La «policy inquiry»
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La «policy inquiry»
La «policy inquiry» 1. Prime definizioni 1.1. Perché il termine «policy inquiry» Per larga parte del pubblico italiano, il discorso sugli approcci prescrittivi alle politiche pubbliche si chiude con il capitolo sull’analisi razionale o, forse, ancora prima. I contributi di cui ci occupiamo ora cercano di rispondere alla domanda che Raiffa, con ironica modestia, poneva al termine di uno dei testi fondamentali per l’analisi formale delle decisioni, anticipando la critica di irrealismo cui è esposto il suo modello: «E che cos’altro dovremmo fare?» [Raiffa 1968, 272]. È forse possibile analizzare i processi decisionali senza assumere come parametro di riferimento ideale la razionalità, l’economicità o, almeno, l’obiettivo di una corretta soluzione dei problemi? Per chi si riconosce nell’impostazione della policy inquiry, la risposta è: sì. Al centro di questo approccio sta l’idea che qualunque proposta di intervento deve partire dal riconoscimento che i problemi di policy e le aspettative circa le soluzioni affondano le loro radici in complesse interazioni sociali, in inevitabili conflitti politici, in incerte congetture non solo sul futuro, ma anche sul passato: Rendere chi governa più responsabile davanti a coloro nel cui nome governa non è un’operazione fatta una volta per tutte con qualche nuova ingegnosa struttura istituzionale o con l’importazione in blocco di manager nel villaggio di Whitehall 1. E probabilmente non si ottengono grandi miglioramenti nemmeno proclamando l’astratta desiderabilità di una modificazione generale della mentalità e delle relazioni di lavoro. Le riforme non dipendono solo da un’idea brillante, ma da un duro lavoro di scavo per far emergere 1 Il quartier generale dell’esecutivo inglese, cui si riferisce la ricerca di Heclo e Wildavsky. Capitolo 4 184 CAPITOLO 4 quel che sta accadendo, e da un’insistenza ancora più dura sul fatto che l’interpretazione di questi risultati dev’essere negoziata con una franca discussione [Heclo e Wildavsky 1974, 389]. Il termine inquiry riceve dignità scientifica da John Dewey, che intitola una delle sue opere maggiori Logic: The Theory of Inquiry [1938], facendo di questo vocabolo una delle parole chiave del pragmatismo: «La teoria sviluppata da John Dewey [...] attribuisce al termine inquiry un significato ben più ampio di quello comune di “investigazione”, per fare invece riferimento alla generale interazione tra pensiero e azione. Per Dewey, l’inquiry inizia come risposta a un ostacolo nel fluire delle azioni, quando chi va in avanscoperta incontra una situazione problematica che è intrinsecamente dubbia o indeterminata» [Schön e Rein 1994, 52]. In questo concetto è implicita una duplice tensione. Innanzi tutto, rispetto al rapporto tra conoscenza del mondo e propensione a modificarlo, questo termine suggerisce un legame più contorto ma più tenace di quello sottinteso dall’analisi razionale: «Qualunque tipo di soluzione richiede qualche impegno all’azione in una situazione incerta prima della formulazione di una chiara idea della natura del problema. La diagnosi si manifesta attraverso l’intervento» [Schön 1971, 213]. In secondo luogo, quando Kaplan [1964], o Paris e Reynolds [1983], o Schön [1983], o Lindblom [1990] utilizzano questo vocabolo con riferimento alle politiche pubbliche, si propongono di richiamare l’attenzione sulle logiche concrete che la gente adotta, nella veste di policy maker o di policy taker, per affrontare, aggirare o rinviare problemi di rilevanza collettiva [Torgerson 1995]. Come scrive Paris, «la policy inquiry deve riflettere la complessità e la confusione del mondo politico (political), con i suoi trade-off, le svariate e approssimative rivendicazioni, la conoscenza limitata, le conseguenze inattese. Se ciò rende la policy inquiry solo “relativamente autorevole”, forse è proprio questo tutto quel che essa può o deve essere in una società democratica» [Paris 1988, 86]. In questo capitolo, l’etichetta policy inquiry è utilizzata per identificare un approccio preoccupato tanto di arrivare a una ricostruzione il più possibile realistica e disincantata dei processi, quanto di trasformare questa conoscenza in un appropriato strumento d’intervento. In questa accezione più vasta, il termine include anche impostazioni che pure non hanno una diretta discendenza dal pragmatismo. 1.2. Il disincanto Come abbiamo più volte sottolineato, la critica all’analisi razionale delle politiche ha dato un impulso decisivo all’elaborazione di una proposta teorica alternativa. Wildavsky descrive così questo passaggio: LA «POLICY INQUIRY» Il calo dei costi effettivi delle elaborazioni computazionali indusse a pensare che fossero (o stessero per diventare) gestibili modelli con dozzine di variabili, grandi abbastanza da catturare la complessità della vita reale. La possibilità di costruire grandi modelli richiedeva la capacità di comprendere i vasti problemi nazionali misurando (e poi riducendo al valore minimo) la perdita di efficienza economica nelle varie alternative alla politica in atto via via considerate. La perdita reale fu quella dell’innocenza. L’esperienza dimostrò che la nostra capacità intellettuale di misurare i fallimenti era molto maggiore della nostra capacità collettiva di avere successo nel modificare il comportamento umano [Wildavsky 1992, xxvi]. La disarmante conclusione che le soluzioni suggerite dagli analisti di politiche pubbliche raramente sono seguite, e ancor più raramente hanno successo, dà forza all’ipotesi che la ricerca di una procedura standard, di un formato universalmente valido per l’adozione di buone politiche, sia del tutto fuorviante. Il problema diventa allora pervenire a una rappresentazione più realistica di quel che veramente succede quando sono in gioco le politiche: se la molteplicità delle cause, dei fini, dei significati appartiene alla normalità del policy making, il concetto di decisione risulta troppo stretto per descrivere quello che davvero succede in questa arena: «Quando sono posti a confronto con le immagini del processo di policy prodotte dalla scienza politica, i modelli impliciti nella policy analysis tradizionale sprofondano» [Landau 1988, xi]. Nel capitolo precedente abbiamo utilizzato l’esempio della torta per spiegare le fasi della progettazione e valutazione delle politiche pubbliche. Le analisi presentate in questo capitolo rifiutano nettamente questa metafora. Mentre sarebbe scriteriato mettersi a imburrare la teglia prima di avere controllato di disporre di tutti gli ingredienti e del tempo necessario per seguire la cottura, per le politiche pubbliche non hanno senso le liste della spesa. Innanzi tutto, è difficile sapere con precisione ciò che serve, perché non ci sono ricettari collaudati in circolazione. Inoltre, molti degli ingredienti di base – strutture ad hoc, collaborazione, fiducia – non possono essere garantiti in anticipo, ma si può solo sperare che diventino disponibili in corso d’opera. Infine, anche quando si nutre un fondato pessimismo su tale evenienza, le circostanze spesso impongono di provarci lo stesso, perché questo è il segnale che l’opinione pubblica, o le organizzazioni degli interessi, o i politici chiedono. Del resto, il pianto ossessivo di un bambino che implora una torta può aumentare la propensione al rischio anche nel più ortodosso dei cuochi. E non è detto che vada sempre male. La storia culinaria è piena di fortunate ricette inventate in situazioni drammatiche, per sopperire alla mancanza dei tradizionali ingredienti. In una nota autobiografica (che ha determinato il titolo di questo volume), Wildavsky racconta di come, durante la progettazione di Speaking Truth to Power, si rese conto di dover abbandonare il suo obiettivo originario, che era spiegare «come si fa a fare le politiche 185 186 CAPITOLO 4 pubbliche», perché i requisiti sarebbero stati inesauribili, e per giunta tra loro contraddittori. L’obiettivo prioritario divenne quindi «come si fa a capirle» e a convivere con la molteplicità dei loro aspetti e degli approcci che ne danno conto [Wildavsky 1981, 134]. A quanti considerano questo programma di ricerca un arretramento rispetto alle ambizioni della ARP, questi autori replicano che la differenza tra la democrazia da un lato e, dall’altro, il re-filosofo di Platone, il Legislatore di Rousseau, o la leadership di partito del modello comunista, può essere apprezzata solo da una impostazione teorica apparentemente minimalista, ma in realtà molto più preparata a dare conto della varietà e complessità dei processi sociali [Lindblom 1977]. 2. L’affermazione del paradigma 2.1. Le origini Anche questa storia ha per sfondo soprattutto gli Stati Uniti. Per ripercorrerla, occorrerebbe partire dalle origini stesse dell’esperimento costituzionale americano, e dalla deliberata scelta a favore del pluralismo: «In America, i padri fondatori Alexander Hamilton e James Madison hanno incorporato il concetto di equilibrio delle opinioni nella loro architettura costituzionale. Pertanto il sistema federale da loro progettato è basato sulla separazione dei poteri, su pesi e contrappesi, tutti basati su diversi elettorati di riferimento» [Ricci 1993, 15]. L’idea che non sia la convergenza delle opinioni ma, invece, la difformità dei punti di vista e l’ampiezza del loro confronto a tenere viva una democrazia ritorna peraltro in quella che può essere considerata la filosofia pubblica americana del XX secolo, il pragmatismo. Nel prossimo paragrafo, daremo le coordinate di questa originale riflessione, che lega indissolubilmente la conoscenza alla soluzione dei concreti problemi che toccano la convivenza civile: «Il pragmatismo è essenzialmente la tradizione filosofica che considera la verità come la conoscenza che fa una differenza nelle azioni, nei comportamenti o nelle conseguenze per le nostre vite» [Churchman e Mitroff 1998, 113]. Come afferma in modo più diretto William James: «La verità delle nostre idee significa il loro potere di funzionare» [1907, 34]. È difficile esagerare l’importanza che il pragmatismo ha avuto nello studio delle politiche pubbliche. Come affermano Braybrooke e Lindblom: Dato che i punti di corrispondenza tra l’impostazione di Dewey e la nostra non sono stati cercati col proposito di emularla, forse possono essere presi come una conferma delle tesi di Dewey attraverso risultati complementari ma indipendenti. Ma possono dei risultati essere indipendenti, quando LA «POLICY INQUIRY» Dewey ha fatto tanto per influenzare il clima delle scienze sociali, almeno in America? Tanti di noi, che sono cresciuti in quel clima, sono approdati a visioni simili, dopo aver seriamente riflettuto sulle difficoltà e sulle concrete pratiche della valutazione: quindi possiamo aspirare a dire qualcosa di nuovo solo in senso incrementale [1963, 121]. Il continuo interesse per le scienze sociali applicate, per le conoscenze in uso, per i saperi attivati nella valutazione, si intreccia strettamente con la ricerca sulle politiche [Campbell 1998, 36] e con la sua istituzionalizzazione attraverso le think tanks. Il motto del Twentieth Century Fund, istituito a Boston negli anni ’30 era: «Non solo ricerca, ma un passo avanti» [Smith 1991, 85]. Se nel capitolo precedente abbiamo evidenziato come all’origine delle «taniche del pensiero» stia la fiducia nelle possibilità della scienza e dell’argomentazione razionale, ora dobbiamo sottolineare come questo non sia l’unico valore su cui esse si reggono. Il loro sviluppo è stato infatti sostenuto da altri due principi, che discendono direttamente dal pragmatismo, la fiducia nella dissonanza delle idee e dei valori, e l’importanza del mercato come medium per la circolazione delle conoscenze: «La saggezza si sviluppa non quando alcune persone competenti cercano un ordine politico ideale attraverso la scoperta di verità assolute, ma piuttosto quando aiutano a mantenere una comunità politica equilibrata attraverso la propagazione di proposte provvisorie e sostituibili» [Ricci 1993, 16]. 2.2. La nuova scienza dell’amministrazione All’inizio degli anni ’40, le trasformazioni innescate dal New Deal sottopongono l’amministrazione americana a tensioni contrastanti. Se da un lato, infatti, le commissioni volute da Roosevelt nei loro documenti ufficiali ponevano le basi per quell’approccio manageriale su cui ci siamo soffermati nel capitolo precedente, dall’altro, la creazione di numerose nuove agenzie autonome per l’attuazione delle politiche regolative tendeva ad incrinare il nitido disegno basato sulla divisione delle responsabilità tra i poteri costituzionali e sulla separazione tra politica e amministrazione [Selznick 1949]. Quando, nel 1947, Herbert Simon pubblica il suo rivoluzionario lavoro The Administrative Behaviour, diviene evidente che la crescita delle agenzie regolative ha ormai cambiato le modalità di gestione del settore pubblico, sicché è possibile leggere l’attività di implementazione non come mera esecuzione di direttive calate attraverso la piramide gerarchica, ma piuttosto come problema di coordinamento tra quelle diverse organizzazioni che sono gli organi legislativi, gli esecutivi, le burocrazie centrali e periferiche, ciascuna dotata di proprie risorse, di propri vincoli, e di proprie logiche d’azione [Hjern e Hull 1982]. 187 188 CAPITOLO 4 Come abbiamo visto, il contributo scientifico di Simon mal sopporta facili catalogazioni. Da un lato, nella sua formazione a Chicago hanno avuto una forte influenza sia Dewey sia Merriam: dal primo, Simon prende l’idea che per risolvere un problema occorra scomporlo e analizzarlo con un processo passo dopo passo; dal secondo, è senz’altro mutuato l’alto concetto del ruolo che le scienze sociali possono giocare per migliorare la convivenza civile. E tuttavia, nonostante il profondo impatto che The Administrative Behaviour ha avuto sulle teorie tradizionali della pubblica amministrazione, già la discussione del 1947 tra Herbert Simon e Robert Dahl sulle pagine della «Public Administration Review» evidenzia come, tra i due, sia certamente Simon il più distante dai presupposti su cui in seguito si baserà la policy inquiry. Se entrambi gli autori condividono la stessa impostazione comportamentalista e sottolineano la necessità di evidenze empiriche, basate sui comportamenti concreti, Dahl mostra molto scetticismo verso il programma che Simon descrive in questi termini: «Creare una scienza pura del comportamento umano nelle organizzazioni – e in particolare nelle organizzazioni di governo – con chi è insoddisfatto della teoria amministrativa tradizionale, formalistica e legalistica, e si propone di costruire una teoria più solida sulle fondamenta della psicologia sociale» [Simon 1947, 202]. Nel 1948 è pubblicato un volume, The Administrative State, di Dwigtt Waldo, che segna un distacco profondo dall’impostazione della riforma burocratica seguita a partire dal movimento progressista, poiché sostiene l’impossibilità, in una democrazia, di analizzare la pubblica amministrazione come una mera macchina, separata dalla politica: l’efficienza apparentemente conseguita rafforzando la divisione delle competenze è infatti destinata a svanire al primo concreto impatto con la complessità dei processi di gestione dell’intervento pubblico [Henry 1990, 4]. Alla fine del decennio, erano così gettate le basi per la contaminazione dello studio della pubblica amministrazione con la teoria delle organizzazioni da un lato, e con la scienza politica dall’altro. 2.3. Il ruolo degli interessi organizzati Negli stessi anni acquistava piena visibilità scientifica la ricerca intorno al ruolo delle organizzazioni degli interessi, quali attori capaci di condizionare l’attuazione delle grandi politiche pubbliche, soprattutto nei settori delle infrastrutture civili, delle politiche tariffarie e regolative [Selznick 1949; Leiserson 1942]. Le indagini compiute in questi campi già a partire dalla fine degli anni ’30 avevano portato alla luce una realtà che mal si coniugava con l’idea di un’amministrazione imparziale e professionale, data la capacità degli attori privati di rinviare, indirizzare o snaturare l’azione degli apparati pubblici. Se per le teorie tradizionali sul funzionamento del sistema politico le organizza- LA «POLICY INQUIRY» zioni degli interessi in una democrazia sono legittimate a intervenire nella fase di formulazione e di approvazione delle politiche, le documentate ricostruzioni di alcuni cruciali programmi dimostravano inequivocabilmente come i destinatari potessero avere risorse sufficienti per ribaltare le scelte già adottate dalle istituzioni rappresentative, senza peraltro fuoriuscire dalla legalità [Rourke 1976]. Inoltre, le ricerche di ispirazione pluralista mettevano in evidenza come gli stessi dirigenti pubblici, sia politici sia amministrativi, tendessero a comportarsi come rappresentanti di loro propri specifici interessi: I funzionari in posizioni autorevoli nelle agenzie governative fanno di queste dei «gruppi» organizzati che prendono parte al policy making, con le stesse modalità che adottano i veri gruppi composti da cittadini con medesime priorità, pur differenziandosi spesso da questi per la maggiore immediatezza e potenza [Lindblom 1990, 234]. Le posizioni di Dahl nel dibattito con Simon di fatto anticipano molte di queste tesi. Nel 1954, Norton Long riassume in questi termini il risultato di tante evidenze empiriche: «Per quanto possa essere attraente un’amministrazione che riceve i suoi valori da policy makers legittimati politicamente, quest’idea ha un difetto fondamentale: non si accorda con i fatti della vita amministrativa» [1954, 23, cit. in Henry 1990]. 2.4. Le difficoltà dell’implementazione Per gli scienziati sociali americani, gli anni ’60 sono marcati da una brusca inversione a U, dalle grandi speranze alle grandi delusioni [Schön e Rein 1994, 13]. Al loro inizio, le riforme sociali sul piano politico e le innovazioni tecniche sul piano amministrativo sembravano costituire l’accoppiata vincente per affrontare con misure adeguate i più gravi problemi della società americana, dalla povertà alle carenze della pubblica istruzione. Alcuni anni dopo, la realtà si incaricava di smontare pezzo dopo pezzo queste aspettative. Le parole con cui è espressa la disillusione manifestano tutte lo stesso sconcerto: Verso la fine degli anni ’60 stava diventando chiaro che le decisioni vanno distinte nettamente e sistematicamente dai loro effetti sociali. La strada verso la catastrofe sociale può essere lastricata delle migliori intenzioni. Leggi (o assegnazioni autoritarie) emanate per ridurre la povertà, per impedire l’inquinamento, o per alleviare le tensioni razziali possono finire in realtà per aggravare proprio quelle situazioni che erano dirette a migliorare [Easton 1971, 403 trad. it.]. Le notizie erano spaventose. Niente sembrava funzionare come doveva. I programmi lanciati con grandi speranze e suon di fanfare si rivelavano inca- 189 190 CAPITOLO 4 paci di raggiungere il loro obiettivo di cambiare la vita della povera gente [C. Weiss 1987, 41]. Secondo Daniel Moynihan [1969], uno studioso che negli anni ’60 era passato a gestire le politiche del ministero del Lavoro, nella guerra alla povertà gli analisti erano riusciti a massimizzare un’unica grandezza: il fraintendimento2. Per Wildavsky, è proprio la spietata denuncia della forbice tra promesse e realizzazioni a fornire agli scienziati sociali americani l’occasione per ripensare in termini nuovi i problemi legati all’implementazione3. 2.5. Reinventare il governo Come è noto, la cruda constatazione dei «fallimenti della politica» è all’origine della svolta neoliberista che ha avuto le sue più coerenti espressioni nei programmi politici che negli anni ’80 hanno orientato i governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Con il passaggio dalla fase iniziale di questi esperimenti alla concreta attuazione dei programmi di privatizzazione e di ridimensionamento del settore statale, si diffonde una nuova cultura del policy making caratterizzata da tre elementi: la riscoperta dei meriti del mercato e dell’iniziativa individuale; l’attribuzione di nuove responsabilità alle comunità locali nella gestione delle politiche sociali; la ricerca di strumenti capaci di influenzare i comportamenti degli attori economici e delle organizzazioni per vie alternative alle tradizionali forme di regolazione [Stockman 1986; Pierson 1994; Richardson e Dudley 1996]. Gran parte di queste intuizioni sono destinate a non tramontare con il ritorno alla Casa Bianca di un presidente democratico, ma a resistere, ostentatamente indifferenti a pregiudiziali ideologiche o partitiche. Nel 1992 è pubblicato un volume, Reinventing Government 4, di David Osborne 5 e Ted Gaebler, divenuto in breve il manifesto della riorganizzazione amministrativa, per i numerosi esempi di ingegno e 2 Tra gli scienziati politici più impegnati nella denuncia del fallimento ricordiamo Charles Murray, Edward Banfield, James Wilson. 3 I resoconti del fallimento sono comunque accompagnati da una punta di sciovinismo: «È mia impressione che le nazioni dell’Europa occidentale non conseguano più successi di noi nella maggior parte delle loro politiche. La grande differenza è che l’America rende pubblici i suoi fallimenti, cosa che non fanno la maggior parte delle altre nazioni» [Wildavsky 1992, 18]. 4 L’ansia di costringere questo contributo entro i tranquillizzanti binari dell’ortodossia amministrativa ha portato i curatori dell’edizione italiana a cambiarne il titolo in Dirigere e governare: la prima frase del volume, «Abbiamo scelto un titolo audace per questo libro», risulta così incomprensibile. 5 David Osborne, nelle note autobiografiche, sottolinea di essere stato consulente di importanti leader, tanto repubblicani quanto democratici. LA «POLICY INQUIRY» dedizione nella lotta, spesso vittoriosa, contro l’ottusità delle burocrazie centrali. A distinguere questa impostazione dai precedenti, analoghi tentativi, è una marcata impostazione bottom-up, che assegna alle comunità locali e agli ultimi anelli della catena gerarchica istituzionale un ruolo fondamentale nella concreta risoluzione dei problemi di interesse collettivo. Nel 1993, il vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore presenta un Rapporto sulle prestazioni della nazione, dal titolo: Dagli incartamenti 6 ai risultati: creare un governo che lavori meglio e costi meno [«National Performance Review» 1993], con lo scopo di avviare un processo di riflessione sui limiti dell’intervento pubblico e sulle strategie per migliorare il rapporto con i cittadini. Nello stesso anno, questi stessi obiettivi ottengono la ratifica legislativa con il Government Performance and Results Act. Proposte di riforma di questa ampiezza difficilmente hanno un’unica matrice teorica. E, infatti, in entrambi questi testi, accanto ad affermazioni molto innovative, si trovano riferimenti a obiettivi che appartengono al bagaglio più tradizionale della scienza dell’amministrazione e del public management. E tuttavia alcuni fondamentali tratti, comuni ai due documenti, giustificano il loro collegamento con la policy inquiry. Innanzitutto, le proposte sono pervase da una netta impostazione antimanageriale, che ha tra i suoi ispiratori autori quali Peter Drucker [1969; 1985], Edwards Deming [1986], Tom Peters e Robert Waterman [1982]7, le cui tesi riecheggiano in molte pagine: Gran parte di quello che definiamo management consiste nel rendere difficile alle persone svolgere il proprio lavoro [«National Performance Review» 1993, 42 trad. it.]. Nel tentativo di controllare praticamente qualsiasi cosa, siamo diventati talmente ossessionati dal dettare come le cose dovrebbero essere fatte – regolamentazione del processo, controllo degli input – al punto da ignorarne l’esito8, i risultati. [...] Nel pubblico, la teoria aziendale non è sufficiente [Osborne e Gaebler 1992, 47 e 55 trad. it.]. Non sono risparmiate frecciate polemiche verso la fitta rete di istituzioni sorte per razionalizzare, programmare, controllare, a partire dal General Accounting Office e dall’Office of Management and Budget, chiaramente accusati di avere trasformato la valutazione in ulteriori scartoffie destinate a distogliere gli uffici periferici dal confronto con le concrete esigenze degli utenti. 6 7 8 Red tape nel testo inglese. Tutti citati da Osborne e Gaebler [1992, 55 trad. it.]. Outputs nell’edizione inglese. 191 192 CAPITOLO 4 A questa involuzione è contrapposto un processo di sperimentazione dal basso, attraverso squadre e laboratori di reinvenzione, con l’intento di ridare voce a chi lavora in prima linea, a diretto contatto con i problemi della gente: «Sono le persone che lavorano accanto ai problemi che possono sapere meglio di chiunque altro come risolverli» [«National Performance Review» 1993, 38 trad. it.]. «Chi lavora in prima linea conosce meglio il lavoro e il modo di renderlo più efficiente dei manager che stanno a Washington» [«National Performance Review» 1997, 2]9. Allo stato attuale, è impossibile verificare se questo progetto potrà resistere alle stesse corrosive verifiche cui sono stati sottoposti tentativi di innovazione altrettanto ambiziosi. Ma quando, in seguito a queste iniziative, anche il ministero della Difesa, un tempo fucina del Planning, Programming, Budgeting System, si è trovato ad avviare una bottom-up review per migliorare le sue prestazioni, in molti hanno considerato avviata una svolta decisiva10. 2.6. Il governo digitale Il progetto per la reinvenzione del governo si è andato sempre più intrecciando con i temi e gli obiettivi del governo digitale, o informatico, o elettronico. Se nei primi documenti del 1993 la tecnologia compare semplicemente come una risorsa da sfruttare, dopo pochi anni a dominare è il tema della riprogettazione dell’intero intervento pubblico in base alle potenzialità offerte dall’informatica: La tecnologia informatica è oggi la grande leva per la reinvenzione. Ci consente di ripensare radicalmente a come la gente lavora e a come possiamo servire i nostri utenti [...]. Non automatizzate il vecchio processo: riprogettatelo. Le nuove tecnologie portano nuove possibilità, quali mettere i servizi sulla rete perché siano i consumatori a usarli quando vogliono [«National Performance Review» 1997, 3]. Tra le tecnologie capaci di portare verso il governo digitale, Internet occupa il posto centrale: Benché i processi, e non la tecnologia informatica, debbano guidare la riprogettazione, tuttavia non è possibile esplorare l’intera serie degli scenari 9 The Blair House Papers, gennaio 1997, in http://www.npr.gov/library/papers/ bkgrd/blair.html (aprile 1999). Il taglio di oltre 315.000 posti di lavoro ha riportato il numero degli impiegati nell’amministrazione federale ai livelli del 1962, cioè a prima dei grandi programmi sociali della «nuova frontiera». 10 Come ebbe a dichiarare Tom Peters [1997], riferendosi al più imponente esperimento di razionalizzazione delle procedure di spesa avviato negli anni ’60 dal ministro della Difesa McNamara, «Tutta la mia vita è un tentativo di esorcizzare la società dal demone di Robert McNamara». LA «POLICY INQUIRY» disponibili senza fare i conti con il mondo che ha permeato l’ambiente di lavoro del nostro tempo, che è sempre più in rete, interattivo, collegato da internet [General Services Administration 1997, 3]11. Nel campo delle politiche pubbliche, il governo digitale dischiude la possibilità che i problemi comuni diventino la base per lo sviluppo di collegamenti diretti, non mediati dal centro, tra i cittadini con domande, idee o esperienze su un determinato aspetto della convivenza collettiva e quanti, nel settore pubblico o in quello privato, hanno risorse da offrire per la loro soluzione: dati, servizi, informazioni. Come spiega il vicepresidente Al Gore, nell’introduzione al progetto Access America, Il modello dell’organizzazione industriale è sopravvissuto alla sua utilità. Oggi i computer e le comunicazioni ci consentono di organizzare il lavoro in modo nuovo. Sulla base del concetto di «intelligenza distribuita» nell’elaborazione dei dati, il nuovo modello distribuisce le informazioni e gli strumenti per utilizzarle all’interno di un’organizzazione. L’autorità decisionale può essere assegnata ai dipendenti sulla linea del fronte, là dove per primo si manifesta il cambiamento 12. La rete è del resto il medium privilegiato per la circolazione di documenti, linee di indirizzo, esperienze concrete, legate al tema della reinvenzione del governo, cui sono dedicati decine e decine di siti. Internet appare infatti come la tecnologia che consente di tradurre in pratica un approccio bottom-up al policy making senza rinunciare all’affidabilità delle procedure. E molti autori hanno sottolineato le analogie tra l’incrementalismo disgiunto, che discuteremo tra breve, e il modo in cui Internet si è affermato, sfruttando la ridondanza, l’assenza di una pianificazione centrale, l’architettura a network per il flusso delle informazioni, la fiducia nella capacità di aggiustamento reciproco e nell’avanzamento per prova-errore [Woodhouse 2000]. 3. Riferimenti teorici e metodologici In questo capitolo, la demarcazione tra presupposti teorici e linee di ricerca diviene più sfumata, perché gli approcci qui discussi non sono importati dall’esterno, per essere poi applicati alle politiche, ma sono autonomamente elaborati sulla base di evidenze alimentate da concreti esperimenti nel policy making. Pur investendo ambiti disciplinari contigui, quali la teoria delle organizzazioni e la scienza della politics, i concetti qui presentati mantengono salde radici negli esperimen11 Government Business Process Reengineering (BPR), in http://www.itpolicy. gsa.gov/mkm/bpr/gbpr/gbpra.htm (ottobre 2000). 12 http://www.gits.fed.gov/htmtxto/intro.htm (ottobre 1997). 193 194 CAPITOLO 4 ti attuati per migliorare la qualità dell’intervento pubblico. All’interno della policy inquiry, sono identificabili quattro diverse matrici teoriche, ciascuna caratterizzata da un preciso profilo, pur con intrecci, zone di sovrapposizione, e potenziali frizioni. 3.1. Le politiche come conoscenze in uso Il primo nucleo di riflessione si basa sulla constatazione del doppio legame che tiene insieme il concetto di politica pubblica e quello di conoscenza. Secondo l’impostazione pragmatica, in molte attività umane la conoscenza, a differenza della mera raccolta di dati e di informazioni, ha implicita una tensione a ridurre la forbice tra le cose come sono e come invece vorremmo che fossero. Fare le politiche pubbliche appartiene a questo tipo di attività come, ad esempio, l’educare. Innanzi tutto, le politiche portano impresso in modo indelebile il marchio delle ipotesi che le sostengono. La loro impostazione è un’attività che ha molti punti di contatto con l’indagine scientifica: richiede l’uso consapevole degli operatori logici; fissa le regole in forma scritta; verifica le ipotesi attraverso un processo di pubblico dominio; attribuisce un vantaggio a chi dimostra di avere ragione. Come sottolineano Pressman e Wildavsky, «Le politiche implicano teorie. In modo più o meno esplicito, le politiche fanno riferimento a una catena causale tra le condizioni iniziali e le conseguenze future» [1973, xxiii; v. anche Landau 1973; Majone 1980]. La riforma della scuola secondaria superiore non è solo un meccanico adeguamento ai tempi, ma è anche una teoria su ciò che è, oggi, l’adolescenza: quando inizia, quando finisce, quali regole di iniziazione e quali margini di autonomia le si confanno. In secondo luogo, le politiche sono una fonte insostituibile di conoscenze sulla società in cui ci è dato vivere: solo quando sono messe alla prova dei fatti, le ipotesi causali possono funzionare come sonde e raccontarci chi è oggi un disoccupato cinquantenne, o a quali condizioni una prostituta può cambiare attività. E tuttavia questa duplice corrispondenza non è di per sé tranquillizzante. Non esiste alcuna sicurezza che questa relazione porti a buone politiche, sostenute da conoscenze appropriate, e non si avviti invece in un perverso gioco di specchi, in cui i limiti delle nostre capacità cognitive rafforzano scelte superficiali, improvvide e, nei casi peggiori, catastrofiche. Come abbiamo più volte sottolineato, i buoni propositi e un’imponente base di dati non hanno salvato dal fallimento la guerra alla povertà avviata negli anni ’60 negli Stati Uniti: la stessa conclusione potrebbe valere per la politica energetica italiana degli anni ’70 e per molti altri casi. Un’idea di conoscenza che sia capace di aiutare il policy making, deve avere due caratteristiche fondamentali: da un lato, deve essere abbastanza accorta da capire i condizionamenti e i profondi legami che LA «POLICY INQUIRY» le attività cognitive hanno con i contesti culturali, politici, economici, che attivamente modellano i significati e le idee che circolano in una società; dall’altro lato, deve essere abbastanza orientata all’azione e alla trasformazione del presente da credere in una qualche (limitata) capacità di «prendere le distanze» dalle situazioni che condizionano il nostro modo di pensare, per intervenire consapevolmente a modificarle. Per raggiungere questo duplice obiettivo, la policy inquiry si è scavata un proprio percorso camminando in bilico fra tre approcci, o paradigmi che, se da un lato hanno importanti competenze da trasmetterle, dall’altro possono trasformare i loro frutti in mele avvelenate, capaci di portare alla paralisi l’analista che ne resti troppo affascinato. 3.1.1. La prima trappola: il paradigma razionale All’importanza del paradigma razionale per lo sviluppo degli studi di policy abbiamo appena dedicato un capitolo: non occorre quindi insistere sul ruolo che questo approccio ha svolto per il consolidamento di una prospettiva orientata alle politiche. E tuttavia, alcuni suoi presupposti risultano in netto contrasto con una concezione della conoscenza di impronta pragmatica. Innanzi tutto, per l’analisi razionale delle politiche, la conoscenza si riduce essenzialmente all’acquisizione e all’impiego delle informazioni. Più precisamente, a fare delle informazioni qualcosa che vale, concorrono due elementi: • la loro capacità di spingersi in avanti nella previsione, condizionando il grado di fiducia con cui possiamo anticipare il futuro; • il loro carattere strumentale, che ne fa il mezzo ideale per dirimere le contese sulla definizione dei problemi da cui prendono le mosse le politiche. A prima vista, queste qualità possono impressionare: del resto, sulla loro base funzionano i mercati, funziona la borsa, e funziona l’analisi di progetti pubblici relativamente semplici. Ma per gli autori che si rifanno all’impostazione della policy inquiry, il modo in cui le teorie razionali trattano la conoscenza, equiparandola all’informazione, è per certi versi eccessivo; per altri è riduttivo. È eccessivo, perché il modello ideale implicito nell’analisi razionale delle politiche è quello della perfetta informazione: se fosse possibile sapere tutto, svanirebbero i comportamenti miopi, le incertezze circa il futuro, le congetture sulle reali preferenze delle persone, i dubbi sugli obiettivi dei policy makers. Ma è anche riduttivo, perché la netta separazione tra raccolta delle informazioni e decisione sorvola sull’influenza che l’orientamento verso il cambiamento esercita già nell’attività di ricerca e di lettura dei dati. Per l’analisi razionale, considerare la conoscenza come un’attività neutra, indipendente e preliminare rispetto alla decisione è un’esigenza fonda- 195 196 CAPITOLO 4 mentale. Da essa dipende infatti la possibilità di stabilire una netta divisione tra il momento della scelta delle politiche, demandata al politico, e l’analisi delle condizioni per il loro successo, affidata al tecnico. La policy inquiry prova a sfidare quelli che considera due gravi errori di approssimazione, il primo per eccesso, il secondo per difetto. Il ridimensionamento del bisogno di informazioni. Lindblom ha sviluppato in più occasioni una serrata critica alla fame di informazioni postulata dagli approcci razionali alle decisioni pubbliche [Cohen e Lindblom 1979a; Lindblom 1980]13. In primo luogo, data la complessità della grande maggioranza dei problemi collettivi del nostro tempo, appare molto ingenua l’idea che possa esistere una qualche scienza capace di costruire e di elaborare una base di dati talmente ampia da comprendere tutte le variabili in gioco [Cohen e Lindblom 1979b]. Nessuno è in grado di delimitare le ipotesi circa i legami di causa-effetto che riguardano i più sentiti problemi sociali. E la mancanza di tempo e di denaro impedisce di fare quegli studi che potrebbero almeno ridurre la nostra ignoranza. Quand’anche da questo immane lavoro riuscissero ad emergere risultati univoci, difficilmente essi acquisterebbero, in virtù della loro completezza, una speciale autorevolezza agli occhi dei policy makers e dei policy takers, sì da sormontare altre fonti di giudizio, quali le personali esperienze, le valutazioni degli amici, le mode o le sensibilità etiche: I funzionari hanno il loro proprio bagaglio di informazioni, hanno i loro interessi di carriera in gioco, hanno assunzioni di riferimento e posizioni ideologiche scaturite dalla somma delle loro esperienze di vita. Anche se di solito il mantenimento di buone relazioni e la logica di un’analisi con una salda reputazione scientifica possono indurli a fare attenzione all’evidenza che il ricercatore dimostra, ciò non significa che automaticamente mettano da parte tutte le altre fonti influenti e adottino le conclusioni del ricercatore [Weiss 1982, 31]. L’idea che sia possibile infilare la moltitudine delle visioni discordanti dentro la gabbia di una qualche evidenza scientifica, non considera il fatto che su molti temi caldi le persone non vanno d’accordo nemmeno con se stesse, perché vogliono combinazioni del tipo «botte piena e moglie ubriaca» [March e Olsen 1989]. E la pretesa di saper individuare ciò che è bene per una società senza fare i conti con le idee degli individui che la compongono, anche quando queste sono contraddittorie, ha implicita una tendenza dispotica, sia pure velata dai propositi più edificanti: «Qualcuno ha proposto di immaginare che la policy analysis vada offerta al “Principe”, rifacendosi a un’idea del processo di policy presa da Machiavelli, 13 Spesso identificati con il temine Professional social inquiry (PSI). La critica più spietata si trova in una lunga nota in Lindblom [1990, 277]. LA «POLICY INQUIRY» anziché dalla complessità della politica democratica» [Lindblom 1990, 265]. In Politica e mercato [1977], Lindblom arriva a tracciare un’analogia tra i criteri ispiratori della rational policy analysis e il modello comunista, entrambi basati sull’aspirazione al controllo della società attraverso la forza dell’intelletto, nel primo caso incarnata in un algoritmo per la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza e, nel secondo, nel partito come avanguardia delle masse. Un importante contributo alla costruzione di una teoria più realistica sulla circolazione della conoscenza in un contesto democratico viene dalla riflessione di Friedrich von Hayek, che dissocia definitivamente il funzionamento del mercato dal requisito della perfetta informazione circa le conseguenze delle scelte che i soggetti economici vi compiono. Secondo questa impostazione, in seguito ripresa da autori quali Buchanan e Stigler, a garantire l’esito efficiente delle transazioni di mercato non è affatto la completa valutazione di tutte le sue conseguenze da parte dei soggetti che vi aderiscono. Al contrario, a far funzionare il mercato è il fatto che nessuna delle parti coinvolte è in grado di anticipare quale uso i suoi partner faranno delle risorse loro fornite attraverso lo scambio [Hayek 1982]. Se da consumatori o da produttori dovessimo valutare quali effetti hanno le nostre scelte economiche rispetto ai valori e agli interessi cui teniamo, sarebbe la paralisi: quando compriamo il pane, dovremmo accertarci che il fornaio faccia buon uso dei soldi che gli lasciamo; se vendiamo televisori, dovremmo preoccuparci che non servano a guardare programmi ignobili. Nelle società aperte, questi problemi si pongono solo se diviene evidente che il partner dello scambio non è in grado di intendere o di volere. Ma, di norma, la superiorità del mercato rispetto alla pianificazione deriva proprio dalla sua disponibilità a riconoscere e a utilizzare il carattere inevitabilmente incompleto e dispersivo della conoscenza umana. Il carattere particolare del problema di un ordine economico razionale è determinato precisamente dal fatto che la conoscenza delle circostanze di cui ci dobbiamo servire non esiste mai in forma concentrata o integrata, ma solamente sotto forma di frammenti sparpagliati di conoscenza incompleta e spesso contraddittoria che tutti gli individui posseggono separatamente. Il problema economico della società, perciò, non è meramente un problema di come allocare risorse «date» – se «date» è preso nel senso di date ad una singola mente che risolve deliberatamente il problema posto da questi «dati». Si tratta piuttosto del problema relativo a come assicurare il migliore uso di risorse note a ciascuno dei membri della società, per fini la cui importanza relativa è nota solo a questi individui. O, in breve, si tratta del problema di come utilizzare la conoscenza che non appartiene a nessuno nella sua totalità [Hayek 1945, 277-278 trad. it.]14. 14 Questo brano è citato anche da Simon [1981]. 197 198 CAPITOLO 4 Come è noto, per Hayek nel mercato è il sistema dei prezzi a svolgere la funzione di trasmettere le valutazioni di un numero infinito di attori, con un minimo impegno cognitivo da parte di ciascuno di essi: «Anche se ciascun singolo partecipante al mercato conosce solo una piccola parte di tutte le possibili fonti di offerta o delle possibili utilizzazioni di una data merce, tuttavia i diversi agenti sono così strettamente collegati fra loro, in modo diretto o indiretto, che i prezzi registrano i risultati netti di tutti i cambiamenti di una certa rilevanza che interessano la domanda o l’offerta» [1952, 206 trad. it.]. Per l’economia del benessere, il rapporto tra mercato e informazio- ne è degno di nota soprattutto quando non funziona, ad esempio per i costi troppo elevati che possono gravare sui consumatori, quando sono in gioco beni primari, quali la salute o l’istruzione. Per la policy inquiry, e per le teorie economiche che la ispirano, il mercato merita attenzione proprio perché rappresenta la più brillante soluzione al problema del contenimento dei costi dell’informazione: «Il meccanismo del mercato è un grande esempio. Risolve una quantità enorme di problemi allocativi e distributivi senza portarli sul tavolo o sull’agenda di alcuno» [Lindblom 1990, 225]. L’indicazione che ne deriva per l’impostazione delle politiche pubbliche segna una svolta netta rispetto all’ARP. Entrambi gli approcci riconoscono l’esistenza di settori in cui effettivamente è troppo rischioso o troppo iniquo attendere che i prezzi parlino da soli. Ma per la policy inquiry il problema non si risolve allestendo strutture amministrative sempre più affamate di dati e di competenze, bensì mettendo i singoli e le comunità in grado di simulare il più possibile quella stessa logica che consente ai cittadini di concludere soddisfacenti transazioni di mercato, quando acquistano un’auto o vendono un appartamento, pur non disponendo di un quadro sinottico di tutte le possibili conseguenze delle loro scelte. Nel loro volume Reinventing Government, Osborne e Gaebler fanno loro questo stesso concetto: Dei mandarini a capo di un impero gerarchico non possono più prendere decisioni adeguate per tutti, semplicemente perché non sono più in grado di gestire il volume di informazioni e di decisioni. Un mercato, però, può farlo. I mercati stanno all’attività sociale ed economica come i computer alle informazioni: servendosi dei prezzi come meccanismo fondamentale, inviano e ricevono segnali quasi in tempo reale, analizzando in modo efficiente milioni di input e consentendo a milioni di persone di decidere in piena autonomia [Osborne e Gaebler 1992, 347 trad. it.]. La competizione delle idee. Nel paragrafo precedente abbiamo considerato la critica a quelle che la policy inquiry considera approssimazioni per eccesso, se non manie di grandezza, dell’analisi razionale. Ma la ARP finisce sotto accusa anche per le approssimazioni per difetto, cioè per i talenti che seppellisce, ingabbiando la sperimentazione entro procedure calate dall’alto: «La società deve cercare le buone politiche, LA «POLICY INQUIRY» o stabilire i fatti e trovare la “verità” attraverso la “competizione delle idee”, non attraverso l’abilità analitica di un re-filosofo o di un’analoga élite di intellettuali» [Lindblom 1980, 35]. Come i lettori ricorderanno, anche l’analisi razionale delle politiche prevede che l’efficacia di un provvedimento possa essere testata con procedure sperimentali, o quasi sperimentali. E tuttavia, per la policy inquiry, il meccanico adeguamento ai canoni tradizionali della ricerca scientifica e l’insistenza sul valore della replicabilità appaiono totalmente inadeguati quando sono in gioco le politiche pubbliche [Stacey 1996]. In questo caso, ogni replica, ogni applicazione di una strategia a una nuova situazione, equivale alla sua reinvenzione [Dunn 1983]. Infatti le ricerche dimostrano che la diffusione di una politica non avviene attraverso la sua fedele trasposizione in nuovi contesti, ma attraverso un processo creativo di adattamento [March 1997]. In altre parole, creazione, diffusione e utilizzazione delle conoscenze per il policy making non sono tre fasi nettamente distinguibili, ma tre facce di uno stesso processo sperimentale, che l’analista può indirizzare sulla base di alcuni criteri guida. 3.1.2. La seconda trappola: la razionalità limitata Le teorie della razionalità limitata hanno fornito importanti argomenti alla policy inquiry nella sua radicale contrapposizione all’analisi razionale delle politiche. Innanzi tutto, hanno messo in evidenza l’irrealismo delle competenze cognitive e delle abilità computazionali richieste dai suoi metodi. In secondo luogo, hanno consentito di approfondire le effettive strategie seguite dagli attori nella soluzione di problemi complessi: come disaggregano le questioni, come le mettono in fila una dopo l’altra, come si formano un’idea dell’ambiente che li circonda. E tuttavia sia Lindblom sia Wildavsky scorgono nel programma scientifico di Simon e nell’approccio alle politiche in termini di problem solving le tracce di un eroico quanto inutile tentativo di mettere in salvo il concetto di razionalità, ricorrendo all’ambigua aggiunta dell’aggettivo «limitata» [Wildavsky 1992, 135; Torgerson 1995, 242]. Ma riprendiamo la presentazione di questa teoria dal punto in cui l’avevamo lasciata nel capitolo precedente. La critica alla razionalità sinottica. L’assalto teorico ai presupposti cognitivi dell’attore razionale ha conosciuto un notevole impulso a partire dagli anni ’40, con la contrapposizione di un approccio antisinottico (o della razionalità limitata, vincolata, soddisfacente) a quello sinottico (onnicomprensivo, economico, o ottimizzante): L’approccio sinottico puro era contraddistinto dall’identificazione con l’analisi dei sistemi come metateoria, con l’empirismo statistico come metodo- 199 200 CAPITOLO 4 logia, e con l’ottimizzazione dei valori come criterio decisionale. L’approccio antisinottico puro era contraddistinto dall’identificazione con il pluralismo come metateoria, con l’analisi contestuale e di caso come metodologia, e con la razionalità sociale, cioè con l’integrazione degli interessi, come criterio decisionale [Garson 1986, 10]. Simon [1947] è stato il primo autore a porre una serie di questioni con una valenza dirompente rispetto alla elementare rappresentazione dei processi decisionali su cui si basa la policy analysis di derivazione economica. All’origine della sua teoria sta una constatazione: negli esseri umani la riflessione consapevole può prendere in considerazione simultaneamente solo poche evidenze: «L’individuo umano è essenzialmente costruito come una macchina che processa le informazioni in modo seriale. Pertanto può elaborare solo una o due idee per volta. Questo fatto fondamentale ha una vasta gamma di conseguenze sul comportamento» [Simon 1966, 20]. E dato che l’immagazzinamento delle informazioni non comporta la necessità di renderle perfettamente coerenti tra loro, le nostre conoscenze sono caratterizzate da contraddizioni, sovrapposizioni, lacune. Su questi due dati è costruito il concetto di razionalità limitata, o vincolata, contrapposto a quello di razionalità sinottica, postulato dalle teorie della decisione razionale. Per un attore costretto a fare i conti con i propri vincoli cognitivi, è razionale accontentarsi delle prime soluzioni soddisfacenti incontrate, senza porsi come obiettivo l’identificazione delle alternative ottimizzanti, cioè capaci di dimostrarsi superiori rispetto a tutte le altre possibilità: «In molti modelli globali di scelta razionale, si valutano tutte le alternative prima di fare una scelta. Negli effettivi processi decisionali umani, le alternative vengono spesso esaminate sequenzialmente [...]. Quando si esaminano le alternative sequenzialmente, possiamo considerare la prima alternativa soddisfacente esaminata come quella effettivamente scelta» [Simon 1955, 133 trad. it.]. Le politiche pubbliche come problemi da risolvere. Sulla base delle intuizioni di Herbert Simon, di Marvin Minsky e di altri studiosi, si è consolidato un settore di ricerca che mira ad approfondire i criteri seguiti nella raccolta delle informazioni, nella loro validazione e utilizzazione in vista di una decisione. In questo campo confluiscono più ambiti disciplinari, dalle scienze cognitive all’economia sperimentale, dalla psicologia alla cibernetica. Alla luce di questa impostazione, le creature intelligenti – non importa se uomini o computer – riescono a risolvere i problemi perché sanno utilizzare la loro capacità di ricondurre l’infinita varietà delle informazioni che ricevono ad alcune categorie generali, che sono identificabili con simboli, che sopportano di essere elaborati sulla base di un numero finito di regole. Una delle applicazioni più affascinanti di questa teoria riguarda lo LA «POLICY INQUIRY» sviluppo dell’interazione tra uomo e computer, che risulta grandemente potenziata muovendo da questi presupposti: • qualunque processo descrivibile è traducibile in istruzioni per un elaboratore; • ogni processo causale è traducibile in una regola formale; • ogni problema complesso è scomponibile in parti più elementari; • l’intero è spiegabile come somma delle parti [Simon 1981]. Alcune articolazioni di questo approccio, quali il progetto per l’Intelligenza Artificiale e la creazione di sistemi esperti, hanno senz’altro più punti di contatto con la ARP che con la policy inquiry, e pertanto sono stati menzionati nel capitolo precedente. Sulla base di queste approssimazioni funzionano molte applicazioni del software ai diversi campi dell’attività umana, dal settore medico a quello legale. Altre diramazioni toccano invece temi che arrivano a sfiorare il campo di ricerca della policy inquiry. Il punto di intersezione è costituito dall’applicazione del paradigma della razionalità limitata e del problem solving alle grandi organizzazioni: le imprese, ma anche le varie branche dell’amministrazione, e la stessa società nel suo complesso [March e Simon 1958]. Se le politiche pubbliche sono essenzialmente tentativi per risolvere problemi di rilevanza collettiva, e se questi problemi sono di norma caratterizzati da un’elevata complessità, perché non fare tesoro delle procedure utilizzate in contesti artificiali per superare anche i limiti cognitivi e computazionali dei policy makers [Simon 1966]? Perché non pensare a un’ingegneria della decisione pubblica che sfrutti queste linee guida: • scomporre i problemi complessi fino a ridurli a problemi elementari; • risolvere i problemi in sequenza, stabilendo il loro «ordine di comparizione», in modo da evitare alle istituzioni democratiche il rischio di un sovraccarico decisionale; • replicare le strategie che danno buoni risultati; • strutturare le amministrazioni pubbliche sulla base dei flussi delle informazioni che devono trattare, sostituendo al modello della piramide gerarchica quello della rete; • potenziare le capacità di adattamento a un ambiente prevalentemente costituito non da attori economici, ma da altre amministrazioni pubbliche. Questo programma scientifico ha esercitato una notevole attrazione su molti studiosi di management pubblico, che hanno trovato nelle idee del problem solving un riferimento più promettente rispetto ai tradizionali concetti di rendimento o di produttività degli uffici, considerati troppo legati a una visione ragionieristica dell’attività delle organizzazioni pubbliche. Come spiega March, a suo tempo affascinato dal progetto, «Le teorie della scelta [...] hanno sviluppato legami più forti con le teorie dei processi cognitivi, con l’Intelligenza Artificiale e la diffusione [delle informazioni], anziché con le teorie basate sul calcolo» [March 1996, 282]. 201 202 CAPITOLO 4 Nel paragrafo precedente abbiamo precisato che il progetto per il reengineering e il governo digitale avviato dall’amministrazione Clinton negli anni ’90 ha diverse radici: alcune affondano nel terreno del management pubblico e dell’analisi razionale delle politiche; altre, nella policy inquiry; ma altre ancora sono chiaramente alimentate dall’applicazione dell’informatica al problem solving: La nuova infrastruttura federale di informazione per il governo digitale aprirà nuove strade attraverso le quali la gente e i funzionari amministrativi potranno interagire, prendere decisioni, condividere idee e collaborare per problemi di rilevanza comune. Si può pensare che si svilupperanno «agenzie virtuali» che metteranno insieme ambiti di interessi comuni a più agenzie e gruppi di cittadini interessati a risolvere problemi collettivi. Le tradizionali ripartizioni delle competenze tra le agenzie possono essere infrante per venire incontro in modo più efficace a interessi nuovi e a problemi speciali15. Oltre il dualismo problema-soluzione. Nonostante i consistenti debiti originariamente contratti con le teorie della razionalità limitata nella comune battaglia contro la razionalità sinottica, o di tipo economico, la policy inquiry mantiene una sostanziale diffidenza verso l’equiparazione delle politiche a decisioni, e di queste ultime a soluzioni di problemi. Vero è che le politiche hanno la loro ragion d’essere nel tentativo di trovare una soluzione a problemi di rilevanza collettiva, ma questa operazione difficilmente può essere rappresentata come un tragitto lineare, dal problema alla soluzione. Nel policy making, il modo in cui è impostato il problema porta l’impronta delle soluzioni preferite; e le soluzioni preferite hanno, a loro volta, il profilo dei problemi che preferiamo incontrare. In termini più generali, la policy inquiry di impronta pragmatica considera le teorie del problem solving e della razionalità limitata come minate da un dualismo preconcetto tra conoscente e conosciuto. Questa critica tocca questioni di fondo estremamente rarefatte, più vicine alla filosofia che allo studio delle politiche. L’accusa è di appiattimento su una epistemologia16 sostanzialmente positivista, basata sulla giustapposizione tra il mondo là fuori, il conosciuto, e la mente che conosce attraverso rappresentazioni. Per Peirce, Dewey, Bentley, questa impostazione è tutt’altro che scontata. Ma seguire i nostri autori lungo questa strada ci porterebbe ad abbandonare decisamente il piano a, per decollare verso il piano , escluso dall’orizzonte di questo volume. Le competenze implicite. Le teorie che presentiamo ora danno una lettura più ampia delle operazioni che gli attori compiono per fare 15 H. Schorr e S.J. Stolfo, A Digital Government for the 21st Century, in «CACM», 41 (11), 1998, pp. 15-19, http://www.acm.org/pubs/citations/journals/cacm/1998-4111/p15-schorr (agosto 2001). 16 L’epistemologia è quella parte della filosofia che cerca di spiegare come facciamo a conoscere il mondo. LA «POLICY INQUIRY» fronte alla complessità dei problemi in cui si trovano immersi quando ragionano, e soprattutto quando ragionano in termini di politiche. La policy inquiry parte dalla convinzione che le limitate capacità di calcolo degli esseri umani siano integrate da altre facoltà, grazie alle quali gli attori riescono ad accantonare, accerchiare, ridefinire e – talvolta – persino a superare i deficit cognitivi sui fenomeni sociali che li circondano [Deutsch 1963; Argyris e Schön 1978]. Rispetto al progetto originario di Simon, che concentra la sua attenzione sui limiti della mente umana e sulle conseguenze che ne derivano per la selezione delle soluzioni, questo campo di ricerca tende a valorizzare le concrete modalità con cui i policy makers e i policy takers compensano la frammentarietà, la provvisorietà e l’incongruenza delle informazioni che ricevono, rielaborandole in modo da raggiungere un sufficiente grado di padronanza nel districarsi tra i problemi di rilevanza collettiva. Alla base di questa impostazione sta l’idea che solo con riferimento a modelli non sovrumani, ma disumani, la razionalità dimostrata dagli attori nei concreti processi di policy possa essere definita in negativo, come «limitata». Più precisamente, la loro incapacità di cogliere la ricchezza delle competenze richieste dalle politiche pubbliche è ricondotta a una sorta di succube appiattimento su una concezione elementare dell’interazione, tipica delle classiche teorie razionali di impronta economica. A questa visione, la policy inquiry contrappone un’idea di conoscenza che non è semplice elaborazione di dati, ma che costituisce i suoi oggetti, grazie all’immaginazione, alla creatività, alla capacità di dare un senso agli eventi. In altre parole, nel policy making, realtà e conoscenza non sono la prima fonte della seconda: l’aggancio che le tiene insieme è infatti bidirezionale [Argyris 1982]. Innanzi tutto, la sequenza problema-elaborazione dei dati-soluzione può essere ricombinata in tutti i modi possibili. Anzi, per l’analisi delle politiche di impronta pragmatica, la scoperta dei problemi è più importante della scoperta delle soluzioni: «Nell’analisi delle politiche, le congetture più creative riguardano la ricerca di quei problemi per i quali si possono azzardare delle soluzioni» [Wildavsky 1992, 3]. Catalogare le informazioni e attingere dal nostro repertorio le etichette più appropriate per definire i fenomeni che ci preoccupano sono tutte operazioni che hanno uno stretto legame con le soluzioni che preferiamo. Come abbiamo visto, ciascuno dei termini «immigrato», «clandestino», «profugo», «rifugiato», «cittadino extracomunitario», «vu cumprà», fa riferimento a insiemi completamente diversi di politiche pubbliche, con implicazioni etiche, giuridiche, culturali tra loro in conflitto. Usare una etichetta anziché l’altra comporta l’ingresso in uno specifico universo di discorso, completo di definizione del problema, di identificazione delle cause, ma anche di prefigurazione della soluzione. In secondo luogo, la conoscenza esplicita si basa su uno zoccolo di conoscenze tacite molto consistenti e articolate. Talvolta, è necessaria 203 204 CAPITOLO 4 la capacità di immaginare situazioni di cui non si ha alcuna esperienza diretta, perché gli effetti vanno a incidere su gruppi sociali con cui non esiste alcuna contiguità di vita, come ambasciatori o carcerati. In alcuni casi, la formulazione di preferenze implica la capacità di giudicare e di scegliere tra diverse fonti d’informazione, in genere non convergenti, come quando sulla generosità delle pensioni italiane il parere del nonno si distacca da quello del Fondo monetario internazionale. In altre situazioni, è richiesta la capacità di mettersi nei panni delle generazioni non ancora nate, e di anticipare i loro problemi con la finanza previdenziale, o con lo stoccaggio delle scorie radioattive. Infine, nel policy making, le categorie con cui sono definiti i problemi e le soluzioni sono profondamente radicate in norme sociali e in convenzioni culturali; e ignorare questa loro qualità espone a sicuri fallimenti. Confrontare i dati sul lavoro dei bambini nelle diverse nazioni è abbastanza facile se si parte da una definizione di lavoro e di bambino univoca in termini operazionali. E tuttavia le informazioni raccolte con questo metodo difficilmente potrebbero servire da sole quale guida nell’impostazione o nella valutazione delle politiche nazionali, perché non ci raccontano le differenze nel modo di intendere la fanciullezza, l’apprendimento dei mestieri, il guadagno, la fatica, la subordinazione all’adulto. Dunque, dare conto della ricchezza di queste capacità e della profondità delle loro implicazioni sociali solo in termini di razionalità vincolata appare quanto meno riduttivo. 3.1.3. La terza trappola: il costruttivismo sociale Il discorso sulla natura sociale delle categorie che sorreggono le politiche porta la policy inquiry a sfiorare molto da vicino – e talvolta a sfondare – una terza trappola: il costruttivismo sociale [Berger e Luckmann 1966]. Questo approccio, di netta impronta sociologica, «assume che tutta la realtà sia realtà sociale, che viene creata e ricreata nell’interazione e nell’esperienza umana del reale» [Gherardi 1997, 26]. Nelle impostazioni che abbiamo finora considerato, gli individui e le organizzazioni sono definiti come entità autonome e distinte rispetto al contesto in cui operano le loro scelte, come gli attori a teatro sono staccati dallo sfondo su cui recitano. Al contrario, ambiti di ricerca quali l’etnografia [Mead 1970], l’antropologia cognitiva [Spradley 1979], l’interazionismo simbolico [Blumer 1969; Denzin 1978] rimarcano in modo convergente come le identità, gli interessi e i comportamenti dei singoli traggano il loro significato solo con riferimento a una comune elaborazione alimentata e garantita dalla società in cui si collocano: «Il sé è una creazione sociale dato che non si può in alcun modo costruire da solo; infatti, un sé è un sé se è distinto da altri, e LA «POLICY INQUIRY» ciò è impossibile se questi altri non ci sono [...]. Un sé è un costrutto, non una persona» [Wildavsky 1994, 139-140]. Le diverse matrici teoriche che sostengono il costruttivismo sociale concordano nel sottolineare come le idee che ci facciamo delle situazioni non siano semplici e meccaniche riproduzioni della realtà, ma risultati di un processo di astrazione e di ricombinazione, in cui sia ciò che attira la nostra attenzione, sia la rappresentazione mentale che ce ne facciamo hanno un’impronta marcatamente sociale [Farr e Moscovici 1984]. Queste elaborazioni hanno lo scopo fondamentale di garantire la circolazione di significati intersoggettivi, cioè di codici comuni per la comprensione dei fatti sociali: «Per la teoria della cultura, valori condivisi e relazioni sociali vanno sempre insieme: non esistono valori disincarnati, estranei alle relazioni sociali che razionalizzano; e non ci sono relazioni sociali in cui la gente non dia ragione dei suoi comportamenti o, almeno, non cerchi di darne una giustificazione» [Wildavsky 1987, 5]. Le politiche come costrutti sociali. La policy inquiry ha molti motivi per nutrire interesse per l’applicazione di questo paradigma all’analisi delle politiche pubbliche. Innanzi tutto, grazie al suo apporto, diventa possibile una completa emancipazione da una teoria delle istituzioni politiche di impronta giuridica, che indubbiamente le sta molto stretta. Per questa impostazione, infatti, le istituzioni sono essenzialmente potenti strumenti per generare e diffondere significati condivisi. Grazie al loro linguaggio fatto di norme, di riti, di miti, di codici d’onore, le istituzioni fissano le assunzioni su cui si basa la convivenza in una società. Da questa prospettiva analitica, culture e istituzioni sono due nomi che sottolineano due diversi aspetti di uno stesso nucleo di categorie elementari, uno volto alla comunicazione, l’altro alla regolazione: «Tutte le classificazioni di cui disponiamo per pensare vengono fornite preconfezionate nel corso della nostra vita sociale [...]. In che modo potremmo pensare a noi stessi nella società, se non utilizzando le classificazioni stabilite all’interno delle nostre istituzioni?» [Douglas 1986, 151-152 trad. it.]. In secondo luogo, questa impostazione permette di dare il colpo di grazia alla razionalità economica, che vede così minati anche i suoi presupposti sociologici, dopo l’assalto sferrato da Simon ai suoi presupposti cognitivi. Infatti, sulla scorta di queste premesse, l’idea di preferenza individuale, alla base delle teorie economiche della razionalità, perde larga parte della sua autonomia: «Conoscendo chi o che cosa è coinvolto, l’arena o l’istituzione del coinvolgimento, il soggetto o l’oggetto del coinvolgimento, uno viene a sapere se ci si aspetta che abbia delle preferenze e come queste dovrebbero essere» [Wildavsky 1987, 17]. Detto in parole più difficili, preferenze e identità non sono esogene rispetto al processo di scelta, ma endogene: cioè non sono un dato 205 206 CAPITOLO 4 indipendente e prioritario rispetto alla selezione delle alternative, ma si plasmano nel corso delle interazioni che avvengono durante il policy making. Insomma, chi fa le politiche pubbliche scopre quel che vuole solo mentre si confronta con i suoi interlocutori, mentre cerca di dare un significato a quel che sta facendo. Da questa prospettiva, l’analisi razionale delle politiche può essere letta innanzi tutto come un potente congegno capace di ricondurre i vari eventi della vita collettiva alla conformità con uno dei valori più condivisi delle società contemporanee: l’efficienza economica. La valutazione, anche quando è espressa in termini quantitativi e basata su precise tecniche di calcolo, è essenzialmente un rito per assegnare il marchio dell’affidabilità alle pratiche adottate collettivamente da una società [March e Olsen 1989]. In terzo luogo, grazie a queste teorie, riesce ad affiorare un aspetto del policy making finora ignorato, perché le politiche non sono solo la soluzione di problemi, ma anche un tributo alle norme e ai valori che reggono una società. Gli attori politici affermano se stessi come buoni decision makers assumendo decisioni secondo una procedura che simboleggia le qualità che vengono valutate positivamente. Essi consultano le persone rilevanti, prendono in considerazione le alternative, raccolgono informazioni, e agiscono in maniera decisa ma prudente. Progetti, informazioni, analisi, consultazioni e altri aspetti osservabili di una decisione normativamente approvata sono spiegabili più come simboli e segnali di appropriatezza delle decisioni che non per il loro contributo alle decisioni finali [March e Olsen 1989, 85 trad. it.]. Nel linguaggio di March e Olsen, questo significa che le politiche, oltre a misurarsi con la logica della consequenzialità, che richiede loro efficienza ed efficacia, devono misurarsi con la logica dell’appropriatezza, che esige il rispetto delle norme e delle sensibilità sociali. Prevalentemente sulla base della logica dell’appropriatezza funzionano importanti organizzazioni, quali le chiese e le famiglie. Ma anche le organizzazioni che operano nel mercato portano impressi i segni di questa esigenza nelle loro modalità di funzionamento. Il costruttivismo sociale permette di vedere nelle politiche non solo le finalità strumentali, volte a rendere più controllabile l’ambiente in cui viviamo, ma anche gli aspetti espressivi e le implicazioni simboliche: «Le politiche hanno un lato espressivo accanto a quello strumentale: parlano, oltre a produrre effetti; comunicano valori e intenzioni, distribuiscono riconoscimenti simbolici, oltre a modificare i comportamenti» [Maynard-Moody e Stull 1987, 249; Muller 1995]. Quando un simbolo è condiviso, basta farvi riferimento per evocare fasci di idee, conoscenze, sentimenti, emozioni, idiosincrasie. Questo aspetto spiega come mai i governi spesso si impegnino in politiche che non hanno la benché minima probabilità di successo. Il fatto è che non fare niente suonerebbe alle orecchie dell’opinione LA «POLICY INQUIRY» pubblica come un’intollerabile prova di insensibilità verso valori considerati cruciali, quali il ripudio delle droghe o della prostituzione, anche se nessuno possiede le tecnologie adeguate a tutelarli. Infatti molte delle questioni intorno alle quali si aggrega la domanda di politiche pubbliche appartengono alla categoria dei problemi perversi [Mason e Mitroff 1981], o comunque dei problemi per i quali non è possibile conseguire contemporaneamente tutti gli obiettivi desiderabili. Rispetto a questo tipo di sfide, mettere in gioco anche la produzione di atti simbolici non equivale necessariamente a rassegnarsi a deviazioni, mistificazioni, e fallimenti, ma nel lungo periodo può rappresentare il modo meno costoso e più efficace per trattare l’intrattabile [March e Olsen 1989; Fox 1990]. Come spiega Dye: L’impatto di una politica include tanto gli effetti tangibili quanto quelli simbolici [...]. Anche se le politiche del governo non hanno successo nel ridurre la dipendenza, nell’eliminare la povertà o nel prevenire il crimine, questi limiti possono essere considerati secondari se la rinuncia del governo almeno a provarci può rafforzare l’idea che la società «non merita di essere salvata». Gli individui, i gruppi e l’intera società spesso giudicano le politiche pubbliche per le loro buone intenzioni più che per i risultati tangibili. La popolarità generale e l’apprezzamento pubblico per un programma possono non essere correlati al suo reale impatto rispetto ai risultati desiderati [1987, 331] 17. Difficilmente una politica pubblica si limita ad allocare beni: anche quando distribuisce solo risorse materiali, siano queste un’agevolazione fiscale o un servizio, ci dice anche in quale considerazione sono tenuti un gruppo professionale, una zona geografica, i malati con una certa patologia, le persone entro una certa fascia di età. Anche le politiche regolative, che si propongono di punire comportamenti considerati pericolosi, sono fortemente esposte al variare della sensibilità sociale ai diversi tipi di rischio [Douglas e Wildavsky 1982]. Alcuni paesi nordici non considerano preoccupanti scelte di vita che nei paesi latini sono invece lette come minacce all’immagine tradizionale della famiglia; ma le autorità pubbliche ritengono loro dovere vietare la trasmissione di cartoni animati altrove non censurati, nel timore che istighino i bambini alla violenza. Negli Stati Uniti sono soggetti a una stretta regolazione una serie di comportamenti tra superiori e dipendenti, tra uomini e donne, tra maggioranze e minoranze etniche, comportamenti che in Europa sono affidati al buon gusto e all’educazione. Per salvaguardare l’incolumità dei bambini, la legge impone speciali cinture di sicurezza per il loro trasporto sugli autoveicoli, pena un’ammenda. Per quanto riguarda invece la conservazione in casa di prodotti pericolosi – alcolici, detersivi, medicinali... – la collet17 La numerazione delle pagine si riferisce alla seconda edizione del 1975. 207 208 CAPITOLO 4 tività confida nel buon senso dei genitori, sul quale si cerca di intervenire con campagne di informazione. Eppure, la loro affidabilità non è del 100%, dato che gli incidenti domestici sono la prima causa di morte nell’infanzia. Per molti italiani, Internet è una tecnologia rischiosa, perché dominata da pedofili e maniaci18. Per molti tedeschi, i nostri campi-gioco per bambini sono l’anticamera del pronto soccorso. Decidere quali rischi prevenire, e in quale modo, significa affrontare scelte con forti implicazioni simboliche, che raramente si dissolvono con l’esame dei dati statistici sulle probabilità di incorrere in effetti negativi. Questa conclusione può essere verificata anche in settori molto attenti a discriminare tra impressioni ed evidenze oggettive. Pochi eventi erano certi come il passaggio dall’anno 1999 all’anno 2000: eppure, migliaia di programmatori, capaci di prevedere e contrastare le più improbabili emergenze per i nostri computer, per anni hanno rimosso questo salto del calendario, con costi elevati per l’economia. Una prospettiva di cambiamento consapevole. Larga parte dei temi toccati in questo paragrafo costituiscono il punto di partenza per una svolta verso il piano che nel secondo capitolo abbiamo chiamato «svolta argomentativa»: alla sua base sta l’idea che a caratterizzare l’esperienza umana non sia tanto la capacità di agire per raggiungere degli obiettivi, quanto la capacità di interpretare, di dare conto, di rileggere, di dare significati alle azioni, alla storia, al sé [March 1996]. Insomma, non è l’azione a richiedere l’interpretazione, ma viceversa. L’applicazione di questa impostazione allo studio delle politiche pubbliche comporta una profonda ridiscussione delle relazioni sia tra discorso descrittivo e discorso prescrittivo, sia tra metodi deduttivi e metodi induttivi. Ma anche volendo rimanere ancorati al piano a, è facile capire che la totale adesione ai presupposti del costruttivismo sociale riduce praticamente a zero i margini per un intervento che intenzionalmente si proponga di modificare l’intreccio di vasi sanguigni che collegano una politica pubblica al cuore di una società, alla sua cultura, ai suoi miti. Secondo alcuni autori [Latour e Woolgar 1979], la capacità di librarsi al disopra di questi legami non può essere conquistata nemmeno con la ricerca nelle scienze che si definiscono «naturali». A maggior ragione, un paralizzante relativismo sembra rendere vano qualunque tentativo di imprimere le svolte necessarie alle politiche pubbliche, che sono tra i costrutti sociali più inzuppati di valori e di identità definiti culturalmente. La policy inquiry reagisce a questa sorta di nichilismo grazie ai suoi solidi legami con il pragmatismo, che la distoglie dalla passiva contem18 Fino alla fine degli anni ’90, la stragrande maggioranza delle notizie riguardanti Internet riportate dalla stampa nazionale era associata a fenomeni negativi: pornografia, dipendenza psicologica, scommesse clandestine... LA «POLICY INQUIRY» plazione dell’esistente, per spingerla a provarci, a sfruttare nel modo migliore quei minimi margini per uno spostamento consapevole della barriera del «socialmente determinato» o, se si vuole, del pregiudizio. Il fatto che le convinzioni che circolano nell’analisi delle politiche siano determinate dai contesti storici e sociali non toglie loro valore automaticamente. Come scrive Lindblom a proposito del suo lavoro: Io riconosco senz’altro che il mio stesso pensiero, come quello di chiunque altro, è in larga misura distorto. Sono sicuro di essere stato catturato da qualche bizzarro elemento del pensiero contemporaneo [...]. E tuttavia spero che questo libro19 contribuisca a una crescente comprensione, anche se non potrà mai raggiungere la prova ferrea che questa o quella linea di pensiero sul problem solving sia giusta o sbagliata [Lindblom 1990, x]. Ragionare di politiche pubbliche in termini propositivi, se non prescrittivi, significa tenere aperta una ragionevole prospettiva di cambiamento, promuovendo la creazione di nuovi schemi d’interazione sociale: «Compito dell’analisi non è produrre raccomandazioni decisive, ma, invece, è contribuire alla comprensione consensuale delle cose che accadono, che potrebbero accadere, che sono desiderabili» [White 1983b, 11]. Gli autori che adottano questa prospettiva sono consapevoli di camminare sull’orlo dell’utopia: e tuttavia, come rimarcano con forza, la tensione non è verso un fine, ma verso un processo [Campbell 1998]. In altre parole, a fare da punto di riferimento non sono un modello di società o un tipo di politiche, ma un modo di cavarsela rinsaldando le basi della convivenza civile. 3.1.4. Il distacco: la teoria dei «policy frames» Un’utile traccia per capire la distanza che separa la policy inquiry dagli altri approcci interessati alle radici sociali della conoscenza viene dal confronto tra le rispettive teorie circa i frames, cioè le strutture cognitive cui facciamo ricorso per ricondurre l’ignoto al noto, le intelaiature che sorreggono il castello delle nostre conoscenze. Diverse discipline hanno sottolineato l’importanza di questi schemi di riferimento, capaci di darci in ogni momento le coordinate per classificare le situazioni in cui ci veniamo a trovare: le scienze cognitive [Minsky 1975], la linguistica [van Dijk, 1977], la sociologia [Goffman, 1974; Farr e Moscovici 1984]. La policy inquiry condivide con loro l’idea che le intelaiature con cui organizziamo le informazioni, le impressioni, le credenze, meritino una grande attenzione, dato che le politiche 19 Society. Il libro è Inquiry and Change: The Troubled Attempt to Understand and Shape 209 210 CAPITOLO 4 pubbliche sono costrutti di notevole complessità: «Noi consideriamo le posizioni di policy come sostenute da strutture portanti fatte di credenze, percezioni e apprezzamenti, cui diamo il nome di frames» [Schön e Rein 1994, 23]. E tuttavia l’applicazione di questo concetto alle politiche assume tratti peculiari. In primo luogo, i frames rivelano la loro importanza in situazioni problematiche: Le decisioni sono strutturate (framed) dalle convinzioni che definiscono il problema che deve essere affrontato, le informazioni che devono essere raccolte e le dimensioni che devono essere valutate. Chi prende le decisioni adotta paradigmi che gli raccontano da quale prospettiva vedere un problema, quali questioni porsi e quali tecnologie adottare nel porsi le questioni. Queste strutture focalizzano l’attenzione e semplificano l’analisi; dirigono l’attenzione su diverse opzioni e diverse preferenze [March 1994, 14]. In altre parole, prendere una decisione equivale ad adottare uno specifico policy frame, abbinando gli schemi ritenuti appropriati alle situazioni di scelta, e utilizzando i repertori di sceneggiature [scripts, Schanks e Abelson 1977] adatti a strutturare le aspettative su ciò che può accadere in determinate circostanze: Queste strategie cognitive, definite con i termini di scripts, schemi o frames, sono metodi efficienti usati dai policy makers per assimilare le nuove informazioni nel corpo delle loro precedenti cognizioni. Così semplificano i processi decisionali, perché consentono ai decisori di vedere un problema attuale come un altro caso di qualcosa già visto in passato e già compreso, vero o falso che sia [Weiss 1982, 83]. I diversi ruoli sociali dischiudono l’accesso a sceneggiature diverse, così come nel gioco del calcio chi fa il terzino ha un repertorio tattico diverso da quello dell’attaccante. Nel primo capitolo abbiamo descritto il «ciclo» della repressione delle frodi: indignazione pubblica – legislazione repressiva – errori e rigidità nell’implementazione – richiesta di sanatoria. Possiamo considerare questa come la sceneggiatura in cui l’analista si riconosce, dopo avere studiato alcune politiche contro l’abusivismo. È probabile che gli uffici finanziari vedano la vicenda in un altro modo: indignazione pubblica – legislazione repressiva – due mesi di controlli esemplari – due mesi di panico e di pagamenti delle ammende da parte degli abusivi psicologicamente più fragili – aumento delle entrate – reazione dell’opinione pubblica – tramonto della legittimazione dei controlli e loro abbandono. E gli abusivi più esperti possono immaginare la storia in questi termini: grancassa dei media nella fase iniziale – alcune punizioni casuali date in pasto all’opinione pubblica – necessità per i colpiti di prendere tempo con tutti i mezzi possibili – caduta dell’attenzione per il problema – ammorbidimento delle sanzioni. LA «POLICY INQUIRY» In tutti i casi, le aspettative strutturano le soluzioni: per l’analista, il problema è procedere con grande cautela nella fase iniziale, per tarare la repressione in modo che sia esemplare, ma non controproducente. Per l’amministrazione finanziaria, il problema è «cogliere l’attimo», e sfruttare al massimo i timori degli irregolari più sensibili. Per gli abusivi, il problema è resistere un minuto in più dei controllori, speculando sul fatto che anche le loro risorse non sono illimitate. Dato che questi schemi forniscono elementi per anticipare quali mosse sono consentite, quali reazioni susciteranno e quali esiti avranno, i frames sono teorie implicite [Lakoff e Johnson 1980], capaci di organizzare non solo i problemi, ma anche le soluzioni: «L’intelaiatura in cui un problema è collocato in larga misura predetermina il tipo di soluzione che possiamo trovare e l’esistenza di un senso condiviso di scopo. Inoltre suggerisce chi sarà chiamato a risolvere il problema e il grado di sostegno pubblico che sarà generato» [Mathews 1994, 183]. Insomma, impostare una politica significa avviare un processo di convergenza sugli schemi che in modo più persuasivo promettono di identificare le ragioni di un disagio collettivo e di fornire le soluzioni adeguate [Hofmann 1995, 129]. La trasparenza amministrativa, la fine delle pensioni baby, la giustizia giusta non sono semplici slogan: sono anche modelli causali capaci di legare gli interventi alle conseguenze [Pressman e Wildavsky 1973]; sono ideologie razionali [Paris e Reynolds 1983], capaci di legittimare in modo coerente specifiche linee di azione: «Attraverso il processo di assegnazione dei nomi20 e degli schemi, le storie fanno il “salto normativo” dai dati alle raccomandazioni, dai fatti ai valori, dall’essere al dover essere» [Schön e Rein 1994, 26]. Questa loro tensione prescrittiva rivela il legame dei policy frames con le assunzioni implicite su cui si basa una società, con le sue mitologie, le sue strutture di comando, le sue tavole delle differenze e delle uguaglianze: «Questi schemi non sono disancorati, ma sono radicati nelle istituzioni che li sponsorizzano, e le controversie sulle politiche sono dispute tra attori istituzionali che sponsorizzano schemi tra loro in conflitto» [ibidem, 29]. I frames garantiscono infatti la possibilità di leggere le situazioni inedite con lenti che assicurino la loro compatibilità con le scale valoriali e la distribuzione delle risorse legittimate da una società o un gruppo [Douglas e Wildavsky 1982]. La plasmabilità dei «frames». Il problema più affascinante posto dalle teorie dei frames riguarda le modalità della loro trasformazione. Da un lato, infatti, schemi, script, cornici traggono la loro forza dal 20 Si ricordi l’esempio delle etichette di «immigrato», «clandestino», «profugo», «rifugiato», «cittadino extracomunitario», «vu comprà». 211 212 CAPITOLO 4 fatto di rendere compatibile il nuovo con il vecchio, confermandone la solidità. Dall’altro, tuttavia, l’esperienza dimostra che, sia pure in circostanze speciali, gli attori individuali e collettivi abbandonano le loro credenze politiche, scientifiche, religiose, estetiche, per abbracciare modelli di riferimento completamente diversi. Schön [1971] usa l’espressione «perdita dello stato stabile» per definire quel che avviene in questi processi. Dal modo con cui sono delimitati questi passaggi critici del policy making, dipende l’ampiezza dello spazio per un qualche loro consapevole indirizzamento. Le letture tradizionali di tali fenomeni ne spiegano la dinamica sulla base della forza dell’evidenza empirica: è la sfida dei fatti ad obbligare gli scienziati a rivedere le loro ipotesi, gli individui ad abbandonare le loro credenze, i policy makers a cambiare i loro programmi. Se le cose stanno così, il compito fondamentale dell’analista è portare allo scoperto e lasciar parlare i dati. Questa tranquillizzante lettura è stata sottoposta a dure critiche da quando, alla fine degli anni ’60, le tradizionali rappresentazioni del progresso scientifico come continua incorporazione di nuove evidenze empiriche, attraverso l’approfondimento delle leggi che regolano il mondo fisico, hanno subito una sfida radicale. Come è noto, le analisi di Kuhn [1970], Lakatos [1970], Feyerabend [1970] danno un’immagine molto meno incrementale dei processi attraverso cui cambiano le teorie scientifiche. L’abbandono della metafora dell’evoluzione a favore di quella della rivoluzione21 equivale all’ammissione che i paradigmi scientifici non progrediscono secondo una traiettoria lineare dal meno al più, quanto a capacità di spiegare i fenomeni: piuttosto, emergono e tramontano tra discontinuità e conflitti, in cui ad essere in gioco sono assunzioni non verificabili con parametri universali, e pertanto tra loro non direttamente confrontabili22. Secondo alcuni autori, questa rappresentazione del processo con cui si susseguono i paradigmi scientifici ha evidenti analogie con il modo in cui avviene l’innovazione nel policy making [Schön 1971]. Raramente l’alternanza tra le teorie implicite nelle politiche pubbliche (programmazione, decentramento, partecipazione, privatizzazione...) è il risultato della definitiva dimostrazione di irrecuperabili errori e contraddizioni. Piuttosto, ad essere sospinte verso il centro dell’agenda politica sono le soluzioni che promettono una nuova e più elegante definizione dei problemi, che in questo modo almeno per un po’ cambiano faccia, mostrandone una più giovane e più docile: «Se attribuiamo l’ostinazione nelle controversie sulle politiche a conflitti tra policy frames che resistono alla loro falsificazione sulla base all’evidenza, siamo molto vicini alla teoria che Thomas Kuhn ha avanzato nella filosofia della scienza» [Schön e Rein 1994, 30]. 21 Il titolo dell’opera più importante di Kuhn è La struttura delle rivoluzioni scientifiche (la prima edizione è del 1962). 22 Come è evidente, questa interpretazione vanifica il requisito della falsificabilità posto da Popper alla base dell’attendibilità scientifica nelle scienze sociali. LA «POLICY INQUIRY» Ma questa lettura dei processi di transizione da un paradigma di policy a un altro pone pesanti ipoteche sulla sfera d’intervento dell’analista di politiche, che risulta assolutamente compressa, per motivi analoghi a quelli evidenziati dal costruzionismo sociale. Infatti, secondo Kuhn, nelle rivoluzioni scientifiche l’appello all’evidenza ha ben scarse probabilità di dirimere le controversie, perché i fatti acquistano significati diversi per chi abbraccia, tra i due paradigmi che si scontrano, il vecchio o il nuovo: «L’evidenza che una parte considera devastante, viene accantonata dall’altra come irrilevante o innocua [...]. Per questi motivi, non è possibile falsificare un frame; non si possono fornire dati che lo smentiscano in modo definitivo agli occhi degli osservatori, siano pure qualificati e obiettivi. Il motivo è questo: se “obiettivo” significa neutrale rispetto ai frames, non esistono osservatori obiettivi» [Schön e Rein 1994, 30]. Gli autori che si riconoscono in questa impostazione coltivano tuttavia la speranza che sia possibile trasformare questa consapevolezza nella base per un’analisi delle politiche più umile, perché più cosciente dei suoi limiti e dei suoi pregiudizi, ma non per questo rinunciataria, perché convinta che anche i policy makers e i policy takers possano, a certe condizioni, approdare alla sua stessa prudente umiltà, e accettare di mettere in gioco i frames cui sono ancorati. Questa situazione ha forti analogie con la fortunata circostanza in cui, secondo Kuhn, due persone che appartengono a due diverse comunità scientifiche, con due diversi paradigmi, riescono a vedere se stesse come membri di popolazioni che parlano due diverse lingue, e ad agire come rispettivi traduttori [Kuhn, 1970]. In questa prospettiva, compito dell’analista non è tanto facilitare il riconoscimento della realtà che cambia e promuovere l’adattamento ma, piuttosto, portare alla luce i frames impliciti, mostrare il loro radicamento nei ruoli sociali interpretati dalle diverse categorie di policy makers, agevolare il loro scongelamento, in modo da migliorare l’adattamento reciproco. 3.2. Le politiche come interazioni La seconda matrice teorica della policy inquiry si basa sul ruolo che l’interazione23 tra gli attori svolge nella definizione delle politiche pubbliche. Anche per capire questa prospettiva è fondamentale la contrapposizione all’analisi razionale delle politiche, che viene etichettata con termini che ne sottolineano la presunta deformazione intellettualistica («basata sulla ponderazione», «illuministica») e l’aspirazione all’onnicomprensività («pianificatrice», «sinottica») [Lindblom 1977, 340]. 23 Wildavsky attribuisce all’influenza di Georg Simmel la fortuna del termine «interazione» nel pragmatismo e nella policy inquiry [1992, 11]. 213 214 CAPITOLO 4 L’alternativa è identificata nella valorizzazione della rete di contatti che si stabiliscono tra cittadini che si rendono conto di dipendere l’un l’altro per la realizzazione dei loro obiettivi, ma che sono in grado di portare avanti le loro priorità senza bisogno di alcuna supervisione generale, che del resto rifiutano anche quando si muovono in arene fondamentali, quali il mercato e la politica [Forester 1982]. 3.2.1. Il pluralismo nelle sue valenze descrittive Se il seme di questa impostazione era già presente nelle posizioni sostenute da Dahl nel confronto con Simon del 1947, negli anni ’50 e ’60 le ricerche empiriche condotte sulla base dell’approccio pluralista hanno fornito un’importante conferma all’idea che la complessità delle società democratiche metta a disposizione degli attori risorse sufficienti per vanificare le velleità di direzione centralizzata e unitaria dei processi politici. La rivoluzione comportamentalista spingeva infatti i ricercatori a ricostruire in modo più dettagliato la fitta rete di relazioni che si dipanava attorno ad alcuni problemi significativi per le diverse comunità locali. I risultati tendevano verso conclusioni convergenti: le diseguaglianze nella distribuzione del potere non sono cumulative nel passaggio da un problema di policy a un altro, perché a diversi campi decisionali corrispondono diverse fonti di influenza. Chi davvero conta nella regolazione degli orari di apertura dei negozi in genere non può far valere lo stesso vantaggio quando si tratta di decidere il tracciato di una strada, o i finanziamenti per le scuole. Anche la presenza sulla scena di grandi organizzazioni trasversali, quali i partiti o le burocrazie pubbliche, si rivelava insufficiente ad alterare il quadro; del resto, in quegli stessi anni, dall’interno della teoria delle organizzazioni matura il passaggio dalle impostazioni che le dipingono come strutture coerenti, strumentali e gerarchiche, agli approcci che le considerano come lo sfondo cangiante di una serie di interazioni e di giochi, anche molto diversificati e conflittuali tra loro [Crozier e Friedberg 1977; Colebatch 1995]. Nei termini di Huntington [1974], questa visione della politica va oltre l’Uno, la fiducia nell’unità di intenti tipica delle ideologie organiche, basate su una qualche definizione di bene comune, e oltre il Due, le ideologie che hanno fondamento nell’irriducibilità dello scontro di classe, per adottare la prospettiva dei Molti: i molti attori, con molti interessi, in contesti regolati da molte norme, che delimitano molte arene. 3.2.2. La teoria democratica Questa impostazione ha una stretta relazione con le conclusioni che von Hayek trae dal confronto tra mercato e pianificazione econo- LA «POLICY INQUIRY» mica. Come la perfetta informazione non costituisce affatto un prerequisito indispensabile per il corretto funzionamento del mercato, ma anzi rappresenta una minaccia, così l’obiettivo di definire ciò che è bene per una società con una procedura neutra, super partes, non rafforza affatto la convivenza civile, ma la espone al rischio di degenerazioni antidemocratiche, oltre che di risultati inadeguati: Nessuna mente singola può conoscere più di una frazione di quello che è noto a tutte le menti degli altri individui: questo fatto pone dei limiti precisi all’entità dei miglioramenti che una direzione consapevole può conseguire rispetto ai risultati raggiunti dai processi sociali inconsapevoli [...]. Risorse e bisogni esistono, in pratica, solo per il fatto che c’è qualcuno che ne è al corrente; a questo proposito, tutti gli interessati, presi nel loro complesso, ne sapranno sempre infinitamente di più di quanto ne potrà mai sapere l’autorità più competente [Hayek 1952, 207 trad. it.]. Lindblom assegna la stessa importanza agli interessi, veri motori di conoscenza: «Soltanto chi ha un interesse di parte è affidabile perché, proprio in quanto autointeressato, porterà alla luce ogni fatto e ogni argomento a sostegno del suo interesse» [Lindblom 1980, 35]. La pretesa dell’analista di «chiamarsi fuori» da questo gioco degli interessi rivela solo la sua incapacità o la sua intolleranza a convivere con essi: «Gli analisti, che lo vogliano, lo accettino o lo rifiutino, sono giocatori politici (political) nel gioco delle politiche» [Behn 1982, 99]. L’idea che possa esistere una via di fuga rispetto all’interazione tra individui autointeressati è demolita in termini molto simili da Hayek, da Lindblom, da Wildavsky e, in generale, da quanti si rifanno a una concezione liberale della democrazia: Le affermazioni sui bisogni «oggettivi» delle persone stanno solo ad indicare le opinioni di qualcuno su ciò che gli altri dovrebbero desiderare [Hayek 1952, 148 trad. it.]. Mentre nel Modello 124 informazione, indagine scientifica, analisi e teoria sono decisive per scoprire la forma corretta di organizzazione per la società, nel Modello 225 e in quasi tutta la teoria democratica tali elementi restano insufficienti: a un certo punto, le questioni non possono essere decise scientificamente. A quel punto, per mettere alla prova le istituzioni sociali, bisogna verificare se corrispondono a quello che la gente crede di volere [Lindblom 1977, 267]. Dove solo l’intelletto è potente, non può esserci né autonomia, perché il Grande Pianificatore ha sempre ragione, né reciprocità, perché il bene di tutti è determinato dall’intelletto, non dall’interazione [Wildavsky 1992, 125]. 24 Quello della razionalità sinottica. Quello pluralista, o strategico, così definito per richiamare «l’attenzione sulle sue limitate aspirazioni intellettuali e sul conseguente bisogno di una strategia intellettuale per guidare un’analisi inevitabilmente incompleta» [Lindblom 1977, 334]. 25 215 216 CAPITOLO 4 Sul piano prescrittivo, questa concezione si traduce nel principio della fiducia nelle capacità autoregolative di gruppi sociali portatori di specifici interessi: temendo per primi la vanificazione degli accordi, sono loro la più forte garanzia della loro tenuta. In un volume dal titolo significativo L’intelligenza della democrazia, Lindblom afferma: «La gente può coordinarsi l’un l’altra senza che qualcuno la coordini, senza una finalità comune dominante, e senza regole che prescrivano nei dettagli le relazioni reciproche» [1965, 12]. Alcuni anni prima, in un fondamentale articolo su La scienza del «sapersela cavare»26, aveva scritto: «Anche la partigianeria e la grettezza, per usare i termini peggiorativi, talvolta hanno dei vantaggi rispetto al decision-making razionale, perché danno una doppia garanzia che quel che un attore può non vedere, l’altro lo noterà» [Lindblom 1959, 86]. Se non è auspicabile alcun decisore unico cui demandare la valutazione delle politiche pubbliche, solo i processi politici democratici, con tutto il loro ingombrante armamentario di contrattazioni, campagne elettorali, votazioni, tattiche parlamentari, sono la fonte ultima della legittimità delle politiche pubbliche: «La teoria democratica tende a smentire l’idea che il policy making costituisca o realizzi una ricerca di verità di politiche corrette, o di razionalità nella politica. E propone invece un altro test per le buone politiche: che siano volute, scelte o preferite con una scelta in ultima istanza basata su come la gente vota i candidati» [Lindblom 1980, 122]. La stessa dichiarazione di fiducia negli imperfetti meccanismi della politica (politics) è espressa da Wildavsky: «La politica si presenta come individuale, ma di fatto è sociale; mentre la pianificazione si presenta come sociale, ma di fatto è personalistica» [1992, 123]. La priorità assegnata ai meccanismi politici per la legittimazione delle politiche può apparire in contraddizione con le critiche alla politica assoluta di cui abbiamo parlato all’inizio del volume. In realtà le due cose non sono incompatibili, come vedremo meglio tra poco. Sostenere che l’unico punto di riferimento per la selezione delle politiche pubbliche non è l’analisi, ma sono gli imperfetti meccanismi forniti dalle istituzioni democratiche per far emergere le preferenze della gente, non significa accettare la lettura che di questi stessi meccanismi viene data da una sola delle parti in gioco, i politici. Gli autori che si riconoscono nella policy inquiry tengono ben fermo il concetto che i politici siano istituzionalmente interessati a magnificare le virtù del loro ruolo e a sorvolare invece sui limiti, sui trucchi e sulle rendite del loro mestiere, mentre i cittadini non hanno motivi per seguirli in queste autocelebrazioni. Ma queste diverse rappresentazioni non incrinano il fatto che, allo stadio attuale della democrazia, la competizione per il consenso politico rappresenti un meccanismo necessario per la selezione delle politiche preferite dalla gente. 26 The Science of «Muddling Through». LA «POLICY INQUIRY» 3.2.3. Il pregiudizio a favore del federalismo All’interno di questa impostazione, quello che Wildavsky chiama «il pregiudizio a favore del federalismo» [1976] non è tanto un’opzione sul piano dell’ingegneria costituzionale, ma è prima di tutto uno stile di intervento che scommette sulla capacità di coordinamento dal basso, anche quando questo assume le sgradevoli forme della frammentazione, della confusione e della sovrapposizione di competenze: [Tale opzione] è un pregiudizio perché [...] si attende che l’interazione tra un ampio numero di piccole unità produca risultati migliori per i cittadini rispetto alla ponderazione da parte di un numero minore di unità di dimensioni più ampie [Wildavsky 1992, 143]. Ricercatori quali Charles Lindblom, Aaron Wildavsky, James Wilson, che pure si collocano in punti molto distanti lungo l’asse progressista-conservatore, sono comunque accomunati dalla convinzione che il modo peggiore di fare le politiche è di farle in modo centralizzato, uniforme e sistematico27, come invece tende a suggerire l’analisi razionale: La razionalità strumentale28 rigetta il dualismo, cioè il federalismo e la separazione dei poteri, perché le competenze che si incrociano seminano confusione e creano linee multiple, anziché singole, per l’accesso al potere [Wildavsky 1992, 77]. [I difensori dell’analisi razionale] tendono a centralizzare l’autorità all’interno dell’esecutivo e a spostare l’autorità dagli elettori e dagli organi legislativi a burocrazie altamente specializzate. Invece [...] i pluralisti vogliono tenere l’autorità diffusa, ad esempio tra le molte commissioni parlamentari. E tendono a vedere i meriti essenziali sia dell’attività dei gruppi d’interesse, sia del dibattito pubblico allargato e della discussione di gruppo, anche quando non è qualificata da speciali conoscenze tecniche professionali [Lindblom 1980, 37]. All’interno dell’approccio razionale tradizionale, la massima concessione alle istanze locali si manifesta con il decentramento, cioè con uno spostamento di poteri e di competenze dall’alto verso il basso, entro un disegno complessivo di divisione «scientifica» del lavoro di produzione delle politiche pubbliche. A questa impostazione, la policy inquiry contrappone la valorizzazione incondizionata di tutte le forme di coordinamento dal basso, su 27 Questi sono i termini usati da James Wilson in un articolo sul «Wall Street Journal» del 24 dicembre 1994 dal titolo: A New Approach to Welfare Reform: Humility. 28 Propria della ARP, che si basa sul primato dei fini rispetto ai mezzi. 217 218 CAPITOLO 4 base territoriale o funzionale, aggregate da interessi venali o da aspirazioni ideali, e dichiara la propria totale fiducia in quella capacità di autorganizzazione che appartiene al codice genetico dell’esperimento costituzionale americano. Come infatti notava già Tocqueville, «mentre in quasi tutte le nazioni europee la vita politica è cominciata nelle sfere superiori della società, comunicandosi poi, poco a poco, alle diverse parti del corpo sociale, in America, al contrario, il comune è stato istituito prima della contea, la contea prima dello Stato, lo Stato prima dell’Unione» [Tocqueville 1835, 41 trad. it.]. Alla fine degli anni ’60, questa tradizione viene rivitalizzata dall’emergere di un nuovo paradigma, quello della Public Choice, che rivaluta come una tappa decisiva per la teoria politica contemporanea il dibattito svoltosi dal 1787 al 1789 tra i Padri fondatori della costituzione americana: Per il successivo sviluppo della scienza politica, l’evoluzione intellettuale implicita nella teoria del federalismo e delle regole costituzionali ha lo stesso peso fondamentale che La ricchezza delle nazioni di Adam Smith ha avuto per lo sviluppo dell’economia. L’unica differenza è che molti scienziati politici, orientati all’applicazione dei metodi della scienza naturale allo studio dei fenomeni artificiali, non sono riusciti a cogliere questo enorme avanzamento, di proporzioni copernicane, per la storia del pensiero politico [Ostrom 1977, 1509]. In questo volume, ci occuperemo della scuola di public choice soprattutto per il suo contributo alla descrizione e alla spiegazione dei processi di policy, tenendo sullo sfondo il suo apporto sul piano prescrittivo. Come dichiara apertamente Vincent Ostrom, tra i primi e più acuti interpreti della public choice in chiave prescrittiva, in questo campo il suo orientamento converge ampiamente con le indicazioni della tradizione pluralista, rispetto alla quale si differenzia soprattutto per la logica argomentativa di tipo deduttivo. Scelgo di accomunare me stesso al lavoro di Daniel Elazar [...], di Charles Lindblom [1965], di Martin Landau [...] e di Aaron Wildavsky [...], che considerano il federalismo come radicalmente diverso da centralizzazione e decentramento. Nei sistemi federali ci sono meccanismi di aggiustamento reciproco tra interessi di parte, di cooperazione, di risoluzione del conflitto senza coordinamento centrale delle relazioni, meccanismi che non possono essere definiti come centralizzazion e o decentramento [...]. Come dice Wildavsky, «il federalismo richiede reciprocità, non gerarchia, nessi causali multipli anziché singoli, condivisione anziché monopolio del potere» [Ostrom 1977, 1521]. Nel sostenere questa convergenza ha sicuramente giocato un ruolo importante il comune richiamo all’insegnamento di John Dewey, come dimostra una sua citazione molto impegnativa, spesso ripresa da entrambe le impostazioni: «La cura per i malanni della democrazia è più democrazia» [1927, 146]. LA «POLICY INQUIRY» Del resto, una certa confusione è addirittura un prerequisito del gioco democratico: «[L’idea di democrazia] è ancora in corso di invenzione, ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, nessuna definitiva. Il risultato di questa situazione è che le persone che apprezzano la democrazia devono imparare a vivere con una certa dose di confusione circa ciò in cui credono» [Schattschneider 1969, 42]. La frammentazione dell’autorità in una molteplicità di sedi, ciascuna dotata di poteri di veto, la sovrapposizione delle giurisdizioni con una molteplicità di enti tra loro in competizione, le aree di competenza ritagliate secondo linee diverse a seconda delle politiche sul tappeto: questi tratti del federalismo radicale presuppongono indubbiamente un’elevata tolleranza per quello che molti analisti di formazione più tradizionale etichetterebbero come caos. Ma all’interno della policy inquiry questo termine non ha alcuna connotazione negativa, perché è l’ordine imposto dall’alto, più che il caos, ad essere guardato con sospetto: La presenza del caos o dell’ordine nel mondo dipende in larga misura dalle teorie usate per capire il mondo. Usando una teoria basata sull’idea che un’organizzazione lineare, di larga scala e gerarchica è la forma più efficace ed efficiente rispetto a tutti gli scopi, i suoi sostenitori hanno cercato di cambiare il mondo per renderlo comprensibile a se stessi; e spesso ci sono riusciti. Ma i cittadini che vivono in aree urbane le cui strutture di governo sono state «modernizzate» per renderle comprensibili agli studiosi e ai funzionari pubblici, hanno dovuto pagare un prezzo elevato all’inadeguatezza della teoria ufficiale [E. Ostrom 1983, 335]. 3.2.4. Il concetto di pubblico Negli ultimi vent’anni, in molti paesi si è assistito a una generale rivalutazione del mercato come meccanismo per la produzione e allocazione delle risorse. Questa diffusa tendenza è tuttavia il risultato di percorsi che muovono da punti di partenza anche molto lontani tra loro. Per l’analisi razionale delle politiche, la scelta tra lo Stato e il mercato è il risultato di una valutazione delle conseguenze per l’intero sistema sociale in termini di efficacia, efficienza ed equità; e il tipico dilemma atteso, o il grande trade-off auspicato [Okun 1975], vede da un lato la maggiore efficienza del mercato, e dall’altro la maggiore equità dell’intervento pubblico. Tanto la policy inquiry, quanto le applicazioni in chiave prescrittiva della public choice, fondano invece il loro giudizio positivo circa i meccanismi del mercato su due diverse considerazioni: la prima riguarda il ruolo di cliente; la seconda, la connotazione pubblica di una politica. Entrambi gli approcci scorgono nel rapporto che lega produttori e consumatori nelle transazioni di mercato aspetti che gli conferiscono 219 220 CAPITOLO 4 un’esemplarità più generale. Nella tradizione pluralista, infatti, la figura del cliente non evoca, come nella nostra cultura, l’idea di subordinazione e di collusione 29 ma, al contrario, libertà di scelta e precisi poteri contrattuali. Per queste sue caratteristiche, la posizione di cliente nello scambio economico appare ben più forte di quella che il settore pubblico assegna ai suoi utenti: Le pubbliche amministrazioni hanno il compito di servire i cittadini, mentre le aziende private hanno come scopo quello di realizzare dei profitti. Eppure, paradossalmente, sono proprio queste ultime a cercare modi sempre nuovi di soddisfare le esigenze degli americani. Le pubbliche amministrazioni sono indifferenti al cliente, mentre McDonald’s e Frito-Lay sono finalizzate al cliente. Questa, in ultima istanza, è l’accusa principale che si può rivolgere a un’amministrazione di tipo burocratico [Osborne e Gaebler 1992, 217 trad. it.]. Quando nel 1973 Vincent Ostrom, nel suo volume The Intellectual Crisis in American Public Administration, propose un federalismo radicale, spinto fino a restituire ai cittadini la libertà di scelta tra enti, pubblici o privati, con funzioni sovrapposte e in competizione per la fornitura di beni e servizi, siano questi l’istruzione, la tutela dalla criminalità o la vigilanza sugli incendi, si accese un duro dibattito, incentrato sull’accusa di voler smantellare il più importante baluardo a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini: l’amministrazione pubblica basata sull’universalismo, sul disinteresse e sull’omogeneità delle procedure [Golembiewski 1977; Ostrom 1977]. Ma nemmeno vent’anni dopo, molte di quelle idee ricompaiono in documenti ufficiali del governo americano: Il reinventing dell’amministrazione pubblica non si realizza mediante il mero sfoltimento dei programmi, bensì mediante un radicale cambiamento del modo di operare dell’amministrazione stessa. È solo costringendo le agenzie pubbliche a competere per i loro clienti – con altri uffici, con altre agenzie e con il settore privato – che potremo avviare una costante tendenza al ridimensionamento dei programmi, all’abbandono dell’obsoleto ed al miglioramento generale [National Performance Review 1993, 170 trad. it.]. Il secondo aspetto che contraddistingue il giudizio positivo della policy inquiry nei confronti del mercato deriva dalla sua concezione di «pubblico». Gli autori citati in questo capitolo sottolineano con forza che a determinare la natura pubblica di un problema non è il fatto che per la produzione di ciò che serve a risolverlo ci si affidi al settore pubblico anziché al mercato [Ostrom e Ostrom 1978]. Invece, a con29 La connotazione negativa del termine clientelismo porta l’evidente retaggio del concetto latino di cliens. LA «POLICY INQUIRY» ferire un carattere pubblico a una situazione è il fatto che i singoli cittadini considerino le loro strategie come interdipendenti le une dalle altre, sicché diventa vantaggioso per tutti lo scambio delle informazioni e il coordinamento, indipendentemente dallo status giuridico dei soggetti cui ci si rivolge per la realizzazione tecnica delle soluzioni. Questa impostazione porta a considerare pubblico e privato non come due categorie che si escludono a vicenda, ma come due forme di coordinamento – la prima strutturata, la seconda spontanea – che possono combinarsi in una gamma pressoché infinita di assetti30. Questo significa che una collettività non si priva di politiche pubbliche per il solo fatto di vendere imprese di proprietà statale o di affidarsi a fornitori privati per la produzione di alcuni beni tradizionalmente forniti dall’amministrazione. Se continua a mantenere un interesse comune per l’impostazione e la verifica degli effettivi risultati dell’esperimento, può addirittura acquisire più capacità di indirizzo e di controllo rispetto alle tradizionali forme di gestione burocratica, perché «facilitando la nascita di mercati intelligenti [...], le amministrazioni possono consentire ai cittadini di plasmare il mercato secondo le proprie esigenze e i propri valori» [Osborne e Gaebler 1992, 371 trad. it.]. Infatti una produzione per via amministrativa di beni e servizi può espropriare i cittadini in modo molto più stabile e umiliante della loro continua contrattazione con molteplici soggetti privati [Ostrom e Ostrom 1978]. Si pensi ad esempio alla situazione dei malati terminali: dove esiste un mercato per la cessione dei benefici delle assicurazioni private sulla vita, questi possono giovarsene per utilizzare i loro risparmi nel momento del maggiore bisogno. In Italia, dove sono tutelati dal settore pubblico, la quasi totalità muore prima di vedere concretamente riconosciuto il diritto al trattamento di inabilità, dato che i tempi medi di perfezionamento delle pratiche sono di oltre tre anni31. 3.3. Le politiche come processi Come abbiamo visto, l’analisi razionale si basa su un’idea di politica pubblica per altro molto diffusa, e caratterizzata da alcuni requisiti, quali l’individuazione degli obiettivi, l’adozione di scelte calcolate, il rispetto di un piano nella fase esecutiva. Le teorie che vedono il policy making soprattutto come un processo negano la rilevanza di tutti questi fattori: 30 Osborne e Gaebler identificano trentasei forme diverse di incastro tra pubblico e privato, tutte effettivamente sperimentate nella gestione di servizi dai governi locali [1992, 399 trad. it.]. 31 Il dato, relativo al 1997 e calcolato con riferimento alla Lombardia, è tratto dalla tesi di laurea Ritardi fatali di Giuseppina Foti [1998]. 221 222 CAPITOLO 4 Il governo è un continuo via vai di attività, con gente in vari ruoli che s’imbatte in problemi, nuove condizioni, regole discordanti, richieste di servizi senza precedenti e proclami di altri uffici. Sbrigando il suo lavoro giornaliero, questa gente avanza per piccoli passi da diverse direzioni, senza una piena consapevolezza che le sue azioni stanno spingendo una politica lungo una certa strada e precludendo altre risposte [...]. Con l’andare del tempo, questa serie di piccoli atti fissa la direzione di quella politica, e anche i suoi limiti. La gente diventa consapevole del fatto che è stata fatta una politica pubblica solo retrospettivamente [C. Weiss 1982, 25]. 3.3.1. Un rovesciamento di prospettiva A differenza di un programma che ha implicite tutte le tappe per la sua fedele applicazione, una politica pubblica trova una direzione solo attraverso una serie indeterminata di passaggi tra un numero indefinito di attori, di cui nessuno probabilmente è decisivo, mentre molti possono contribuire a sospingerla da una parte o dall’altra. Questo rovesciamento di prospettiva non riguarda solo politiche secondarie e di basso profilo, ma anche e soprattutto i grandi programmi di riforma sociale: Cominciamo forse da profondi valori intuitivi (come la compassione per il povero), per passare a disegnare i nostri programmi pubblici (quali la protezione sanitaria, i sussidi alimentari, l’aiuto alle famiglie con figli a carico), e poi a lavorare all’implementazione, o non partiamo invece da compromessi politici, per razionalizzarli imponendo loro un grande disegno (quale la guerra alla povertà), e per internalizzare solo più tardi le norme come valori culturali? Sul ruolo causale delle intenzioni consapevoli nell’evoluzione della cultura, sembra opportuno tenere una posizione che accetta la totalità del ciclo, anziché la biforcazione tra causa o effetto [Wildavsky 1992, 396]. L’idea che non sono le norme, né le decisioni formali, ma il flusso dei processi a disvelare il senso di quello che accade nella sfera pubblica è stata formulata per la prima volta da Arthur Bentley nel 1908, in un volume dal titolo The Process of Government, che secondo Easton rappresenta lo spartiacque tra il realismo ingenuo e indignato di Woodrow Wilson e la scienza politica contemporanea32. In primo luogo, Bentley concentra la sua attenzione sull’attività dei gruppi organizzati e sulla loro concreta influenza nella gestione della cosa pubblica. 32 «Fin verso gli anni ’80 [1880], la Costituzione fu studiata come se gli uomini recitassero la loro vita politica in stretta conformità con le sue direttive [...]. L’influsso dell’analisi giuridica s’indebolì solo gradualmente; esso fu scalzato dalla ricerca politica con la comparsa di una prospettiva della politica come processo. Questa nuova prospettiva indusse gli studiosi a guardar ciò che stava dietro le norme giuridiche» [Easton 1953, 187-188 trad. it.]. LA «POLICY INQUIRY» Ma soprattutto, in un’epoca segnata dai propositi di netta separazione tra responsabilità politiche e responsabilità amministrative, la sua impostazione sottolinea la fluidità dei passaggi e l’inevitabile compenetrazione tra le giurisdizioni e i poteri costituzionali. Questi due tratti – l’importanza delle aggregazioni di fatto basate su interessi comuni, ma mobili e debordanti, e il carattere processuale delle scelte pubbliche – costituiscono due facce di una stessa medaglia, e come tali sono destinati a ripresentarsi nella ricerca politologica contemporanea. Da entrambi traspare una rivolta contro il formalismo che richiama il pensiero di Dewey33: «L’influenza di Dewey è visibile soprattutto nel rigetto da parte di Bentley di ogni tipo di categoria assoluta, metafisica, idealistica, e nella sua scelta di considerare l’attività dei gruppi come il dato fondamentale della vita umana» [Heineman et al. 1990, 12; v. anche Anderson 1987, 22]. E tuttavia l’accoglienza di queste idee da parte delle istituzioni accademiche di inizio secolo fu decisamente fredda, al punto da costringere Bentley a cambiare mestiere. Ma il suo nome ritorna all’attenzione della comunità scientifica circa quarant’anni dopo, per una straordinaria vicenda intellettuale che merita almeno un cenno. Infatti nel 1949 Bentley (1870-1957) e Dewey (1859-1952), raggiunta l’ultima parte della loro vita34, dopo un fitto carteggio, scrivono insieme un libro, Knowing and the Known (1949), che contiene una critica serrata del neoempirismo logico e che è considerato uno dei testi di riferimento nella transizione verso il neopragmatismo postcomportamentalista [Lavine 1995]: Quando abbiamo detto che le designazioni sono eventi, e gli eventi designazioni, abbiamo adottato la circolarità – procedimento a cerchio – apertamente, esplicitamente ed enfaticamente [...]. Non abbiamo nulla di cui scusarci se scegliamo la circolarità preferendola ai vecchi modi di parlare. Osserviamo il mondo-che-diviene-conosciuto-all’uomo-che-è-in esso [...]. E circolarità non vuol dire andare in cerchio soltanto per un verso: si va in cerchio per l’uno e per l’altro verso ad un tempo, mentre l’uno è sempre in funzione dell’altro [Dewey e Bentley 1945, 80 trad. it.]. 3.3.2. La circolarità del «policy making» Dopo la citazione che abbiamo appena riportato, è forse più facile capire perché, all’interno della policy inquiry, l’elaborazione delle po- 33 Bentley era stato suo allievo all’Università di Chicago. Dewey scrive al suo coautore: «Io penso che i nostri differenti approcci siano complementari l’uno all’altro. Alla mia età (compirò 85 anni in ottobre), non mi sarei aspettato di seguire un corso che davvero mi rinfrescasse le idee. Credo che questo sia accaduto attraverso il contatto con lei». 34 223 224 CAPITOLO 4 litiche sia considerata come un processo che può essere rappresentato meglio da una linea curva anziché da una retta. Infatti nelle nostre società aperte «il processo di policy sviluppa una natura circolare, sicché diviene molto difficile identificare dove e da chi sono effettivamente adottate le decisioni politiche, cioè le assegnazioni di valori dotate di autorità» [Gustafsson 1983, 272]. Circolarità significa che ogni momento del policy making può essere visto come chiusura di un percorso o come inizio di un altro, come implementazione di una precedente scelta o come irruzione di un nuovo problema. Adottare l’una o l’altra prospettiva ha importanti conseguenze per il tipo di sceneggiature che gli attori saranno chiamati a interpretare, per le risorse di cui godranno, e per le aspettative che il pubblico nutrirà nei loro confronti: Le politiche somigliano più a un gioco di Monopoli senza fine che alla riparazione di una macchina da cucire. Da qui il diffuso scontento per il fatto che le politiche non sembrano mai risolvere niente. Il processo di scelta e di implementazione degli strumenti di una policy è politico e continuo. Le azioni che noi comunemente chiamiamo «nuove politiche» sono in realtà la mossa successiva di qualcuno, dato che in politica (politics), come in un buon gioco, nessuna mossa determina mai del tutto le mosse degli altri [Stone 1988, 208]. Le situazioni di disagio nel campo delle politiche pubbliche sono in genere costituite da un contorto mix di nuove emergenze e di vecchi problemi amministrativi. Negli anni ’90, la regolazione dell’immigrazione è stata inceppata da vistosi cambiamenti nei flussi d’ingresso, ma anche da incongruenze tecniche della legislazione e da difficoltà organizzative. Proporre soluzioni sbilanciate più verso la prima componente del disagio, e quindi sottolineare la necessità di profonde riforme, oppure sottolineare l’urgenza di aggiustamenti nell’implementazione, equivale a scegliere il tipo di arena e le categorie di attori cui affidare la gestione dei conflitti. In altre parole, scegliere l’una o l’altra prospettiva significa associare l’attesa di una soluzione a un tipo di gioco anziché a un altro. L’incanalare un problema verso l’arena della decisione o verso quella dell’attuazione è, quindi, un’operazione eminentemente politica, perché dal suo esito dipende quale valore sarà assegnato alle carte in mano alle varie categorie di attori [Allison 1971, 144; Regonini 1985; Lynn 1987, 61]. 3.3.3. Il fascino illusorio dei termini «decisione» e «programma» Anche per questo tipo di impostazione, la «bilancia dei pagamenti» tra i policy studies e le altre discipline è decisamente in attivo. L’idea che un programma, per quanto preciso, non possa anticipare e risolvere tutti i problemi che si presentano nel concreto processo di attuazione trova riscontri non solo in rami contigui, quali la teoria delle LA «POLICY INQUIRY» organizzazioni, ma persino in un campo come quello delle computer sciences, dove ci aspetteremmo invece di trovare una strenua difesa dell’esaustività degli algoritmi che regolano il funzionamento del software35. Nei brani che seguono, le fuorvianti suggestioni evocate dai due termini «decisione» ed «esecuzione», fondamentali nel lessico della ARP, sono denunciate in termini molto simili prima da uno studioso di organizzazioni pubbliche, poi da due esperti dell’interazione tra uomo e computer: Prendere decisioni è una di quelle eleganti espressioni che possono oscurare, più che illuminare. Ha un’aria di profondità, di riferimento a fatti importanti; e il mero uso di questa espressione sembra indicare che è stato scientificamente isolato qualcosa di definitivo [Selznick 1964, 56, cit. in Majone 1989, 16]. Noi sospettiamo che parte del credito della concezione del piano-comeprogramma derivi dalla parola «esecuzione» [...]. Il termine fa pensare a un’attività che ha luogo in un contesto istituzionale ben delimitato, con vincoli espliciti e criteri fissi, e poche possibilità e necessità di variazioni, interpretazioni, improvvisazioni, o deviazioni d’altro genere, da parte dell’agente. Eseguire un piano non significa solo seguirlo, ma significa seguirlo puntualmente, alla lettera. In breve, la parola «esecuzione» suggerisce che un piano sia una rappresentazione pressoché completa di una sequenza di azioni, e l’esecuzione un processo semplice [Agre e Chapman 1994, 293]. Entrambe queste citazioni sottolineano come il variare dei contesti spesso eserciti un’influenza non prevedibile sul grado di replicabilità di un dato corso di azioni. Esempi significativi possono essere trovati anche in campi molto lontani dalle politiche pubbliche. Si pensi: • al flop negli indici di ascolto di un presentatore di successo nel suo passaggio da una rete televisiva ad un’altra, pur all’interno della stessa fascia oraria e della stessa formula di intrattenimento; • all’insuccesso nel passaggio all’applicazione all’uomo di terapie sperimentate in laboratorio con ottimi risultati su reperti geneticamente molto simili a quelli umani36. 3.4. Le politiche come bidoni della spazzatura Molte delle idee presentate nei paragrafi precedenti ricompaiono, quasi sospinte verso le loro più paradossali conseguenze, nella teoria del 35 «Nel mondo reale, molti programmi per computer sono più che implementazione di algoritmi, e a loro volta i programmi sono solo uno dei fattori che determinano il comportamento del sistema operativo [...]. La verifica del processo deve focalizzarsi sul significato di un programma, e il significato è nella sua esecuzione» [Nelson 1992, 287 e 299]. 36 Come ebbe a dire Judah Folkman, famoso per le ricerche sull’angiogenesi nei tumori, che tante speranze suscitarono alla fine degli anni ’90, «La medicina può fare molto per voi se avete un tumore e siete un topo». 225 226 CAPITOLO 4 bidone della spazzatura. La continuità con gli altri approcci in cui si articola la policy inquiry è infatti più forte di quanto possa apparire a prima vista, anche se lo spazio per la sua declinazione in senso propositivo si assottiglia fino a diventare un filo. E tuttavia questo filo esiste, e giustifica la sua collocazione all’interno di questo capitolo. In fondo, si può scorgere anche nel modello del bidone della spazzatura37 il segno di un tracciato per sopravvivere alle trappole della razionalità economica, della razionalità limitata e del costruttivismo sociale. Del resto, il maggiore esponente di questo approccio, James March, non è certo un critico preconcetto o disinformato: nel corso della sua carriera ha infatti coltivato un profondo interesse per l’applicazione dei modelli formalizzati all’analisi delle decisioni; e la sua lunga collaborazione con Simon testimonia la profonda conoscenza dei meriti della razionalità limitata [March e Simon 1958]; negli anni ’80, infine, il volume scritto con Johan Olsen è divenuto il manifesto della riscossa del neoistituzionalismo e del costruttivismo sociale [March e Olsen 1989]. Più che una sarcastica caricatura delle vacue pretese delle scienze sociali, il garbage can può essere considerato come un modo alternativo e più sofisticato per essere, insieme, disincantati utilizzatori della razionalità economica, esperti manipolatori degli schemi cognitivi, consapevoli promotori di legami istituzionali. 3.4.1. I dubbi sulla razionalità economica Come abbiamo sottolineato, la policy inquiry contesta con fermezza uno dei fondamenti delle teorie economiche, e cioè la possibilità di separare in termini analitici le preferenze individuali dai processi di scelta: «L’ecologia dell’azione modella i desideri. I gusti e le concezioni di sé sono modificati nel processi dell’agire in loro nome» [March 1996, 283]. Infatti è nel corso dei processi decisionali che si plasmano le aspettative, le identità, le definizioni della situazione: Nella loro forma standardizzata, le teorie [economiche] partono dall’assunto che le preferenze siano stabili e che quindi le preferenze attuali costituiscano buoni predittori delle preferenze future; che le preferenze siano ben definite e congruenti, tali da permettere una scelta chiara e netta, data la prima congettura; e inoltre che le preferenze siano esogene, e quindi, quale che sia il processo che dà vita alle preferenze, esso preceda la scelta e sia indipendente dallo stesso processo attraverso cui si perviene alla scelta [March e Olsen 1989, 28 trad. it.]. A questa impostazione, i due autori contrappongono una teoria della scelta in cui preferenze e processi decisionali non possono essere 37 [1988]. Garbage can: cestino dei rifiuti, nella traduzione più gentile di Stefano Zan LA «POLICY INQUIRY» pensati come un prima e un dopo, ma come un intreccio che si sviluppa insieme: Primo, in politica gli individui vedono ciò che si deve vedere [...]. Secondo, in politica agli individui piace ciò che deve loro piacere [...]. Terzo, in politica gli individui vedono quello che si aspettano di vedere [...]. Quarto, in politica gli individui preferiscono quello che si aspettano di preferire [...]. Quinto, in politica gli individui vedono quello che ci si aspetta che loro vedano e, sesto, preferiscono ciò che ci si aspetta che loro preferiscano [ibidem, 74-75]. 3.4.2. I dubbi sulla razionalità limitata Anche la fiducia nelle virtù del procedere per prova-errore esce decisamente strapazzata dalla teoria del garbage can, che vi scorge le tracce di una ingenua idea di evoluzione e di progresso: «La combinazione delle regole cambia nel tempo, ma non c’è certezza che la sequenza dei cambiamenti che avvengono porti all’adattamento, inteso come tendenza inesorabile verso un unico equilibrio ottimale. In questo senso, l’apprendimento è miope e la storia è inefficiente» [March 1996, 282]. Innanzi tutto, le ricostruzioni retrospettive tendono ad essere condizionate dalla percezione del presente. La sua ombra del presente si proietta così sul passato, cambiandone continuamente il significato: «Nessuno deve quindi sorprendersi delle razionalizzazioni retrospettive, che sono fatte per aumentare la coerenza delle azioni passate [...]. Uno prima agisce e poi attribuisce un senso a quel che ha fatto. Si riscrive la storia per motivi presenti» [Wildavsky 1992, 136]. Così come le introduzioni sono scritte per dare una compattezza a testi ormai finiti, allo stesso modo le spiegazioni sono esercizi con cui si rendono tra loro coerenti eventi accaduti in momenti distanti nel tempo. Quando poi i resoconti fuoriescono dall’ambito individuale o di gruppo per assumere una rilevanza collettiva, sono le istituzioni a tramandarli e a cristallizzarli, rendendo ancora più difficile la loro verifica, per la saldatura che si opera con i valori e le credenze che sostengono una società. Pertanto, le teorie qui presentate non nutrono alcuna fiducia nella capacità delle vicende umane di selezionare strategie efficienti, nell’arena politica come nel mercato. Se l’analisi razionale delle politiche fa suo il tipo di impostazione dell’economia del benessere e riserva una grande attenzione all’isolamento e all’eliminazione delle condizioni che possono generare l’inefficienza del mercato, la policy inquiry guarda invece con interesse alla letteratura economica sulla dipendenza dal percorso (path dependency). Secondo questa impostazione, «dove si va 227 228 CAPITOLO 4 a finire dipende da dove si viene» [Bowles e Gintis 1993, 97]: pertanto gli esiti delle decisioni sono condizionati in modo significativo dalla strada imboccata al momento della prima biforcazione tra due scelte alternative. In diversi casi che riguardano l’adozione di una tecnologia o di uno standard (ad esempio, la disposizione delle lettere sulle tastiere delle macchine da scrivere, o il formato dei nastri per la videoregistrazione), il fatto di sperimentare per prima su larga scala una soluzione conferisce a questa un vantaggio indipendente dagli effettivi meriti [David 1985; Arhur 1989]. Per una serie di motivi, tra cui la confidenza che gli sperimentatori acquisiscono nei confronti della soluzione che per prima hanno imparato a usare, i costi del «tornare indietro» possono diventare talmente significativi da suggerire comunque la sua adozione, anche in assenza di precise evidenze tecniche a suo favore. Ma se «gli esperimenti della storia sono poco controllati, e spesso irreparabilmente confusi» [March e Olsen 1995, 203], se poche delle strade che vengono imboccate quando sono in gioco problemi di rilevanza collettiva possono essere davvero ripercorse a ritroso, anche l’idea che si possa procedere a una selezione delle politiche pubbliche attraverso la sperimentazione per prova-errore risulta intaccata alla radice. 3.4.3. I dubbi sul costruttivismo sociale Di per sé, la teoria del bidone della spazzatura non comporta l’incondizionata adesione al costruttivismo sociale. Detto in termini più precisi, se è vero che quel che circola sulla scena della decisione – identità, preferenze, soluzioni, problemi – acquista un senso attraverso l’interazione sociale, è anche vero che i codici per la decifrazione dei significati sono a loro volta molto incompleti e inefficienti, sicché l’ambiguità e l’incompletezza delle interpretazioni permeano le letture con cui vengono descritte le situazioni di scelta. Insomma, costruzioni sociali sì, ma non prigioni, bensì edifici traballanti, con puntelli che cedono e buchi che si aprono: L’ambiguità fa riferimento a una mancanza di chiarezza o di coerenza rispetto alla realtà, ai nessi causali, o alle intenzioni. Sono ambigue le situazioni che non possono essere codificate precisamente entro categorie esaustive e reciprocamente esclusive. Sono ambigue le intenzioni che non possono essere specificate chiaramente. Sono ambigue le identità con regole o con modalità di applicazione imprecise o contraddittorie. Sono ambigui gli esiti con caratteri o implicazioni sfumati (fuzzy). Sono ambigue le storie che non forniscono un’unica comprensibile interpretazione [March 1994, 178]. Tra le varie attività sociali, il fare politica e il fare politiche sono tra le più erose dal tarlo dell’ambiguità: «Posti davanti alla confusio- LA «POLICY INQUIRY» ne dell’ambiguità, dell’incertezza, del conflitto e dell’impotenza, gli attori politici (political) cercano di imporre un ordine e un senso al mondo intorno ad essi. E così sviluppano storie coerenti di esperienze e teorie circa il perché il mondo va come va» [March e Olsen 1995, 202]. Le ricostruzioni ex post e i resoconti (accounts) per legittimare il presente sono una componente ineliminabile della convivenza civile: «L’uso dei resoconti per spiegare, giustificare e scusare l’azione è una caratteristica fondamentale del discorso civilizzato. L’azione umana deve essere interpretata come comprensibile, valutata, collocata nell’intelaiatura delle aspettative normali e giudicata come appropriata» [March e Olsen 1995, 142]. Nelle nostre società democratiche, il mito del controllo sulla storia si alimenta del concetto di politica pubblica: l’idea che esista una relazione forte e unidirezionale tra l’intenzionalità dell’agente e gli esiti dei processi di scelta collettiva è la chiave di volta del valore della responsabilità (accountability) democratica. E tuttavia questa costruzione – in modo non dissimile dalle superstizioni più ingenue e primitive – non è né affidabile né completa. In particolare, tre caratteristiche della vita politica contemporanea contribuiscono a togliere stabilità all’edificio: • la molteplicità degli attori: se gli esiti nelle arene di politics e di policy sono il prodotto di complesse interazioni, diventa impossibile risalire alle responsabilità di risultati a cui in troppi hanno messo mano; • la complessità delle cause: se l’agente si adatta all’ambiente, ma a sua volta l’ambiente si adatta all’agente, diventa difficile imputare a quest’ultimo meriti o colpe; se nel gioco a guardie e ladri polizia e criminali coevolvono, non ha senso assegnare i punteggi e proclamare i vincitori; • l’oscurità degli standard da utilizzare per valutare i risultati: se i criteri sono molteplici e tra loro in conflitto, come accade all’efficienza e all’equità, i trade-off diventano opachi e non comparabili. Pertanto, «nonostante la sua centralità rispetto all’idea di democrazia e di controllo istituzionale, la responsabilità politica è piena di ambiguità, ambivalenze e contraddizioni [...]. Per molti aspetti, dunque, considerare qualcuno responsabile, o corresponsabile, è un atto di ingiustizia» [ibidem, 157-158]. 3.4.4. La concomitanza temporale Nel modello del bidone della spazzatura, alle relazioni causali è sostituito il criterio della concomitanza temporale quale principio ordinatore di quei curiosi fenomeni comunemente chiamati decisioni: «Problemi, soluzioni, decisori e occasioni di scelta inizialmente sono collegati solo dal tempo di arrivo sulla scena e dalle possibilità disponibili in quel tempo» [March 1994, 201]. 229 230 CAPITOLO 4 Confermando il gusto per l’understatement e per le metafore minimaliste che accomuna molti contributi nell’ambito della policy inquiry, March e Olsen [1976] chiamano il loro approccio «bidone della spazzatura» per sottolineare l’importanza del fattore tempo nell’amalgama di quel miscuglio di problemi, soluzioni e attori che pomposamente definiamo scelte. Come il bidone si trova a racchiudere, mescolati insieme, tutti gli scarti buttati via da chi è in casa tra un passaggio e l’altro del camion della nettezza urbana, senza nessun collegamento intrinseco tra una buccia di banana e una crosta di formaggio, allo stesso modo un’occasione di scelta vincola alla convivenza gli attori, le soluzioni e i problemi che si trovano a transitare sulla scena della decisione in uno stesso momento. Nel processo bidone della spazzatura si assume che gli arrivi delle occasioni di scelta, dei problemi, delle soluzioni e dei decisori siano esogeni e regolati dal tempo. Problemi e soluzioni sono attaccati alle scelte, e quindi tra di loro, non da qualche collegamento mezzi-fini, ma per la loro vicinanza temporale. Al limite, ad esempio, una qualunque soluzione può essere associata a un qualunque problema, purché entrambi siano evocati nello stesso tempo [...]. Le occasioni di scelta mettono insieme decisori, problemi e soluzioni [March 1994, 200]. L’idea che sia l’allineamento temporale, e non la consequenzialità causale, a legare tra loro gli ingredienti delle decisioni, richiede che attori, problemi e soluzioni siano concepiti come tre correnti, ciascuna dotata di una sua propria dinamica interna, e indotte a mischiarsi solo dall’estemporane a apertura di una qualche opportunità di scelta: un’elezione, una scadenza internazionale, una catastrofe, una denuncia alla magistratura, un’inchiesta giornalistica. Il fluire degli attori. Si confrontino queste due citazioni: I partecipanti vanno e vengono [...]. La variazione sostanziale relativa alla partecipazione deriva da altre domande sul tempo dei partecipanti (piuttosto che da caratteristiche della decisione oggetto di studio). Ha presente un albergo con le porte girevoli? Ecco, noi eravamo seduti lì dalle nove di mattina e ci siamo rimasti fino alle due, ma i ministri andavano e venivano. L’interlocutore cambiava sempre. Noi ogni tanto ci guardavamo in faccia stupiti e poi tutte le volte cercavamo di riprendere le fila del discorso. La prima citazione è di March e Olsen [1976, 322 trad. it.]. La seconda «... è il racconto irritato dei leader sindacali che ieri mattina hanno partecipato al vertice di Palazzo Chigi con Romano Prodi e con i ministri economici»38. Per la teoria del bidone della spazzatura, sia i 38 «Corriere della Sera», 25 ottobre 1996. LA «POLICY INQUIRY » 231 singoli attori sia le organizzazioni hanno identità indelebilmente marcate dall’inconsistenza. Più precisamente, le organizzazioni attive nei processi di policy sono «anarchie organizzate» [ibidem]. Poiché hanno preferenze incerte, sono prive di un’idea coerente di quel che stanno facendo: «Degli obiettivi si può dire che possono essere infallibilmente individuati in base a queste straordinarie qualità: sono multipli, sono tra loro in conflitto, e sono vaghi» [Nienaber e Wildavsky 1973, 10]. Poiché adottano tecnologie non chiare, non riescono a prevedere quel che ci si aspetta che facciano. Poiché si affidano a una partecipazione instabile, non sanno individuare chi dovrebbe prendere le decisioni [March e Olsen 1976]. In altre parole, i legami che tengono insieme le varie componenti sono caratterizzati da una costante debolezza [Weick 1979]: nonostante la retorica aziendalistica o organicistica, molte delle organizzazioni che si muovono nelle arene pubbliche sono segnate da una continua sfasatura tra le intenzioni degli individui che le compongono e gli esiti dei comportamenti collettivi. Insomma, «la vita politica è opportunistica, compartimentalizzata (o a legame debole), simbolica e ambigua» [Lynn 1987, 26]. Questa rappresentazione contrasta profondamente con l’unitarietà d’intenti che il senso comune è solito attribuire alle organizzazioni, e soprattutto a quelle attive sulla scena pubblica. Ma lo sconcerto divie- ne ancora maggiore quando March e Olsen estendono anche ai singoli individui lo stesso coacervo di incoerenze nelle preferenze, nelle intenzioni e nelle scelte, con implicazioni analitiche devastanti, che arrivano a minare il concetto stesso di attore, mettendo a nudo le sue ridotte capacità di attenzione, di memoria, di comprensione e di comunicazione [March 1994, 10]. Tra queste limitate facoltà, è soprattutto la discontinuità dell’attenzione a suscitare l’interesse dei teorici del garbage can: I modelli di ordinamento temporale del bidone della spazzatura illustrano gli effetti dei vincoli che gravano sull’attenzione. Nelle teorie dell’ordinamento temporale, i problemi sono definiti dalle domande degli attori attivi. Le soluzioni sono legate ai problemi grazie alla loro simultanea evocazione, anziché da una connessione causale. Le scelte sono fatte dai partecipanti che sono presenti. Le scelte sono implementate da attori mobilitati nel momento e nel luogo dell’implementazione, e impegnati nelle interpretazioni e nelle questioni evocate da quello specifico contesto. Questioni, opzioni, decisioni e interpretazioni dipendono tutte dalla configurazione dell’attenzione [March e Olsen 1995, 117]. Date le continue oscillazioni nella concentrazione e nella coerenza delle organizzazioni e degli individui, l’attenzione è una risorsa estremamente scarsa, tanto sul piano sociale quanto su quello personale: [Le decisioni] dipendono dall’ecologia dell’attenzione: chi segue che cosa e quando. I partecipanti con un qualche interesse possono non essere presen- 232 CAPITOLO 4 ti a una data decisione perché sono da qualche altra parte. Per seguire una cosa, bisogna trascurarne un’altra. In larga parte, le decisioni vanno come vanno perché l’attenzione è distribuita in un certo modo: i suoi tempi e la sua mobilitazione sono importanti [March 1994, 24]. Più precisamente, l’attenzione è: • una risorsa volatile Dato che nessuno può occuparsi di tutto per tutto il tempo, le capacità mobilitate in un certo tempo e in un certo luogo con ogni probabilità conducono ad azioni incoerenti rispetto a quelle prodotte dalle capacità attivate in un altro tempo o luogo. Le politiche create nel contesto di un determinato modello di attenzione sono poi implementate nel contesto di un altro modello [March e Olsen 1995, 116]; • una risorsa volubile La mobilitazione dell’attenzione è sorprendentemente indipendente dall’importanza o dall’ampiezza degli adempimenti che i problemi hanno comportato [ibidem, 119]. I partecipanti litigano furiosamente su una politica pubblica, ma quando questa è implementata, gli stessi partecipanti sembrano indifferenti all’implementazione [March 1994, 177]. Del resto, molti investono una parte del loro reddito per acquistare biglietti di lotterie di cui poi non controllano i risultati, come dimostra il fatto che un ammontare significativo dei premi non è mai reclamato; • una risorsa relazionale L’attenzione data a un particolare problema politico dipende non solo dalle caratteristiche del problema, ma anche dalla distribuzione di questioni alternative che a loro volta sollecitano l’attenzione [March e Olsen 1995, 116]. La partecipazione ai processi decisionali viene così a dipendere dall’ecologia dell’attenzione, cioè da un complesso gioco di pressioni concorrenti all’interno del quale individui e organizzazioni si destreggiano alla meno peggio: «Chi ha interesse a partecipare può non essere presente a una data decisione perché è da qualche altra parte. Qualcosa dev’essere trascurato perché qualcos’altro sia seguito. In genere, le decisioni vanno come vanno a causa del modo in cui è allocata l’attenzione» [March 1994, 24]. Dalle riunioni di comitati, consigli, commissioni, la gente va e viene: qualcuno compare un giorno per sostenere l’urgenza di un problema, ma al momento della scelta un altro impegno lo dirotta da un’altra parte. E l’orientamento rispetto al tempo dei partecipanti finisce con il produrre effetti più seri delle loro preferenze rispetto alle questioni sul LA «POLICY INQUIRY» tappeto. Nel caso dei fallimenti studiati da Pressman e Wildavsky con riferimento alle politiche per l’occupazione, Nessuno dei partecipanti era davvero in disaccordo con l’obiettivo di fornire un lavoro ai disoccupati appartenenti alle minoranze etniche; ma le differenze nelle prospettive e nella percezione dell’urgenza hanno reso difficile la traduzione del vasto accordo sui contenuti in una efficace implementazione della politica. Non è stata la direzione delle decisioni – più o meno favorevole –, ma l’orientamento rispetto al tempo dei partecipanti – veloce o lento, pressante o indolente – a determinare il destino dell’attuazione [Pressman e Wildavsky 1973, 113]. Il fluire delle soluzioni e dei problemi. Al pari dei policy makers, anche le soluzioni hanno una loro autonoma dinamica: suscitano attenzione per la loro novità, si consolidano, poi tramontano, spesso senza aver avuto modo di essere messe davvero alla prova. Gli schedari delle biblioteche, esaminati diacronicamente, raccontano storie di «soluzioni» che si susseguono l’un l’altra senza essere mai state definitivamente smentite: gli anni ’60 e la fiducia nella programmazione; gli anni ’70 e il ruolo del decentramento; gli anni ’80 e le virtù della privatizzazione; gli anni ’90 e il principio di sussidiarietà. La loro sostituzione non avviene perché sono riscontrati irreparabili errori nell’impostazione precedente; i loro sostenitori sono nel vero quando affermano che i difetti dipendono da una solo parziale e distorta applicazione. Il fatto è che nel tempo una soluzione esaurisce il suo potere di attrazione: «Il cambiamento spesso è guidato non dalla domanda, ma dall’offerta, cioè dall’esistenza di un’alternativa che attira attenzione e sostegno, e che pertanto stimola la percezione di un problema, rispetto al quale rappresenta una possibile soluzione» [March e Olsen 1995, 119]. Gli stessi problemi, a loro volta, seguono una dinamica condizionata più dall’instabilità dell’attenzione che dalla pressione delle difficoltà, più dalla noia che dalla loro intenzionale risoluzione: Nel governo, come in filosofia, le vecchie questioni tendono a non trovare risposte: vanno solo fuori moda [Schön 1971, 142]. I problemi non sono tanto risolti quanto, piuttosto, soppiantati [...]. Ad essere fuorviante è la nostra aspettativa di una chiusura, di una decente sepoltura, anziché di rigenerazione e rinascita [Wildavsky 1992, 83]. Le riforme fiscali, ad esempio, «muoiono mille morti solo per risorgere dalle loro ceneri» [ibidem, xvii]. Larga parte delle questioni con cui hanno a che fare le politiche pubbliche appartengono infatti alla schiera dei problemi perversi [wicked, Rittel e Webber 1973], capaci di sfuggire a ogni definitiva archiviazione. Se l’associazione tra problemi e soluzioni è completamente svinco- 233 234 CAPITOLO 4 lata da qualunque legame intrinseco, per essere regolata dalla mera concomitanza temporale, non solo i problemi sono alla ricerca di soluzioni, ma anche le soluzioni sono a caccia di problemi che legittimino la loro diffusione. Come è facile immaginare, questa impostazione ha un effetto corrosivo sulla possibilità di analizzare il policy making isolandone gli esiti e valutandone costi e benefici: «Che cosa ha prodotto una politica? dopo aver assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, chi si occupa dell’implementazione può rispondere solo, in modo convinto, “dipende”» [Majone e Wildavsky 1979, 180]. E l’ambiguità riguarda non solo settori marginali o contesti eccezionalmente instabili, ma persino le politiche di bilancio, come dimostrano le ricerche compiute da Heclo e Wildavsky sui tentativi di razionalizzazione condotti in Gran Bretagna alla fine degli anni ’60: «Alla fin fine, nessuno conosce gli effetti sulle politiche pubbliche di risparmi, tagli, e altre manipolazioni della spesa, perché nessuno conosce gli effetti delle politiche pubbliche prima di risparmi, tagli, ecc.» [Heclo e Wildavsky 1974, 359]. 3.4.5. La dissociazione tra processo decisionale e decisione Per l’analisi delle politiche pubbliche, l’implicazione più inquietante del garbage can è la netta dissociazione tra decisioni e processi decisionali: «Molte decisioni sono prese in mancanza di meglio (by default), e i processi decisionali spesso sono un’esercitazione sui problemi che non porta a una soluzione. Le decisioni sono prese al di fuori di un esplicito processo decisionale, e i processi decisionali spesso non riescono a produrre decisioni» [March 1994, 177]. Se le decisioni sono quel che si produce quando un’opportunità di scelta crea un cortocircuito tra gli attori, le soluzioni e i problemi in quel momento sulla scena, i processi decisionali rispondono invece a esigenze espressive che ben poco hanno a che vedere con le questioni che li hanno originati: Un processo di scelta rappresenta un’occasione per diverse altre questioni, e più in particolare: • un’occasione per eseguire procedure operative standard e realizzare aspettative di ruolo, doveri o impegni precedenti; • un’occasione per definire la virtù e la verità, attraverso la quale un’organizzazione scopre o interpreta ciò che le è accaduto [...]; • un’occasione per distribuire gloria o biasimo per ciò che si è verificato nell’organizzazione e perciò un’occasione per dimostrare, sfidare o riaffermare relazioni di amicizia o di fiducia, di antagonismo, di potere o di status; • un’occasione per esprimere e per scoprire «l’interesse individuale» e «l’interesse di gruppo» [...]; • un’occasione per divertirsi, per condividere i piaceri connessi alla partecipazione ad una situazione di scelta [March e Olsen 1976, 304-305 trad. it.]. LA «POLICY INQUIRY» Se per molti versi l’immagine del garbage can può essere considerata come la logica conclusione della caduta di ogni rapporto gerarchico tra progettazione e implementazione, ora questo crollo rischia di trascinare con sé non solo l’ordine sequenziale che regge l’analisi razionale delle politiche, ma la stessa possibilità di rintracciare in esse i segni dell’attività consapevole e finalizzata di quanti contribuiscono al loro disegno, alla loro approvazione e all’implementazione. Il policy making finisce a pezzi, anzi, a flussi: attori, problemi, soluzioni. E quel che è più inquietante, il «prodotto», rischia di sopravvivere allo sradicamento dal suo processo, come in qualche film pulp la testa tagliata continua a parlare lontano dal tronco che si agita. Le politiche da una parte, con tutto il loro peso di giustificazioni ex post, di improbabili legittimazioni, di simboliche rappresentazioni; attori, soluzioni, problemi, dall’altra parte, mischiati come capita. A prima vista, il risultato è l’impossibilità di articolare una qualunque proposta di consapevole intervento nel policy making. Eppure, un filo di speranza esiste. Come scrive March: «È possibile applicare il pensiero ai problemi dell’intelligenza, per approfittare della comprensione di come accadono le decisioni per fare in modo che accadano meglio [...]. Questa impostazione non mette al riparo dalla pioggia, ma offre una piccola base per immaginare che un tetto è possibile» [March 1994, 271]. Non è molto, ma è abbastanza per andare avanti. 4. Linee di ricerca Le teorie che presentiamo in questo paragrafo costituiscono nel loro complesso il più importante tentativo di delineare un profilo per l’intervento dell’esperto di politiche pubbliche alternativo a quello stabilito dall’analisi razionale. Il compito non è facile: il ruolo professionale codificato dalla rational policy analysis continua a rappresentare, nell’immaginario collettivo e, soprattutto, in quello dei policy makers, l’unico modo di fare questo lavoro. Dalla sua, ha il fatto di essere cognitivamente in armonia con i valori della scientificità, dell’oggettività e dell’economicità: infatti promette un prodotto che, benché non facilmente comprensibile e pieno di tecnicismi, tuttavia può essere speso come una dimostrazione della razionalità delle scelte adottate. Inoltre, fa propria una rigida divisione dei compiti tra policy makers e analisti, stabilendo un confine da cui entrambe le parti si sentono rassicurate: ai primi la definizione dei compiti, ai secondi l’individuazione dei mezzi migliori per realizzarli. Il percorso formativo tende a svilupparsi all’insegna dell’analogia con figure professionali accreditate, quali l’ingegnere o l’economista. Invece, sulla base dei presupposti teorici e metodologici che abbiamo discusso nel paragrafo precedente, lo spazio per un intervento professionale nel policy making «dall’esterno» si presenta molto ristret- 235 236 CAPITOLO 4 to: infatti da queste impostazioni non può che derivare una visione disincantata di quel che l’analista può fare, una volta calato in processi condizionati da pregiudizi, strategie partigiane, dinamiche circolari, o da bizzarri miscugli di attori, problemi e soluzioni. Benché i margini di sovrapposizione tra i vari approcci che confluiscono nella policy inquiry siano talmente estesi da consentire l’utilizzazione di brani scritti da uno stesso autore per illustrare i diversi modelli, tuttavia l’idea di una professione che metta al centro l’analisi prescrittiva è giudicata in modo diverso da quanti pure si riconoscono in una comune ispirazione teorica. Alcuni, come Cohen e Lindblom [1979a], rifiutano il termine stesso di policy analysis. Altri, come Wildavsky, sono convinti che lo studioso si possa impegnare anche nella prescrizione, misurandosi con il ruolo sociale attribuito all’esperto di politiche: a quest’ultimo gruppo si deve la progettazione di scuole per la formazione di tecnici, sulla base di un curriculum radicalmente diverso da quello sancito dall’analisi razionale delle politiche39. Il diverso orientamento rispetto alla definizione della figura professionale dell’analista è tuttavia un problema distinto e secondario rispetto alla comune tensione pragmatica a non confinare le teorie nel regno del dibattito accademico, per assumere l’onere della verifica delle loro concrete conseguenze per l’azione. L’impegno che si richiede ora al lettore è di ritornare ai quattro schemi del paragrafo precedente, che di per sé hanno potenzialità sia descrittive sia prescrittive, per rileggerli da quest’ultima prospettiva, secondo lo schema seguente: se la politica pubblica è analizzata come... l’analisi diventa... conoscenza in uso interazione processo bidone della spazzatura pratica sociale riflessiva aggiustamento reciproco incrementalismo sconnesso ingegneria dell’intelligenza 4.1. L’analisi come pratica sociale riflessiva Nel paragrafo 3.1, relativo alle politiche come conoscenze in uso, abbiamo visto come la policy inquiry riesca a mantenere un suo autonomo percorso – rispetto ai tre paradigmi della razionalità economica, della razionalità limitata, del costruttivismo sociale – grazie al suo netto orientamento alla pratica. 39 Wildavsky alla fine degli anni ’60 fonda una scuola di Public Policy all’Università di Berkeley, e molti suoi testi, tra cui l’appendice di Speaking Thruth to Power, sono dedicati all’insegnamento del mestiere dell’analista. LA «POLICY INQUIRY» 4.1.1. Prima via di uscita: la sperimentazione Il pregiudizio a favore dell’azione. «Dovendo scegliere tra attuare un nuovo programma, o commissionare uno studio più approfondito del problema come premessa per l’azione, la preferenza è verso l’innovazione» [Campbell 1998, 39; v. anche Etzioni 1968]. L’ipotesi che esista un rapporto diretto, certo e non ambiguo tra buone teorie e buone politiche è respinta come una forma di presunzione intellettuale: «Nella società che sperimenta, policy makers, analisti di politiche e cittadini riconoscono francamente la povertà delle soluzioni per ridurre i problemi sociali, e contestano le esagerate pretese dei professionisti di policy che stanno dentro e fuori le università» [Dunn 1998, 21; v. anche Gunnell 1976]. Se a prima vista può sembrare avventato esporre le istituzioni politiche ai rischi del procedere per tentativi, è bene ricordare che il consiglio a «saltare prima di guardare» sta alla base delle recenti teorie postmanageriali, che hanno svolto un ruolo importante nel preparare le imprese americane a convivere con l’incertezza prodotta dalle innovazioni tecnologiche in atto [Peters e Waterman 1982]40. Le verità provvisorie. «Nella società che sperimenta, la scoperta di credenze plausibili circa le politiche è una ricerca senza fine di verità toccate per approssimazione e contingenti rispetto alla storia» [Dunn 1998, 9]. L’obiettivo dell’analisi non è raggiungere certezze, ma scorgere possibilità capaci di reggere un po’ più a lungo delle ipotesi alternative: «Nella policy inquiry non esiste un metodo unico, “scientifico”, per esibire le premesse empiriche degli argomenti, né ci si deve attendere una qualche sintesi onnicomprensiva della conoscenza sociale che guida le deliberazioni» [Paris e Reynolds 1983, 265]. Il risultato cui mirare è l’impostazione di politiche reversibili e sfidabili sulla base di nuove convinzioni o di nuove coalizioni: «Le politiche non devono essere considerate come verità eterne, ma come ipotesi soggette a modifica e sostituzione da altre migliori, che a loro volta saranno rimpiazzate» [Wildavsky 1992, 16]. Il vantaggio dei sistemi politici fortemente decentrati si manifesta con la maggiore offerta di occasioni per avviare simultaneamente un gran numero di sperimentazioni indipendenti. La loro utilità non deriva dall’improbabile approdo a un verdetto definitivo, ma dalla continua produzione di spiegazioni alternative: «I policy makers che sono 40 In questo testo, il «pregiudizio a favore dell’azione» compare come la prima caratteristica dell’impresa capace di affrontare con successo l’innovazione. In un’intervista a «Electrosphere», Tom Peters esprime in questi termini la sua fiducia nelle trasformazioni culturali di questa epoca: «I diciassettenni non hanno il linguaggio che ho io; non hanno nessuna educazione scientifica di base; sono del tutto incapaci di esprimere chiaramente quello che stanno facendo. Ma lo stanno facendo» [1997]. 237 238 CAPITOLO 4 talmente coinvolti nelle loro favorite teorie sull’intervento nelle politiche, da non vedere il bisogno di analisi che possano sfidare le loro assunzioni, finiscono in trappola» [Dunn 1998, 22]. Il senso comune. Il fatto di stabilire una strettissima continuità tra la speculazione scientifica e l’esperienza della gente comune appartiene alla più autentica ispirazione pragmatica: «Lo studioso che nel suo lavoro volga le spalle agli argomenti del senso comune e al rapporto che quest’ultimo ha con gli impegni attivi del vivere, lo fa a proprio rischio» [Dewey e Bentley 1945, 321 trad. it.]. In questa prospettiva, infatti «l’impostazione sperimentale non è vista come fonte di idee di per sé necessariamente in contraddizione con la saggezza tradizionale. Piuttosto, è un processo di rifinitura sovrapposto a un accumulo di pratiche sapienti, in molti casi degno di valore» [Campbell e Stanley 1963, 4]. Questa continuità appare tanto più stretta nel settore delle politiche pubbliche, in cui le scommesse di chi è coinvolto nel policy making hanno buone probabilità di essere altrettanto fondate di quelle degli scienziati sociali: Quelli che hanno specifiche informazioni su una determinata situazione sono i migliori critici e i migliori giudici della plausibilità di contrastanti ipotesi riguardo al loro contesto. Dobbiamo sviluppare procedure per far emergere le loro critiche e i loro giudizi. In questo processo, dobbiamo dare a questi osservatori non professionisti la fiducia in se stessi e l’occasione per dichiarare pubblicamente il loro dissenso con le conclusioni degli scienziati sociali professionisti [Campbell 1998, 58]. 4.1.2. Seconda via di uscita: l’apprendimento Nella scienza politica, l’importanza dell’apprendimento è stata sottolineata sia dalla tradizione pragmatica, sia dalle teorie basate sull’analogia tra i sistemi politici e i sistemi informativi [Deutsch 1963]. Le scienze delle organizzazioni hanno trovato in questo concetto una strada per sfuggire a un’impostazione rigida e deterministica del rapporto tra sfide ambientali, strutture formali e risposte organizzative: La metafora dell’apprendiment o organizzativo costituisce [...] un’alternativa valida all’immagine dell’organizzazione razional-burocratica proprio perché richiama alla mente non solo l’idea di una organizzazione che procede per prove ed errori, ma anche l’idea di una organizzazione che si districa nei processi di interpretazione dell’ambiguità, dell’esperienza, della storia, del conflitto e del potere [Gherardi 1997, 27]. Dagli approcci che sottolineano l’importanza della conoscenza nel policy making, discende l’idea che l’apertura verso l’apprendimento debba diventare un criterio fondamentale nella valutazione delle politiche LA «POLICY INQUIRY» pubbliche: «Gli analisti dovrebbero valutare le politiche prendendo a riferimento il grado di apprendimento che consentono, la facilità con cui portano a identificare gli errori, e le motivazioni a correggerli prodotte dagli incentivi organizzativi» [Wildavsky 1992, 392]. All’interno di questa impostazione, l’analista si qualifica come colui che insegna a imparare: «Il compito che la perdita dello stato stabile rende inderogabile, per le persone come per le istituzioni e la società nel suo insieme, è imparare a imparare» [Schön 1971, 30]. Se è senz’altro vero che l’ispirazione della policy inquiry restringe i margini per un intervento didatti- co di tipo tradizionale, dall’alto al basso, tuttavia il giudicare i processi di policy alla luce dei criteri di fallibilità, contestualità, contingenza, correggibilità [Dunn 1998] è un esercizio impegnativo, cui l’analista può dare un rilevante contributo, fatto di tecnica e di esperienza41. Il conservatorismo dinamico. È questo uno dei tanti ossimori 42 che incontreremo in questo capitolo, come l’incrementalismo radicale, di cui parleremo tra breve, e che gli è molto vicino: «Un sistema che apprende deve far sì che il conservatorismo dinamico possa operare in modo tale da permettere il cambiamento, senza minacciare in modo intollerabile le funzioni essenziali che il sistema deve poter adempiere» [Schön 1971, 60]. Compito dell’analista è aiutare i policy makers a raggiungere un accettabile equilibrio tra il bisogno di sbarazzarsi immediatamente di ciò che non serve più e l’esigenza di trattenere il più possibile dei vecchi schemi, pena la perdita di punti di riferimento essenziali per dare senso al loro intervento. Del resto, lo scetticismo e la critica disincantata possono essere applicati a una serie di credenze, ma non a tutte. Compito della policy inquiry è spostare in avanti la linea di confine tra scetticismo e dogma, senza tuttavia sminuire il ruolo che la fiducia svolge nell’evitare che a ogni idea in circolazione sia continuamente richiesta una patente di fondatezza: «L’interazione sociale istituzionalizza lo scetticismo, e tuttavia dipende da qualche palpabile ma impreciso livello minimo di fiducia sociale» [Wildavsky 1992, 210]. Fiducia e dignità. Il concetto di fiducia fa così il suo ingresso negli approcci prescrittivi al policy making: senza la circolazione di questo elemento, diventa impossibile il confronto tra le diverse assunzioni che guidano le scelte dei produttori di politiche pubbliche, che risulterebbe- 41 «Il presidente Clinton ha chiesto alle agenzie federali di esaminare e imparare “dai servizi della più alta qualità forniti ai loro clienti dalle organizzazioni private”. Questo processo prende il nome di benchmarking. Con questo termine le imprese fanno riferimento al processo di apprendimento continuo, saccheggiando spudoratamente il meglio che c’è, non solo nel proprio settore, ma in tutti quelli che funzionano come il proprio» [«National Performance Review» 1995, 9]. 42 «Procedimento retorico che consiste nell’accostare a una parola un’altra parola di senso contrario» (dal vocabolario Zingarelli). 239 240 CAPITOLO 4 ro privi non solo di obiettivi comuni, ma anche di un metodo per avviare il riconoscimento delle rispettive diversità: «La fiducia reciproca è un circolo virtuoso di anticipazioni e azioni, il cui avvio richiede sempre un salto di fede oltre l’evidenza disponibile» [Schön e Rein 1994, 179]. Il consolidamento di un clima di fiducia tra analista, policy makers e policy takers agevola l’instaurarsi del criterio della dignità, definito da Karl Deutsch come l’apprendimento non distruttivo, rispettoso dei ritmi e degli strumenti che chi impara sente come propri [1963, 139 trad. it.]. Questo principio trova una giustificazione funzionale prima che etica, data la particolare economia dei prodotti intellettuali. Perché un’idea sia diffusa in modo convincente, occorre che chi la propone non si limiti a «rivenderla», ma sia in grado di sostenerla perché l’ha davvero fatta propria, trovando il modo di renderla compatibile con le altre credenze di cui continua a servirsi. La propagazione attraverso le reti. L’approccio top-down, tipico dell’analisi razionale delle politiche, si basa sull’ipotesi che in questo settore la conoscenza avanzi in modo unidirezionale, da chi disegna le politiche a chi le implementa. Per la policy inquiry, invece, sono le reti, e non le piramidi, le figure più adeguate a descrivere lo scorrere dei processi di innovazione e apprendimento: «Una rete è un insieme di elementi collegati l’un l’altro da interconnessioni multiple» [Schön 1971, 190]. Sue caratteristiche sono la ridondanza dei legami, l’assenza di un nucleo, la possibilità di percorsi multipli tra i diversi nodi, il flusso bidirezionale delle informazioni [ibidem, 177]. La metafora della rete come forma di relazione sociale particolarmente adatta alla gestione delle politiche pubbliche ritornerà in diversi punti del nostro lavoro, con diversi significati e implicazioni. In questo contesto, occorre rimarcare soprattutto come l’attivazione di canali di comunicazione sovrapposti imprima un andamento in larga misura non programmabile all’avanzare dell’innovazione: «Qui, la metafora centrale non è “decisione”, ma “diffusione”, “propagazione”, “contagio”» [ibidem, 80]. La distinzione tra progettazione e implementazione – così importante per la ARP – tende a perdere rilevanza, dato che i cambiamenti spesso sono giustificati mentre sono fatti: «L’innovazione non precede affatto compiutamente il processo della sua diffusione, ma evolve in modo significativo lungo quello stesso processo» [ibidem, 107]. Non solo: gli stessi networks sono continuamente modificati dalle conoscenze che li traversano. Nei termini di James March [1997], la rete nervosa che incanala il fluire delle idee non è indipendente ed esogena rispetto a queste ultime, ma endogena ad esse. Se è vero che il mezzo di comunicazione determina il messaggio43, è anche vero l’op- 43 Il riferimento è alla nota teoria di Marshall McLuhan [1964], secondo la quale sono i mezzi di comunicazione che danno forma ai contenuti che trasmettono. LA «POLICY INQUIRY» posto, perché la selezione delle maglie da annodare e dei canali da scavare dipende dal tipo di interesse per le conoscenze in transito. Questo concetto è oggi più facile da afferrare con riferimento alla diffusione di Internet, dove la tecnologia e i contenuti sono evoluti insieme, adattandosi a vicenda, sicché diventa arduo stabilire qual è la causa e quale la conseguenza della sua crescita. Ma accettare una visione di reciproco accomodamento tra le reti e le idee che circolano attraverso di esse equivale ad ammettere che il lavoro dell’analista si svolge in un contesto caratterizzato da notevole indeterminatezza. Portare avanti l’analisi in queste condizioni richiede la capacità di apprezzare le virtù dell’incertezza e di tollerarne il peso. Cruciale per il positivo superamento di questo passaggio è «l’abilità che un team ha di accettare e sintetizzare informazioni e prospettive tra loro apparentemente in conflitto; ma questo a sua volta dipende dall’abilità del team di sopportare le crescenti ansietà che derivano dalle pressioni a chiudere il processo, anziché provare a trattare più informazioni» [Schön 1971, 217]. 4.1.3. Terza via di uscita: la riflessività Vedersi giocare. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la policy inquiry condivide con il costruttivismo sociale l’idea che le politiche sono combinazioni di risorse, regole, vincoli in larga misura forniti già «preconfezionati» agli individui dalle culture in cui vivono. Per uscire dall’immobilismo rinunciatario cui può portare questo riconoscimento, l’analista deve riuscire a fare leva su una capacità tipicamente umana: la riflessività, cioè l’autoconsapevolezza, la capacità di vedere i contorni dei nostri frames anche mentre li stiamo utilizzando: Noi sosteniamo che gli esseri umani possono fare oggetto di riflessione e di apprendimento il gioco del policy making anche mentre lo stanno giocando; più precisamente, durante l’azione essi sono capaci di riflettere sui conflitti tra i frame su cui si basano le controversie, in modo da scalfire la loro intrattabilità [...]. Noi crediamo che la speranza nella ragione umana, nel mondo caotico e conflittuale del policy making, richieda una visione della razionalità delle politiche che dia un ruolo centrale alla capacità umana di riflessione «nel corso del gioco» [Schön e Rein 1994, 37 e 38]. L’idea di fondo è che, una volta riconosciuti e portati allo scoperto, i nostri schemi mentali di riferimento perdano gran parte della loro rigidità e diventino plastici, disponibili a modifiche consapevoli [Lanzara 1993; Mathews 1994]. Se nelle mie convinzioni e nei miei atteggiamenti io posso identificare il peso esercitato dai ruoli che ricopro, dalle aspettative sociali che le mie responsabilità comportano, come dirigente amministrativa, o come leader di un’associazione studentesca, o come consigliere comunale, il portare allo scoperto e il guardare in 241 242 CAPITOLO 4 faccia l’origine sociale di questi schemi equivale a coglierne la parzialità e ad ammettere che altri – i miei interlocutori – possano leggere una stessa situazione sulla base di altri e diversi schemi: quelli associati al ruolo di sindacalista, o di professore, o di assessore. Questa impostazione ha evidenti analogie con la psicoanalisi, che associa il superamento delle nevrosi al riconoscimento della loro origine: «Perché possiamo riflettere sui frames tra loro in conflitto che stanno alla base delle controversie di policy, noi dobbiamo diventare consapevoli dei nostri stessi frames» [Schön e Rein 1994, 34]. Ancora la fiducia. Per facilitare il processo di reframing, i policy makers sono indotti a «mettersi nei panni degli altri», a giocare a scambiarsi i ruoli, a fare da traduttori tra i propri schemi e quelli degli interlocutori: «Ciascuna delle parti dovrebbe essere in grado di porre nei termini dei suoi propri frames il significato della situazione, così come è vista dagli altri attraverso i loro propri frames. A questo punto, gli antagonisti possono creare un discorso basato sulla reciprocità e la riflessività» [ibidem, 45]. Lo stesso intervento dell’analista risulta bloccato se non riesce a inserirsi nella circolazione della fiducia quando è in gioco il passaggio da un policy frame a un altro [Wildavsky 1992], una fase critica che espone gli attori a una grande vulnerabilità. Come nota Charles Sabel, questa operazione è estremamente delicata, perché va a toccare le radici stesse dell’identità: «La riflessività collega l’individualità alla socievolezza, facendo della vulnerabilità agli altri – cioè della fiducia – l’elemento costitutivo di un sé autonomo» [1993, 88]. L’analista può svolgere un ruolo importante nel far accettare come normale l’esistenza di più interpretazioni tra loro in competizione. Questo obiettivo risulta più accessibile quando gli schemi che si contrappongono in una controversia di policy non ricalcano fedelmente le grandi fratture culturali che tendono a lacerare una società, ma hanno un carattere ibrido o sono deboli per basi empiriche e forza argomentativa [Schön e Rein 1994]. L’analista come professionista riflessivo. In questo tipo di lavoro, l’analista non si limita ad insegnare l’esercizio della riflessività agli altri, ai policy makers, per allargare o sostituire i riferimenti cognitivi e valoriali altrui. Nella misura in cui crede nel potenziale innovatore di questa capacità, la adotta consapevolmente per vedere da più angoli prospettici la situazione in cui si trova coinvolto: Quanti hanno una pratica competente nelle politiche sono indagatori riflessivi che diventano, nei casi migliori, ricercatori riflessivi della loro stessa situazione pratica [...]. Pertanto cercano di capire la natura della situazione problematica nella quale si sono venuti a trovare, il significato dei messaggi comunicati attraverso le parole e le azioni nelle conversazioni intorno alle LA «POLICY INQUIRY» politiche, le fonti delle controversie e dei dilemmi con cui si confrontano, la natura e le cause dei limiti che vanno scoprendo nelle politiche che disegnano, gli impedimenti che sorgono a bloccare il corso del processo di policy [ibidem, 193]. Quando l’interazione assume queste caratteristiche, tende a diventare molto impegnativa per l’analista, anche sul piano personale: «L’ultimo principio raccomandato dalle policy sciences avanzate è di essere riflessivi, cioè consapevoli, autocritici, e capaci di autotrasformazione» [Dror 1994, 22]. Il vantaggio è una conoscenza dei problemi e delle persone che li vivono che i tradizionali metodi di ricerca raramente possono garantire [Easton 1969, 367; Blume 1977]. 4.1.4. L’analisi come mestiere e come arte Dall’intreccio tra le tre linee guida che abbiamo delineato, emerge un profilo dell’analista con caratteristiche del tutto diverse da quelle richieste dall’approccio razionale. In primo luogo, più che basare la sua attività sull’applicazione di precise tecniche standardizzate, l’analista deve saper coltivare l’aspetto artigianale e persino artistico del suo lavoro, nella consapevolezza che ogni problema di policy richiede un paziente lavoro di approfondimento, ma anche una certa dose di creatività: «Spostare i frames del discorso, in modo da rendere convincenti fatti diversi, sta ad indicare che arte e artigianato sono interdipendenti» [ibidem, 389]. Infatti «lo stile gioca un grande ruolo nel determinare il valore e l’accettabilità di un prodotto analitico, così come accade per il modello di un prodotto artigianale» [Majone 1978, 170]44. La capacità di integrare artigianato e fantasia, sfruttamento dei percorsi collaudati e sperimentazione dei nuovi, exploitation ed exploration, se da un lato richiede un particolare talento45, dall’altro può essere favorita ricordando che trovare il problema giusto è importante quanto trovare la soluzione giusta: «Che i problemi abbiano lo stesso status delle soluzioni [...] è la base della creatività nell’analisi delle politiche» perché «l’analisi è, in poche parole, un’attività che crea problemi che possono essere risolti» [Wildavsky 1992, 387 e 17]. Vedere una situazione critica da una nuova prospettiva può avere conseguenze più positive dell’applicazione di una vecchia, collaudata ricetta. Infatti, nella sua essenza, «l’analisi delle politiche è sinonimo di creatività» [ibidem, 3] e «portare avanti la valutazione è un emozionante esercizio di immaginazione» [Cronbach 1982, 239]. 44 45 La numerazione delle pagine si riferisce alla ristampa del 1980. «Nessuno sa come insegnare agli altri la creatività» [Wildavsky 1992, xxx]. 243 244 CAPITOLO 4 Parlare di gioco, di arte e di creatività a proposito dell’analisi delle politiche può suggerire l’impressione che l’esercizio di questo mestiere possa procedere in modo svincolato da codici morali. Ma per il lettore che ci ha seguito fin qui dovrebbe essere chiara l’attenzione con cui la policy inquiry coltiva la consapevolezza delle profonde responsabilità sociali che queste pratiche comportano, dato che con esse si va a incidere sulle convenzioni che reggono una società: «Se la cultura può essere concepita come i valori e le credenze che sostengono una struttura sociale, l’analisi delle politiche è parte della creazione di cultura» [Wildavsky 1992, 41]. 4.2. L’aggiustamento reciproco tra interessi di parte La tesi secondo cui l’interazione sociale è, rispetto all’analisi razionale, sia più efficiente in termini fattuali sia più legittima sul piano normativo ha conseguenze dirompenti per l’intervento orientato al miglioramento delle politiche pubbliche. Infatti, per Lindblom e per Wildavsky, l’unica incisiva forma di azione è quella che riesce ad inserirsi nei giochi che di fatto praticano i policy makers quando confrontano e aggiustano le loro posizioni in uno stretto reticolo di interazioni sociali. Solo questo processo, con le sue negoziazioni, i suoi sbandamenti laterali, i suoi rinvii, può aspirare ad accomodare i conflitti impliciti in ogni scelta pubblica di una qualche rilevanza. 4.2.1. La teoria pluralista del potere Questa impostazione equivale ad ammettere che dietro a ogni problema di policy esista – più o meno esplicito – un conflitto di potere, una lotta per la prevalenza, uno scontro per l’allocazione di risorse scarse. Rispetto a questo gioco, nessuno può dichiararsi al di sopra delle parti, nemmeno l’analista: «L’uomo della valutazione cerca conoscenze, ma cerca anche potere. Il suo desiderio di fare del bene è congiunto alla sua volontà di agire da una posizione di potere: e l’uno è inutile senza l’altra» [Wildavsky 1992, 231]. Rimuovere questo dato può solo ostacolare il franco riconoscimento delle poste in gioco e il libero dispiegarsi delle diverse strategie. Ad accomunare molti fallimenti della policy analysis tradizionale è infatti la sistematica incomprensione della sua implicita dimensione politica. A questo punto occorre segnalare il rischio che queste affermazioni siano confuse con quella visione della politica assoluta che nel primo capitolo abbiamo attribuito alla cultura politica italiana. Sarebbe un grave errore. Innanzi tutto, il potere cui fanno riferimento le teorie pluraliste può essere descritto utilizzando la metafora del gioco. Più che a una pistola carica – un argomento persuasivo in LA «POLICY INQUIRY» molte circostanze –, le risorse di policy somigliano all’asso di un mazzo di carte: può valere tutto o niente; dipende dal gioco al quale si gioca. Infatti le interazioni attraverso cui le persone cercano di controllarsi a vicenda avvengono in un contesto di regole molto precise, siano queste fissate dagli articoli di una costituzione, dalle leggi morali, o dalle convenzioni sociali: «Le regole del gioco determinano i requisiti per il successo. Risorse sufficienti per il successo in un gioco possono essere del tutto inadeguate in un altro» [Schattschneider 1960, 48]. Pertanto, le strategie sono sensibili al contesto, e non esistono risorse che garantiscano sempre gli stessi risultati in tutti i settori di policy: «Anche per capire la forza di un potente policy maker, occorre cominciare a marcare i limiti dei suoi specifici poteri» [Majone 1989, 75]. In secondo luogo, il numero dei tavoli da gioco è molto alto, e teoricamente sempre espandibile: ogni problema di policy aggrega i suoi contendenti, le sue regole, le sue risorse, che sono comunque delimitate e ridefinite nel passaggio dall’una all’altra arena. In terzo luogo, ai giochi partecipano migliaia di persone: non solo i policy makers, ma anche i destinatari, i comuni cittadini, che con le loro reazioni possono collaborare alla riuscita di una politica, o determinarne il fallimento. Questo dato toglie significato a molte delle tradizionali questioni circa le responsabilità ultime nelle scelte di policy: La gente comune, i funzionari e gli intellettuali sembrano tutti desiderosi di assegnare colpe, errori, responsabilità. E pertanto si pongono domande del tipo «Chi l’ha fatto?» «Chi ha preso la decisione?» «A chi è venuta l’idea?». Nella soluzione dei problemi sociali, questi sono interrogativi assurdi perché, qualunque sia l’esito, questo deriva da complesse interazioni tra innumerevoli partecipanti dotati di influenza, per la maggior parte molto distanti dal luogo e dal tempo della decisione [Lindblom 1990, 5]. Infine, le risorse non hanno un andamento top-down, dall’alto verso il basso, ma possono saltare fuori da tutte le direzioni, grazie all’abilità di policy entrepreneurs dotati di inventiva e capaci di sfruttare le circostanze. La conclusione non può che essere molto lontana da una concezione del potere di tipo olistico: Che sia esercitato attraverso la persuasione, lo scambio o l’autorità, nel policy making il controllo nel gioco del potere muove da tutte le direzioni. Anziché essere inquadrati in un ordine gerarchico pervasivo, dove il controllo discende solo dall’alto al basso, tutti i partecipanti si controllano l’un l’altro usando le gerarchie dall’alto al basso, dal basso all’alto e attraverso ogni livello, con un controllo reciproco tra gli uni e gli altri, e con un conseguente accomodament o reciproco degli uni agli altri [Lindblom 1980, 54]. 245 246 CAPITOLO 4 4.2.2. Due stili alternativi Le differenze tra lo stile basato sull’interazione e quello incentrato sulla ponderazione 46, tipico dell’analisi razionale, sono riassunte da Wildavsky nei termini riportati dalla tabella 4.1. Come si vede, non si tratta di differenze fra tecniche, ma tra visioni della sfera pubblica: «Il conflitto tra interazione sociale e ponderazione intellettuale coinvolge diversità di psicologie (espressione o controllo), di stili cognitivi (adattamento o anticipazione), di processi politici (contrattazione o gerarchia) e di legittimità morale (l’individuale o il collettivo)» [Wildavsky 1992, 11]. Espressioni quali partisan mutual adjustment (aggiustamento reciproco tra interessi di parte) o muddling through (sapersela cavare) [Lindblom 1959] stanno tutti ad indicare che quel che avviene tra policy makers è qualcosa che ha poco a che vedere con la soluzione razionale di problemi: si cerca di andarcene fuori, si fanno degli aggiustamenti, si mercanteggia, si bada a non scontentare nessuno; insomma, si portano avanti delle interazioni in modo spesso confuso, circolare, approssimativo. La superiorità di questi processi si basa sulla constatazione che i vari attori pervengono a soluzioni più soddisfacenti e meno rischiose proprio ponendosi in un’ottica di rivendicazione dei propri interessi di parte47, anziché mirare alla realizzazione dell’interesse generale: «Se esiste un bene comune, può emergere solo da un processo sperimentale48 multiplo e pluralista» [Lindblom 1990, 255]. L’espressione «aggiustamento reciproco tra interessi di parte», come altre usate da questi autori, con la sua ruvidezza intende forzare la riflessione sui pregiudizi che rendono a prima vista repellente una tale prospettiva. Perché partigiano. Secondo Lindblom, Tutti i partecipanti nell’interazione politica per certi versi giocano ruoli partigiani. Ogni partecipante sostiene un punto di vista, una serie di interessi. In questo senso, il singolo elettore risulta essere un partigiano. Lo stesso vale per il legislatore, per il funzionario amministrativo e, naturalmente, per il leader di un gruppo d’interesse. Definirli partigiani non significa che essi siano tutti ugualmente gretti nelle loro opinioni o egualmente preoccupati per i loro propri interessi, in opposizione a quelli più ampi [Lindblom 1980, 31]. Piuttosto, riconoscendo questa intrinseca caratteristica degli attori, l’analista rinuncia all’irrealizzabile obiettivo di trascendere gli interessi 46 Cogitation nel vocabolario di Wildavsky, analysis in quello di Lindblom. In inglese, partisan, termine che troveremo tra poco in un’altra accezione, quella di partitico, cioè riferito a un partito politico. 48 Probing, un altro termine strategico nel lessico pragmatico. 47 LA «POLICY INQUIRY» di parte, e impara a contenerne gli effetti col bilanciare quelli degli uni con quelli degli altri [Fox 1990]. L’interazione tra attori partigiani è una garanzia anche per l’effettiva implementazione degli accordi, che in questo modo risultano basati su una più realistica e disincatata anticipazione delle conseguenze cui daranno luogo, dato che è interesse degli attori costruire scenari solidi. Perché reciproco. Come ricorda Easton, già nell’elaborazione di Merriam era ricorrente l’idea che la negoziazione e il compromesso che stanno alla base del processo democratico abbiano un fondamento non solo pragmatico, ma anche normativo: «Si tratta di un ordine etico in cui nessun membro è così intransigente da rifiutarsi di fare qualche concessione e di compromettere qualcosa per la salvezza della pace dell’ordine elementare» [Easton 1953, 325 trad. it.]. Il riconoscimento dell’importanza dello scambio, del prendere e dare, così impopolari nell’opinione comune, si basa su due ordini di considerazioni. In primo luogo, la policy analysis non ha né deve avere strumenti per risolvere i conflitti di valori o di interessi, e nemmeno per coordinarli 49. Inoltre, solo attori interessati ad «andarcene fuori» possono esplorare gli infiniti risvolti di una situazione problematica per arrivare a mettere insieme una proposta decente: «I programmi sono soluzioni, le soluzioni sono compromessi, e i compromessi sono più spesso fattibili anziché ottimali, soddisfacenti anziché perfetti, tollerabili anziché desiderabili» [Wildavsky 1992, 392]. TAB. 4.1. Stili alternativi di analisi delle politiche Interazione sociale Ponderazione intellettuale Istituzioni Calcoli Calcolatori Mercati e politica Parziali Molte menti che interagiscono Processo decisionale Errore Criteri Amministrazione Scambio e contrattazione Correzione L’accordo Per reazioni Pianificazione Onnicomprensivi Decisione onnicomprensiva di una mente unitaria Inclusione e decisione Prevenzione Il bene Per ordini Fonte: Wildavsky [1992, 123]. 49 132]. «Coordinamento è diventato un equivalente di coercizione» [Wildavsky 1992, 247 Perché aggiustamento. Gli autori cui facciamo riferimento in questo paragrafo pongono una cura quasi maniacale nel ridimensionare le aspettative sulla qualità degli esiti raggiungibili per questa strada, che per altro considerano l’unica percorribile: «Anziché proporsi “soluzio- 248 CAPITOLO 4 ni” che possano essere giudicate con gli standard della razionalità, il policy making persegue accomodamenti, riconciliazioni, aggiustamenti e accordi che possono essere valutati solo provvisoriamente alla luce di standard quali l’onestà, l’accettabilità, l’apertura alla riconsiderazione e la rispondenza a una varietà di interessi» [Lindblom 1980, 122]. Nella stragrande maggioranza dei casi, gli aggiustamenti non rimuovono i conflitti; sono fragili e provvisori; hanno un basso profilo; non eliminano i problemi, ma piuttosto li aggirano: «Le procedure decisionali che coinvolgono più persone [...] raggiungono qualche successo perché sono collocate in un sistema di attenzione limitata. Se ognuno potesse seguire tutto, e lo facesse, crescerebbero le occasioni per conflitti implacabili, e pertanto fallirebbero le procedure che mirano a scelte accettabili» [March 1994, 230]. Tanta insistenza nel sottolineare i limiti si giustifica come bilanciamento della radicata tendenza a coltivare aspettative irrealistiche verso gli atti dei governi e a sovrastimarne la portata. Infatti «questa prospettiva è in aperto contrasto con le immagini popolari del governare, immagini che presuppongono un comportamento finalizzato, razionale, ben informato da parte degli individui, delle gerarchie e del sistema politico nel suo complesso» [Lynn 1987, 27]. 4.2.3. La ridefinizione dell’intervento professionale Quel che l’analista «non» deve fare: un impegno in negativo. In primo luogo, all’analista è richiesta la rinuncia a qualunque tentazione di farsi interprete delle «autentiche» preferenze altrui: «Le politiche giuste sono quelle che emergono dai processi giusti, e i processi giusti sono quelli in cui i cittadini scelgono per se stessi, non importa quanto stupidamente» [Lindblom 1980, 123]. Del resto, questo marchio di stupidità viene spesso assegnato con una disinvoltura sospetta: «Quando si presenta il problema se è la gente che non capisce quel che sta facendo, o se siamo noi scienziati sociali che non capiamo la gente, sono propenso a pensare che siamo noi a sbagliare» [Wildavsky 1987, 8]50. Anche chi ritiene che il suo curriculum di ricercatore gli dia una speciale investitura per interpretare il bene comune, molto spesso in realtà non fa che contrapporre la sua visione del mondo a quella dei concorrenti: «Anche se gli scienziati sociali riescono a evitare i giudizi prematuri, le visioni ristrette, le difese avventate ed errori del genere, tuttavia non possono evitare ruoli fondamentalmente partigiani, per quanto informati e meditati» [Lindblom 1990, 261]. 50 Il problema non è limitato alle scienze sociali, se Beer chiude la sua ricerca sull’intelligenza come comportamento adattivo con questa citazione: «In genere gli studiosi ritengono di essere più intelligenti della selezione naturale. In genere sono in errore» [cit. da Beer 1990, 171]. LA «POLICY INQUIRY» Ma questo dato, lungi dal costituire un limite, è un’ammissione fondamentale perché l’analisi possa partire in modo corretto. Infatti il prevalere di interessi ristretti e miopi non è l’inevitabile risultato dell’interazione, ma è piuttosto l’esito delle pretese dirigistiche che si manifestano discriminando gli attori ammessi al gioco, censurando le loro opzioni, soffocando il confronto con procedure rigide, bloccando l’apprendimento. Rispetto a questo pericolo, chi interviene nel policy making con un ruolo prescrittivo deve innanzi tutto individuare e aggirare gli ostacoli che impediscono il pieno riconoscimento di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli dell’analista, e il loro diritto ad avere voce [Hirshman 1970]. Il ruolo della ricerca sociale. In questa prospettiva, la ricerca sociale non risulta eliminata dal gioco. Sia Lindblom sia Wildavsky ammettono il rischio che le interazioni possano essere condizionate, distorte o sbilanciate da informazioni sbagliate o da visioni troppo rozze dei processi sociali. Entrambi riconoscono una ineliminabile tensione tra gioco degli interessi e ponderazione intellettuale, tra politica e pianificazione, tensione in cui l’analista può inserirsi con effetti decisamente positivi per la qualità delle negoziazioni. Ma con due precise limitazioni. Innanzi tutto, deve sapere che il suo contributo si colloca allo stesso livello di tutte le altre risorse che gli attori possono mettere in campo per rafforzare le proprie posizioni: «Ritengo che ci siano maggiori speranze di buone politiche nelle contestazioni tra partecipanti partigiani, ciascuno aiutato dalle scienze sociali, che in un policy making condotto da un singolo decisore, inevitabilmente partigiano, falsamente percepito o ritenuto per definizione al di sopra delle parti» [Lindblom 1990, 265]. In secondo luogo, l’obiettivo ultimo dell’analista non deve essere l’umiliazione dell’interazione, ma il suo rafforzamento: Ciò che serve è l’informazione che facilita la negoziazione di un compromesso, non quella che può essere irreggimentata in una regola decisionale [Cronbach et al. 1980, 116]. La mia preferenza per l’interazione rispetto alla ponderazione, per più richieste e meno raccomandazioni, per la politica rispetto alla programmazione, non intende proteggere l’interazione da ogni verifica come se fosse un dogma. Al contrario, lo scetticismo deve riguardare specialmente l’interazione: come si sviluppa, che cosa la sostiene, perché genera risultati, quali distorsioni provoca, basate sulla classe o sull’ideologia, quando occorre cambiarla, proprio perché abbiamo cominciato a farci troppo conto. In altre parole, compito principale di una ponderazione intellettuale responsabile è monitorare, verificare, modificare, ma comunque rafforzare l’interazione sociale [...]. La più alta forma di analisi è usare l’intelletto per aiutare l’interazione tra la gente. Dunque, l’analisi delle politiche si occupa delle relazioni tra la gente [Wildavsky 1992, 12 e 17]. 249 250 CAPITOLO 4 Wildavsky dà anche la ricetta del suo cocktail preferito: due terzi di interazione e un terzo di ponderazione. E tuttavia il problema dell’equilibrio tra queste due contrastanti esigenze difficilmente può trovare soluzione in una formula. Gli autori che abbiamo citato in questo paragrafo sono del resto consapevoli del fatto che il comportamentalismo, se da un lato ha permesso di smantellare molte mitologie sul modo in cui sono adottate le politiche pubbliche, dall’altro intrappola la questione del rapporto tra interazione e ponderazione in una serie di dicotomie da cui è difficile uscire, se non abbandonando le coordinate del piano a, scelta che del resto molti di loro hanno fatto nelle opere più recenti. L’intervento in positivo: la valorizzazione dei «networks». Coerentemente con l’originaria impostazione pluralista, la policy inquiry fa sua l’ipotesi che nelle nostre società aperte gli interessi sensibili a un problema tendano a disporsi l’uno accanto o contro l’altro senza ricalcare un disegno regolare, ma stabilendo delle relazioni che variano a seconda delle questioni sul tappeto e delle caratteristiche degli attori [Schön 1971, 91]. L’immagine della rete, con il suo intreccio di relazioni intessute intorno a una politica pubblica, è divenuta la metafora più utilizzata per rappresentare questa idea: Le politiche pubbliche sono formulate in misura crescente in infrastrutture politiche informali, al di fuori di canali convenzionali quali le organizzazioni legislative, esecutive e amministrative. Gli attuali processi di policy emergono da complesse costellazioni di attori e da interdipendenze delle risorse, e le decisioni sono spesso prese in modo molto decentralizzato e informale [Kenis e Schneider 1991, 27]. Le reti organizzative forniscono un meccanismo per esplorare le interconnessioni tra i problemi così come sono percepiti dai diversi interessi, e un contesto per pensare alle strade per arrivare a soluzioni reciprocamente accettabili. Le reti organizzative facilitano l’emergere di frames di riferimento condivisi e di mezzi per gestire le aree di conflitto; ma non presuppongono un’identità di vedute o un consenso completo [Metcalfe 1978, 51]. Ritorneremo su questa metafora nel prossimo capitolo, per valutare le sue valenze descrittive. In termini propositivi, i networks sono un punto di riferimento essenziale per l’intervento dell’analista, che deve imparare a riconoscerli e a non temerli: anzi, suo obiettivo è portarli allo scoperto e valorizzarli, facendo la spola tra le diverse maglie della rete, evitando sia i buchi sia i grovigli. Fuor di metafora, suo compito è contribuire al processo di disvelamento e di confronto tra gli interessi in gioco, evitando il ricorso a strategie miopi basate sull’esclusione o sulla deformazione delle preferenze altrui51. In autori quali Lindblom 51 Nel 1990, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un Negotiated Rule- LA «POLICY INQUIRY» o Wildavsky, la fiducia nell’aggiustamento reciproco si accompagna infatti a una vigorosa denuncia della diseguaglianza dei diversi gruppi sociali nella distribuzione delle risorse e dei diritti di accesso52. In particolare, la posizione predominante che le imprese detengono nel mercato è destinata a ripercuotersi anche sul policy making, alterando drammaticamente le potenzialità d’intervento e di controllo per i cittadini comuni. 4.3. L’incrementalismo sconnesso Il carattere processuale delle politiche pubbliche suggerisce due indicazioni per l’analisi: la centralità dell’implementazione e la continuità dei percorsi, in genere aperti solo a modifiche incrementali. 4.3.1. L’implementazione come momento della verità Vedere le politiche pubbliche come processi significa innanzi tutto sostenere che la loro identità si manifesta solo quando le parole – che in genere costano poco – provano a trasformarsi in azioni convergenti intraprese da migliaia o milioni di persone [Lindblom 1959, 86; Simon 1966, 19; March e Olsen 1976]. A differenza di una sinfonia, che esiste indipendentemente dalla sua esecuzione, grazie a una serie di rigide convenzioni basate sull’acustica (come è noto, Beethoven era sordo), le politiche pubbliche non hanno un significato in sé, ma soltanto per come sono attuate: La tesi è che non c’è politica pubblica finché l’azione dei governi non produce conseguenze che sono percepite dai vari pubblici e che sono da loro considerate significative [Lynn 1987, 31]. L’implementazione assume la massima priorità perché è uno dei problemi più difficili che gli umani si trovano ad affrontare [...]. Le scienze cosiddette «dure» sono facili da un punto di vista gestionale, perché non devono making Act che prevede forme di negoziazione preliminare grazie alle quali gli interessi coinvolti nella regolazione di un settore e i rappresentanti dell’agenzia competente avviano una serie di contrattazioni nella fase precedente la stesura delle norme: «Il gruppo si incontra con un mediatore o facilitatore. Le parti coinvolte nel negoziato raggiungono le intese attraverso la valutazione delle proprie priorità e lo scambio di condizioni. L’intero processo permette quel negoziato informale che non potrebbe mai verificarsi in tribunale» [«National Performance Review» 1993, 170 trad. it.]. 52 Forse è proprio la passione con cui tali aspetti sono sottolineati ad aver indotto alcuni autori, tra cui Sola [1996], ad accostare Lindblom ai politologi neostatalisti marxisti, benché Lindblom stesso scriva che «il liberalismo classico del XIX secolo è la mia prigione» [Lindblom 1990, x]. 251 252 CAPITOLO 4 lottare faccia a faccia con il problema più difficile di tutti: come cambiare la gente e le istituzioni umane [...]. La «verità» è il risultato/esito della conoscenza che è raggiunta attraverso l’implementazione «riuscita» di una soluzione etica proposta per un problema significativo per il mondo. In altre parole, la verità non può essere separata dal processo della sua implementazione. Lo ripetiamo: la «verità» è la conoscenza che si acquisisce attraverso il processo di implementazione [Churchman e Mitroff 1998, 117]. Per il pragmatico, dio è l’implementatore supremo [Churchman e Mitroff 1998]. Questa prospettiva ribalta l’euristica per stadi su cui si regge l’analisi razionale, dato che i contorni del problema non possono essere stabiliti una volta per tutte all’inizio del processo, ma cambiano continuamente, a mano a mano che ci si inoltra lungo la strada dell’attuazione delle soluzioni: Il modello del piano53 riconosce che l’implementazione può fallire perché il piano originario non era fattibile. Ma non riconosce un dato fondamentale: molti vincoli, probabilmente la maggior parte, rimangono nascosti allo stadio della progettazione e possono essere scoperti solo nel processo di implementazione. Inoltre, le condizioni di fattibilità continuano a cambiare nel tempo: vecchi vincoli vengono meno o sono superati (ad esempio, attraverso l’apprendimento), mentre ne emergono di nuovi [...]. Le politiche sono continuamente trasformate dalle azioni che le implementano, perché queste modificano simultaneamente tanto le risorse quanto gli obiettivi [Majone e Wildavsky 1979, 168 e 170]. Così come non esiste il vero profilo di una montagna, dato che la sua immagine cambia continuamente ad ogni spostamento dell’osservatore, allo stesso modo non ha senso appellarsi al significato originario delle politiche pubbliche, che sono comunque «interpretazioni di seconda mano» [Lynn 1987, 17]. Pertanto, è solo il fitto reticolo di contatti, di scambi, e anche di intralci che viene intessuto intorno a una politica pubblica a darle consistenza, tanto attraverso la conformità, quanto attraverso l’abbandono del progetto iniziale [Hjern e Porter 1981; Hjern e Hull 1982; Patton 1990]. L’importanza degli scostamenti dal progetto. La visione dell’implementazione «da sotto in su», anziché dall’alto al basso, toglie fondamento all’esigenza che i programmi siano fedelmente eseguiti, per ammettere invece la normalità e persino la validità degli scostamenti. Per quanto riguarda la normalità, una delle opere decisive per il decollo degli studi di policy negli Stati Uniti, Implementation, di Pressman e Wildavsky [1973], ha per sottotitolo: «Come le grandi aspettative a Washington sono infrante a Oakland; ovvero, perché sarebbe sorprendente che i programmi federali funzionassero veramente, in 53 Cioè l’analisi razionale delle politiche. LA «POLICY INQUIRY» questa saga dell’amministrazione dello sviluppo economico raccontata da due osservatori simpatetici, che cercano di costruire una morale su una base di speranze crollate». Ma fin qui, siamo ancora in un tipo di constatazioni conciliabili con un approccio top-down, perché la soluzione contro i fallimenti dell’implementazione può anche essere: rendere gli obiettivi più chiari e mettere dei paletti più solidi, cioè rafforzare gli aspetti vincolanti del programma, riducendo il numero e l’influenza degli implementatori e prevedendo penalizzazioni per gli inadempienti. In effetti, tale è ancora l’impostazione prevalente in questo primo, pionieristico studio di Pressman e Wildavsky sulla creazione di opportunità di lavoro per le minoranze etniche in un centro della California sconvolto da duri scontri razziali54. Come abbiamo visto, anche l’analisi razionale delle politiche e il public management possono fare propria questa impostazione. Vero è che l’irrigidimento dei programmi rischia di essere costoso e inefficace, dato che spesso andare avanti a forza di controlli e sanzioni è più difficile che andare avanti con il consenso: alla fine, non si può mandare un carabiniere in ogni casa. E tuttavia l’approccio bottom-up non si limita a sottolineare tali problemi: il capovolgimento di prospettiva non è una resa ai ritardi e alle inadempienze che in genere caratterizzano l’esecuzione di un qualunque programma complesso. L’impostazione è diversa: alla base c’è l’idea che l’implementazione è una vera e propria sperimentazione in cui gli attori procedono alla verifica delle ipotesi che «tengono», come in uno sconfinato laboratorio scientifico: «L’implementazione di una politica è la prova di un’ipotesi, è esplorazione. Ogni entità politica che sostiene il contrario considera se stessa onnisciente e onnipotente» [Browne e Wildavsky 1984, 254]. Del resto, nel Dewey [1938, 508] scriveva: «Ogni iniziativa di policy messa in atto ha logicamente, e deve avere effettivamente, la natura di un esperimento». Pertanto, la forbice che si apre tra intenzioni e realizzazioni ha ben altra dignità analitica di un semplice elenco di inadempienze; lo scostamento non solo è normale, ma è una fonte di dati indispensabile per capire come i destinatari vivono i problemi che hanno dato origine a una politica: All’interno di questo processo, è impossibile separare nettamente la formazione di una politica dalla sua implementazione. Quando hanno come esito una significativa trasformazione sociale, quelli che consideriamo esempi di implementazione locale di una politica centrale sono in realtà processi di scoperta sociale locale [...]. Questi processi finiscono inevitabilmente con lo scontrarsi con le richieste di preciso rispetto per quelle specifiche politiche e di uniformità nella loro applicazione [Schön 1971, 146]. 54 Le parti aggiunte nelle edizioni successive collocano il volume decisamente fuori dalla prospettiva top-down. 253 254 CAPITOLO 4 Il policy making diviene così un processo di «mappatura a ritroso» [Elmore 1982] la cui logica in genere emerge solo retrospettivamente. Le ipotesi che hanno superato la selezione durante la discussione di un provvedimento, e che hanno guadagnato l’approvazione formale, vedono sensibilmente ridimensionato il privilegio che viene loro assegnato dall’approccio top-down. Gli interessi usciti perdenti dal processo politico, le congetture bocciate dalle maggioranze di governo, i pericoli su cui si è preferito sorvolare, possono prendersi in questa fase la loro rivincita e influenzare profondamente l’attività degli implementatori [Nakamura e Smallwood 1980]. Del resto, le vischiosità con cui si scontrano le innovazioni spesso non sono che la rivalsa di obiettivi e principi che sono stati spintonati via dalla scena politica dalla pressione di eventi drammatici, ma che non per questo hanno perduto significato: «L’implementazion e protegge le intenzioni apprezzate in passato contro le oscillazioni della fortuna politica» [Calista 1994, 119]. Il ribaltamento del rapporto mezzi-fini. Questa impostazione comporta la messa in discussione della gerarchia tra fini e mezzi su cui si regge tutto l’impianto dell’analisi razionale delle politiche: [Il policy making] è un processo di approssimazioni successive a qualche obiettivo desiderato, dove anche ciò che è desiderato è continuamente sottoposto a riconsiderazione [Lindblom 1959, 86]. Noi scopriamo i nostri obiettivi e l’intensità che assegniamo loro solo quando consideriamo politiche o programmi specifici. Articoliamo i nostri fini quando valutiamo i nostri mezzi [Schultze 1968, 38]55. Fini e mezzi sono scelti insieme, e ciò che la vita ha unito, la policy analysis non separi [Wildavsky 1992, 27]. Sulla base di queste tesi, risultano smentite tutte le teorie prescrittive che, a partire dal Progressive Movement americano di inizio secolo, pongono come obiettivo una rigida distinzione tra ruoli decisionali e ruoli amministrativi: «L’idea che i decisori esercitino, o debbano esercitare, qualche diretto e determinante controllo sull’implementazione può essere definita la “nobile bugia” della pubblica amministrazione e della policy analysis convenzionali» [Elmore 1982, 20]56. L’impossibilità di tirare una riga netta tra ruoli decisionali e ruoli esecutivi ha avuto effetti devastanti anche su quelle teorie normative 55 Questa ammissione è tanto più importante in quanto proviene da uno dei principali fautori del PPBS. 56 Come sottolinea James Wilson [1989, 241], con riferimento alla scienza politica americana: «Gli scienziati politici non mancano mai di ricordare ai loro studenti, il primo giorno di lezione, che in questa nazione non esiste una chiara distinzione tra policy e amministrazione». LA «POLICY INQUIRY» della democrazia che hanno fatto di questa dicotomia il loro fulcro: «Le indagini sul comportamento amministrativo mostravano che i conflitti sulle politiche da adottare continuavano imperturbabili negli uffici e nei ministeri. Gli amministratori prendevano importanti decisioni che influivano profondamente sulla vita della gente [...]. L’evidente discrezionalità amministrativa faceva violenza alla teoria democratica» [Wildavsky 1992, 223-224]. Le implicazioni di un simile approccio sul piano prescrittivo sono di due tipi. La prima riguarda la ridefinizione del concetto stesso di implementazione. La seconda riguarda la natura strategica dei dilemmi che si aprono nel policy making, conteso tra due letture alternative, una in termini di riprogettazione, e una in termini di implementazione. L’implementazione oltre l’euristica per stadi. È ormai un luogo comune la tendenza a contenere la portata dirompente della prospettiva «da sotto in su» con una serie di giudiziose affermazioni circa la necessità di trovare una qualche integrazione tra l’impostazione top-down e quella bottom-up. Come avremo modo di vedere, questo proposito può assumere valenze molto diverse nei diversi approcci in cui si articola lo studio delle politiche pubbliche. All’interno della policy inquiry, il problema non è trovare una prudente posizione mediana, bensì utilizzare la tensione tra queste due prospettive per rileggere in termini nuovi la stessa scansione in fasi su cui si regge l’impianto dell’analisi razionale. Infatti la distinzione tra progettazione e implementazione postulata dalla ARP ha sospette analogie con la tradizionale distinzione tra scelta politica e amministrazione. Entrambe queste dicotomie ruotano intorno alla necessità di tirare una riga netta tra quello che succede «prima», quando si tratta di discutere e di approvare un provvedimento, e quello che succede «dopo», quando le linee di intervento sono definite, ma occorre procedere alla loro concreta traduzione in atti amministrativi. Rispetto a questa distinzione, la policy inquiry propone una lettura dell’intero processo di produzione delle politiche pubbliche come costantemente traversato dalla tensione tra due campi gravitazionali: da una parte, sta il peso dell’esistente, ancorato al passato da fittissime radici; dall’altra, sta la percezione della sua insostenibilità e della legittimità del cambiamento. Queste due prospettive sono destinate a rincorrersi lungo tutto il ciclo di vita di una politica pubblica, generando punti di equilibrio comunque precari: «Lo spazio per le soluzioni subisce continue trasformazioni, restringendosi da un lato, e allargandosi dall’altro. Così la mano sinistra dell’implementatore deve sondare continuamente il confine della fattibilità, mentre la sua mano destra cerca di tenere insieme le varie componenti del programma» [Majone e Wildavsky 1979, 166]. Lo stesso Elmore, alcuni anni dopo aver formulato la sua teoria sull’implementazione come «mappatura a ritroso» [1982], sottolinea 255 256 CAPITOLO 4 come le politiche pubbliche procedano intrecciando una prospettiva in avanti e una all’indietro, lo slancio progettuale e la dura prova della verifica sul campo. Infatti «una politica è sia una presa di posizione autorevole su ciò che dovrebbe accadere, sia un giudizio calcolato su ciò che davvero accadrà» [Elmore 1985, 38]. 4.3.2. L’implementazione come esercizio di cittadinanza Se «l’implementazione è la continuazione della politica (politics) con altri mezzi» [Bardach 1979, 85], il confronto per la chiarificazione dei problemi di policy non si esaurisce nella fase della decisione formale, ma continua nelle interazioni che avvengono tra impiegati delle amministrazioni, destinatari, esperti, magistrati, giornalisti, rappresentanti delle organizzazioni [Lynn 1987]. Se è vero che queste rinegoziazioni non sono protette dalle garanzie formali che tutelano il decision making istituzionale, è vero anche che in esse circola un patrimonio fatto di conoscenze dirette e concrete delle situazioni, di curiosità e di passioni, che costituiscono una componente della democrazia altrettanto importante dell’esercizio dei diritti politici costituzionalmente tutelati. Vincent Ostrom non esita a riconoscere ai cittadini impegnati nella concreta definizione delle modalità per il «recapito» delle politiche pubbliche la stessa dignità di cui godono i membri di un’assemblea costituente. In questa prospettiva, infatti, il patto costituzionale fondato sul bilanciamento dei poteri non è un evento storico chiuso, ma è una formula che esige una continua riconferma nella pratica gestione delle politiche pubbliche: La gente che agisce collettivamente esercita le fondamentali prerogative del processo decisionale costituzionale rispetto alle diverse collettività a cui prende parte [...]. Un processo fatto di inquiry, di contraddittorio, di dibattito e di deliberazione modella decisioni che sono sottoposte a revisione e riconsiderazione in modo che nessun interesse essenziale sia ignorato [Ostrom 1977, 1517]. Tracce di questa impostazione emergono nel Rapporto Gore del 1993, laddove riconosce l’esercizio del potere di controllo sull’implementazione come una componente essenziale dei diritti politici: Tutti gli americani sono cittadini, quasi tutti sono anche clienti – del servizio postale, del servizio per la sicurezza sociale, del servizio per i veterani, del servizio dei parchi nazionali e di una marea di altre organizzazioni federali. In democrazia contano entrambi, cittadini e clienti. Ma quando votano, i cittadini hanno raramente la possibilità di influenzare il comportamento delle istituzioni pubbliche che condizionano direttamente la loro esistenza: scuole, ospedali, uffici della sicurezza sociale [«National Performance Review» 1993, 35 trad. it.]. LA «POLICY INQUIRY» Questa impostazione comporta indubbiamente un ridimensionamento del vincolo costituito dalle decisioni formali, siano queste una legge, una sentenza, un contratto. Innanzi tutto, la loro pretesa di valere come codici buoni per tutte le occasioni è insostenibile sulla base delle innumerevoli evidenze empiriche di segno opposto, dato che «non c’è modo di capire in anticipo tutti i vincoli e le risorse rilevanti. Possiamo scoprirli e incorporarli nei nostri piani solo via via che si dispiega il processo di implementazione» [Majone e Wildavsky 1979, 169]. Inoltre, anche i decisori «con la D maiuscola» spesso fanno le loro scelte sotto la pressione di argomenti non proprio universalistici: sono soggetti agli umori dell’opinione pubblica; sono sensibili alle conseguenze delle loro decisioni per le proprie personali carriere; trascurano la coerenza nel tempo delle loro deliberazioni. Il risultato di queste spinte è spesso un confuso insieme di obiettivi generici, privi di indicazioni per la loro concreta realizzazione: «Il mandato vincolante può essere il risultato di forti pressioni sul governo perché “faccia qualcosa” per quello che viene generalmente percepito come un urgente problema sociale, benché nessuno sappia che cosa si debba o si possa fare» [Bardach 1979, 90]. Temi quali la prevenzione delle violenze sui bambini, il controllo dei flussi migratori, la limitazione dell’inquinamento atmosferico, suscitano grande interesse nell’opinione pubblica, ma sono anche evidenti dimostrazioni dell’incompletezza dei modelli e della fragilità delle tecnologie con cui arriviamo ad accostarli. Infatti le emozioni – e gli incentivi per i politici a proporre soluzioni – crescono via via che ci si avvicina a quella che Bardach chiama «la feccia dei problemi» [1979, 251]57, cioè a quelle questioni che arrivano nell’arena politica perché nessun’altra istanza le ha sapute trattare: né il mercato, né le famiglie, né le chiese, né le organizzazioni della società civile. A differenza di quanto sostiene l’ARP, queste incongruenze possono essere al massimo contenute, ma non certo eliminate dall’introduzione di massicce dosi di valutazione ex ante: se è vero che «la formulazione del problema è più vicina alla fine che all’inizio dell’analisi» [Wildavsky 1992, 3], i criteri di riferimento per un intervento di tipo prescrittivo cambiano completamente indirizzo: «Il lavoro del metodologo per la società che sperimenta non è dire ciò che deve essere fatto, ma che cosa è stato fatto» [Campbell 1998, 44]. Prima di continuare, occorre ammettere che seguire la policy inquiry su questo terreno non è semplice, soprattutto per chi proviene da una cultura politica come quella italiana, profondamente marcata dal linguaggio del diritto e dall’aspirazione a quella che Pizzorno chiama «la politica assoluta». Alcuni autori danno una lettura in chiave storica 57 Evidentemente non in senso spregiativo. 257 258 CAPITOLO 4 della disinvoltura con cui sono trattati i vincoli normativi formali dagli studiosi americani di politiche pubbliche: «Occorre ricordare che per centocinquant’anni noi abbiamo avuto un paese senza avere una costituzione» [Mathews 1994, 100]. Sul piano analitico, il fatto di assegnare la stessa dignità civile alle scelte nella fase della formazione e a quelle nella fase dell’implementazione non è che la logica e inevitabile estensione di quell’interpretazione pluralista della democrazia discussa nel paragrafo precedente. Infatti, nell’attuazione delle politiche pubbliche, l’aggiustamento reciproco tra interessi di parte è sia il problema, sia la soluzione: Gli implementatori devono sempre fare i conti con le conseguenze: non possono imporsi, perché una politica coerente è destinata a scontentare qualcuno. Avendo a che fare con aspettative tra loro in conflitto, gli implementatori giocano a un gioco che non possono vincere [Browne e Wildavsky 1984, 244]. La discrezionalità come risorsa. Una volta ridimensionato il valore dei documenti vincolanti come parametro rispetto al quale giudicare i risultati dell’implementazione, gli stessi concetti di successo o di fallimento di una politica pubblica tendono a presentarsi sotto tutt’altra luce. Infatti «le politiche possono essere “buone”, “riuscite” o “razionali” solo a posteriori, nella misura in cui risultano adattate alle condizioni prevalenti e adottate dall’ambiente politico» [Majone 1978, 175]58. Se per l’analisi razionale delle politiche l’apertura di una forbice tra il disegno originario e l’implementazione è il segno certo di un errore, o nella progettazione o nell’attuazione, per la policy inquiry questa conclusione è tutt’altro che scontata: «A meno che non si voglia credere che le politiche saltino fuori armate di tutto punto dalla fronte di un policy maker onnisciente, la discrezionalità è sia inevitabile sia necessaria [...]. Occorre affidarsi più all’apprendimento e all’inventiva che alle istruzioni e al comando» [Majone e Wildavsky 1979, 175]. Per certi versi, la capacità degli attori di usare le decisioni ufficiali per fare quello che sta davvero loro a cuore è una prova della vitalità delle interazioni aggregate intorno a una politica pubblica, non della loro aberrazione. Dopo lo studio dell’implementazion e di un programma federale per migliorare il sistema scolastico americano, Milbrey McLaughlin conclude: Dove ha avuto successo, e dove sono significativamente cambiati gli atteggiamenti dei partecipanti, le loro competenze, i loro comportamenti, l’implementazione è stata caratterizzata da un processo di adattamento reciproco 58 La numerazione delle pagine si riferisce alla ristampa del 1980. LA «POLICY INQUIRY» in cui gli obiettivi e i metodi del progetto sono cambiati per andare incontro ai bisogni e agli interessi del personale locale, e quest’ultimo è cambiato per rispondere alle esigenze del progetto. Questa conclusione vale anche per i progetti ad alto contenuto tecnico e ben specificati già dall’inizio; dove non sono stati fatti aggiustamenti rispetto ai piani e alle tecnologie iniziali, l’implementazione tende ad essere superficiale o simbolica, e non si riscontrano cambiamenti significativi tra i partecipanti [1976, 349]. In una delle indicazioni più contestate dai fautori dell’approccio top-down, Elmore raccomanda di «capitalizzare la discrezionalità quale risorsa per migliorare l’affidabilità e l’efficacia delle politiche a livello di strada» [1982, 26]59. Infatti una società democratica può fare affidamento sulla ragionevolezza e sulla competenza acquisita «sul campo» dai cittadini per sciogliere i problemi interpretativi posti dalle situazioni che si presentano giorno dopo giorno. Del resto, le politiche pubbliche spesso non sono le cause, ma sono le conseguenze di mutamenti già intervenuti nella sensibilità di larghe fasce di destinatari. L’atteggiamento negativo verso il fumo o quello positivo verso forme di convivenza non convenzionali sono stati assecondati, più che anticipati, dalle norme, per altro ancora confuse e poco applicate [Fox 1990]. Se è vero che indicazioni troppo approssimative spianano la strada a uno spostamento dei fini con il quale gruppi di implementatori opportunisti possono trasformare obiettivi di pubblico interesse in proprio personale tornaconto [Mayntz 1983, 129], è altrettanto vero che l’analista può proporsi di controllare questo rischio, ma non di eliminarlo: Il paradigma postburocratico non cerca di chiudere in modo definitivo le controversie intorno alle definizioni generali di concetti quali prodotto, servizio, qualità, validità. Stabilire per legge la precisa definizione di queste categorie – insieme retoriche e analitiche – è probabilmente futile; in ogni caso, quel che conta per i nostri fini è se la gente è in grado di usare bene questi concetti nella pratica, quando formula o delibera con argomenti ad hoc, fatti su misura per valutare e migliorare le prestazioni di una particolare organizzazione [Barzelay 1992, 121]. Benché questa conclusione abbia una salda base empirica nel fatto che, comunque, è difficile ottenere risultati seguendo la direzione opposta, tuttavia dobbiamo spostarci verso il piano , e più precisamente verso il pragmatismo di ispirazione postcomportamentalista, per trovare la cornice teorica più appropriata per la difesa del giudizio «tagliato su misura», caso per caso, rispetto alla determinazione ex ante di criteri e parametri. Ma ritorniamo ora alle indicazioni pratiche più strettamente legate all’approccio bottom-up. 59 Cioè nella fase dell’effettivo recapito ai destinatari. 259 260 CAPITOLO 4 L’opzione a favore della linea del fronte. La logica conseguenza di queste premesse è uno spostamento di attenzione verso quella che Lipsky [1980] ha chiamato la burocrazia a livello di strada, cioè verso gli ultimi anelli della catena del comando, a diretto contatto con le esigenze dei veri destinatari: «Le decisioni dei burocrati a livello di strada, le routine che adottano e i marchingegni che inventano per fronteggiare le incertezze e le pressioni del lavoro, diventano le politiche pubbliche effettivamente attuate» [ibidem, xii]. Dato che sono i rami bassi dell’amministrazione a scontrarsi quotidianamente con le difficoltà create dalle politiche pubbliche, sono loro a non potersi sottrarre a una continua valutazione, sia pure approssimativa: «L’analisi che spera di agevolare l’apprendimento deve considerare l’implementatore come un giocatore cruciale e un agente attivo nel processo di policy [...]. La società che apprende considera l’implementator e come la fonte di nuove informazioni» [Browne e Wildavsky 1984, 256]. La capacità di adattamento alle situazioni locali, la flessibilità, la permeabilità rispetto al contesto sono elementi fondamentali per l’implementazione: e la burocrazia a livello di strada spesso ha dalla sua parte la saggezza della gente della strada, espressione che per la policy inquiry non suona affatto dispregiativa [Maynard-Moody, Musheno e Palumbo 1990]. Come abbiamo visto, queste indicazioni hanno trovato un’autorevole legittimazione nel Rapporto Gore del 1993, in cui si può leggere: I dipendenti pubblici di prima linea, vale a dire coloro che lavorano giornalmente a contatto con i clienti, sono spesso i più adatti ad indicare soluzioni e strategie atte a promuovere il servizio. Giorno dopo giorno, essi sono il punto di riferimento delle più disparate lamentele e delle più ragionevoli richieste; giorno dopo giorno, essi registrano immediatamente la soddisfazione che manifestano i clienti quando le loro aspettative sono soddisfatte. Non vi è dubbio alcuno che, una volta interpellati i clienti per identificare i servizi richiesti, siano poi proprio i front-line workers a poter indicare il modo migliore per fornirli [«National Performance Review» 1993, 371 trad. it.]60. Richiamare l’attenzione sugli ultimi passaggi nel recapito delle politiche pubbliche porta dunque a rivalutare anche l’importanza 60 Questa indicazione si è andata rafforzando nel corso degli anni. In un rapporto del 1997 si può leggere: «Prima di tutto, occorre dare potere alla prima linea. Ma non si può ordinare ai vertici di dare potere alla prima linea ed attendersi che questo accada. Occorre andare personalmente da chi lavora in prima linea per chiedere loro di quanta autorità hanno bisogno per fare meglio il loro lavoro e quali decisioni, tra quelle prese per loro dalla direzione, sono in grado di gestirsi da soli [...]. Dare potere ed energia a chi lavora in prima linea ha ripagato incredibilmente, sia nell’amministrazione sia nelle imprese» («National Performance Review» 1997, 7; http://www. npr.gov/library/papers/bkgrd/blair.html). LA «POLICY INQUIRY» che i destinatari, con le loro risorse, i loro riferimenti simbolici, le loro aspettative, possono avere per il successo di un programma. Come abbiamo visto, considerare i consumatori come coproduttori delle politiche significa ampliare il ventaglio degli strumenti per l’implementazione ben oltre la fornitura di beni e servizi per via burocratica, fino ad ammettere tutte le possibili contaminazioni con l’economia di mercato, compreso l’acquisto di servizi da aziende tra loro in competizione. Gli esperimenti analizzati da Elinor e Vincent Ostrom a partire dai primi anni ’70 dimostravano infatti che soluzioni «a immagine del mercato» erano non solo possibili, ma anche gradite agli utenti, persino in settori tradizionalmente a monopolio pubblico, quali la protezione civile e la difesa dalla criminalità: «La presenza di più produttori di beni pubblici urbani entro una stessa area metropolitana può consentire ai cittadini scelte più efficaci sul mix di servizi che preferiscono ricevere, rispetto al ricorso ai meccanismi del voto e a un produttore unico» [Ostrom 1972, 484; v. anche Ostrom e Ostrom 1978]. L’organizzazione che si autovaluta. Nell’analisi razionale delle politiche, il canone professionale basato sul dualismo tra osservante e osservato e sulla imparzialità della valutazione comporta la netta separazione di ruoli tra policy makers e analisti. Capovolgendo questa impostazione, e considerando gli implementatori come i protagonisti della sperimentazione delle politiche pubbliche, la policy inquiry riduce sensibilmente la distanza che separa la valutazione dall’implementazione: «Nel bene e nel male, i partecipanti al processo di policy agiscono nello stesso tempo come valutatori dei programmi che implementano e come implementatori dei programmi che valutano, senza una chiara consapevolezza di queste distinzioni analitiche: ed è giusto che sia così» [Browne e Wildavsky 1984, 202]. Se l’esercizio della valutazione è nei fatti un atto di sostegno a una determinata linea di policy, e come tale è attraversato da tutte quelle tensioni che si verificano quando sono in gioco complicate relazioni sociali e impliciti conflitti di potere, spostare tutta all’esterno la responsabilità del processo, inseguendo l’ideale di un tribunale al di sopra delle parti, serve solo a rimuovere e a oscurare questi problemi: «La valutazione non dovrebbe rimanere separata dall’organizzazione dalla quale dipende per l’implementazione. Il disegno organizzativo e l’analisi delle politiche sono parte dello stesso processo di governo» [Wildavsky 1992, 231]. Come abbiamo visto, la stessa architettura della pubblica amministrazione americana tende oggi a essere ridefinita accorciando il più possibile le distanze tra valutati e valutatori, anche attraverso un drastico sfoltimento di tutte quelle strutture appositamente create per espletare procedure standardizzate di controllo. Tra le linee guida della riforma figura infatti l’obiettivo di eliminare «i troppi esperti in arcane rego- 261 262 CAPITOLO 4 le di bilancio, personale, acquisto e finanza» e di «ridurre il controllo di gestione» [National Performance Review 1993, 44 e 334 trad. it.]61. Naturalmente questo non significa che l’analista esterno – funzionario pubblico o consulente privato – non abbia spazio per svolgere il suo ruolo professionale. Ma se l’obiettivo è quello di rendere capace di autovalutazione un’organizzazione che ha un proprio ruolo nel policy making, lo stile dell’intervento cambia profondamente. Innanzi tutto, il problema fondamentale non è stabilire procedure standardizzate, ma suscitare un’attenzione continua per la valutazione, che dovrebbe diventare un atteggiamento ininterrotto, con implicazioni che sfiorano l’etica. In secondo luogo, un’organizzazione autovalutante deve diventare aperta alla sperimentazione e al valore della conoscenza come una comunità scientifica. Va pertanto favorita ogni forma di circolazione di ruoli e di esperienze e ogni sede di confronto tra diversi punti di osservazione. Questo obiettivo è tanto più raggiungibile quanto più le fonti di valutazione sono molteplici, autonome e coinvolte in un progetto con un ampio orizzonte temporale. Come abbiamo visto precedentemente, se aumentano la conoscenza e il rispetto per le difficoltà reciproche, cresce anche quell’inestimabile patrimonio che per ogni organizzazione, e per la società nel suo complesso, è costituito dalla fiducia: «La diffusione di organizzazioni capaci di autovalutazione aumenta la fiducia sociale perché amplia le aree di consenso circa le conseguenze delle politiche e i probabili effetti del cambiamento» [Wildavsky 1992, 238]. 4.3.3. L’evidenza empirica dell’incrementalismo Un approccio alle politiche pubbliche in termini di processo, se da un lato si basa sulla continuità tra progettazione e implementazione, dall’altro poggia sulla constatazione che grandi svolte o clamorose fratture sono eventi molto rari nella gestione dell’intervento pubblico. Le teorie incrementali sottolineano l’importanza che i processi che si dipanano nel tempo conservino notevoli legami con il passato prossimo, in modo da evitare che gli attori perdano tutti insieme i loro punti di riferimento. Questa impostazione rivendica una duplice superiorità. Sul piano descrittivo, perché segnala la necessità di non arrestare la ricerca da61 La nuova filosofia ha pesanti ripercussioni anche sul mercato del lavoro delle tradizionali professioni manageriali: «La maggiore riduzione di personale sarà concentrata nelle strutture di controllo e di gestione dei livelli intermedi, laddove è maggiormente sentito il vincolo dell’amministrazione pubblica: supervisori, personale di direzione, specialisti dell’acquisto, contabili e revisori dei conti»; dalla presentazione di Al Gore [«National Performance Review» 1993, 23 trad. it.]. LA «POLICY INQUIRY» vanti alla retorica dell’innovazione, della grande riforma, del salto in avanti, per verificare invece se e come si sono modificate le procedure operative standard, le routine da cui effettivamente dipendono le prestazioni che i destinatari ricevono [Simon 1957; Allison 1971]. Il fatto che a livello politico si sia costituita una coalizione vincente favorevole al cambiamento non significa affatto che questa stessa pressione riesca a prevalere nella quotidianità delle pratiche da cui dipende l’implementazione. Sul piano prescrittivo, l’incrementalismo si propone di portare a livello di consapevolezza e di dignità scientifica il vincolo costituito dallo status quo, in modo da ridurre l’oscillazione tra illusioni e frustrazioni, cui espone invece l’approccio razionale, o sinottico. Wildavsky riassume in questi termini il concetto di incrementalismo: «La scommessa vincente è sempre che il futuro sarà come il passato, più o meno un 5%» [Wildavsky 1992, xxxiii]. Questa conclusione è stata verificata con riferimento non a qualche sonnolento e marginale settore dell’amministrazione, bensì alla più ambiziosa riforma del settore pubblico americano, il Planning, Programming, Budgeting System (v. terzo capitolo), in anni in cui questo metodo sembrava avere introdotto massicce dosi di razionalità economica nel processo di bilancio [Wildavsky 1964; 1969]62. Anche ricerche successive sulle politiche di gestione della finanza pubblica hanno confermato come il fattore più importante nel determinare la struttura e l’ampiezza degli impegni di spesa per un dato anno sia il bilancio dell’anno precedente [Wildavsky 1975]. A questo punto, si potrebbe obiettare che sono i vincoli tecnici imposti da questo peculiare processo decisionale a conferire una forza speciale agli equilibri esistenti. Wildavsky ribalta l’argomento: è proprio perché il bilancio è un processo eminentemente politico che l’incrementalismo ha tanta forza [1964, 3]63. Sono infatti le decisioni sui problemi di rilevanza collettiva le più vulnerabili a tendenze quali: • la posizione di favore di cui gode lo status quo: se una soluzione è presentata come l’esistente, gode di maggior credito rispetto a quando è presentata come un’innovazione; 62 «A dicembre di ogni anno, appena prima della presentazione del bilancio al Congresso, lo staff di McNamara era costretto a fare i soliti tagli improvvisati e arbitrari per stare entro i tetti di spesa. Presto gli uffici amministrativi si accorsero di questa prassi. Il risultato fu che gli uffici continuarono a presentare le loro proposte di bilancio con lo stesso tipo di “imbottitura protettiva” che avevano sempre aggiunto» [Rosen 1987, 18]. 63 A ulteriore conferma della diretta influenza che i policy studies hanno per l’impostazione delle politiche pubbliche statunitensi, citiamo questo passo dal Rapporto Gore del 1993: «[Nell’amministrazione pubblica] il bilancio è il documento più politico; se, come disse Harold D. Lasswell, esperto in scienze politiche, la politica è “chi ottiene che cosa, quando e come”, il bilancio sembra appunto rispondere al quesito» [«National Performance Review» 1993, 45 trad. it.]. 263 264 CAPITOLO 4 • l’avversione al rischio: tranne che in circostanze straordinarie, gli attori preferiscono il certo all’incerto e al rischioso; • il conformismo sociale: le ipotesi scartate da altri ci appaiono comunque peggiori di quelle che invece sono riuscite a convincere qualcuno [March e Olsen 1995, 144-145]. Del resto, è proprio davanti ai fondamentali problemi della convivenza civile che viene meno la possibilità di fare appello alle conoscenze scientifiche per ottenere linee guida innovative e solide. Infatti su temi quali le politiche della famiglia, dell’educazione, della sanità, dalle scienze sociali in genere arrivano conclusioni incerte, se non contrastanti, e indicazioni operative confuse [Wildavsky 1992]. La Legge delle Ampie Soluzioni. Sul piano descrittivo, l’incrementalismo tende a ridimensionare l’alone di eccezionalità con cui i policy makers amano circondare le loro iniziative. La stessa idea che le politiche pubbliche richiedano scelte finalizzate a uno scopo e coerenti a se stesse nel tempo, viene decisamente contestata: «Quello di strategia è un concetto ingenuo con cui a un partito può capitare di vincere le elezioni, e che gli storici talvolta attaccano come etichetta adatta agli avvenimenti più disparati, ma che non ha mai caratterizzato le effettive operazioni di un qualsivoglia governo» [Heclo e Wildavsky 1974, 363]64. Oltre a essere concetti vuoti, le strategie onnicomprensive tendono facilmente a produrre effetti non voluti e non prevedibili. In società in cui la convivenza si regge su un fittissimo intreccio di politiche, le interdipendenze crescono più rapidamente della conoscenza che ne abbiamo, sicché le conseguenze indirette di una scelta non sono mai chiare a priori, ma tendono a ritorcersi in nuovi problemi: Dato che le circostanze, i valori e le politiche possibili cambiano continuamente, l’analista sa che cercare di risolvere un problema è correre il rischio di avere domani una soluzione per un problema di ieri. La fluidità può essere affrontata con più successo concentrandosi su quei mali sociali in evoluzione che possono essere alleviati con una serie di passaggi, anziché proporsi obiettivi più ampi e aspirare a soluzioni concepite in modo troppo organico [Braybrooke e Lindblom 1963, 121]. La Legge delle Ampie Soluzioni asserisce che più larga è la porzione dello spazio di policy occupata da una presunta soluzione, e più difficile è trovare una soluzione che non diventi il proprio peggior problema [Wildavsky 1992, 63]. Questa «legge» suona come un’ulteriore conferma della fragilità delle rigide distinzioni tra le varie fasi del policy making: 64 In questa citazione, il concetto di strategia è connotato in senso razionalistico, e pertanto criticato. Nella terminologia di Lindblom, invece, l’interazione strategica è l’opposto dell’analisi razionale onnicomprensiva, ed è pertanto un sinonimo del partisan mutual adjustment. LA «POLICY INQUIRY» Alcune caratteristiche del processo di policy smentiscono clamorosamente questa impostazione. Quella che per un gruppo è una soluzione, per un altro diventa un problema [...]. Inoltre, una gran quantità di problemi di policy arriva in agenda in conseguenza dei tentativi di implementare altre politiche. Pertanto, lo stadio chiamato implementazione e quello chiamato di costruzione dell’agenda collassano l’uno nell’altro [Lindblom 1980, 4]. Poiché gli attori capaci di apprendimento imparano in fretta sulla loro pelle le conseguenze di questa ferrea legge, l’incrementalismo tende ad affermarsi come il criterio meno rischioso per muoversi nel groviglio di politiche pubbliche che costituisce lo sfondo normale delle loro scelte. L’importanza delle «routines». Se per le teorie razionali le routines organizzative sono in genere un ostacolo al pieno adeguamento agli obiettivi del programma, per le teorie incrementali sono un punto di riferimento prezioso, capace di colmare i vuoti nelle direttive e nel controllo che regolarmente si aprono quando è necessario il coordinamento di molti attori. La ragionevole certezza che ciascuno continuerà a fare oggi quello che ha fatto ieri, anche se non gli viene espressamente richiesto, e persino se gli viene vietato da un provvedimento entrato in vigore alla mezzanotte, nella stragrande maggioranza dei casi rende più fluida, e non più rigida, una politica pubblica [Allison 1971]. È importante sottolineare che gli studi di policy non sono certo l’unico campo del sapere a valorizzare lo status quo e le routine. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, per le scienze cognitive è il principio di conservazione a regolare l’evoluzione dei frames. Secondo von Hayek, «La civilizzazione avanza estendendo il numero delle operazioni importanti che possono essere svolte senza pensarci» [Hayek 1945, 72 trad. it.]65. Una lingua funziona perché è una routine condivisa da un numero altissimo di persone, che sono disposte ad ammettere solo adeguamenti lenti e marginali. L’etnometodologia ha posto in risalto l’importanza delle procedure interpretative correnti, latenti, standardizzate, la cui rilevanza emerge solo in caso di sovvertimento della scena quotidiana [Garfinkel 1967]. A questo approccio si deve infatti la scoperta della straordinaria forza di attrazione della normalità: «L’etnometodologia rivela che gli attori hanno una preferenza per la normalità, e resistono al riaggiustamento delle loro azioni pratiche qualora ciò disturbi il sicuro consenso della vita di tutti i giorni» [Collins 1992, 85]. 65 Questa tendenza è presente anche in correnti filosofiche che si propongono di «difendere le consuetudini dal discredito, e proteggerle anche dal sospetto che consegue dalle istanze perfezionistiche proprie del progetto dell’assolutizzazione dell’uomo» [Marquard 1981, 151 trad. it.]. 265 266 CAPITOLO 4 Più in generale, l’importanza delle routines tende a essere apprezzata quando per qualche motivo queste si inceppano: quando per una malattia al sistema nervoso una persona non sa più che cosa fare davanti a una scala mobile; o quando, in un aeroporto all’estero, dobbiamo capire come funzionano i telefoni. Tutti abbiamo sperimentato il disagio che ci deriva dal passare da un programma per computer alla sua versione successiva. La prima sensazione è di smarrimento: le routines cui eravamo abituati non valgono più. Ci chiediamo perché mai abbiano sostituito con il nuovo prodotto il vecchio, che funzionava così bene, e ci sembra che il cambiamento comporti solo svantaggi e nessun guadagno. Per tornare a discipline più vicine, la teoria delle organizzazioni ha messo in evidenza la rilevanza che le procedure standardizzate hanno nel ridurre i costi del coordinamento: «Le procedure operative di un’organizzazione rappresentano il fulcro delle sue potenzialità, perché consentono alla gente comune di adempiere a importanti mansioni in modo affidabile. Senza di esse non potremmo realizzare gran parte di ciò che cerchiamo di fare attraverso le organizzazioni» [Kelman 1987, 75]66. 4.3.4. L’incrementalismo e la responsabilità sociale Pressman e Wildavsky concludono la loro ricerca sull’implementazione con parole che possono suonare sconfortanti: «In questo mondo le carte sono state truccate perché le cose non succedano [...]. A destare meraviglia è che un nuovo programma funzioni davvero» [1973, 109]. Ma la policy inquiry dà a questa constatazione un significato tutt’altro che negativo, perché considera non solo normale, ma anche opportuno il fatto che i grandi cambiamenti siano molto meno frequenti dei piccoli. Infatti la teoria pluralista assegna una importanza decisiva all’allargamento di quella quota dello scambio sociale che non ha bisogno di essere rinegoziata ogni volta, ma che si autoriproduce senza ulteriori costi di contrattazione. Fare affidamento sulle routines che hanno funzionato in passato è infatti una risorsa fondamentale per fronteggiare la complessità senza reprimerla: «L’incrementalismo e altri metodi simili per semplificare e rendere più veloci le decisioni sono le inevitabili risposte alla straordinaria complessità dell’allocazione delle risorse nei governi di qualunque dimensione» [Wildavsky 1992, 216]. Del resto, Dahl e Lindblom scrivevano: «Occorre sottolineare che 66 All’interno delle discipline economiche, l’importanza delle routines è riconosciuta dalle teorie sull’innovazione di prodotto, una fase molto critica che richiede una serie di attenzioni e di compensazioni per non sprecare il patrimonio costituito dalla clientela più affezionata. LA «POLICY INQUIRY» l’incrementalismo è semplicemente la variante del pluralismo orientata alle politiche» [1953, 12]. Cerchiamo di capire meglio le ragioni di questo giudizio. In primo luogo, appartiene alla tradizione del pensiero democratico liberale la convinzione che i concreti particolari, più che i grandi disegni, meritino attenzione. Tocqueville, ne La democrazia in America, scrive: «Da parte mia, credo che la libertà è meno necessaria nelle grandi che nelle piccole cose, perché è nel particolare che è pericoloso asservire l’uomo» [1835, 276 trad. it.]. Gli fa eco Vincent Ostrom: «La tirannia in piccolo non è più giustificata di quella in grande» [Ostrom 1977, 1517]. Pertanto, le buone intenzioni sono solo uno dei criteri per valutare le scelte pubbliche, e in genere neppure il più significativo. I fallimenti più drammatici, gli sprechi e le inefficienze più clamorose spesso si hanno proprio nei settori percorsi dalle più generose spinte riformatrici. In secondo luogo, «una rapida sequenza di piccoli cambiamenti può determinare uno scostamento più significativo dallo status quo di un cambiamento più ambizioso ma meno frequente» [Lindblom 1979, 520]. Come ricorda Wildavsky [1992], è grazie a questi piccoli movimenti che le spese per il welfare sono riuscite a compiere lo storico sorpasso rispetto a quelle per la difesa. Gli fa eco Campbell: «Noi gradualisti riteniamo che i cambiamenti fondamentali possano essere fatti in questo modo, e che attraverso i piccoli passi, ciascuno verificato come reale miglioramento, ci si possa incamminare verso la società migliore» [1998, 64]. Infine, l’incrementalismo è un severo richiamo all’esercizio del senso di responsabilità sociale: È da irresponsabili sia impiegare le risorse per finalità secondarie, reprimendo le potenzialità degli altri, sia promuovere obiettivi che non possono essere perseguiti, quanto meno a costi accettabili [Wildavsky 1992, 397]. La scelta tra la sinossi e l’incrementalismo sconnesso – o tra la sinossi e qualunque forma di analisi strategica67 – è semplicemente tra un’incompletezza mal compresa e spesso casuale da un lato, e dall’altro un’incompletezza consapevole e deliberata» [Lindblom 1979, 519]. Si fanno meno promesse quando si ha una più chiara consapevolezza degli ostacoli per rispettarle: ma se ne mantengono di più [Pressman e Wildavsky 1973, 6]. Questa impostazione è in evidente sintonia con l’orientamento promosso in Europa da Michel Crozier, che nel 1987, con il suo volume État modeste, état moderne: Stratégie pour un autre changement, 67 V. nota 66. 267 268 CAPITOLO 4 sottoponeva a una critica corrosiva le grandi aspirazioni legate al concetto di Stato tipico del pensiero politico continentale, tanto nella versione progressista, quanto in quella conservatrice: «In contesti di accentuata incertezza [...] la modestia non è un segno di timidezza, ma una garanzia di maturità e un principio di responsabilità sociale» [Duran e Monnier 1992, 261]. Nelle recenti proposte di riforma amministrativa discusse negli Stati Uniti, questa riflessione tende a convergere con il principio della contrattualizzazione del rapporto tra produttori di servizi e utenti, a sua volta sostenuto dall’alta dignità assegnata al ruolo di cliente: Una delle regole basilari del servizio al cliente è quella di non promettere più di quanto possa essere concretamente mantenuto; al limite, è preferibile promettere prestazioni più limitate ed eventualmente riservare motivo di sorpresa con un risultato superiore [...]. Del resto, anche la Disney procede con lo stesso criterio: lungo i percorsi di attesa posiziona cartelli che precisano il tempo necessario per raggiungere un’altra destinazione, come il Monte Space o i Pirati dei Caraibi68 [«National Performance Review» 1993, 365-366 trad. it.]. La delimitazione dei riferimenti. Le indicazioni di tipo propositivo, formulate da Lindblom fin dal 1959, ruotano intorno alla necessità di aggiustare continuamente i fini ai mezzi, di decentrare le decisioni, di scomporre i problemi complessi fino a ridurli a dimensioni gestibili. Questo approccio valorizza le routines e lo status quo perché le soluzioni precedentemente adottate, quando smettono di funzionare, non sono abbandonate in blocco, ma sono modificate soltanto per quei particolari che si sono rivelati meno soddisfacenti. In questo modo si produce una drastica riduzione delle informazioni necessarie e si salvaguarda la reversibilità degli interventi. Sulla base di queste premesse, molti aspetti che la ARP considera patologici sono riletti da una prospettiva molto più accomodante. Se ad esempio consideriamo la ridondanza, cioè la possibilità che uno stesso obiettivo sia perseguito in molti modi diversi e senza risolvere preventivamente i problemi di coordinamento, notiamo che per l’analisi razionale questa caratteristica tende ad avere una connotazione negativa, per le possibili conseguenze in termini di sprechi e di confusione. Per la policy inquiry, invece, il fatto che ai destinatari siano offerte diverse possibilità per ottenere fini analoghi è un fattore di solidità di una politica pubblica, e non di fragilità [V. Ostrom 1973; Bendor 1985]. In natura, meccanismi fondamentali quali la riproduzione di molte specie viventi sono affidati a processi basati sulla ridondanza. E i programmi per computer sono evoluti facendo proprio questo criterio69. 68 69 Il riferimento è alle note attrazioni dei parchi Disney. Rispetto all’MS-DOS, in cui esisteva uno e un solo modo di impostare un co- LA «POLICY INQUIRY» L’assenza di connessione. Lindblom ha più volte qualificato il suo metodo incrementale con l’aggettivo «sconnesso» (disjointed), perché all’interno di questo approccio la coerenza non è un obiettivo realizzabile né auspicabile. Infatti la serie di operazioni che collegano la fase di progettazione di un intervento alla sua attuazione normalmente è lunga, contorta, e piena di imprevisti che creano una ricorrente sfasatura tra gli obiettivi iniziali e i risultati davvero conseguiti. Del resto, come abbiamo visto, considerare l’implementazione come una forma di effettiva sperimentazione significa accettare che le discrepanze rispetto al disegno originario producano una continua «mappatura a ritroso» del campo di intervento [Elmore 1982]. Nella definizione che ne dà lo stesso Lindblom [1979], i criteri fondamentali del disjointed incrementalism sono: • la limitazione dell’analisi solo alle poche alternative di policy davvero familiari; • l’intreccio dell’analisi degli obiettivi e dei valori in gioco con gli aspetti empirici del problema; • una preoccupazione analitica più attenta ai mali da riparare che agli obiettivi positivi da raggiungere70; • una sequenza di prove, errori, e prove rivedute; • un’esplorazione limitata solo alle più importanti conseguenze delle alternative considerate; • la frammentazione del lavoro di analisi tra i tanti partecipanti al policy making, tutti portatori di interessi di parte. Queste indicazioni convergono perfettamente con i criteri guida che Wildavsky delinea, con linguaggio non certo celebrativo, per caratterizzare il suo programma per la formazione degli analisti: Quando si dice che le scuole di public policy insegnano le pratiche dell’incrementalismo, posso solo rispondere «mi dichiaro colpevole». In effetti puntano ai piccoli miglioramenti, cercando di prendere le distanze dai mali che si conoscono, anziché mirare a beni grandiosi. I modelli che gli studenti fanno sono in genere basati sulla situazione esistente, dalla quale si discostano per verificare la possibilità di modesti miglioramenti. Oltre ad essere incrementaliste, le scuole di policy sono provinciali. Non studiano l’intero, ma le parti. Non fanno un quadro delle difficoltà complessive, ma solo di quella parte sulla quale i loro clienti hanno qualche possibilità di controllo. Se il 90% delle difficoltà sta altrove, è plausibile che gli allievi della scuola si chiedano come il rimanente 10% può essere modificato in modo da raggiungere il risultato voluto. Dunque, gli analisti di policy hanno un cuore localista. Vogliono sapere che cosa sta succedendo in qualche piccola (e quindi gestibile) parte della nazione. mando, i successivi sistemi operativi offrono svariate opportunità per eseguire una stessa operazione. 70 Come dice un proverbio spesso citato in questi testi, «se non è rotto, non aggiustarlo». 269 270 CAPITOLO 4 Gli analisti sono degli empiristi. Per usare la solita accusa, sono razziatori di dati. Se i dati non esistono, creano rozze approssimazioni [...]. Quando la teoria manca o è inapplicabile – cioè nella maggior parte dei casi – si affidano al bruto empirismo, provando un’alternativa dopo l’altra, finché trovano la strada migliore. Gli analisti sono microeconomisti. Il valore di un bene o di un servizio è ciò a cui si deve rinunciare per ottenerlo. Questa immersione nei «costi-opportunità» richiama all’uso alternativo delle risorse. Si fa attenzione tanto alla parte negativa quanto a quella positiva del cambiamento, ai costi come ai benefici. L’aspirazione dell’analista è completare il lavoro. Il successo che cerca è l’implementazione dell’analisi, la sua accettazione da parte dell’organizzazione committente, la traduzione in azioni programmatiche, la sua esecuzione sul campo, la valutazione delle operazioni e la loro conseguente modificazione per centrare meglio i risultati desiderati [Wildavsky 1992, xxxii]. 4.4. L’ingegneria dell’intelligenza Come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente, le linee per la declinazione del modello del garbage can in chiave prescrittiva non sono né evidenti né dirette. Infatti il potere corrosivo di questo approccio non discioglie soltanto i presupposti dell’analisi razionale, ma arriva a intaccare le stesse proposte che qualificano la policy inquiry. 4.4.1. I limiti della sperimentazione e dell’apprendimento Nella polemica condotta nei confronti dell’analisi razionale, il criterio dell’apprendimento ha goduto di un notevole credito all’interno della policy inquiry: «Dall’entusiasmo per la pianificazione di lungo periodo, per gli obiettivi chiari, per le stime, le informazioni e il calcolo rivolte in avanti, i profeti dell’intelligenza sono passati all’entusiasmo per l’apprendimento dall’esperienza, per la trasmissione e l’uso della conoscenza» [March e Olsen 1995, 199]. Ma la rappresentazione del policy making fornita dalla teoria del garbage can porta a un netto ridimensionamento della fiducia nelle lezioni che l’esperienza avrebbe da insegnare. Spesso gli eventi sono difficili da osservare con precisione o da capire interamente. Nello stesso momento succedono molte cose tra loro collegate, e la loro informazione è incompleta e deformata. Le organizzazioni sono complessi miscugli di individui con interessi, competenze, identità e sentimenti tutti diversi. Persone diverse imparano cose diverse dalla stessa ambigua storia [March 1994, 82]. Inoltre, l’apprendimento non è un percorso lineare del tipo stimolo-risposta, ma un processo di adattamento reciproco e di coevoluzio- LA «POLICY INQUIRY» ne, in cui non è solo l’incompetente ad adeguarsi al competente, ma anche l’inverso. E anche i desideri si adattano agli esiti, sicché l’unità di misura dell’efficacia degli individui e delle istituzioni risulta continuamente modificata: «Se la definizione di ciò che si desidera è influenzata da ciò che si ottiene, la distinzione alla base dell’apprendimento tra successo e fallimento diviene endogena rispetto al processo di decisione» [ibidem, 87]. Nel policy making, la ricerca di dati oggettivi e di nuove evidenze empiriche tende a seguire una parabola che ne rivela il significato più simbolico che strumentale: infatti l’impegno e la lotta per ottenere più dati sono in genere proporzionali alla fretta con cui questi, una volta prodotti, sono accantonati e ignorati [Lynn 1987; March e Olsen 1989]. Molti organi politici investono una grande quantità di risorse in rapporti e indagini conoscitive, richiesti a gran voce come elementi decisivi per le scelte pubbliche, ma poi relegati sugli scaffali, tra l’indifferenza generale, non appena effettivamente disponibili: La competizione per la reputazione porta i decisori a produrre e a esibire una quantità di informazioni ben oltre quelle usate per risolvere effettive incertezze. I decisori raccolgono informazioni e non le usano; ne chiedono ancora di più e le ignorano; prima decidono, poi cercano le informazioni cruciali; raccolgono ed elaborano una gran massa di informazioni che hanno poca o nessuna diretta rilevanza per le loro decisioni [March 1994, 226]. In altre parole, non è solo la scarsità delle informazioni, ma anche la loro abbondanza a rendere poco affidabili gli esperimenti di policy. E se la raccolta, la catalogazione e la valutazione dei dati che riguardano la vita collettiva rivestono un’importanza strategica, diventano vulnerabili rispetto a distorsioni e interpretazioni di parte: La conoscenza proiettata verso una decisione raramente è innocente. È contaminata dal modo in cui è generata e dal contesto in cui è presentata [ibidem, 255]. Più un indicatore sociale è usato per prendere decisioni sociali, più è forte la pressione verso la sua corruzione [Campbell 1998, 55]. Infine, l’impossibilità di dominare l’elevato numero delle variabili in gioco e la complessità delle relazioni tra di esse toglie fondamento alle lezioni della storia: Anche se i casi di apprendimento del tutto basato sulla superstizione sono probabilmente abbastanza rari, quasi tutto l’apprendimento dall’esperienza ha elementi di superstizione. Le convinzioni sull’efficacia delle strategie, dei prodotti, delle tecnologie o delle regole sono spesso formate in condizioni che rendono difficile la determinazione di nessi causali. Quando le persone usano 271 272 CAPITOLO 4 modelli semplici per imparare mondi complessi in interazione tra loro – e normalmente devono fare così data la limitatezza delle informazioni e dell’esperienza – molto di ciò che imparano è probabilmente basato su associazioni tra azioni e risultati che sono più fortuite che causali [March 1994, 90]71. La conclusione cui tendono queste constatazioni equivale a una cruda denuncia dei limiti dell’apprendimento: «I policy makers non sono capaci di sperimentare e di trarre lezioni dalle loro esperienze in modo affidabile. Quando cercano di imparare, sono vincolati da limiti cognitivi. Quando riescono a imparare, non hanno la capacità di implementare, conservare e trasferire le conoscenze che hanno acquisito» [March e Olsen 1995, 207]. Dati questi elementi, il primo compito dell’analista è di resistere alla tendenza ad aggregarsi al novero degli estimatori dell’apprendimento, per evidenziare invece la fragilità dei nessi causali insiti in molti dei resoconti con cui vengono riportate le esperienze vissute in altri tempi, in altri luoghi o in altri segmenti di un’organizzazione. Infatti solo al pesante costo di una sistematica manipolazione possono essere rimossi i margini di indeterminatezza nelle relazioni tra soluzioni, problemi, e decisori. 4.4.2. Un programma ambivalente Il taglio del cordone ombelicale che nelle impostazioni tradizionali collega i processi decisionali alle decisioni colloca la teoria del bidone della spazzatura in prossimità delle numerose elaborazioni che nella riflessione contemporanea sottolineano il peso della contingenza, degli effetti non previsti e dell’indeterminatezza nelle relazioni sociali. Come è evidente, questa impostazione può facilmente scivolare verso l’aperta contrapposizione a quelli che sono considerati i cardini del pensiero moderno, portatore di una visione della vicenda umana dominata dalla centralità della scelta consapevole e informata e dalla necessità di controllare gli eventi, restringendo i margini del contingente. All’interno di questa visione, la possibilità stessa dell’emancipazione è strettamente legata all’obiettivo che nel 1822 Hegel, ne La ragione nella storia, poneva alla base della ricerca filosofica: rimuovere l’accidentale. Al contrario, la teoria del garbage can si oppone «all’implicita assunzione che tutti i fenomeni sociali e psicologici debbano avere un significato, cioè che debba esistere un senso o una prospettiva al cui interno essi giovano a qualcuno o a qualcosa» [Elster 1994, 403]. 71 La conclusione è in sintonia con la paradossale raccomandazione di Tom Peters: «Io sono del tutto contrario all’idea dell’organizzazione che apprende. Io difendo l’organizzazione che dimentica. Si diventa dei replicanti quando si riceve troppo addestramento e c’è troppa gente che pensa e impara nello stesso modo» [1997]. LA «POLICY INQUIRY» Ma gli autori che negli Stati Uniti si sono più avvicinati alle teorie del caos per applicarle ai fenomeni politici e sociali sembrano interessati ad utilizzarle più per trarne indicazioni su come muoversi in contesti caratterizzati da un’elevata complessità, che per saldare conti filosofici o epistemologici [Kettl 1997; Laszlo e Laszlo 1997]. La stessa teoria del garbage can può essere letta come il tentativo di confrontarsi in termini operativi con i limiti di una tecnologia sociale considerata troppo grossolana rispetto ai sofisticati ragionamenti di cui sono capaci le menti naturali e artificiali nella nostra epoca, al punto da giustificare il dubbio che il bidone della spazzatura costituisca in realtà una forma molto raffinata di managerialità. Come affermano Schön e Rein, March e Olsen «si avventurano in modo ambivalente oltre la pura teoria del bidone della spazzatura» [1994, 54]. Il loro progetto scientifico è infatti traversato da una continua tensione tra la denuncia dei limiti delle teorie correnti e la ricerca di un nuovo approccio allo studio dei fenomeni sociali che, lungi dall’autoconfinarsi nella contemplazione della contingenza, ambisce a mordere con più incisività la realtà sociale, per piegarla a un’idea più ambiziosa di ingegneria sociale. Le difficoltà che si incontrano nel decifrare questo complesso progetto sono aggravate dal fatto che la sua esportazione al di fuori del contesto americano porta a rescindere i suoi importantissimi legami con le discipline sperimentali e a sospingerlo verso letture antitecnologiche dell’analisi delle politiche. Pertanto è bene sottolineare che queste elaborazioni provengono da istituzioni con una grande tradizione di ricerca nelle scienze empiriche72, e si alimentano di un costante interscambio con le loro più avanzate impostazioni, in un clima di curiosità reciproca, cui certamente contribuisce il comune orientamento pragmatico. Più precisamente, queste teorie intrattengono un fitto dialogo con l’analisi delle organizzazioni economiche e con le scienze cognitive e computazionali. Una corretta comprensione delle indicazioni prescrittive che possono discendere dalla teoria del garbage can deve in primo luogo riannodare questi fili e collegarsi all’emergere di nuovi campi di ricerca che hanno sconvolto la classica divisione tra i saperi73. I meriti del caos. In questa prospettiva, il caos è visto come un grande serbatoio di occasioni per cambiare e per ridurre l’insoddisfazione per le soluzioni obsolete; «sia la teoria del caso, sia il Total Qual72 Ricordiamo il Massachusetts Institute of Technology, l’Università di Stanford e il Carnegie Mellon Institute of Technology. 73 Si pensi ad esempio al rapporto tra le indagini sulla volatilità dell’attenzione e il problema di presentare i siti web in modo tale da catturare l’interesse e mantenere il contatto con visitatori che con un click possono spostarsi tra milioni di pagine: v. P. Aigrain, Attention, Media, Value and Economics, in «First Monday», vol. 2, n. 9, 1997, http://firstmonday.org/issues/issue2_9/aigrain (febbraio 2000). 273 274 CAPITOLO 4 ity Management danno forza all’idea che quando i sistemi abbandonano i loro normali parametri operativi, allora si dischiudono occasioni per nuovi processi e nuove soluzioni ai problemi»74. Il caos spesso si incarica di fare quel che le organizzazioni non riescono a ottenere attraverso le deliberazioni e le strategie: destabilizzare le routine ormai prive di significato, avviare al tramonto le pratiche logorate dal tempo, agevolare il cambiamento [Peters 1988; Stacey 1992]. Come afferma uno dei principali esponenti della teoria del caos, «Un corpo in buona salute è un corpo caotico» [Gleick 1987, 298]. Questa lettura è del resto in sintonia con quella parte della teoria democratica che considera la molteplicità delle voci, e persino il loro disaccordo, come una irrinunciabile garanzia: «L’effetto di libertà politica caratteristico della divisione politica dei poteri è soltanto un caso particolare dell’effetto di libertà proprio dell’universale policromia della realtà» [Marquard 1981, 156]. In un tale quadro, le capacità che si rivelano più utili hanno spesso un segno negativo: l’intervento dell’analista può infatti rivelarsi decisivo per evidenziare la debolezza di legami dati invece per intangibili, per distogliere dall’idea che ritornerà il tempo della tranquillità e delle certezze. Queste capacità negative [Lanzara 1993] possono aumentare notevolmente la propensione a convivere con l’indeterminatezza. Infatti l’idea che la gestione dei problemi collettivi possa procedere in modo così disordinato e scriteriato è in genere fonte di apprensione. Eppure, anche nelle vicende collettive, come nelle scoperte scientifiche, sono numerosi i casi di serendipity, cioè di soluzioni scaturite quasi per caso, magari da errori precedenti. I meriti dell’ambiguità. La dissociazione tra i processi decisionali e i loro esiti libera i primi dall’imbarazzante richiamo alla logica dell’efficienza e dell’efficacia, per lasciare emergere le loro valenze simboliche e rituali: I processi decisionali sono visti come segni e simboli di legittimità, e pertanto importanti in se stessi, anche senza alcuna conseguenza per i risultati dell’azione [...]. Il significato simbolico delle decisioni comincia ad essere riconosciuto come un aspetto vitale del processo decisionale, non necessariamente legato all’implementazione della decisione. Accanto alla tecnologia della produzione, la tecnologia di base di un’organizzazione è la tecnologia della narrazione [March 1996, 285]. Lo spazio concesso alla dimensione simbolica nell’elaborazione teorica di autori quali March, Olsen, Wildavsky, Majone, può fare da piattaforma a diversi sviluppi teorici. Una possibile via di fuga consiste nell’assegnare 74 D.L. Kiel, Embedding Chaotic Logic into Public Administration Thought: Requisites for the New Paradigm, in «Public Administration and Management: An Interactive Journal», vol. 2, n. 4, 1997, http://www.pamij.com/kiel.html (giugno 2000). LA «POLICY INQUIRY» all’elaborazione simbolica un esclusivo privilegio, esonerandola da qualunque confronto con la logica della consequenzialità e le sue esigenze fattuali. Benché March definisca questa prospettiva «un programma che tenta» [March 1994, 219], il suo progetto scientifico resiste a questa lusinga, per ricercare un difficile equilibrio con la tensione alla trasformazione consapevole della società in cui ci è dato di vivere. In questa prospettiva, l’ambiguità può essere considerata come una risorsa: in molte politiche, di norma gli obiettivi sono molteplici (perché vogliamo molte cose, non solo una), tra loro in conflitto (perché vogliamo cose diverse), e vaghi (perché così possiamo accordarci per tirare avanti senza doverci accordare su che cosa fare esattamente) [Majone e Wildavsky 1979, 168]. Quando sono in gioco innovazioni rilevanti, se i costi e i benefici sono troppo evidenti e prevedibili, se le conseguenze sono chiare, il cambiamento rischia di non ottenere il consenso necessario per essere avviato [Cohen e March 1974]. Quando una politica pubblica non dà i risultati previsti, l’ambiguità consente di valorizzarne gli aspetti simbolici, salvandola da un’inappellabile condanna. Il fatto che i concreti risultati delle politiche per il recupero dei tossicodipendenti diano benefici modesti di per sé non comporta che debbano essere abolite, se la maggioranza della popolazione le considera come un messaggio che non è giusto arrendersi davanti alla tossicodipendenza. L’ambiguità consente al policy entrepreneur di realizzare i suoi obiettivi sfruttando fattori quali «l’indeterminatezza delle politiche approvate dalle autorità competenti; l’incapacità di queste ultime di occuparsi delle conseguenze delle loro scelte; la loro ritrosia a spendere tempo ed energie per contrastare un amministratore accorto e autorevole» [Lynn 1987, 72]. Il pericolo che l’ambiguità e l’indeterminatezza espongano al rischio dell’arbitrio non deve essere sottovalutato: ma appartiene alle competenze su cui si basa la convivenza civile la capacità di reagire a questa degenerazione: «Come i giudici, così i lettori di una poesia o gli interpreti di una decisione possono sfruttare l’ambiguità mettendola al servizio di interessi o di ideologie; ma i migliori tra loro, come i migliori tra i giudici, usano il linguaggio per evocare significati più profondi» [March 1994, 212; v. anche Levine 1985; Gherardi 1997]. La costruzione del sé. Se nei processi decisionali a prevalere sono le valenze simboliche, l’ingegneria dell’intelligenza è chiamata ad assumere un compito ambizioso e intrusivo: la trasformazione delle preferenze e delle identità: Valori, obiettivi, desideri e altre concezioni del sé emergono dai processi con cui sono adottate le decisioni. L’ingegneria della decisione ha come pri- 275 276 CAPITOLO 4 mo compito il facilitare la trasformazione intelligente delle preferenze e delle identità [March 1994, 261]. Dato che i processi decisionali sono riti e non registrazioni delle preferenze in gioco, diventa possibile ipotizzare che attraverso di essi si possa operare al cuore e al cervello degli attori, per cambiare intenzionalmente le loro identità. Questo progetto, in bilico tra Socrate e un film di fantascienza, espone a esercizi pericolosi e a ricerche piene di frustrazioni: «Per cambiare in modo endogeno le preferenze e le identità, si incorre in problemi che sono al di fuori della portata di ogni attuale elaborazione» [ibidem, 270]. Questa potenzialità, che potremmo definire come la riflessività al quadrato, richiede di aiutare i decisori a sperimentare e a fare cose che ancora mancano di buone ragioni: «Il primo obiettivo dell’ingegneria della decisione è facilitare la trasformazione intelligente delle preferenze e delle identità [...]. Ma per usare il decision making come base consapevole per costruire il sé, i decision makers devono combinare le logiche della conseguenza e dell’appropriatezza con una tecnologia della follia» [ibidem, 261]. L’ingegneria dell’intelligenza richiede infatti che il rapporto tra exploitation ed exploration, tra sfruttamento del conosciuto ed esplorazione dell’ignoto, sia sbilanciato a favore di quest’ultima, fino a sperimentare un debordamento parziale e controllato dai normali criteri di validazione delle conoscenze. 4.4.3. Lo sconfinamento nella governabilità L’indeterminatezza che March e Olsen sono disposti ad ammettere, sciogliendo i legami che nelle teorie tradizionali tengono congiunti soluzioni, problemi e decisori, richiede di essere in qualche modo compensata conferendo alle istituzioni un ruolo estremamente rilevante nella gestione della complessità sociale. In un certo senso, è come se i teorici del garbage can si ritraessero con spavento dal disordine che hanno scoperchiato e dalle tremende possibilità che hanno intravisto, ed esorcizzassero il pericolo assegnando alle istituzioni compiti che vanno ben al di là di un ruolo arbitrale, per sconfinare in interventi plasmatori delle identità e delle preferenze: «È responsabilità del governo democratico intercettare e contrastare le istituzioni e i processi che producono identità vistosamente incoerenti con la democrazia, e pertanto intollerabili da un punto di vista democratico» [March e Olsen 1995, 45-46] «Ciò significa costruire e sostenere le identità, le preferenze e le risorse che rendono possibile una comunità politica» [ibidem, 28]. Un esito di questo genere tende evidentemente a distaccarsi dall’ambito della policy inquiry, caratterizzata da un rispetto incondiziona- LA «POLICY INQUIRY» to per le preferenze e le identità, così come concretamente si incarnano negli individui, unici giudici legittimati ad esprimersi sulla loro sensatezza. Al contrario, la governabilità garantita dal ruolo pervasivo delle istituzioni sembra talvolta sconfinare nell’aperta manipolazione, come suggerisce il recupero del concetto di falsa coscienza: «Le identità e le preferenze perdono autenticità quando le loro basi sono corrotte da informazioni, frames, emozioni e conclusioni che sono false: in altre parole, da una falsa coscienza» [ibidem, 87]. Nel confronto tra l’originaria impostazione, liberale e sorretta dalla fiducia, e la nuova propensione a favore di un attivo intervento delle istituzioni nel plasmare le identità, si può forse cogliere il segno della preoccupazione per l’incontro ravvicinato con culture indifferenti al fascino della democrazia occidentale. 5. Questioni aperte Molte delle critiche rivolte alla policy inquiry sono già state implicitamente presentate quando sono stati discussi i presupposti teorici e metodologici dell’analisi razionale. Infatti le risorse di quest’ultima illuminano i difetti della prima: mancanza di formalizzazione, imprecisione del metodo, genericità di concetti quali aggiustamento o apprendimento, debole potere prescrittivo. Per onestà occorre tuttavia ammettere che la contrapposizione tra i due approcci si pone oggi in termini più sfumati, come se la polemica radicale appartenesse più alla stagione della fanciullezza che a quella della maturità. Da fronti diversi, i lavori di Dunn [1981], di Weimer e Vining [1998] o di Wayne Parsons [1993] sono consapevoli e rispettosi dei meriti dei paradigmi che pure decidono di non utilizzare. Altri rilievi critici sono stati illustrati nel corso della presentazione dei quattro contributi sui quali si regge la policy inquiry. Se la loro trattazione congiunta esalta i margini di sovrapposizione e le convergenze, tuttavia è chiaro che considerare le politiche come conoscenze in uso, o come interazioni, o come processi, o come bidoni della spazzatura può portare a strategie di ricerca tra loro in conflitto [Paris 1988, 87]. Dato che queste critiche possono evolvere in un confronto tra paradigmi, conviene passare all’esame di contestazioni più mirate e specifiche. 5.1. La confusione tra il piano descrittivo e il piano prescrittivo La critica più penetrante imputa alla policy inquiry la razionalizzazione dell’esistente, con la continua confusione tra le finalità descrittive e quelle prescrittive: «La nostra critica più radicale all’attuale letteratura sull’implementazione è la sua tendenza a sovrapporre afferma- 277 278 CAPITOLO 4 zioni empiriche e normative, come avviene soprattutto all’interno dell’approccio bottom-up» [Linder e Peters 1987, 471]. Questa osservazione colpisce al cuore i presupposti pragmatici della teoria pluralista della democrazia. Secondo i suoi critici, la contaminazione tra il mondo com’è e come invece dovrebbe essere finisce con il limitare sia le potenzialità prescrittive dell’analisi, sia quelle descrittive. 5.2. L’inaffidabilità sul piano prescrittivo 5.2.1. Il pregiudizio a favore dello «status quo» La policy inquiry, soprattutto nella sua versione incrementalista, è accusata di assegnare un preconcetto vantaggio allo status quo, dimostrando così il suo carattere conservatore, che ammette solo lievi scostamenti e che non riconosce legittimità alle voci in netto dissenso dai valori dominanti. Questo modo di procedere a piccoli passi rischia di offuscare il disegno generale delle politiche e di portare a una utilizzazione delle risorse molto inferiore alle effettive potenzialità: «La timidezza rispetto al cambiamento delle politiche, implicita in larga parte delle teorie incrementali, appare inadeguata al grande impegno per la trasformazione delle politiche e per la ricerca di quei nuovi paradigmi che sarebbe necessario per realizzare davvero la società che sperimenta» [Peters 1998, 127]. Se, come afferma Max Weber, «il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile» [Weber 1919, 121 trad. it.], l’autolimitazione degli orizzonti suggerita da larga parte della policy inquiry può avere effetti paralizzanti. Infatti l’incrementalismo prende per data la definizione di ciò che è fattibile: ma l’ampiezza dello scostamento che il presente può sopportare dipende da come definiamo il presente [Dror 1964; Majone 1975]. Scendendo a un livello più concreto, occorre rilevare che non sempre l’avanzamento a piccole tappe è la soluzione più pratica e meno costosa. Quando i problemi sono del tipo tutto o niente, cioè quando esistono soglie al di sotto delle quali una prestazione è un insuccesso, come avviene in molte politiche a sfondo tecnologico75, il mancare anche di poco il bersaglio equivale a un enorme spreco [Schulman 1975]. Del resto, le teorie basate sul Total Quality Management hanno dimostrato che è possibile mirare a risultati più ambiziosi nell’impostazione dei servizi e delle politiche, mentre la rassegnazione può provocare circoli perversi basati sulla mediocrità: «Mentre una volta l’incrementalismo, in quanto espressione del pluralismo politico, era lodato come sistema in grado di assicurare che tutto sarebbe andato per il 75 Un tipico esempio sono le imprese per la conquista dello spazio. LA «POLICY INQUIRY» verso giusto, adesso sembra che il collegamento sia saltato, e che tutto vada per il verso sbagliato» [Caiden 1990, 237]. Anche il carattere sperimentale e la reversibilità delle politiche non sempre sono valori positivi: nei casi in cui alla loro base c’è un rapporto fiduciario di lungo periodo tra cittadini e amministrazione, come nel caso delle politiche previdenziali, le oscillazioni possono avere come conseguenza la perdita di diritti e la delusione [Etzioni 1967]. La rivalutazione del criterio della coerenza come principio ordinatore sia all’interno delle politiche, sia nei rapporti che le collegano le une alle altre, rappresenta la più ampia denuncia dei limiti prescrittivi dell’incrementalismo, con effetti che travalicano l’ambito disciplinare [Rhodes 1997], per investire anche le organizzazioni internazionali [OCSE 1996]. 5.2.2. La rimozione delle diseguaglianze sociali La policy inquiry, soprattutto nella sua declinazione in termini di aggiustamento reciproco tra interessi di parte, è accusata di sorvolare con troppa disinvoltura sul fatto che non tutti i gruppi hanno le stesse chanches di partecipazione alle contrattazioni. Anche questa obiezione tocca le fondamenta dell’orientamento pluralista, considerato responsabile di una concezione della società in cui non esistono barriere alla rappresentanza degli interessi, e tutti godono delle stesse risorse organizzative. Secondo alcuni studiosi, questa visione benevola e fiduciosa nelle possibilità di autocorrezione rispetto agli squilibri di potere affonda le sue radici nella cultura politica americana: L’aspirazione alla scienza come a una ricerca sistematica e scettica per la conoscenza applicata, si combina con un liberalismo americano che crede in un pubblico informato e ragionevole, che dibatte le sue diverse idee e preoccupazioni in modo democratico, con il desiderio di migliorare la qualità della vita per tutti, e con il favore di istituzioni compassionevoli e aperte, che fanno propri gli interessi del pubblico che servono [Beauregard 1998, 213]. Ricercatori quali Theodore Lowi [1969], Elmer Schattschneider [1960], Murray Edelman [1964], noti per aver approfondito da versanti diversi i limiti della pressure politics, cioè dei condizionamenti esercitati sulle istituzioni pubbliche dalle organizzazioni degli interessi, considerano completamente irrealistica tale visione. In primo luogo, non tutti gli interessi hanno uguali opportunità o uguali incentivi per organizzarsi e per ingaggiare un’attività di pressione presso i policy makers. Inoltre, quand’anche riuscissero in questo intento, non tutti godrebbero dello stesso riconoscimento e della stessa simpatia agli occhi delle istituzioni pubbliche. Infine, l’attenuazione delle differenze tra attori istituzionali e no – tipica della metafora dei policy networks – riduce l’affidabilità democratica delle strutture pubbliche e la loro 279 280 CAPITOLO 4 capacità di tenere conto di interessi più generali [Heclo 1978; Brans 1997]. Questo tipo di critiche è particolarmente sentito in Europa, dove le reti di policy emergono non con l’imprinting del pluralismo, ma per la forza delle cordate tra lobbisti: «I networks sono modelli di intermediazione degli interessi che generano una competizione oligopolistica e imperfetta» [Marsh e Rhodes 1992, 264]. 5.2.3. Una teoria pericolosa per la democrazia L’interpretazione che la policy inquiry dà del concetto di democrazia è in stridente contrasto con le teorie che fondano il suo funzionamento sul vincolo definitivo della legge e sull’imparzialità di burocrazie legittimate da ruoli tecnici [Rohr 1986]. Dopo la sua popolarità all’inizio del XX secolo, con la diffusione del progressive movement, e la successiva crisi degli anni ’40 e ’50, questa impostazione è di nuovo tornata alla ribalta della scena politologica tra gli anni ’60 e ’70, per la sua fermezza nel denunciare i rischi collegati all’enorme crescita della regolazione economica e sociale. Infatti la grande discrezionalità di cui godono le agenzie indipendenti nelle loro negoziazioni con le organizzazioni degli interessi viene considerata come una minaccia al potere legislativo e alla sua legittimazione elettorale, con effetti catastrofici per le istituzioni democratiche. Per contrastare quella che Lowi [1969] chiama la fine del liberalismo, occorre in primo luogo che il processo di governo sia difeso dalle contrattazioni, le ingerenze, le pressioni [Mansfield 1989]. Dunque, l’autonomia degli implementatori deve avere precisi confini, che le impongano di rispettare il mandato ricevuto dalle istituzioni rappresentative: «Coloro che sono eletti per occupare posizioni centrali nei governi sono eletti perché facciano le politiche [...]. Gli implementatori che non le apprezzano possono presentarsi alle elezioni alla tornata successiva» [Linder e Peters 1987, 466]. Quando sono smantellati questi confini, la burocrazia non può più operare in base a un riferimento ideale che la colloca super partes [Mashaw 1983]. Se il risultato dell’implementazione è per definizione legittimo, qualunque sia il mandato originario, se «tutto può andare», non funzionano più i meccanismi per assegnare le sanzioni politiche, perché diventa impossibile identificare i responsabili dei fallimenti che gravano sulla qualità della vita dei cittadini. 5.2.4. I rischi di disgregazione La frammentazione istituzionale e la sovrapposizione delle competenze, considerate come fattori positivi dal federalismo radicale di stampo pragmatico, possono essere guardate con spirito molto diverso e considerate come una malattia endemica del sistema americano: LA «POLICY INQUIRY» La loro forte preferenza per il decentramento può portare a un localismo caotico [...] sicché l’esito estremo può essere quella che Hobbes definisce la guerra di tutti contro tutti, rispetto alla quale la centralizzazione sarebbe la risposta più mite. In altre parole, nel localismo caotico i poteri effettivi risiedono in piccole unità di governo, mentre le minoranze locali possono essere bistrattate, le politiche possono variare enormemente tra una circoscrizione e l’altra, e così via [Golembiewsky 1977, 1500]. Benché questa critica sia indirizzata soprattutto alle teorie della scelta pubblica76, tuttavia, su questo specifico punto, le obiezioni possono valere per entrambi gli approcci. Soprattutto quando sono in gioco politiche che toccano la sfera della cittadinanza, la sperimentazione e l’eterogeneità dei risultati comportano il rischio di un’amplificazione delle disuguaglianze sociali e territoriali, mentre il rispetto letterale e uniforme delle norme fornisce garanzie irrinunciabili. Molto spesso, queste critiche contrappongono all’incrementalismo la fiducia nella possibilità di identificare ex ante le condizioni che garantiscono l’effettivo conseguimento dei risultati e la crescita della capacità di controllo dei cittadini. A questo obiettivo di una maggiore integrazione tra diverse politiche e diversi livelli di governo si fa in genere riferimento con il termine governance. Da una parte, sta la fiducia nella possibilità di anticipare le contraddizioni e di plasmare le identità; dall’altra, sta la logica del rimedio e del rattoppo e lo scetticismo verso qualunque forma di pianificazione. Da una parte, sta l’imperativo di ridurre il disordine, dall’altra, quello di non opporgli resistenza: «Sono i governi ignoranti, perché incapaci di trovare una grande strategia, o è la ricerca di una strategia a indicare che qualcosa non va nella loro intelligenza?» [Heclo e Wildavsky, 1974, 343]. 5.3. L’inattendibilità empirica I rilievi che denunciano le carenze descrittive implicite nella policy inquiry si concentrano prevalentemente su tre aspetti, peraltro collegati tra loro: • l’ignoranza circa i meccanismi che tendono a escludere in modo sistematico alcuni interessi dalla competizione per le risorse; • la sottovalutazione della capacità di cambiamento attribuita alle istituzioni; • l’incomprensione dell’importanza della fase di disegno delle politiche. 76 L’articolo appena citato è una durissima critica al volume di Vincent Ostrom, The Intellectual Crisis in American Public Administration [1973]. 281 282 CAPITOLO 4 Poiché ritorneremo su queste controversie nel corso del prossimo capitolo, ci limitiamo qui a una loro schematica presentazione. Riguardo al primo punto, peraltro già toccato per le sue dirette implicazioni normative, possiamo solo ricordare che larga parte della ricerca politologica degli ultimi cinquant’anni ruota proprio intorno alla comparazione del rispettivo potenziale descrittivo del pluralismo e delle teorie che più o meno direttamente si rifanno a una concezione elitista e piramidale delle relazioni sociali [Manley 1983]. Più che assegnare punteggi o primati, nei suoi passaggi più significativi la sfida ha mirato a evidenziare in quali condizioni e per quali problemi l’uno o l’altro dei due modelli rivelino la maggiore capacità di dare conto di rapporti che nelle società contemporanee sono comunque contorti e ambigui [Lowi 1964]. Per quanto riguarda il secondo punto, la stagione dei governi liberisti in fondo dimostra che i margini per cambiamenti radicali esistono. I tagli ai bilanci pubblici degli anni ’80 hanno in un certo senso costretto l’incrementalismo a prendere una maggiore distanza rispetto al periodo storico che fa da sfondo alla sua nascita, avvenuta in un’epoca di costante lievitazione della spesa [Caiden 1990]. Le grandi svolte non sono certo eventi frequenti, ma una comparazione diacronica sufficientemente ampia può rivelare scostamenti dallo status quo più significativi di quanto il modello non porti a predire. In molti casi, l’effetto di immobilismo è semplicemente la conseguenza della prospettiva di breve periodo adottata dal ricercatore: incorporando nell’osservazione un arco temporale più esteso, e passando dai quattro o sei anni di una tipica ricerca sull’implementazione ai dieci o dodici, è possibile un più preciso apprezzamento delle modificazioni indotte dall’intenzionale intervento dei policy makers [Sabatier 1986, 21; Fox 1990]. Questa osservazione ha effetti anche per l’esame del rapporto tra impostazione delle politiche e loro implementazione. Una consistente corrente di ricerca ritiene troppo riduttivo il ruolo che la policy inquiry è disposta a riconoscere alla fase del disegno e dell’approvazione formale [Sabatier 1986]. Infatti il modo in cui le risorse sono allocate per effetto dell’impianto originario esercita un’influenza fondamentale, che non può essere oscurata dalla catena di piccoli spostamenti nel passaggio alla concreta attuazione: «Se è vero che un’implementazione carente può rovinare la migliore delle politiche, è anche vero che un’implementazione perfetta non assicura il perseguimento degli obiettivi, se il programma adotta un approccio sbagliato» [Mayntz 1983, 124]. Il grado di adeguatezza delle teorie che stanno alla base della formulazione di una politica può risultare ininfluente nel breve periodo, ma è destinato a produrre conseguenze a mano a mano che ci si allontana nel tempo.