi Jacques Verges: l’avvocato del Terrore Jacques Verges: l’avvocato del terrore Il destino ha voluto che la figura certamente controversa di Vergès passasse alla storia come una delle personificazioni dell’eterno quesito che viene posto agli avvocati: ma come si fa a difendere una persona che si macchia di crimini orrendi e che, magari, la si sa anche colpevole? Jacques Vergès, deceduto a Ferragosto dello scorso anno, ha difeso Klaus Barbie, ufficiale della Gestapo in Francia e detto anche il boia di Lione, Ilich Ramirez Sanchez, killer meglio conosciuto come Lo Sciacallo, capi dei Khmer Rossi accusati di genocidio, terroristi internazionali e fedayn palestinesi, capi di Stato africani. Sulla sua vita è stato girato un film documentario nel 2007 (“L’avocat de la terreur”) diretto da Barbet Schroeder. Accusato talvolta di violare la morale che impone all’avvocato difensore degli imputati almeno il rispetto per la vittima, nelle sue difese spesso usava strategie dirette ad abbattere addirittura il principio stesso di legalità che nel processo penale costituirebbe, in tale chiave, una sorta di tabù o di totem di una società conformista e che deve passare in secondo piano rispetto al primato di valori superiori costituiti, di volta in volta, dall’etica, dalla storia, dal realismo degli interessi o dai più alti principi di umanità, con ciò legittimando anche la difesa dal processo. Alla domanda di una giornalista, una volta rispose: “Se un pitbull divora un bambino, lo si abbatte, perché con l’animale il dialogo è impossibile. Ma con un uomo si può e si deve discutere. Se condanniamo un crimine in modo assoluto, non possiamo condannare un uomo in modo assoluto. E’ questo il Un’immagine di Jacques Vergès. paradosso dell’avvocato, che deve a tutti rispetto”. Vergès è stato anche un uomo di cultura, profondo conoscitore di Montaigne e Voltaire (abitava in un appartamento già abitato da quest’ultimo), e scrittore di estremo interesse: spesso dimentichiamo quanto sia importante nella formazione e nella professione di un Avvocato un bagaglio culturale e di conoscenze ulteriore rispetto alla necessaria preparazione giuridica, ed è importante ricordarlo soprattutto ai più giovani. Ciò costituisce un fattore essenziale per salvaguardare il prestigio e l’autorevolezza dell’Avvocato, sia come persona che come categoria professionale, ma la lettura soprattutto costituisce arricchimento, occasione di riflessione e di esperienza quanto mai importanti per chi, come gli Avvocati, sono chiamati più di ogni altro a conoscere le situazioni della vita e i molteplici aspetti dell’animo umano. In questo senso si ricorda in particolare un libro scritto da Vergès che si intitola “Giustizia e Letteratura” (edito da Liberilibri) e che così esordisce: “Un dossier processuale è sempre il riassunto d’un romanzo, il tema di una tragedia, la sinopsi d’un film. Ma questa tragedia, questo romanzo e questo film restano allo stato incompiuto: all’una e agli altri manca un quinto atto, un epilogo o uno scioglimento - in breve, un coronamento, foss’anche di spine, affinché il dramma sia completo. Solo gli avvocati hanno il privilegio d’essere a un tempo gli spettatori di quel dramma, confidenti del protagonista, e i coautori, poiché accompagnano l’accusato lungo l’intero processo e lo aiutano ad affrontare il quinto atto della sua tragedia, l’epilogo del suo romanzo, il finale del suo film. È a carico dei giudici incarnare il destino cieco.” L’autore ripercorre famosi casi giudiziari della letteratura o del mito, e quindi inventati, o casi realmente accaduti, fatti di cronaca, processi storici o politici, ed è quindi innanzi tutto interessante per l’immediato e diretto contenuto culturale e quindi educativo del libro. Con Vergès si rilegge, ad esempio, l’Antigone (“...I ver- L’Indicatore Forense bali d’udienza hanno qui la forma d’una tragedia...”) per mostrare se e come è possibile la sfida all’Autorità per affrontare un’accusa, usando anche la tecnica della difesa “di rottura” contrapponendo i più alti valori morali (il vincolo fraterno e la pietas verso i defunti) alla pur legittima volontà del potere; viviamo alcuni passaggi del processo a Giovanna d‘Arco, personaggio accostato non a caso al precedente per la sua intima tragicità. L’analisi finale del caso irrisolto di Jack lo Squartatore è psicologicamente arguta e certo inquietante perché pone il lettore di fronte ad un terribile aspetto della sua umanità: la possibilità di commettere crimini orrendi: “Se di fronte a crimini così eccezionali ci rifiutiamo di pensare che possano essere l’opera di uomini uguali a noi è perché ci sforziamo di dimenticare - poiché tutto ciò disturba il nostro ego - che il crimine non è assolutamente un sintomo di animalità, ma di ominazione”. Il libro prosegue con Dostoevskij e l’efferato crimine commesso da Raskonikov, Voltaire ed alcuni processi di fine ‘700, Eschilo, con il tema della vendetta della parte civile nelle Eumeneidi, il processo ad Albert Speer, André Gide ed altro ancora. Oltre che nel suo valore culturale, il libro è di estremo interesse perché ci svela, con una luce nuova ed originale, temi ed aspetti della giustizia che magari viviamo ed affrontiamo quotidianamente senza accorgersi tuttavia fino in fondo della loro importanza, profondità e complessità, e forse senza mai rifletterci abbastanza. Infine, probabilmente non è un caso se il libro si chiude con una riflessione sul difficile compito del Giudicante: “Giudicare non è solamente punire, e nemmeno prevenire, come predicano gli umanisti.....Giudicare è anche comprendere. In una parola, amare; e amare molto vuol dire amare chi vi somiglia meno.” 9 di Federico Procchi Dei delitti e delle pene Dei delitti e delle pene (in occasione dei 250 anni dell’ edizione livornese) 1. Muovendosi nel cortile interno del Tribunale Penale di via Falcone e Borsellino sarà capitato a molti di scorgere, nei pressi degli uffici del “casellario giudiziale”, una lapide - sbiadita dalle intemperie e dal passare dei lustri - cui è affidato il compito di ricordare che in quei locali, nel 1764, la tipografia di Marco Coltellini impresse la prima edizione della più nota opera del Marchese Cesare Beccaria, cui fece seguito la pubblicazione - dal 1770 al 1779 - della monumentale Enciclopedia francese. Va all’Unione delle Camere Penali Italiane ed alla Camera Penale di Livorno il merito di aver organizzato, con il patrocinio del nostro Ordine, un convengo internazionale che lo scorso maggio per due giorni ha ospitato nella città labronica alcuni tra i più importanti studiosi dell’opera di Beccaria per celebrare i 250 anni dell’edizione livornese di Dei delitti e delle pene. Ma quali furono le ragioni che indussero l’autore meneghino a scegliere di stampare proprio nella nostra città la prima edizione dell’opera che avrebbe reso immortale il suo nome? 2. A tal proposito si è soliti far leva sull’esistenza, in Toscana, di una “illuminata” legislazione in materia di stampa, tale da far prediligere gli stampatori del Granducato per la pubblicazione di tutte quelle opere che altrove sarebbero certamente incorse nella censura ecclesiastica. E, a ben vedere, la legge sulla stampa del 28 marzo 1743 aveva davvero ridimensionato drasticamente i poteri dell’Inquisizione, privilegiando il potere decisionale del revisore laico e limitando il successivo controllo delle autorità ecclesiastiche ad una sorta di “certificazione”. Tale normativa, in vigore per tutta l’età leopoldina (quanto meno nei suoi tratti fondamentali), dovette trovare a Livorno 10 Federico Procchi il mondo quelle idee, così nuove, erano ancora troppo audaci. un terreno più fertile rispetto ad altre realtà toscane, anche perché nella città labronica l’intento liberale di Francesco Stefano di proteggere la stampa, incoraggiando la circolazione dei libri - ivi compresi quelli editi all’estero - pareva coniugarsi perfettamente con la vocazione commerciale della città. Le particolari libertà di cui Livorno godeva come “porto franco” furono poste a profitto da Filippo Bourbon del Monte in vari settori, tra cui quello della stampa, durante il suo lungo governatorato (17571780). Si tenga inoltre presente che, a fronte di un irrigidimento normativo, nel 1763, trovò sempre maggiore affermazione in Toscana il fenomeno della cd. “stampa alla macchia” (priva, cioè, dei riferimenti editoriali o con indicazioni fasulle), prassi che nella città labronica trovò terreno particolarmente fertile. 3. Certo l’officina tipografica di Coltellini, attiva dal 1763, non poteva vantare né l’esperienza, né la collaudata organizzazione delle altre due famose ditte (Strambi e Santini) che incarnavano la tradizione dell’attività editoriale labronica. Alessandro Verri, inviato 4. L’edizione originale del capolavoro venne così stampata a Livorno, tra la fine di aprile ed i primi di luglio del 1764, con veste tipografica assai modesta: il frontespizio non recava alcuna indicazione, né dell’autore, né del luogo di edizione. Beccaria optò, tuttavia, per la riproduzione - come epigrafe del libro - di una citazione tratta dal saggio quarantacinquesimo, intitolato De officio iudicis, dei Sermones fideles ethici, politici, oeconomici, sive interiora rerum di Bacone: In rebus quibuscumque difficilioribus non expectandum, ut quis, simul, et serat, et metat, sed praeparatione opus est, ut per gradus maturescant. per così dire “in ricognizione” dal fratello Pietro, gli riferisce senza indugi di aver trovato un laboratorio estremamente modesto, che disponeva di “due soli torchi ed un compositore guercio”. La tipografia poteva, tuttavia, giovarsi in quegli anni della direzione del cognato del proprietario, Giuseppe Aubert; è a quest’ultimo che Pietro Verri affida dapprima la stampa delle Meditazioni sulla felicità (1763) e, subito dopo, il manoscritto dell’opera di Beccaria. Aubert sottopose il manoscritto di Dei delitti e delle pene alla lettura dell’auditore Franceschini, revisore regio, il quale, riconoscendone tutto il valore, raccomandò di stamparlo sotto altra data. Per L’Indicatore Forense Un monito solenne perché chi accingeva a leggere l’opera non dimenticasse che “in tutte le cose, ed in particolar modo in quelle più difficili, non è lecito aspettarsi di seminare e mietere contemporaneamente, ma è necessario che ci sia una preparazione, affinché esse maturino in modo graduale”. Si trattava di un’epigrafe in qualche modo “premonitrice” del destino del libro: la prima tiratura, già esaurita nell’agosto del 1764, avrebbe ceduto il passo a nuove edizioni, continuamente accresciute, tradotte e commentate in molteplici lingue, che hanno consentito al messaggio di Beccaria di entrare a far parte del patrimonio morale di uomini d’ogni nazione e d’ogni cultura. L’Avvocato penalista e la Deontologia: i rapporti con i testimoni di Franco Balestrieri L’Avvocato penalista e la Deontologia: i rapporti con i testimoni La questione che andiamo ad esaminare è di quelle che tolgono il sonno a noi avvocati, in particolar modo a quanti di noi operano in ambito penale. E’ frequente, infatti, che l’assistito nel narrare al difensore la propria versione dei fatti per i quali è indagato, faccia riferimento a soggetti che sono a conoscenza di come la vicenda ha avuto luogo e chieda il loro contributo in qualità di testimoni nel celebrando procedimento, nonché stimoli il difensore a parlare direttamente con loro al fine di convincerlo della propria estraneità ai fatti addebitatigli. Ecco che - consapevole di ciò - il Legislatore Deontologico ha creato nell’ambito del Codice una norma tesa a dettare i canoni di comportamento del difensore nel rapportarsi con i testimoni. Il rapporto - o meglio - il contatto con il testimone da parte dell’Avvocato, è disciplinato dall’art. 52 del nostro Codice Deontologico, ove al primo comma si legge “L’avvocato deve evitare di intrattenersi sulle circostanze oggetto dei procedimenti con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”. Quanto sopra fa da preambolo e chiosa allo stesso tempo ad una norma - il citato art. 52 C.D. che disciplina il modus nel quale l’avvocato deve esercitare quella facoltà resagli dal codice di procedura penale al libro V, Titolo VI bis, con il precetto di cui all’art. 391 bis e ss. in materia di investigazioni difensive. Infatti, l’art. 52 C.D. prosegue disciplinando i vari ambiti dell’attività di indagini difensive, valorizzando da un lato le capacità giuridiche e morali del professionista ed allo stesso tempo dettando regole sia per l’espletamento di detta attività, sia per il successivo impiego delle sue risultanze. In particolare, il Legislatore pone all’attenzione del difensore la necessità o l’opportunità di svolgere dette indagini nell’interesse del proprio assistito, esaltando, quindi i doveri di diligenza e competenza sanciti dagli artt. 8 e 12 C.D., le modalità e le forme, nonché tutta una serie di doveri ai quali è soggetto, come il vincolo del segreto - anche per neva all’avvocato di evitare di intrattenersi con i testimoni, in quanto tale condotta integrava violazione dei doveri di dignità e decoro professionali; in seguito e poi con la previsione codicistica sopra richiamata della facoltà di investigazioni difensive, il Legislatore deontologico si è sentito in dovere di raccogliere nella norma in parola tutta una i collaboratori che lo affiancano o ai quali demanda alcune fasi la conservazione del materiale raccolto, l’obbligo di informazione nei confronti delle persone interpellate circa la sua qualità, della facoltà che hanno di non rispondere alle domande e della possibilità che possano esser chiamate davanti al pubblico ministero o al giudice e, in quella sede, dell’obbligo che avranno di rispondere anche alle domande del difensore. La norma in commento deve essere, necessariamente, letta alla stregua dell’evoluzione che ha avuto il ruolo del difensore nel processo penale, con particolare riferimento alle indagini difensive. Prima dell’avvento dell’art. 38 disp. att. cpp. e successivamente dell’art. 190 cpp, il difensore non poteva svolgere attività di indagine e, pertanto, il previgente Codice Deontologico impo- serie di condotte da osservare al fine di preservare quei principi fondamentali della professione stessa, data la peculiarità del mandato cui si vincola il professionista nel caso di specie. Infatti, il difensore che intende - o meglio che sceglie nell’interesse del proprio assistito - di rapportarsi con i testimoni, svolgendo investigazioni, deve prestare una particolare attenzione, trattandosi di attività che, per loro natura, sono veramente delicate. Proprio per quanto sopra affermato, attenzione particolare merita il punto 7 dell’art. 52 C.D., laddove si fa espresso divieto al difensore ed ai vari soggetti interessati di corrispondere compensi o indennità alle persone interpellate, salva la facoltà di provvedere al rimborso delle spese documentate. In riferimento a quanto sopra, corre l’obbligo di ricordare che L’Indicatore Forense Franco Balestrieri l’art. 377 c.p. intitolato “intralcio alla giustizia”, disciplina l’ipotesi in cui taluno, offrendo denaro o altra utilità, induca il testimone, il perito, il consulente o l’interprete a violare i precetti di cui agli artt. 371 bis e ter, 372 e 373 del codice penale; trattasi di condotta penalmente rilevante che assume connotati ancor più gravi se posta in essere da un avvocato. Nondimeno, quanto sopra integrerebbe, altresì, la violazione dell’art. 14 C.D., titolato “dovere di verità”, laddove si dice espressamente che l’avvocato non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false. Tale spirito si appalesa leggendo il punto 14 della norma in commento, laddove recita che il difensore ha il dovere di rispettare tutte le disposizioni fissate dalla legge e deve comunque porre in essere le cautele idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni; proprio a tal fine, il difensore dovrà ammonire il testimone circa le conseguenze che discendono dal rendere false dichiarazioni. Preso atto di ciò, il messaggio che il Legislatore Deontologico invia al professionista forense che si accinge a svolgere indagini difensive e, pertanto, ad entrare in contatto con soggetti che potranno far parte del celebrando processo, è quello di tener ben presenti i capisaldi del nostro Codice Deontologico quali l’art. 5 - probità, dignità e decoro - l’art. 6 - lealtà e correttezza - il 9 - segretezza e riservatezza, ma, soprattutto, i canoni indicati nel Preambolo del nostro Codice, laddove si dice che l’avvocato nell’esercizio della sua funzione deve assicurare la regolarità del giudizio e del contraddittorio. 11 di Cecilia Gradassi Essere avvocato Faccia a faccia: avvocato o avvocata? Un recente fatto di cronaca che ha avuto al centro la condanna in sede penale di una collega, definita dalla giornalista “avvocata”, ha scatenato un dibattito sui social network, che ha chiamato in causa anche l’Accademia della Crusca, su quale sia il termine corretto per definire le donne che svolgono la professione forense. Escluso pressoché all’unanimità il termine “avvocatessa”, la contesa si accentrata sull’alternativa “avvocato o avvocata”, che vede strenui difensori sull’uno e sull’altro versante. Ci è parso dunque interessante mettere a confronto le diverse opinioni anche perché la questione, come ben emerge dagli interventi che seguono, non è di mero carattere linguistico (M.V.) Essere avvocato Rivolgendosi ad un legale donna deve dirsi “Avvocato” o “Avvocata”? Mi è stato chiesto di mettere nero su bianco il mio pensiero e le mie convinzioni in proposito. Probabilmente perché in Consiglio quando Sandra Albertini ci espone in materia di “pari opportunità”, di “quote rosa” o di “legittimo impedimento” sembro apparire una conservatrice poco illuminata. Non è così. Sono oramai convinta - grazie anche a Sandra - che le politiche adottate dalle istituzioni forensi (CNF e Cassa) negli ultimi anni riguardo alle c.d. quote di genere (o quote rosa), seppur a mio avviso non condivisibili, siano NECESSARIE qualora un siffatto meccanismo venga inteso come una opportunità che tenda a riequilibrare la giusta proporzione negli organi di rappresentanza. Non devono essere, invece, intese come diritto per le donne togate a vedersi riconosciuta una “riserva di genere”. Al solo pensiero - confesso - mi ribolle il sangue perché ritengo che, nelle elezioni alle cariche istituzionali o politiche dell’avvocatura, non si possa imporre una donna in quanto tale e a prescindere dalle decisioni che scaturiscano dalle urne. Democraticamente, é l’elettorato che deve decidere in base alle capacità, alle propensioni e ai meriti della persona (sia essa donna o uomo). Ma prima la persona (donna o uomo che sia) deve proporsi, deve candidarsi. E’ una scelta il candidarsi, il proporsi per - se del caso - ricoprire una carica o una funzione istituzionale nell’Avvocatura. Allo stesso modo quella di essere Avvocato è una scelta libera e personale dettata da molteplici fattori 12 (passionali, sociali, culturali, economici, etc.). Al giorno d’oggi, non può esserci spazio a discriminazioni in una siffatta scelta. Discriminate nella loro scelta (a tacer d’altro!) furono Lidia Poet e Teresa Labriola in un’epoca in cui l’accesso all’Avvocatura alle donne era totalmente preclusa: vigendo peraltro l’autorizzazione maritale ex codice civile del 1865, le donne erano destinate ed idonee solo ed esclusivamente ai “familiari uffici e a tutti quegli uffici sociali i quali abbiano qualche affinità con questi e che non li perturbino” in quanto “la donna avvocato avrebbe finito con l’abdicare alle proprie naturali funzioni materne e sociali, con grave pregiudizio per l’interesse superiore della famiglia e, di riflesso, della società intera” (in GABBA C., Le donne non avvocate, Pisa 1884). Adesso non è più così. Adesso l’Avvocatura è, fortunatamente, conquistata dalle donne che rappresentano il 50% degli iscritti (a Livorno, considerando anche i praticanti senza patrocinio, il numero delle donne è peraltro superiore a quello degli uomini: 581 donne contro 528 uomini). Ciò posto, perché solamente adesso talune donne Avvocato sentono il bisogno di farsi chiamare “Avvocata”? Non può essere un problema meramente linguistico (peraltro, la parola Avvocata così come sindaca o ministra è piuttosto cacofonica). Per quanto ci consta, la rivendicazione di femminilizzare le qualifiche o più propriamente le professionalità sembra nascere dai cambiamenti sociali culturali e politici intervenuti negli ultimi decenni. Non può, quindi, essere una questione di corretto uso della lingua italiana (Accademia della Crusca docet) ma si tratta di problematica che va al di là di una connotazione (maschile e femminile) pura e semplice e che, inevitabilmente, ricade in ambito dei rapporti tra uomini e donne in generale e, nella specie, nel rapporto che le donne hanno con gli uomini. Gli avvenimenti occorsi sembrano far ritenere che quando i numeri (delle donne in Avvocatura così come in politica, nelle istituzioni o nelle altre professioni in passato prerogativa del sesso maschile) sono andati in pareggio sia iniziato lo “scontro”: Uomini contro Donne, Avvocato contro Avvocata, come se quella “A” al termine di una parola possa rivendicare una identità, un valore e attribuisse dignità alla donna che svolge la professione. Sebbene rispetti profondamente la collega che preferisce sentirsi chiamare “Avvocata”, non credo che sia assolutamente così che stanno le cose. E, comunque, non ho MAI sentito dentro la necessità di andare a qualificare al femminile il ruolo o la funzione (oppure la carica) che la donna si trova, di volta in volta, a svolgere (o ricoprire). Ho da sempre ritenuto che l’attività che ci troviamo a svolgere fosse connotata dalla neutralità rispetto al sesso di chi la esercita. Ritengo che non debba avere alcuna rilevanza se Tizio è difeso da un uomo o da una donna ma sarà, invece, importante che Tizio sia assistito al meglio, che colui o colei al quale Tizio si rivolge sia un professionista preparato, com- L’Indicatore Forense Cecilia Gradassi petente e deontologicamente corretto. Insomma, con il diritto ad essere difesi la “O” ovvero la “A” finale niente hanno a che fare. Ma v’è di più. Ho, altresì, ritenuto che questa spasmodica corsa a femminilizzare le professioni - peraltro tanto “politicaly correct” e in voga nella stampa locale e nazionale - sia oltremodo sminuente per le donne. Fin dall’inizio della pratica forense ho sentito di voler essere AVVOCATO, lo volevo con tutta me stessa perché sentivo, nel profondo, che era comunque la mia strada. Professionalmente parlando, essere Avvocato (e non fare l’Avvocato) era il mio sogno e rappresenta tutt’oggi un onore ed un privilegio svolgere questa professione. Riuscire ad essere un Avvocato comporta sacrificio, in ogni senso. E, quindi, quando ti imbatti nel primo cafone di turno che ti si rivolge appellandoti “Signorina”, beh, quegli anni trascorsi a studiare con l’ansia dell’esame di Stato che ti toglie la fame e i week-end spesi a finire un atto che scade ti si ripresentano davanti con una violenza inaudita e la tua dignità di donna di fa esclamare seccamente: “Avvocato, prego!”. di Aurora Matteucci Avvocata: un “ambiguo malanno”? Avvocata: un “ambiguo malanno”? Contro l’in-differenza di genere. - Per la necessità del linguaggio sessuato. Era il 1883. Lidia Pöet, tentò, prima donna in Italia, a varcare le soglie dell’avvocatura. La sua iscrizione venne impugnata dal pm e annullata dalla Corte di appello di Torino (App. Torino, 11/11/1883). Le pagine di quella sentenza, oggi, sono quanto di-più distante si possa immaginare dal rinnovato senso comune. Non si discute certo più di come (e se) legittimare le donne all’esercizio della professione forense. Agli occhi - maschili e femminili - moderni, le parole dei giudici torinesi suonano come l’eco lontana di tempi andati, né più né meno che grotteschi esercizi ermeneutici funzionali al mantenimento di una organizzazione sociale patriarcale. L’esclusione di Lidia e delle donne tutte dall’esercizio della professione forense poggiava, allora, su queste bieche ragioni: la pudicizia sexui per la quale era sconveniente che il “gentil sesso” prendesse parte allo strepito dei pubblici giudizi in cui si discutono argomenti che potrebbero imbarazzare le “donne oneste”; la necessità di rispettare i più elementari canoni estetici violati dall’uso della toga su abbigliamenti femminili e l’imparzialità dei giudici che ben avrebbero potuto far pendere l’ago della bilancia in favore di una “avvocatessa leggiadra”. La pretesa delle donne era, dunque, considerata arrogante: esse non debbono pretendere di divenire eguali agli uomini “anziché [preferire di rimanerne] le compagne, siccome la Provvidenza le ha destinate” (lo ricorda anche G. Alpa, Prefazione al testo “Donne e diritti. Dalla sentenza Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana”, ed. Il Mulino, 2005, 7-33). Vi era, tuttavia, anche una ra- gione “ formale” (se possiamo arrivare a definire sostanziali quelle descritte prima) a favore dell’esclusione: la legge professionale, scrivono i giudici torinesi, non parla mai di avvocate. Si rivolge solo agli avvocati, dunque, agli uomini. La differenza di genere veniva quindi coniugata in negativo: le avvocate erano escluse perché la legge professionale era indirizzata ai soli avvocati. Mi si potrebbe dire: vedi, oggi le cose sono cambiate siamo tutti avvocati, tutti godiamo degli stessi diritti, tutti esercitiamo la stessa funzione. Noi avvocatidonne possiamo essere iscritte all’albo. E ci mancherebbe che non fosse così.. Ma la questione deve assumere, secondo me, toni e dimensioni diverse. Proverò, allora, a rendere merito all’occasione che Marco Vitalizi mi ha dato nel prendere posizione su questa questione a me davvero cara da anni, da molto prima che cominciassi la meravigliosa avventura della professione forense ringraziando la collega Mariapia Lessi alla quale devo non solo di aver alimentato, coltivato e instradato questa sensibilità (che ha contribuito a forgiare insieme ad altre donne del centro donna di Livorno, oggi Evelina De Magistris, frequentato negli anni della mia adolescenza, quando il formante lessicale neutro sembrava l’unico disponibile nonostante la nostra lingua possieda oggi e possedesse anche allora multiformi e variegate declinazioni) ma anche i suggerimenti e le letture che mi hanno aiutata a dare forma ad un pensiero che dentro di me (e anche fuori da me) si va costruendo da anni. Lo faccio partendo dalle obiezioni che, da quando mi sono affacciata a questa professione tentando, con somma fatica, anche personale, di suggerire nei luoghi istituzionali e negli scritti difensivi, una declinazione di genere e di farmi chiamare avvocata anziché avvocato, mi vengono mosse soprattutto dalle colleghe: il termine avvocata è un neologismo ed è cacofonico. L’altro: ma non credi che sia sminuente della nostra funzione etichettarci come avvocate? Noi donne siamo uguali agli uomini. Io non esercito una professione diversa e quindi ho diritto di essere chiamata avvocato. Farmi chiamare avvocata sarebbe come disinvestire sull’obiettivo della parità. Ultimamente mi è stato anche rimproverato l’anacronismo della questione: insomma, stiamo sempre qui a battagliare di parità? Il femminismo è fenomeno da archiviare nei gloriosi anni ’70. Se siamo ancora a questo punto, vuol dire che qualcosa non va. Io piuttosto direi: se siamo sempre qui vuol dire che qualcosa non è passato. Non credo che queste ragioni siano valide. Non certo quella del neologismo cacofonico, né tanto meno quella della pretesa deminutio della nostra funzione che presuppone un’idea, che non condivido, della presunta neutralità dell’uso maschile del termine avvocato, valido per tutti. Provo a spiegarmi cominciando con un esempio. Entriamo nello studio legale Rossi. Squilla il telefono. La segretaria: “Studio legale Rossi, buonasera”. Il sig. Bianchi: “Buonasera, sono il Sig. Bianchi, cerco l’avvocato Rossi”. Segretaria: “ Mi rincresce, l’avvocato Rossi non c’è. E’ ad una riunione a scuola del figlio doveva parlare con il professore di matematica. Ma sarà qui tra un’ora. Appena rientrato la faccio richiamare”.-Sig. Bianchi: “No, grazie, non lo disturbi, non è urgente, provo io a contattar- L’Indicatore Forense Aurora Matteucci lo domani. Intanto mi faccia la cortesia di anticipargli-che ho contattato l’Ingegnere Gialli e che si è reso disponibile ad essere il-nostro consulente di parte”. L’avvocato Rossi è una donna o e’ un uomo? Non è dato saperlo. Il professore di matematica è senz’altro un uomo. Altrimenti avremmo usato il termine professoressa,-da anni non fa più scandalo. La segretaria è senz’altro una donna. Se fosse stata segretario generale del Comune di Livorno, chissà, forse l’avremmo chiamata “il segretario generale, dott.ssa Verdi”. E L’ingegnere Gialli? Forse uomo, forse donna. Siamo davvero convinte/i che la ragione che giace al fondo di questa resistenza sia solo grammaticale? Se così fosse, staremmo consumando un errore perenne. A dircelo è l’Accademia della Crusca, ormai impegnata da tempo sul fronte del corretto uso della lingua italiana. Per la Crusca il termine corretto è avvocata. Altro che neologismo cacofonico! Non è un neologismo. Il termine deriva dal latino ad-vocata. Ad essere nuovo, semmai, è il suo uso corretto. Se secondo le nostre comuni regole grammaticali è sbagliato (oltre che cacofonico) usare l’articolo maschile per definire alcune professioni o situazioni (tradizionalmente appannaggio delle donne) come il maestra, o il casalinga,-perché mai dobbiamo avallare questa incoerenza lessicale, infrangendo regole consolidate, quando ad essere in gioco sono professioni diverse ed inorridire, all’opposto, per 13 di Aurora Matteucci Avvocata: un “ambiguo malanno”? la corretta declinazione? Perché saltare sulla sedia quando correttamente diciamo la ministra, la sindaca, la deputata, la architetta, la ingegnera, la avvocata? Ci si è chiesti perché, tanto per fare un esempio, diciamo l’infermiera e non l’ ingegnera. Le due parole sono, linguisticamente, sovrapponibili, stessa desinenza. Non sono sovrapponibili le professioni che descrivono. Se il termine ingegnera rappresenta un’offesa per le orecchie di qualcuno, forse si annida, dietro questa ritrosìa, un pregiudizio. Non è la forma ad esser sotto accusa, ma il suo significato. La forma è in questo caso sostanza: perché linguaggio veicola, lo sappiamo bene, concetti, opzioni politiche, funzioni. Veicola convinzioni, trasformazioni sociali, relazionali. Il nostro poi si è mostrato negli ultimi tempi anche estremamente flessibile all’accoglimento di termini tecnici nuovi che hanno irrobustito, piaccia o non piaccia, il nostro vocabolario (taggare, twittare, postare…). Ma l’antipatia dura poco. Eppure, quando ad essere correttamente declinate sono proprio le professioni che con fatica e a suon di rivoluzioni culturali abbiamo preteso che ci appartenessero il nostro linguaggio tende ancora a mortificare la sostanza. La professione di infermiera ormai si nutre di un riconoscimento sociale collaudato. Lo stesso non può dirsi per la professione di ingegnera. Né per quella di avvocata, nonostante i numeri oggi rivelino il contrario. Ma, evidentemente la forza di questa conquista sociale che dobbiamo a donne come Lidia Pöet o Elisa Comani (prima avvocata italiana), ancora stenta a consolidarsi. Il numero non è abbastanza. Ci vuole la consapevolezza della nostra identità di genere, anche sul piano professionale. D’altra parte quando analizziamo la nostra presenza nell’avvocatura sulla base dei tre parametri del ruolo, della rappresentanza, del reddito gli alti numeri della iscrizione agli albi - che agitiamo, giustamente, come una conquista- sono destinati ad evaporare come i fumi di 14 Lidia Poët La prima donna ad entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia una ciminiera, a non fotografare correttamente il reale livello di disparità che ancora connota la nostra dimensione professionale. Pensiamo all’influenza che esercitano anche oggi, sulla scelta del settore di elezione,-considerazioni che poco o nulla hanno a che fare con le nostre reali ambizioni professionali: ritmi pesanti di lavoro inconciliabili con la famiglia, incapacità di adeguarsi a parametri maschili. In un saggio di Ilaria Li Vigni, collega penalista milanese, “Avvocate, sviluppo e affermazione di una professione” (ed. F. Angeli, 2013) si ricorda come il 70 % delle avvocate penaliste dichiara di lavorare 8 ore al giorno e purtroppo di chiedere la cancellazione dall’albo dopo solo cinque anni dall’ottenimento del titolo. Solo 15 donne presiedono, in Italia, i Consigli dell’ordine (secondo dati risalenti al 2012 e diffusi dal Cnf).Quanto al reddito, sempre secondo i dati riportati da Ilaria Li Vigni, una avvocata percepisce una retribuzione pari al 54 % in meno dei colleghi uomini. Se la questione, infatti, fosse solo, per così dire, grammaticale sarebbe presto liquidata, grazie all’autorevole posizione dell’Accademia della Crusca. Ma so bene che l’argomento grammaticale non soddisfa le ragioni della mia scelta, né consente di superare l’altra obiezione. Io non desidero la declinazione al femminile solo perché mi piace usare correttamente l’italiano. E chi grida allo scandalo della cacofonia non si accontenta dell’eccezione grammaticale sol perché “suona meglio” il termine avvocato. In realtà lo considera un neutro, in- differentemente utilizzabile per uomini e donne. Noi professioniste/i del diritto ben sappiamo che l’interpretazione letterale di una norma non sempre è in grado di dipanare l’opacità di significato che esso conserva, ahimé, oggi sempre meno perspicuo. Ci dobbiamo affidare, a volte, anche alle rationes legis, dunque, alle motivazioni politiche che sottendono L’Indicatore Forense l’introduzione di una regola, di un istituto, di un articolo, di una legge etc. Guardando al fondo della questione, allora, a me pare che le ragioni politiche siano quelle più robuste ad essere superate, scalfite, scansate, perché paiono avvinte a filo doppio ad un equivoco che si è andato consolidando negli anni: quello della confusione tra parità e omologazione al modello maschile. Essere uguali agli uomini, usare il loro linguaggio, i loro codici etici e quelli grammaticali costituisce per qualcuna/o il raggiungimento dell’obiettivo della parità. Ciò diviene tanto più evidente quando noi donne ci accingiamo a praticare professioni tradizionalmente maschili. Come scrive Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, nel suo “L’uso del genere femminile nell’italiano contemporaneo”, l’utilizzo di forme maschili per descrivere una professione esercitata da una donna esprime una visione androcentrica della società.-Riequilibrare un periodo di discriminazione significa rendere visibili le donne e questo deve inevitabilmente partire dalla scelta per un linguaggio che restituisca valore alla nostra aspirazione professionale attraverso il riconoscimento della nostra identità. Noi non siamo uguali agli uomini pur indossando la stessa toga con pari dignità e pur godendo o dovendo godere degli stessi diritti e traguardi: nominarci correttamente significa riconoscere la nostra differenza di genere senza nulla togliere alla nostra funzione. Diversamente “ annegheremo la nostra identità nella[loro], […] cancelleremmo la visione che la nostra esperienza della società ci ha aiutate a intravedere (V. Woolf,-Le tre ghinee, Milano, 1998, 143-144). Io sono donna, sono avvocata, felice di esserlo. - E ad Euripide, in coro, dovremmo dire che no, non siamo un ambiguo malanno. I tempi sono più che maturi perché si possa smettere di sentirci ridicole se ci chiamiamo con il nostro nome. di Arrigo Melani Angelo Froglia, genio e sregolatezza Angelo Froglia, genio e sregolatezza Faccia da putto intelligente, aveva i capelli a caschetto come un artista rinascimentale Angelo Froglia nacque a Livorno il 23 marzo 1955, da Bruno - portuale - e Argia Guerrieri, in via dell’Ufficio dei Grani, e venne a mancare l’11 gennaio 1997, un venerdì, alle 7 e 15 del mattino, in Roma, all’età di 41 anni, 9 mesi e pochi giorni. E’ passato alla storia labronica per l’episodio delle “teste false di Modigliani”, ripescate nei Fossi insieme a quelle dei tre studenti, Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci, ma il nostro desiderio è di illustrare la sua persona (difficile, difficilissima), e la sua figura per altri motivi, avendo avuto la ventura di conoscerlo fin da quand’era ancora ragazzo e di aver conversato telefonicamente con lui quasi tutti i giorni di quel fatale gennaio 1997. Perché scrivere di Angelo Froglia? Innanzitutto perché, nella galleria dei livornesi raccontati nella “History”, è da collocare tra i principali e non solo per il suo genio e la sua sregolatezza ma perché vivere quaranta anni o poco più con l’intensità con la quale spese i suoi giorni è di pochi, è fuori dagli schemi giornalieri, è illustrare l’anti tran-tran quotidiano, lui che fu pittore in antitesi ai colleghi, anche i più celebri, che vissero o vivono ancora in una nicchia serena e quasi felice, con tanto genio ma senza sregolatezza. Ci sovviene uno dei più celebrati post-macchiaioli, Giovanni Lomi, per fortuna di chi scrive dirimpettaio di abitazione: usciva la mattina a sole inoltrato, con il cavalletto e la cassetta dei colori e tornava per l’ora di pranzo - dal lungomare o dal porto - con le piccole tele dipinte, sereno, sorridente. Dicevo al suo figlio Ghigo ed al nipote Massimo - pure odierno dirimpettaio - è il più bel mestiere del mondo, libero, senza padroni, senza orario. Dirà invece Angelo Froglia: “Dipingere è un mestiere da puttane, è ingoiare il sesso di Dio senza dare al- cunché in cambio... dipingere è bello, bello come fare del sesso, bello come sentire i rumori ch’escano dal seno sudato e compresso della femmina che s’accende nell’amplesso”. La faccia da putto intellingente Da via dell’Ufficio dei Grani la famiglia Froglia si trasferisce in via della Maddalena. Dopo il liceo artistico, Angelo frequenta l’Accademia di Belle Arti di Firenze, ma a quindici anni di età, cioè nel 1970, partecipa ad una Mostra-Concorso a Piombino con un quadro-denuncia nei confronti della “prigionia degli animali” e titola l’opera “Una scimmia in gabbia”: vincerà il primo premio. L’Accademia di Belle Arti era diretta da Afro Basaldella che veniva da New York ed era considerato l’erede legittimo di Picasso perché sapeva intrecciare il cubismo con l’impressionismo americano. Sarà un incontro fondamentale per Angelo nel nel 1971 apre a Livorno il primo studio (se il ricordo di Roberto Pisani - detto l’Etrusco - altra figura nel mondo pittorico livornese, è preciso, si tratta di un fondo della via S. Carlo, nel tratto da via Verdi a Borgo Cappuccini), con importanti frequentazioni: Antonio Favilla, compositore jazz, Maurizio Beltramme, Ubaldo Bronchi, Massimo Carboni - diplomato ragioniere, laureato in Lettere -, Cinzia Contini, Tiziano Gorini, 1984: Angelo Froglia in conferenza stampa nello studio degli avvocati Arrigo, Riccardo e Andrea Melani illustra le sue “teste di Modì”. (foto Renzo Del Secco). L’Indicatore Forense Arrigo Melani Gualtiero Vannucci che costituirono “Il gruppo del portone” che pubblica il giornale “La scimmia sotto il sole”, ove, nel primo numero, Froglia scrive un articolo su Dada. E’ sempre Roberto Pisani che ci narra come da quel gruppo derivassero tele e disegni che poi venivano venduti all’estero. Di Angelo Froglia scrisse Mario Aiello sul settimanale Panorama: “Avrà un figlio concepito a 18 anni e poi gli capiterà di diventare nonno a 36. Aveva i capelli a caschetto come un artista rinascimentale, la faccia da putto intelligente e lo sguardo da livornese molto Modì. Figlio della contestazione sessantottesca e ci ha creduto davvero rimanendone impigliato per sempre e per questo va rispettato”. La dura realtà carceraria Nel maggio del 1997 (pag. 157 della Retrospettiva ‘73-’96, Edit. Graphis Arte) si legge: “... Nel 1977 conosce Marco Solimano e si inserisce nelle Brigate Rosse. Seguirà l’assalto alla Cisnal di Livorno - 1978 - cui non partecipa personalmente ma al processo, per coerenza ideologica, non si discolpa sicché scontò un periodo di carcere fino all’81 e quando rientra a Livorno lascia l’organizzazione come dissociato e riapre il “capitolo droga”, nuova dura realtà carceraria: Novara, Cuneo, Fossombrone, nella spirale della droga e in quella dell’aids. E scrive, pittura, legge, studia. Il critico d’arte Duccio Trombadori precisa: «...figlio di un tem- 15 di Arrigo Melani Angelo Froglia, genio e sregolatezza po difficile e ingrato Angelo F. è passato attraverso i momenti più acuti dell’esperienza vissuta dalla sua generazione... L’arte non ama la ripetizione, vive di un solo esempio e può consumarsi tutta all’istante. Di questa pasta dovevano essere nutriti i pensieri di Froglia quando, nel 1984, con l’aiuto di una telecamera si mise a parodiare Amedeo Modigliani e gettò nel canale di Livorno due teste scolpite in granito dell’Elba e in pietra serena...; l’intellettuale Froglia e il suo programma “maledetto” che medita su Schopenbauer e Nietesche, cita Picasso, Duchamp e l’antropologo Levy-Strauss; Froglia che indica la via di una “verità interna” ai suoi dipinti con il riferimentoalle virtù del “nero” quale colore predominante, totale assenza di luce e perciò «negazione assoluta”». E’ proprio nel 1984 che Angelo si reca in Francia per esaminare i disegni di Picasso esposti all’Hotel Salè e comincerà a lavorare su quei disegni, a Cannes. Si era trovato in carcere durante il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e lui continuava a prendere appunti e dipingeva quadri usando colori rudimentali, impastando frammenti di intonaco con gocce di saliva e nel contempo diventava amico di Renato Curcio “con cui forse l’univa il senso pudico di una responsabilità personale che non cerca clamore nè indulgenza” (così scriveva il già citato Ajello su Panorama). Si dichiara Caronte, il traghettatare dei malati di Aids Sono 400 le opere di Angelo Froglia realizzate soprattutto negli ultimi 5-6 anni di vita quando affermava “sono venti anni che dipingo ma mi par di cominciare domani e va bene sia così”. Ha scritto Nicola Micieli in “Mediterraneo ed altre storie”: “... Angelo Froglia ha lavorato con una intensità rapinosa quasi preso da una sorta di eroico furor creativo o di invasamento, diremmo in chiave dionisiaca”. Livorno gli è stretta: si reca in Francia per conoscere Jean Modigliani, va a Stoccarda e 16 Angelo Froglia. “Figure” 1992 olio su tela 100x150 poi a Barcellona ove esagera con la droga e torna in Italia in fin di vita, ricoverato in coma all’Ospedale Civile di viale Alfieri ma supera la crisi anche se scopre di essere sieropositivo; tornato, relativamente, in salute, si dedica intensamente al lavoro soggiornando a Castiglioncello e sono del 1988 le Mostre Internazionali con la Galleria Rotini. Nel 1990 entra nella Comunità di Don Pierino Gelmini e si dichiara “Caronte” per traghettare i malati di Aids allo “sbarco supremo” ed insegna loro a dipingere icone sacre, alla maniera dei russi. Negli anni successivi si sposta a Tavarnelle e scrive: “...Lì ho vissuto con estrema soddisfazione la contraddizione forte dell’essere metropolitano fino al midollo e vivere, tra il verde acuto del Chianti, la serenità malinconica, crepuscolare, indotta dai cirri che si rincorrono sospinti da una brezza senz’afa che in città non si conosce”. E’ di questi anni la sua frequentazione del mio studio legale per reati di droga, ove viene sempre con bellissime donne e sempre diverse, tutte perdutamente innamorate. Angelo è calmo, educato, gentile, alza le spalle a chi lo definisce “il pittore maledetto”, mi dà del “lei” e ce ne vorrà per il “tu”, anche in lettere dal carcere ove mi reco per colloqui sempre sereni e mai banali. Ha improvvisi scatti quando legge certe motivazioni di sentenze ma sempre con grande dignità, come erano gli scatti micidiali dello zio Nedo Froglia, un campione del ciclismo labronico. L’incontro ed il matrimonio con Patrizia L’ultima avventura geografica è Montalto di Castro ove arriverà a dimensioni impensabili. Là scopre il ristorante giapponese perché gli piace l’idea dei tavolini bassi, del pesce crudo e delle salsine anche se, all’alba, si cucina trippa e uova al tegamino. E proprio a Montalto conosce Patrizia Ciferri, una attraente ragazza che lavorava come organizzatrice e si sposano nella vecchia sede del Partito Comunista dove andava a parlare Di Vittorio, rimessa a nuovo dai vecchi militanti. Compiuti gli anni, nel 1996, torna a Roma, è ormai conteso dai galleristi. E’ un personaggio: Maurice Bignani, uno dei più noti rappresentanti delle B.R., scriverà a Patrizia: “Ho conosciuto Angelo nel carcere di Nuoro, sapeva usare con lucidità la gentilezza quando tutti erano con il sangue negli occhi, sapeva nasconde- L’Indicatore Forense re la provocazione intellettuale quando tutti erano in uno stato di abulia, aveva la sublime arte del prestigiatore e dell’artista”. Non si passa quindi alla storia un figlio di Livorno che sorrideva a chi affermava che se le teste ripescate fossero state vere avrebbero avuto il valore di 14 miliardi di lire ciascuna. Ho, nel mio studio, un autoritratto giovanile che Angelo mi regalò spontaneamente dopo il primo incontro. La vedova Patrizia mi scrisse una lettera il 7 luglio del 1997: “Carissimo Avvocato, la ringrazio per i suoi consigli, la sua grande disponibilità ma soprattutto per il suo profondo rispetto nei confronti di Angelo. Questo la rende speciale, del resto quando Angelo mi parlava di lei lo faceva sempre con grande affetto”. L’anno 1955 Angelo era nato nel 1955 quando Pier Paolo Pasolini pubblicò Ragazzi di vita, preludio di Vita violenta, ed uscì il film più famoso di James Dean, Gioventù bruciata. Un anno che era pertanto, irrimediabilmente, nel suo destino. Dal libro di Arrigo Melani, Dicembre 2010, Ed. Il Quadrifoglio - Livorno La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa di Roberto Cartei La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa Da tempo la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo punta i suoi riflettori su una anomalia che si manifesta con una certa frequenza nel nostro ordinamento. Si tratta dell’uso distorto della legge di interpretazione autentica cui non infrequentemente il legislatore nazionale fa ricorso perseguendo obiettivi che niente hanno a che vedere con l’esigenza di interpretare una norma dal significato incerto. Per meglio comprendere il fenomeno di cui si tratta appare opportuno accennare anzitutto al caso paradigmatico che costituisce oggetto della più recente tra le pronunce della Corte Europea in materia (sentenza sul caso Azienda Agricola Silverfunghi c. Italia del 24.6.2014). Nel caso preso in esame dalla Corte, un’impresa Agricola aveva convenuto in giudizio l’Inps al fine di ottenere la restituzione di somme che, a suo avviso, l’istituto previdenziale aveva indebitamente riscosso. In particolare, secondo la prospettazione dell’Impresa, il diritto alla restituzione si fondava sul fatto che l’Inps non aveva mai voluto riconoscere la cumulabilità di due benefici – fiscalizzazione e sgravi contributivi – previsti dalla normativa speciale a favore di aziende agricole operanti in zone svantaggiate; benefici che invece, a suo avviso, dovevano ritenersi cumulabili. Il Tribunale adito accertava la fondatezza della domanda, condannando l’Inps alla restituzione delle somme, e la sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte di Appello. Occorre precisare che l’iniziativa giudiziale assunta dall’Azienda Agricola era stata preceduta da numerose cause promosse da altre imprese del medesimo settore, il cui diritto alla restituzione delle somme era stato accertato da Tribunali e Corti di Appello con decine e decine di sentenze (alla fine saranno oltre 150) le quali, senza eccezione alcuna, avevano verificato la fondatezza di tale diritto sulla scorta dell’interpretazione uniforme di norme speciali ritenute del tutto univoche e insuscettibili di dar luogo a dubbi interpretativi. La stessa Corte di Cassazione aveva confermato, con due sentenze, la correttezza dell’operato dei giudici di merito. Senonchè l’incidenza del contenzioso sulle non floride casse dell’Inps induceva il Governo, preoccupato per le condizioni finanziarie dell’istituto previdenziale, a correre ai ripari. Come? Per mezzo di un Decreto Legge con cui si dichiarava che alla norma sulla quale si fondava il diritto delle imprese alla restituzione delle somme erroneamente versate, doveva essere data un’interpretazione opposta a quella che era stata data fino a quel momento da ogni giudice di merito adito e, come si è detto, dalla stessa Corte di Cassazione, cosicchè risultasse esclusa la cumulabilità dei due benefici e conseguentemente destinata al rigetto ogni domanda proposta contro l’Istituto. Il Decreto del Governo veniva poi convertito in legge senza neppure un dibattito parlamentare, dal momento che sulla legge di conversione il Governo poneva la fiducia. Ovviamente la legge così introdotta produceva subito l’effetto sperato: tutte le sentenze che avevano accertato fino a quel momento la cumulabilità dei due benefici e il conseguente diritto delle imprese alla restituzione delle somme indebitamente pagate venivano completamente ribaltate nelle successive fasi processuali, con il conseguente rigetto di ogni domanda. E così l’Inps risultava salvo; ma non lo Stato italiano, perché molte delle imprese creditrici, dopo il giudizio di Cassazione, ricorrevano alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Vista dall’osservatorio della Corte Europea, l’operazione attraverso la quale lo Stato-legislatore, in funzione delle esigenze segnalate dallo Stato-amministrazione, approva una legge che viene definita di interpretazione autentica ma che ha lo scopo, non già di eliminare dubbi interpretativi, che ogni sentenza ha in precedenza escluso, sibbene di introdurre una nuova disposizione definita di interpretazione autentica soltanto per renderla retroattiva, si tradu- ce in un’inammissibile ingerenza del potere legislativo sull’Amministrazione della Giustizia, dal momento che a questo punto al Giudice non rimane altra scelta che applicare la nuova legge con effetti retroattivi, ancorchè palesemente innovativa e manifestamente priva dei requisiti della norma propriamente interpretativa. Il fenomeno appare decisamente incompatibile con lo stato di diritto. La stessa Corte di Cassazione non ha mancato di segnalare, in particolar modo con riferimento alla materia tributaria, la gravità dell’anomalia e di stigmatizzare il fenomeno dello Stato-legislatore che viene in soccorso dello Statoamministrazione. Al riguardo, osservano le stesse Sezioni Unite (con la sentenza n. 25506/2006): “in materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro fisco, in quanto dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate). Non sono ispirati, quindi alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa”. Le Sezioni Unite sottolineano anche come l’anomalia risulti ancor più grave allorquando la norma che viene definita di interpretazione autentica sia introdotta dal Governo con ricorso al Decreto Legge. Sempre nella richiamata sentenza si osserva, infatti, che in questo caso “non è facile distinguere l’amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto legge del governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al governo”. Con il corollario che in questo caso “l’amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della norma sub iudice”. Come dire che, se esistesse un’etica del legislatore, in questi casi risulterebbe certamente violata. L’Indicatore Forense Roberto Cartei Nonostante le forti critiche rivolte al Legislatore, come si vede, dalla Magistratura ordinaria, e nonostante che la Corte di Cassazione abbia più volte sollevato la questione di legittimità costituzionale di norme definite di interpretazione autentica, la Corte Costituzionale, a quanto consta, ha ogni volta salvato la legge interpretativa, ma lo ha fatto con argomentazioni che suscitano non poche perplessità e che, a dispetto delle dichiarazioni di principio con cui il Giudice delle Leggi riconosce, ai sensi del novellato art. 117 1° comma cost., il valore di parametro costituzionale interposto alle norme della Convenzione Europea così come interpretate dal Giudice Europeo dei Diritti, si pongono di fatto in palese contrasto con la giurisprudenza della Corte Europea. Per convenirne, basti considerare i casi in cui, esaminando le medesime norme definite di interpretazione autentica, il nostro Giudice delle leggi ne ha esclusa l’illegittimità costituzionale in relazione all’art. 117, 1° c. Cost., mentre la Corte Europea ha accertato che, facendovi ricorso, il legislatore italiano ha violato il diritto al giusto processo sancito dall’art. 6.1 della CEDU. Ad esempio, con la sentenza n. 311 del 26.11.2009, la Corte Costituzionale rigettava la questione di incostituzionalità di una norma definita di interpretazione autentica che, secondo l’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, essendo lesiva del diritto 17 La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa all’equo processo sancito dall’art. 6.1 della Convenzione Europea nella interpretazione della Corte di Strasburgo, doveva ritenersi costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117 1° comma Cost.. Con la sentenza di rigetto, la Corte Costituzionale, disattendendo le argomentazioni della Cassazione, escludeva, invece, che la legge interpretativa sottoposta al suo esame potesse violare l’art. 6.1 della Convenzione. Ebbene, il giudizio espresso al riguardo dalla Corte Costituzionale è stato poi decisamente smentito dalla Corte Europea la quale, con la sentenza sul caso Agrati c. Italia del 7.6.2011, esaminando, la fattispecie concreta, osservava a proposito della medesima legge interpretativa: “la Corte ribadisce che se, in linea di principio, il Legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da Leggi già vigenti, il principio della preminenza del di- ritto e la nozione di equo processo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per ragioni imperative di interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della Giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia”; soggiungendo che nel caso di specie “l’obiettivo indicato dal Governo, ossia la necessità di riempire un vuoto giuridico (…) mirava in realtà a preservare solo l’interesse economico dello Stato riducendo il numero delle cause pendenti dinanzi ai Giudici Italiani”. Principi, questi, che oltre tutto la Corte Europea aveva già enunciato nella sentenza sul caso Maggio c. Italia del 31.5.2011 e che ha successivamente ribadito con la sentenza sul caso De Rosa c. Italia dell’11.12.2012, in entrambi i casi smentendo il precedente giudizio della Corte Costituzionale che aveva ritenuto perfettamente legittime le norme interpretative censurate poi dal Giudice Europeo. Ora, con la motivazione della più recente delle sentenze in materia, quella sopra richiamata, concernente il caso Azienda Agricola Silverfunghi c. Italia del 24.6.2014, la Corte Europea ribadisce il proprio orientamento forse con ancor maggiore fermezza, testualmente osservando: “il principio dello stato di diritto e la nozione di equo processo sanciti dall’art. 6 precludono, salvo che per motivi imperativi di interesse pubblico, l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia con il proposito di influenzare la definizione giudiziaria di una controversia”, soggiungendo che “le considerazioni di carattere economico non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie” ed osservando che nel caso preso in esame “la legge interpretativa ha avuto l’effetto di modificare Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni di Roberto Cartei in maniera definitiva il risultato della lite pendente, in cui lo stato era parte per mezzo di un suo ente amministrativo, appoggiando la posizione dello Stato a scapito delle società ricorrenti, nonostante il fatto che queste ultime avessero ottenuto un risultato positivo in primo grado e in appello”. Prima o poi, dunque, il nostro Giudice delle leggi, che fino ad ora, a dispetto dei buoni propositi formalmente espressi in linea di principio, ha di fatto mostrato, almeno in tema di leggi interpretative, un’inspiegabile resistenza ad assumere come parametri interposti di costituzionalità, ai sensi dell’art. 117 1° comma cost., le norme della Convenzione Europea così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, dovrà pur adeguarsi alla giurisprudenza della Corte stessa. In attesa che lo faccia, sappiamo comunque che c’è pur sempre un …..giudice a Strasburgo. di Paolo Cotza Un “sorpasso”… lungo cinquant’anni Il Direttore del nostro “Indicatore” (più prosaicamente, l’Avv. Vitalizi), mi invita ancora a parlare di cinema ed avvocatura: lo spunto glielo aveva fornito un articolo apparso sul Numero 1 della Rivista della Scuola Superiore dell’Avvocatura “Cultura e Diritti”dal titolo “Diventare avvocati e riuscire ad esserlo: insegnare l’etica delle professioni forensi attraverso le trame narrative” a firma di Giovanni Pascuzzi. Articolo invero interessante nel quale si sostiene come le trame narrative (letterarie, teatrali e cinematografiche), possono servire a visualizzare le problematiche che si incontrano nella professione e - in conseguenza - quali siano i comportamenti corretti da tenere: l’argomento ci “toccava” direttamente visto il ciclo “Avvocati e cinema ….. Si può fare!” organizzato dal Consiglio con il quale abbiamo voluto parlare di avvocatura attraverso il cinema, sottolineando gli aspetti della professione che il cinema - nei films scelti - ha portato all’atten- 18 zione dello spettatore. Mi accingevo dunque a scrivere sull’argomento ma la mia mente - sempre parlando di cinema - è quasi da sola volata in altra direzione per rendere omaggio ad un film cult della cinematografia italiana che proprio quest’anno celebra i suoi cinquant’anni: “Il Sorpasso”. Pellicola girata nel 1962 in parte a Castiglioncello, deve la sua straordinaria fortuna ad una serie di elementi speciali e vincenti: il regista (Dino Risi), gli attori (Vittorio Gassman, Jean Louis Trintignant, Catherine Spaak, Claudio Gora), gli sceneggiatori (Ettore Scola e Ruggero Maccari), la località ovvero come si dice oggi la “location” (la Via Aurelia da Roma alle curve ed alla scogliera del Romito), visto che davvero questo film può a ragione fregiarsi del titolo di primo road movie italiano (Dennis Hopper ha detto che “Easy Rider” fu ispirato a “Il Sorpasso”!). Ovviamente parlare di cinema per l’ “Indicatore” significa anche parlare in qualche modo di noi, della nostra professione, della nostra realtà, insomma degli Avvocati, ed un legame tra l’avvocatura e questo film esiste davvero, state a sentire: “La nullità di un atto processuale si distingue dall’annullabilità perché quella può essere rilevata d’ufficio dal Giudice. Mentre .....”. No, non è un passo di un testo di procedura civile, è solo una battuta della scena 5 del copione del sorpasso che gli autori fanno dire a Roberto Mariani (Jean Louis Trintignant), giovane studente al IV anno di Giurisprudenza all’Università di Roma che nel giorno di ferragosto (del 1962 abbiamo detto), viene travolto dalla vitalità e dall’irrefrenabile “sete di vita” di Bruno Cortona (Vittorio Gassman). La volontà di marcare una netta differenza tra i due protagonisti fa scegliere così agli autori un “tranquillo” studente di Giurisprudenza (come noi siamo stati e come lo fu uno degli autori, Ettore Scola), da contrapporre appunto alla L’Indicatore Forense Paolo Cotza incredibile personalità del “diavolo” Bruno Cortona: certamente la circostanza non è significativa (lo studente avrebbe potuto essere di medicina o di agraria), ma nel 1962 - più di oggi - studiare Giurisprudenza e diventare avvocato significava entrare a far parte dell’establishment, diventare un esponente importante della società, quanto meno in gran parte delle nostre piccole città se è vero che, nella scena 24, gli autori fanno dire al cugino di Roberto di Paolo Cotza Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni - Alfredo - che fa l’avvocato a Tarquinia: “ ..... Vedi, io ho il mio bravo studio a Tarquinia e di tanto in tanto difendo anche in Pretura. Di lavoro ce n’ho quanto ne voglio .... Per via delle saline. A Roma, invece ...... Ci sono stato ultimamente per due giorni: una massa di incompetenti. In provincia un avvocato è qualcuno, la provincia ti rispetta. A Roma ci sono professionisti che non hanno neanche la bicicletta. Io, modestamente, ho l’Appia, eccola lì fuori, grande macchina! Sul rettilineo fa mangiare la polvere anche all’Aurelia dell’amico tuo” (dimenticavo un particolare [anch’esso da annoverare tra gli elementi rivelatisi la fortuna del film]: i due protagonisti viaggiano a bordo di una Lancia Aurelia Sport B24S, carrozzata Pininfarina). Ed il cugino Alfredo “rincara” la dose: “Tu hai fatto bene a scegliere Legge. E’ una grande professione che dà molte soddisfazioni. Tu prendi la laurea e poi fai come me. Dai l’esame da procuratore, apri uno studio a Rieti (Roberto è di quella città, ndr), e te ne freghi. Vedrai che ti fai pure l’Appia. Magari ti trovi anche una brava moglie, come la mia ......” (prospettive oggi - forse - impensabili per un giovane praticante …...), e Roberto, incalzato da Bruno che sta a poco a poco “distruggendo” ogni suo mito, arriva a dire tra sé. “ ..... Alfredino. Se sarò bravo arriverò dove è arrivato lui: all’Appia III serie”. Ma anche in un precedente colloquio (scena 16), tra i due protagonisti si parla di diritto e di avvocati: BRUNO “Pure tu scusa eh? Ma mi pare che stai sbagliando tutto. Ti prendi la laurea e resti avvocato per tutta la vita. Non lo so mica” ROBERTO: “La gente continuerà sempre ad ammazzare e a fare testamento. Per questo non credo si possa inventare la pillola” BRUNO: “Ammettiamo. Ma gli omicidi grossi, di successo, se li beccano sempre quei quattro principi del Foro che non mollano mai, neppure a cent’anni. E a te ti lasciano le causette di Pretura”. Bruno - perfetto esponente del boom economico di quegli anni dove il futuro più lontano da guardare era quello del giorno successivo (indovinatissima l’espressione usata da Oreste De Fornai ne “Il sorpasso - 1962 - 1992 I filobus sono pieni di gente onesta” : “cinismo a corto raggio” quello “sbandierato da Gassman”) consiglia quindi a Roberto di studiare “diritto spaziale” (“Ecco una materia che almeno l’avrebbe un futuro”), innescando in lui domande e dubbi sulla sua scelta professionale alla quale il successivo colloquio con il cugino Alfredino che sopra abbiamo riportato - forse - darà il colpo mortale. Ed ancora il “nostro” mondo (meglio, il mondo della legalità), viene deriso da Bruno (Gassman) Cortona quando questi, giunto al porto di Civitavecchia e parcheggiata la macchina proprio di fianco ad un cartello di sosta vietata, prende la multa dal tergicristalli di una macchina anch’essa parcheggiata in divieto di sosta accanto alla sua e la posiziona sotto il tergicristallo della Lancia Aurelia: qui la sceneggiatura si differenzia dal film perché in quest’ultima il dialogo è breve ed alcune battute non furono recitate (intuizione geniale di Dino Risi che è stato uomo di cinema e che certamente ha reso meno “pesante” il film), ma vale la pena riportare il colloquio immaginato dagli autori per evidenziare l’atteggiamento e la considerazione di Bruno per la Giustizia e gli avvocati (forse non lontano da un idem sentire tutto italiano per l’argomento). Questa la sceneggiatura: Bruno scende, va a sfilare l’avviso di contravvenzione e lo ferma sul parabrezza della propria macchina come se già gli avessero fatto la multa. Anche Roberto è sceso ed ha seguito l’operazione di Bruno. Bruno (giustificandosi) Se non ci aiutiamo tra noi automobilisti (Nel film il dialogo termina qui ed insieme si avviano verso la trattoria) Roberto Ora lo sai che è un reato? Sottrazione di documento Bruno finge di cadere dalle nuvole Bruno Perché, che ho fatto? Roberto Hai spostato il foglietto della multa Bruno Io? Le giuro signor giudice che non sono statoio. Sono innocente. Caro avvocato, i reati finché non si confessano non sono perseguibili. Roberto Però hai giurato il falso Bruno Si, ma per convenienza Roberto Se ti capito io, per giudice, però finisci in galera Bruno Lo so. Anche se mi capiti come avvocato difensore. E dobbiamo tornare all’inizio del film per trovare ancora un riferimento al mondo della legalità, ancora una volta deriso dal “fulminante” ed irriverente Bruno (Gassman) Cortona: la Lancia Aurelia sfreccia ad altissima velocità in una Roma deserta passando col rosso ad un incrocio; dall’ombra di un portone scatta fuori un vigile che soffia nel fischietto e Roberto domanda a Bruno (che continua imperterrito la sua corsa) “Fischia per noi. Non si ferma?” (siamo all’inizio del film e Roberto dà ancora del “lei” a Bruno); e Bruno: “Mai fermarsi. Se non te la contestano a voce la contravvenzione non è valida. Studi procedura: che avvocato sei?”. Bruno Cortona: questo personaggio è davvero il prototipo di un italiano che forse per troppo tempo L’Indicatore Forense ha imperversato nel nostro Paese, il prototipo del “furbo” o del “furbetto” che tanto è (giustamente) avversato e criticato anche dal nostro Presidente del Consiglio in alcune recenti considerazioni, ma Dino Risi, Gassman, Maccari e Scola sono riusciti a rendercelo simpatico, a farne comunque un maestro di vita per il giovane timido ed impacciato Roberto (Trintignant) Mariani, studente di Giurisprudenza al quarto anno e solo la morte di quest’ultimo riporterà lo spettatore alla realtà e riuscirà a fermare questo strepitoso road movie, la morte per dirci che davvero tutto è imprevedibile ed ingovernabile, che la felicità può durare anche solo lo spazio di una mezza giornata, anche per chi - come il “nostro” Roberto - è stato sempre alle regole della società e che - forse per davvero - “sono sempre i migliori che se ne vanno”. Ma Bruno (Gassman) Cortona non è solo un “furbetto”, un vorace divoratore della vita, un uomo che bene conosce la vita e che lascia poco (per non dire punto) spazio alla commozione, ai sentimenti: è anche un uomo sincero, un uomo semplice che dice quello che pensa (dote rara, anche nel 1962), ed è, anche per questo, che è stato e sarà sempre un personaggio amato. Un esempio tra i tanti episodi del film? In quel periodo i films del regista Michelangelo Antonioni andavano per la maggiore, erano pellicole impegnate che facevano riflettere sulla vita (in particolare tra i giovani; primi vagiti di una rivoluzione culturale che avrebbe cambiato il volto della società), che parlavano di “alienazione” e di “incomunicabilità”: ma Bruno, parlando de “L’Eclisse” (uscito anch’esso nel 1962), ricorda solo di averci fatto “una bella pennichella” ed Antonioni è citato solo per il simbolo del successo (l’automobile): “Bel regista Antonioni; c’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà il collo”. Vorrei essere riuscito ad incuriosire chi non ha veduto (davvero qualcuno c’è?) questo bellissimo film e chi lo ha veduto a (ri)vederlo per riscoprirlo in tanti particolari, in tante battute, in tante scene e nei bravissimi attori: ho pensato fosse giusto ricordare una stagione magnifica per il cinema italiano e, checchè se ne dica, per il nostro Paese. 19 di Alessandro Viti La rivoluzione della Geografia Giudiziaria La rivoluzione della Geografia Giudiziaria Sebbene quella sulla revisione della geografia giudiziaria sia una legge di recente applicazione, pare opportuno, per la nostra memoria storica, tracciare un breve sunto di quanto è accaduto nell’ultimo trienno, periodo nel quale la professione forense ha subito tanti e tali interventi normativi da modificarne profondamente ed irrevocabilmente la stessa essenza e la rilevanza sociale. Dopo alcuni tentativi sperimentati negli anni ’90 e non andati a buon fine, nel 2013 l’Italia ha visto compiuto, con un intervento di rilevantissimo impatto, il ridisegnamento della propria geografia giudiziaria. Con la legge 14.9.2011 n. 148 il Parlamento aveva conferito delega al Governo al fine di riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Ciò sarebbe dovuto accadere mediante l’emanazione di decreti legislativi volti a realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza, con l’osservanza di alcuni specifici criteri e principi direttivi. In sostanza il Legislatore nazionale, pur nella manifesta volontà di ridurre il numero degli uffici giudiziari, invitava a tenere conto di alcuni elementi essenziali quali l’estensione del territorio, il numero degli abitanti, i carichi di lavoro, l’indice delle sopravvenienze, la specificità territoriale del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale, e il tasso d’impatto della criminalità organizzata. Nel rispetto di tali criteri il Governo avrebbe dovuto procedere alla soppressione ovvero alla riduzione delle sezioni distaccate di tribunale. Ci si attendeva, pertanto, un intervento particolarmente radicale, ma nulla lasciava presagire che tutte le 220 sezioni distaccate dei Tribunali venissero soppresse. Con il Decreto il d.lgs. n. 155/2012, giunto in pieno agosto (chissà perché le riforme epocali della nostra Giustizia avvengono sempre sotto il sole cocente…), infatti il Governo ha posto fine all’esperienza delle sezioni distaccate, giudicandole “improduttive” e ha eliminato 20 anche 31 Tribunali, accorpandoli ad altri di maggiore grandezza. L’opera è stata, infine, completata con la soppressione di tutti gli Uffici del Giudice di Pace diversi da quelli situati nei capoluoghi di provincia. A dire il vero, in relazione a questi ultimi, il Governo ha escogitato una sorta di “partita di giro” prevedendo che tali Uffici potessero essere mantenuti a condizione che i costi del funzionamento e la predisposizione del personale fossero a carico non più del Ministero ma dei Comuni. Ciò conferma quello che molti hanno sempre pensato in merito all’intervento del Governo e che cioè lo stesso sia stato studiato più come una misura di “spending review” piuttosto che di politica giudiziaria. La scelta governativa è stata quella, pertanto, di un indiscriminato taglio orizzontale che ha completamente disatteso quei criteri che in maniera peraltro assai precisa, il Legislatore aveva indicato. Se da un lato la Magistratura in modo assai compatto ha accolto con grande favore la riforma, sostenendo che ogni accentramento di funzioni comporti un miglioramento della organizzazione del lavoro dei Giudici, dall’altra l’Avvocatura ha evidenziato, invece, le numerose pecche portate dalla normativa. In primis è stato sottolineato come il passaggio di tutti i fascicoli dalle sedi distaccate a quella centrale abbia portato, in numerosi casi, alla paralisi dei Tribunali, incapaci di sorreggere il carico derivante dalle vecchie sezioni. Ma l’elemento di criticità su cui l’Avvocatura ha tentato di porre l’accento è stato quello dell’enorme disagio provocato ai cittadini, soprattutto nelle materie di maggiore rilievo sociale, quale la volontaria giurisdizione. Non solo: è stato evidenziato come il trasferimento nelle sedi centrali di tutti i procedimenti penali avrebbe comportato, e sta comportando, la necessità di continue trasferte, per cittadini, consulenti, agenti ed ufficiali di Polizia Giudiziaria, costretti questi a lasciare il servizio “attivo” per recarsi nel capoluogo a rendere testimonianza. Per quanto concerne la nostra Provincia, Livorno ha assistito alla chiusura delle sue tre sezioni distaccate, Cecina, Piombino e Portoferraio. Nonostante le vibranti e convinte proteste della cittadinanza e della classe forense, si è arrivati alla fatidica data del 13 settembre 2013, allorquando i portoni delle tre sezioni distaccate si sono chiuse, con il contestuale trasferimento di tutto il contenzioso nella sede centrale di Livorno. A nulla sono valsi i fondati appelli manifestati dagli Enti Locali e delle Associazioni di categoria, che hanno evidenziato che la stessa conformazione della provincia livornese avrebbe necessitato di una attenzione maggiore volta a contenere disagi alla popolazione. Basti pensare ad un cittadino di Piombino che per raggiungere la sede livornese del Tribunale deve percorrere più di cento km. O addirittura quello elbano che deve, ancor prima, raggiungere la terra ferma. Viene da sorridere, usando un eufemismo, allorquando si legge una intervista dell’allora Ministro della Giustizia, Avv. Severino, la quale assicurava che era stato conteggiato un cittadino avrebbe dovuto affrontare uno spostamento massimo di circa 40 km e che ciò, se era un problema al momento dell’unità di Italia, oggi era superato dall’esistenza di autostrade e treni veloci (sic!). Di scarsa consolazione appaiono, anche, le affermazioni di chi ritiene che con l’attuazione del processo civile telematico, tutte le difficoltà andranno a ridursi notevolmente. In tal senso sarebbe sufficiente scambiare due parole con quei colleghi della Provincia che si sono visti costretti a rivoluzionare le proprie abitudini, la propria organizzazione del lavoro, ad affrontare sacrifici e costi supplementari al fini continuare a svolgere una professione che, sebbene sempre più bistrattata, rimane pur sempre una funzione alla quale la Carta fondamentale ha voluto riconoscere un rilievo di natura costituzionale. Grande merito deve essere L’Indicatore Forense Alessandro Viti riconosciuto, in questo frangente, alle Associazioni locali degli Avvocati, che hanno profuso tutto il loro impegno e la loro dedizione al fine di scongiurare la chiusura degli Uffici periferici. Tuttavia il Governo, disattendendo i criteri dettati dal Legislatore del 2011, ha ostinatamente proceduto sulla propria strada, prevedendo, allo stato attuale, soltanto alcuni ritocchi che paiono, più che altro, delle correzioni in merito a situazioni oggettive che nell’ottica del taglio orizzontale apprestato, erano state del tutto dimenticate. Con il decreto n. 14 del 19.2.14 e successivo provvedimento del maggio 2014, infatti, il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha disposto la riapertura delle Sezioni distaccate delle tre isole: Lipari Ischia e la “nostra” Elba. Il Governo, infatti, aveva “dimenticato”, che vi sono situazioni che, più di altre, necessitano di una considerazione del tutto particolare. Mentre, pertanto, tutta la legislazione nazionale si muoveva verso una piena, sebbene difficoltosa, attuazione del principio della c.d. “continuità territoriale”, con il decreto L.vo 155 del 2012 si era compiuto un passo indietro, limitando non poco per gli abitanti delle isole l’accesso alla Giustizia. Il correttivo del Governo ha così consentito la riapertura della Sede Distaccata di Portoferraio a far data dal 6 ottobre 2014. Qualcuno potrebbe pensare ad un lieto fine almeno per i cittadini elbani…. In realtà non tutto di Alessandro Viti La rivoluzione della Geografia Giudiziaria è andato come si sperava. Infatti il Tribunale di Livorno ha deciso di trattenere tutto l’arretrato sia civile che penale, oramai accentrato nelle sede centrale; inoltre ha limitato non poco le materie che verranno trattate nella sede portoferraiese: basti pensare che tutta la volontaria giurisdizione resterà di competenza di Livorno, così come le esecuzioni mobiliari e i decreti ingiuntivi con le relative opposizioni. In campo penale “resteranno” a Livorno tanto i procedimenti provenienti da udienza preliminare che quelli derivanti da opposizione ai decreti penali di condanna. In buona sostanza le aule della sede di Portoferraio, ripulite e rimesse a lucido, sono state riaperte per far posto a qualche fascicolo… Non si può che auspicare un ripensamento da parte del Presidente del Tribunale di Livorno che consenta a Portoferraio di potere iurisdicere nella sua completezza, senza limitazioni né restringimenti. E’ probabile che l’attuale situazione dipenda anche dal tenore dello stesso decreto ministeriale che ha previsto sì la riapertura della sede elbana e delle altre due isole, ma a tempo. Infatti, salvo ripensamenti il portone del Tribunale di Portoferraio si chiuderà nuovamente e definitivamente il 31 dicembre 2016. Difficile comprendere il di Davide Lera Grazie per ora Una espressione “grazie per ora” che conosce una sempre maggiore fortuna (o sfortuna) all’interno degli Studi legali. Un’espressione apparentemente portatrice (annunciatrice) di buoni propositi e notizie positive, quasi rassicurante e ancor meglio aperta ad allusioni ed illusioni. Il cliente si presenta in Studio, si siede davanti al professionista, riceve o carpisce consigli, consulenze, assistenza giudiziale, poi si alza e saluta, cortesemente con un grazie per ora. Maligna espressione e commiato traditore! Il grazie per ora crea un’aspettativa nel destinatario, per intendersi è una anticipazione, il “prima” di un “dopo”, foriero di dovute e legittime gratificazioni economiche, susseguenti quelle morali e soddisfacenti per il cliente che , per ora ti ringrazia ma poi dopo ... Beh, poi dopo: un dopo che immaginiamo vicino: la consulenza è stata data, la causa è imminente, il rapporto fiduciario è ormai nato e pressoché consolidato, a quell’ammiccante grazie per ora oramai dovrà pur far seguito quel momento, doveroso di riconoscimento del lavoro del professionista. E invece no! O meglio in quel periodo di tempo, sempre più ampio tra il grazie per ora e il quanto le devo (che talvolta diventa infinito) ci rendiamo conto che il rapporto fiduciario tradizionalmente pendente verso l’avvocato nel senso che era il cliente a mettersi nelle mani sapienti del professionista che ne era consapevole e responsabile, si è improvvisamente invertito. Ora, ma non da ora, è il professionista che è nelle mani del cliente e che ha la quasi netta sen- significato di tale sopravvivenza a tempo: c’è da chiedersi se le ragioni che ne hanno determinato la riapertura, quali l’insularità, non saranno più, nel 2017, in grado di giustificare il mantenimento delle tre sezioni riaperte, a meno che non si ritenga che nel frattempo le tre isole si avvicineranno, motu proprio, alla terra ferma, rendendo di fatto, inutile la sopravvivenza delle sedi insulari… sazione che spetta solo al cliente decidere se e quando provvederà a corrispondere la controprestazione. L’avvocato allora si rende conto che in qualche modo ha perso l’attimo che si presenta subito dopo il grazie per ora, che è stato poco reattivo e poco attento ad evitare la fatidica frase. Si potrebbe qui parafrasare (malamente) il Lorenzo de’ Medici: chi vuol esser attento sia, del pagamento non vi è certezza! Sì perché una volta uscito dallo Studio il cliente che pur ha ringraziato, ti lascia nella solitudine della responsabilità professionale ma non in nome del sopra detto rapporto di fiducia ma in quello del procrastinare il più possibile l’agognato momento del pagamento: tanto ormai sei intrappolato nei meandri della responsabilità professionale. E sempre più spesso i clienti utilizzano disinvoltamente quell’espressione, con una naturalezza strategica, quasi inconscia, contro la quale ti ritrovi inerme. Quel che fa rabbia è che nonostante vi sia la consapevolezza da parte del professionista che il cliente alla fine del colloquio ben possa prepararsi la dipartita con un “grazie per ora” allontanando da sé lo spauracchio della richiesta di un acconto o un fondo spese, non si riesce, il più delle volte, ad evitarlo in tempo, a prevenirlo e ti senti in trappola: perché una volta che è stato detto diventa poi difficile replicare con la pur giusta e corretta risposta: grazie a Lei, faccia pure, ora, con la segretaria; oppure: l’“ora” è già passato e siamo al “dopo”. Il cliente ha già con quella rodata espressione alzato un muro tra sé e il professionista quanto meno in termini di richieste sostanziali, vi è spazio solo per i convenevoli; bando alla sostanza. Fra l’altro il “grazie per ora” ha una sua musicalità, uno strano effetto che purtroppo (si deve ammettere) si abbina bene al linguaggio, all’ambiente e perché no alla liturgia del mondo dell’avvocatura. Mi spiego. Immaginiamo di dover traslare la stessa formula in ambienti diversi dal nostro: stona. Appare oltre modo chiaro nel rapporto tra cliente ed artigiano o commerciante; diventa del tutto naturale, in questi casi, ricevuta la prestazione, avviarsi alla cassa. Ma immaginiamo anche un incontro tra paziente e medico, peggio se dentista, chi si azzarda ad accomiatarsi con un grazie per ora?! Nei nostri Studi no, tale espressione appare lì per lì gratificante: il cliente è soddisfatto e ti ringrazia per la scienza e coscienza profusa con tanta dovizia, per la professionalità manifestata e dimostrata, in sostanza per la prestazione ricevuta. Sì ma per ora; cioè per ora occorre accontentarsi del ringraziamento, poi si vedrà. Ma come tu hai dato tanto e tutto e dall’altra parte niente. E sarà l’altra parte, il cliente, che ha il potere di decidere quando e se ci sarà un dopo. E noi artefici del nostro destino incerto che ci impegniamo fin da subito profondamente con e per il cliente in virtù di quel rapporto fiduciario che forse troppo facilmente riteniamo di aver instaurato con il cliente nel nome di quella professionalità che deve esserci L’Indicatore Forense Davide Lera riconosciuta. Viene in mente, anche se il paragone appare un po’ forzato, l’ultima scena del film “I Laureati” quando Pieraccioni & C. convincono il cameriere del ristorante a fare da start per la corsa che avrebbe deciso chi doveva tra loro pagare il conto e quello, vedendo sparire il gruppo dietro l’angolo, capisce che non lo avrebbero pagato e con aria sconsolata di chi ha contribuito in maniera determinante alla truffa nei propri confronti - ma che per aver fornito una prestazione apprezzabile non si aspetta -, ammette: ...e io gli ho dato pure il via. Certamente non saremo così ingenui ma occorre stare attenti a quell’affermazione dall’aspetto rassicurante ma dall’anima irriverente, di origini nobili ma non antiche, in uso in questi tempi difficili e diventata ormai una moda che difficilmente si capisce come quando e da dove si sia diffusa. Una moda ormai entrata nel dna della clientela come categoria e probabilmente più che una moda un virus che, cari colleghi, dobbiamo attrezzarci per debellare. 21 di Marco Vitalizi Pillole di Processo Civile telematico Pillole di Processo Civile telematico Questioni in tema di deposito telematico degli atti introduttivi dei procedimenti monitori L’entrata in vigore dell’art. 16 bis, IV comma, D.L. 179/2012, convertito con modificazioni dalla L. 17/12/2012 n. 2012, che, a decorrere dal 30 giugno 2014, ha previsto l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti introduttivi dei procedimenti monitori ha subito fatto sorgere dubbi ed interrogativi sia in ordine alla sfera di applicabilità della norma, sia di carattere pratico. Quanto al primo profilo si pone, ad esempio, la questione se l’obbligatorietà del deposito telematico riguardi o meno tutti i procedimenti che diano luogo alla emissione di un provvedimento monitorio. Il nostro codice di rito difatti, oltre ai procedimenti di cui agli artt. 633 e segg. che hanno classicamente esito nella emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento di somme o per la consegna di una determinata quantità di cose fungibili o per la consegna di una cosa mobile determinata, conosce anche altri tipi di provvedimenti monitori che si riconducono a fattispecie di diverso tipo. Solo per esemplificare si ricordano l’ordinanza ingiuntiva che il giudice può emettere a seguito di istanza che gli sia stata avanzata dalla parte, fino al momento della precisazione delle conclusioni, ai sensi dell’art. 186 ter c.p.c. Od ancora, il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 644 c.p.c., separatamente dalla convalida della intimazione dello sfratto per morosità per l’ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino alla esecuzione dello sfratto e per le spese relative all’intimazione. Rimanendo in tema, si segnala altresì il decreto ingiuntivo che ai sensi dell’art. 611 c.p.c., all’esito della esecuzione per consegna o rilascio, il giudice della esecuzione può emettere su istanza di parte per il pagamento delle spese del procedimento. Analogo provvedimento può essere emesso dal giudice della esecuzione, ai sensi dell’art. 614 c.p.c., sempre su istanza di parte, per la liquidazio- 22 ne delle spese dei procedimenti esecutivi in materia di obblighi di fare o di non fare. Ci si chiede dunque se anche in questi casi la parte sia a questo punto obbligata ad introdurre la propria istanza esclusivamente attraverso un deposito telematico. La risposta sembra potersi tranquillamente dare in senso negativo. La norma di riferimento (art. 16 bis, IV comma, D.L. 179/2012) riconduce difatti espressamente l’obbligatorietà del deposito telematico ai procedimenti dinanzi al tribunale di cui al libro IV, titolo I, capo, I del codice di procedura civile; il che, se da un lato riconferma, allo stato dell’arte, la non applicabilità del processo telematico ai procedimenti dinanzi al Giudice di Pace, da un altro lato circoscrive specificamente il suo ambito di operatività ai procedimenti monitori di cui agli artt. 633 e segg c.p.c. Ne restano dunque esclusi tutti gli altri procedimenti che pure si concludano con un provvedimento monitorio. Ciò non significa però l’esclusione tout court, per tali procedimenti, dell’obbligo di deposito telematico dei relativi atti. Così ad esempio, riguardo alla istanza di ingiunzione ex art. 186 ter c.p.c., l’obbligatorietà del deposito, se non deriva dal quarto comma dell’art. 16 bis, è da affermarsi alla luce del I comma della medesima norma, allorché, così come modificato dall’art. 44 D.L. 90/2014 convertito dalla L. 114/2014, prevede l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite (c.d. atti endoprocessuali), a decorrere dal 30 giugno 2014, per i procedimenti iniziati innanzi al tribunale ordinario dalla stessa data e, a decorrere dal 31 dicembre 2014, per gli stessi procedimenti, ove siano iniziati prima del 30 giugno 2014. Non pare difatti esservi dubbio su ciò, che l’istanza ex art. 186 ter c.p.c. costituisca un atto endoprocedimentale e che dunque debba seguire la sorte tracciata dal legislatore per tutti gli atti che hanno tale caratteristica (tipicamente le memorie ex art. 183, VI comma, c.p.c., le memorie conclusionali etc.). Quanto poi alle due tipologie di decreti ingiuntivi di competenza funzionale del giudice dell’esecuzione, di cui abbiamo fatto cenno, le relative istanze della parte, ed ogni altro atto e/o documento connesso, ricadono pari pari nell’alveo della disciplina dettata dal II comma dell’art. 16 dlgs. cit., che testualmente estende l’obbligatorietà del deposito telematico istituita dal comma precedente, con le decorrenze temporali di efficacia previste dal D.L. 90/2014, ai depositi successivi a quello “dell’atto con cui inizia l’esecuzione” con riferimento ai “processi esecutivi di cui al libro III del codice di procedura civile”. Anche qui difatti non può esservi dubbio sul fatto che le istanze della parte volte ad ottenere i decreti ingiuntivi ex art. 611 e/o 614 c.p.c. debbano considerarsi a tutto gli effetti atti endoprocedimentali, laddove poi l’ambito di applicabilità della norma si estende espressamente ai tutti i procedimenti esecutivi di cui al libro III del codice e dunque anche a quelli per consegna o rilascio e a quelli per l’esecuzione di obblighi di fare o non fare. §o§o§ L’accesso al fascicolo informatico della parte non costituita L’entrata in vigore dell’obbligatorietà del deposito telematico per i procedimenti monitori ha poi immediatamente posto, sia sotto profilo giuridico, che pratico, il problema di individuare strumenti e modalità per consentire all’altra parte l’accesso al fascicolo informatico. Si tratta in questo caso di problematiche non specificamente legate alla telematizzazione del procedimento monitorio, ma più, in generale, a quella della progressiva estensione del processo telematico a tutti i tipi di procedimenti che porterà alla dematerializzazione definitiva (o fin dove sarà possibile) del fascicolo processuale cartaceo. L’Indicatore Forense Marco Vitalizi In epoca precedente al PCT il legale della parte ingiunta, munito di specifica procura, poteva direttamente accedere in cancelleria per consultare gli atti e i documenti contenuti nel fascicolo cartaceo ed estrarne, volendo, copia al fine di predisporre l’atto di opposizione od anche solo per valutare la convenienza e l’opportunità di opporsi al provvedimento monitorio ovverosia per suggerire al cliente di adempiere allo stesso. Tutto questo ora non è possibile; né è pensabile, come qualcuno pure aveva suggerito, realizzare degli access point nelle cancellerie per consentire alle parti non costituite di consultare sul posto il fascicolo informatico di proprio interesse. Tale soluzione invero, non solo avrebbe creato seri problemi organizzativi, ma soprattutto appariva in contrasto con la stessa filosofia che è sottesa al processo civile telematico, vale a dire limitare, quanto più possibile, gli accessi alle cancellerie anche al fine di consentire l’applicazione del personale, e delle risorse in genere disponibili, ad altre attività amministrative e di ausilio del giudice, con risparmio di tempi e di costi sia per l’amministrazione della giustizia che per le parti. La soluzione è stata individuata nel concedere, a seguito di specifica istanza della parte denominata “richiesta di visibilità”, l’autorizzazione ad accedere al fascicolo informatico da postazione remota per un periodo di tempo limitato, durante il quale l’avvo- di Marco Vitalizi Pillole di Processo Civile telematico cato potrà consultare e scaricare gli atti e i documenti contenuti nel fascicolo ed utilizzarli a fini difensivi nel modo ritenuto più opportuno. La “richiesta di visibilità”, da inoltrare esclusivamente per via telematica, dovrà contenere: a) il riferimento del fascicolo di cui si richiede l’accesso b) il codice fiscale della parte che ha concesso la delega c) i dati del delegato (coincidente con il mittente del deposito, che tipicamente sarà il legale incaricato) e potrà essere formulata secondo il seguente facsimile: Tribunale di ______________ Istanza di richiesta di visibilità temporanea del fascicolo informatico n. _____/___ R.G. Il sottoscritto Avv. _______________, cod. fisc. __________________, con studio in _____________________, nella sua qualità di procuratore e difensore di ____________, cod. fisc. / P.IVA ______________________, residente/con sede in __________________________, come da procura rilasciata ex art. 83 c.p.c. ed allegata alla busta di deposito del presente atto, premesso - che il sig./La soc. ____________ è parte del procedimento in epigrafe indicato; avendone interesse - ai fini dell’eventuale proposizione dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. ________________________________________ - (ovvero, se si tratta di altro procedimento) a fini difensivi, dovendo procedere all’esame di atti, documenti e provvedimenti depositati nel fascicolo informatico, chiede di essere autorizzato alla consultazione da remoto del fascicolo informatico per il tempo necessario all’espletamento delle anzidette attività difensive. Con osservanza. Avv. _______________________________ Tale atto dovrà essere reso oggetto, come detto, di un deposito telematico, sotto la tipologia “AttoRichiestaVisibilita”, cui dovrà essere allegata la procura rilasciata dalla parte per la presa in visione del fascicolo; a questo riguardo si suggerisce, come per tutti i casi di procura allegata alla busta telematica, che nella medesima siano sinteticamente indicati gli estremi del procedimento. Ricevuto l’atto, il Cancelliere ne curerà l’accettazione, il che consentirà l’accesso temporaneo per i fini di difesa della parte. Come si è detto, è necessario che la richiesta di visibilità contenga il “riferimento del fascicolo di cui si richiede l’accesso”, vale a dire, come minimo, il numero di ruolo del procedimento. Ciò non comporta soverchie difficoltà per quanto riguarda i procedimenti monitori o, in genere, per tutti quei procedimenti che vengono introdotti con ricorso1, che comportano la notifica alla controparte di un atto che, di regola, reca tutti gli estremi del procedimento da indicare nella richiesta di visibilità. Problemi possono invece sorgere nella eventualità che l’atto ricevuto dalla parte non contenga tali estremi2. Come e dove può l’interessato reperire, in questi casi le informazioni necessarie? La risposta è semplice: dal Polisweb. Alcuni Punti di Accesso consentono di operare ricerche anche nei fascicoli che non vedono la parte costituita, semplicemente inserendo, come chiavi di ricerca, il cognome/denominazione delle parti e/o l’udienza di comparizione indicata nell’atto di citazione ovvero quella di comparizione effettiva ex art. 168 bis, IV o V comma, c.p.c.. Il PdA della Regione Toscana (Cancelleria Telematica) non possiede allo stato questa funzionalità, che è in corso di implementazione nell’applicativo. E’ peraltro possibile effettuare la ricerca sia utilizzando il PdA della Lextel, con la quale il nostro Ordine ha stipulato una convenzione allo scopo di permettere agli iscritti poter disporre in via alternativa, anche di volta in volta, di due diversi Punti di Accesso, ovvero utilizzando il Portale dei Servizi Telematici gestito dal Ministero della Giustizia. Per quanto riguarda il PdA Lextel, colgo l’occasione per ricordare che l’utilizzo di tale punto d’accesso è totalmente gratuito, salvo per ciò che riguarda i depositi telematici, che peraltro prevedono un modestissimo corrispettivo. Anche la mera ricerca dei fascicoli sul Polisweb messa a disposizione dal Pda Lextel è dunque gratuita. Per effettuarla occorre seguire i seguenti passaggi: 1. inserire la chiavetta USB nella quale è alloggiata la firma digitale e avviare il browser 2. accedere a www.accessogiustizia.it 3. nella home page che si aprirà cliccare a destra su “accedi ai servizi” nella successiva schermata cliccare, sempre a destra, su “entra” nella parte dedicata all’accesso con firma digitale del Polisweb 4. effettuato l’accesso cliccare sulla icona 5. cliccare su “entra” nella scheda “Polisweb PCT” nel menu a sinistra della schermata successiva cliccare su “Archivio Fascicoli” selezionare l’ufficio giudiziario di interesse ed il tipo di registro (Contenzioso Civile, Lavoro etc.) nella finestra di ricerca che si aprirà inserire i dati richiesti (cognome/denominazione della parti, date udienze). Ciò consentirà di visualizzare la scheda del procedimento con gli estremi identificativi (giudice e numero di ruolo), ma non anche il contenuto del fascicolo, non essendo - appunto - la parte costituita. Per quanto riguarda invece la ricerca attraverso il PST (Portale dei Servizi Telematici): 1. inserire la chiavetta USB nella quale è alloggiata la firma digitale e avviare il browser 2. accedere a www.pst.giustizia.it/PST effettuare il login (andando sempre avanti ad ogni alert di sicurezza) 3. nella successiva schermata cliccare su “smartcard” nella home page che si aprirà cliccare a destra su “accedi” a fianco di “consultazione registri” selezionare l’ufficio giudiziario di interesse, il tipo di registro (Contenzioso Civile, Lavoro etc.) ed il proprio ruolo (avvocato) effettuato l’accesso cliccare sulla scheda “Archivio Fascicoli” nella finestra di ricerca che si aprirà inserire i dati richiesti (cognome/denominazione delle parti, data udienza). Anche in questo caso saranno resi visibili solo gli stretti elementi identificativi del fascicolo (numero di ruolo e giudice). Rinviamo ad una prossima occasione la trattazione della questione se sia possibile depositare telematicamente, sia pure in via facoltativa, ulteriori e diversi atti introduttivi rispetto al ricorso per decreto ingiuntivo. Si sostiene da parte di qualcuno, difatti, che la previsione della obbligatorietà del deposito telematico del ricorso per decreto ingiuntivo e dei c.d. atti endoprocessuali non consenta automaticamente di poter affermare che anche altri tipi di atti introduttivi possano essere, seppure in via meramente facoltativa e non obbligatoria, inoltrati con un deposito telematico. E’ qui sufficiente segnalare l’orientamento “aperto” del Tribunale di Livorno, il quale sostiene una interpretazione della normativa di riferimento che va nella direzione di ritenere consentita l’introduzione in via telematica anche di tutti quei procedimenti, diversi da quelli monitori, che si avviano con un ricorso, nonché la costituzione in giudizio mediante deposito telematico della comparsa di costituzione e risposta. 2 L’eventualità non è meramente teorica. Nulla osta, a mio avviso, a che possa essere ritenuta ammissibile l’introduzione totalmente per via telematica di una causa ordinaria, che prenda avvio con un atto di citazione notificato, ciò che ora possibile, via PEC e che venga iscritta a ruolo mediante un deposito telematico. La controparte avrà in quel caso solo la disponibilità dell’atto di citazione ricevuto, che non contiene ovviamente gli estremi della iscrizione a ruolo del procedimento e ciò le renderà necessario accedere da remoto al fascicolo informatico, ove abbia interesse ad esaminare la documentazione prodotta dall’attore. 1 L’Indicatore Forense 23 di Sandra Albertini IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO Pari opportunità e politiche di conciliazione dei tempi di vita privata e professionale: IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO La normativa a tutela della maternità costituisce un settore privilegiato per la verifica della attuazione in concreto dei principi di pari opportunità e di uguaglianza. In effetti la maternità rappresenta un momento in cui si accentua il tema della conciliazione tra vita professionale e vita familiare ed evidenzia la differenza di genere nella organizzazione del lavoro all’interno della categoria forense ed una evidente disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di lavoratrici tutelate da una specifica normativa. Allo stato, grazie alla evoluzione normativa e giurisprudenziale intervenuta in materia, sono state estese anche a favore delle avvocate forme di assistenza passiva attraverso il riconoscimento di una indennità di maternità. In particolare con la L. n. 379/1990 Cassa Nazionale Forense ha riconosciuto una indennità pari all’ 80% dei 5/12 del reddito professionale prodotto ai fini IRPEF nel secondo anno precedente la data del parto.Tale norma è stata trasfusa nell’art 70 del T.U. n. 151/2001, incisivamente innovato dalla successiva L. n. 289/ 2003, che a fronte di un tetto minimo volto a garantire che non siano liquidate alle giovani professioniste indennita’ irrisorie, ne ha introdotto uno massimo per sottolinearne la natura assistenziale e contestualmente tener conto della possibilità nelle libere professioni di poter cumulare reddito ed indennità non vigendo in materia il principio della astensione obbligatoria. L’indennità è riconosciuta oltre che in caso di parto, anche per l’ipotesi di adozione di un figlio minore e di aborto. Analizzando le indennità corrisposte a tale titolo da Cassa Forense emergono i seguenti dati : 1) la progressiva femminilizzazione dell’avvocatura in considerazione del continuo crescere del numero delle indennità liquidate, 24 2) un significativo divario reddituale significativo tra avvocati ed avvocate, per quest’ultime nettamente inferiori, in considerazione degli importi mediamente liquidati, 3) la fascia di età di maggiore erogazione tra i 35 e i 39 anni. Questi dati, unitamente all’altro dato rilevato dagli Ordini che individua nella stessa fascia di età, ovvero tra i 35 e i 40 anni, il maggior numero degli abbandoni femminili della professione forense, portano a una riflessione, che deve essere propria di tutta la categoria, sulla storica e spiccata connotazione di genere nella divisione del lavoro all’interno della famiglia come fonte di disuguaglianza e freno nel campo lavorativo. E ciò non solo nel periodo della maternità, in quanto la donna avvocato dopo aver assolto ai compiti di cura ed assistenza dei figli, non riesce anche nell’età della maturità professionale a recuperare il divario reddituale maturato rispetto ai colleghi essendo chiamata a prendersi cura ed ad assistere i genitori anziani, restando il lavoro familiare una responsabilità quasi esclusiva delle donne in tutte le fasce della loro vita. Un tale stato di cose nel tempo avrà gravi ricadute su tutta la categoria, in quando il numero sempre maggiore delle avvocate unito a un contestuale decremento dei redditi e quindi delle contribuzioni previdenziali, comporterà senz’altro per Cassa Forense seri e non superabili problemi di bilancio. Se alla base delle difficoltà di affermazione e sviluppo della professione forense al femminile e conseguentemente al divario di reddito tra colleghi e colleghe, si pone la problematica per le avvocate della non sempre semplice conciliazione dei tempi della vita privata con i tempi di lavoro, l’ impegno di tutta la categoria dovrà dirigersi verso il passaggio dalla attuale forma di assistenza passiva a una futura ed ulteriore forma di assistenza, quella attiva, attraverso la previsione di servizi concretamente fruibili dalle iscritte che consentono loro di meglio gestire ed organizzare il tempo dedicato alla famiglia senza trascurare quello dedicato al lavoro. Mi riferisco ad azioni positive volte alla sospensione degli oneri fiscali e previdenziali per le iscritte durante il periodo della maternità, alla realizzazione all’interno degli uffici giudiziari di stanze di allattamento, asili, a servizi di sostituzione in udienza attraverso la realizzazione di una vera e propria “ Banca del Tempo “ a cui poter ricorrere sia in prestito che in deposito. Vi sono peraltro delle udienze ove la sostituzione del difensore, per la complessità e delicatezza dei diritti trattati o comunque per la tipologia di attività processuale da compiere, non è sempre possibile ed ancora oggi manca una normativa omogenea che tuteli sotto ogni profilo la maternità nel settore forense, non essendo stato esteso al nostro settore il principio di presunzione di pericolosità e conseguentemente di incompatibilità tra maternità ed attività lavorativa.Il mancato riconoscimento della pericolosità dello svolgimento di attività forense nel periodo di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio è fonte di discriminazione all’interno della categoria, e integra come tale una grave violazione dei principi di parità, ed è all’esterno motivo di ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle lavoratrici dipendenti. Ed invero le richieste portate avanti dalla categoria femminile forense per il riconoscimento della maternità come causa di legittimo impedimento a partecipare alle udienze penali e civili trovano il loro fondamento nel dettato costituzionale ed in particolare: nell’art 3 Cost. in quanto discrimina le avvocate rispetto agli avvocati e rispetto alle altre L’Indicatore Forense Sandra Albertini categorie di donne lavoratrici; nell’art 4 Cost perchè pregiudica e limita il diritto al lavoro della donna avvocato; nell’art 24 Cost per il diritto dell’imputato e della parte in genere di farsi assistere dal difensore prescelto; negli art 29 e 30 Cost che tutelano la gravidanza e la maternità come elementi connessi alla tutela dei diritti familiari;nell’art 31 Cost. che protegge la maternità e il diritto del bambino ad avere accanto a sé la madre;nell’art 32 Cost. sotto il profilo del diritto alla salute della madre e del nascituro; nell’art 51 Cost.in cui si riconosce la partecipazione di entrambi i generi, secondo un principio di democrazia paritaria, alle cariche ed incarichi pubblici. Tali principi sono ribaditi nel Trattato CE e nelle direttive comunitarie n.73/2002 e la n. 54/2006 recepite nel nostro ordinamento con i D. leg. n. 145/2005 e n. 5/2010. A tale quadro normativo, non vi è peraltro sempre stato un coerente riscontro giurisprudenziale sia di merito che di legittimità.La Corte di Cassazione nella sentenza n. 44922/2007 ha invero rigettato il ricorso presentato da una collega che si era vista negare l’allattamento come legittimo impedimento a comparire ad un’udienza, assumendo che “non può costituire legittimo impedimento del difensore a comparire quello che derivi dall’esistenza di una situazione non presentatasi improvvisamente e già destinata fin dall’origine a protrarsi, senza sostanziali variazioni, per un tempo di apprezzabile durata, dovendo in tal caso il difensore operare una opportuna e tempestiva revisione dei propri impegni e non pretendere invece di i tenerli fermi a scapito delle esigenze di giustizia”. Nello stesso di Sandra Albertini IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO senso si pongono successive pronunce della Corte di cassazione, tra cui la n. 21529/2008, sino ad arrivare alla sentenza n. 312 /2012 della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale, postale dal Tribunale di Perugia, del mancato riconoscimento alla donna esercente la libera professione di avvocato del diritto di usufruire del periodo di maternità, così come invece previsto dall’ordinamento italiano per le altre lavoratrici, con riferimento agli art 3, 31, 37 Costituzione, che esprimono i principi di uguaglianza e di protezione della maternità e dell’infanzia, nonché del diritto di difesa, pur dichiarandone l’inammissibilità per non aver il tribunale rimettente indicato la disposizione della cui costituzionalità dubitava, pone un principio fondamentale di riconoscimento del legittimo impedimento per maternità richiamando invero l’ applicabilità alla fattispecie della disciplina dell’impedimento a comparire del difensore di cui agli art 484, 420 ter cpp.Con una sentenza interpretativa di rigetto la Corte Costituzionle appare pertanto aver risolto favorevolmente, quanto meno in materia penale, la questione del legittimo impedimento attraverso una interpretazione delle norme di riferimento costituzionalmente orientata. In attesa di un chiaro pronunciamento normativo sul punto, come auspicato con l’approvazione della mozione politica n. 24 presentata al XXXII Congresso Nazionale Forense tenutosi a Venezia il 9-11 otto- bre u.s., anche su sollecitazione dello stesso CSM sono stati stipulati “protocolli “ di intesa a tutela della maternità nella organizzazione della attività giudiziaria al fine di individuare pratiche virtuose funzionali alla tutela dello stato di gravidanza e della condizione di maternità e paternità nel quadro della promozione concreta ed effettiva delle politiche di pari opportunità. In effetti il CSM con delibera consiliare del 23 ottobre 2013 ha raccomandato a tutti i Capi degli Uffici Giudiziari nell’ambito delle loro competenze e facoltà di adottare iniziative dirette ad individuare prassi nella materia della organizzazione delle attività di udienza in funzione della piena tutela delle condizioni di maternità e responsabilità genitoriale con riferimento a tutte le di Renato Luparini SALVIS IURIBUS SALVIS IURIBUS La mia generazione, oltre a esser stata l’ultima a conoscere le “veline” (intese, ahimè, come copie di atti…), è quella che ha assistito al cambio di linguaggio forense. Chi ci ha preceduto aveva una formazione classica profonda e robusta; gli avvocati di un tempo si forgiavano dalle elementari al Ginnasio con le storie di Muzio Scevola e Orazio Còclite ed erano fion dal Liceo abituati a maneggiare Cicerone, che compariva addirittura sulle marche da bollo da appiccicare alle comparse (la previdenza forense si pagava così allora). Non c’era ardita espressione che non fosse seguita da un prudente “absit iniuria verbis” e perentoria conclusione sulla obbligatorietà di una certa lettura di una norma cui non seguisse l’immancabile “in claris non fit interpretatio”. Si andava avanti a suon di brocardi e le regole del diritto erano riprese in modo diretto dal diritto romano, che ancora costituiva una materia di applicazione pratica, specie in materia di diritti reali. Poi, nel giro di pochissimi anni, quelle espressioni che avevano costituito per millenni l’essenza della scienza del diritto, sono ca- figure professionali impegnate negli uffici giudiziari. In attuazione dei principi normativi sopra espressi, la Commissione Pari Opportunità operante presso il nostro Consiglio, consapevole che la conciliazione tra responsabilità familiari e professionali costituisca la chiave di volta per il raggiungimento di una parità effettiva tra i generi nel lavoro, ha elaborato una bozza di protocollo sul Legittimo Impedimento, ora all’esame del Consiglio dell’Ordine, con l’auspicio che ben presto possa essere portato alla attenzione della Magistratura e sottoscritto al fine di dare concreta attuazione a livello locale delle politiche di genere a tutela, in una prospettiva futura, quanto meno sotto il profilo previdenziale, dell’intera categoria professionale. dute in disuso. Il latino è fuori moda, come un cappello a larghe falde : può esser ancora considerato elegante da qualcuno, ma appare sicuramente poco pratico e desueto. Oggi il linguaggio che suona come espressione di preparazione e modernità è l’inglese tecnocratico, la cui conoscenza, o meglio “know how”, è bene migliorare, anzi “implementare”. Il rischio è che però con il latino finiscano anche gli avvocati. La nostra non è una professione strettamente necessaria, come quella del medico; è invece frutto di una cultura e di un ambiente storico. Il medioevo conobbe i giureconsulti e i notai; fu l’umanesimo che, resuscitando la memoria di Cicerone e Demostene, contagiò il sistema giudiziario e introdusse la figura classica di avvocato : il “vir bonus peritus dicendi”, capace di suscitare attenzione e rispetto con la forza della parola. Negli anni ’50 un sociologo americano, Talcott Parsons, si espresse così : “il professionista ideale non è solo un tecnico esperto,in virtù della padronanza di una grande tradizione egli è un uomo educato in modo liberale, vale a dire un uomo di cultura generale: I professionisti sono educati in senso umanistico, uomini di cultura liberale”. Questa definizione serviva a Parsons per descrivere la differenza tra avvocati e uomini d’affari e a definire gli avvocati come una professione tesa a valorizzare valori etici e non solo interessi economici. Non voglio ovviamente fare il difensore del passato ed esaltare ad ogni costo le citazioni latine e il loro abuso, di cui ridondavano (almeno per il nostro gusto) gli scritti difensivi di qualche anno orsono. Certo è che se l’avvocato si riduce al compito di mero “operatore del diritto” (locuzione che mi è simpatica quanto l’orticaria) e a puro conoscitore dell’ultima massima della Cassazione, perde la sua ragione d’essere. Ci sono molti esperti in “legislazione” e moltissimi siti internet sfornano a beneficio di chiunque sentenze e circolari; senza nessuna spesa è possibile per tutti trovare accurati formulari e predisporre istanze e domande di ogni tipo. L’avvocato rischia allora di essere una spesa inutile, un ingombro da eliminare, come il cappello a larghe falde e il latino appunto. Invece proprio in un vasto mare come quello del diritto moderno dobbiamo essere i navi- L’Indicatore Forense Renato Luperini gatori esperti (“rari nantes” per dirla con il poeta e la pallanuoto), capaci non solo di salire a bordo del piccolo vascello del cliente, sballottato dalle onde di un potere pubblico sempre più agitato e debordante, ma di guidarlo con la perizia che ha solo chi sa guardare in alto, oltre il mare agitato delle sentenze che cambiano, verso le stelle fisse che non mutano mai. Alla fine, con buona pace delle password, le regole chiave sono sempre queste tre: “Neminem laedere, unicuique suum tribuere, honeste vivere”. Se vi ho annoiato, mi scuso; mi fermo qui : “et de hoc satis” e naturalmente ora e sempre “salvisiuribus” (il latino sarà pure vecchio, ma evita sempre le decadenze). 25 Regolamento interno del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno per l’accreditamento delle attività formative di Paolo Cotza CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO REGOLAMENTO INTERNO del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno per l’accreditamento delle attività formative (Allegato alla delibera consiliare del 19.11.2014) Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno premesso che ◆ il 28 Ottobre 2014 il Consiglio Nazionale Forense ha definitivamente approvato il Regolamento (16 Luglio 2014 n. n. 6) per la formazione continua degli avvocati e praticanti avvocati abilitati al patrocinio, di seguito “Regolamento”; ◆ che l’art. 8 di detto Regolamento attribuisce ai Consigli dell’Ordine di sovrintendere e coordinare nelle proprie circoscrizioni l’attività di formazione continua, vigilando sull’assolvimento dell’obbligo da parte degli iscritti; ◆ che l’art. 16 del Regolamento attribuisce ai Consigli dell’Ordine la facoltà di “accreditare” gli eventi formativi di cui all’art. 3 del “Regolamento” (“Le attività formative”), le attività – a rilevanza locale - di cui all’art. 3 commi I e II, nonché le attività di cui alle lettere a), c), d), e) ed f) dell’art. 12 dello stesso “Regolamento” (“Altre attività ed autoformazione”); ◆ che appare necessario stabilire alcuni criteri generali – oltre quelli già previsti dal “Regolamento” e comunque sempre nel rispetto di quest’ultimo - in base ai quali fornire di volta in volta l’accreditamento richiesto, al fine di svolgere una valutazione il più possibile omogenea; ◆ tutto ciò premesso delibera il seguente REGOLAMENTO INTERNO DEL CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO PER L’ ACCREDITAMENTO DELLE ATTIVITA’ FORMATIVE 1) Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Livorno, atteso che il proprio “Piano dell’Offerta Formativa” (P.O.F.) è integrato e deve essere considerato un unicum con il P.O.F. presentato dalla Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno degli Ordini di Pisa, Livorno, Massa-Carrara, Lucca e La Spezia, delibera sin da ora di accreditare - senza necessità di preventiva valutazione - gli eventi formativi organizzati dalla Scuola di Formazione Forense per il numero dei crediti che saranno dalla stessa Scuola indicati per ogni singolo evento; delibera altresì di accreditare senza necessità di preventiva valutazione – anche gli eventi formativi da soggetti che abbiano raggiunto un “protocollo d’intesa” con il C.N.F.. Saranno altresì automaticamente accreditati gli eventi formativi realizzati dalle facoltà di Giurisprudenza delle Università degli Studi italiane e quelli realizzati dagli Istituti e dalle Scuole di perfezionamento universitarie riconosciute (come, ad esempio, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa); ciò perché gli eventi organizzati dai soggetti sopra indicati soddisfano sempre e comunque i criteri per l’accreditamento di cui all’art. 20 del “Regolamento”. 2) Qualora l’istanza di accreditamento per un evento formativo venga richiesta da una società od ente avente scopo di lucro, la delibera di accreditamento comporterà - per la società o l’ente – il pagamento di una somma (“contributo per l’accreditamento”) che sarà di volta in volta valutata e deliberata dal Consiglio dell’Ordine tenendo conto del tipo di evento, della sua durata e della somma richiesta ai partecipanti; in ogni caso la somma dovuta quale “contributo per l’accreditamento” non potrà mai essere inferiore ad Euro 500,00. 3) Per la partecipazione ad eventi formativi con pluralità di relatori, per questi ultimi, oltre all’attribuzione di CF secondo quanto previsto dall’art. 19 dell. A) del “Regolamento”, rimane ferma l’acquisizione dei CF secondo le regole generali. 4) Per la partecipazione alle sedute disciplinari del Consiglio dell’Ordine, nonché per l’assistenza difensiva in tale sede sono attribuiti 1 credito in materia deontologica per seduta, sino ad un massimo di 8 crediti per anno. 5) Gli iscritti che intendono svolgere attività di studio e di aggiornamento in autonomia nell’ambito della propria organizzazione professionale ex art. 12 lett. e) del Regolamento CNF dovranno corredare la domanda, da depositarsi presso la Segreteria del Consiglio, da una breve relazione illustrativa degli strumenti di sussidio al programma formativo e dei tempi di svolgimento. Saranno autorizzate solamente le attività formative che si esauriscano entro il 31 dicembre dell’anno in corso. In caso di approvazione della relazione, il Consiglio si riserva il diritto di richiedere informazioni e chiarimenti circa l’attività effettivamente svolta. 6) Ai ricercatori universitari in materie giuridiche senza incarico di insegnamento vengono riconosciuti, a domanda dell’interessato, 8 crediti per anno formativo. 7) Alle avvocate che partoriranno sarà riconosciuto un esonero parziale dalla formazione per n. 15 crediti formativi nel triennio in cui è avvenuto il parto; gli esoneri parziali per i “doveri collegati alla maternità e/o alla paternità” verranno concessi secondo i seguenti criteri: a) in maniera automatica ed a semplice domanda per entrambi i genitori per n. 7 CF sino ai cinque anni del figlio; b) a partire dall’età di cinque anni e sino alla maggiore età del figlio ogni richiesta verrà singolarmente valutata dal Consiglio dell’Ordine per la concessione di esonero parziale. 8) Le domande di esenzione dallo svolgimento delle attività formative per i casi previsti dall’art. 14 del “Regolamento”, ad eccezione per coloro che hanno compiuto i 65 anni di età e che sono iscritti all’Albo da oltre 25 anni, si propongono mediante deposito presso la Segreteria del Consiglio dell’Ordine unitamente alla documentazione probante la causa che legittima l’esonero. 26 L’Indicatore Forense di Paolo Cotza Piano dell’Offerta Formativa per l’anno 2015 CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO PIANO DELL’OFFERTA FORMATIVA PER L’ANNO 2015 (art. 7 II comma e 4 Regolamento per la Formazione Permanente) Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno, in ottemperanza a quanto previsto dal Regolamento per la Formazione Permanente approvato dal CNF in data 13.07.2007, ha deliberato la proposta del seguente Piano dell’Offerta Formativa al fine di favorire la formazione tendenzialmente gratuita e quindi offrire agli iscritti l’adempimento dell’obbligo formativo per l’anno 2015. Il programma, pur definito nella sua organizzazione generale, ha necessariamente anche carattere provvisorio, potendo e volendo il Consiglio inserire quelle attività integrative che si (auspica) potranno essere ulteriormente presentate nel corso dell’anno, ai sensi di quanto disposto dal comma V dell’art. 7 citato. Oltre a ciò il Piano proposto deve necessariamente essere integrato con la proposta redatta dalla Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno degli Ordini di Pisa, Livorno, Lucca, Massa - Carrara e La Spezia e che costituisce il naturale “prolungamento” della offerta formativa del nostro Ordine. Per ciò che concerne i costi, il Consiglio - nell’anno 2009 - ha deliberato un costo minimo di Euro 20,00 per ogni evento formativo (generalmente di 3 ore) con la possibilità di aumentare detto costo quando la durata dell’evento sia maggiore. Si prevede che vi possano essere eventi la cui offerta sarà gratuita. I relatori degli eventi saranno - preferibilmente - gli iscritti all’Albo tra quelli di maggiore esperienza per le materie che di volta in volta verranno trattate, gli iscritti delle associazioni forensi presenti in Livorno e provincia, nonché i compenti del Consiglio dell’Ordine; ovviamente anche i docenti ed i tutor della Scuola di Formazione Forense potranno essere relatori per alcuni degli eventi proposti dal Consiglio. Non abbiamo volutamente indicato nominativi se non nei casi in cui - ad oggi - possiamo essere certi della presenza. I criteri e le finalità alle quali il Consiglio si è attenuto nella proposta del Piano dell’Offerta Formativa sono quelli indicati nel Regolamento per la Formazione Permanente e, in particolare, quello di fornire una specifica offerta in quelle materie che costituiscono la “base operativa” per ogni avvocato, e quindi il diritto civile, la procedura civile, il diritto penale, la procedura penale, il diritto di famiglia e la deontologia. Ecco dunque il Piano dell’Offerta Formativa del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno per l’anno 2015: 16 Gennaio - Livorno - COA, Scuola Forense e AIGA “I giovani avvocati ed il nuovo ordinamento professionale” - relatori da individuare; 3 crediti formativi; 13 Febbraio - Livorno - COA “La normativa antiriciclaggio” - relatori da individuare, 3 crediti formativi; 20 Febbraio - Livorno - COA “Le novità del DL 132/2014” - Avv. Davide Amadei; 3 crediti formativi; 27 Febbraio - Cecina - COA e Associazione Cecinese titolo da individuare sul processo telematico; relatori da individuare, 3 crediti formativi; 13 Marzo - Livorno - COA e Camera Penale - “Messa alla prova e depenalizzazione”; relatori da individuare - 3 crediti formativi; 20 Marzo - Livorno - COA “Aggiornamento giurisprudenziale in diritto processuale civile” - Prof. Luiso - 3 crediti formativi; 27 Marzo - Livorno - COA “Carte e Corti Europee - Diritti fondamentali e Giustizia italiana” - Avv.ti G. Campeis - A. De Pauli - 3 crediti formativi; 10 Aprile - Livorno - COA - “Incontro di deontologia” - membri del COA 3 crediti formativi; 8 Maggio - Livorno - COA, Osservatorio Naz. Dir. Famiglia, e AIAF “La negoziazione assistita in materia di famiglia: prime esperienze a confronto” - relatori da individuare - 4 crediti formativi; 15 Maggio - Piombino - COA a Associazione Piombinese “Aggiornamenti in maL’Indicatore Forense teria di diritto processuale civile” , Prof. C. Cecchella; 3 crediti formativi; 19 Giugno - Portoferraio - COA “Incontro di deontologia” - membri del COA - 3 crediti formativi; 26 Giugno - Cecina - COA, Associazione Cecinese e AIAF “Tribunale ordinario, Tribunale per i Minorenni e Giudice Tutelare: le rispettive competenze nelle relazioni familiari”, Avv. A. Figone; 3 crediti formativi; 3 Luglio - Livorno - COA e Camera Penale - “I recenti approdi delle Sezioni Unite sul dolo eventuale e colpa cosciente”; relatori da individuare - 4 crediti formativi; 25 Settembre - Piombino - COA “Incontro di deontologia” - membri del COA - 3 crediti formativi; 16 Ottobre - Cecina - COA “Incontro di deontologia” - membri del COA - 3 crediti formativi; 23 Ottobre - Livorno - COA e AIAF “Procedimenti di separazione e divorzio: tutela dei figli minori, dei figli maggiorenni e dei nonni”; relatori da individuare; 4 crediti formativi; 30 Ottobre - Cecina - COA, Camera Penale e Associazione Cecinese “Il processo penale e la ricerca della verità”; relatori da individuare; 4 crediti formativi; 13 Novembre - Livorno - “Le novità giurisprudenziali in materia di diritto del lavoro”; relatori da individuare; 3 crediti formativi; 20 Novembre - Piombino - COA, Scuola Forense e Associazione Piombinese “Aggiornamenti in materia di diritto processuale penale”; relatori da individuare; 3 crediti formativi; 27 Novembre - Livorno - COA, Osservatorio Naz. Dir. Famiglia “La giurisprudenza sta al passo con la famiglia che cambia: dal dovere alla responsabilità” - relatori da individuare - 4 crediti formativi. 27 Le statistiche di Marco Vitalizi I numeri del Foro 869 il numero degli avvocati iscritti all’Albo a tutto il 30/11/2014, di cui 443 uomini e 426 donne. Rispetto al 31/12/1998 il numero totale degli iscritti (allora era- 423) è più che raddoppiato, ma quello degli uomini (allora 297) è cresciuto solo di circa il 50%, rispetto a quello quello delle donne (allora 106) che è quadruplicato. no 235 è il numero dei praticanti oggi iscritti, di cui 80 uomini e 155 donne. 31/12/1998 il numero totale dei praticanti è sceso del 30% (uomini -51% e donne -11%). Rispetto al I numeri del Consiglio Nel triennio 2012-2014 il Consiglio ha tenuto 114 riunioni ordinarie. 185 il numero degli esposti e delle richieste di intervento che sono stati trattati dal Consiglio dell’Ordine durante questo periodo. 35 sono stati i procedimenti disciplinari celebrati, dei quali 20 sono giunti a definizione: 13 di essi si sono conclusi con l’irrogazione di una sanzione, mentre in 7 casi è stata pronunciata una sentenza di proscioglimento.