Serie speciale 2

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Serie speciale 2
Serie speciale
2
G IANLUIGI S ECCO
sulle delizie
della Passera &
dell’Asparago
officinale
ovvero
TUTI MATI PAR ONDE SEMO NATI
IL MONDO DELLA SESSUALITÀ NELLE ESPRESSIONI ORALI DELLA CULTURA POPOLARE
– PROVERBI, INDOVINELLI, MODI DI DIRE, BLASONI, FROTTOLE, RACCONTI, POESIE E CANTI –
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL NORD-EST
OVVERO ALLE TRE VENEZIE, ISTRIA E ZONE D’EMIGRAZIONE
CON UNA SAGGIO INTRODUTTIVO DI
EMILIO FRANZINA
Progetto grafico e impaginazione
Gianluigi Secco
Ausiliari
Patrizia Gabrieli
Federica Bertagna
© 2005 Belumat Editrice, Belluno
INDICE
avvertenze
08
ATTRAZIONE FATALE
145
PRIAPO A NORDEST saggio introduttivo di Emilio Franzina
11
LA DONNA È BONA TUTTA
150
PER IL DOMINIO SULLA NATURA
167
DÀMELA, LA GABIA D ORO
175
TUTI MATI
considerazioni dell’Autore
59
CIAPIN CIAPIN
185
SESSO E FILOSOFIE
63
I SENSI COINVOLTI
199
TUTI SEMO MATI
67
SESSO E SPESSO
221
VITALITÀ E FERTILITÀ
75
VIRTÙ E DIFETTI NEL KAMASUTRA NOSTRANO
223
TIRA O RITIRA
81
ZOPPI E GOBBI MA…
225
MANGIARE È POTERE
83
CONSIGLI SALUTARI SULL’USO ED ABUSO
227
SE TUTI I BECHI
89
BU∫I E BU∫ ARONI
229
SU ALCUNI SOPRANNOMI DI LUI
97
GOLDONI MA NON CARLO
241
IL MITICO O∫ELIN
102
DONNA VANA, TRADITORA E PUTANA
251
L ANGUILÉTA E L ANGUILON
111
PUTANE E CA∫IN
261
COIONI CHI RESTA FORA
114
SESSO, BELLE DONNE E MALATTIE
271
SU ALCUNI SOPRANNOMI DI LEI
115
CANTI E PRELATI
283
MUSICA PER ORGANO
125
I MESTIERI
303
GIARDIN DE LE DELIZIE, EL BÒCOLO E LA RO∫A
129
OSTERIA, UNIVERSITÀ DEI POVERI
319
SIOR MARCHE∫E
133
Bibliografia
325
FAI DA TE
138
Canti e altre espressioni popolari in formato MP3 nel CD allegato
329
AVVERTENZE
AVVERTENZE
SUL CD ALLEGATO
SULLA GRAFIA
Il volume è corredato da un CD che contiene 280 reperti di vario genere inerenti al libro,
masterizzati in formato MP3. Per ascoltarli, è necessario avere un lettore abile a tale formato
oppure ricorrere all’utilizzo del computer. La successione dei brani segue la traccia del libro.
Per quanto riguarda la grafia dei testi, si è deciso di tentare una minima uniformazione usando
segni che nell’essere letti inducano a riprodurre suoni il più vicino possibile alla realtà.
Per le vocali, si sono distinte la o e la e, aperte e chiuse, rispettivamente con l’accento grave
(ò, è) e acuto (ó, é ) solo nei casi ritenuti più evidenti e discosti dalla parlata comune.
Nel libro, il numero di riferimento di ciascun brano è posto sul margine della facciata, in
corrispondenza del punto * in cui si tratta l’argomento.
Per le consonanti si è distinta la s sonora o dolce (come nell’italiano rosa o frase) adottando il
segno ∫ (ro∫a), per distinguerla dalla s sorda (come in morso o pasto), rappresentata con la s del
carattere normale (si è fatta eccezione per la xé, storica, del dialetto veneziano, quando usata
nei testi poetici).
SULLA PROVENIENZA DEI BRANI
Buona parte dei brani citati nel volume e presenti nei CD appartengono all’Archivio personale
dell’Autore, indicato come AGSB (Archivio G. Secco, del Gruppo Culturale Belumat).
Un’altra parte è dovuta alla gentile concessione di altri amici ricercatori o etnologi; sono perciò
loro grato di avermi lasciato utilizzare alcuni materiali dei loro archivi. Ciò ha consentito di dare
uno sguardo anche fuori dell’area veneta per constatare molte identità e solamente dare una
piccola idea della diffusione e ricchezza del patrimonio. I brani raccolti in Brasile, negli Stati di
Rio Grande do Sul e Santa Catarina, appartengono a quelli della nostra tradizione portata in
quei paesi dagli emigrati italiani di fine Ottocento.
Bibliografia e Discografia dei brani sono indicate in genere col solo riferimento all’Autore del
volume menzionato (a fine volume si trova l’espansione dei dati), senza altre indicazioni a meno
che non vengano citate più opere del medesimo Autore. Il numero che segue a Titolo o Autore
è quello del/i numeri di pagina; il numero seguente al numero di pagina è, eventualmente, il
numero di riferimento del brano indicato nel volume.
Per i CD, si è aggiunta la lettera E (CDE) se editi; per esempio CDE SRM, individua un CD
edito dalla Associazione Soraimar; CD BLM, un CD dell’archivio Belumat e così via.
Così pure i proverbi, gli indovinelli e i detti non specificatamente imputati ad altri, sono da
intendere da me raccolti, archiviati o editi (si veda nella bibliografia personale a fine volume).
SUI TESTI DEI BRANI
I testi sottolineati si intendono da ripetere due volte; la sottolineatura è solo sulla prima frase ma
resta inteso che la ripetizione vale per tutte le successive; solo se le frasi vanno pronunciate
ulteriormente si mette la specifica di ciò a fianco (es. 3v, per tre volte). Si sono indicate, a volte,
le ripetizioni di stornelli col simbolo di richiamo di asterisco *.
SULLE NOTE
Per non gravare troppo il testo di note, dove esistono corrispondenze e non siano stati fatti
commenti, tali riferimenti sono messi spesso in apice con l’abbreviazione dell’Autore del
volume menzionato (si vedano le indicazioni nella bibliografia generale a fine volume) e
indicazioni riassuntive.
Con s’c si è voluto indicare la pronuncia di s sorda seguita dalla c palatale; ad esempio,
mas’cio, per maschio; vis’cio, per vischio.
Non si sono raddoppiate le consonanti se non quando supposte realmente pronunciate,
anche nelle versioni ‘italianizzate’ e ‘storiche’ (poesie ecc.). La cosa è risultata ardua e
soggettiva data la frequente commistione dei linguaggi (specialmente l’italiano coi dialetti),
ritrovandoci peraltro nelle medesime condizioni di scelta degli Autori.
Si è anche deciso di non utilizzare i segni d’apostrofo o altra elisione che appesantivano molto
l’immagine grafica recando più confusione che aiuto alla lettura, ritenendo spaziature e
accentature sufficientemente indicative.
Non si è usato il segno h ad inizio o fine parola, se non quando il suono corrisponde
realmente ad una aspirazione.
Questo tentativo, arduo, sicuramente imperfetto e certamente criticabile, cerca di rispondere
alla necessità di leggere, nel modo più semplice ed efficace, dialetti differenti e di diversa epoca.
Il problema della grafia è d’altronde da tutti e da sempre sentito, tanto è vero che, per
interpretare i segni, occorrerebbero sempre indicazioni ausiliarie. Certe regole cui si sono
attenuti gli scriventi nel passato, diverse tra loro, si possono comunque intuire dato che le lingue
usate sono tuttora vive, se pur evolute. Nel caso nostro, poi, vi è stata l’ulteriore necessità di
riduzione e adattamento all’uso telematico data l’intenzione di porre in rete parte dei presenti
materiali. Essendoci comunque la possibilità di ascoltare molti dei brani da cui si sono ricavati i
testi, risulta assai più semplice l’esatta calibrazione dei linguaggi. Si ritiene, fra l’altro, che la via
adottata possa essere perfezionata e condivisa nel futuro.
SULLE IMMAGINI
Le stampine xilografiche consegnate con la sigla CR in esponente sono tratte da Iconologia di
Cesare Ripa, basilare opra seicentesca per l’identificazione delle simbologie artistiche.
Le rimanenti illustrazioni sono descritte in calce alle immagini stesse.
Alcuni dei canti e dei testi citati sono ascoltabili e/o leggibili e scaricabili dagli Archivi
multimediali sulle Tradizioni Orali del Veneto A.T.O.V. (www.venetrad.it) della Regione Veneto,
o SORAIMARC (www.soraimar.it) a tutela delle identità locali.
Saggio introduttivo
a
TUTI MATI
EMILIO FRANZINA
P R I A P O A N O R D E ST
SESSUALITÀ ED EROTISMO POPOLARE NELLE CULTURE LOCALI
FRA STORIA CONTEMPORANEA E TRADIZIONALISMO
La prima preoccupazione di chi avesse deciso di approfondire la questione della
sessualità nella cultura alta e bassa del proprio tempo (dandone pubblicamente
conto s’intende) si è a lungo sposata, se ciò comportava il ricorso a termini, a
immagini e ad esemplificazioni di particolare realismo, con la preventiva
dichiarazione di un interessamento del tutto ‘disinteressato’ per l’argomento.
La curiosità doveva rimanere rigorosamente circoscritta a un preciso ambito
intellettuale e apparire dettata solo da intendimenti d’ordine artistico o scientifico sia che a coltivarla fossero critici e filosofi e sia che fossero, più spesso,
medici, letterati, demografi e, quando arrivò il loro momento, psicologi e psicanalisti, sociologi e antropologi oppure, anche qui alla buon’ora, demologi,
cultori delle più diverse tradizioni popolari (parlate, scritte, cantate…) ed altri
accreditati studiosi del folklore. Era un modo, fra l’altro, per cercar di aggirare
le varie forme di critica demolitoria e preconcetta che incombevano, in partenza,
su opere potenzialmente definibili come oscene o licenziose e per prevenire,
soprattutto, censure che, aggressive in passato, non mancano talora di
ripresentarsi, grottescamente, ancora ai giorni nostri1.
Amanti, xilografia seicentesca
1
D. Loth, Pornografia e censura: L’erotismo in letteratura: gli attentati del censore alla libertà d’espressione,
Milano, Sugar, 1962, Y. Wailand, La repressione dell’Eros, Milano, Feltrinelli, 1968 e soprattutto J. M. Coetzee,
Pornografia e censura, Roma, Donzelli, 1966. Un ‘micro-caso’ editoriale recente è quello di Maria Cristina
Strocchi, psicologa e psicoterapeuta vicentina, che s’è vista pesantemente rimaneggiare in bozze, del tutto a sua
insaputa, parti di un libro (Penso bene mi sento meglio, Milano, Edizioni San Paolo, 2004) dei molti da lei
dedicati a temi intimi e alla sessualità e dove, a sua detta, s’era spinta a «parlare liberamente del sesso, pur senza
diventare volgare o altro»; (per i dettagli cfr. l’intervista all’autrice, da cui si cita, di Natascha Baratto, Sesso? Il
correttore aggiusta in chiave cattolica il libro della psicologa laica, in Giornale di Vicenza, 4 novembre 2004).
11
Il rischio più paventato, tuttavia, e quindi il vero pericolo da scongiurare, era che in
qualcuno s’insinuasse il sospetto, non sempre infondato del resto, di un morboso o
eccessivo coinvolgimento personale da parte degli autori nei presupposti concreti
della loro trattazione ovvero nella fenomenologia dei comportamenti e dei
linguaggi da essi presi in seria considerazione quando, viceversa, ‘il coinvolgimento
del lettore’, di norma, era auspicato ed anzi, com’è stato scritto a proposito di una
casistica italiana settecentesca, necessario: «e questo ci dice che il problema
dell’erotismo e di una sua definizione attraverso le varie epoche non è affar da poco,
soprattutto se si tiene conto che l’immaginario erotico non può rappresentare una
categoria a sé ma deve essere osservato nella complessità delle sue evenienze: dalla
formula ingenua del piacere del testo come melos e come forma di seduzione alla
possibilità di un eros spiegato come seduzione carnale, fino al turbamento, alla
violenza, al macabro…».2
L’intenzione di dar scandalo senza scandalizzare o anche solo di offrire «una
propria versione di eros eccitante ma non sconvolgente» – come avrebbero fatto
il Casti e un discreto manipolo d’autori colti del suo tempo, compreso Casanova
memorialista, per sua fortuna, in francese3 – in antitesi virtuosa, e tuttavia
spesso solo apparente, con le scritture scurrili tese a conseguire facili effetti
mediante la pura designazione verbale di organi e di pratiche sessuali maschili o
femminili, non trova riscontri degni di nota nei canti e nelle tradizioni popolari
e dovrebbe rendere meno pressante l’urgenza di una excusatio non petita e delle
contorte autocensure che viceversa hanno finito quasi sempre per connotare, lo
vedremo meglio più avanti, persino i commenti dei nostri folkloristi.
Non credo sia questo il caso di Gianluigi Secco e nemmeno di chi, accogliendone
l’invito (o la sfida?), ha deciso di fornire alla sua opera i conforti di un’appropriata
introduzione ed anzi, secondo gli è stato autorevolmente suggerito, di approntare
per essa un corredo di adeguati preliminari. Siccome, però, anche in tale materia,
potrebbero rimanere dei margini di ambiguità lessicale così fatti da lasciar
perplesso più d’uno, dando anzi l’impressione che ci si aggiri, magari in modo
inconsapevole, in un dominio gravato comunque dal peso della morbosità o più
semplicemente dalla ‘vergogna’ del dover dire l’indicibile, sarà bene mettere
anche noi le mani avanti invocando la protezione, sin dall’inizio, di un qualche
Dio Pagano magari, immaginando di averne davanti ancora uno come il vecchio
Priapo, che andrebbe assai bene e al quale nella chiusa d’un carme dirimente,
l’anonimo cantore si appoggiava, molti secoli fa, per giustificare la propria
eventuale ‘spudoratezza’ espressiva non dissimile, persino nelle forme, da quella
di tante generazioni di scrittori e di poeti a venire, compreso Giacomo Leopardi
disposto anche lui a farvi ricorso (peraltro carteggiando in privato con la sorella
2
3
L. Tassoni, Il poeta e la seduzione, intr. a Idem (a cura di) Poeti erotici del ’700 italiano, Milano, Mondatori, 1994, 9.
A. Marchi, Per una retorica dell’osceno settecentesco. Casti – Baffo – Batacchi, in Il Verri, marzo 1982, 3-24.
12
Paolina) essendo inevitabile certe volte, come insegnava magister denegatus
l’Aretino, «dir pane al pane e cazzo al cazzo».
E dunque, contrariamente a quanto aveva affermato invece, precursore a sua volta
pour cause, il padre antiquario Michelangelo Carmeli, («imperocché molto si
addice a coloro, i quali scrivono, schifare i laidi ragionamenti»):
Obscenis, peream, Priape, si non
uti me pudet improbisque verbis.
Sed cum tu posito deus pudore
ostendis mihi coleos patentes,
cum cunno mihi mentula est vocanda4.
Sgombrato il campo, si fa per dire, da possibili equivoci, resta intatto l’impegno di
rendere all’autore, più che un facile omaggio, il dovuto riconoscimento per essere
riuscito, lui almeno, a tessere con equilibrio, e anche con garbo, la trama di un
racconto indubbiamente intrigante e scabroso per definizione: ancorché
sdrammatizzata e quasi ingentilita, a prima vista, dal fatto che a delimitarne i
contorni provvede la ‘popolarità’, in molti sensi, dell’argomento, c’è subito da
osservare quanto pericolosa comunque rimanga la scelta di trattare l’universo dei
segni e dei suoni della sessualità ‘popolare’ colti e raccolti in un’area regionale
allargata come quella ‘triveneta e istro-veneta’ mediante lo spoglio d’una vasta
messe di ‘proverbi, modi di dire, indovinelli, racconti, poesie’ e, soprattutto, canti
tradizionali (la ‘pericolosità’ dipendendo dal fatto, come ammoniva Manlio Dazzi
che «parlare dello ‘spirito veneto’ nella poesia popolare, delle sue facoltà crative, dei
suoi gusti, delle sue preferenze» sarebbe azzardato «anche perché non sono
definibili l’apporto dal di fuori e la durata nel tempo <mentre> la stessa topografia
ha ancora lacune notevoli non colmate <1959> da ricercatori e raccoglitori»5).
Sin qui il sottotitolo esplicativo volto a neutralizzare quel po’ di ammiccante che
residua pour cause (non solo editoriale) nel titolo, ben sapendo, poi, che a tenere a
bada le tentazioni eventuali del paternalismo sempre in agguato allorché si parla del
popolo e, a maggior ragione, ‘in nome del popolo’, non bastano certo le professioni
d’ironico (e autoironico) distacco dei fini analisti usciti dalle file di classi e ceti
superiori, provvisti anch’essi in materia, lo si sa, d’un robustissimo bagaglio di
cognizioni e di esperienze specifiche tanto vissute quanto rivissute e narrate in versi
e in rime, in motti e in motteggi, in detti e in facezie che dai tempi del Piovano
Arlotto (e anche da prima se è per questo) movimentano le scene della letteratura,
per lo più d’intrattenimento e di alterno valore, ma di ragguardevoli proporzioni,
4
Cfr. M. Carmeli, Storia di Varj Costumi Sagri e Profani dagli Antichi sino a noi pervenuti, a cura di
Domenico Isabella, introduzione di Alberto Maria Cirese, Vicenza, Neri Pozza, 2001 (ed. or. Padova,
1750), 251 e Carmina priapea. I versi di Priapo. Traduzione, note e una lettera a Priapo di Esule Sella,
Prefazione di Paolo Fedeli, Fògola Editore, Torino, 1992, 112.
5
M. Dazzi, Premessa a Idem (a cura di), Il fiore della lirica veneziana. IV La lirica popolare, Venezia, Neri
Pozza, 1959, 34.
13
che per unanime convenzione si usa definire erotica6.
Destinati a variamente intrecciarsi, fra otto e novecento, con i trovati delle
scienze umane o come minimo a diventare l’oggetto privilegiato e la base
irrinunciabile di molte delle loro interpretazioni, i principali titoli di tale
letteratura si scorgono sovente al fondo anche del racconto che Secco costruisce
con smaliziata perizia avendo sempre di mira, tuttavia, una sua personale
‘filosofia’ e la ricostruzione promessa degli aspetti salienti della vita sessuale e
della loro rappresentazione in stretto ambito popolare.
Che tale ambito sia prevalentemente quello contadino e rurale del Veneto o del
‘Triveneto’ otto e novecentesco, più caratterizzato dal persistere di particolari
stereotipi in perenne ma precario equilibrio fra le eredità della sublime
‘maldicenza’ patrizia di nobili come Maffio Venier e Giorgio Baffo e le non
sempre bertoldesche rozzezze di un ideale Jacques Bonhomme venetico
(preceduto e quasi ‘annunciato’, però, dalla prorompente ‘naturalità’ dei
contadini del Ruzante e dalla illustre tradizione ‘rusticale’ pavana che ne era
derivata7), rafforza certo il quadro sbozzato dall’autore, ma non elimina né
risolve il problema, a tratti angoscioso per noi e da lui sottinteso o sottaciuto,
delle presunte ‘identità’ areali e regionali. Senz’altro esse esistono, prodotte
come sono da una storia comune di secoli e secoli, ma con altrettanta sicurezza
risulta, almeno agli uomini di senno, che non siano date una volta per tutte.
Più d’uno oggi si arrovella, contraddittoriamente, onde rivitalizzarle proprio
come tali, ossia come immutabili ed eterne, giungendo addirittura a proporre
bizzarri tratteggi simbolici tramite l’innalzamento di rinnovati cippi confinari
(nel caso nostro – che scriviamo allo scadere dell’anno di grazia 2004 – dei serenissimi e marcheschi leoni, i quali dovrebbero orgogliosamente segnalarle e
compendiarne, quel ch’è peggio, le improbabili peculiarità). Sul tema dei confini
innanzitutto sociali, ma poi anche geografici, va da sé che si potrebbe aprire
adesso una lunga e dotta parentesi che qui naturalmente non può trovare spazio.
Vale la pena, tuttavia, accennarvi per ricordare intanto, a costo d’incorrere nel
peccato di ovvietà, che il lavoro di Secco porta logicamente acqua al mulino della
6
Cfr. per comodità l’opera al momento senz’altro più estesa e informata di Sarane Alexandrian (Storia
della letteratura erotica, Milano, Rusconi, 1994, 1^ ed. Paris, 1989) un armeno iracheno di talento nato
nell’anno in cui usciva in edizione originale un altro grande libro sul tema dei molti oggi disponibili (quello
di P. English, L’Eros nella letteratura, ed. it. Milano, Sugar, 1967), fra cui meritano almeno una
segnalazione le opere in più volumi di J. J. Pauvert, Antologie historique des lectures érotiques, Paris, StockSpengler, 1995-1996 e D. Scafoglio, Racconti erotici italiani. Le raccolte storiche, Roma, Meltemi, 1996.
7
E. Lovarini, Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura di G. Folena, Padova, 1965. La letteratura
storiografica e letteraria sul Ruzante è molto vasta (Milani, Baratto, Zorzi, Folena, Lippi ecc. ) e contiene svariati
accenni alla ‘elementare vitalità sessuale’ dei contadini messi in scena dall’autore rinascimentale - per cui si rinvia
a G. Padoan, Angelo Beolco, detto il Ruzante, in Aa.Vv., Storia della cultura veneta, a cura di G. Arnaldi e M.
Pastore Stocchi, vol. 3/III, Dal primo quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, Neri Pozza, 1981, 343-375 - e
dai suoi epigoni ed imitatori, presenti in diversi ambiti provinciali (cfr. G. Folena, Scrittori e scritture. Le occasioni
della critica, intr. di Marino Berengo. Edizione a cura di Daniela Goldin Folena, Bologna, Il Mulino, 1997, 325).
14
irrilevanza identitaria, fondata sull’universalità delle esperienze umane, sessuali
in questa fattispecie libresca e musical-canora8, e dei modi in cui esse vengono
narrate, se non sempre dei giudizi e dei pregiudizi morali che le ispirano e
contrappuntano, incrociando fonti popolari e fonti colte dalle quali si evince
l’estrema difficoltà di tracciare, tra un comparto e l’altro, linee di divisione
perentorie o troppo rigide e nette. Il che riesce soltanto, se ben si guardi, allorché
ci s’intrattenga sulle diversità di stili e sulle sfumature di toni, più che non di lessico
e di vocabolario, avuto riguardo per l’uso insistito e comune del dialetto e
soprattutto per ciò che la vita quotidiana e la storia, e non già una inesistente
appartenenza etnica o razziale, hanno prodotto con l’andar del tempo. Da tale punto
di vista pur scontando un evidente e obiettivo divario nella disponibilità, oggi, di testi
folklorici sempre esattamente confrontabili tra loro, spiccano ad esempio, a
petto della rigogliosità delle fonti friulane e istro-venete, la pochezza o la relativa
povertà apparente delle testimonianze paremiologiche e, in parte, canore di
sicura ascendenza trentina oppure la quasi totale assenza, nell’opera, di quelle
provenienti dalla ‘Lombardia veneta’ e cioè da un’ampia fascia bresciana e
bergamasca, ricca di centri urbani e però anche di campagne aperte, di
montagne e di valli che vissero per secoli sotto il governo di Venezia9.
8
Per la sua valenza antirazzista estremamente, ahimè, sempre attuale, si veda il saggio su Musica e razza pura,
composto nel 1944 da Béla Bartók in Scritti sulla musica popolare, a cura di D. Carpitella, Torino, Einaudi, 1955.
9
Naturalmente non si tratta di stilare delle graduatorie speciali di quantità o di valore nel campo degli studi
demologici ed etnomusicologici fra otto e novecento anche se son note la vivacità e la precocità di quelli datisi in
Friuli, in Istria e in Carnia da dove proviene parte del materiale riscontrato qui da Secco e usato a suo tempo, per
il Nordest, da Raffaele Corso nell’opera di cui alla nota (80).
La linea che in Carnia e in Friuli raggiunge da Osterman, alle soglie dei giorni nostri, Pasolini o D’Aronco
(studioso, questo, a cui devo la mia iniziazione, quasi quarant’anni fa, allo studio delle tradizioni popolari
nell’Università di Padova), si sviluppa con il contributo di una serie insigne di specialisti (folkloristi, dialettologi,
cultori di letteratura popolare ecc.) dai Leicht a Chiurlo, a Gortani, a Faleschini e Perusini ecc. (per un panorama
di apertura cfr. G. Costantini, Folkloristi friulani, in Lares, III, 1932, nn. 3-4,117-122) e si rispecchia a Trieste e
in Istria, anche qui fino alle attuali ricerche di Roberto Starec, nell’opera di Antonio Ive, di Francesco Babudri,
di Mario Ranieri Cossàr, di don Giuseppe Radole ecc. mentre in Trentino, pur allineando vari precursori come
Geròla (Augusto Arsieri), Larcher, Felicetti, Ferrandi, Cristoforetti ecc., dovrà attendere, per meglio
esplicitarsi, l’apertura a S. Michele all’Adige del Museo degli usi e costumi della gente trentina su iniziativa di
Giuseppe Sebesta. Di questo infaticabile studioso e organizzatore si veda, in collaborazione con Giovanni
Tassoni, la cura e l’edizione del volume di Proverbi trentini, ladini e altoatesini, Roma, Bulzoni, 1986.
Per i canti popolari trentini, che vantano invece studi annosi e avvertiti (da quelli di Albino Zenatti, che si
occupò anche di canti veronesi del Baldo, a quelli dei Pedrotti e oggi, soprattutto, di Renato Morelli) sul
Trentino incombe, buona o mala che sia, la sorte delle versioni coreutiche alpine della SOSAT e poi della
SAT (per cui cfr. M. Sorce Keller, Tradizione orale e canto corale: ricerca musicologia in Trentino, Bologna,
Forni, 1991, e M. Caracristi, Il canto popolare in Trentino: dalle ricerche ottocentesche ai repertori di
montagna, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia, aa. 2003-2004, rel.
E. Franzina). Discorso anche più complesso sarebbe da farsi infine sul versante bresciano bergamasco che
appare ricco, fin dai tempi di Antonio Tiraboschi e di Gabriele Rosa (di cui si veda l’opera pionieristica su
Dialetti, costumi e tradizioni nelle provincie di Bergamo e di Brescia, Brescia Stab. Tip. Lit. di F. Fiori e
Comp. MDCCCLXX, Terza edizione aumentata e corretta) di una sua nobile tradizione di studi rinvigorita
ai giorni nostri dai testi spesso esemplari (di Leydi, Pianta, Sanga, ecc. ) raccolti nella nota collana sul Mondo
popolare in Lombardia e pubblicati da Silvana Editoriale per impulso dell’omonimo ente Regione.
15
Secco, se anche si fosse potuto provvedere altrimenti, ha lavorato ad ogni modo
su una base assai ampia che delle componenti trentine e lombarde, ad esempio,
ha tenuto conto non foss’altro che per l’origine, come vedremo, ‘sudamericana’
di molte delle sue fonti e di non pochi dei suoi informatori.
Meno interessato di chi ora scrive ai possibili risvolti identitari della questione,
egli si è concentrato poi, seguendo un filo speculativo suo proprio, alla
rigogliosità e alla ricchezza delle immagini scaturite dall’esperienza secolare
delle popolazioni rurali sull’erotismo e sul sesso sistematicamente
riscontrandole ‘al presente’ e verificandone l’omogeneità sostanziale. Una
omogeneità, quindi, che la dice lunga sulla labilità di alcuni almeno dei ‘confini’
sopra richiamati.
Per opposti motivi, infatti, essendo la storia del Trentino, come si sa, discosta e
sconnessa da quella dei domini di terra della Serenissima tanto quanto vi fu
congiunta intimamente la storia di mezza Lombardia e del Friuli o dell’Istria e di
molte parti del litorale adriatico, si configura qui una prima e salutare rottura con
la pretesa di poter identificare su basi semplicemente territoriali, espropriate di
ogni nesso corretto con le appartenenze sociali e con il passato, il profilo delle
mentalità e delle attitudini medie, soprattutto della cosiddetta ‘gente comune’
delle campagne, a cui la pratica e le rappresentazioni della vita sessuale rinviano o
dalle quali, in qualche misura, dipesero e, talvolta, tuttora dipendono sotto un
profilo in senso lato culturale.
Ricordarne alcune così alla rinfusa non è affatto difficile e conferma nel dubbio
che a determinarle, molto più dell’etnia o di pretese vocazioni ‘innate’, siano
stati, con la storia, certe costanti di pensiero e certi generi di vita dettati dalle
stratificazioni sociali e dalle dure contrapposizioni di classe, dal magistero
pervasivo della Chiesa cattolica e, a vari livelli, dal perbenismo puritano che
quasi sempre ne conseguiva, ci si trovasse nelle contrade di montagna già
sottoposte ai principi/vescovi e all’Imperatore, in zona lombarda o in zona
veneta, nella Patria del Friuli o lungo le coste del mare Adriatico.
La presunta morigeratezza e l’asserita semplicità dei costumi dei contadini
facevano a pugni, sulla carta, con le licenze a tratti sfrenate ch’erano usi invece
concedersi, in città e spesso vantandosene, i potenti e i signori delle terre su cui
quelli lavoravano, ma la frequente, inossidabile inclinazione dei primi alla
deferenza e alla dipendenza e la propensione al comando e, non di rado,
all’abuso dei secondi, nient’affatto peraltro casuali, informandosi a una stessa
logica in parte misogina e maschilista, in parte paternalistica e, molto a parole,
interclassista, sfociavano entrambe, comunque fosse, in quella nota miscela di
bigottismo e d’ipocrisia che avrebbe velato e minimizzato a lungo l’incidenza fra
la gente del popolo delle pratiche sessuali concepite in senso ludico proprio
perché finalizzate essenzialmente al conseguimento del piacere.
16
La strada all’affermarsi del più classico e qua e là bonariamente diffamatorio
cliché identitario veneto, per così dire, era spianata insomma da tempo quando
nell’ottocento intervennero, come stava succedendo d’altronde nell’intero
Occidente, quella torsione tutta borghese delle valutazioni correnti in materia di
sesso (e, a latere, quella definitiva fissazione degli stereotipi regionali) che fra
romanticismo e positivismo non a caso trovarono proprio da noi alcuni
interpreti d’eccezione capaci di ‘far scuola’ in Italia, dal veronese Cesare
Lombroso al vicentino Antonio Fogazzaro.
Quello con le sue teorie riguardo alla ‘degenerazione’ che riscontravano i trattati
di R. von Krafft–Ebing sulle perversioni sessuali, fondando addirittura un
nuovo tipo di scienza psichiatrica, questi, con la forza persuasiva dei suoi
romanzi e, ma lo si seppe soltanto più tardi, sull’onda di vicende personali e
private non scevre da complicazioni erotico-esistenziali d’una certa consistenza,
disegnando un profilo ideale d’amore borghese, finirono in certo modo
entrambi per confluire nell’alveo di una comune e molto ‘inquieta’ cultura tardo
ottocentesca10 per la quale, anzi, Fogazzaro suggerì modelli di comportamento
amoroso che presero nome appunto da lui tanto che, negli anni in cui si veniva
scrutinando e precisando per il campo popolare, da parte dei demologi, il quadro
delle caratteristiche espressive e comportamentali dei contadini sub specie
sexuale a cui fa riferimento qui Gianluigi Secco, si cominciò a parlare
insistentemente, in Italia, di ‘fogazzarismo’.
Di ‘figazzarismo’, per la verità, avrebbe preferito, motteggiando, che più
correttamente si parlasse Luigi Russo nei suoi privati conversari (accontentandosi in
quelli pubblici di biasimare, come altri del resto, le contraddizioni dell’‘amore in
chiesa’ o degli incroci ‘fra il talamo e l’altare’), ma l’immagine e l’idea rimasero
appiccicate soprattutto in Veneto al ‘piccolo mondo’ retrivo di tradizione repressiva
e controriformista che si supponeva fosse rimasto del tutto tagliato fuori, con le sue
piccinerie parrocchiali irte di ciàcole e di pettegolezzi grassocci, «dalle grandi correnti
di traffico politico-culturale e perciò dai maggiori cambiamenti di costume».
10
Cfr. P. Gay, Il secolo inquieto. La formazione della cultura borghese 1815-1914, Roma, Carocci, 2002 ed E.
Franzina, Mate de Toni. Le donne, Fogazzaro e l’amore nel fogazzarismo, in Aa.Vv., Eros e civiltà nel Veneto,
nr. speciale di Schema, a. VII, n. 2, n. s., 1985, 87-136. La letteratura storiografica su Fogazzaro e Lombroso
è pressoché sterminata e da me appena accennata per il primo, fino al 1985, nel saggio testè citato, mentre per
il secondo, oggetto anche di recente di studi oltremodo approfonditi (cfr. specie, M. Gibson, Nati per il
crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica, Milano, Bruno Mondatori, 2004 (ed. or.
Westport, Conn., 2002) e D. Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003) mi limito a segnalare,
riguardo ai nessi con i concetti di degenerazione e di devianza (su cui restano sempre da leggere i contributi
raccolti a cura di S. L. Gilman e J. E. Chamberlin (eds), Degeneration: The Dark Side of Progress, New York,
Columbia University Press, 1985) l’articolo di Nerina Miletti (Analoghe sconcezze. Tribadi, saffiste, invertite
e omosessuali: categorie e sistemi sesso/genere, nella Rivista di antropologia criminale fondata da Cesare
Lombroso, estr. da Donna Woman Femme, DWF, 1994, n. 4).
17
La lunga durata delle visioni di un’area regionale abbarbicata al conformismo
moralistico e religioso, dimentica delle remote impennate ruzantesche, dei loro
rustici ‘mariazi’ e delle descrizioni allusive ‘alla bulesca’ o, al massimo, debitrice
del morbido (e torbido) trapasso in seno alla civiltà rurale tradizionale di
numerose credenze e di parecchie rinnovate ipocrisie ormai caratteristiche del
ceto piccolo borghese urbano, magari nell’accezione goldoniana del termine
vanamente contraddetta, fra sette e ottocento, dalle ultime riprese e
dall’effimero revival del poetar ‘pavano’, avrebbe retto, in effetti, sino all’altezza
dei rivoluzionari anni sessanta del novecento celebrando un’ultima volta i
propri fasti nella cinematografia di cassetta imperniata sui facili accostamenti
fra sesso e religione, sesso e famiglia, ecc. e culminata nella moderna parabola di
Signore e signori (1966) per opera di Pietro Germi.
Il progressivo venir meno, nel giro di un decennio, di tali resistentissime
vedute, stando alle indagini alla Kinsey, nel 1976, di Giovanni Caletti e di altri
sociologi11, ispirava a Gabriella Imperatori, passata un’altra manciata di anni,
una serie di interrogativi ai quali, letto e riletto, l’affresco allestito oggi per noi
da Gianluigi Secco, non si stenterebbe ancora a dar credito e, soprattutto,
risposte in linea di massima negative seppur con varie riserve e qualificate
eccezioni. Nella crisi già allora postmoderna della cultura dei sentimenti e del
sesso di origine tradizionale, il caso del Veneto era stato assunto da Caletti, un
po’ avventatamente, a mo’ di campione ed anzi come pressoché paradigmatico
di tutte le altre regioni italiane.
«C’è da chiedersi – si domandava allora la già citata Imperatori – se il Veneto
odierno abbia ancora qualcosa da spartire con quello descritto dal Fogazzaro, in
cui l’ipocrisia cattolica è esca per la ribellione metafisica di eroine agnostiche e
passionali, e che tuttavia sublimano gli impulsi perché lo spirito è più forte della
carne. O con quello clerico-fascista che fa da sfondo al Prete bello di Parise, dove
tra estrose scenografie si aggirano ‘uomini come fantasmi dai torbidi pensieri’,
e dove le componenti sessuali arrivano a un’attenzione spasmodica perfino alle
sensazioni olfattive e tattili, e al gusto della rubricazione di oggetti di
abbigliamento, oltre al consueto cocktail di sesso, preti, donne e parolacce»12.
11
G. Caletti et alii (a cura di), Il comportamento sessuale degli italiani, Bologna, Calderoli, 1976.
G. Imperatori, Cultura dell’amore e del sesso nel Veneto, in Aa.Vv., Eros e civiltà nel Veneto, cit., 23.
13
M. A. Mazzocchi, La letteratura, i giovani e la rappresentazione della sessualità, in Aa.Vv., Il secolo dei
giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, a cura di P. Sorcinelli e A. Varni, Roma, Donzelli,
2004, 187-211. Non a caso l’autore non cita uno scrittor giovane come il vicentino Trevisan da noi tirato
in ballo nel testo per ragioni essenzialmente lessicali e linguistiche, bensì, dopo aver preso le mosse, com’è
ovvio, dall’ultimo Pasolini, un narratore veneziano, Tiziano Scarpa, la cui vena ‘pornografica’ appare,
ambientazioni lagunari a parte, del tutto ‘pervasiva’, imperniata com’è sulla fisicità e sulla sessualità di un
erotismo ludico ispirato alla tradizione bachtiniana del ‘corpo grottesco’ (cfr. T. Scarpa, Occhi sulla
graticola. Breve saggio sulla penultima storia d’amore vissuta dalla donna alla quale desidererei unirmi in
duraturo vincolo affettivo, Torino, Einaudi, 1996).
12
18
E non era ancora venuto il tempo, si
badi, de L’odore del sangue (scritto nel
1979, ma divulgato solo nel 1997) o
delle algide recriminazioni, per
tutt’altri versi e per rimanere, venti
anni più tardi, in zona per così dire
parisiana, di un risentito narratore di
piccole cose venete (qui infatti
vicentine, ma in realtà, poi, italiane)
come Vitaliano Trevisan. Questi
serba netta, nei propri scritti, la memoria della oppressione clericale e,
qua e là, manovra un suo vivace
turpiloquio popolaresco a sfondo
sessuale che però, della sessualità
popolare agita, narrata e cantata, ben
poco, di fatto, si preoccupa, diLegge naturale, xilografia seicentesca
versamente da quanto invece succede
13
nel vasto pelago letterario e giovanile coevo .
In mezzo, durante una stagione nella quale non mancano le morti notevoli di
preti colti da infarto in sala mentre di nascosto visionano, a scopo scientifico
s’intende, pellicole di contenuto altamente osceno o momenti in cui qualche
pruriginoso successo editoriale arride, per i tipi di una Marsilio allora padovana,
a un noto libro su Il sesso in confessionale, mentre imperversa ovunque, per poi
gradatamente declinare, l’indicativo mercato delle video cassette pornoerotiche
e infine un mondo intero, per via di internet, si accinge ad essere, in brevissimo
volgere di tempo, travolto e rivoluzionato, si collocano ancora una volta il
ricordo e la condanna, sin troppo facili a dir la verità, degli usi e dei costumi
sessuali ‘veneti’ per supposta antonomasia.
In un libricino di appena una decina di anni fa in cui si lamenta «che pecà, che i
pecà sia pecà», essi vengono descritti quasi nostalgicamente e pressoché al
passato come pregni di un misto tra tabù e superstizioni traboccanti «di paure sia
per la punizione divina, sia per la perdita di consenso sociale».
«Il popolo veneto – annotano venendo a parlare di ‘tradizione popolare’ gli
autori, due giornalisti di cui s’è persa traccia – <così> legato agli insegnamenti
religiosi, è stato uno dei più colpiti dai tabù sessuali e, anche se la sua tradizione
popolare è sempre stata forte di un linguaggio ricco e colorito, non da meno vi
cogliamo i sintomi di una terribile rigidità coattiva»14.
CR
14
F. Mattiello e L. Cariolato, Il Veneto, il sesso, il peccato…, Vicenza, Demetrio Pencilini Editore, 1993, 15.
19
Peccato, verrebbe voglia di aggiungere prolungando il gioco delle citazioni
proverbiali, che i linguaggi ricchi e coloriti alberghino in seno a una cultura
popolare che li produce proprio perché ne conosce e ne pratica, e non solo si
sforza di esorcizzarne, cause ed effetti d’ogni tipo. Solo che sino ad oggi o, se si
preferisce, sino a questo lodevole sforzo compiuto tra molte difficoltà da
Gianluigi Secco, raramente ne era stata azzardata una descrizione panoramica
ed esaustiva nei voti, girovagando fra canzoni e proverbi e attingendo a repertori
vasti, originali e non sempre o necessariamente ‘fossili’ sui quali noi stessi non
avremmo potuto concentrarci con efficacia se prima non avessimo cercato, e sia
pure nello spazio angusto concesso a chi deve solo stendere una introduzione, di
fare ulteriore chiarezza riflettendo su alcuni concetti e su alcuni percorsi della
ricerca comme il faut che servono a lumeggiare, a loro volta, i principali aspetti
della nostra questione.
Essa, occorre infine ricordare, si viene da ultimo complicando in virtù di una
inversione e di una mutazione considerevoli di quelle abitudini emigratorie,
chiamiamole così, dei veneti, dei trentini, dei friulani ecc. sui cui retaggi
latinoamericani, come si vedrà, Secco ha tanto e tanto bene lavorato, perché
molti di costoro, oltre a gestire ‘in casa propria’ l’arrivo continuo dall’esterno di
uomini (e sempre più spesso di donne, magari destinate al nostro fiorente
mercato prostituzionale15), hanno di nuovo cominciato, da qualche anno in qua,
a stabilirsi altrove, delocalizzando le imprese e le iniziative economiche a cui
devono la loro più recente fama e ricchezza, alla ricerca evidente, tuttavia, di
sicurezze emotive e di risarcimenti psicologici nonché sessuali, tutti assai
compromessi con lo status padronale e maschile periclitante o del tutto ormai
frantumato in Veneto.
E l’altrove più indicativo in rapporto al nostro tema della sessualità popolare non
è nemmeno, scontatamente, quello esotico e subtropicale o caraibico brasiliano,
in bilico tra Varadero e spiagge solatìe di Fortaleza, dove pure si recano oggi in
tanti anche di modesta estrazione per supplire a un banale deficit erotico creatosi
o riprodottosi, per loro, nel Veneto natale, bensì l’Oriente europeo già comunista
e, con speciale trasporto (a cominciare da quello aereo da Treviso o da Villafranca
per Timisoara), la Transilvania ed altre zone neolatine della odierna Romania,
meta nel remoto passato di tutt’altri trasferimenti avviati a metà ottocento
nientemeno che da gruppi di operai della Val di Fiemme e proseguiti, sino alla
fine di quel secolo, da gruppi a volte anche corposi di contadini originari del
Polesine o delle province centrali del Veneto. Oggi, invece, a giudicare da ciò
che ne dicono giornalisti e sociologi come Rumiz e Sacchetto16, un numero
15
F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante e donne trafficate. Il caso delle donne albanesi, moldave e
rumene, Milano, Franco Angeli, 2004 e N. Achebe, The Road to Italy: Nigerian Sex Workers at Home and
Abroad, in D. J. Guy (ed. ), Sex Work and Women’s Labors around the Globe, nr. speciale del ‘Journal of
Women’s History’ vol. 15, n. 4, Winter, 2004, 178-185.
20
discreto di veneti e di friulani alimenta in
Romania, in stretto parallelo con quello economico, un trasloco singolare di pratiche e di
sentimenti certificato anche dal sensibile
incremento dei matrimoni misti fra maschi
italiani e donne del posto (impalmate qui o là
poco importa) il quale, a sua volta, configura una
sorta di ‘delocalizzazione affettiva’ ispirata a (e
guidata da) interi armamentari di vedute sul
sesso di estrazione chiaramente popolare e non di
rado ‘regionalisticamente’ impostate. Sembra
quasi che si stia rigenerando in Romania tutta
una subcultura, rigorosamente maschilista e
Immaginazione, xilografia seicentesca
contadina, messa in crisi ‘in patria’ non solo
dall’età dei protagonisti, bensì dal venir meno del modello tradizionalista più
rimpianto – quello della donna sottomessa e lavoratrice – in ambienti naturali e
paesaggistici, per giunta, non ancora devastati dall’incalzare della modernità.
Chissà che non se ne possano cogliere, di qui a qualche tempo, i contraccolpi
canori o proverbiali, a titolo di tenue risarcimento per la scomparsa, in situ
proprio, di tutta una civiltà ‘organica’ compianta, ben prima del veneto Marco
Paolini, dal friulano Pier Paolo Pasolini e da molti critici di fine novecento17,
visto che la maggior parte degli intervistati da Rumiz parla una lingua arcaica e
rustica al di là del lessico antiquato (e del dovuto): «Qua la dona lavora più de
l’omo» – «Se vede che l’omo xé più bravo». Bravo di fare che? «De far lavorar la
dona». «Che la pia∫a, che la ta∫a, che la staga in ca∫a» pare del resto fosse un
motto assai caro a Papa Sarto, il più veneto dei pontefici di tutto il novecento,
com’è rammentato anche in un passo del presente libro e come a tutt’oggi
ritengono alcuni ritardatari appunto ritardati18.
Al pari di tanti altri motti di spirito e di tanti aneddoti faceti (nel senso additato
da Freud o anche, a modo suo, da Gershon Legman, lo studioso americano di
CR
16
P. Rumiz, Arad, La fabbrica rumena delle spose all’antica, in ‘La Domenica di Repubblica’, 19 dicembre
2004 e D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Immigranti, capitali e azioni umanitarie, Verona, Ombre
Corte, 2004.
17
Cfr. ad es. G. L. Beccaria, Convenzionalità e alterità nella letteratura degli ultimi: il canto popolare, in
Idem, Le forme della lontananza. La variazione e l’identico nella letteratura colta e popolare. Poesia del
Novecento, fiaba, canto, romanzo, Milano, Garzanti, 1989, 245-284 (specie 248-249).
18
Cito, senza commento, da una rubrica di ‘Lettere al Direttore’ dei giorni in cui scrivo (in Giornale di Vicenza,
27 dicembre 2004): «Di recente un lettore si è lagnato che pubblichiate delle ‘omelie’…contro il femminismo.
Magari fosse così: oggi è più facile sentire omelie filo femministe. Se qualcuno ogni tanto si permette di
ricordare che il centro della vita della donna rimangono la casa e la famiglia... scatta immediato il sarcasmo e il
luogo comune del ‘tornare indietro di vent’anni’. Che strano concetto hanno certe persone dell’‘avanti’ e
dell’‘indietro’: e comunque, visto dove stiamo andando, quante volte sarebbe meglio se tornassimo indietro. –
Franco Damiani, Villafranca Padovana».
21
oralità in sorte autore dell’acuta osservazione secondo cui per i più, purtroppo,
«murder is a crime. Describing murder is not. Sex is not a crime. Describing it
is…»19), questo di Pio X, se da un lato aiuta a comprendere meglio alcuni aspetti,
a volta persistenti e persino attuali, del contesto culturale e comunitario veneto e
del discorso affrontato anche per il presente da Secco, non permette poi, da solo,
di entrare nel merito storico e diacronico del lussureggiante universo di parole e
di immagini, di sensazioni e di suoni sulla donna e sulla sessualità che egli ha
infine saputo così bene indagare, recuperare e ‘restituire’ nel proprio lavoro.
Come gli sia riuscito e attraverso quali strade vi sia pervenuto, compete a questa
introduzione, fra le altre cose, di dire attenendosi alla più ‘dinamica’ e moderna
critica delle fonti (alla Topolski) che si spera non torni del tutto sgradita a chi
legge, benché senz’altro gli imponga, prima del piacere garantito dalla
consultazione di testi e di ragionamenti illuminanti di per sé sulla sessualità
popolare veneta, la penitenza di una sosta pensosa su ciò che, da un punto di
vista storico e documentario, sta dietro (o sta sotto, fate voi) al discorso, a
cominciare dalle strategiche distinzioni concettuali fra erotismo, pornografia,
licenziosità, oscenità ecc.. Si tratta di distinzioni della sfera sessuale e del suo più
diverso atteggiarsi nel tempo e nello spazio che non sempre sono scontate e
d’immediata evidenza anche se tali, magari, appaiono la maggior parte delle
volte: inesistente e alla fin fine priva di vero senso quella fra erotico e
pornografico la cui linea teorica di separazione, infatti, come ha ben affermato
Almansi, «segna un tracciato che può essere spostato ovunque, avanti o indietro…
al primo segnale di concupiscenza o all’ultimo avamposto dell’orrore»20, abbastanza
controversa e discutibile anche l’altra fra licenziosità ed oscenità laddove
s’individui solo nella seconda il ‘boundary marker’ capace di segnalare la
frontiera tra i diversi livelli di accettabilità sociale di cui ha parlato di recente Joan
19
S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Leipzig, Wien Deuticke, 1905 (Il motto di spirito
e la sua relazione con l’inconscio, Roma, Newton, 1976) e G. Legman, L’umorismo erotico. Psicanalisi delle
barzellette spinte, ed. it. a cura di P. Meldini e M. Senesi, Rimini, Guaraldi, 1972 e Idem, No Laughing Matter.
Rationale of the Dirty Joke. An Analysis of Sexual Humor. Second Series, New York, Breaking Point, 1975 (per
altri aspetti come quelli più propriamente letterari si veda invece N. Borsellino, La tradizione del comico. L’eros,
l’osceno, la beffa nella letteratura italiana da Dante a Belli, Milano, Garzanti, 1989).
Osservo infine, ma molto en passant, che nei casi più significativi e più ‘recenti’ di ameno racconto a me noti,
come la storiella dei due giovani che vanno per la prima volta in casino a Padova o quella dei sondaggi sulle
posizioni erotiche preferite, zona per zona, dagli italiani (tutte cose di cui riesco a dar conto assai meglio a voce
in conferenze/spettacolo musicali sul tipo di ‘Veneto Transformer’, ma che condivido ovviamente con altri a
cominciare dal compianto Federico Bozzini il quale mi riferì con piglio autoironico la versione che conosco ed
uso della prima delle due), ciò che costituisce materia di riso e oggetto di satira umoristica, fra «comicità di
situazione o comicità di parola e comicità di carattere» come spiegava bene Bergson (H. Bergson, Il riso. Saggio
sul significato del comico, a cura di F. Sossi, SE Milano, 2002, 53-123) non sono in realtà i costumi sessuali in sé,
bensì proprio le più e meno presunte ‘stimmate regionali’ che scaturiscono abbastanza precise e criticate dalla
trama degli aneddoti (qui, nel primo caso, la deferenza e l’obbedienza indefettibili del veneto ‘mona’ e, nel
secondo, la più moderna economia dei tempi non solo di lavoro ma anche di svago dei suoi odierni conterranei
e interpreti nel mondo assatanato di profitto della piccola e media impresa).
22
De Jean21, ma spesso inadatto a coglierne, secondo si vedrà qui sotto, altre funzioni
importanti e rimaste a lungo attive e sensibili, guarda caso, proprio in seno alle
classi popolari di mezza Europa.
A voler fare i difficili si potrebbero prendere le mosse da quanto osservano al
riguardo storici ed epistemologi come Peter Wagner, Lynn Hunt, Arnold I.
Davidson ecc. avvertendo che quella di una sessualità in bilico fra erotismo e
pornografia, così come oggi noi la conosciamo, è concezione moderna nata per la
precisione nell’ottocento22 quando, ormai superata la metà del secolo, la seconda
delle due parole non godeva diritto di cittadinanza in nessuna lingua europea,
compreso l’inglese che nella cruciale età vittoriana era già l’idioma di un impero
mondiale23, né compariva ancora in vocabolari e dizionari di riguardo come, da noi,
il Rigutini-Fanfani.
Neanche in Francia, dove pure Nicolas-Edmé Restif de la Bretone aveva impiegato
per tempo il termine ‘pornographe’ in un suo libro del 1769 (Le Pornographe ou
Idées d’un honnête homme sur un projet de réglement pour les prostituées) e dove,
agevolato dalla pieghevolezza della lingua transalpina, il romanzo erotico si era
imposto controbilanciando, per ciò, l’inevitabile ‘volgarità’ di molte sue trame e di
molte sue forme24, essa aveva avuto, prima di allora, gran corso.
20
G. Almansi, Introduzione a Idem e R. Barbolini, La passion dominante. Antologia della poesia erotica
italiana, Milano, Longanesi, 1986, XII (ma cfr. anche, del solo Almansi, L’estetica dell’osceno, Torino,
Einaudi, 1974 e P. Lorenzoni, Erotismo e pornografia nella letteratura italiana, Milano, Il Formichiere, 1976).
‘Per salvarsi’, comunque, come come nota Antonio Castronuovo (Libri da ridere. La vita, i libri e il suicidio
di Angelo Fortunato Formaggini, Viterbo, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, 2005, 74) «è sufficiente dare
alla pornografia il senso di parte della vita che essa possiede».
21
J. De Jean, The Reinvention of Obscenity: Sex, Lies and Tabloids in Early Modern France, Chicago,
University of Chicago Press, 2002.
22
A. I. Davidson, The Emergence of Sexuality. Historical Epistemology and the Formation of Concepts,
Cambridge Mass., Harvard University Press, 2001, cap. I e M. Lhumann, Love as Passion. The
Codification of Intimacy, Cambridge Polity Press, 1986 (per gli altri autori citati a mo’ d’esempio nel testo
cfr. P. England, Eros Revived: Erotica of the Enlightenment in England and America, London Secker &
Warburg, 1988 e L. Hunt (ed. ), The Invention of Pornography. Obscenity and Origins of Modernity, 15001800, New York, Zone Books, 1993, mentre per l’Italia cfr. A. Marchi, Obscene Literature in EighteenthCentury Italy: an Historical and Bibliograpohical Note, in Aa.Vv., Unathorized Sexual Behavior during the
Enlightenment, edited by R. P. Maccubbin, New York, Oxford University Press, 1983, 244-260).
Sui nessi tra pornografia, scrittura e una certa visione della donna e del corpo femminile cfr. infine M. F.
Hans e G. Lapouge, Les femmes, la pornographie, l’érotisme, Paris, Seuil, 1978, e il penetrante saggio di
Nadia Fusini: Donna-grafia, in Memoria. Rivista di storia delle donne, marzo 1982, n. 3, 86-98
23
R. Hyam, Empire and Sexuality. The British Experience, Manchester and New York, Manchester,
University Press, 1990, 20 (n. 6). Per la temperie culturale dell’età vittoriana in Inghilterra e nel secondo
ottocento in tutta Europa, sempre in rapporto alla sessualità, alla sua concezione e ai problemi che
determinava sul piano sociale e delle relazioni interpersonali, accanto al classico libro di Steven Marcus
(Gli altri vittoriani: uno studio sulla sessualità e la pornografia in età vittoriana, Roma, Savelli, 1980, ed. or.
1971), si vedano, per l’Italia, A. Pasi e P. Sorcinelli (a cura di), Amori e trasgressioni. Rapporti di coppia tra
‘800 e ‘900, Bari, Dedalo, 1995 e P. Sorcinelli, Storia e sessualità. Casi di vita, regole e trasgressioni tra
Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondatori, 2001.
24
Romanzi erotici del ‘700 francese, traduzione di A. Calzolari, Prefazione di M. Le Cannu, Milano,
Mondatori, 1988, XVIII.
23
Era poi pacifico e notissimo a tutti che opere di carattere erotico assai spinto erano
esistite sin dall’antichità con Aristofane e Luciano, con Petronio e Lucrezio, con
Catullo ed Ovidio25 e che già all’inizio del cinquecento Pietro Aretino era andato
ben oltre costoro, celebrando sulla carta stampata, quel che più conta, «i fasti
dell’amore fisico e del linguaggio osceno». Mettendo però da canto i progressi
compiuti ancora fra sei e settecento in Europa dalla letteratura erotica culta, con
largo spazio fatto agli usi provocatori del turpiloquio e alle descrizioni più ardite
dell’attività sessuale di maschi e di femmine, è un fatto, continua Robert Darnton,
che il concetto e il termine di pornografia, una nozione impropria nella stessa cultura
libertina ben più attenta ai versanti materialistico-filosofici della questione, vennero
elaborati nel corso del secolo XIX, «quando i bibliotecari misero da parte i libri che
giudicavano volgari per porli sotto chiave nelle sezioni proibite delle biblioteche,
come l’Enfer della Bibliothéque Nazionale di Parigi e la Private Case del British
Museum <di Londra>. A rigore, il concetto di pornografia è frutto del moralismo
censorio che la prima età vittoriana si studiò di imporre su scala universale»26.
Anche in rapporto alla sessualità nelle e delle tradizioni popolari, un simile
dettaglio cronologico così visibilmente collegato all’emergere nel campo
borghese di preoccupazioni di stampo moralistico e, appunto, censorio volte ad
esorcizzare, confondendone i piani e svalutandone l’estetica, la licenziosità e
l’‘osceno’, dev’essere tenuto ben presente sia perché spiega, come vedremo
meglio più avanti, la sostanziale reticenza e la nascita solo a una certa data, e a
certi patti, dell’interessamento imbarazzato di demologi e folkloristi per
argomenti ritenuti tabù e sia perché ne addita le ragioni in un tipo di paura in
larga misura esterna o largamente estranea, prima allora e poi, all’universo
mentale e alla cultura in sé delle popolazioni subalterne.
25
Per acquietare le ossessioni embriogenetiche dello storico occidentale, bisognerebbe, a rigore, risalire anche più
indietro, che so, al Vecchio Testamento (cfr. Cole Graham William, Sesso e Amore nella Bibbia, Milano, Longanesi,
1967, ma pure L. Stone, La sessualità nella storia, Roma, Bari Laterza, 1995), anche se basta e avanza cercare i primi
segni di una visione sessuale inclinata innanziutto al piacere in quell’antica civiltà greca di cui Aristofane o Luciano
rappresentano, evidentemente, soltanto un esempio richiamato qui simbolicamente così come, del resto, gli altri
autori latini citati un po’ alla rinfusa. Fra essi, a titolo diverso, spiccano non tanto Petronio Arbitro e Ovidio, il che
sembrerebbe pressoché scontato, quanto Lucrezio e Catullo: il primo per il memorabile brano con cui si chiude il
IV Libro del suo capolavoro De rerum natura e per la transizione successiva, anche di qui, del suo materialismo e
dell’epicureismo a cui si ispirava nella cultura europea della prima età moderna (cfr. V. Prosperi, ‘Di soavi licor gli
orli del vaso’. La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, con una Nota introduttiva di B. Conte,
Torino, Aragno, 2004), il secondo per l’impasto sublime di poesia e crudezza lessicale dei versi che, vista la
‘veronesità’ latina dello scrittore sirmionese, qualcuno ha anche pensato bene di rendere di recente in dialetto
veronese odierno (e con esiti, alle volte, non del tutto disprezzabili - cfr. G. F. Donella-Talassi, Catullus Veronensis
in veronese, Verona, Cierre Edizioni, 1995, 5 e 32-33 – come «Nam nil stupra ualet, nihil, tacere/Cur?... No, non
serve negare co se ciava. /Percossa mai?» oppure «Amabo, mea dulcis Ipsithilla / Meae deliciae, mei lepores, / Iube
ad te veniam meridiatum... Cara Ipsitilla mia, raserenante / sfogo dei me caprizi morbino∫i / vegno a catarte oncò
dopo di∫nà, / se te vò… Sed domi maneas parersque nobis/Nouem continuas fututiones / Verum, siquid ages,
statim iubeto; / Nam pransus iaceo et satur supinus / Pertundo tunicamque palliumque… E non ndar fora a
spasso, ma prepàrate / par mì in càmara tua, deci∫a a fare / nove-guzade-nove de filada / Quindi, fàme de segno e
vegno subito. / Ò magnà, m ò butà e ghe l ò duro / ch el ∫bu∫a la cami∫a e la straponta»).
24
Le quali avevano, s’intende, una loro visione del mondo e della sessualità assai ‘per
bene’ ma nella quale, ben oltre la Riforma e la Controriforma, residuavano alcuni
aspetti del noto intreccio fra riso e piacere (e convivialità gastronomico alimentare a
base di gnocchi, ‘zuppette erotiche’ ed erbe o piante officinali stimolanti27) a suo
tempo tollerato, se non addirittura promosso e benedetto, dal clero in cura d’anime
non solo sulla scia di remoti retaggi classici e tardo antichi. L’eredità pagana che
aveva alimentato durante tutto il Medio Evo, cosa peraltro diversa dall’‘erotismo
sacro’ studiato da Cécile Sagne, il culto residuale dei poteri generativi e il fenomeno
del Risus paschalis28 duramente poi osteggiato da Erasmo, assieme alla presenza
sulla facciate di molte chiese e basiliche (a Gubbio, a Todi, a Modena, a Città di
Castello come a Ciudad Rodrigo, a Tolosa, a Bordeaux, a Tipperary ecc. ) di figure
erotiche inequivocabili e assai crude, ancor più della saltuaria sopravvivenza (a
Isernia, ad esempio, sino alla fine del settecento in onore di ‘santo Cosimo’) di riti
priapei ‘vestiti a nuovo’, ammoniscono a non prendere troppo alla leggera una
circostanza a cui, volendo prendere per buoni i dialoghi di Wolfgang Capito e
Giovanni Ecolampadio, potremmo anacronisticamente ma profittevolmente
accostare certe odierne tecniche televisive.
Va da sé che un vero abisso intercorre tra la vacuità dell’homo ridens dei giorni nostri
(la tastiera, per timore di convertirsi in dentiera, saggiamente aveva battuto per suo
conto, arrivati qui, ‘giorni mostri’) e lo spessore storicamente fondato e assai più
complesso dell’homo ludens di Huizinga (ridens anche perché amator), ma nel
passaggio tra età moderna ed evo contemporaneo fu lentissimo, specie nelle
campagne, da parte della gente del popolo, l’abbandono di abitudini e di convinzioni
legate al lato comico e giocoso dell’esistenza che erano, come suol dirsi, inveterate e
a loro modo memori d’una antica e primigenia ‘ingenuità sessuale’, abbastanza
libera dai timori del peccato. Con essa avevano cercato di regolare i propri conti già
certi poeti cristiani della bassa latinità come Ausonio29, messosi in lizza (ma siamo
appena nel IV secolo e in ambiente alquanto altolocato) con Apuleio e con Marziale.
26
R. Darnton, Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all’origine della Riv. Francese, Milano, Mondatori ,1997, 9395 e Le regole del piacere. Romanzi e scritti erotici da l’Enefer de la Bibliothèque Nazionale, a cura di A. Calzolari, Milano
Mondatori, 1991, V-XV.
27
Cfr. P. Camporesi, I balsami di Venere, Milano, Garzanti, 1989, (specie 38-60).
28
M. C. Martini, Introduzione a R. Payne Knight, Il culto di Priapo e i suoi rapporti con la teologia mistica degli
antichi. Con un saggio sul culto dei poteri generativi nel Medioevo, a cura di A. M. Di Nola, Roma, Newton
Compton, 1981 e M. C. Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia,
Queriniana, 1990; di qui i riferimenti poi nel testo ad Erasmo, alle discussioni fra Capito ed Ecolampadio e al rito
sopravvivente a Isernia (su cui in edizione elettronica scansita dalle edizioni originali (1865 e 1894) dell’opera di
Payne Knight per iniziativa di Elisa Fegley, Celephais Press s. a., si può anche vedere il capitolo specifico
contenente An Account of the Remains of the Worship of Priapus Lately Existing at Isernia in the Kingdom of
Naples in two Letters ecc., in Two Essays on the Worship of Priapus, by R. Payne Knight and T. Wright).
29
Opere di Decimo Magno Ausonio, a cura di A. Pastorino, Torino, Utet, 1995 (oltre alle scritture erotiche
evocate nel testo si segnalano, di Ausonio, i tre poemetti su Bissula e soprattutto l’intero Cento nuptialis,
un «carme licenzioso di tipo fescennino», 93, che sembrerebbe contraddire anch’esso la morigeratezza di
costumi e la fedeltà coniugale dell’autore), ma in generale si veda l’interessante volume di Salvatore Pricoco
su L’eros difficile. Amore e sessualità nell’antico cristianesimo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999.
25
Nel suo componimento Tres in uno lecto si arriva a leggere di una certa Crispa
che «Deglubit, fellat, molitur per utramque cavernam, / Ne quid inexpertum
frustra moritura relinquat…») e son note, d’altro canto, per quel che ne disse
persuasivamente Bachtin il quale pur segnalava allo scadere del Medio Evo
l’ingresso in scena di nuove sensibilità popolari, la tenuta e la rilevanza, fra le
classi subalterne europee sino almeno ai giorni di Rabelais e delle apoteosi
fallocratiche del suo Gargantua30, di vedute e di pratiche ‘naturali’ pacificamente
ammesse dalla gente, ma ormai in discreto contrasto con quelle ufficiali della
Chiesa, in tema sia di ‘gola’ che di ‘lussuria’.
Nella transizione che condusse alla modernità, qualunque cosa si pensi delle
riflessioni bachtiniane sul ‘basso materiale corporeo’ e sulle virtù salvifiche e
carnascialesche della drammatizzazione teatrale spontanea (ma, a questo punto,
potrebbero andar bene, in avanti, anche l’elogio dei picàri e del Sancho Panza di
Cervantes o, a ritroso, i modelli offerti assai per tempo, come notò fra i primi il
veronese Luigi Messedaglia, da Teofilo Folengo e dal suo Baldus, magari in
vista di durevoli e poi sottovalutate commistioni fra ‘goliardico’ e
‘popolaresco’31), la cultura popolare rimase abbastanza strettamente fedele per
quanto concerne i comportamenti sessuali e la loro descrizione in canti,
proverbi e modi di dire, a un suo proprio codice, elementare se si vuole e mai del
tutto autonomo, anche se lontano o sufficientemente discosto dalle elaborazioni
concettuali sempre più sofisticate e raffinate dei teorici delle varie artes amandi
e dalle diverse forme d’‘amore’ signorile e borghese.
30
Il rinvio d’obbligo è a M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979.
31
Sulla ‘scoperta della cultura contadina’ da parte di Folengo (E. Faccioli, Introduzione a T. Folengo, Baldus
– Testo a fronte, Torino, Einaudi, 1989, XIII) aveva in effetti richiamato per primo l’attenzione il
Messedaglia sia nel suo celebre saggio di storia agraria (1927) su Il mais e la vita rurale italiana e sia negli
studi poi raccolti in Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, Padova, Bibl. Medioevo e Umanesimo,
voll. 13-14, 1974, anche se non sono poi centrali nell’opera, anche complessiva di Folengo (per cui cfr. T.
Folengo, Macaronee minori. Zanitonella – Moscheide – Epigrammi, a cura di M. Zaggia, Torino, Einaudi,
1987) le incursioni in campo sessuale (tolti pochi accenni come quello sugli ‘amori furtivi’ del XXIII libro del
Baldus, v. 537 – «…semiremissa quidam culpa est quam coltra covertat» resa da Giuseppe Tonna in «una
colpa è mezzo perdonata se sotto coltre si mantien celata» – Il Baldo, Reggio Emilia, Diabasis, 2004).
Il richiamo, per così dire, alla veronesità dei nessi folenghiani e gnoccolari di Messedaglia con la viva
tradizione ‘popolaresca’ di un alimento simbolo della sua città di origine si può ben cogliere in molte pagine
del libro su Rito e poesia nel Carnevale veronese, di Marino Zampieri e Alessandro Camarda, Sotto il segno
dei maccheroni, Verona, Cierre Edizioni, 1990, mentre sulle occasioni sottovalutate o neglette d’intersezione
fra cultura contadina e popolare da un lato e cultura goliardica da un altro sin quasi ai giorni nostri (ma poi
già a partire dalla fine del cinquecento quando ne biasimava aspramente gli aspetti osceni e i comportamenti
che ne scaturivano Tomaso Garzoni da Bagnacavallo perché gli studenti ragionavano tutti
«sporchissimamente» battendo ad ogni ora «alle porte delle meretrici» ecc., ne La piazza universale di tutte le
professioni del mondo, (1^ ed. originale Venezia, 1585) a cura di G. B. Bronzini, Firenze, Olschki, 1996, 2 voll.,
(e, a cura di P. Cherchi, Torino, Einaudi, 1996), ho cercato di ragionare al Convegno di Soraimar ‘Onte,
bi∫onte, soto cante sconte’ (Asolo 23 novembre 2002) nella mia relazione – ora agli atti audiovisivi del
medesimo – su I nessi tra il canto erotico e la tradizione popolare e il loro riuso nella cultura goliardica e piccolo
borghese di fine ottocento.
26
Gli ‘amori campestri’, per dirla con Flandrin32, ancora all’alba del secolo XIX
comportavano in tutta Europa riti di passaggio e iniziazioni, credenze e usanze
prematrimoniali o matrimoniali, dal marâichinage vandeano alle nostrane
‘scampanate’ (le mattinate, batarelle, bacinelle, vedovadeghi ecc. incarnanti in
Veneto lo charivari come, puntuale, ci rammenta Secco), che avevano ulteriormente
divaricato, dopo il Concilio di Trento e dopo la regolamentazione di una prassi
nuziale malcerta in tutta Europa33, i comportamenti delle classi alte da quelli dei
contadini ai danni dei quali, frattanto, s’incrementava, più che non tendesse a
estinguersi, una nota ‘satira del villano’34.
Non che mancassero, ripetiamolo, i punti di contatto e i luoghi, fisici e ideali,
d’intersezione: si pensi anche solo alla misoginia e al maschilismo dilaganti e
dialoganti fra certe codificazioni paremiologiche popolari e i progressivi gradi
dell’elaborazione di un comune canone erotico occidentale35 sorto questo, secondo
ben si sa, in raffinati ambienti intellettuali, tra Guglielmo IX d’Aquitania, gli altri
trovatori provenzali della ‘fin amor’ e Andrea Cappellano36 ed evoluto poi da Poggio
Bracciolini in su sino alle bravate aretinesche di tanti altri insigni autori
rinascimentali (passando ovviamente per Boccaccio, Sacchetti e una lunga serie di
poeti e di letterati che avevano grande dimestichezza, come provavano del resto
Folengo e Ruzante37, con i costumi agresti e spicci del ‘contado’).
32
J. L. Flandrin, Amori contadini. Amore e sessualità nelle campagne nella Francia dal XVI al XIX secolo,
Milano, Mondatori, 1980.
33
Per un esempio veneto, anzi feltrino che spiega con rara efficacia e ‘dal vivo’ i termini della questione si
veda il libro affascinante di G. Corazzol e L. Corrà, Esperimenti d’amore. Fatti di giovani nel Veneto del
Cinquecento, Vicenza, Odeonlibri, 1981.
34
D. Merlini, Saggio di ricerche sulla Satira contro il villano con appendice di documenti inediti, Torino,
Ermanno Loescher, 1894, dove, a p. 145, si nota peraltro come «il Ruzzante, solo forse tra gli scrittori di
componimenti rusticani, nutrisse <invece> molta simpatia per la gente di campagna».
35
Fra le matrici europee dell’antologizzazione sentenziale e proverbiale (cfr. W. Bonser e T. A. Stephens,
Proverb Literature. A Bibliography of Works relating to Proverbs, London, (Folklore Society) Glaisher, 1930) si
trova, com’è noto, un testo italiano ed anzi veneziano come le celebri X Tavole comparse a stampa negli anni
trenta del XVI secolo (se ne veda ora una ristampa anastatica prefata e curata da Manlio Cortelazzo: Le dieci
tavole dei proverbi, Giunta Regionale del Veneto e Neri Pozza, 1995). Sul canone occidentale dell’Eros dai
tempi di Denis de Rougemont (L’amore e l’Occidente, Milano, Rizzoli, 1977 (1^ ed. 1939)) sino a quelli
influenzati dalle opere di Foucault e Bataille, il discorso storiografico e critico letterario (cfr. Aa.Vv., I
comportamenti sessuali. Dall’antica Roma a oggi, Torino, Einaudi, 1983) si è snodato, diversamente
atteggiandosi, più e più volte per cui cfr. anche solo J. L. Flandrin, Il sesso e l’Occidente. L’evoluzione del
comportamento e gli atteggiamenti, Milano, Mondatori, 1983 e L. Passerini, L’Europa e l’amore,Milano Il
Saggiatore 1999.
36
Cfr. R. Nelli, L’érotique des troubadours, Toulouse Privat, 1963 e J.-C. Huchet, L’amour discourtois. La ‘Fin’
Amors’ chez les premiers troubadours, ibidem 1987 e, più recentemente, C. Di Girolamo, I Trovatori, Torino
Bollati Boringhieri, 2000 - M. Mancini, La gaia scienza dei trovatori, Milano Luni, 2001 , Idem, Lo spirito della
Provenza. Da Guglielmo IX a Pound, Roma, Carocci, 2004 e J. LeGoff e M.Truong, Il corpo nel Medioevo,
Roma Bari Laterza, 2005.
37
Anche Folena (Scrittori e scritture, cit. loc. cit.) abbina i due nomi e, notando come «pressoché ogni
regione, ogni corte, ogni provincia <avesse generato> la propria arcadia rusticana», sottolinea che una nuova
dialettica pari a quella «che si stabilisce fra città e campagna» si pone «al centro del mondo di Ruzzante come
di quello di Folengo, che di questo momento storico sono i grandi protagonisti».
27
Ma la distanza tra i due mondi, quello colto e quello popolaresco, ad onta di
continui scambi e di travasi, d’imitazioni compiaciute e di riprese non solo per
ricezione frequente da parte del secondo di temi e di motivi dismessi per
slittamento o mero scadimento dal primo, rimase sempre abbastanza sensibile.
Semmai, in Italia, ad essere condivisa e comune fu, in campo poetico erotico
almeno, e cioè nella versificazione da un lato e nei canti popolari da un altro, una
sorta di destino somigliante: il destino, cioè, dell’‘innocenza’ e della relativa
rudimentalità del nostro immaginario in versi ove posto a confronto con quello di
altre tradizioni liriche come la francese, la spagnola e l’inglese. Il nostro erotismo,
anche quando si abbeverasse alla ‘freschezza’ nativa della voce popolaresca,
sarebbe risultato, insomma, alquanto ‘sprovveduto’ e irrimediabilmente ‘più
pulito dell’erotismo altrui’. Nella poesia erotica del bel paese, infatti, «tutto va
secondo le regole: si fa all’amore, ma soprattutto in posizione missionaria, con
l’uomo sopra la donna, in vasum proprium e senza tutte le varianti che i francesi
invano cercano di contrabbandare da noi». Valgano gli esempi, conclude
Almansi, di Gautier o di Apollinaire dove tutto, invece, «avviene sotto l’ombra
minacciosa del peccato, che dà la vera piccanza a ogni forma di poesia erotica».
Se c’è da convenire con tali affermazioni per quanto concerne il rilievo in via
generale, occorre ricordare, però, che la cosiddetta ‘freschezza nativa della voce
popolaresca’ includeva poi, come Secco dimostra ad abundantiam per il
‘Triveneto’, margini di tolleranza discreti verso fenomeni quali l’onanismo (che
non fu solo dunque ‘un inferno borghese’38), la sodomia in coppia mista e
l’omosessualità (non il lesbismo – alla Secco ‘infrà lore’ – pressoché sconosciuto e
quasi assente, parrebbe, nelle campagne), senza contare l’ovvia ‘considerazione’
per devianze specifiche e ‘d’ambiente’ come la zoorastia, evocata solo con un
briciolo in più di circospezione e rispettando, semmai, unicamente, i tabù atavici
della pedofilia e dell’incesto, del sadismo e della necrofilia.
In comune, tolte queste ‘zone tenebrose’ dell’erotismo, residuavano, in
entrambi i campi, una certa vena anticlericale (assai diversamente connotata e
motivata tuttavia) e soprattutto la crucialità, che oggi definiremmo bipartizan,
dell’organo genitale in sé e delle sue mille definizioni (ed utilizzazioni).
Non solo nella consonante antologia di Almansi e Barbolini, e forse, se è per
questo, non solo nel Triveneto come ammonisce la ricca tradizione partenopea e
meridionale della nostra penisola39, i due poli magni di attrazione sono sempre
costituiti e rappresentati, infatti, dai protagonisti o deuteragonisti dell’eros,
personaggi chiave, se così si può dire, anche nell’opera di Secco, la figa e
l’uccello cioè, metafore correnti del sesso femminile e di quello maschile ovvero
mortaio e pestello, fodero e spada, contenitore e contenuto ecc. oppure ancora,
come dottamente ricordano gli antologizzatori summenzionati – limitandosi,
bontà loro, a una esemplificazione d’area inglese – John Thomas e Lady Jane
nell’aurea lezione offerta da D. H. Lawrence40.
28
Nella lezione veneta di Secco, invece, non si fanno sconti e si sciorina una eloquente
teoria di vocaboli ora gentili ed ora rudi che per antonimia, sinonimia, omonimia
ecc. battono allegramente la strada polisemica di un divertito eufemismo di
maniera, nello sforzo evidente di designare al meglio i concupiti oggetti del
desiderio: una tale inclinazione all’eufemismo, come sappiamo per tutta l’Italia
grazie ad alcuni preziosi dizionari41, non attinge solo, nella tradizione letteraria e
musicale, alle risorse immaginifiche vegetali della flora o a quelle avicole (invero,
queste, ovunque soverchianti42) del mondo animale, ma si estende pure in altri
mondi caricandosi via via di molteplici significati nella immancabile reductio ad
unum e nella costante tensione al congiungimento carnale ovvero al raggiungimento,
comunque, dell’orgasmo.
Il tutto, ci racconta Secco per il Triveneto, trova ovviamente puntuali e godibili
riscontri nelle sbrigliate fantasie dell’immaginario canoro popolare veneto, friulano
e istriano che accumula e annovera anch’esso, a partire dal ‘mitico o∫elin’, una sua
sfilza di felici soprannomi per ‘lui’ (e per ‘lei’ visto che anche la figa, di norma
ricettiva e reattiva come mona, frìtola, chìchera oppure come ro∫a, fiora, chitarina,
màndola e così via perché da riempire, sfogliare, suonare ecc.43, assume talvolta i
sembianti del volatile sotto forma appunto di passera, di perùsola o di parpagnola).
38
J. Solé, Storia dell’amore e del sesso nell’età moderna, Bari Laterza, 1979, 113-125 (sull’omosessualità in
ambito popolare, e specie nei paesi sia di partenza che d’immigrazione a cui Secco si riferisce, non esistono
studi; per analogia, e marcando le debite distanze cfr. comunque D. N. Leto, T. Aviocolli and J. Capone
(eds)Hey Paesan! Wrtings by Lesbians and Gay Men of Italian Descent, Oakland, Three Guineas Press, 1999.
39
Anche qui, in una bibliografia abbastanza vasta e articolata che per l’analisi del folklore si potrebbe far
iniziare proprio da un saggio preparatorio - Vom Geschlechtleben in Kalabrien, in Anthropophyteia, a. VIII,
1911, 137-159 - di Raffaele Corso (sul quale si veda più avanti a p. 47) basti per il momento il rinvio a qualche
titolo d’area partenopea come A. Calamida (a cura di), Eros nelle tradizioni popolari della Campania, Milano,
Casa d’Arte Arice, 1931 e A. Manna, L’Inferno della poesia napoletana. Versi ‘proibiti’ di poeti di ogni tempo.
Terza edizione riveduta ed ampliata, Napoli, Edizioni del Delfino, 1991.
Un caso indicativo sembra quello di Giovanni De Giacomo che per la rivista ‘Anthropophyteia’ (sulla quale si
veda a p. 47) aveva approntato, senza che poi potesse esservi pubblicata, la meticolosa descrizione di un’orgia
rituale di uomini e animali destinata a vedere la luce solo più di mezzo secolo dopo (cfr. G. De Giacomo, La
Farchinoria. Pervertimenti sessuali, credenze, usi e canti tradizionali erotici di alcuni pastori della Calabria,
Napoli, De Simone, 1972).
40
Ma di D. H. Lawrence, al di là dei suoi celebri romanzi e della filosofia che li ispira, si veda una
ricostruzione anche filologica del concetto e del termine di pornografia (che contiene anche singolari
riflessioni sulla masturbazione), nell’opuscolo su Pornography and Obscenity, London, Faber & Faber, 1929.
41
Cfr., in ordine, S. Widlack, Alcuni aspetti strutturali del funzionamento dell’eufemismo, Roma, Accademia
Polacca delle Scienze, 1972 e, innovativo rispetto a quelli più e meno datati (di Delvau, di De Boccard ecc.),
l’ampio Dizionario letterario del lessico amoroso, Metafore, eufemismi, trivialismi di Valter Loggione e Giovanni
Casalegno (Torino, Utet, 2000) recentemente (2004) ristampato presso lo stesso editore con alcune modifiche
e col titolo mutato in Dizionario del lessico erotico.
42
Sin dall’antichità, a dire il vero, come certifica il caso classico latino (J. N. Adams, Il vocabolario del sesso a
Roma. Analisi del linguaggio sessuale nella latinità, Lecce, Argo, 1996, 49-50), ma tra molti cfr. altresì K. Van
Orden, Sexual Discourse in the Parisian Chanson: a Libidinous Aviary, in Journal of the American Musicological
Society, 1995, 1-41).
43
Cfr. A. Bevilacqua, L’Eros, Milano, Mondadori, 1999, 132-133.
29
Essi risultano tanto più evocativi quanto più son destinati a volare alto, verso
l’empireo del piacere, lasciando in sottordine ogni altro dominio naturale (come
quello dei pesci o dei rettili che, penetrativi di loro regola, diventano i protagonisti
di canti e di motti sparsi sull’anguilla e l’anguilòn, sulla sarda e il sardelòn, sulla
renga e via così). L’autore non presume certo d’esaurire in tal modo la panoplia dei
nomi apposti ad organi e orifizi destinati a rimanere centrali nell’amplesso e un po’
a prevaricare su tutti gli altri – panza, tete e soprattutto cul – che pur figurano,
ricordati qui con affetto e che non sono, come si sa, meno importanti sia nei
contorni che nei dintorni (o preliminari) dell’atto a cui preludono. Nel suo
vagabondare al seguito di proverbi e di canzoni tra i sensi coinvolti nella complessa
faccenda (vista, udito, olfatto), Secco è consapevole da un lato di lasciar forse fuori
altre metafore ed altri nomi che noi sappiamo attestati, ad esempio, anche in alcuni
scrittori veneti contemporanei fra i più addentro alle cose di paesani e popolani del
novecento (penso, che so, a Gigi Meneghello e alla sua infantile ‘broda’ di Libera nos
a a Malo o al più andante ‘toco de gnoca’ fatto proprio da Andrea Zanzotto in Filò44.
Da un altro non gli sfugge nemmeno di scrivere, in tempi resi difficili dalla
facilità con cui molti recitativi pubblici adoperano, correntemente oramai,
l’elencazione sinonimica sessuale al cinema o in televisione per far più divertire
44
Il Filò di Andrea Zanzotto (1976) non a caso era stato scritto per un Casanova cinematografico, quello di
Federico Fellini, mentre Meneghello dal cui Libera nos a malo, in sigla LNM, (Milano, Feltrinelli, 1963, 35) è
tratta la citazione della ‘broda’ (detta così alla rustica, perché ‘in paese’ alias nel borgo urbano, si diceva ‘bro∫a’)
è prodigo – qui e altrove – di di esemplificazioni sul cotè erotico di molte espressioni (o situazioni) tipiche del
Veneto rurale che rispettava e rispecchiava il modello spesso misogino delle società tradizionali più e meno
‘chiuse’ ( cfr. M. Hatem, The Politics of Sexuality in Segregated Patriarchal Systems, in ‘Feminist Studies’ 12,
2, Summer 1986, 251-274). Per rammentarne solo un paio di quelle a cui si potrebbe dare immediato riscontro
sfogliando le pagine della ricostruzione, sia pur d’altro segno, realizzata da Secco, si vedano, sempre in LNM,
i passi sui «rapporti equivoci, oscuramente disonorevoli, tra gli adulti» con l’evocazione del ‘Conte da Milan’
sbeffeggiato per la sua omosessualità e accomunato per questo al «prete mas’cio» (p. 39-40) e sul mestiere,
l’arrotino, di un paesano arrestato secondo l’interpretazione infantile dell’autore solo perché «guzzava col
ciccio» (p. 41-42) o ancora gli altri sul modo di procedere ancheggiando della signora Ramira, una donna rossa
di capelli «snella e presuntuosa» della quale, bisbigliavano le amichette del piccolo Meneghello, si poteva dire
impunemente «La trà l culo’ (‘Io – chiosa poi l’autore – volevo partecipare anch’io alla conversazione. Ci pensai
su e dissi: ‘La trà la frìtola’. Questo contributo non era basato su un’osservazione empirica, ma lo stesso mi
pareva abbastanza pregevole; invece le mie cugine si mostrarono scandalizzate e minacciarono di denunciarmi
alla zia Nina. Ecco dunque: si possono fare i pettegolezzi sul culo, ma sulla frìtola no» (p. 27)). Nella letteratura
contemporanea minore del Veneto, tutta attraversata e percorsa da brividi di corriva nostalgia e spesso messasi
sin troppo comodamente a lutto per la perdita del più irreale e idealizzato mondo contadino d’antan - il ‘mondo
in via di estinzione’, già più di trent’anni or sono (!), di un vecchio libro scuola ulderobernardesco - la
rievocazione del sesso e delle pratiche amorose di campagna ed in campagna (letteralmente: sui prati, in
‘camporela’, sui fienili, dentro alle malghe ecc. ) si colora di tinte morbosette e a dir poco scontate correndo fino
in fondo il rischio della inutile volgarità, anche se poi si possono annoverare varie eccezioni segnalate dalla
parsimonia con cui (pochi) scrittori di tale filone (di solito i più bravi) accennano alla ‘cosa’ (come avviene, ad
esempio, nel recente libro autobiografico, a modo suo, di Maria Facci, La casa della memoria (Pordenone,
Edizioni della Biblioteca dell’Immagine, 2004, 74, 77 ecc. ) con la citazione mai gratuita e quindi giustificata
di frasi un po’ forti («No ocoréa che l andasse tanto lontan par trovare un omo che la impienasse» detto di giovane
ragazza emigrata dal paese a Milano e rimastavi incinta) o di proverbi poco castigati del lessico sessuale veneto
(«Seren fato de note, dura dal bu∫o del culo a le balòte»).
30
oppure ricorrono, anche senza scadere necessariamente nella trivialità gratuita che
oggi va per la maggiore, all’uso del verismo lessicale onde dar scandalo, voluto e
ragionato, sulle orme di Pier Paolo Pasolini, un friulano che di queste cose, anche
in qualità di poeta e di studioso del canto popolare, se ne intendeva abbastanza.
Alla ribalta dei media, dopo di lui, sono saliti, tra bravi e meno bravi, vari epigoni
e il migliore in assoluto di loro, un toscano geniale come Roberto Benigni, ha
trasposto in letteratura il copione di alcune delle sue più riuscite performances al
riguardo, anche se si deve poi a Cesare Zavattini lo sdoganamento celebre, alla
radio, della parola cazzo, con un impatto senza dubbio meno devastante
sull’‘educazione dell’italiano’ di quello che avrebbe avuto, alcuni anni più tardi, lo
sdoganamento dei neofascisti da parte dell’astuto cavaliere di Arcore, padrone e
signore, in forza di tv, dell’infelice terra ove il sì suona: padano di Luzzara ed
‘eclettico per vocazione’, Zavattini è autore di un componimento il cui incipit
memorabile e bruciante spiazza generazioni di agguerriti teologi proponendo una
sua personale prova dell’esistenza di Dio («Diu al ghé / Sa ghé la figa, al ghé…»)
che risulta piuttosto in linea con la filosofia popolare dei villani e che si esprime,
non a caso, rigorosamente in dialetto45.
Pacifico e quasi inevitabile nei proverbi e nelle filastrocche, nei motti e nei detti,
nelle fole e nelle novelline scherzose, il ricorso al dialetto risulta un po’ meno
scontato o immediatamente ‘attendibile’ nell’ambito canoro e musicale dove di
solito la sua presenza, come ha notato più volte Glauco Sanga46, non basta a
garantire, da sola, l’‘autenticità’ sicura dei testi ovvero, e meglio, una loro aderenza
integrale all’originale cultura delle classi subalterne specie rurali che anzi sarebbe
vero il contrario, distaccandosi bene di rado dall’italiano letterario aulico e da quello
‘popolare’ inteso alla De Mauro come ‘varietà bassa’ di un italiano adoperato con
maggior frequenza, rispettivamente, per un verso nei ‘maggi’, nei canti in ottava e
in quelli d’ascendenza religiosa e da un altro nel canto politico e sociale o nei classici
motivi da cantastorie. Restando in certo modo un caso a parte l’artificiosità
obbligata della lingua epico-lirica delle ballate narrative più diffuse nel Nord della
penisola, ove magari non sia già il frutto riconoscibile di esercitazioni letterarie
d’autore (di solito un erudito locale) o il portato di una contaminazione di genere a
contatto con le subculture dei nomadi gerganti e degli stessi studenti e goliardi, il
vernacolo che veicola di norma nelle campagne, qui del Triveneto, il canto satirico
a sfondo erotico/sessuale un po’ contraddice la ‘nuova’ regola secondo cui i canti
integralmente dialettali non apparterrebbero alla genuina tradizione popolare,
45
Per le citazioni si vedano in ordine R. Benigni, E l’alluce fu, a cura di M. Giusti con uno scritto di C.
Garboli, Torino, Einaudi. 1996, 23 e passim e C. Zavattini, Diu, in Almansi e Barbolini, La passion
dominante, cit., p. 432, mentre per l’accenno a Berlusconi, in attesa di tempi esegetici migliori, ci si può
utilmente riferire, per stretta analogia, a C. E. Gadda, Eros e Priapo, Milano, Garzanti, 1967.
46
Cfr. ad es. G. Sanga, Dialetto e folklore. Ricerca a Cigole, Milano, Silvana Editoriale, 1979; Idem, Il
linguaggio del canto popolare, Milano Firenze, Giunti Marzocco, 1979.
31
bensì «a forme di nostalgico revivalismo che si esprimono nel recupero, e più
spesso nell’invenzione di ‘tradizioni locali’ quali il costume tradizionale, il
dialetto e, appunto, la canzone dialettale»47. Il che è ben vero, ma solo fino a un
certo punto o a certi patti ossia se a entrare in scena non sia la sessualità la cui
designazione, di norma, privilegia appunto il dialetto segnalando nel contempo
uno dei luoghi di maggior intersezione fra le due culture, ‘alta’ e ‘bassa’,
ammesso che quella popolare solo in dialetto riesca poi ad esprimersi.
Prova ne sia che gran parte delle fonti alle quali questo libro si appoggia e che
grazie a una benefica tecnologia mette anche a disposizione di chi legge, in
formato elettronico, consentendone l’audizione immediata, proviene – ed è uno
dei pregi forse maggiori dell’opera – da un lavoro ormai ventennale di raccolta
realizzato là dove per motivi che sarebbe troppo lungo descrivere e discutere
adesso48 i dialetti veneti (e non solo veneti) si sono conservati e sono poi
parzialmente evoluti mantenendo impronta e contenuti di una vivace cultura
orale delle nostre popolazioni emigrate dalla fine dell’ottocento in poi in
America Latina.
Essa, come si vedrà (e come stanno faticosamente appurando anche gli studi
degli specialisti italoamericani49), riservava sul serio uno spazio abbastanza
inatteso e alcune specifiche attenzioni alla sessualità e alla sua giocosa
rappresentazione nonché ad altre forme di vitalità amorosa e sentimentale sia
canoniche (corteggiamento, fidanzamento, matrimonio ecc. ) e sia però
trasgressive (liberi accoppiamenti – anche ‘interetnici’ –, amplessi più e meno
mercimoniali, tradimenti e adulteri, finiti, questi ultimi, in romanzi e film di
successo come O Quattrilho50).
47
G. Sanga, Lingua e versificazione nel canto di tradizione popolare, in Aa.Vv., Il canto popolare nelle
Venezie. Coralità ed esperienze comunitarie. Atti del convegno interregionale; Venezia Isola di S. Giorgio, 7
giugno 2003, in Notiziario Bibliografico. Periodico della Giunta regionale del Veneto, set. 2003, n. 43, 14.
48
Altrove mi sono occupato più volte – forse anche troppe – degli esiti, per l’Italia e segnatamente per il
Veneto, di una storia dell’emigrazione contadina e non solo contadina che dislocò e disseminò in più punti
del mondo e specialmente dell’America Latina, a cui si allude nel testo pensando però al sud del Brasile,
centinaia di migliaia di persone fra il 1875 e la fine degli anni cinquanta del novecento; mi esimo perciò da
una profluvie di autocitazioni che potrebbero risultare qui di dubbio gusto e mi consento appena un rinvio
a due opere, una mia e un’altra da me condiretta, in cui si possono trovare gli elementi di base utili ad
impostare una seria riflessione sul complesso argomento, cfr., ergo, E. Franzina, Gli italiani al nuovo
mondo. L’emigrazione italiana in America, 1492-1942, Milano, Mondatori, 1995 e Idem e P. Bevilacqua e
A. De Clementi (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Roma, Donzelli, 2001-2002, 2 voll.
49
Cfr. ad es., I. A. Vannini, O sexo, o vinho e o diabo. Demografia e sexualidade na colonização italiana no
Rio Grande do Sul – 1906-1970, Passo Fundo, UPF Editora, 2003.
50
E. Franzina, I ‘taliani’ della serra gaúcha, in Aa.Vv., Paese natio Zweite Heimat Terra Natal Terra Nova.
Anais do Simposio sobre O futuro das tradições italianas e alemâ no Rio Grande do Sul, (Porto Alegre 18/22
de setembro de 2000), Porto Alegre Est Edições, 2003, 15-52. La vita sessuale dei celibi e le frequentazioni
prematrimoniali, così come la contraccezione, gli ‘amori illeciti’ (‘tradimenti’, adulteri ecc. ) e
‘postribolari’, inclusi violenze e stupri, di cui si conosce l’incidenza nelle campagne di provenienza (per la
casistica europea e per maggior comodità si veda Flandrin, Il sesso e l’Occidente, cit. 235-325) si
ripresentano anche al di là dell’oceano, soprattutto in ambito rurale e ‘coloniale’, con una certa regolarità,
32
inevitabilmente all’insegna delle conoscenze e delle abitudini pregresse degli emigrati o, poi, dei loro
discendenti. Non a caso, quindi, anche costoro ne possono parlare e ‘cantare’ innervando di spunti
pertinenti sino ai giorni nostri, con alcune integrazioni appunto e minimi aggiustamenti ambientali, la
tradizione orale veneta (o lombardo-veneta) sull’argomento, la quale consente in alcune zone più
conservative, come appunto il Rio Grande do Sul perlustrato da Secco, il recupero, talora davvero in
extremis, dei relativi documenti folklorici. Sotto un profilo storiografico, grazie al lavoro svolto dai
ricercatori brasiliani negli archivi dei paesi ‘di accoglienza’, esiste un’ulteriore e istruttiva possibilità di
riscontro sebbene le zone in cui e su cui più si è lavorato in questi ultimi anni siano piuttosto quelle
subtropicali del caffè ossia lo Stato di San Paolo dove sono ambientati, sullo sfondo di fabbriche e di
fazendas a cavallo fra i due secoli XIX e XX, anche i ricordi d’iniziazione sessuale adolescenziali di un
vecchio e rigoroso militante socialcomunista di Schio come Domenico Marchioro. Più sporadiche le
attestazioni sulriograndensi a riguardo se si eccettuino quelle di cui alla nota precedente del Vannini e
alcuni appunti, peraltro preziosi perché stilati intorno alla metà degli anni cinquanta dello scorso secolo,
di uno storico e antropologo autorevole come Thales de Azevedo. Questi (sulla cui figura cfr. la mia
Prefácio aos cadernos de Thales, in Thales de Azevedo, Os italianos no Rio Grande do Sul. Cadernos de
pesquisa, Porto Alegre, Educs, 1994, 7-24, donde anche le citazioni qui appresso, a pp. 170 e 177) registra
fra l’altro la tarda riuscita dell’opera di contenimento del clero coloniale rispetto ai balli, alle feste ecc.
evidentemente diffusi sino al 1940 e invisi perché fomiti di corruzione morale: «Há 15 años’ era una praga’
a dança, mas os padres acabaram com os bailes; hoje fecham os olhos aos bailes, mas proíbem os que se fazem
nos lugares sem luz. Moças e rapazes aqui têm boa vida moral; apenas 20% das moças não merecem vestir o
vestido branco do casamento; já em Desvio Rizzo há varios casamentos de reparação, com moças grávidas, e
há um 60% de moças defloradas, que trabalham em fábricas (pe Nebridio)…. Os rapazes aqui, em grande
parte, casam se ainda conhecer mulher, a não sere aqueles que vão para a cidade. Ali a primiera coisa que
pegam è uma doença. Mas Caxias nem se compara com Porto Alegre…(Gervasio)». Caxias è ovviamente
Caxias do Sul, la ‘capitale’ della regione di colonizzazione veneta, mentre la ‘doença’ a cui allude
l’informatore Gervasio (un laico, mentre Nebridio era un padre ossia un prete) è senz’altro ogni tipo di
malattia sessuale (blenorragia, sifilide ecc. ) facile da contrarsi nei postriboli di una metropoli come Porto
Alegre che ne abbondava e tuttora ne abbonda. Tema scabroso e delicato, ma non proprio passato sotto
silenzio dalla memorialistica emigratoria (specie dell’ultima ondata postbellica) quello della frequenza –
anche in patria - dei proletari ai bordelli. Sporadica e piuttosto limitata a fine ottocento, se ne ritrova
sovente traccia nelle autobiografie e nei ricordi di emigrazione novecenteschi a riprova d’una
partecipazione alla pratica mercimoniale abbastanza generalizzata o diffusa (e ricordata comunque senza
troppo imbarazzo) da parte dei maschi, soprattutto giovani, sin dal momento del viaggio per mare che li
conduceva in America. Per la partecipazione invece, a parte subiecti (per bisogno, per ratto o per scelta), di
donne emigrate al gran mercato della prostituzione al nuovo mondo (qualche indicazione, limitata peraltro
al caso limite di New York, in T. J Gilfoyle, City of Eros: New York City, Prostitution and the
Commercialization of Sex,1790-1920, New York W. W. Norton 1992), credo si possa affermare, e non certo
per salvaguardare l’onore di genere e di provenienza regionale delle ‘venete’, ma perché così al momento
consta, che essa non fu particolarmente elevata o qualificata nemmeno nell’ambito della cosiddetta ‘tratta
delle bianche’ e nemmeno in quell’Argentina in cui più consistente e più continuativo se ne diede
l’esempio (limitato, peraltro, quasi solo alla capitale federale, cfr. D. J. Guy, Sex and Danger in Buenos
Aires. Prostitution, Family and Nation in Argentina, Lincoln & London, University of Nebraska Press,
1995). Di tutti questi particolari ho già detto qualcosa in altre sedi e, per non ripetermi, mi limiterei qui a
menzionare qualche singola ma emblematica autobiografia (come quella, peraltro siculo-venezuelana, di G.
Giannone, De la pequeña Venecia a Venezuela, Caracas, Puerto La Cruz, 1990) citando in rilievo solo il caso
del bellunese Daniele Triches, autore di una serie di annotazioni diaristiche e memorialistiche di notevole
valore ora depositate presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano di Arezzo (1948. La spedizione
nella Terra del Fuoco. Inizio di una emigrazione Argentina – Venezuela 1948-1968, Parte Prima). Qui, fra le
altre cose, l’autore dà notizia, per noi interessante, della passione nei confronti del canto popolare ‘nativo’ di
veneti e friulani sfociato, in collaborazione con la moglie di un amico, nella pubblicazione ‘pro manuscripto’
da parte sua d’un fascicoletto di ‘Canti di montagna’ (Usuhaia – Tierra del Fuego, luglio, 1951), nel quale, fra
canzonette del circuito commerciale coevo, inni di tradizione militar-patriottica e reminiscenze di cori alpini,
residuano solo pochi e castigati canti a doppio senso (come quello di emigrazione friulano «Biel tornat da
l’Ungherie / la ciatai sul lavador / bandonai la compagnie / mi metei a far l amor»).
33
La provenienza brasiliana dei canti ‘par taliàn’, come
li definisce anche altrove l’Autore51 facendo tesoro
delle proprie ricerche sul campo e di una piccola
letteratura linguistico dialettologica da qualche
tempo in ascesa, rassicura, in un certo senso, chi
eventualmente nutrisse più dubbi di quanti sia lecito
averne sulla crucialità del dialetto almeno in questo
settore. Ma per la fattispecie areale privilegiata da
Secco ci sarebbe da aggiungere, quanto meno, una
postilla relativa al maggior peso che sempre ebbe (e
ancora possiede), in Veneto, l’uso interclassista di tale
Confidenza, xilografia seicentesca
tramite veicolare sia nella conversazione corrente e
sia nei componimenti scritti dei colti e dei semicolti.
La patria di Bembo e di Trissino, massimi codificatori, nel corso del secolo XVI,
delle intangibili regole (toscane) della volgar lingua, imperniate sull’opera della
triade sacra Dante-Petrarca-Boccaccio, è infatti teatro, sino ai giorni nostri, testi
Biagio Marin e Andrea Zanzotto, due poeti cari per diversi motivi a Gianluigi
Secco, e in forma piuttosto rinvigorita a partire dalla metà del settecento da
contributi di grande spessore, di un’assidua e ‘spontanea’ messa in scena
letteraria dei modi, non soltanto mimati, tipici o propri del parlar popolare così
dei contadini come degli abitanti di più modesta estrazione sociale di Venezia,
delle città capoluogo e degli altri centri urbani di terraferma. Ciò dipendeva e
dipende, essenzialmente, da precise inclinazioni di una cultura capace meglio di
altre di giostrare fra diversi ambiti e domini anche se poi a propiziare un tale esito
avranno contribuito, a suo tempo, fattori diversi e, da un certo punto in avanti,
ovviamente, gli stessi apporti delle tecnologie di stampa e di trasmissione delle
immagini allorché si passò non tanto da Manuzio quanto dai Remondini e dai
CR
51
G. L. Secco, La coralità tra le anime della cultura della gente emigrata: i canti e le canzoni ‘par taliàn’ in
Brasile, in Il canto popolare nelle Venezie, cit., pp. 26-30 e la comunicazione agli atti del convegno in
memoria di Roberto Leydi, L’albero dei canti. Forme, generi, testi e contesti del canto popolare, (Rocca
Grimalda, 20-21 settembre 2003, su La miniera brasiliana dei canti ‘par taliàn’. Per un’altra enclave veneta
in zona ispanofona del Messico si veda altresì la nota introduttiva, sempre di Secco, a J. Agustín Zago
Bronca, Grandi e grossi da Chipilo. L’odissea di una comunità, (con un cd di canti veneti), Comune di
Segusino Editore, 2004.
Edizioni brasiliane di canti popolari italo-gaúchos, da vent’anni in qua, non mancano, sebbene le ricerche più
serie e informate siano quelle recenti per cui si rinvia a P. Petrone e M. T. Petrone, Canti popolari italiani in
Brasile, in A. Suliani (org), Etnias & Carisma. Poliantéia em homenagem a Rovílio Costa, Porto Alegre,
Edipucrs, 2001, 848-900 e, ivi 901-910, P. Bernardi, A canção popular italiana em um processo imigratório.
Per alcuni precedenti, realizzati però in Italia e da studiosi italiani, si vedano ad es. il libro di M. Crestani,
Canti veneti del Brasile, Vicenza, Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno, 1978 e il saggio di F. De
Melis, Tradizioni musicali dei venetofoni in Brasile (Stato di Santa Catarina), in Regione Veneto - CISV,
Presenza, cultura, lingua e tradizioni dei veneti nel mondo, Parte I America Latina. Prime inchieste e
documenti, a cura di G. Meo Zilio, Spinea Venezia, 1987, 401-434.
34
primi ‘lanternisti’ della camera oscura studiati da Gianpiero Brunetta alla
produzione e riproduzione su larghissima scala di oggetti librari poveri e da uno o
due soldi, di stampe, di figure e infine di foto di cui ben presto si sarebbero
impadroniti quei mediatori speciali che erano (e rimasero per due secoli) i
venditori ambulanti e i cantastorie (che, per segnalare solo un caso veneto, a
Chioggia, erano significativamente denominati in antico ‘cupìdi’)52.
Non solo nelle fiere e nei mercati dei luoghi all’avanguardia della
modernizzazione come l’Inghilterra53 è infatti attestata, nei decenni che
chiudono il secolo XVIII e precedono la metà di quello successivo, la fortuna di
stampe e di fogli volanti di tenore inequivocabile a fianco di giornaletti e di
almanacchi sul tipo di quelli poi illustrati da Carlo Tenca.
Anch’essi, al di là della loro più che probabile rozzezza, segnalano l’entrata in
circolo di temi e di motivi nel frattempo affrontati, con spirito mutato, da
scrittori e da scriventi colti, ma sempre abbastanza vicini, per scelta più e meno
consapevole, al nuovo ‘gusto dell’osceno’ e però anche allo stesso ‘essor de la
tendresse’ già attecchito altrove in ambiente borghese54 ed abbinato sempre,
almeno il primo, alla persistente concretezza corporale di una sessualità
dominante che si presumeva più spontanea e meglio rappresentata o meglio
rintracciabile fra gli strati bassi della popolazione.
52
Dazzi, Premessa, cit., 18. La letteratura sui cantastorie, che da oltre mezzo secolo in qua possiedono una
loro ‘associazione di categoria’ (l’Associazione italiana canzonettisti ambulanti, fondata da Marino Piazza
nel 1947) e che dispongono anche, dal 1963, di una piccola, ma vivace rivista volta a studiarne la storia
vecchia e nuova (Il Cantastorie. Rivista di tradizioni popolari), risulta abbastanza estesa in Italia
annoverando contributi spesso di qualità (di Roberto Leydi, di Bruno Pianta ecc. e di altri specialisti non
solo del folklore: cfr. ad es. i due volumi di G. Borghi e G. Vezzani, C’era una volta un ‘treppo’: cantastorie
e poeti popolari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni ottanta, Sala Bolognese, Forni,
1988, e le tesi di laurea di Simone Petricci e Roberta Parravicini, parzialmente pubblicate appunto ne Il
Cantastorie: S. Petricci, Il cantastorie contemporaneo ultimo erede del giullare-cantore ambulante medievale,
I, 1996, n. 52, 46-57 e II, 1999, n. 55, 48-57 e R. Parravicini, Fra tradizione e innovazione: il caso del
cantastorie contemporaneo in Italia settentrionale, ivi, 1-47).
Per gli altri temi accennati nel testo in stretta connessione talora con l’attività dei cantastorie e
dell’ambulantato d’intrattenimento cfr., in via generale, W. Mc Lean, Contribution à l’étude de
l’iconographie populaire de l’érotisme, Paris, Maisonneuve Lerose, 1970 e G. P. Brunetta, Il viaggio
dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumiére, Venezia, Marsilio, 1997.
53
Al gran numero «di cantastorie e di venditori di ballate itineranti, molti del tipo più osceno» in
movimento continuo tra fiere e villaggi registrati nel 1843 dai Reports of the Special Assistant Poor Law
Commissioners on the Employment of Women and Children in Agricolture, si riferiscono Eric J. Hobsbawm
e George Rudé nel loro Capitan Swing. Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne, Roma, Editori
Riuniti, 1992, 39, ma il discorso accennato nel testo sulla circolazione nelle campagne di materiale librario
e a stampa (innescato già un paio di secoli prima dalla Riforma protestante e realizzatosi via via anche nei
paesi rimasti cattolici come insegna la storiografia modernistica (Bolléme, Zemon Davis, Darnton ecc. )
sarebbe, come si capisce, assai più complesso, legato alle trasformazioni della cultura delle classi popolari
e delle visioni della sessualità fra età moderna e contemporanea (su cui, sommariamente, si vedano P.
Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori, 1980 e R. Canosa, La restaurazione
sessauale. Per una storia della sessualità tra Cinquecento e Settecento, Milano, Feltrinelli, 1993) e da farsi,
comunque, in altra sede.
54
M. Daumas, La tendresse amoureuse XVIe-XVIIIe siécles, Paris, Perrin, 1996, 158-160.
35
La delicatezza del tema che si ricollega alle discussioni infinite, come avrebbero
detto Crocioni o Dazzi «sulla discesa e sull’ascesa, su tutte le ricerche sui prototipi
letterari e semiletterari di poesie popolari, tanto quanto sugli archetipi popolari di
poesie popolareggianti culte» ovvero ai celebri diagrammi del Toschi relativi alle
percentuali di popolarità, semi-popolarità (cantastorie et similia) ecc. della lirica
definita tout court ‘popolare’, ha forse impedito che si andasse più a fondo nello
sforzo di individuazione ‘genetica’ e di corretta storicizzazione dei componimenti e
dei canti licenziosi, osceni o inerenti comunque la vita sessuale, in circolo nelle
campagne e ancor più nei quartieri poveri delle città già dalla fine dell’età
moderna55. Mentre invece è provata, sin dal seicento, la loro contiguità alla cultura
in genere dei fogli volanti e degli stessi ‘libelli’ politici che prima in Francia e poi in
tutta Europa, sull’onda della rivoluzione della stampa o della ‘straordinaria
esplosione di carta stampata’, dilagando ovunque, avevano ulteriormente
complicato l’interazione fra i diversi ambiti mentali e linguistico-lessicali dei ceti
superiori e inferiori delle società di ancien régime: «Che il pubblico al quale i libelles
si rivolgevano fosse plebeo – nota sintomaticamente il citato Darnton a tale
riguardo (pag. 202) – è implicito nel loro stesso linguaggio: scurrile, brutale ed
elementare. I libelli attingevano infatti a generi popolari come il dialogo burlesco, i
lazzi osceni, le ballate, le rozze storie di sogni e fantasmi… Alcuni assumevano il
tono delle chiacchiere sedizione che si facevano per la strada…altri ricorrevano alla
retorica dell’insulto rituale e delle pasquinate…».
Che poi nelle strade e nei borghi rurali, in campagna e fra la gente comune, la
‘violenza verbale’ o più semplicemente la schiettezza e l’immediatezza delle parole
e delle frasi su cui a lungo aveva pesato un’ovvia interdizione linguistica finissero
per rafforzare, se non proprio per legittimare, le insolenze e le allusioni scurrili già
presenti in alcuni settori del canto rituale56, conferma, pur nel quadro della
persistente distinzione fra cultura aristocratico-borghese e cultura plebea, il peso
delle continue contaminazioni reciproche, non nuove forse, ma in netta ascesa fra
sette e ottocento.
In tale congiuntura la propensione, già diffusa dappertutto in Italia, ad affidare
soprattutto al dialetto l’incombenza intrigante di cantare il sesso e i suoi
incontestabili pregi e infiniti risvolti si espande e consente senz’altro l’emergere, a
livello regionale e con varie sfumature provinciali, di alcuni capolavori in vernacolo
di poesia erotica passibili di collegamento obiettivo con le attitudini e con le stesse
effettive possibilità di acculturazione amorosa di quelle che ancora si chiamavano
le ‘plebi rurali’. Per brevità, semplificando e schematizzando non poco, potremmo
55
Del fenomeno della circolazione e della contaminazione dei testi in bilico fra tradizione scritta e tradizione
orale ho dato conto, passim, in vari capitoli del mio libro semiclandestino L’immaginario degli emigranti. Miti
e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero fra due secoli, Paese (Treviso), Pagus Edizioni, 1992.
56
C. Corrain e P. L. Zampini, Calendimaggio tra le popolazioni agricole veneto-emiliane della provincia di
Rovigo, in Il Tesaur, 1956 e C. Corrain, Ricordi di folklore polesano, Rovigo, Minelliana, 1997 (1^ ed. 1977).
36
assumerne a modello, piuttostoché i versi del siciliano
Domenico Tempio o quelli celeberrimi del romano
Giuseppe Gioacchino Belli, per citare appena due dei
maggiori, un componimento in milanese del milanese
Carlo Porta come La Nineta del Verzée dove figura,
insuperato e pressoché insuperabile, il ritratto di donna,
la ‘Sura Caterinin’, che meglio di tutti compendia, a
nostro avviso, il mistero dell’attrazione fisica e sensuale
del corpo femminile mediante immagini ed
argomentazioni nient’affatto estranee alla mentalità
popolare e alla cultura contadina del tempo.
Tolleranza, xilografia seicentesca
Solo nel Veneto, tuttavia, anche per i motivi di
continuità che collegano il già ricordato Ruzzante e i suoi vari epigoni alla ‘poesia
barona’ di fine settecento ed oltre, si assiste con certezza al durevole convergere sul
terreno comune di un linguaggio ‘materno’, e giammai socialmente screditato,
delle più ostinate ed ‘estreme’ propensioni all’uso multiforme del dialetto che in
Italia si conoscano. Esse trovano a buon punto, nell’opera di uno degli autori
inevitabilmente più amati e ‘usati’ da Secco, il patrizio veneto Giorgio Baffo, un
banco di prova ideale per documentare e inquadrare in canzoni e in canti, sia dal
punto di vista linguistico e sia dal punto di vista dell’osmosi e dell’interazione negli
approcci alla vita sessuale (non solo, beninteso, del ‘popolo’), un problema cruciale
di rapporti fra cultura alta e cultura bassa che immediatamente non si pone o si
pone assai meno per quanto concerne i motti, i proverbi e i modi di dire.
Sottratto in extremis, per merito di Piero Del Negro, alle analisi sovente superficiali
degli erotologi di mestiere nonché restituito al suo preciso ambiente storico dove
incarnava, come ‘Quarantiotto’, un ruolo particolare e un punto di sutura obiettivo
fra popolani e nobiluomini in una città dove l’idioma da tutti inteso e utilizzato, con
gradazioni inevitabilmente diverse, poteva essere considerato all’epoca, secondo
Folena, «il solo dei dialetti italiani totalmente immune nell’uso parlato anche colto,
da squalifica culturale», Baffo si esprimeva dunque in un ‘linguaggio’ ch’era ‘lingua
materna’ per antonomasia e, al tempo stesso, specchio fedele della vita ‘di tutta una
società’: quello dei passatempi e dei divertimenti dei nobili e, si rammenti Goldoni,
dei borghesi provvisti di danaro, ma anche quello di certe magistrature (qui, per
Baffo, appunto le Quarantie) e infine quello dei veneziani di basso ceto in seno alla
cui compagine fra calli e campielli, fondaci e botteghe, moli e Arsenale si articolava
un discorso collettivo segnato da sicure differenze d’accento (il ‘popolazzo’ dei
marineri e dei pescatori, infatti, avrà senz’altro parlato, avverte Del Negro, un
dialetto che Gasparo Gozzi non esitava a definire «più duro, osceno ed incivile») e
tuttavia intelleggibile da chiunque.
CR
37
La sottile critica di esegeti certo non prevenuti come
Bartolini e Dazzi57 che mettevano in guardia sui
presupposti filosofici e ideologi illuministici dell’autore,
comunque ‘libertìn’, nonché sulle sapienti alchimie
retoriche e sul procedere dall’alto del dialetto da lui usato
nei suoi più che celebri componimenti erotici, se
opportunamente corretta e integrata, com’è giusto che
sia, dalla constatazione della sua meditata prossimità a
tali ambienti popolari, spiega perché sia plausibile
l’attenzione che gli si riserva adesso e il grande spazio che
occupa, come punto di riferimento frequente, nel libro di
Ospitalità, xilografia seicentesca
Secco. Assieme all’influenza dei ‘libretti ultramontani’ o
dei testi più arditi dell’erotismo francese in voga a mezzo il settecento come l’Ode à
Priape da lui personalmente tradotta, si facevano sentire, nella produzione del Baffo,
i segni di una conoscenza e, ciò che più conta, di una consonanza con l’universo
mentale e con gli appetiti carnali della gente comune, sicché egli, afferma a ragione
Del Negro, «non deve essere considerato unicamente un interprete in vernacolo della
linea erotica ‘colta’: la ‘poesia barona’ si nutriva anche dei succhi e degli umori della
cultura popolare (sia pure filtrati attraverso l’esperienza ‘alta’ di un patrizio) e
rilanciava una tradizione, sempre repressa, incentrata sul corpo. Ciò che si deve
mettere in conto alla cultura popolare non è tanto – o soltanto – la grossolanità, le
pesantezze della forma, quanto una decisiva influenza sui contenuti. Baffo non si
arruolava passivamente sotto le bandiere dei philosophes, ma approdava alla
costruzione di un ‘sistema’, che ubbidiva ad una sensibilità particolare»58.
Di essa erano dunque costitutivi, anche se non da soli, quegli elementi che più
avrebbero colpito gli interpreti erotizzanti dell’irriverente patrizio veneto,
percepito e concepito essenzialmente (ma erroneamente) più che altro come
‘cantore sublime della mona’ o come mentore di una sfrontata e dispiegata
carnalità. Questa, in effetti, trionfava nell’ispirazione del Baffo ma, messe da
CR
57
Dazzi, per la verità (cfr. nel suo Fiore della lirica, cit. - vol. II Seicento e Settecento, Venezia, Neri Pozza,
1956 - le pagine 213-219 dedicate allo ‘sboccato’ patrizio veneto) dava su Baffo un giudizio assai aspro e
piuttosto negativo scambiando per banale e monotona ripetitività l’eccezionale maestria spiegata dall’autore
nei suoi componimenti allo scopo di ritrarre, inevitabilmente sempre con gli stessi termini o vocaboli - organi,
parti del corpo, posture ecc. - i congiungimenti, gli atti sessuali e così via che servivano alla descrizione
viceversa sempre nuova e spesso suggestiva di ciò che egli voleva di volta in volta rappresentare (si pensi anche
solo alla figura dell’iperbole resa in modo straordinario nel sonetto che opportunamente Secco a un certo
punto riporta e che inizia dicendo: «Ò visto l’altro giorno una putana / con una mona granda in tal maniera,
/che in principio ghe gera una riviera/con un bastimento tuto pien de lana»). In ciò Dazzi bene incarnava le
tradizionali resistenze soggettive dello storico abituato a trovarsi a suo agio piuttosto sul terreno colto che non
su quello incolto arieggiato (in parte) dal Baffo forse intuendo che «scendere dalla letteratura alla sessualità è
sempre un’operazione piena di rischi» (per tutti, cfr. R. Canosa e O. Colonnello, Storia della prostituzione in
Italia dal ‘400 alla fine del ’700, Roma Sapere 2000, 2004, 10.
58
P. Del Negro, Introd. a Idem (a cura di), Poesie di Giorgio Baffo patrizio veneto, Milano, Mondatori, 1991, 51.
38
parte le preoccupazioni filosofiche e le complicazioni politiche d’ambiente,
rimandava con sicurezza (ed anche assai di più, sia detto, di quanto non sarebbe
successo di lì a poco con epigoni sul genere di Pietro Buratti59) alla sfera del
mondo popolare del tempo. Un tempo che s’era concluso da poco quando, fra gli
esiti meno vistosi dell’esportazione in Italia del verbo rivoluzionario e della sua
razionalizzazione politico amministrativa, con la nascita del Veneto moderno dalle
ceneri dolorose della Serenissima, estinta, come equivocando suol dirsi, a
Campoformio e in un clima peraltro reso effervescente anche dal discreto
protagonismo delle classi popolari60, prese forma una iniziativa d’indagine
demologica davvero pionieristica e cioè l’Inchiesta voluta da Giovanni Scopoli, gran
commis di governo napoleonico nonché più volte Prefetto, Consigliere di Stato e
‘Direttore della Pubblica Istruzione’, sulle tradizioni, gli usi e i costumi del Regno
Italico. Venuta in luce o meglio segnalata in epitome una prima volta nel 1894 a poco
più di ottant’anni dalla sua conclusione (1811-1812), periodicamente poi riscoperta
durante la prima metà del novecento da numerosi studiosi del folklore (Toschi,
Cocchiara, Fabi, Crocioni ecc.) e riesaminata ancora in tempi recenti da altri
specialisti (Baldini, Netto, Garavini ecc.) fra cui spicca in rilievo un veronese ad
59
Su Pietro Buratti (1772-1832) all’acre giudizio, abbastanza prevenuto, ma non sempre esteticamente
infondato di un suo antologizzatore d’inizio novecento (A. Pilot, Antologia della lirica veneziana dal 500 ai
nostri giorni, Venezia, Giusto Fuga Editore, 1913, 930: «Fecondissimo, violento, laido, dissoluto…non
poteva vivere, nuovo Ovidio, senza compor versi, <nei quali> fu spesso sconcio, come il Baffo, ma non di
rado <solo> per compiacere alla compagnia malvagia e scempia che praticava. Scrisse anche in italiano, ma
vi à meno importanza che come cultore del vernacolo… La maggior parte dei suoi versi è ancora inedita,
altri corrono in edizioni peccaminose ricercate, naturalmente, dai gabbamondo e dalle signore isteriche
<sic!>») si potrebbe contrapporre la stima di qualche insigne suo contemporaneo come Stendhal che ebbe
a giudicarlo «uomo di genio e grande poeta» (cfr., per ciò, la ricostruzione di Manlio Dazzi che
all’argomento dedicò anche un articolo ad hoc nel 1956 sulla Nuova Rivista Storica, riprendendone poi i
termini, tre anni più tardi, nell’agile profilo di Buratti steso per il terzo volume (Ottocento e Novecento)
della sua antologia Il fiore della lirica, cit. pp. 11-14)
60
Sulla nascita del Veneto moderno, così come noi oggi lo intendiamo, soltanto alla caduta di Venezia cfr.
alcune pertinenti osservazioni (a pp. 218-219) dell’intervento di Silvio Lanaro nell’opinabile libretto curato
dall’editore Cesare De Michelis per conto del Consiglio regionale del Veneto sulla Identità veneta (Venezia,
Marsilio, 1999) anche se vale forse ancor di più a far intendere quanto asserito nel testo l’annotazione d’ordine
linguistico compiuta dal Folena secondo il quale ‘Veneto’ suona da noi più largo di ‘veneziano’, per alcuni
versi inclusivo, per altri oppositivo fra il ‘territuorio’, con i suoi centri e le sue tradizioni particolari, e la
metropoli lagunare, città-stato e città-impero. Ma l’uso etnico-culturale di ‘veneto’, di origine dotta, credo
che non sia anteriore alla Rivoluzione e alla fine della Repubblica; e le altre lingue europee con vénitien,
venezianisch, venetian, veneziano ecc., hanno conservato l’antica prospettiva storica <con inclusa la sua
pluralità che> appartiene originariamente alla città delle isole, nel suo nome medievale e umanistico,
Venetiae, contrapposto al nome classico del territorio, Venetia (Folena, Scrittori e scritture, cit., 324).
Per il ‘clima effervescente’ degli anni rivoluzionari e per il protagonismo (narrativo, autobiografico, di letture
ecc. ) delle classi popolari soprattutto (ma non solo) urbane, cfr. invece la mia, Prefazione a M. Zangarini (a
cura di), Il diario dell’oste. La Raccolta storica cronologica di Valentino Alberti (Verona, 1796-1834), Verona,
Associazione Veneta per la storia locale, Cierre Edizioni 1997, IX-XXXVII.
61
G. Tassoni, Arti e tradizioni popolari. Le inchieste napoleoniche sui costumi e le tradizioni nel Regno italico,
Bellinzona, Casagrande, 1973. Del Tassoni, su cui cfr. anche infra pp. 12, son da vedere almeno gli studi sulle
tradizioni popolari in area padana: G. Tassoni, Folklore e società. Studi di demologia padana, Firenze, Olschki, 1977.
39
honorem e grande demologo come Giovanni Tassoni61, essa risulta importante per il
Veneto e per il Friuli un po’ perché la maggior parte delle carte in cui confluì si
conservarono a Verona dove le deposero gli eredi dello Scopoli, trentino di
origine ma anche lui ‘veronese di elezione’, e un po’ perché a illustrare le sue
parti più originali e più ricche di notizie (come quelle sui Dipartimenti del Mella
e Serio, dell’Adige e del Passariano), aveva provveduto, sempre a Verona,
Franco Riva le cui fatiche tradotte in saggi scrupolosi e puntuali vennero infine
rese note, vent’anni fa, nella monumentale Storia della cultura veneta di Neri
Pozza, da Ulderico Bernardi in veste di studioso62. Il breve excursus genealogico,
molto all’acqua di rose, su un solo filone, quantunque seminale, che per cent’anni,
come si intuisce, ha alimentato la curiosità e s’è guadagnato le cure di eruditi, filologi
e studiosi delle tradizioni popolari, dà l’idea dell’ampiezza dello scenario entro il
quale sarebbe ora necessario calare il discorso se, muovendo fra storia, antropologia
e folklore, si volesse dare pienamente conto di una delle cornici, peraltro non
secondaria, in cui pure merita d’essere inserito il lavoro di Gianluigi Secco.
L’Inchiesta Scopoli e di tempo in tempo, ma molto più in là, non poche altre
fonti di analoga conformazione e natura perché di origine pubblica o
governativa (ovvero ‘parlamentare’ come fu nelle parti riguardanti le costumanze dei contadini delle monografie venete nell’Inchiesta Jacini e nel
volume riassuntivo sul Veneto di Emilio Morpurgo) assieme ad alcune preziose
indagini ‘private’63, parlano in modo ancora sommario e spesso impreciso degli
usi, dei detti e dei canti degli abitatori delle campagne, tacendo inoltre, piuttosto
compattamente e con rarissime eccezioni, sui loro eventuali risvolti erotici ed
osceni a malapena infatti accennati, con vaghi richiami qua e là, e sempre
all’insegna della deprecazione e della condanna morale più sbrigative.
62
Cfr. F. Riva, Tradizioni popolari venete secondo i documenti dell’inchiesta del Regno Italico (1811),
Venezia, 1966 (estr. da Memorie dell’IVSLA, Classe di Scienze morali, Lettere ed Arti, vol. XXXIV, fasc.
II) e U. Bernardi, Gli studi sul costume e le tradizioni popolari nell’ottocento, in Aa.Vv., Storia della cultura
veneta, cit., vol. 6 (1986), Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, 311-341 (per altri contributi non
solo di Riva sulla questione rispetto a singoli Dipartimenti napoleonici del Veneto si veda, di suo, anche Le
inchieste Scopoli sulle tradizioni usi e costumi del regno Italico. Il Dipartimento dell’Adige, Verona
MCMLXIII (estr. dagli Atti dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, Serie VI, Vol. XII,
anno 1960-61), di G. Netto Usanze trevigiane raccolte per l’inchiesta napoleonica del 1811, in Aa.Vv., Il
Veneto e Treviso tra Settecento e Ottocento, Treviso. Istituto per la storia del Risorgimento italiano in
Treviso, 1982, 161-187, e di L. Ambrosoli, Un sondaggio delle opinioni degli abitanti delle campagne: le
inchieste del 1811 nel Regno Italico, in Studi Storici Luigi Simeoni, XXVI, 1986, 319-329, poi in Idem,
Educazione e società tra Rivoluzione e Restaurazione, Verona, 1987, 163-179.
63
Penso, in particolare, a scritti e a lavori, spesso rimasti inediti, non tanto di ricerca folklorica, quanto
sulla condizione e sullo stato dei lavoratori delle campagne, sull’emigrazione, sulla salute e
sull’alimentazione popolare ecc. (per la Jacini cfr. almeno A. Lazzarini, Contadini e agricoltura. L’inchiesta
Jacini nel Veneto, Milano, Franco Angeli, 1983), realizzati in privato da istituzioni locali e da singoli
studiosi (per il concetto e per la casistica veneta (‘Accademia di Agricoltura di Verona’, ‘Ateneo di Treviso’,
Leone Carpi ecc. ) cfr. E. Franzina, Il biometro delle nazioni. Primi rilevamenti sull’emigrazione, in
Quaderni Storici, XV, dicembre 1980, n. 45, 996-1005) ; anche qui, tuttavia, ci si trova dinanzi, per quanto
40
Ma fra gli anni quaranta e la fine del secolo XIX quando col pieno dispiegarsi
delle ideologie nazionaliste si viene profilando anche da noi non solo ‘il mito
romantico del popolo’64, bensì pure un tentativo finalmente organico o quanto
meno ragionato di raccolta e di scavo da parte dei nostri primi ‘fabri del folklore’
delle sue ‘voci’ più significative, le cose, da questo punto di vista, non sembrano
andare molto meglio.
Il lavorìo, sulle prime rapsodico ed entusiasta nonché ancora approssimativo di
quanti, sulla scia del Tommaseo, si arrabattano per dar corpo a una lettura della
cultura popolare in armonia con le vedute del nascente positivismo, si concentra
anche in Veneto sui canti e sui proverbi ‘in voga’ nelle campagne e taglia fuori
usi e costumi dell’intimità prematrimoniale, nuziale, ecc. denotando molti punti
di affinità e di contatto con i modelli toscani (anche se bisognerebbe specificare
‘presunti modelli’ attese le date di stampa delle varie opere) offerti già dal Tigri,
dal Marcoaldi, dal Vigo ecc. così come accadrà, poco più tardi, nel confronto a
distanza col Nigra, col Rubieri e, infine, col Pitrè.
concerne usi o fatti della vita sessuale dei contadini magari connessi a una cultura sentenziale, soltanto ad
annotazioni concise e marginali come quelle del medico Antonio Maria Gemma che nel 1874 s’intrattiene
sull’esuberanza erotica dei villani osservando che «quanto alla Venere il contadino è continente finché non
si marita, ma colla sua moglie trasmoda…<egli infatti è sì> sobrio e temperante per natura, ma guai se può
accostare le labbra al nappo dorato...» (A. M. Gemma, Fisiologia ed igiene del contadino di Lombardia e del
Veneto, Padova, Premiata Tipografia F. Sacchetto 1874, 55) oppure come le altre del notabile bellunese
Antonio Maresio Bazolle, che affrontando il tema dei compari ossia degli amici del marito emigrato che
soccorrono la sua sposa divenuta ‘vedova bianca’ prestandosi ‘a di lei favore nelle eventuali emergenze’
segnala: «Queste mansioni pongono a lui <sc. al compare> a frequenti colloquii di confidenza con lei. Di
più questa donna sola, stretta da imperiose circostanze specie se ritardano le rimesse di denaro
dall’estero…non può sempre discutere abbastanza sulle condizioni che le vengono imposte; mentre tale
altra non sa resistere alle seduzioni della vanità, unite e concordanti d’altronde colla propria esuberante
vitalità giovanile. È notorio il proverbio ‘No l’ é an bon compare quel che no ghe fa quel servizio a so comare’.
I mariti <emigrati, dal canto loro,> trovandosi in lontani paesi a tanta distanza dalle loro famiglie, si
dimenticano talvolta d’essere ammogliati ed annodano relazioni arbitrare e viziose… Avviene perfino che
alcun marito si accasi con altra donna, e dia origine ad una famiglia ibrida…» (A. Maresio Bazolle, Il
possidente bellunese, a cura di D. Perco, Feltre Comunità Montana Feltrino e Comune di Belluno, 1987, 2
voll., II, 263). Potrebbe risiedere anche in circostanze simili a queste ben colte a fine ottocento da Maresio
Bazolle l’origine dell’adattamento, pressoché coevo, di alcuni canti tradizionali e delle loro melodie al
fenomeno emergente e lacerante dell’emigrazione (nel caso specifico una emigrazione periodica e
maschile, non di necessità diretta in America anche se le occasioni di vita doppia e di bigamia si diedero
con maggior facilità e frequenza nell’ambito dell’esodo transoceanico). Si vedano i testi assai mobili (per
l’alternanza del punto vista maschile e femminile) di canzoni, che traggo per comodità da raccolte delle
mie parti (Canti popolari vicentini, raccolti con le musiche da Vere Paiola, ordinati e annotati da Roberto
Leydi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1975, 380 e 382), come El marinaio l è là ch el speta e Quando sarò in
America dove compaiono ora il lamento ed ora la minaccia per il cambio paventato/annunciato di partner
(«Quando sarai in America / ti troverai un’americana / non ti ricordi più dell’italiana / che tanto amore ti ha
portà» ovvero «Quando sarò in America / mi sposerò un’americana / solo che d’un’italiana / al mondo
resterà»). Sui canti generati dal fenomeno emigratorio rinvio a me stesso: E. Franzina, Le canzoni
dell’emigrazione, in Aa.Vv., Storia dell’emigrazione italiana, cit. vol. I, 537-562.
64
Cfr. G. B. Bronzini, Valori e forme della poesia popolare italiana nella cultura della prima metà
dell’ottocento, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, 9-11, e G. L. Mosse, Sessualità e nazionalismo.
Mentalità borghese e rispettabilità, Bari, Laterza, 1984.
41
Una piccola rete di rapporti diretti e di relazioni indirette si stringe su scala
interprovinciale e a tratti regionale fra singoli studiosi, man mano anche di
diversa generazione, i quali operano tutti più o meno nello stesso campo e nello
stesso periodo e i quali si avvalgono, a Venezia tra Carrer e Dal Medico, a Padova
tra Berti e Zacco, a Vicenza tra Alverà e il giovane Pasqualigo ecc., di
suggerimenti e spesso di materiali ‘altrui’, perseverando indomiti nella peraltro
non inspiegabile esclusione, dal proprio raggio di analisi (benchè non di privata
raccolta e collezione), dei documenti relativi alla sfera erotica e sessuale.
Largo e anzi larghissimo spazio viene concesso usualmente al versante
sentimentale degli innamoramenti popolari, ma invano si cercherebbe nel libro,
poniamo, di un Angelo Dalmedico sui Canti del popolo veneziano65 (1848),
qualche serio collegamento con quello che era stato uno dei retroterra fecondi e
quasi il serbatoio privilegiato della produzione in versi di Giorgio Baffo.
Analogamente nulla di men che castigato compare nelle diverse ‘fiorite’ di
canzoni e nelle antologie di proverbi e ‘superstizioni’, che i vari Bernoni, NardoCibele, Righi, Ninni e, naturalmente (sino al 1882) Pasqualigo, vengono
allestendo con l’aiuto o l’apporto di una piccola schiera d’’informatori’
provenienti dal contado e quasi tutti presumibilmente a giorno, donne
comprese, d’una infinità di particolari e di dettagli del ‘folklore sessuale’
corrente. Mentre sappiamo quanto e quanto in fretta stiano mutando, già in
questi anni a cavaliere dell’unificazione nazionale o, per il Veneto, dell’annessione al neonato Regno d’Italia, la fisionomia e le occasioni concrete della
socializzazione, per così dire, erotica anche a livello popolare in forza di un
consumo immensamente accresciuto di immagini e di testi a sfondo osceno
divulgati non più solo dai cantastorie e dai venditori ambulanti, ma da una intera
industria culturale che sta entrando in funzione pure da noi diramandosi dai
centri urbani sino alle zone rurali di campagna, occorre riconoscere che ben poco
di tutto ciò trapela ‘in pubblico’ intendendosi per ‘pubblico’ gli scritti, editi in
forma di articolo, di saggio o di volume, dai nostri folkloristi a lungo anch’essi
paralizzati ed impediti a farlo dalle vedute dominanti del loro tempo quando non
solo in Inghilterra o in Germania, bensì pure da noi si stavano imponendo quei
‘nuovi ideali di mascolinità e di virilità’ che avrebbero finito per svolgere un ruolo
decisivo e vitale nello sviluppo dei concetti sia di sessualità che di rispettabilità66
(ovviamente borghese o di classe media e cioè dei ceti a cui gli studiosi, nove su
dieci, appartenevano). Gli storici, molto più tardi e anch’essi superando a stento
imbarazzi e reticenze di rito67, riusciranno a documentare, sin dove possibile, i
margini del mutamento in atto protrattosi almeno sino alle soglie del grande
65
Cfr. la ristampa anastatica dell’opera di Dalmedico ‘con aggiunta delle pagine modificate nella seconda edizione
del 1857, a cura di A. M. Cirese’ (e con due saggi d’appendice dello stesso ossia Nota sui Canti del popolo veneziano
di A. Dalmedico e Notizia biobiliografica su Dalmedico, Milano, Edizioni del Gallo maggio, 1967, 237-250).
66
Mosse, Sessualità e nazionalismo, cit., 7.
42
conflitto mondiale quando già, prima di dilagare nel corso della successiva metà
del novecento, si moltiplicavano ed erano sempre più visibili i segni del
coinvolgimento diretto di operai e braccianti rurali in un immaginario erotico
relativamente ‘moderno’ e in aperto contrasto con i risvolti più conservativi della
‘tradizionale etica sessuale contadina’68.
Indizi di ciò si potevano rintracciare, adesso, anche nella irrobustita ricreatività
‘immorale’ delle ‘plebi’ che riscontrava a suo modo l’evoluzione del comune senso
del pudore o forse meglio le traversie della questione sessuale quali si configurarono
in Italia fra età liberale e fascismo69.
Ruotava, questa ricreatività popolare rigenerata, attorno ai perni classici delle
osterie e però anche delle nuove ‘feste maschili’ della coscrizione militare; si
ritrovava, ad ogni passo, nella promiscuità sessuale sempre più necessitata e
frequente dei luoghi di lavoro industriale disseminati nelle campagne (lanifici,
laboratori, filande...) o nelle forme nascenti del ‘tempo libero’ tra balli, danze e
altri svaghi esecrati, non a caso, dal clero intransigente, ma si rinveniva infine
pure nel vasto campo prostituzionale e nella frequentazione sistematica da parte
di giovani e di anziani dei casini di infimo ordine con esiti sanitari tali da
incrementare una piccola tradizione folklorica, ben presente a Secco, in materia
di prevenzioni profilattiche, di elementari rimedi ecc., e infine, per non parlare
delle letture rese possibili da un’alfabetizzazione primaria in lenta ma sicura
ascesa, nelle stesse scritture private degli incolti e dei semicolti (anche donne
stavolta) come le lettere dalle e per le caserme (e poi da e per i vari fronti di
guerra coloniale) con ricadute prevedibili sul processo di adattamento e
d’intensa rimodellazione della cultura popolare di fondo70.
L’avvento di tecnologie oltremodo innovative e capaci d’incidere appunto in
profondità sui gusti e sulle mentalità correnti, dalla fotografia al cinema al
fonografo, propizia e rende possibile, anzi quasi inevitabile, un tale mutamento che
le ricerche sulla diffusione delle immagini (anche specificamente di argomento
erotico o, come a quest’altezza si può dire ben, pornografico71) e gli odierni popular
music studies ammoniscono a non ritenere privo di contraccolpi sul mondo
apparentemente immobile delle campagne e delle periferie sociali urbane.
67
Cfr. P. Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti. Viaggio nella storia sociale, Milano, Bruno Mondatori, 2002.
M. Fincardi, Fuori dal matrimonio. Costumi sessuali dei giovani nella Padania bracciantile, in Annali
dell’Istituto A. Cervi, 17/18, 1995-96, 273, ma per un raffronto cfr. anche alcuni accenni in M. R. Cossàr,
Amori e nozze degli agricoltori goriziani e E. Cavazzutti, Amori e nozze dei contadini romagnoli, in Lares, III,
1932, n. 1, 59-68.
69
Cfr. B. P. F. Wanroji, Storia del pudore. La questione sessuale in Italia, 1860-1940, Venezia, Marsilio, 1990
e, per alcune antologizzazioni d’epoca, anche P. Sorcinelli (a cura di), Eros. Storie e fantasie degli italiani
dall’ottocento a oggi, Roma Bari, 1993, passim.
70
E. Franzina, Introduzione a Idem, Casini di guerra. Il tempo libero dalla trincea e i postriboli militari nel
primo conflitto mondiale, Udine, Paolo Gaspari, 1999, 19-60.
71
Per cui si veda specialmente il libro stracolmo di suggestioni e d’informazioni di Ando Gilardi: Storia
della fotografia pornografica, Milano Bruno Mondatori, 2002.
68
43
Emblematico appare, a questo riguardo, il modo in cui finiscono anche qui per
intrecciarsi e per integrarsi i diversi livelli dell’espressività canora popolare
miscelando sempre di più gli apporti tradizionali con i frutti delle nuove mode di
quella che da noi si suol chiamare la musica leggera72. Essi fomentano contrafacta
e imprestiti talvolta di rilievo come potrebbe insegnare la parabola degli usi
popolari di certe canzoncine del circuito commerciale sul tipo de L’elefante con le
ghette di cui discorre a un certo punto Gianluigi Secco.
Ma quel che conta, prima di ritornare ai nostri ‘fabri del folklore’ veneto di metà
ottocento, è che proprio mentre essi operano il ‘salvataggio’ di usi e di tradizioni
(non solo vocali e sonore s’intende) ritenute già allora pericolanti, si sviluppano
in tutta Europa «nuovi tipi di canzone (sia teatrale che domestica) e di danza, sia
borghesi che di classe operaia, si organizzano società corali e bande, in quello che
può considerarsi un vero e proprio movimento sociale destinato a rimescolare e a
complicare ulteriormente i confini tra ciò che è colto e ciò che è popolare.
È soprattutto allora che sorgono istituzioni inedite come case editrici musicali,
teatri, agenzie di impresariato, concerti a pagamento e music hall, con una
crescente differenziazione sociale dei rispettivi pubblici»73. Fermo restando che
quello proletario e contadino, oggetto principe delle cure degli indagatori del
folklore, sarà fra gli ultimi a risentirne, è un fatto che tanti cambiamenti
‘istituzionali’ influenzano via via il suo assetto e si accompagnano a
trasformazioni importanti anche per lui sul piano simbolico e culturale nonché
‘proprietario’74, capaci come sono di ridisegnare radicalmente «la mappa
concettuale con cui si guarda, e si vive, la musica».
72
Su alcuni dei cui aspetti si possono vedere ora M. Peroni, ’Il nostro concerto’. La storia contemporanea tra
musica leggera e canzone popolare, Milano, La Nuova Italia, 2001 e S. Pivato, La storia leggera. L’uso
pubblico della storia nella canzone italiana, Bologna, Il Mulino, 2002.
73
M. Santoro, Musica di chi? A proposito di storia e popular music, in Contemporanea, a. VII, n. 4, ott. 2004, 678-679.
74
Quasi mezzo secolo fa, saggiamente, lo notava Manlio Dazzi parlando della circolazione popolare della
canzone o canzonetta divulgata dal circuito radiofonico mediatico e avvertendo in proposito che essa,
«sotto l’influenza della insistente ripetizione fotomeccanica di un testo fisso, riesce a conservare anche nei
ripetitori popolari intatta o quasi la sua forma originaria. Avviene qui un’accettazione, magari avida, ma
precaria, non un’appropriazione…e una canzonetta incalza l’altra, l’allontana nel tempo in un
avvicendarsi vorticoso. Non v’è stasi, non v’è possesso, non v’è libertà di modificazione, non vi può essere
coscienza di proprietà». E subito appresso, pessimisticamente, aggiungeva: «è da temere anzi che il vecchio
repertorio di lirica popolare, già fatto rado, venga ad opera sua <sc. della canzonetta commerciale>
cancellato completamente dalla memoria, che il fatto creativo rinnovato dal popolo così spesso in antico su
un motivo, s’inaridisca del tutto, che i nuovi poeti-musici con diritto di proprietà soppiantino, se più ne
esistono, gli innumerevoli poeti-musici che, magari ricevuto il soldo della stampa o il bicchier di vino,
cedevano non solo l’uso, ma la proprietà al popolo…» (Dazzi, Premessa, cit., 16-17). In realtà «non tutto
era perduto» se consta, ad esempio, che un riuso della canzone commerciale, addirittura sanremese, potè
darsi, ancora nei primi anni sessanta, in certi strati popolari e fra certe categorie del mondo lavorativo
rurale (esso sì, casomai, in via di scomparsa) come quello delle mondine come ha spiegato, offrendo
all’ascolto la registrazione di alcune esecuzioni fatte allora in risaia di Vola colomba, Emilio Jona (al
Convegno citato su L’Albero dei canti nella sua relazione su I canti delle mondine fra mito, storia e folklore).
Del resto in una lettera a Cirese senior, stilando la cronaca de Il Congresso dei Cantastorie, uno dei primi
44
Sicché non è un caso che tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, allorché sta
faticosamente nascendo anche per merito di uno studioso veneto, il bassanese
Oscar Chilesotti, la moderna etnomusicologia75, fosse ormai definitivamente
emersa, secondo, opina Marco Santoro appellandosi all’auctoritas di W. Weber e L.
W. Levine, «una nuova gerarchia estetica e culturale… costruita su una dicotomia
– quella tra musica ‘seria’ e musica ‘leggera’ (light) – che non esisteva nel
diciottesimo secolo. È dunque nell’ottocento, nel lungo ottocento, che viene a
costituirsi a poco a poco, in Europa (a quanto pare partendo dall’Inghilterra),
quella distinzione tra ‘colto’ e ‘popolare’ che avrebbe a lungo, ancora oggi,
strutturato in tutto il mondo occidentale, pratiche e discorsi sulla musica (come su
altre forme espressive). Ciò che più sembra interessante, a costituirsi non sarebbe
stata solo la categoria di popular music, ma il sistema costituito dalla sua
opposizione a un’altra musica – e in realtà a un’altra cultura – progressivamente
autonomizzatasi e soprattutto innalzatasi grazie al reciproco sostegno di
intellettuali e ceti alto-borghesi. La nascita della popular music come categoria
storica <sarebbe> dunque coincisa anche con la costituzione di nuovi confini
sociali e simbolici, la creazione e il mantenimento di nuove forme di distinzione,
sostenute e rafforzate da luoghi, spazi, istituzioni e discipline». Origina di qui, a ben
vedere, anche l’intricata vertenza o querelle scientifica su ciò che in età
contemporanea è ‘veramente’ popolare, per via di una separatezza infine
rioggettivata, e ciò che rimane della cultura in antico ‘tradizionale’ delle
popolazioni subalterne. Essa intrecciandosi di tempo in tempo, ma in realtà sino ai
‘risvegli’ inaspettati o quasi dei giorni nostri76, con evidenti preoccupazioni
d’ordine politico da parte delle diverse militanze intellettuali (di classe, nazionaliste
o populiste), rappresenta, auspici in particolare Leydi e Straniero, Pianta e Bermani
ecc. un capitolo a sé nella storia e negli studi del folklore musicale italiano77.
della categoria (l’AICA cit. in nota 52) tenutosi a Bologna nell’aprile del 1954, il giovane Roberto Roversi,
rimpiangendo non solo l’esempio appropriato di Giulio Cesare Croce, bensì appena le gesta di Giuseppe
Ragni, un ‘cantimbanco’ felsineo scomparso nel 1919, annotava come l’idolo dei convenuti fosse un cantante
allora alla moda se essi avevano tutti «un solo Dio: Luciano Tajoli» (ne La Lapa, II, giugno 1954, n. 2, 83-84).
75
Cfr. R. Leydi, L’altra musica, Milano, Giunti Ricordi, 1991, 95-96, e M. Sorec Keller, Musica popolare,
scale ‘esotiche’ ed evoluzione delle culture musicali negli studi di Oscar Chilesotti, in I. Cavallini (a cura di),
Oscar Chilesotti, la musica antica e la musiocologia storica, Venezia, Fondazione Levi, 2000.
In generale sull’etnomusicologia si vedano D. Carpitella, L’etnomusicologia in Italia, Palermo, Flaccovio,
1975, e B. Pianta, Canti popolari, in Aa.Vv., Introduzione a ricerche etnografiche nel Veneto, Vicenza,
Accademia Olimpica, 1981, 247-266.
76
F. Castelli, Che ne è del canto popolare oggi? Cinque libri, un CD, un convegno e un questionaro, in Quaderno
di storia contemporanea, (Alessandria), 2003, n. 34, 99-117, ma cfr. anche P. Brunello, Storia e canzoni in
Italia: il Novecento, con allegati 2 CD di canzoni a cura di A. De Palma e C. Bermani, Comune di Venezia,
Assessorato Pubblica Istruzione, 2000 e L. Ferrari, Folk geneticamente modificato, Viterbo, Stampa
Alternativa, 2003, con un CD allegato.
77
Cfr. C. Bermani, ’Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…’ Saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003 e E.
Franzina, Storia orale e storiografia italiana nel secondo novecento, in Aa.Vv., Voci parole memorie. Testi e suoni
nei percorsi della cultura popolare – Studi, materiali e argomenti per la lettura etnografica e l’analisi sociale. Atti
del Seminario di studi, Cinisello Balsamo Villa Ghirlanda, 7 novembre 2002, Cinisello Balsamo, 2003, 1-7.
45
Le tracce erotiche o riferibili alla vita sessuale anche nei canti di tal genere sono
esigui, ma non mancano in assoluto perché, sia pure a fatica, la sessualità finì a un
certo punto per formare, come ha osservato Domenico Scafoglio introducendo la
sua citatata raccolta di Racconti erotici italiani, l’oggetto di un ‘appartato’, ma
cospicuo «filone di studi di dimensione europea e di indiscussa solidità,
nell’impegno, se non nei risultati, che d’altra parte devono ancora essere vagliati
adeguatamente». L’isolamento e la natura per così dire riservata dell’argomento,
scabroso anche nell’analisi, dipendevano da una doppia rimozione: «la rimozione
dell’oggetto folklorico in sé e quella dello sguardo che lo <percepiva>; rimozione,
quest’ultima, che ha condannato all’invisibilità completa una tradizione di indagini
alla quale già l’ambigua separatezza scientifica e la semi-clandestinità
conferiva<no> un incerto statuto esistenziale».
L’assenza di spunti e di elementi probatori al riguardo non poteva non riguardare,
va da sé, anche l’austero Veneto rurale ed emigratorio (che pur ebbe una sua faccia
trasgressiva oggi troppo spesso negletta o dimenticata78), ma si stemperava e
diminuiva senz’altro, sensibilmente, nella più ampia ed effervescente area padana
dell’otto e novecento, con inglobate le basse pianure di almeno tre province venete,
tra rivendicazioni battagliere di mondine, lamenti di filanda in sorte e
ammiccamenti di solito di ‘parte femminile’ (penso, nella stessa montagna
vicentina, alle cosiddette ‘pò∫ene’ – ragazzine migranti in Trentino – di Aliegre
compagne o al ritornello di sfida delle braccianti della bassa pianura «vieni vieni mio
tesoro nella camera del lavoro»). Pure queste son voci ‘popolari’ che fanno qua e là
capolino79 riproponendo, ancora una volta o da altri punti di vista, i temi della
censura e dell’autocensura negli studi sul folklore così da ricondurci infine allo
snodo o al tornante cronologico nevralgico, e lasciato in sospeso qui sopra, degli
anni cruciali in cui si costituì il corpus delle fonti orali fissate per iscritto che più
78
E. Franzina, Civiltà popolare o storia e cultura delle classi subalterne? Dai documenti contadini all’oral history,
in Società e storia, II, 1979, n. 4, 413-425 poi in Idem, La transizione dolce. Storie del Veneto tra ‘800 e ‘900,
Verona, Cierre Edizioni, 1990, 455-475 e Idem, Il Veneto ribelle. Proteste sociali, localismo popolare e
sindacalizzazione tra l’unità e il fascismo, Udine, Gaspari Editore, 2001, ma cfr. anche uno dei primi lavori di
Dino Coltro, instancabile e prezioso indagatore a tuttoggi delle tradizioni popolari e della cultura contadina del
Veronese e del Veneto ossia il libro romanzato e assai bello su I leori del socialismo, Verona, Bertani, 1973 e la
più recente raccolta di ‘proverbi della tradizione popolare veneta’: Dio non paga il sabato, Verona, Cierre, 2004.
79
Cfr. S. Pianalto, Aliegre compagne, Assessorato alla Cultura e Biblioteca Comunale di Recoaro Terme,
1980; F. Castelli, La rivendicazione dell’eros nei canti del bracciantato femminile padano, agli Atti
audiovisivi del convegno citato sub Aa.Vv., Onte bi∫onte..., ma anche la piccola e tuttavia crescente
letteratura sui canti di filanda (ad Arzignano, ad Arcade, a Salzano ecc.) con accenni e allusioni al risvolto
sessuale del lavoro dipendente femminile (specie gli abusi del ‘diretor de la filanda’ et similia. ) e sul canto
sociale che incrocia le sue vie con quelle del canto politico e di protesta ovvero, in genere, con il canto
popolare tout court per la cui bibliografia veneta rimangono punti di riferimento essenziali alcune raccolte
dei folkloristi del passato (oltre ai molti richiamati qui appresso che tutti più o meno vi si cimentarono da
Pasqualigo a Righi a Balladoro, si ricordino almeno i nomi di Pio Mazzucchi per il Polesine e di Luigi
Marson per l’Alto Trevigiano) integrate dai lavori più recenti in particolare di Coltro e di Cornoldi, forse
non a caso – cfr. G. M. Canbiè, Testi problemi personaggi della musica popolare, estr. da Aa.Vv., La musica
46
assiduamente Secco è riuscito a riscontrare risalendo appunto dall’oralità attuale a
quella dei secoli passati. Una delle basi dichiarate della sua ricerca, sempre
verificata ‘al presente’, è rappresentata infatti dalle acquisizioni più e meno note
della scienza folklorica ottocentesca alle prese con il problema dell’accettabilità
sociale di tante rappresentazioni popolari dell’eros in cui, volenti o nolenti, alcuni
degli studiosi in precedenza fuggevolmente evocati qui sopra e altri loro colleghi
ancora si erano venuti imbattendo nel corso delle proprie inchieste e indagini sul
campo, non ritraendosene e tuttavia astenendosi virtuosamente dal farne parola.
Limitando al caso del Pasqualigo e dei veronesi Righi e Balladoro lo sforzo di
ricostruire la mappa dei percorsi che portarono all’inclusione tramite loro – che ‘in
pubblico’ quasi mai, appunto, ne avevano fatto menzione – di una cospicua
componente veneta (e friulana) nell’opera capitale, per il nostro assunto, di Raffaele
Corso su La vita sessuale nelle credenze, pratiche e tradizioni popolari italiane80, c’è
subito da dire che essa, tolte alcune sporadiche citazioni del tutto ininfluenti sulla
sua prolungata (s)fortuna editoriale e scientifica, subì gli effetti di una doppia
censura finendo per veder la luce in italiano soltanto pochissimi anni fa, dopo esser
stata pubblicata in tedesco nell’ormai lontano 1914. Giovanni Battista Bronzini,
poco prima di venire a morte, ha fatto in tempo a descrivere esaustivamente
antefatti e retroscena dell’intera vicenda81, che sul finire dell’età giolittiana o se si
preferisce della effimera Bella Epoque d’inizio novecento, mise in stretto rapporto
Raffaele Corso, questo «giovane calabrese di forte impegno e di larga cultura» come
lo ebbe a definire allora Giuseppe Pitrè, con il più accreditato e operoso alfiere
dell’etnologia sessuale del tempo, il viennese Friedrich Salomo Krauss, inventore,
in pratica, di una sottodisciplina davvero speciale, l’Anthropophyteia, al cui nome
greco (scienza dell’atto generatore umano) si legavano sia una Associazione di studi
omonima a cui avevano aderito fra gli altri Sigmund Freud82 e Franz Boas e sia una
collana editoriale (semiclandestina) di monografie nazionali su pratiche e credenze
sessuali popolari nella quale trovò appunto posto, per l’Italia, il contributo di Corso.
a Verona, a cura di G. Brugnoli, Verona, Banca Mutua Popolare, 1976 - entrambi veronesi (del primo cfr.
Cante e cantari, Venezia, Marsilio, 1988, e del secondo il classico e più volte ristampato Ande, bali e canti
del Veneto, Presentazione di R. Leydi, Introduzione, XV-XLIX, di P. Barzan, Rovigo, Regione VenetoMinelliana, 2002). Per altri aspetti, anche ‘tecnici’ si vedano almeno i due volumi di M. Dalla Valle, G. Pinna
e R. Tombesi, Strumenti, musiche e balli tradizionali nel Veneto, Sala Bolognese, Forni, 1987, mentre per vezzo,
spero scusabile, di antico correlatore (e per l’ultraventennale amicizia e collaborazione musicalspettacolare con
l’autore, uno degli ‘informatori’, fra l’altro, di Secco) mi piace citare infine, come pertinente e assai ben fatta, la
tesi di laurea di Luciano Zanonato: Contributo allo studio dei canti sociali nel Vicentino, U. degli Studi di Bologna
Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di Laurea DAMS (Indirizzo musicale), aa. 1986-1987, rel. R. Leydi.
80
Ed. italiana a cura di G. B. Bronzini - Saggio introduttivo di L. Röhrich, Firenze, Leo S. Olschki Ed., 2001 (il
saggio introduttivo da cui trarremo più avanti qualche brano alle pp. V-XVIII). Sui ‘pregiudizi sessuali’ e su altre
costumanze legate ai matrimoni e agli accoppiamenti delle popolazioni rurali della penisola, Raffaele Corso, ormai
in sintonia con l’establishment fascista a cui aveva dato convinto appoggio, ritornò in forma più leggera nella sua
‘prima serie’ di Studi di tradizioni popolari italiane, con il volume Reviviscenze, Catania, Libreria Tirelli, 1927.
81
G. B. Bronzini, Un’opera recuperata dalla demologia italiana nella sua dimensione internazionale, in
Lares, LXVII, n. 2, aprile giugno 2001, 375-395.
47
Tale contributo alla sessuologia «proclamata come sapere prioritario della
demologia da F. S. Krauss» appare in effetti rilevante come sottolinea il saggio
introduttivo alla retroversione italiana dell’opera (tradotta dal tedesco dato lo
smarrimento dell’originale) di Lutz Röhrich dove assieme a molte utili
osservazioni si legge: «Sesso ed Eros si trovano abbondantemente presenti in
tutte le forme del folklore… tanto da far dichiarare al Pitrè in modo esagerato che
<esso> tende tutto verso l’erotico come alla sua vera essenza. Nonostante questo
dominio del sessuale, il folklore propriamente erotico come tema di ricerca è stato
via via escluso dall’attività demologica di raccolta del diciannovesimo secolo e
sempre più severamente nei primi decenni del ventesimo <... anche se la sua>
seria scoperta scientifica si ha in concomitanza cronologica e areale con la scuola
psicoanalitica viennese di Sigmund Freud e per riflesso delle sue tesi… Prima
della ‘rivoluzione sessuale’ alimentata dal freudismo la maggior parte dei
ricercatori non osò pubblicare le annotazioni di folklore erotico. Queste vennero
così date alle stampe e fatte circolare anonime per mascherare l’identità degli
autori sotto pseudonimi o, in modo cautelativo, sotto il mantello di copertura
rappresentato da iscrizioni latine o greche, del tipo ‘Kriptadia’, ‘Futilitates’,
‘Anthropophyteia’, ‘Latrinalia’, ‘Maledicta’…». Tramite Krauss, Corso, che ne
divenne poi intimo amico, si inseriva per tempo nel clima di tutta una cultura,
non solo sessuologica, mitteleuropea, attratta dalle fascinazioni dell’eros la quale
da noi stentò, o tardò, a farsi debitamente conoscere e apprezzare, come ha
spiegato meglio di tutti Michel David83, per la diffidenza maturata nei confronti
della psicanalisi freudiana da vari ambienti intellettuali italiani quando, negli
anni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale, e
appena arginata dalle informazioni fornite da sociologi e poligrafi sul tipo di
Roberto Michels84, tuttora imperversavano (e continuarono a lungo a
imperversare a dir la verità) medici reazionari e igienisti bacchettoni del
bigottismo raro di Giovanni Franceschini85, un vicentino dei molti che avevano
allora accesso alle pagine del Corriere della Sera, o quando, per altri versi, era
del tutto ignorata anche l’opera del giovane Magnus Hirschfeld, lo scienziato
ebreo, omosessuale e socialista fondatore, dopo la fine del conflitto, del prestigioso Institut für Sexualwissenschaft di Berlino86 (non a caso, negli anni trenta,
sia Krauss che Hirschfeld avrebbero dovuto subire poi la durissima persecuzione
del nazismo con roghi di libri e messe al bando di uomini e di cose). In materia
sessuale il misoneismo e l’oscurantismo si davano la mano creando in82
Della lettera di Freud a Krauss a proposito delle facezie erotiche e della rivista Anthropophyteia (edita in
S. Freud, Opere 1909-1912. Casi clinici e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1974, 307-308) ha offerto
un’utile ristampa il Bronzini in appendice al suo saggio sopra citato (pp. 393-394).
83
M. David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1974.
84
Farraginoso ma non privo di motivi d’interesse, anche per lo spazio concesso ai proverbi e agli usi
popolari europei, il saggio del Michels (La morale sessuale) che in seconda edizione (‘riveduta e ampliata
48
numerevoli difficoltà a chi intendeva, comunque fosse, studiarla (e magari
praticarne a proprio talento alcuni atti costitutivi). Nondimeno qualche breccia
s’era intanto aperta ed anche i più scettici e pudibondi dei nostri folkloristi, con
in testa il loro decano Pitrè, arrivarono ad ammettere l’impossibilità di tenere
nascosta o riservata ad oltranza la trattazione di un tema che per altri versi
s’imponeva all’attenzione ovvero, e sia pure, alla curiosità morbosa dell’opinione
pubblica nei suoi vari strati e livelli.
Se tuttavia persino in Veneto, sul finire dell’ottocento e in tempi di grande
emigrazione, erano riuscite a rimbalzare e a filtrare ad esempio, dalla lontana
America, alcune sommarie indiscrezioni sugli esperimenti delle comunità
utopistiche che includevano, come nel caso della celebre Colonia Cecilia
brasiliana, la comunione non solo dei beni, bensì pure delle donne87 e se gli
anarchici e socialisti di tutta la regione (pochi i socialisti), potevano qua e là
inneggiare, col monselicense Carlo Monticelli, ai vantaggi e ai miraggi del libero
amore, la pruderie borghese era ben lungi dall’essere qui minoritaria o debellata.
Stupisce quindi, nell’opera di Corso, la forte presenza, se non anche la
prevalenza, di attestazioni provenienti dal Triveneto.
Le fonti del demologo calabrese erano in parte orali ossia «rilevate con indagini
sul campo» e in parte scritte come si evince del resto dalla lettura del suo libro e
dalle scrupolose citazioni dell’autore che seppe sunteggiare e valorizzare, segnala
Röhrich, «precedenti raccolte, quali, ad esempio, quelle di Bernoni, Wolf, Ninni,
Balladoro, Pieri, Ostermann e Arboit».
dall’autore’) apparve tradotto in italiano presso i Fratelli Bocca a Milano nel 1910 ottenendo però un
modesto successo di pubblico forse per l’equidistanza e la laicità di fondo delle tesi che esponeva.
85
Il best seller di Franceschini, scritto in collaborazione con il Dott. Giona Nardi, fu senz’altro un volume
edito da Ulrico Hoepli a Milano a integrazione e coronamento di altri due manuali dello stesso autore e
dello stesso tenore ideologico sulla Igiene sessuale e sulle Malattie sessuali che era giunto nel 1944 alla sua
ottava edizione (Vita sessuale. Fisiologia ed etica) e che rinverdiva, assieme ai primi due, i fasti
ottocenteschi, da non dimenticare, del ‘senatore erotico’ (ed esperto di emigrazione italiana in Argentina)
Paolo Mantegazza.
86
Cfr. l’informata scheda sull’Institut für Sexualwissenschaft (1919-1933), in Journal of the History of
Sexuality, vol. 12, n. 1, january, 2003, 122-126, e su Hirschfeld (1868-1935) la biografia di Manfred
Herzer, Magnus Hirschfeld: Leben und Werk eines jüdischen, schwulen und sozialistischen Sexologen,
Hamburg Lang, 2001.
87
Cfr. L’appello ai lavoratori veneti del fondatore della Colonia Cecilia, dott. Giovanni Rossi, comparso
sulla Verona del Popolo del 18-19 giugno 1892, da me poi edito in E. Franzina, Merica! Merica!
Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina, 1876-1902, Milano,
Feltrinelli, 1979, 223-226, e commentato in vari altri luoghi. La letteratura sulle colonie utopistiche nel cui
novero rientra l’italoparanaense Cecilia è folta (cfr. almeno R. S. Fogarty, All Things New: American
Communes and Utopian Movements, 1860-1914, Chicago, University of Chicago Press, 1990 e, benché
centrata sul caso di Home a Puget Sound Washington, per la sua rilevanza rispetto al libero amore, anche il
saggio esemplare di Brigitte Koenig, Law and Disorder at Home: Freee Love, Free Speech and the Search
for an Anarchist Utopia, in Labor History, vol. 45, n. 2, may 2004, 199-223). Sulla Colonia Cecilia è
ritornata di recente dopo le fatiche del Dottorato anche Isabelle Felici con il volume La Cecilia: histoire
d’une communauté anarchiste et de son fondateur Giovanni Rossi, Lyon ACL, 2001.
49
La folta presenza di veneti e friulani in questo
elenco, ribadiamolo, non può non colpire, ma
colpirebbe anche di più qualora si considerasse
che mancano all’appello, qui, i due folkloristi
forse più prodighi d’informazioni sul tema
sessuale e ai quali in realtà Corso maggiormente
aveva attinto, sia pure in forma indiretta,
attraverso le notizie liberalmente trasmessegli dal
conte veronese Arrigo Balladoro (1872-1927): il
leoniceno Cristoforo Pasqualigo (1833-1912) e il
veronese Ettore Scipione Righi (1833-1894).
Raccoglitore instancabile di proverbi su scala
regionale il primo e massimo esperto ottocentesco
di folklore veronese il secondo, entrambi avevano
messo mano in gioventù a vari studi storici e letterari. Pasqualigo, inoltre, aveva
coltivato sino ai suoi giorni estremi le reviviscenze rustiche e pavane nell’opera di
scrittori come il grande e dimenticato Domenico Pittarini88 e benché ‘tutta
veronese’ apparisse, al crociano veronese ‘in esilio’ Gioachino Brognoligo, la sua
opera, anche Righi, primo provveditore agli studi della propria città, almeno fino
al 1870 avrebbe dispiegato «romanticamente una certa sua attività poetica»
dandosi solo più tardi «a ricerche erudite e specialmente folkloristiche e
raccogliendo proverbi, poesie e novelle popolari89».
Essendo fuori discussione la tempestività con cui Pasqualigo aveva cominciato a
interessarsi di folklore, precedendo certo l’amico, coetaneo e quasi conterraneo, ma
non poi di così tanto quanto credeva Brognoligo, ci sarebbe da dire qualcosa dei
loro legami e delle loro più e meno precoci passioni per lo studio della cultura
popolare veneta perché in entrambi, come provano le loro lettere dagli anni
cinquanta dell’ottocento in poi, fortissima fu anche la passione civile e politica di
un patriottismo senz’altro liberale e nazionalrisorgimentale. Il che vuol dire che ha
piena ragione chi osserva, e non da ora, che la genesi degli studi localistici e/o
regionali con incorporato il ‘culto’ del folklore, meglio se rustico e contadinesco,
88
Su Pittarini, dopo gli studi magistrali di Fernando Bandini (cfr. la sua introduzione - Vita ed arte di
Domenico Pittarini - all’edizione annotata di D. Pittarini, La politica dei villani scene rusticane in due atti in
versi, Venezia, Neri Pozza Editore, 1960, 9-37 e quella a D. Pittarini, Laude a Molvena e altre poesie in lingua
rustica, Vicenza, Neri Pozza, 1980, 9-16), è comparso di recente un corposo volume dell’Associazione
Culturale Lastego su Domenico Girolamo Pittarini… La vita, l’umanità e l’ironia di un poeta dialettale veneto
di fine ‘800 Opera Omnia, Vicenza, Editrice Veneta, 2002, a cui ho fornito una introduzione dal titolo uguale
allo spettacolo teatrale che ne avrei poi ricavato (E. Franzina, Menego dei villani: le opere e i giorni (1829-1901),
15-30) e alla quale ovviamente rinvio per ogni altro approfondimento.
89
Traggo la citazione dal capitolo che Brognoligo dedicò alla natìa Verona nella sua opera a puntate – gli
Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX – La cultura veneta – pubblicata
dal Croce su La Critica, (1921-1926), alla cui edizione in volume attendo forse ormai da troppi anni, ma che
confido infine di licenziare nel prossimo 2005.
50
anche nel Veneto si ebbe a ridosso dell’unificazione
politica dell’Italia dove, ha scritto Fernando Bandini, lo studio stesso dei proverbi prese grande
impulso «in concomitanza col nuovo fervido
interesse per le tradizioni popolari. È singolare che
questo nuovo, vivace interesse per le culture
popolari o per il dialetto coincida col processo unitario del paese e veda come protagonisti alcuni
studiosi che alla causa nazionale hanno spesso
partecipato attivamente. È in un certo senso il sorgere dell’entità ‘nazione’ che permette di individuare le proprie specificità regionali all’interno di
essa. Gli Stati regionali prima dell’Unità, SereTutela, xilografia seicentesca
nissima compresa, possedevano una labilissima
coscienza delle proprie caratteristiche etnico culturali, del proprio narod. È con
l’unità nazionale che gl’italiani scoprono la particolarità delle loro radici e della loro
storia, tale scoperta è anzi un suo frutto…»90.
Non è casuale nemmeno, diciamo noi, che un tale ragionamento segua
immediatamente un breve profilo di Pasqualigo che del proprio impegno
irredentista e nazionalista di stampo ottocentesco così come dei propri studi
paremiologici diede sempre puntuale notizia all’amico veronese come emerge
appunto dal loro carteggio91. Ne scaturisce, per chi lo voglia leggere in
controluce, anche il cammino fatto assieme dai due per entrare poi in più intimo
contatto con vari specialisti di demologia non solo veneta d’altra generazione
lavorando talora, a propria volta, sugli inediti di quelli di loro che erano da poco
scomparsi come ad esempio fece Pasqualigo con le carte di Andrea Alverà92.
CR
90
Da dicembre a gennaio. Cinquanta proverbi veneti, a cura di F. Bandini, Errepidueveneto, Bassano del Grappa,
Tassotti, 1995, 7-9; (per alcune considerazioni convergenti si veda anche il capitolo su Unità della lingua e poesia
popolare veronese, di Bronzini, Valori e forme, cit., 155-167).
91
Cfr. Lettere di C. Pasqualigo a E. S. Righi, in Biblioteca Civica di Verona, Fondo Righi, b. 620/30 (il
carteggio di Righi, per quanto concerne le lettere da lui ricevute, è interessante e non troppo perlustrato,
nemmeno, mi sembra, da molti degli autori del volume dedicatogli nel 1997 di cui alla successiva nota (93) e
andrebbe posto a confronto con le corrispondenze di suo pugno scambiate con altri folkloristi italiani (com’è in
un caso relativamente precoce per alcune missive indirizzate a Luigi Molinaro Del Chiaro fra il 1873 e il 1890:
cfr. G. Amalfi, Sei lettere inedite del folklorista veronese Ettore Scipione Righi, in Il Folklore Italiano. Archivio
trimestrale per la raccolta e lo studio della tradizioni popolari italiane, Napoli, II, 1927, nn. 3-4, 457-464).
92
Il medico vicentino Andrea Alverà (1799-1845), linguista eclettico e dialettologo dilettante, si applicò, fra
le altre cose, allo studio delle tradizioni e dei canti popolari della sua provincia ricevendo, come usava,
l’incoraggiamento del Tommaseo (cfr. la più importante delle raccolte da lui curate ossia i Canti Popolari
tradizionali Vicentini colla loro musica, Vicenza, Longo, 1844) e lasciando una certa mole di corrispondenze
con studiosi per lo più veneti del suo tempo nonché vari materiali inediti sul folklore sia rurale e sia urbano
che si conservano oggi a Vicenza: con ogni probabilità gli stessi avuti in visione dal Pasqualigo che in tal senso
ne parla restituendoli al bibliotecario abate Andrea Capparozzo in una sua lettera (da Piazza San Marco,
Venezia) del 3 maggio 1878 (ora in Biblioteca Bertoliana, Vicenza, Epistolario Capparozzo, ms. E 21, nr. 315).
51
Mentre Pasqualigo visse abbastanza a lungo per poter pubblicare e
ripubblicare, limandole, molte delle proprie opere, Righi, colpito anche da
cecità, morì nel 1894 lasciando inediti o infonditi parecchi materiali che solo di
recente è stato possibile censire93.
Fra essi, probabilmente, alcuni provenivano direttamente dal Pasqualigo che a
sua volta non aveva dato alle stampe o aveva riservato solo a una eletta scelta di
amici l’edizione semiclandestina dei proverbi dell’erotismo plebeo di cui sotto
diremo proprio perché essa riguardava le costumanze sessuali dei contadini.
La circostanza non era addebitabile all’estrazione regionale del soggetto se
anche il siciliano Pitrè, un po’ pentendosene, avrebbe ammesso, scrivendone in
privato a Raffaele Corso dopo l’uscita del suo libro94, ch’era stato grave torto
quello «di aver lasciato al buio l’aspetto più naturale e forse più importante della
vita del popolo» avallando così per decenni una pratica censoria e autocensoria
in evidente contrasto con l’esperienza dei raccoglitori. Pitrè, per quanto lo
riguardava, aveva spesso espunto dalle edizioni della sua rivista (l’Archivio per lo
studio delle tradizioni popolari) e delle collane da lui dirette (come la Biblioteca
delle tradizioni popolari siciliane) testi che gli parevano ‘indecenti’ o anche
appena ‘equivoci’, come quelli cassati al medico lucano Michele Gerardo
Pasquarelli95, tenendosi peraltro sempre informato e al corrente di ciò che si
veniva facendo in Italia in questo campo come traspare, pour cause, dalle briose
corrispondenze, del 1881, con l’abruzzese Gennaro Finamore96 a proposito di
una ‘idea birbona’ venuta al suo editore, ma mandata ad effetto proprio da
93
Cfr. Aa.Vv., Ettore Scipione Righi (1833-1894) e il suo tempo. Atti della giornata di studio (Verona, 3 dicembre
1994), a cura di G. P. Marchi, Verona, Accademia di Agricoltura e Fondazione Cariverona, 1997, dove sono
inoltre degni di nota, con quello del curatore, i contributi di Marcello Conati (Le trascrizioni musicali di canti
popolari nel ‘Fondo Righi’, 45-84) e di Marcello Bondardo, Il vocabolario veronese di Ettore Scipione Righi nel
quadro della dialettologia cittadina del primo ottocento, 95-124 nonché la nota bibliografica di Marco Girardi su
Gli scritti a stampa di Ettore Scipione Righi, 185-200.
94
G. Pitrè a R. Corso, Palermo 30 gennaio 1914, edita in Corso, Reviviscenze, cit. 4 (questa lettera, assieme alle
altre 53 inviate dallo studioso siciliano al più giovane collega, venne pubblicata anche nella rivista Folklore della
Calabria, VII, 1962, n. 1, 9-58) .
95
G. B. Bronzini (a cura di), Medicina, magia e classi sociali nella Basilicata degli anni Venti. Scritti di un medico
antropologo, Galatina Congedo, 1987, 2 voll.
96
Scriveva al Pitrè Gennaro Finamore (di cui e su cui cfr. G. Finamore, Kriptadia. Racconti erotici, indovinelli,
proverbi e canti popolari abruzzesi, a cura di M. C. Nicolai, Chieti, Solfanelli, 1987): «Il Pasqualigo mi chiese,
tempo fa, de’ proverbi - di un certo genere - Io avevo già cominciato a mettere da parte qualche cosa di proibito
per una Raccolta pornografica. Ed Ella non ha fatto conserva di questa roba?» (G. Finamore a G. Pitrè, Chieti,
26 giugno 1881, in P. Toschi, Pagine abruzzesi, L’Aquila, Japadre, 1970, 147) e il demologo siciliano gli
rispondeva: «Forse Ella non sa che il Pasqualigo pubblicò anni fa una raccolta pornografica di Prov. Escatologici
a soli 12 esemplari per 12 amici. Io ho questa rarità; che mi sarà utile per riscontri simili; giacchè anche il mio
editore ha una certa idea birbona, che io non son disposto a secondare, di metter fuori, dopo l’ult. volume della
mia Biblioteca, un volume di Cose grasse: novelle, canti, indovinelli, ecc. da tirarsi a copie numerate e intestate a
un centinaio di persone dotte, che costantemente hanno acquistato ciascun volume della mia Raccolta. Se Ella
ha robe simili non se ne stia dal farmele vedere chè gliele tornerò (canti, particolarmente, e proverbi)»; G. Pitrè a
G. Finamore, Palermo 5 luglio 1881 (in P. Toschi, ‘Fabri’ del folklore, Roma, Signorelli, 1958, 62).
52
Cristoforo Pasqualigo, suo corrispondente e stimato collaboratore probabilmente già nel 1879 con una bozza di stampa riservata ad appena dodici,
selezionatissimi amici97.
Pasqualigo, come che sia, avrebbe poi provveduto, protetto dall’anonimato, a
metter fuori nel 1882, lo stesso anno di pubblicazione della sua maggior
Raccolta di proverbi veneti (Treviso, Zoppelli, 1882), e in edizione separata anche se con ogni probabilità più ‘generosa’ delle 47 copie di tiratura fuori
commercio ufficialmente dichiarate – una silloge di centocinquantadue
proverbi scabrosi e piccanti, che aveva stampati, scrisse, «ad uso esclusivo degli
studiosi» intitolandola Proverbi Troiani. Il titolo derivava di sicuro da una
reminiscenza dell’Imbriani (Vittorio), che nel 1875, come segnala Tassoni98,
aveva pubblicato in 28 esemplari una Novella troiana da non mostrarsi alle
signore (Le tre Maruzze), datandola da un’immaginaria Troja della quale
sarebbero stati cittadini «quanti delle trojate si dilettano e del parlar sboccato si
compiacciono». È precisamente l’opuscolo che anche Secco menziona e che
dev’essere integrato col massimario di Proverbi erotici e escatologici del Veneto
allestito, forse intorno al 190399, pescando ora dallo stesso Pasqualigo e ora dal
Righi, dal conte Arrigo Balladoro e rimasto inedito per più di settant’anni.
97
Fra le 45 cartoline e le 16 lettere inviate, dal 1868 al 1896, da Pasqualigo al Pitrè ve n’è una del 22 marzo
1879 in cui il leoniceno comunica al suo interlocutore: «Fra poco le manderò i Proverbi Erotici e Scatologici.
Ho diffuso fra gli amici le bozze contenenti 32 dei detti proverbi e le aggiunte fattevi finora li fecero
raddoppiare. Lo manderò in lettera chiusa e fors’anco raccomandata. È una collezioncina curiosissima»
(cit. in E. Lippi, Una raccolta poco nota di proverbi veneti, estr. dagli Atti e Memorie dell’Ateneo di Treviso,
aa. 1990-91, n. 8, 113, ora il saggio anche in Idem, Contributi di filologia veneta, Treviso, Antilia, 2003).
98
G. Tassoni, Arrigo Balladoro: Proverbi erotici e escatologici del Veneto, in Atti e Memorie della Accademia
di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, aa. 1978-79, S. VI, v. XXX, 1980, 295 (in appendice a questo
saggio l’autore ripubblica sia l’inedito ossia la raccolta realizzata da Balladoro con materiali di Pasqualigo
e di Righi segnalata sin dal 1932 da Agostino Pettenella (Nuovi scritti inediti di Arrigo Balladoro, in Aa.Vv.,
Nel quinto anniversario della morte di Arrigo Balladoro. Miscellanea, Verona, La Tipografica Veronese,
1932, 54-58) e sia i Centocinquantadue <recte 172> Proverbi Troiani raccolti e stampati ad uso esclusivo degli
studiosi della demopsicologia. Edizione di 47 esemplari fuori commercio, 1882 (ma Treviso, Zoppelli) col
motto Homo sum umani nihil a me alienum puto).
99
Così opinava già il Pettenella (art. cit., p. 55), ma si tratta di congettura più che plausibile se a quell’anno
risalgono sia un libro di Pasqualigo postillato da Balladoro nel redigere l’elenco dei proverbi poi rimasti
inediti (Cenni sui Dialetti veneti e sulle lingue macaronica, pavana e rustica, Lonigo, 1903) e sia una lettera
di Giuseppe Pitrè che al conte veronese scriveva, «Ch. mo Signore ed Amico, perdoni ad una povera vittima
dell’eccessivo lavoro l’indugio a rispondere alla preg. ma Sua del 21 u. s. - Diretta da Eug. Rolland in Parigi
si pubblica a Heilbron (Henninger Frères Editeurs) una collezione di importanti porcherie folkloriche e
scatologiche col titolo Kriptadia, Raccueil de Documents pour servir a l’ètude des. Trad. Pop. Se ne sono
pubblicati, credo, 5 volumi (io ne conosco solo 4) tirati a soli 210 (vol. I) e 135 (v. IV) esemplari numerati
al prezzo di Fr. 75 la copia. Ciascun volume è da 350 a 400 pagine…» (G. Pitrè a A. Balladoro, Palermo
17/2/ 1903, in Biblioteca A. Balladoro, Povegliano). A quanto par di capire da questa informazione, sia
detto en passant, Pitrè a cui alcuni più tardi l’avrebbero erroneamente attribuito, ignorava che il commento
anonimo ai racconti ‘proibiti’ del russo Afanas’ev editi in traduzione francese proprio su ‘Kriptadia’ era di
mano di un folklorista italiano, Stanislao Prato, insigne conoscitore delle tradizioni popolari umbrotoscane e cultore ‘coperto’ del genere.
53
Delle vicende dell’opuscolo a stampa e della sua circolazione si sono occupati
Giovanni Tassoni ed Emilio Lippi nel tentativo di realizzarne una ricostruzione
filologica soddisfacente e fondata, al di là di quanto ne avessero voluto scrivere o
potuto dire i primi biografi di Balladoro il quale, lavorando sui materiali inediti
del Righi, proprio di lì aveva preso le mosse per i suoi approfondimenti e anche,
se è per questo, la maggior parte dei motti e dei detti osceni o licenziosi da lui
comunicati più tardi a Raffaele Corso100.
Di un tal modo di procedere di Balladoro si era sempre avuto sentore e anche
l’ultimo dei suoi esegeti, Giorgio Bovo101, ne ha offerto recentemente la riprova
pur accreditando il conte veronese, come noi stessi non esitiamo a fare, di
sostanziale correttezza visto che egli aveva poi ricavato quel suo nuovo e più
ampio elenco di proverbi o∫è dalle aggiunte autografe di Pasqualigo a una copia
dei ‘Troiani’, ricevuta in omaggio dall’autore e da questi evidentemente postillata
come forse l’altra in bozze di cui si parla in una lettera strepitosa (per diversi
motivi) del luglio 1890 al Righi, sempre del folklorista leoniceno102.
La possibile prevalente ‘veronesità’ dei proverbi in questione è revocata in
dubbio dall’intrico dei passaggi e dalla retrostante provenienza degli informatori
primi, che Righi reclutava sì, come si è detto, in zona veronese e specialmente in
Valpolicella, ma dei quali Pasqualigo disponeva invece in tutte le parti del Veneto
(eccettuata o quasi, paradossalmente, la provincia di Vicenza103). Sulle loro
inflessioni dialettali egli esercitava inoltre un rigoroso controllo e fedelissime
registrazioni. Linguista per diletto, e buon veneto di terraferma, era rimasto
scottato, infatti, dall’improvvido editing del suo primo stampatore:
ringraziando nel 1878 Andrea Capparozzo per l’invio di alcuni proverbi, certo
non ‘estremi’ e di cui già disponeva, gli comunicava di averli avuti «tutti
carissimi perché mi giovano a correggere la 1^ edizione nella quale il Nalin (a
mia insaputa) aveva sostituito alle varie parlate del Veneto, la parlata Veneziana;
che non v’è nessuna ragione da preferire alle altre…»104.
Anche Righi e Balladoro, del resto, prestavano estrema attenzione alle
trascrizioni del parlato annotando con precisione ciò che veniva loro riferito105 e
piace vedere che la stessa cosa fa, oggi, Gianluigi Secco con l’aiuto dei suoi molti
‘informatori’ (da Amerigo Vigliermo a Luciano Zanonato, ai Posagnot ecc. ) e
specialmente quando è alle prese con le varianti italobrasiliane (sul tipo di E mi
la dona gorda… ) delle sue e nostre canzoni riferitegli da Valmor Marasca e da
tanti altri amici italogaúchos. Dettagli si dirà: e sia106.
103
100
Merita una trascrizione quasi integrale la lettera, una delle molte, che Raffaele Corso, dimostratosi poi
ingrato nei riguardi del suo corrispondente (ancora nel maggio del 1915 gli scriveva da Nicotera per
scusarsi del mancato invio di copia del suo libro sulla Vita sessuale adducendo giustificazioni ‘concorsuali’
abbastanza pretestuose), indirizzava a Balladoro perché gli chiarisse gli aspetti linguisti e lessicali dei
proverbi e dei detti da lui ricevuti; essa, da Nicotera in data 27 giugno 1912, al pari della successiva appena
richiamata, si conserva nel fondo omonimo e del pari già citato della Biblioteca A. Balladoro del Comune
di Povegliano: «Chiarissimo amico – recita – Le notizie che Ella mi ha comunicato coll’ultima Sua, sono per
me graditissime e importanti pel lavoro cui attendo. A completare il gergo erotico veronese occorrerebbe
anche conoscere i termini e le espressioni che designano le diverse posture del coito o, per dirla con una
vecchia frase, le Figurae Veneris. Fra i proverbi da Lei raccolti, quello che dice: ‘Casso in le tete / naso in t
el cul, / e lengua in figa, eco el gropo de la formiga’ mi pare indichi un modus coeundi speciale, di cui sarebbe
utile conoscere l’appellativo volgare. Come le ho detto in altra mia ho già spedito a Vienna, al Krauss, una
parte del lavoro, riguardante la vita coniugale degli sposi nel talamo fino all’avvenimento della prima
gravidanza e del parto. Ora attendo a dar l’ultima mano a diversi capitoli che trattano dell’Ars Amatoria
(baci, diverse forme lascive; filtri composti col sangue mestruo, collo sperma, coi peli del pube, collo sterco
della persona amata ecc. ) delle mammelle e dei rimedi per promuoverne lo sviluppo o per impedirne
l’ingrossamento straordinario; dei fiori mensili; delle parti genitali nonché dei blasoni erotici. Come può
intendere la notizia ricavata dal manoscritto del Righi mi è pervenuta a tempo opportuno per metterla a
profitto. E di ciò le sono grato. Il Krauss…mi domanda se mi trovo in grado di fornirgli fotografie e
immagini e disegni di costumi erotici italiani. A questo veramente non avevo pensato…Perciò mi pare non
possa accogliere la domanda o la proposta, come vuol dirsi, dell’egregio amico…».
101
Cfr. G. Bovo, Arrigo Balladoro. La figura e l’opera. Il periodo. Gli inediti, in A. Balladoro, Inediti.
Manoscritti pronti per le stampe. Prefazione di R. Leydi. Saggio introduttivo di G. Bovo, Comune di
Povegliano Veronese – Biblioteca Comunale 1994, 11-44 (si tratta dello studio più completo su Balladoro
e sulla sua produzione, con un ampio apparato di note ed una bibliografia aggiornata al 1994 alla quale, per
comodità, si rinvia)
102
«Mio carissimo Ettore, mentre ti scrivo codesta Biblioteca Comunale riceve quelle 10 pag. di proverbi
troiani… ». C. Pasqualigo a E. S. Righi, Parma 7 luglio ’90, in Fondo Righi, Lettere di C. Pasqualigo, nr. 49.
54
All’abate Capparozzo, nella lettera già citata qui sopra in nota (92), Pasqualigo scriveva «Ogni giorno
mi capitano da Belluno e dal Cadore proverbi nuovi; perciò tiro in lungo il dar principio alle stampe. Credo
che i proverbi supereranno i seimila...», ma allo stesso, alcuni giorni prima (lettera del 24 aprile 1878, data
del timbro postale da Venezia, in Biblioteca Bertoliana Vicenza fasc. C. P. 46, nr. 313) aveva confessato con
evidente disappunto: «Io ho amici che mi mandano proverbi da Adria, da Belluno, dal Cadore, dal
Trevigiano ecc. ; ma non ho nessuno da Vicenza…».
104
C. Pasqualigo a A. Capparozzo, Venezia, 11 maggio 1878, ivi, nr. 316.
105
Cfr. C. Pasqualigo a E. S. Righi, Lonigo 2 ottobre 1888, in Fondo Righi cit., n. 17 (a proposito dell’invio
al mittente di una lezione di Donna Lombarda). Molte prove dell’accuratezza con cui, oltre a Righi e a
Pasqualigo, lo stesso Balladoro si preoccupava di rispettare l’esatta pronuncia dei termini in cui proverbi,
motti e modi di dire gli erano stati riferiti si trovano nelle lettere che gli dirigeva suo cugino Francesco
Cipolla (1848-1914, fratello del più noto Carlo, l’insigne storico) anch’egli oltremodo scrupoloso al
riguardo e colui, anzi, che per primo, come osserva Giorgio Bovo (op. cit. p. 17) «lo famigliarizzò alla
precisione nella trascrizione dei testi orali». (cfr. a mo’ d’esempio la sua missiva del 23 settembre 1890 da
Verona – in Biblioteca A. Balladoro, Povegliano, lettere di F. Cipolla - che inizia così: «Come ho detto
ancora, in fatto di lingua è un affar serio. Mi sono finalmente accorto, con piena chiarezza, che nella Bassa
Pianura si omette la V. Sinchè sentivo dire i proverbi e poi me li scrivevo da me, non me n’ero accorto. L’udito
non arrivava a percepire bene. Avendo scritto diversi proverbi sotto l’occhio di chi me li diceva, venni
ammonito che io sbagliavo scrivendo la V. Così jeri scrissi sotto l’occhio di chi me lo recitava, il proverbio:
‘Nar in malora no ghe ol miseria. Io scrivevo: vol. No! Mi disse – ol va scritto E simili…»). Sull’intera
questione linguistico-lessicale e sul dibattito che ne scaturì a Verona fra otto e novecento si veda l’esaustivo
contributo di M. Bondardi, Due secoli di lessicografia dialettale veronese, in G. Rigobello, Lessico dei dialetti
del Territorio Veronese, Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, 1998, 535-627.
106
Su questi e su altri problemi s’intratteneva, dietro curiosa richiesta del relatore, la tesi d’antan di una mia
allieva (oggi, con la riforma Berlinguer/Moratti ciò non sarebbe più possibile) al cui paziente lavoro rinvio
soprattutto per quanto concerne lo studio degli informatori del Righi, i carteggi di Balladoro e una infinità
di altre piccole cose tutte magari di dettaglio, ma tutte anche diligentemente registrate o fotocopiate, come
allora usava, tra le carte di Righi e Balladoro: L. Rigo, E. S. Righi, A. Balladoro e lo studio del folklore
veronese, Tesi di Laurea Università degli Studi di Verona, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Materie
Letterarie, aa. 1989-1990, rel. E. Franzina.
55
È interessante però, per il nostro punto di vista e per un raffronto con le scelte
che hanno guidato nelle sue opzioni l’autore di questo libro, sottolineare, infine,
tanto la complicata trafila che presiede alla formazione di raccolte del folklore
destinate a diventare col tempo fonti irrinunciabili e preziose, quanto la
complessità e la varietà dei problemi che proprio quella trafila spesso nasconde,
ma poi anche sottende, in particolare se si toccano tasti delicati e se si
maneggiano testi intriganti relativi alla sessualità e all’erotismo, sia pur
‘campagnoli’.
Sono problemi talora non da poco come spero si sia potuto comprendere
dall’andamento di questa introduzione che qui si conclude e ch’è venuta fuori
così, lo si capisce, per stima ed amicizia verso l’autore, ma anche perché il suo
gioioso e faticoso lavoro era sembrato da subito, a chi si assumeva la briga di
parlarne in anteprima, molto più importante di quanto non rischiasse di
apparire a una lettura superficiale, col pericolo magari di essere catalogato nel
novero mesto dei recuperi memoriali fatti a scanso di (cattiva) coscienza. Non è
e non sarà così. Lo crediamo probabilmente tutti e due, sia io che Secco, perché
molte volte abbiamo ragionato al riguardo delle cose che si possono fare e di
quelle altre che, a un certo punto, diventano invece difficili e quasi impossibili
da farsi come, ad esempio, registrare fedelmente, fin che si è in tempo, le parole
e i suoni, compresi quelli della sessualità e dell’erotismo, che riempiono tuttavia
la nostra vita e che subiscono inevitabili mutamenti e adattamenti. Certo, in
questo caso, è stato necessario esporsi e rischiare qualcosa sul piano della famosa
‘rispettabilità’ di cui parlava Mosse, ma, ci si creda, è stato meglio così, meglio,
come minimo, di dover rimpiangere un giorno ciò che si sarebbe potuto dire e
fare quando era il momento giusto e quando, soprattutto, ve n’erano ancora i
mezzi dando dunque bada, più o meno, a uno dei proverbi del terzetto – triade
non si può proprio dire – Righi-Pasqualigo-Balladoro – ossia, a mo’ di congedo,
«Quando era bon de dàrghelo, no era bon de dìrghelo; / e adèso che son bon de
dìrghelo, no so più bon de dàrghelo»
Emilio Franzina
Vicenza 31 dicembre 2004
Il frontespizio del libretto ‘ad uso esclusivo degli studiosi’, commentato sul retro dal ‘custode distributore’ della
biblioteca di Treviso (1949), con i proverbi ottocenteschi che Cristoforo Pasqualigo intese assicurare al futuro
temendone la scomparsa a breve. Il fatto che nessuno di tali detti sia nel frattempo scomparso la dice lunga sulla
loro importanta qualitativa. Ho potuto verificare ciò in modo personale e diretto e questo vale anche per la
maggior parte delle cose sul tema pervenute da altri autori, se si esclude il fenomeno delle villotte, uniche ad
essere scese nell’ultimo secolo, nella tomba dell’oblio; ciò per la fine del loro naturale contesto d’attuazione.
56
57
Sono stato parecchio indeciso se pubblicare o no questo volume poiché la materia,
che indubbiamente è intrigante, è stata affrontata per lo più da versanti rigidi, vuoi
quello dello spiccato erotismo, vuoi quello dell’osservazione scientifica, vuoi quello
della interpretazione ‘religiosa’. Considerata la virtù della cultura popolare
d’essere priva del vocabolo e del concetto di ‘scandalo’, ho pensato che un punto di
vista ad essa ispirato potesse essere utile e, perché no, educativo, in un mondo
occidentale i cui mezzi audiovisivi di comunicazione sembrano privi ormai di ogni
genere di ritegno. Ciò senza rinunciare a parlare, pur svolazzando, di argomenti
in genere scabrosi e delicati che solo il canto, la poesia, e poche immagini, cioè
l’arte, e la lingua popolare, consentono di collocare in una sfera d’equilibrio (o
sopra la sfera, in equilibrio). Il pregio dei dialetti è quello di contenere, nella
essenzialità delle parole, soprattutto la capacità di legarle immediatamente alla
realtà e di possedere, nello scrigno di ogni singola esperienza, una serie
straordinaria di detti, proverbi e modi di dire – ma anche di canti e villotte – in
grado, se collocati nel momento e contesto giusto, di rendere chiare le situazioni più
complesse e in modo quasi sempre ironico ma soprattutto imprevedibile; la qual cosa
genera il sorriso che è sempre l’effetto di una emozione che segnala l’arrivo del
messaggio nel porto desiderato della memoria. Siccome non mi consta che i sorrisi
possano essere generati da cose turpi o cattive mi auguro che ognuno trovi in queste
cose filtrate dal buon senso popolare, e quindi arrivate fino a noi, dei buoni tratti
delle proprie ‘verità’ o i sintomi dell’altrui buonafede che reclama il diritto ad essere
rispettata. Affrontando il tema della sessualità non si possono infatti eludere tutte
le più importanti domande esistenziali. Così ho cercato di seguire una via
‘popolare’ nella mia comunicazione, che non ha la pretesa del saggio di stile
‘classico’ come quello ottocentesco e straordinario di Raffaele Corso, alla cui
basilare opera sul tema si rimanda, ma la cui struttura, pur meno dichiarata,
vorrebbe agire per intuizioni proprio come nelle filastrocche, nelle favole, negli
indovinelli della cultura orale, speculando con una infinità di esempi nascosti tra
testo e note; un gioco insomma, all’apparenza; un passatempo che se alla fine avrà
lasciato il segno, inducendo a rifermentare dubbi sospesi o a porsi nuove domande,
avrà ancora una volta dimostrato come la cultura sia soprattutto una somma forma
di divertimento.
Gianluigi Secco
Aprile 2005
59
PERCHÉ QUESTO LIBRO
perché c’è del vero
perché si può
perché si spera
perché si canta
perché fare all’amore è bello
divertente
sospende le preoccupazioni
libera dallo stress
riappacifica i giocatori
induce benessere
è perfino salutare
lascia scorrere felicemente il tempo
come riconosciuto dall’antico detto
lengua in boca,
tete in man
l o∫el in figa…
e le ore se destriga! *
poi
più avanti
si muore
Difficilmente il titolo di questo libro avrà tratto in dubbio i lettori adulti, forse
nemmeno i giovani che, quanto a informazioni sul tema, oggi sono un tantino
più smaliziati. Cinema, televisione, Internet hanno reso esplicite e visibili cose
fino a pochi anni or sono riservate all’immaginazione personale suggestionata,
per i più, dal sentito dire o dalla lettura di rari libri sottratti alla vendetta
dell’indice. Il tema sessuale nei suoi infiniti aspetti resta, come giusto e come
sempre, al centro della comune attenzione, oggi perché se ne parla troppo, un
tempo perché non se ne poteva fare parola; oggi perché sembra esagerato, ieri
perché era per i più costretto o proibito, oggi, soprattutto, perché è fuoco ed
emblema di una rivoluzione comportamentale, almeno in occidente, che vede il
recupero del ruolo personale della donna su quello sessuale che per secoli è stato
l’appiglio per una sua riduzione al margine dello spazio vitale della collettività.
Capire perché ciò sia successo potrebbe aiutare a rendere più stabile e armonico
questo nuovo sistema che mira al possibile riequilibrio di tali ‘poteri’. Non sarà
tuttavia facile annullare le millenarie esperienze di ciascuno dei protagonisti
individuati come sesso ‘forte’ o ‘debole’ giacché tali qualificativi paiono appioppati
per puro interesse di parte, ispirati ai concetti riassumibili negli slogans ‘prima il
potere e dopo il piacere’ ovvero ‘prima il sociale e poi il personale’. Questa logica1
appare talmente radicata da farmi dubitare su un facile raggiungimento di vera
‘parità’ tra i sessi! Ma andiamo con calma e ragioniamo sul potere e sulle motivazioni
dei suoi sostenitori e gestori, ovvero impositori dell’ordine sociale e sessuale.
Bartholomaeus Spranger (1546-1611), La donna e il filosofo (l’amante di Aristotile)
* Il detto riportato a pagina 61 (perché questo libro)’ è in Carone, 197.
1
Giocando con inclinazione matematica sulle espressioni appena accennate, se ne potrebbe dedurre che il
peso del potere sociale domina di gran lunga quello del piacere personale ovvero che il potere sta al sociale
come il piacere al personale.
63
SESSO E FILOSOFIE
tempo, preti, cul e siori
i fa tut quel che i vol lori
Più o meno tutte le religioni, con la promessa rassicuratrice di un aldilà eterno e
felice per i propri ‘fedeli’, si sono in realtà anche e molto preoccupate di gestire,
organizzare e ordinare le relazioni civili e le attività quotidiane dei propri adepti.
Quasi tutti i ‘comandamenti’, i ‘precetti’ e via dicendo, sono di fatto pratiche
indicazioni comportamentali successivamente assunte dai poteri civili nati nei
medesimi ambiti religiosi per una necessità di rappresentare e tutelare in modo più
o meno sovrapponibile o alternativo altri bisogni ed ambizioni della medesima
comunità. Così a seconda della religione imperante e del rapporto di forza tra i due
‘poteri’, la sessualità è stato vissuta diversamente dai loro ‘oggetti’. Se nel mondo
orientale essa è stata considerata spesso mezzo di elevazione del fedele verso il suo
compimento esistenziale1, in quello occidentale ha assunto una valenza negativa e
di contrapposizione allo sviluppo della spiritualità ritenuta, in ogni tempo, valore
necessario per aspirare alla ‘salvezza’ dell’anima. Ormai da millenni queste due
filosofie si dividono il mondo degli umani condizionandoli nei comportamenti
personali e di relazione. In comune, tuttavia, quasi tutte le Religioni sembrano aver
avuto un’altra caratteristica, ossia la visione subalterna del ruolo della donna rispetto
a quello maschile. Le motivazioni di questa visione vengono da molto lontano e
sembrano primariamente legate alla sua fragilità nelle fasi di fecondità, di maternità
e a tutti i condizionamenti conseguenti nonché alla gestione della medesima fertilità
ovvero della capacità di procreare in modo funzionale alla società di appartenenza a
seconda questa fosse stata nomade (legata alla pastorizia transumante) o stanziale
(legata all’agricoltura). Così, mentre le donne delle aree in cui vigevano Taoismo
(Cina) o Tantrismo (India) pur succubi dei maschi, quando ammesse2 avevano
almeno la consolazione di una reciproca partecipazione al ‘mistero’ sessuale (il
cui esito positivo avviene col compimento della mutua soddisfazione), quelle
occidentali, coinvolte dall’Ebraismo o dai suoi sviluppi come il Cristianesimo e
l’Islamismo3, sono diventate protagoniste per eccellenza della rinuncia forzata
alla propria scelta (cardine del piacere e non solo a livello sessuale) relegate in un
ruolo di sottomissione talmente praticato da diventare tradizionale e da essere
visto dal maschio come perfettamente naturale, ovvero ispirato da copione
divino.
1
Cfr. R. Tannahil, Storia dei costumi sessuali: l’uomo, la donna, l’evoluzione della società di fronte al sesso,
1985, 151, «Il sesso era parte integrante dell’esistenza e, nelle sue forme più compiute, costituiva un
contributo allo sviluppo dello spirito»
2
Si intende quando socialmente riconosciute pronte alla funzione.
3
Nemmeno nel mondo islamico, la donna recita un ruolo di subalternità reale molto diverso, tanto in terra
quanto poi nell’immaginato ‘paradiso’ dove diventa ambito premio per i buoni maschi fedeli.
64
Una donna affidata al maschio, da tutelare e
proteggere fin che si vuole ma di fatto oggetto, sta
quindi al centro di un universo sessuale gestito,
nell’aldilà, da entità (Dio o dei) di mentalità
prettamente maschile anche nei casi di loro
rappresentazione al femminile4 (dee), rispecchiando,
nel mondo ultraterreno, lo stesso comportamento
degli umani credenti5. Al di là di definire Dio e il
sesso di Dio, per la qual cosa non ci sentiamo
assolutamente preparati, resta evidente come, in
generale, la filosofia religiosa abbia condizionato e, in
tal senso, limitato, lo sviluppo sociale e culturale
dell’umanità circa la comprensione e l’espressione
Vergogna onesta, xilografia seicentesca
della sessualità personale e di rapporto tra i sessi.
Per non porre in dubbio la ‘verità’ tradizionale dei concetti religiosi, l’evoluzione
delle regole attribuite alla divina volontà, passa per un percorso lentissimo, pilotato
dal Potere delle Chiese in modo da alterare minimamente l’ordine preesistente.
Tanto più la società civile si evolve oggi rapidamente adottando nuove regole (in
seguito alle nuove scoperte scientifiche, alle nuove tecnologie ecc.), tanto più si
evidenzia lo strappo (se non la frattura) con alcuni dei principi religiosi correnti ove,
per i più, essi appaiano anacronistici o inadeguati. L’accettazione di una evoluzione
della ‘morale’ è tuttavia molto faticosa, per il peso tradizionale della sua radice.
RC
No ghe n é pì religion, dice qualche persona anziana ormai incapace di cogliere le
opportunità dei tempi; la maggior parte invece intuisce e gode di potersi
permettere pensieri più ampi e dubbi anche pubblicamente confrontabili in
compagnia, e ciò senza alcuna intenzione di vilipendere.
Certamente l’influsso della morale cristiana sul rapporto tra i sessi è stato
pesante giacché, nella elaborazione dei suoi maggiori teologi, l’innalzamento
dello spirito ha sempre viaggiato in direzione opposta al compimento della
naturale sessualità. In questo modo di vedere, i ‘piaceri della carne’ (in tutti i
sensi) non solo deprimono lo spirito, ma lo danneggiano, lo portano alla rovina,
alla perdizione definitiva, ossia lontano da Dio e dalla felicità eterna! Visto che
comunque bisogna dare continuità alla specie, lo si faccia, ma solo allo scopo di
figliare; si veda il piacere come effetto marginale, quasi fosse un difetto casuale.
4
Anche nei miti cosmogonici (La Grande Madre, la Madre Terra ecc.), che prevedono logicamente
generatrici al femminile – cui peraltro è riconosciuto uno straordinario rispetto – il discorso si ripete: si
tratta, in fondo, di entità venerabili ma talmente distanti da dover ricorrere, per interagire col piano umano,
a figli (dei o similari) che ne organizzano e gestiscono il potere secondo una logica ‘maschilista’.
5
Sul tema si incentrano i due basilari modi di pensare: Dio ha fatto l’uomo a sua immagine o somiglianza o
è l’uomo che pensa Dio a sua immagine e somiglianza?
65
Si scriva allora sulla camiciona da notte:
non lo fo per piacer mio ma per dar dei
figli a Dio (ma per far piacere a Dio). La
cosa, che oggi pare perlomeno bizzarra,
era praticata fino ai tempi di mia nonna
che conosceva benissimo la regola e
che, parlando a sua volta di madri o
coetanee, affermava che molte di esse
evitavano di lavarsi le parti intime, non
a caso spesso denominate le mi∫erie o le
vergogne, per non avere contatto con
La xilografia che si riferisce alla specifica novella è tratta dalla
edizione veneziana del Decamerone del 1492
pertinenze dirette del demonio, o che
(Biblioteca Nazionale, Firenze)
andavano a confessarsi dopo averlo
fatto. Sicuramente non conoscevano la novella del Boccaccio che già sorrideva di
ciò ai suoi tempi facendo proporre dal fraticello Rustico alla giovane Alibech
una particolare via di redenzione, che consisteva nel mortificare il suo diavolo
ponendolo nel di lei inferno6 «… che quel servigio che più si poteva far grato a Dio
si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domineddio l’aveva dannato».
Dire che la maggior parte dell’umanità ‘credente’ ha subito in passato una
continua pressione psicologica tesa a dissuaderla dall’esercitare ‘naturalmente’
questo bisogno è oggi tollerato ma, per molti, ancora criticabile7. Semmai
l’ammissione di un maggior diritto alla propria privata libertà non appare
suggerita da una diversa presa di coscienza, quanto dalla sicurezza offerta da
pillola e preservativi nella scelta della procreazione, accessibili comunque a chi
può, conosce, e ritiene Dio più avanti dei suoi ‘pastori’ o non lo vede.
Il riconoscimento del ‘diritto’ ad una maggiore attenzione al piacere personale
coincide, guarda caso, col mutato interesse del moderno potere sociale basato
sull’evoluzione economica dei ceti medi e su un consumismo che è congegnale
alla sua opulenza. Di fatto la ‘libertà’ sessuale e comportamentale ‘privata’ non
è di certo una novità per le classi colte e agiate (ossia di potere) che in tal senso
sono sempre state molto tolleranti con se stesse (per non dire coscientemente
trasgressive) salvo a dimostrarsi vigili e rigide nell’evitare lo scandalo onde
mantenere integra la facciata delle regole imposte agli altri, al popolo dei
nullatenenti, poveri e ignoranti ma tutt’altro che stupidi e che coniarono il detto
tempo, preti, cul e siori i fa tut quel che i vol lori; il che risulta, e sarà sempre,
centrato!
6
Si veda la novella decima (Dioneo) della terza giornata del Decamerone di G. Boccaccio (Certaldo, FI, 1313-1375).
La repressione della sessualità attraverso la determinazione dei modi di esercitarla ha portato, nei diversi tempi,
ad accettare che gli ‘eretici’, considerati di estremo pericolo e danno sociale, fossero puniti, privati della libertà e
finanche della vita. Anche in questo stesso volume se ne riportano alcuni esempi ma, nonostante i fatti siano assai
chiari, il pentimento del loro avvallo nella società contemporanea, non sembra eclatante quando potrebbe o
dovrebbe .
7
66
TUTI SEMO MATI
tuti semo mati,
par quel bu∫o dove semo nati!
Questo proverbio nostrano va certamente considerato sentenza senza tempo e
luogo trovando corrispondenti in tutte le culture. Il fatto è che quello sessuale è
un istinto naturale; il desiderio reciproco ne è conseguente espressione avendo
come obiettivo la procreazione che perpetua la specie prevedendo, come
contemporaneo premio, un piacere fisiologico molto apprezzabile.
Specie quando represso, questo desiderio diventa esplosivo come ricorda il detto
cazzo digiun, mona imbriaga1CPS equivalente all’altro boréso fa matésoGBN.
Stando alla saggezza dei successivi detti, la soddisfazione che se ne trae pare
avere valenza assoluta e tale da oscurare altri valori di tipo intellettuale che in
realtà, comprende.
L alegria no xé completa
se no ghe n é la so doneta.GBN
L’allegria non può essere completa
se non si gode con la propria donna.
Tre robe fa l mondo bel:
carezar la pèl,
∫vodar la pèl,
impienir la pèl!
Tre cose fanno bello il mondo:
accarezzare la pelle,
vuotare la pelle,
riempire la pelle!
Al mondo l val
par quel poc che se para do…
e par quel poc che se para su!
Vale la pena di stare al mondo
per quel poco che si manda giù
e per quel poco che si spinge su!
È generalmente l’uomo a prendere l’iniziativa in questo campo non tanto per
vocazione particolare quanto per una consuetudine sociale diventata tradizione
e che è sempre servita ad affermare la sua presunta superiorità sulla donna. Per
sottolineare vieppiù il concetto egli non ha esitato a rasentare la blasfemia
chiamando come testimone quello stesso Dio che i preti, per parte loro, indicano
invece come severo censore dei ‘piaceri della carne’.
Dio castiga chi no ghe pia∫e la figa2, o l’equivalente Dio no perdona chi no ghe
pia∫e la mona, sono tra i detti più popolari in assoluto.
1
2
A Verona: mona imbriaga, cazzo sinzier (anche, casso CPS
sinzier, mona imbriaga)ABL.
«L omo che no gho pia∫e l vin e la figa, Dio lo castiga».
67
Nella tradizione popolare la rivendicazione femminile al piacere è comunque ben
presente e riconosciuta anche se, per lo più, in forma mascherata, come nella
filastrocca… al mondo l é gran bel: a tute le fémene ghe pia∫e… l vin bon; al vin bon
fat co l ùa bona, a tuti i omi ghe pia∫e… la mora, e negli indovinelli3 il cui doppio
senso garantisce la formale salvaguardia della presunta ingenuità.
Ed ecco che le to∫e lo vol, le maridade lo tol, le vedove lo menziona sol4 (o se lo sogna
sol). Il marito, è la risposta ufficiale al quesito, che si presta però a valorizzarne una
di più intima e godibile qualità.
La nostalgia della vedova trova infatti altri detti a suffragio, del tipo chi spo∫a na
vèdoa, g à da refarla del tempo persoCPS o quello, ancor più esplicito, che dice… no
bi∫ogna lasar libri in man a putei, s’ciopi in man a frati, e o∫ei in man a vedoveCPS,
che non credo necessitino di commento5.
Similmente, il desiderio della ragazza trova molteplici espressioni, specie nel canto
popolare a contrasto, attraverso dialoghi tra madre e figlia che sembrano seguire
copioni d’antica data, basti pensare a quello medievale di cui riportiamo la prima
quartina… Madre mia dammi marito / figlia mia dimmi il perché / che mi faccia
dolziemente / quel che fa mio padre a te6.
Nel noto filone del mama vendé (mamma vendete) o cara mama voi maridarme
(cara mamma voglio sposarmi), la giovane suggerisce alla madre di vendere
progressivamente i beni familiari per farsi la dota e potersi ‘consolare’.
001
CARA MAMA VOI MARIDARME7 - Serafina Correa, RS, Brasile, 1998
Cara mama ò di∫dot ani,
voi maridarme, volio un marì;
cara mama vendì la ciòca,
feme la dota, volio un marì.
Volio un marito che mi consola,
ogni parola un bacin d amor;
volio un marito che mi consola,
a leto sola non volio andar.
3
– Cara filia cosa ti manca,
sta alegra e canta, sta qua con mi. –
Cara mama, vu avì n bel dire,
podé dormire, sì conpagnà.
Cara mama vu avì l consorte,
fino a la morte sì conpagnà;
cara mama vu avì l consorte,
fino a la morte sì conpagnà.
Esistono beninteso anche espressioni più dirette come le villotte del tipo «Te recòrdetu ninine / quela sera sul
sofà / da l pia∫ér che te sentiva / te mancava fin el fià» (AGSB, Refrontolo 2002), esattamente corrispondente
alla friulana «Ti ricuàrdistu, ninine, / in che sere sul toblat? / Del gràn gust che tu sintivis / ti manchiave fin il
flat» (Corso, 231), dove si leggono le successive «Ti ricuàrdistu, ninine, / co tu èris tal cortil? / Tu poàs il cul in
tiere, / tu voltàs ji voi a l cil» (ti ricordi mia piccina, quando eri nel cortile / appoggiasti il sedere a terra e
voltasti gli occhi al cielo); e ancora «Ti ricuàrdistu, ninine, / quand ch o èrin sul fenil? / Sul plui bièl de
chialchiadine / Tu alzàs ji voi al cil» (Ostermann, Villotte friulane, Appendice, 40)
4
Anche «Le to∫e lo desidera, le maridàe lo prova, le védove lo ricorda»GBN e « Le maridade le sa cosa che l ∫é ma le
to∫e crede che l sia un ∫ogàtolo»APN.
5
La presunta smania sessuale della vedova emerge anche da tratti di villotte come quelle riportate, per l’Istria,
dall’Ive in Canti popolari in veglioto odierno, 1902, 126-127, 50: «Quando la vedovela piange sola / la piange l
morto e l vivo la consola; / Quando la vedovela piange forte / morto la piange e l vivo la conforte; / Quando la
vedovela piange masa / morto la piange e vivo la lo abraza».
68
In un altro canto della stessa fonte8, la novizia insiste di volere un uomo e si
lamenta col dire: tute le se marida, / sol mi qua a far saménsa, / ve digo co cosiensa,
/ un tanto per provar, ed incalza così la genitrice: démelo sordo, démelo muto /
démelo orbo, démelo sòto,/ démene uno, gavé pietà,/ òi mama démelo per carità.
La richiesta si fa ancor più esplicita nel canto rispondente all’altro filone (Figlia
ti voglio dar) in cui è la stessa madre che propone alla figlia diversi partiti tra i
quali la giovane, dopo molte considerazioni e rifiuti, sceglie, guarda caso, un
soggetto la cui abilità ben si adatta al doppio senso. L’esempio in calce prende
di mira la professione militare ma ve ne sono altri che insistono su differenti
mestieri9 cui si dedicherà un successivo e specifico capitolo.
004
FILIA TI VOLIO DAR10 - Serafina Correa, RS, Brasile
01
03
M: Filia ti volio dar
un giovane bersaliere.
F: Un giovane bersaliere,
mama mia no no!
Tuta la note
mi fa marciar di corsa:
un giovane bersaliere
mama mia no no!
M: Filia ti volio dar
un giovane trombetiere.
F: Un giovane trombetiere,
mama mia no no!
Tuta la note
mi fa sonar la tromba:
un giovane trombetiere,
mama mia no no.
3v
3v
02
04
M: Filia ti volio dar
un giovane d artilieria
F: Un giovane d artilieria,
mama mia no no!
Tuta la note
mi fa sparare il canone:
un giovane d artilieria,
mama mia no no.
M: Filia ti volio dar
un giovane cavaliere.
F: Un giovane cavaliere,
mama mia sì sì.
Tuta la note
mi fa montare a cavalo:
mi sto mestier lo fago,
mama mia sì sì.
6
Il canto fu pubblicato da Severino Ferrari nel primo volume della Biblioteca di letteratura popolare italiana
e verrà di seguito ripreso in questo stesso volume risultando tra i più antichi e interessanti.
7
Il brano a contrasto è cantato da Solange Soccol e Amelia Gheller, di Serafina Correa e fa parte del repertorio portato
dagli emigrati in Brasile a fine Ottocento (AGSB, CD BLM0001/02). Di fatto lo si trova ancora diffuso in tutta l’area
002 triveneta rappresentando una delle rare forme di villotta superstiti. Così nel Trevigiano * «Mare voi maridarme. /
Fiola no ghe n é dota. / Mare vendé la ciòca. / Fiola l é tropo poca. / Mare vendé i porzèi. / Fiola i é masa bei. / Mare
vendé la vaca. / Fiola l é masa grasa. / Mare vendé la càvara. / Fiola l é masa magra./ Mare vendé i caponi. / Fiola
i é masa boni. / Mare vendé me pare. / Fiola l é masa vecio. / Mare vendélo isteso. / Fiola l é bon par mi» (cfr. CDE
SRM 0072/01, cantano Le filandere di Arcade). Simile è la versione veronese di Antonietta del Piccolo Teatro di
003 Oppeano * (cfr. CDE SRM 0029/18); attinente è anche la versione friulana di Rigolato (cfr Arboit, 143, 468): «Done
mari, maridàimi. / Chiare fie nu ài cun chie. / Done mari, vendit pari. / Chiare fie al fas par mè».
005 8 Se à maridà Tere∫a, AGSB, CD BLM0001/18.
9
L’arrotino, perché bravo a guar o guzar (arrotare ma anche ‘copulare’); lo stagnino perché bravo a stropar
(tamponare), lo spazzacamino che va su e giù per il camino, e così via; si vedano i canti a fine volume.
10
Sole e Mèia, Serafina Correa, Rio Grande do Sul, Brasile. AGSB, CD BLM0001/06.
69
Il tema rimane centrale anche nei canti che hanno per protagoniste le donne
sposate, specie le mal maritate ovvero quelle sessualmente insoddisfatte da un
marito imposto e troppo vecchio11.
006
LA MIA FIGLIA À TOLTO UN VECETO12 - Visome, BL, 1978
008
MALEDETO CARNEVALE15 - Sao Marcos, RS, Brasile, 1998
01
04
01
06
La mia filia à tolto un veceto
per non avere n ora di ben;
tuta la note i se tontona:
una de bona no i se la dà.
Andando indietro, via per la strada
la si à incontrada co so marì.
El vechieto l alsa la spada:
Nineta cara vustu morì?
Maledeto carnevale
anca mi me g ò maridà;
ècolo qui, ècolo là,
anca mi me g ò maridá!
Quando l é stato a la matina
soto l leto lo g ò catà;
ècolo qui, ècolo là,
soto l leto lo g ò catà!
02
05
02
07
Su∫o su∫o spo∫ina mia cara,
fila n fu∫eto e po sarà dì.
La Nineta si alsa e si veste
e la va via dal so papà.
Prima de darmi co la tua spada
lasia che parla le mie ragion:
tuti i pesi che sono nel mare
no son mica d un sol pescator;
Me g ò maridà co n bruto vècio
co la barba fin a l pèto;
ècolo qui, ècolo là,
anca mi me gò maridá!
G ò metùo na stropa a l colo
e in co∫ina lo g ò mená;
ècolo qui, ècolo là,
el me vecio se g à indrisá!
03
06
03
08
Chi ∫é che bate par queste porte:
son vostra filia mal maridà.
Mi te l ò dita Nineta cara,
mi te l ò dita la ∫é co∫ì.
tuti li ucèli che vola par aria
no son mica di un sol caciator;
tute le done mal maritate
no son mica di un omo sol!
La prima sera che so ndata a leto
l ò trova tuto gelà;
ècolo qui, ècolo là,
l ò trova tuto gelà!
G ò ciamá me comaréta
e na supeta ghe ò fato far;
ècolo qui, ècolo là,
e na supeta ghe ò fato far!
04
09
Ghe g ò dà na peadina
e ∫o da l leto lo g ò butà;
ècolo qui, ècolo là,
e ∫o da l leto lo g ò butà!
Ghe ò fato fare na supéta
co l formaio e pan gratà;
ècolo qui, ècolo la,
co l formaio e pan gratà!
05
10
G ò tacá na candeleta
e tuta la note lo g ò cercà;
ècolo qui, ècolo là,
e tuta la note lo g ò cercà!
Co l à magná quela supéta
el me vecio se g à indrisá;
ècolo qui, ècolo la,
el me vecio se g à indrisá!
La lamentazione canora ha spesso un epilogo straordinario, con la parte finale
che sembra legittimare il tradimento, quasi che la delusione sessuale fosse
ritenuta popolarmente giustificante tale fatto e portasse a considerare normale
una relazione extra-coniugale con un più giovane amante13.
Lo rimarca anche l’altro canto che segue14
007
Della scarsa vitalità sessuale dell’anziano tratta pure il seguente brano in cui viene
evidenziato un mezzo afrodisiaco ancora in auge nella considerazione popolare: il
formaggio piccante, non a caso in Veneto detto pincion (da pinciar, copulare).
QUANDO L VÈCIO ANDAVA IN LETO - Serafina Correa, RS, Brasile, 2002
01
04
Quando l vècio andava in leto
ndava sempre indormensà.
La lo ciapa par na ganba,
la lo trà me∫o l solar.
02
05
E pitòst de tor un vècio,
na botilia de vin bon.
Daghe n boto a la campana
e che l vècio l é crepà.
03
06
La lo tira per na recia:
o vecion, voltéve in qua.
Se l é crepà, lasa che l sia,
che l mio ben no l é crepà!
11
Si noti come i matrimoni tra uomini relativamente anziani e ragazze non fossero infrequenti, specie in seconde
nozze. L’aspettativa dell’attempato che sposava una giovane era assai piacevole e l’unione, considerata tonificante
(chi non ricorda Salomone con le pulzelle che gli ‘scaldavano’ il sangue?). Il proverbio conferma sagacemente: «par
caval vecio, pasto fresco» (inf. Valmor Marasca, Garibaldi, RS, Brasile). Sull’altro versante, il pianto o i lamenti
della sposa sono al centro di numerosi canti: « E se la pianzi, / la g à ragion, / parché l ∫é vècio / no l ∫é più bon»
(cfr. R. Starec, Canzoniere triestino, 308, c. 312). Altrove: «Sia maledeti tuti i mii parenti / che i me vol dar un vecio
per marìo. / Ghe tasto in boca e no ghe trovo denti; / bi∫ogna che ghe fasa l pan bogìo», Bernoni, Canti, I, 12, 51.
70
12
Titolo conv. Mal maritata (Nigra 96). La lezione è cantata da Checa Manarin (Visome, BL, 1972,
AGSB0047). Versioni simili sono comuni; cfr. Posagnot, Canti del Grappa, 87-88 (a cura di G. Vardanega);
Mazzotti, 24 (Son maridada). Interessanti anche le varianti che ho riscontrato a Moldoi (BL) e in Istria (S.
009 Lorenzo di Umago 2005, Papà mio bel papà *, SRM0251/25), dove la sposina si lamenta con la zia che le ha
consigliato un matrimonio d’interesse: « O Jèja, mia cara Jèia, / sorela del mio popà, / mi ài fato spo∫ar quel
vechio, / che l dorme la note e l dì; / O figlia porta pasiensa, / che l vecio al morirà / e tu resterai padrona / di
010 tuta l eredità; / che ne facio di tanta roba, / di tanta eredità, / son giovane e son bela, / mi piace la libertà» *.
13
Questo modo d’intendere emerge nella maggior parte della letteratura d’ogni tempo ed è reso chiaramente nella
villotta friulana (cfr. Leicht, 68, 28, per Spilimbergo): «Mari mè, che ài ciolt an vecio / che a mi tocia stà di band;
/ no ài nisun che clami mari / si no fas un contraband» ( povera me che ho preso un vecchio / e mi tocca star da sola
/ Non ho nessuno che mi chiami mamma / se non faccio un ‘contrabbando’, ovvero se non col tradimento).
14
AGSB, CDE Soraimar, Vece canson, SRM0019/19. Canta il gruppo Amici della Cantoria.
15
AGSB, CDE Soraimar, Maledeto carnevale, SRM0007/01. Cantano le sorelle Bianchi di Sao Marcos, con
avi di origine vicentina. Il canto corrisponde, in gran parte all’analogo G ò spo∫à un vecion veciazo, segnalato
in Canti popolari trevigiani (Pagnin-Bellò, 163), in Posagnot, 132, c. 102, e Mazzotti, 25.
71
Le nozze tra protagonisti con notevole differenza di età, o con vedovi16, non erano
in genere ben viste tanto che, quando ciò accadeva, la comunità sottolineava il suo
formale dissenso attraverso il rito della batarèla17. Vecchiaia e fertilità (e fare
‘sesso’, di conseguenza) non viaggiano in armonia tanto che un proverbio,
utilizzato anche come parte di villotta, così rimarcava: pitòst che n vecio co la
barba gri∫a, l é mèio n giovanin sensa cami∫a
Proprio villotte e stornelli sono vettori ideali del messaggio satirico, specie
nell’Ottocento, come si può verificare in questi, raccolti dal Balladoro18.
Malandreta la cana dei vèci,
sensa pelo, l é tuta frugada,
a l inferno lasén che la vada,
altrimenti den fogo a l pajón19!
I proverbi danno spietata descrizione del decadimento
senile del maschio, pur iniziando la considerazione da
distante, quasi per scherzo, con frasi del tipo: co i cavei
trà a l bianchin, lasa le fémene e trate a l vin (quando
cominciano i capelli bianchi, lascia le donne e consolati
col vino) oppure dopo i quaranta, salva l sugo par la
piantaGBN (dopo i quaranta, risparmia la linfa per la
pianta). Poi gli ammonimenti diventano lapidari:
Se me marido che trova d un vècio (a)
la prima sera el buto ∫ó dal leto;
e ∫ó dal leto e ∫ó da la letiera
quel bruto vècio no ghe l voi na sera!
Poverinela mi, co∫ ónti fato (b)
ò tolto n vècio par na lira d oio:
la lira d oio m è durà un inverno,
quel bruto vecio el m è durà in eterno!
Vecchia malinconia, xilografia seicentesca CR
L amor del vècio sa da scaldaleto,(c)
quela del giovenin sa da limone;
l amor del vècio trarla in d un cantone
quela del giovenin, tenerla a prèso!
Il concetto è rimarcato nella strofa dell’altro canto noto col nome di ∫ela na cana,
dove il riferimento sessuale diventa specifico.
Il tema ricorre nei canti anche più recenti come quello riportato in sonoro qui a fianco. Il dialogo si svolge, in
questo caso direttamente tra il vecchio e la giovane maritanda: «Giulieta dal momento ch io t ò visto, di te io mi
son forte inamorato e se sarò da te contracambiato, vedrai che presto spo∫a ti farò. Ti prego di non farmi sospirar,
ma se tu mi vuoi bene, la man me la devi dar. Se mi amerai, tu lo vedrai, sarai felice tuta la vita: e mangiar bene
e tuta ben vestita e sai che io t amo con gioia infinita e se mi prendi te lo farò veder! - O che si risparmi l fiato o signor
Guido, tanto lo sai ch io un vechio non lo volio, benché tu mi regalàsi anca l portafolio, di un vechio acanto co∫a ce
ne fò; e specie insieme ci dovrò dormir e chi sa il fredo che mi farà patir: lo volio belino e giovanino; e che mi posa
011 di note abraciare e quando è fredo mi posa riscaldare...» ecc. *. cfr. Posagnot, 175, c. 139, Castelcucco (TV), 1982.
16
La concomitanza qualitativa di vedovo e vecchio è quasi scontata e queste circostanze coincidevano spesso col
potere, da cui l’altra villotta (Balladoro, II, 40, 40): «L amor del vedovèl l è n amor cruda / che l è come la paja
rebatuda / (in) la paja rebatuda no gh è grano / (in) l amor de l vedovel no gh è guadagno».
Il vedovo non era ben visto anche per altri motivi tra cui quello rimarcato da questa villotta (cfr. Leicht, 67,18,
per Spilimbergo): «se jò ves di maridami / vèdul no lu ciolares / a l à fat murì che l altra / e de mi fares istes»
(se mi dovessi maritare, non prenderei, no, un vedovo; ha fatto morire l’altra e così farebbe con me).
17
A tal proposito si sottolinea come l’usanza sia comune pur essendo nota con diversi nomi locali del tipo
bàter i bandoni (percuotere le latte), suonare i campanacci o bate i cuerci, bate i vès (battere i coperchi, i vasi);
il che si ripeteva alla sera della vigilia delle nozze sotto la casa della sposa e la sera delle nozze sotto la casa dello
sposo, in sostituzione delle rispettive tradizionali maitinade o serenate nuziali (dove presenti). I giovani
pretendevano, per terminare l’infernale concerto, un pagamento in denaro o in natura da parte dello sposo/a
anziani o vedovi, una mancia, quasi una tassa, un risarcimento che trova probabile motivazione nella presunta
debole o perduta capacità generativa della nuova coppia in relazione ai bisogni vitali e contingenti della
comunità (cfr. il mio volume Mata, 68-72).
72
012
H. Baldung Grien III, Coppia mal assortita, 1507
Tre co∫e che cala e che crese
co se deventa veci;
cala la vista e crese le ségie;
cala le forze e crese le vòge;
cala l o∫elo e crese l balón.CPS
Tre cose che calano e crescono
quando si diventa vecchi:
cala la vista e crescono le ciglia;
calano le forze e crescono le voglie;
cala l’uccello e viene l’ernia scrotale.
Co se deventa veci,
se perde i sentimenti;
se ∫longa i fornimenti,
se scurta l tiradór.20
L’uomo, da vecchio,
perde le virtù:
si affloscia lo scroto,
si accorcia il tiratore.
Co se xé vèci, parché l se drese,
ghe vol caldo, comodo, carese.21
Ai vecchi, perché si drizzi, occorrono
caldo, pazienza e carezze!
A i veci sol ghe resta
la lengua e le man.22
Ai vecchi rimangono buone
lingua e mani.
Non sono solo gli uomini anziani a concupire le giovanette ma, a detta dei canti,
anche qualche bruta vècia ambirebbe ad un corrispondente boccone.
18
A. Balladoro, Folklore Veronese, 1898, 33 (villotte a e b) e 34 (villotta c).
Cfr. Posagnot, 412. Ho trovato lo stesso brano nella zona serafinense del Rio Grande do Sul col seguente
013 testo: * «maledeta la cana de i veci / co chela zoca tuta pelada / a l inferno bi∫ogna che i vaga / a sonar canpane
a martèl. / El macaco ghe porta la nova / che tabaco no l ghe n trova / maledeti sti botegheri / de no aver gnanca
tabaco / questo sì che l é n gran fato / che me vien de bestemar», AGSB, BLM 0500.
20
AGSB, CD BLM0118, nozze a Morgano (TV), 1984. In Pasqualigo: «l omo co l é vecio el perde i sentimenti» ecc.
21
Anche «a i veci ghe vol tre c: comodo, caldo e carezze», dette anche le tre c del casso. Queste sentenze sono tratte
da una operetta di Cristoforo Pasqualigo intitolata Proverbi Troiani, raccolti e stampati ad uso esclusivo degli studiosi
della demopsicologia, edizione di 47 esemplari fuori commercio, posti in appendice alla terza edizione del volume
Raccolta di proverbi veneti, Treviso, Zoppelli, 1882 (d’ora in poi, indicato come Troiani). A Refrontolo (TV), nel
2002, ho raccolto anche la seguente variante «da i sesanta l casso crese sol co còmodo e carese». In Noliani, 47, anche
la canzonetta: «Co se ∫é veci / se perdi la virtù: / le gambe deventa fiape / le calze no sta su».
22
Per l’uso amoroso, ben s’intende.
19
73
Si tratta per lo più di donne vedove possidenti, dato che le giovani ricche erano
predestinate a matrimoni di comodo familiare secondo il dettame di proverbi del
tipo: chi che à l cul interà, se no l se spo∫a, el se spo∫erà; oppure, roba de dota la va che
la trota; e ancora, la roba marida la goba; in sunto, no ghe n é dota senza maridarse!
In quasi tutte le versioni trovate l’argomento con cui la vecchia alletta il suo pupillo
è la stalla ben fornita di vacche, che diventa spunto per il beffardo rifiuto.
014
LA BRUTA VECIA23 - Bento Gonçalves, RS, Brasile
01
01
C era una volta na bruta vecia ehi oh 2v
e ciùmpa la si voleva maridar,
la si voleva maridar.
Oi vati via oi bruta vecia ei oh
e ciùmpa e no inganà questo giovinet,
e no inganà questo giovinet.
02
07
La ndava via per na stradeta ei oh
e ciùmpa la s à incontrà co n giovinet,
la s à incontrà co n giovinet.
Io non son mica una bruta vecia ei oh
e ciùmpa io son bona da maridar,
e io son bona da maridar.
03
08
E la lo prende per la man sanca ei oh
e ciùmpa la se lo mena davanti al pret,
la se lo mena davanti al pret.
ò cento vache su la mia stala ei oh
e ciùmpa e altretante sul montagnón,
e altretante sul montagnón.
04
09
Ma el prete ghe varda in boca ei oh
e ciùmpa là l ghe trova solo tre dent,
e là l ghe trova solo tre dent.
Che ghe vegnese la rogna al prete ei oh,
e ciùmpa e altratanta al sagrestan,
e altratanta al sagrestan!
05
L aveva uno che se ∫gorlava ei oh
e ciùmpa e li altri due a ∫brindolón,
e li altri due a ∫brindolón.
23
AGSB, CDE Soraimar Cantar, SRM 0008/09, canta il gruppo Bairro Sao Paulo.
Molto simile risulta la lezione passatami da Luciano Zanonato del Canzoniere Vicentino e nota col titolo E
015 pasegiando per un boscheto, dove la proposta è chiara * «... sebén son vechia ma son signora: ò trenta vache nel
mio stalón» quanto la risposta «Se ài trenta vache nel tuo stalóne… e trentauna sarà con te».
016 Presente anche in Mazzotti, 26. Analoga anche la versione di Viarago (TN) passataci da Renato Morelli *.
La riprovazione della gioventù è racchiusa in questo sonetto ottocentesco assai di moda ai suoi tempi:
«Me vògio maridar co quatro vece, / e tute quatro le voi contentare; / E co la prima vògio far un pato: / dormir
con ela e mai no la tocare; /De la seconda voi far un barato, / far tanta carne per sto carnovale; / e de la
terza vògio far un zogo, / métarla s un baril e darghe fogo; / E de la quarta tante bastonae! / Coparle tute
ste vece rapae. / Dopo che avé copà tute ste vece, / ma cosa voléu far de tanta pèle? / Faremo de le corde de
violin, /per darghe spaso a ste ragaze bele»: cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, X, 14, 78.
Il concetto si perpetua nel ritornello usato in diversi canti come intermezzo: «oi sì sì, oi no no, copa (bru∫a) le
vèce, le dóvane no!». Più anticamente: «A le giovane i bon bocón, a le vechie i strangolón» (XTV, 19, A V, 44).
Quasi esilerante questa villotta raccolta a Polcenigo da N. Stefanutti: «No vói capel a pene, nemeno pan e vino,
mi vói quel bel bambino, a far l amor con me. / Cosa (mi) che pagaria, che me morós pasase, che l lovo lo magnase,
che l fese un bon bocón. / El mio morós l é scarto, a me∫ura no l ghe riva, l à la ganba che ghe intriga, no l vól più
caminar. / Se no l é lù l é n antro, se nò l é n antro ancora, voi maledir quel ora, son vecia a far l amor. / Sebén
che son vecioto, che g ò la barba gri∫a, mi soto la cami∫a, g ò l barba Nicolò. / Sebén che son vecioto, che g ò sesanta
017 ani, se me cate su i afani, mi vòlio maritar» *.
74
VITALITÀ E FERTILITÀ
ogni roba
à la so stajon
Come si vede la potenza virile viene generalmente identificata nella capacità
funzionale del membro de tirar o dresar, cioè di straripare di energia, di tendersi
e rimanere ben ritto1. Molte sono le sentenze che enumerano le caratteristiche di
questa fase di massime virtù, che sono così puntualizzate: longo, che l dónde;
groso, che l ∫larghe; forte, che l pénde; duro, che l dure (lungo che arrivi al fondo,
grosso che allarghi; robusto, che spinga; duro e che tale rimanga a lungo).
Cristoforo Pasqualigo riporta, nei suoi studi ottocenteschi, i medesimi proverbi
che tuttora vivono e sono di analoga specie: duro che l dura, gròso che l stropa,
lungo che l toca, equivalente a duro che dura, gròso che ∫larga, longo che l riva2 o
a duro che l dura, gròso che l otùra, longo che l solaza e ∫boradór che l ∫guaza3!
La difficoltà di pervenire alla forma auspicata, quando ogni tentativo abilitativo
sia vano, determina l’accettazione della nuova condizione generazionale di
‘vecchio’, anche da parte del soggetto in gioco; la qual cosa tutti si augurano
capiti per sè il più tardi possibile, auspicando di avere l’aiuto sollecitatore di una
buona e abile compagna, tipo quella sottintesa dal Ruzante ne I Prologhi inediti
de La Moscheta4:
I provierbii non fala mè.
‘Bià quela ca
che à bona fémena,
perché l è quela che ten
drezò l omo in massaria’.
E bià uno che n abia
una de le fémene
che sìpia streta de natura,
perché la tegna el so a man.
E com se n à una de queste,
el se vorae darghe tuto in le man
e lagarla fare a ela,
e masarizare a comuò la vuole ela.
I proverbi non sbagliano mai:
‘Beata quella casa
che ha una buona femmina,
perché è quella che tiene
raddrizzato l’uomo in masseria’.
E beato uno che abbia
una delle femmine
che sia stretta di natura,
perché tenga il suo in mano.
E quando se ne ha una di queste,
si vorrebbe darle tutto nelle mani
e lasciar fare a lei,
e maneggiare al modo che vuole lei.
1
Nell’Egloga de Ruzante nominata ‘La Moscheta’, Prologo, 10, l’Autore usa una chiarissima metafora per
rimarcare il concetto: «Perché, a ve dirè, sto mondo sì è com è una vì, e l naturale sì è el palo: fin che l palo sta
derto, la vì fa furto, co l palo ghe à molà, la vì dà del culo in tera» (Perché, vi dirò, questo mondo è come una
vite, e il naturale è il palo: fin che il palo sta diritto la vite fa frutto, quando il palo ha smesso di star dritto,
la vite va col culo per terra).
2
Duro che dura, gròso che ∫larga, longo che ariva e cataro∫o che spùaCPS.
3
Attribuito al veronese Balladoro dal Corso.
4
I Prologhi inediti de La Moscheta, Comenza l’Ato primo, 1.
75
Amanti, xilografia cinquecentesca
In gioventù infatti il problema non si
pone dato che la natura stessa provvede
ad esaltare gli stimoli col solo pensiero.
I doven i à la spiza (prurito), i à la ∫ganga
(smania), i à la carne che frìde (frigge),
che boje (bolle), che no se cén (che non si
può trattenere); i à le scaldanèle (le vampe
di calore), la bampa (la fiamma) el bru∫or
(il bruciore), i va in frégola (sfrigolano, nel
medesimo senso del già visto friggere) e
ciò si dice riferendosi genericamente ad
entrambi i sessi.
Per i maschi vi è poi, specifico, el mal de l
caorét5 ma, soprattutto, el mal de l tir (la
malattia del tiraggio), come da sempre
accade e perfettamente testimonia questo
brano quattrocentesco, di buona fattura
poetica, tratto dai Sonetti pavani del
Codice Ottelio6
Lasa pur, frelo, lasa andar che vaga,
che stago ben sì songie inamorò.
Frel, quela puta m à sì apimentò
che non so là o me sia né là o (me) staga.
E crezo ben che anca ela se n daga,
perché e la guardo e la me cegna po,
e sì me ∫gregna, e mi vegno avitò
e fame tuta imbo∫emar la braga.
El me ven grando, frelo, a mo un pilón,
e l me sta te∫o e no l poso alogare,
el me zonze de chì fin a l galón.
Oh, se ghe la poésse mesiare,
e (ghe) la farà parer de sti molón7
che à le fete averte rosezare.
Lascia pure, fratello, lascia che vada,
che sto bene, tanto sono innamorato.
Fratello, quella ragazza mi ha così acceso
che non so dove mi sia né dove mi trovi.
E credo che anche lei se ne sia accorta,
perché quando la guardo, mi fa cenno,
e mi sorride, ed io mi eccito
tanto che mi fa sporcare tutta la braca.
Mi vien grande, fratello, come un pilone,
e mi sta teso che non lo posso riporre,
mi va da qui fino al fianco.
Oh, se gliela potessi rimestare,
gliela farei parere come questi cocomeri,
che hanno le fette aperte tutte rosse.
5
Non è certo che il detto che fa rima con… sempre su dret (sempre diritto) non si richiami alla nota potenza
del becco; di certo fa coppia con l’altro, opposto, che riguarda gli obesi o i vecchi cui viene scherzosamente
imputato… de aver al mal de l agnèl, per cui, crese la panza e cala l o∫èl!
6
Marisa Milani, Antiche rime venete, 1997, 39, Sonetti pavani del codice Ottelio, Villanesco (c. 174rv)
anteriori alla metà del Quattrocento.
7
Il rosso del cocomero squarciato è un sinonimo abbastanza usato della nostra Lei. Si veda ad esempio, più
avanti, la villotta a pagina 207.
8
Espedita Grandesso, Prima de parlar ta∫i, 135.
76
I detti non sono comunque teneri neppure con la donna, anzi, a scorrere i
proverbi che pongono in relazione età e fecondità, tra i due sessi il dubbio su chi
ne esce peggio è legittimo. Si osservi quindi la sequela delle sentenze partendo
da… chi la g à d oro, chi d arzento, chi sol par farghe quel servisio drento8
DONNA
Da sinqu ani, banbina;GBN
da die∫e, fantolina;
da quiende∫e, putèla;
da vinti, regasa bèla;
de trenta, dona fata;
de quaranta, vècia mata;
de sinquanta, fusto duro;
de sesanta, la và tòrsela in culo!
A cinque anni, bambina;
a dieci, ragazzina;
a quindici, giovincella;
a venti, ragazza bella;
a trent’anni, donna fatta;
a quaranta, vecchia matta;
a cinquanta, busto duro;
a sessanta, non se ne fa più nulla!
De venti la xé d oro,CPS
de trenta la xé d arzento
de quaranta se ghe la fa drento.
A vent’anni, la nostra vale l’oro;
a trenta è preziosa come l’argento;
a quaranta ci pisci dentro.
La dona:
de quinde∫e ani, la desidera;
de vinti, la ama;
de trenta, la vol;
de quaranta, la prega;
de sinquanta, la pagaCPS
La donna:
a quindici anni, desidera;
a venti, ama;
a trenta, può pretendere;
a quaranta, prega per avere attenzione;
a cinquanta, paga per ottenere!
A quaranta ani
i òmeni fa panza
e le done,
fa stòmego CPS
A quarant’anni
gli uomini ingrassano (fanno pancia)
e le donne, appassiscono
fanno ‘stomaco’. (danno il voltastomaco)
I quatro novisimi de le done:
oci che làgrima,
tete che ∫bàmbola,
panza rapà
e la siora zia
col fra-balà9.CPS
I quattro nuovissimi delle donne:
occhi che lacrimano,
seni che ballonzolano,
ventre spellacchiato
e la Lei
sbrindellata.
Par le fémene:
ventinove e un… sesanta10!
Per le donne:
ventinove e uno… sessanta!
9
A Verona, ove delle mammelle flosce si dice: Le neóde (le nipoti) va a trovar la zia (la nostra Lei).
018 Vi è pure l’altra canzoncina (AGSB, CD BLM0118, nozze a Morgano, TV, 1984, raccolta E. Bellò) *:
«La dona quando è vecia la perde la vertù: la pansa se ritira (anche la ghe casca) e la chitara no suona più». La variante
in Noliani,47, è: «La baba co la ∫é vecia / la perdi le sue virtù: / la panza ghe se ritira / e l armonica no sona più».
77
La fin de le fémene:
oci che làgrema,
tete che bàgola,
culo che petiza,
mona che lampiza.CPS
La fine delle donne:
occhi che lacrimano,
seni che ballonzolano,
culo che scoreggia,
e la Lei che lampeggia.
Vecia sensa dént,
piena de ∫bàu∫e e bona da gnent!
Vecchia senza denti,
piena di bave e buona da niente!
UOMO
Da die∫ ani co∫a ∫élo? GBN
a vint ani, l é putèlo;
a trent ani, doparelo;
a quaranta, no gh é mal;
de cinquanta l é de azal;
de sesanta, quel che l pol;
de setanta, scrivéghe su l patelón:
per la morte del Parón!
A dieci anni, che cos’è?
A vent’anni, è un giovanetto;
a trent’anni, sfruttatelo;
a quaranta, non c’è male;
a cinquanta, è di acciaio;
dai sessanta, fa meglio che può;
dai settanta, scrivetegli sulla patta:
per la morte del Padrone!
Dai vinti ai trenta: forza che l spaventa10;
dai trenta ai quaranta: forza che l incanta;
dai quaranta ai sesanta: forza che zà manca;
dai sesanta in poi ogni festa…
una pala de tera su la testa!
Dai venti ai trenta, spaventa;
dai trenta ai quaranta, incanta;
dai quaranta ai sessanta, già meno;
dai sessanta in poi, ogni festa equivale
ad avvicinarsi alla fine.
Cinquanta, sesanta…
na bota e po l s incanta!11
Cinquanta, sessant’anni…
un colpo e poi s’inceppa!
Fin ai quaranta l é o∫èlo,
e po l deventa buèlo.CPS
Fino a quarant’anni, è uccello
e poi diventa… budello (incapace).
Dai venti ai trenta, el va che l spaventa;
dai trenta ai quaranta, el va, ma l s incanta;
dai quaranta in su, el va se l vol lu12.
Da venti a trenta, va che spaventa;
dai trenta ai quaranta, va ma s’incanta;
dai quaranta in su, va solo se vuole.
Co xé roto l mànego,
gnanca la manèra no serve CPS.
Quando è rotto il manico, (Lui)
neanche il ferro d’accetta serve. (Lei)
10
L. Marson, Proverbi di Vittorio e in uso a Vittorio, 1980.
In Babudri, 46, 219, per i detti istriani. A proposito della ‘crisi dei sessant’anni’ ecco il testo di un brano trentino
del Primierotto (Arc. Manuela Corona): «Me pare e me mare sentadi su l larin / i vol che me marida co l vecio
sesantin, (3v) oilalà. - La prima note a leto lo trovo dormenzà, / lo tiro par la barba: oi vècio monta qua (3v), oilalà.
019 - Ma co∫a vuoi che monti, son vecio sesantin (anche ormai scasà) / e ò le bale seche e l nervo ritirà (3v), oilalà» *.
12
Cfr. Pasqualigo, Proverbi troiani: «Dai quaranta in su, el va co l vol lu». Il proverbio vale ancora oggi anche se
l’età critica sembra essersi spostata in avanti di 10-20 anni, ovvero i fatidici Sessanta come sottolineato in altri canti.
11
78
La sensazione a fine sequela è che, al di là di un
epidermico disprezzo di stampo maschilista nei
confronti della donna, sia l’uomo ad avere la sensazione di maggior perdita: Se frua prima el scòvolo
che la scafaCPS (si esaurisce prima lo scopino della
base, ovvero il sesso maschile che il femminile); se l
casso no tira no l val mèda lira (se non tira non vale
nulla); casso fiapo, casso straco (se è fiacco è stanco);
∫é più facile tegner verta la boca che alto l braso (è più
facile tenere aperta la bocca che alto il braccio).
Il dubbio è cancellato dall’altro motto: la figa l é bona
fin tanto che la pisa13; l o∫elo l é bon fin tanto che l se
Pericolo, xilografia seicentesca
endrisaRC, di cui non si ritiene necessario fare la
traduzione, ma che rende perfettamente la situazione d’inquietudine che il maschio
sopporta nei confronti della donna di cui non riesce a percepire il grado di
partecipazione o soddisfazione durante il rapporto. In questo sta il senso della frase
casso sinzier e mona bu∫iera, che sottolinea la perenne posizione critica del maschio la
cui prontezza all’amore risulta sempre immediatamente e visivamente verificabile.
Quando arriva la decadenza non resta perciò che prenderne atto magari nel modo
più autoironico possibile e, perché no, cantandoci sopra la stranota canzonetta
istriana14: guarda Nina che l albero pende, /e le fòlie cadono giù / e per contentar ste
done / e ci vuole la gioventù *.
La fama del nostro creapopoli non sembra assoluta neppure nei suoi momenti di
fulgore, subito ridimensionata dalla considerazione: longo che l ∫lunga, gròso che
CPS
∫larga e duro che l dura, a le done no l ghe fa paura . Ecco dunque il verdetto: per
quanto lungo e gròso che l sia, sempre le done lo sconde viaCPS. Qui si apre il delicato
punto sulla manifestazione del piacere, non tanto nella valutazione personale
quanto nella capacità di procurarlo al partner o di poterlo manifestare. La fragilità
del maschio comincia a evidenziarsi in quanto la sua impotenza, equivalente alla
incapacità del proprio e dell’altrui piacere, è palese mentre a ciò non è soggetta la
donna poiché… gusto de fémena, no se sa mai. Si può, come dice il proverbio,
affermare che… altro xé ragionar a o∫elo molo, e altro a o∫elo tiràCPS.
In un rapporto condiviso appare chiaro come la discriminazione sia forzata e poco
valga riconoscere che l omo comanda de giorno, la dona de note.
CR
020
13
La frase ha una duplice interpretazione. La prima, così intesa anche in Corso quando presa a se stante, fa
coincidere il periodo felice della vita sessuale con quello della fecondità. La seconda, quando abbinata, come
in questo caso, a considerazioni d’altro tipo, lascia intendere ‘per sempre’, ossia fino a che piscia.
14
Archivio GLS Belumat, BLM0013/20, cantato da un gruppo spontaneo di Sissano d’Istria, 1998. Il canto
è annoverato anche tra le bitinade rovignesi con l’altra strofa seguente: «Voglio andare su l alte montagne / a
021 sentire cantare li uccelli / canerini e poi fringuelli / d ogni sorta e di qualità» * (informazioni fornite da Vlado
Benussi). Il brano è citato anche in Bovo, 204, 209, in Starec, Canzoniere triestino, 136, c.105, e altri.
79
TIRA O RITIRA
gira o reòlta,
no l é pì
al formai de na volta
Giorgio Baffo, settecentesco poeta veneziano diventato famoso per i suoi versi
erotici1, centra il problema con la consueta schiettezza, proponendo una pari
opportunità tra i sessi al fine di scoprire finalmente il gioco della natura
femminile:
Se comandase mi asolutamente2
de sta fata una leze voria far,
che le done dovese governar,
e i òmeni no avése da far gnente;
Se avessi un potere assoluto
vorrei fare una legge di questo tipo,
che le donne avessero da comandare
e gli uomini non avessero da fare nulla;
che no i s avese a lambicar la mente,
ma le done gavese da studiar,
che le avese le dispute da far,
e le dovése giudicar la zente.
che non dovessero avere pensieri
ma che le donne potessero
dedicarsi allo studio, a far dispute
e a dar giudizio.
In soma mi vorave che le fàse
tuto quel che fa l omo, e voria ancora,
co se le ciava, le se sfadigàse;
Insomma vorrei facessero
tutto quanto ora fa l’uomo e che ancora,
faticassero quando con loro si fa all’amore;
la parte atrice, che le fasse alora,
e che se fuse certi le ∫borase,
perché no se sa mai quando le ∫bora.
e che anche allora, fossero le protagoniste
e noi si possa essere sicuri del loro piacere
perché non si sa mai quando godono.
Questa incertezza nello scambio sessuale ovvero del reciproco possesso psicofisico è di fatto un limite al concetto di possesso preteso per secoli dal maschio,
spesso imposto con una violenza in grado di garantire la sola appropriazione
‘fisica’ e per questo carente a livello di ritorno in stima e autostima.
Esempi di forme di pane popolari che si richiamano agli organi sessuali (ma ve ne sono molte altre)
1
Per questa produzione il Poeta fu marginalizzato da una critica incapace, fino a tempi recenti, di comprendere
il suo vero valore. La cosa accadde anche per altri Autori tra cui l’altro grande Veneziano del Cinquecento,
Maffio Venier.
2
G. Baffo, Poesie.
81
Streghe, xilografia cinquecentesca
Ex voto sulla gelosia, stampina seicentesca
3
Da questo malstare potrebbe derivare il
mito dell’aggressività femminile rappresentata dalle ammaliatrici, dalle mangiatrici di uomini, basti pensare a Circe;
donne che attraverso il sesso diventano in
grado di distruggere qualsiasi tipo d’uomo, anche il più probo, santo e giusto.
Il mito della Perchta o della Redò∫ega, per
scendere alle streghe, forse ha qualche
attinenza anche con questa atavica paura
del maschio3. Non a caso la fémena ghe la
fa parfin a l diàol.
Più popolarmente e semplicemente il
pericolo di Lei si canta in uno dei brani più
noti del repertorio militare e da osteria, per
l’appunto, l’Osteria o Stazion numero venti
dove, se la nostra avése i denti, questo sarebbe il probabile accadimento… quanti
ciòdi a l ospedale e quante rize in tribunale4.
Ai nostri giorni il timore pare addirittura
più diffuso tanto da aver generato, sul
nome di una nota casa giapponese di moto,
degli pseudonimi curiosi come la cavacasi
(Kavasaki), in altro modo detta, scasacasi,
evoluzione del più arcaico termine di
scasapipini.
Riprenderemo questo tema più avanti,
ritenendo che quanto detto ci abbia già
suggerito alcuni motivi che portano spesso il
maschio a tentare di esibire, in ogni modo e
per tutto l’arco della vita, la propria potenza
sessuale facendo coincidere personalità con
virilità . Per mantenere o incrementare questa
forza, se solo nel mito può vendere l’anima5,
egli ha cercato di utilizzare ogni altro possibile
mezzo ricorrendo a particolare alimentazione,
a medicine, a magia e persino alla stregoneria.
Cfr. Secco, MATA, 62-64.
Ciodi, chiodi sta per membri (anche cassi) e rize, ricciute, per ‘fiche’.
5
Si pensi, ad esempio al Faust.
4
82
MANGIARE È POTERE
pan e mona
e ànema consolada
La zuppetta con brodo, pane, uova e soprattutto formaggio era viatico a
supporto sessuale degli sposini come ricorda il poeta bellunese Giuseppe
Coraulo1, autore del settecentesco poemetto scritto in versi martelliani,
intitolato Le nozze de’ rustici bellunese, nel quale il cuoco Toni rassicura uno dei
fratelli dei novizi sulla qualità del prodotto che sta per portare agli sposi ancora
chiusi in camera dopo la prima notte di nozze:
TONI
Son qui con voi, padroni;
ecco la suppa, e appresso
l’ova, che mi ordinaste,
io qui le porto adesso,
per dare ai due novizzi,
e alle fatiche loro,
onde più forti restino,
porgere alcun ristoro.
Or via, non più s’indugi,
che questa appunto è l’ora,
che abbiamo da portare
la suppa, e l’ova ancora.
Cucina, xilografia seicentesca
NANE
Ma dimmi, caro Toni,
l’hai tu bene condita?
TONI
È fatta alla francese,
gustosa, e saporita.
Tutto l’impegno mio
per farla ho messo in opra,
col cascio buon di pecora,
e col butiro sopra;
e alquanti rossi d’ova,2
ora però protesto,
che non havran mangiato
miglior boccon di questo.
Cucina con frati, xilografia seicentesca
1
Il poeta (1733-1786) era meglio conosciuto con lo pseudonimo dialettale di Barba Sèp dal Piai (ovvero ‘zio
Giuseppe dai Piai’). Le nozze descritte si svolgono nella zona di campagna, un tempo periferia di Belluno, tra
Sargnano (casa della sposa, Pasquetta) e Cusighe (casa dello sposo, Battistone).
2
Altre notizie, con zuppe scherzose pur nel rispetto del senso, sono nel mio volume Noze nozete, 33. La base
ricostituente è sempre rappresentata dalle uova: da sorbire appena deposte, battendone i tuorli con lo zucchero
a fare el ∫batudin, che si poteva allungare col latte o con l’aggiunta di alcol, cuocendo a fare il famoso vov.
83
022
La zuppetta erotica è menzionata in molte storielle e canti interpretati sia da vecchi
impotenti3 che da religiosi furbacchioni cacciatori di spose in assenza del marito4.
Per questo la donna…la ghe prepara un buon brodeto, dentro n oveto e formaio gratà!
La ricetta ricostituente sembra abbastanza stabile: brodo di gallina, uova e
formaggio5, proprio come succede anche nella favoletta * intitolata i ovi de la Falù6
che vede come protagonisti il solito frate in una questua di carattere gastronomico
e amoroso riassunta nelle due filastrocche canticchiate dagli amanti:
FRATE:
Mi son frate, fratacion,
che me pia∫e dei boni bocon;
le la∫agne formajate
e le done maritate! Tra la la la la!
Io sono il frate fratacchione,
a cui piacciono i buoni bocconi:
le lasagne formaggiate
e le donne maritate!
DONNA:
Me marì l é ndà in montagna
cior i ovi de la Falù;
prego Dio che l lof lo magna
e che indrio no l torne più!
Mio marito è andato in montagna
a prender le uova della Falù;
prego Iddio che il lupo lo mangi
e che non torni più indietro!
Nella dieta energetica sono comunque previste le carni, specialmente il prosciutto,
anche se, di norma, l’elemento di maggior effetto rimane la giovinezza dell’amante7.
In omaggio al detto no ghe n é erba che varda in su che no l àbie la so vertù (non c’è
erba al mondo che manchi di un propria forza), la potenza sessuale è stata
perseguita normalmente attraverso l’uso alimentare di alcune erbe facenti parte
della comune dieta quotidiana. Sia l’esperienza popolare che quella colta portano
infatti alla medesima conclusione, ossia che la salute passa primariamente
attraverso il cibo e in particolar modo attraverso l’apporto vegetale. Per questo
medicina e botanica hanno viaggiato a braccetto per lungo tempo e tuttora si
sposano spesso8 nonostante chimica e biochimica abbiano preso piede.
L’intuizione di Ippocrate che affermava «è bene guidare i sani», si concretizzava
nell’affidare la salute alla dieta come cura preventiva in grado di equilibrare le
distonie corporee, ovvero le mancanze di equilibrio e di armonia nella propria
3
Lo si è visto in precedenza nel canto Maledetto carnevale in cui si evidenziano le strofe «ghe ò fato fare na
supéta / co l formaio e pan gratà. / Co l à magná quela supéta / el me vecio se gà indrisà!»
4
È il caso del canto noto come El convento de i fra o Co∫a farale tute ste dòne (vedere al capitolo Frati).
5
Base anche dei ‘passatelli’ (uova e formaggio grattugiato ‘passati’ in brodo) e della ‘ro∫ada’ o ‘ro∫umada’,
piatti pastorali per eccellenza (creme a base di uova e latte, magari cosparse di formaggio e burro).
6
Anche nel Veneto è ancor viva con nomi similari come la storia de Re∫aù, o de Re E∫aù. Ho registrato l’esempio
a Carlos Barbosa, nel Rio Grande do Sul, nel 1987, dalla voce di Bepi ‘Stagno’ Dal Cin (AGSB, BLM 0048).
7
Cfr. Starec, Canzoniere triestino, 267-68, c. 272, Ciribiribin, paghè na bira, che presenta la strofa: « Ciribiribin,
ghe vol parsuto, / ciribiribin, e mortadela, / ciribiribin, la mula (la ragazza) bela, / ciribiribin, per far l amor».
Formaggio pia∫entin, salame e prosciutto sono al centro anche di molti canti delle questue invernali dei coscritti.
8
Si pensi alla moda moderna delle cure omeopatiche.
84
complessione o struttura fisica9. I precetti
comportamentali dopo secoli di esperienza
trovarono descrizione nel Flos Medicinae
Salerni, comunemente noto come Regola
sanitaria salernitana10. Fino ad allora lo
studio della medicina viaggiava con la pratica
e l’arte sanitaria era pervenuta ai monaci che la
tramandavano oralmente.
Così, con l’avvento del monachesimo, la
raccolta delle erbe spontanee, la cura dell’orto
botanico, lo studio e la preparazione di decotti,
tisane, tinture diventarono occupazioni tipiche dei religiosi11 tesi alla salvaguardia
anche fisica e non solo spirituale del popolo
dei credenti.
La nascita delle università e della disciplina
medica trovò nell’orto dei semplici analogo
sviluppo. Nei numerosi ‘erbari’ dei secoli
successivi troviamo indicazioni di carattere
salutifero ma anche gastronomico e comportamentale con una particolare attenzione
al sostegno e mantenimento della virilità e
della fecondità.
Tacuinum Sanitatis (Parigi, c. 26)
Secondo Giovanni
ASPARAGO
Natura: moderatamente calda e umida in I grado.
Migliore: quello fresco e la cui punta
è volta verso terra.
Giovamento: influisce positivamente sul coito
e risolve le occlusioni.
Danno: ai villi dello stomaco.
Rimozione del danno: lessato e poi condito
con acqua salata.
9
I princìpi basilari sui quali per secoli si è basata l’arte medica sono stati quelli del mondo classico ispirati
dalla filosofia aristotelica (con esponenti importanti in Ippocrate e Galeno, Castor Durante, Pierandrea
Mattioli, Baldassarre Pisanelli). Punti di partenza, i quattro elementi naturali: il fuoco, la terra, l’acqua e
l’aria. Ad essi corrispondevano quattro elementi del corpo umano: bile gialla, bile nera, muco e sangue
(nonché i collegamenti con quattro organi «interni»: cuore, fegato, cervello e milza), e i quattro caratteri
essenziali degli individui: sanguigno, collerico, flemmatico e melanconico. In base agli orientamenti
fondamentali, si arrivò anche alla classificazione di cibi e bevande, suddivisi anch’essi in quattro classi
ovvero in caldo e freddo, secco e umido, a loro volta ripartite ognuna in quattro omonimi gradi, che
consentivano una classificazione incrociata maggiormente raffinata. Per favorire la salute degli umani, una
volta individuata la classe di appartenenza dell’individuo, si cercava perciò di alimentarlo con elementi in
grado di portarlo verso l’equilibrio. Ad un sanguigno (caldo e umido) si proponeva una dieta con cibi freddi
e secchi, e così via. Significativa è pure la ricorrenza del numero quattro, inteso come numero sacro (le
stagioni, gli evangelisti, i punti cardinali), in grado, come tale, di valorizzare i legami esoterici fra medicina
e magia.
10
Si tratta di un poemetto in versi leonini, datato intorno all’XI-XII secolo e contenente una sintesi delle
regole della famosa scuola dei monaci salernitani che risulta essere la più antica ed apprezzata istituzione
medievale medica dell’Occidente europeo; in essa confluirono tutte le grandi correnti del pensiero medico
antico e medievale. Le prime notizie storiche sulla Scuola risalgono al principio del IX secolo ma essa
raggiunse il suo massimo splendore nel secolo XII, dopo che Costantino l’Africano ebbe tradotto e diffuso,
nel massimo riserbo, le opere mediche arabe che contribuirono molto al suo progresso.
11
Specialmente di alcuni ordini dediti particolarmente alla meditazione.
85
Secondo la credenza giovavano al coito:
MELOGRANI DOLCI,
CRESCIONE (con cui ‘mesticare’ cioè equi-
librare, le insalate verdi ‘fredde’),
SEDANO (apio),
CIPOLLE (anche se ‘ventose’),
CASTAGNE.
Tacuinum Sanitatis, (Rouen, c. 31)
CASTAGNE:
Natura: calda in I grado e secca in II.
Migliori: i marroni della Brianza ben maturi.
Giovamento: influiscono sul coito e sono di m. nutrimento.
Danno: gonfiano e danno dolori di testa.
Rimozione del danno: cuocendole in acqua.
Tacuinum Sanitatis, (Parigi, c. 43) NAVONI
Natura: calda in II grado e umida in I.
Migliori: quelli lunghi e scuri.
Giovamento: aumentano lo sperma…
Danno: causano occlusioni nelle vene.
Rimozione danno: lessate due volte e mangiate con carni molto grasse.
86
Il tartufo, nella tradizione, è un buon
coadiuvante sessuale giacché avrebbe
la capacità di raccogliere in se tutti i
sapori. Per questo anche Michele Savonarola, medico padovano del Quattrocento, così conclude la sua descrizione «...e qui finalmente dico che è pasto
da vechi che hano bella moglie».
Tra i crostacei, sorreggono la virilità
gamberi e granchi.
Ancora ci soccorre il seicentesco
erbario rustico dello speziale-poeta
vicentino Gabriele Angelico ‘Tubiolo’,
intitolato L’Erbolato12.
Il poemetto comprende 112 stanze per
un totale di 1008 versi in rima dedicati
alla descrizione delle funzioni curative
e preventive di diverse piante comuni o
spontanee.
Molte attenzioni sono dedicate alla
soluzione di casi o problematiche
sessuali (di importanza cardinale se si
pensa che ne trattano più del 30% dei
brani). La descrizione dialettale è assai
ricca di metafore, doppi sensi e chiare
allusioni.
Riportiamo alcune tra le più significative
composizioni attinenti la preparazione di
stimolanti sessuali e ricostituenti.
12
L’Erbolato di Tubiolo, Bassano, 1994.
Imprimamen l ortiga,
ch è n erba chi n da i orbi cognosùa13,
la dérza a chi la vuogia xé cazùa
d impuolar tu∫i o to∫e:
la schiarise la o∫e
e fa tornar la mare
a ca soa senza l pare
e la g à na vertù, ch a sti viegion
la te ghe fa spuare i scarcagion.
Prima di tutto l’ortica,
che è un’erba nota perfino ai ciechi;
fa drizzare a chi è caduta la voglia
di concepire bambini o bambine.
Schiarisce la voce
e fa tornare la matrice al suo posto
senza bisogno del padre;
e ha una virtù,
che ai vecchi fa sputare il catarro.
I satirioni an igi,
i ∫balza fuora tuti a saltuzando
e le so gran virtù i ∫laìna cantando:
Nu semo i satirioni
che agiutemo i viegioni
que g à de bele spo∫e
a farghe quele co∫e
que ∫natura comanda,
perqué a ghe fen derzar speso la ghianda!
Anche i satirioni
saltano fuori tutti cantando
le loro grandi virtù:
Noi siamo i satirioni
che aiutiamo i vecchioni
che hanno delle belle spose
a far loro quelle cose
che la natura comanda,
perché gli drizziamo spesso la ghianda!
Particolarmente i porri sembrano godere
di grande considerazione:
I puorri po an igi
a i viegi i fa tirare
cotalmentre la vuogia d impuolare,
que, se speso i ne magna,
oh pota de na cagna,
a i vezì ditafato
se ghe derza el bigato…
I Porri poi, anch’essi,14
fanno talmente tirare ai vecchi
la voglia di generare che,
se ne mangiano spesso,
oh potta d’una cagna,
vedete che gli si rizza
subito l’affare.
Tacuinum Sanitatis (Vienna c. 25) - PORRI
Natura: calda in III grado e secca in II.
Migliori: quelli detti naptici,
cioè di montagna e di pungente odore.
Giovamento: provocano l’urina, influiscono sul coito.
Danno: danneggiano il cervello e i sensi.
Rimozione del danno: con olio di sesamo o di mandorle dolci
13
I ciechi la conoscono… dall’effetto urticante quando la urtano, non potendola vedere per scansarla. Tale
effetto era sfruttato anche per curare i dolori artritici.
14
Regimen Sanitatis seu Flos Medicinae Salerni, Milano, Stedar, 1958, Capo 74, Del porro: «Spesso il porro
in sen trasfonde / di fanciulla esche feconde, / come il succo ch’egli appresta / lo stillante sangue arresta».
87
La mordicante ruchetta sembra utile a rendere nuovamente piccante la vita familiare:
Vien qua anca ti rucheta
mostra la to vertù, che l é potente,
a quei vecioni che no pol far gnente;
che se i à bele spo∫e
sempre le sta susto∫e
par la malinconia
parché pur le vorìa
che i fese al so dovere
co l ∫gorlar, qualche volta, le letiere!
Vieni qua anche tu, ruchetta,
spiega la tua virtù, che è ben potente
per quei vecchi che non possono più far
niente, che, se hanno belle spose,
sempre sono tristi
dalla malinconia,
perché vorrebbero pure che i mariti
facessero il loro dovere
facendo scuotere qualche volta il letto!
I consigli poetici dell’Angelico Tubiolo continuano a sottolineare l’importanza della
soddisfazione sessuale in relazione alla marcata differenza di età degli sposi, il che ci
ricorda come un tempo fosse normale anche maritare ragazze, quasi bambine, con
persone mature (per scelte di interesse famigliare) il che portava poi a situazioni che
le vedevano, nel pieno della loro potenzialità ed esigenza, convivere con mariti
anziani, spesso inabili o inadeguati al rapporto fisico, come ricorda bene il proverbio:
l amor ∫é come la tartùfola: ai zoveni fa tirar l o∫elo, e ai veci fa tirar scorezeCPS.
Gh è po la Draguontea,
digo quela Mazore,
que a chi g à l a∫ma l è de gran valuore;
e se quarche viegieto
no ghe tira el peteto,
s el ne caza in t el vin
e béverne un tantin
sera e la maitina,
el caza po el cortelo in la guaìna.
Tacuinum Sanitatis (Parigi, c. 14)
PIGNE
Natura: calda in II grado, secca in I.
Migliori:…
Giovamento: stimola la vescica, i reni e la libidine.
Danno: nella loro corteccia nascono i vermi.
Rimozione del danno: se l’albero è spesso sfrondato.
88
C’e poi la Dragontea,
dico quella Maggiore,
molto efficace per chi ha l’asma;
e se qualche vecchierello
ha poco appetito,
se ne mette nel vino
a berne un po’
la sera e la mattina,
caccerà poi il coltello nella guaina.
SE TUTI I BECHI
chi no more in cuna
ghe ne prova qualcheduna
La conseguenza del mancato appagamento sessuale a livello psichico o fisico o
globale che sia, porta spesso alla ricerca di un amante diverso. Sembra che tale
causa abbia un notevole peso nel bilancio generale della scontentezza di rapporto,
almeno pari alla somma di tutte le altre che vanno dalla incompatibilità di carattere
ai generici maltrattamenti. Il tradimento risulta, tra i possibili dispiaceri di
qualsiasi rapporto relazionale, uno dei più amari e difficili da accettare poiché
evidenzia il fallimento della prospettiva iniziale. Ciò appare tanto più inconcepibile
se l’abbandonato si crede investito da un diritto inalienabile di proprietà esclusiva
sull’altro. Nessuno si augura perciò di dover verificare, specie in modo diretto, il
disprezzo del partner.
Tre co∫e che se serca
e che no se vorìa trovar:
calcagni ∫bregà,
el necesario sporcà,
e la mugèr che se fa ciavar.XTV, 149, 1773
Tre cose che si cercano
e non si vorrebbero mai trovare:
calcagni rotti,
cesso sporco
e moglie che si fa fottere.
Il dato di fatto, ovvero la frequenza del tradimento o la sua alta probabilità,
vengono sottolineati esemplarmente, dentro il repertorio del canto popolare1,
nella nota strofa… se tuti i béchi gavése n lanpion, o mama mia che iluminasion.
Per questo motivo il consiglio proverbiale è quello di non prendersela troppo a
male e disporsi alla possibilità in questo modo:
El marìo, che ghe despia∫e esser béco,
deve dir a l Signor:
fè che no lo sia,
fè che no lo sàpia,
fè che no me n abia a mal.CPS
Il marito che soffre ad essere becco
deve dire al Signore:
fate che non lo sia,
fate che non lo sappia,
fate che non me ne dispiaccia troppo.
Bisogna sottolineare come, fino ad epoca recente, la moglie fosse considerata dal
marito un bene di assoluta pertinenza e come il discredito di perderla fosse
legato più alla manifestata incapacità di tutelarla che ad altro.
Un vero uomo doveva infatti essere in grado di difendere i propri diritti, tra cui
questo e quello di sorveglianza sulle sorelle. La capacità di esercitare le
menzionate responsabilità lo rendevano onorabile e rispettabile.
1
Spassosa è, in proposito, la canzoncina rodigina cantata dalla moglie infedele come segnale di avvertimento
all’amante (botta e risposta): « L é stato l forte vento / che l à voltà la cana: / el bimbo fà la nana / e èl béco
l è a drumir - Ormai è inte∫o tuto / quelo che mi vuoi dire: / il béco làsialo dormire / domani tornerò!» (cfr.
Erminio Girardi, Stare al dìto, Minelliana Ed., Rovigo, 1994, 39.
89
Il becco, perdendo tali prerogative, veniva schernito, deriso2, ed era considerato
un imbelle qualora non avesso reagito ripristinando l’integrità del suo diritto3.
Ancor più disprezzato era colui che accettava il tradimento passivamente per
questioni di interesse.
La schiettezza popolare prevede, nel proprio linguaggio, diverse tipologie di
questi personaggi: «Quatro sorte de béchi se dà a sto mondo; cioè béco, rebéco,
papata∫i, gasparéto. Béco xé quelo che ghe xé, ma no sa, nè vol saver de èserghe;
rebéco, che ghe xé, ma che no ghe importa gnente, che el lasa andar tuto per le so
drete e l tira avanti; papata∫i, xé quelo che, pur che se magna, no i se scompone de
gnente; gasparéto, quelo che va tirar i amici per el brazzo, e ghe di∫e: andè là, che
mia muger ve aspeta»4.
La categoria del papa-ta∫i (mangia e taci) individua i mantenuti che
giustificavano la loro incuranza col dire mègio èser béchi e aver da becar che no
èser béchi e no aver da magnar, frase ancor oggi proverbiale quando si voglia
indicare la necessità di un patimento, lenito peraltro dall’altra considerazione…
i corni é come i denti: co i spunta i fa mal, e dopo i serve a magnar!5
Per una fascia cospicua di mariti, il timore dell’infedeltà muliebre ha portato allo
sviluppo, nel tempo, di ‘tecniche di prevenzione’ atte a rendere ardua la vita agli
amanti. In tal senso non c’è stato limite alla fantasia: si è andati dal normale
ricorso alla fattucchiera, alla imposizione di cosiddette cinture di castità di ogni
tipo e modello fino al controllo tramite informatori, oggi si direbbe di
investigatori privati. Si proponevano terapie preventive persino a livello medico.
Il nostro quattrocentesco padovano Michele Savonarola era certo, ad esempio,
che «Se un marito pone sopra la virga fiele di gallina, la mogliera non havrà a che
fare con altro homo».
Come dimostra il buon Boccaccio nelle sue straordinarie narrazioni, la fantasia
degli amanti nel trovare stratagemmi a proprio favore non aveva praticamente
limite (e ancora non ne trova). Anche secondo il canto popolare c’è davvero da
stare attenti ed occorre avere mille occhi e limitare la fiducia a chichessia per non
dover poi trarre la morale dalla storia del Pelegrin che vien da Roma.
2
Compatimento e derisione sono ancora in voga al giorno d’oggi. A Trieste, ad esempio, el brodo de béco è il
soprannome del brodo di dadi che la moglie preparerebbe in fretta (con un pre-confezionato) essendo poco
a casa per trovare il tempo di frequentare l’amante (informazione di Sergio Sergas).
Specie nel primo Novecento si sono moltiplicate le canzoncine satiriche sulla moglie ‘eccellente’ «che dà via
la roba per niente / tanto è vero che l altro ieri / l ò trovà a leto con sete pompieri» (cfr. Pagnin-Bellò, 206, ma
comune in moltri altri, tra cui la partigana, in questo stesso volume). L’allegato esempio sonoro, registrato
023 durante una festa di nozze a Morgano (TV), 1984 (Arc. E. Bellò), ne è altro chiaro esempio *.
3
Fino a che è valso questo concetto di ‘onore’ l’unica via per rientrare nella categoria dei ‘veri uomini’ consisteva
nel cancellare le cause del degrado, il che si otteneva con l’eliminazione fisica sia della moglie che dell’amante.
4
Nella Miscellanea di F. Zorzi-Muazzo. In realtà già presente nel Cinquecento: «Becco fa becco, arcibecco, gnàccara,
arcignàccara, papatas».XTV, 25, B IV,126
5
Citato anche dal Pasqualigo.
90
024
PELEGRIN CHE VIEN DA ROMA6 - Refrontolo,TV, 2002
01
07
Pelegrin che vien da Roma
Coro: va in biroc
co le scarpe rote a i pié
biroc el va, biroc el va
pelegrin che vien da Roma
co le scarpe rote a i pié
Metaremo na coperta
tuta piena de campanei.
08
Co fu stato a me∫anote
campanei i à già suonà.
09
Fiol d un can de un pelegrino
te me à fregà la me mujer.
02
10
E po l va in una locanda
e l domanda da dormir.
Mi g ò fato la u∫ansa
la u∫ansa de l me paes.
03
11
Me despia∫e pelegrino
ma ∫é tuto ocupà.
Co fu stato i nove me∫i
e ∫é nato un bel banbin
04
12
Io gavrei na stanza sola
dove dorme me mujer.
Somejava a so mare bona
co la facia de l pelegrin.
05
13
Se tu fosi un galantuomo
te metarìa co me mojer.
El porteremo a bate∫are
su la ce∫a de San Martin.
06
14
Galantomo era me pare
galantuomo so anca mi.
Ghe metermo tre bei nomi
Pietro e Paolo e Giovanin.
È interessante notare, in questa versione, l’accenno al frutto del tradimento e al
luogo del suo battesimo, la chiesa di San Martino, che è popolarmente il Patrono
dei soldati7 e forse, proprio per questo, dei mariti, specie di quelli traditi.
La probabilità di incorrere nell’infedeltà di mogli o fidanzate aumentava
quando le circostanze portavano l’uomo distante da casa, vuoi per motivi di
lavoro che militari. Il timore viene rimarcato in molti canti popolari dagli stessi
partenti per la guerra. Nei canti degli emigrati vi è anche la possibilità inversa.
6
AGSB, BLM 0250, cantori spontanei a Refrontolo. Il titolo convenzionale è Il pellegrino di Roma (Nigra
113). Questa ballata risulta tra le più diffuse e quasi tutti i libri di canto popolare consultati ne riportano una
o più versioni. Cfr. Coltro, 305; Wasserman, 252; Ferraro, 137, 269, 302; Pilla, 86;
Nell’altra versione bellunese di Francesca Manarin di Visome, centenaria all’epoca della registrazione, il
025 separè tra gli amanti è una pagliuzza * (AGSB, BLM0047/10).
7
Il motivo è che egli stesso fu soldato. Il detto ‘gabbare San Martino’ significa perciò disertare.
San Martino di Tours, considerato il padre del monachesimo in occidente, nacque a Sabaria in Pannonia
attorno al 315 e morì in Francia a Candes Touraine nel 397 d.C. Figlio di un ufficiale romano, fu arruolato
all'età di circa 15 anni tra le guardie imperiali a cavallo. Ricevette il battesimo ad Amiens intorno al 337,
abbandonando poco dopo la milizia. Iniziò quindi il suo apostolato dapprima in Italia e poi in Francia.
Ritiratosi a vita d'eremita presso Ligugé, vi fondò in seguito, assieme ad altri religiosi, il primo monastero
occidentale. Eletto, a voce di popolo, Vescovo di Tours, nel 371, proseguì nella sua opera di conversione delle
popolazioni pagane, specie nelle campagne. È Santo popolarissimo in tutta Europa e la sua figura risulta
legatissima ai riti popolari di ringraziamento e al culto dei morti (cfr. Secco, Mata e San Martin).
91
LA VITA DEL SOLDATO8
GIGIO SOLDATO9
…
Pensieri ghe n é tanti
l é quel de la moro∫a
quei altri se la spo∫a
e mi son qua soldà!
…
Quando Gigio torna indietro
co la spada insanguinata,
se ti troverò moliata
o che pena, o che dolor!
POVERA GIULIA10
MALEDETA CHE SIA LA MERICA11
…
Non ti ricordi o Giulia mia quel giorno
ch io ti baciai e me ne andai soldato;
giuravo di spo∫arti al mio ritorno,
venni in licenza e non ti ò più trovato!
…
In America che sarai,
troverai una mericana,
non ti ricordi più di me, italiana,
di tanto amore che t ò portà.
027
01
O Bernardo mio bel Bernardo
de le nuove consolasion
o Bernardo mio bel Bernardo, oi bela Violà
de le nuove consolasion.
026
Non manca chi cerca di fare opera di prevenzione promettendo regalini, il che la
dice lunga sulla fondatezza della preoccupazione.
Tegnit cont da la richiòte AAR 173, 578
par insin c ò stoi in mont.
Porterai us une scòte
sul pa (l) vuèstri tignì cont.
Tenete da conto la ricciolotta
finché sto su sul monte.
Vi porterò una ricotta
per averne tenuto conto.
La paura di diventare becchi ovvero di esserlo potenzialmente si scatena con
forme di gelosia che portano i mariti stessi, i fratelli o altri familiari ad attentare,
mascherandosi, alla fedeltà di mogli e sorelle. Moltissimi sono i canti popolari che
trattano l’argomento e tra i più significativi ne riportiamo un paio ad esempio. La
prima ballata racconta il tentativo del Bernardo, di ritorno dalla guerra12 e
travestito, di corrompere la moglie.
8
AGSB, BLM 0500.
Cfr. C. De Biasi, 154.
10
Cfr. Posagnot, 153, c. 121, inf. Pierina Pastega, Possagno 1998.
11
AGSB, CDE, Soraimar Cante pagote, SRM0050/04, inf. fratelli Fullin; è il caso del canto di emigrazione.
12
Il canto, noto col titolo convenzionale de Il falso pellegrino (Nigra 40) risulta ben attestato in tutta l’area
settentrionale italiana e in Toscana e, sporadicamente, anche nel centro-sud. La prima versione veneta citata pare
essere quella di Widter-Wolf. Altre sono in Bernoni, Canti popolari veneziani, IX, 9, c. 7 (Il finto pellegrino); Ive,
334-338 (10, La moglie fedele, con testo molto lungo e una variante successiva che confluisce nella tipologia de La
spo∫a morta); Wassermann, 264-5; Radole, 174, n.91, e anche in Starec, I canti della tradizione italiana in Istria,
133-140, col titolo La se vesti e la se incalsa, con audio in CD allegato (Sissano *). Personalmente ne ho raccolto
diverse versioni tra le comunità di discendenza italiana nel Brasile del sud come quella di Valdir Anzolin *
(Sideropolis) e di Pedro Gregianin (Vila Maria, Serafina Correa) * .
L’allegato sonoro, per opportuno confronto, riporta l’esempio di Viarago (TN) *.
13
AGSB, CDE Soraimar, Cante pagote, SRM 0050/01, cantato dai Fratelli Fullin.
9
028
029
030
031
92
EL BERNARDO13
Tambre d’Alpago (BL), 1978
02
Lui si veste lui si calsa
lui si lava le sue bianche man
lui si veste lui si calsa, oi bela Violà
lui si lava le sue bianche man.
Seguono, col medesimo criterio
nei ritornelli, le altre strofe
03
Gelosia, xilografia seicentesca CR
E poi va ne la sua stala,
ne la stala de i bei cavai.
04
12
Mira l uno mira l altro,
mira il più bel per cavalcar.
Io non volio né pane ne vino,
volio una note dormir con te.
05
13
Molie mia io vado a la guera,
a la guera dei bei soldà.
O bricone d un pelegrino,
elo questa la carità.
06
14
Se da qua a sete ani non vengo,
mòlie mia non starmi a spetar.
Se le forche non saran u∫e,
sarò buona di farle u∫ar.
07
15
Co l é stato anche i sete ani
a la finestra la se à portà.
Ti farò picare tant alto
come le mura di questa cità.
08
16
E la vide una barcheta
che se avicina a la cità.
Se io fosi il tuo Bernardo
co∫a mai voresti far?
09
17
E poi vide un pelegrino
che domanda la carità.
Se tu fosi il mio Bernardo
qualche nova m arìa da portar.
10
18
Carità carità signora
a questo povero pelegrin.
Sporgi fuori la tua man bianca
eco l anelo che t ò spo∫à.
11
19
Io non so che carità fare,
solo che dare del pan, del vin.
Mama cara prepara el leto
che Bernardo l é capità.
93
Il secondo brano, anch’esso molto noto, narra di un tentativo di corruzione a
livello fraterno.
032
035
Ndo sito stada ieri sera
si ripete ad ogni
cara muier, che bela muier
strofa-uomo
ndo sito stada ieri sera?
So stà ne l’orto per salata
si ripete ad ogni
caro marì, che bel marì.
strofa-donna
so stà ne l’orto per salata!
C era di queli che ti parlava
Ièra le mie camerate.
Le camerate non portan le braghe.
Ièra le cotole infranfugnate.
Le camerate no porta il capelo.
Ièra i capeli che avevo in alto.
BON DÌ BON GIORNO14 - Serafina Correa, RS, Brasile, 1998
01
08
Bon dì bon giorno miei genitori
chiedo bon giorno, bon giorno vi do,
la mia sorela dove la ∫é?
Le pecorine che tengo a l erba,
le se riguarda sensa timor,
non le à bi∫ogno de servitor.
02
09.
La tua sorela l é ∫ó in pianura,
là ∫ó in pianura, in pianura la ∫é
a pascolare le piegoré.
G ò do scarpéte te la scarsèla
che starìa ben a i vostri pié:
mi ve le dono se lo volé!
03
10
Poco giudìsio vù pare e mare,
lasiarla andare cusì via lontan
dove qualcuno la pol inganar!
Scarpéte a i piedi mai l ò portate,
scarpéte a i piedi no voi portar
fin che son fiola da maridar!
04
11
La nostra fìola la g à giudìsio,
l é savia onesta, la sa ben parlar,
no la se làsia mia inganar!
G ò anèli d oro te la scarsèla,
che starìa ben a i vostri dé:
mi ve li dono se li volé!
05
12
Trecento scudi ghe metarìa
e n antro tanti ghe ne meterò,
che se la trovo la inganerò!
Aneli d oro mai li ò portati,
anèli d oro no voi portar
fin che son fiola da maridar!
06
13
E quel galante montò a cavalo,
montò a cavalo e via se ne andò
a ritrovare la sua sorè.
E quel galante montò a cavalo,
montò a cavalo e se leva el capel
e poi el ghe di∫e: son tuo fradel.
07
14
Bondì bon giorno bela pastora,
vi do il bon giorno di vero cuor,
gavìo bi∫ogno de un servitor.
Non ài la facia de l mio fratelo,
tu ài la facia da inganator
e sei venuto a levarmi l onor.
Tra i canti emblematici della gelosia esistono questi esemplari contrasti che si
riscontrano in tutta l’area padana15. La formula del dialogo a botta e risposta è tra
le più efficaci, come capita per stornelli e villotte e ben si adatta anche alle ballate.
14
AGSB; CDE Soraimar, Bele e taliane, SRM 0018/3, cantato da Sole e Mèia. Della stessa zona anche una
033 similare cantata da un gruppo anonimo di agricoltori presso Guaporè *; Titolo convenzionale: Tentazione
(Nigra 78). Cfr. Wassermann, 230; Bernoni, Canti popolari veneziani, XI, c.1 (L’onestà alla prova); Ferraro,
67 (Il finto fratello); Righi, 34. Molte anche in Starec, I canti della tradizione italiana in Istria, 133-140, pure
034 con due versioni audio in CD allegato tra cui quella di Cherso davvero bella * (Vi dò il buon giorno cari genitori,
inf. Antonio e Francesca Rubinich, registrato 6/10/1984)
94
CARA MUIER16 - Bassa veronese
036
Le camerate no portano i bafi
Ièra le mòre che avevo mangiato
Questo no è l tempo de le mòre
Io ne tenevo na pianta ne l orto
Ma questa pianta la voglio vedere.
Me l à tagliata il giardiniere.
Meglio sarebe tagliarti la testa.
E dimi poi chi ti fa la minestra.
Io me ne trovo un altra più bela.
Ma quele bele sono tute mate.
E quele brute son tute vache!
MARION17 - Venezia e Chioggia
Cosa si stada a far ne l orto,
si ripete ad ogni
brum brum, Marion,
strofa-uomo
cosa sì stada a far ne l orto?
So stada a prendere la salada,
si ripete ad ogni
caro el mio marì,
strofa-donna
so stada prendere la salada.
Chi xé sta quel che l à dimandàda
La mia compagna l à dimandada,
Dunque le done porta el capèo
Gera la scùfia tirada a cordèo
Dunque le done porta i mustaci
Gera le more che avea mangiate
Dunque le done porta i bragoni,
Gera la vesta tirà a la turca,
Dunque le done porta i stivài,
Gera le scarpe che ti me donavi,
Dunque te vògio tagiar la testa,
Chi sarà quel che te fa la menestra,
Torò na dona più brava e più onesta
Libidine, nella xilografia seicentesca tratta dalla Iconologia di Cesare
Ripa, tiene in mano un particolare animale...«racconta il Pierio
Valeriano (Bellunese) nel libro decimosesto che lo scorpione significa
libidine; ciò può esser perché le pudende parti del corpo humano sono
dedicati da gl’astrologi allo scorpione».
15
Cfr. Ferraro, 132, Il marito geloso (Nigra 85).
Cfr. Coltro, 538-9, cantata dal Piccolo teatro di Oppeano.
17
Cfr. Ronchini, 32-33, anche interprete del brano sonoro allegato. Pressocché uguale in Bernoni, Canti
popolari veneziani, IX, 12, c. 8 (La sposa colta in fallo). Le Repliche di Marion o Il marito geloso (Nigra 85)
sono attestate anche in Istria.
16
95
037
BARBARA TU18 - Cappella Maggiore, TV, 1982
Andove gèritu che tanto ti manca,
bàrbera tu,
andove gèritu che tanto ti manca.
Gero ne l orto a racòlier salata,
o buon marì,
gero ne l orto a racòlier salata.
si ripete Bàrbara tu
nelle strofe al maschile
si ripete o bon marì
nelle strofe al femminile
Andove ∫éla questa salata
L é sta le pecore che l ano mangiata.
E con chi èritu che tanto parlavi.
Era una dona del mio pae∫e.
Son anche le done che portan le braghe?
L avea le còtole mal rivoltate.
Poco mi vorìa tagliarti la testa.
Co∫a faresti di quel che ti resta?
La geterei da la finestra!
ARABA (BARBARA) TI19 - Gente di Conscio, TV, 1997
Dove sei stata che tanto mi manchi,
Arabatì,
dove sei stata che tanto mi manchi,
So stata a l orto per insalata,
mio bon marì,
so stata a l orto per insalata.
si ripete Arabatì
nelle strofe al maschile
si ripete mio bon marì
nelle strofe al femminile
SU ALCUNI SOPRANNOMI DI LUI
Fami vedere che l ài taliata.
Le corombele me l ano mangiata.
C era qualcuno che ti parlava.
Si discoreva comare (a) comare.
La tua comare no porta (l) mantelo.
L era di lana un monticèlo.
La tua comare no porta la spada.
Era la roca che la ∫ventolava.
Mi viene vòlia taliarti la testa.
Co∫a farete del tempo che resta.
Vado al convento a farmi frate.
Son a i ginochi mi perdonate?
Finale
Àlzite in piedi cara consorte
che più la morte no ti darò!
casso e spasso
i viaja a brasso
O∫èl, uccello1 – semplicemente o specificatamente canarin, merlo, cuco, poiana –
è la classica denominazione popolare del Lui in tutte le Venezie; assai più raro
casso, usato prioritariamente in frasi che col sesso hanno poco a che fare, del tipo
no l val un casso (non vale niente), no l capìse un casso (non capisce niente), no
far un casso (far nulla). Un membro col nome tanto vicino al concetto di nulla
soddisferebbe poco l’orgoglio personale. L’idea di un qualcosa che tende all’alto, che si slancia libero, ha invece molta forza e meglio si adatta a rappresentare la vanità del maschio.
Resta da sottolineare, in merito, come i pae∫i basi (paesi bassi) insomma i genitali
di entrambi i sessi vengano attualmente ritenuti inutili al bene comune risultando perciò non risarcibili, a livello di Previdenza statale, in caso di mutilazione
o invalidità. Come dire che, in caso di disgrazia, i ∫é cassi nostri ovvero no i ne dà
un casso!
Ma torniamo all’argomento volatile. Un o∫èl che si rispetti, nel corso della sua vita
viene tenuto solitamente in conto dai naturali possessori, i più sensibili dei quali, non
appena consci della molteplicità delle sue funzioni, se ne affezionano
particolarmente, magari tutorialmente chiamandolo me fradel pì pìciol o me fradel pì
bèl, me fradelét, el cèo, el picolo, el banbin, el cicio o con similari vezzeggiativi.
La sua evoluzione fisica può venire scandita con termini presi a prestito da
esperienze quotidiane; dall’agricoltura, ad esempio, per cui il neonato bi∫et, bicét,
fa∫ol o bagìgio (pisellino, affarino, fagioletto o nocciolina americana) diventa
tegolina (fagiolo) e quindi téga (bacello) per finire in fava2 quando la dimensione
ne consenta o ne presupponga il possibile paragone. Zucchine lunghe o grosse
radici possono richiamare alla mente la sua immagine anche quando, per il dogma
dell’indovinello, ben si sa che la risposta non può essere maliziosa:
Vae te l ort e cate n frate mort; tire fora l cortèl e ghe taie l pì bel (la verza);
Vae te l pra e cate un destirà, tire fora l cortèl e ghe taie l o∫èl (zucchina o radicchio).
L’idea di possedere un bel sucòto come pure na gran melansana, è tuttavia molto
rustica e quella di avere un articiòco (carciofo) fin troppo bellicosa.
1
18
La versione, che è quella di Luciana De Nadai, 1982, mi è stata gentilmente data da Camillo De Biasi.
19
Una curiosità sta nel titolo. Araba è una corruzione di barbara (nel senso di crudele), termine che la seconda
038 cantante usava correntemente. In una ulteriore versione della Ronchini, dal titolo Bàrbera ti * (in Sentime
bona zente, 27), la bella va al bosco e sono le pecorelle a mangiarle l’insalata; per il resto è abbastanza simile,
con il perdono finale del marito.
96
Tra le frottole più comuni vi è la seguente, riproposta in audio, che è rimasta nella memoria collettiva dei
nostri emigrati in Brasile (AGSB, CDE Soraimar Fròtole taliane, SRM 0200/07, narrata da Bigodinho
039 ovvero Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, Brasile 2002) intitolata Omi tiré fora l o∫èlo *.
2
Nell’Erbolato di Tubiolo, nella stanza riguardante l’ortaggio specifico, così si inizia la sua descrizione: «Che
diròi de la fava, / c agno dona gh è fura / a le so teghe fresche per natura?» (Cosa dirò della fava che ogni
donna è attenta ai suoi turgidi bacelloni?).
97
Ideale rappresentante è l’asparago, el spàre∫o, in grado di richiamare immagini
di commestibilità metaforica assai ardite. Frutto ideale per una rappresentazione fallica di potenza è la panòcia3 cui, più recentemente, si è
affiancata l’esotica banana che guadagna in dolce simpatia ma appare carente
quanto a consistenza. La definizione di fongo (fungo) si usa solo accoppiata a
qualche caratteristica speciale per definire la sua capèla4 (rosa, grosa).
Evidentemente il termine è usato quando non serva rappresentare concetti più
grintosi; se il gioco si fa… duro, el pal (palo, asta, verga), la bréga (asse di legno)
el moràl (murale sempre di legno), el mànego (il manico magari de cornolèr, il
legno nostrano più duro), ma anche el remo (il remo) sul litorale adriatico,
diventano gli epìteti più usati, quelli con cui spaventare a parole l’amata o
promuoversi di fronte a lei o alla concorrenza. Duri come pali sono anche i pesci
essicati da cui il sinonimo rénga (aringa, salacca), sardelón o sardón e bacalà
(nell’accezione veneta di stoccafisso). Già che siamo entrati nei paragoni ittici,
non possiamo trascurare el bi∫àt o bi∫ato, l’anguilla, di cui il Nostro emulerebbe
la strenua vitalità, come d’altronde tutti i pesci5!
Non mancano i richiami agli insaccati e particolarmente al salado (salame).
Genericamente possono indicare Lui anche el bìcio, el bìci oppure l afar
(l’affare) come nell’indovinello: me nono vien da Mortantón co l afar de picolón e
me nona ghe vien contra co la sìsola tuta ónta (el feral, la lanterna); anche el
mestier (l’oggetto), l arte (attrezzo): el prete de Noventa, l à n arte che spaventa e
ogni sera, dopo zena, la so serva ghe lo mena (el scaldalet, lo scaldino da letto6),
oppure l ordégno (l’ordigno).
Il Nostro si ritrova inoltre con soprannomi esplosivi: da pistolin a pistola fin anche
a bombarda o canón (cannone), decisamente esagerativi come nei canti noti coi
titoli di ∫elo na cana e maledeta la cana dei vèci.
Il termine cana (canna), tubo, cànola o pisàndol (adduttori da fontanile), spina e
spinèl (da botte) come pure broca (brocca) paiono invece consone alla famiglia
dei liquidi dove pipin, pisin e pipì rappresentano le forme infantili estranee del
tutto a legami col sesso.
3
Panòcia, panocéta sono da tempo tra i soprannomi di uso più comune tanto da ritrovarli tra gli usati dagli emigrati
nella perpetuazione della tradizione come nel seguente esempio sonoro raccolto a Nova Palma, IV Colonia, Rio
040 Grande do Sul, dalla voce di Diomedes Rossato (AGSB, CDE Soraimar, Fròtole taliane, SRM 0200/16) *.
4
La capèla è il glande; el formài capelan è la secrezione bianca che gli si forma alla base in caso di scarsa pulizia.
5
Si vedano più avanti i testi dei canti dedicati a l anguilon, l’anguillone. La ‘freschezza’ del particolare ‘pesce’
emerge con chiarezza dalla villotta ottocentesca che dice: « Un pése liongo ghe xé drento l mare,/ che à ∫brise
quando che a se vuò ciapare; / L è un pése che devente liongo e groso / Asae pì de l spontero de u bargoso. / Se
mi sto pése puodese vantare / un bel pre∫ente ve vuorave fare, / e su seguro che sto mio per∫ente, / sempre, Tunina,
ve starave in mente».(Giovanni Domenico Nardo, La pesca del pesce ne’ Valli della Veneta Laguna, Venezia
Tip. Visentini, 1871, 85). Quanto al sardón (Lui), che prevede una Lei sépa (seppia), ecco la menzione canora
041 triestina * dovuta a Toni Pastrovicchio (1975, cfr. Osteria da Guerina, CD SRM0276/10).
6
Anche in Babudri, 81, 499, per l’Istria: «el piovan de San Vidal /el lo g à longo come n pal / e la sera, dopo sena,
/ la masèra ghe lo mena!»
98
Sempre infantili sono i nomignoli pesét (pesciolino)
petarèl o betarèl (scricciolo), bigat(o) e bigatin o
bigarin (il baco tanto presente dal 700 nell’economia contadina), bichignòlo, campanel e pure il
termine brocheta (chiodino a testa larga).
Una ulteriore voce, momon de le tate (dolciume
per le femminucce), pur grazioso, mi sembra di
paternità maliziosa al contrario di sughét
(bastoncino di liquirizia). Ciòdo e broca (chiodi)
hanno invece riferimenti precisi alla loro
possibilità di penetrare o infilzare, come pure
britolìn (il coltellino), pic e picón (il piccone, da
cui piconar per copulare) e spéo (spiedo).
Nella classe delle cose commestibili entrano poi
bìgol, bìgolo (spaghetto di pasta di grano tenero,
di pasta di pane), biscòto, come pure bigolòto,
bigaràn (biscotto di pasta dolce), questi ultimi Egon Schile, Nudo virile con drappo rosso, 1914
tipici del carnevale e con significato propiziatorio di fertilità evidente.
Alla famiglia degli oggetti penduli appartengono i sinonimi batòcio (battacchio della
campana), pìndol o péndol (asta del pendolo). Anche questa caratteristica è subdolamente indotta dall’indovinello: din dolón par mèdo a le gambe; morbido, lis e senza
pél; la donna vedendo questo bel frutto, la ∫larga le gambe e lo ciapa tutto! la cui soluzione
corretta (si fa per dire) fa riferimento alle mammelle della vacca (uro, scarp, ∫garb,
∫garba) e alla donna che va a mungere mettendosi seduta col secchio tra le gambe.
Quanto al termine subiot/o, sifolòt7 (zufolo), pìfaro (piffero)8, in genere usato
dalla popolazione femminile per indicarlo, si possono immaginare implicazioni
anche più complesse. Altro appellativo gentile era petenin o restelin de amor
(piccolo pettine o rastrellino d’amore) immaginati nel loro passare tra i metaforici
fili d’erba, tra capelli o altro pelo. Il termine è comune nei modi di dire come nel
proverbio ghe n é un da Burban, che l vien su co l afar in man, e co l incontra la so
moro∫a, el ghe lo pianta te la pelo∫a (soluzione, il pettine), o nel canto popolare
ottocentesco nostrano la Bortola e la Stèfena che si vedrà più avanti.
7
Vedi i seguenti due brani provenienti dalla comunità ‘taliana’ del Brasile. Nel primo, di tipo popolare (O
042 quanto mi piace l amor contadina), una strofa invita i giovani coscritti a ‘calmare’ le ragazze *: «Se no le se
chieta, / sonéghe l subioto / che in quatro e quatr oto / le se chieterà» (AGSB, CDE Soraimar, Mi∫ eri coloni,
SRM 0220/13, fam. Balbinot). Il secondo pezzo è invece del cantautore par talianValdir Anzolin e si intitola
043 El sifoloto *. Di zufolo ovvero sivilòt, parla anche la villotta citata dall’Ostermann in Villotte friulane
(Appendice, 8): «Jò us dói la buine sere, jò us dói la buine gnot; vo la man su la fughere, jò la man sul sivilòt»
(io vi do la buonasera, io vi do la buonanotte, voi la mano sul braciere (fuocaia), io la mano sullo zufolo).
8
Anche clarinetto.
99
Ancora, riferito al mondo degli animali domestici, con attenzione alla
dimensione e robustezza del loro collo, compaiono l òc (l’oca) el pit, bit o piòt (il
tacchino). Ecco un altro indovinello: la fémena de Bastian, tuti i dì lo ciapa in
man: la lo strende e la lo mena, fin che l à la panza piena! La soluzione si riferisce
all’atto di prendere in mano il collo delle oche per incoconarle, cioè ingrassarle
forzatamente. L’altro senso è evidente.
Molto usato anche il termine di gal o galéto (che ha la medesima reputazione sia
in Francia che nei paesi anglosassoni), tenuto in grande considerazione perché
governatore solitario del pollaio e quindi emblema di potere oltre che di
potenza9 e prepotenza sessuale (come ‘riconosciuto’ dalle galline del famoso
canto Me compare Giacometo10) e come menzionato anche in alcune villotte.
Quatòrde∫e galine g à el mio galo,
e l bècola ogni giorno la piu bela;
cusì farò anca mi, cara Ninine,
come fa el galo co le sue galine.
Mi g ò n galeto rento sto ponaro
che sempre ghe fa gola le galine:
la pena bianca la lo fa cantare
la pena mora la lo fa sognare.
Certamente il comportamento dell’animale dà facilmente adito al doppio senso,
come ricordano i successivi salaci brani.
044
LA SIGNORA MARGHERITA11 - Refrontolo (TV), 2001
01
02
La signora Margherita
la g aveva n bel boscheto;
la voleva che l mio galéto12
andase dentro a pascolar!
Ma l mio galéto l é tropo groso
e l à la testa senza òso;
entra dentro piano piano,
senza far chichirichì!
9
Analogamente col termine di capon, cappone, ovvero gallo castrato, si soprannomina l’impotente. Sul tema
si trova anche la seguente villotta (cfr. Ive, Canti popolari in veglioto odierno, 20, n.7): «Fiorin fiorelo, metéte
la galina aprèso a l galo / che l ve farà veder un (bel) giocherelo!»
10
Allusiva ad una libertà sessuale come prerogativa maschile è la strofa che dice: «Benedete le galine / che no
porta gelo∫ia / le va tute in compagnia / co l galeto a far l amor», che si ritrova nei brani meglio conservati e,
soprattutto, in Brasile.
11
AGSB, CD0235. Il canto è riportato integralmente più avanti, nel capitolo in cui si menzionano le malattie veneree.
045 12La lezione piemontese, fornitaci da Amerigo Vigliermo, nota col nome di La mia cugina Carolina *, è del
tutto simile anche nella descrizione della malattia: « 01 La mia cugina Carolina, / lei ci aveva di un giardinelo,
/ lei voleva che l mio galeto / andase dentro a pasegiar; 02 Lui va dentro poco poco / col bereto senza l fioco; /
lui va dentro a poco a poco / senza far chirichichi. 03 Eco qua che son ridoto / caminar co l bastoncelo, / su e
giù pian pian bel belo / su la porta de l ospedal. 04 La mia cugina Carolina / l era pogiata sui tre cantoni / e
par botonèi la tuta / sàiva trà de ses butun. 05 Aveva na porta così grande / che si poteva giocare a l biliardo;
/ si poteva giocare a l biliardo / co le bale da canon» (Rueglio, nel Canavese ,TO, 1972). Le canzoni col
galletto sono numerose e presenti in ogni area del paese. Riportiamo l’accenno anche di un’altra lezione
046 sonora, sempre piemontese, intitolata Il mio galletto *, eseguita da un cantore a Bajo Dora (1972).
100
047
EL GALETO13 - Lasen, BL, 2001
01
Son tre noti che non dormo
sempre penso a l mio galeto
l ò perduto larì lerà, povereto
l altra sera andando a l prà.
03
lerì lerà
larì lerà
larì lerà
Lu l g aveva le ale grande
∫veio l ocio, duro l bèco
co l cantava l stava dreto
e l fa∫ea chirichichì.
02
04
Sono proprio sfortunata,
che farò sensa bestiola:
sora l leto, co son sola
mi facevo acompagnar.
Meschinela mi ritrovo
più non l ò tra le mie dita
son rimasta ben tradita,
ben tradita ne l amor!
Termini ausiliari sono ancora la terza gamba o la gamba de mezo, e ancora penèl
(pennello), candelot o mòcol (cero), mànega (manica), paracar (paracarro), pàcari
e moltissimi altri, tutti tesi ad individuare scherzosamente il nostro Lui in
attività e potenza. Confidenziale è anche il nominativo Nino (Giovannino),
specie nelle accezioni di gratarse o ∫gorlar el Nino.
Aggiungendo al complesso dei menzionati sinonimi ulteriori indovinelli
‘d’azione’, a doppio senso, l’immagine funzionale del nostro Lui si fa
ulteriormente chiara:
IL FUCILE A BALIN (PALLINI DI PIOMBO)
Duro l é; el trà de le bone bote
e la vertù la stà te le balòte!
È duro, dà dei buoni colpi
e la virtù sta nelle palle!
048 OROLOGIO CON CATENELLA, DA TASCA14
El cala, el crese,
al bulighéa te le braghese.
Cala, cresce,
si muove nei pantaloni.
L’ORINALE
Tondo, gros e descapelà:
a méterlo mèdo a le gambe no se fa pecà!
Rotondo, grosso e scoperto:
non si pecca a metterlo tra le gambe!
Per il declino poche le immagini: meglio tacere quando si rimane col morto in
ca∫a!; meglio ricordarlo nei momenti del massimo splendore, nella veste di Sua
Maestà el creapopoli cui ogni scettro fa riferimento.
13
La prima strofa è stata raccolta a Lasen, presso Feltre, dal Coro Oio di S. Giustina bellunese. Il seguito del
testo è stato da me recuperato in Valle del Mis (inf. Fiori Vedana). Il brano si trova anche in Balladoro, Folklore
veronese, II, 114, c. 117: «A la note mai non dormo / sempre penso a l mio galeto; / l ò venduto, el povereto, /
stamatina avanti l dì. / Co le piume tute nere /e la cresta sempre alta / caminava salti a salti / senza far
chichirichì. / care done se sentesi / il mio galeto a cantare / il bacanal di carnevale / la biondina a far l amor».
14
Il tema è ripreso anche nella canzoncina raccolta dalla voce di Antonietta del Piccolo Teatro di Oppeano (VR).
101
IL MITICO O ELIN
quatro pié stà su n bel leto,
chel ucelino sensa beco,
la Bernarda co la barba,
che se strende e che se ∫larga!1
Torniamo al soprannome principe del nostro Lui per sottolinearne la frequenza
d’uso anche nei secoli scorsi, e non solo a livello popolare. È infatti evidente come
i componimenti seguenti siano tuttaltro che di ‘vil’ autore. Il primo compare come
canto, in uno studio del Carducci.2
Date beccare all’ugellino,
Donne e fanciulle, per l’amor di Dio!
Questo ugellino, gli è tanto bello,
Ardito e forte com un lioncello:
Un dipintor no ‘l farebbe più bello,
Quand’egli ha fatto la testa e ‘l suo crino.
Quest’ugellino è vago dell’ova,
Vanne cercando quantunque ne trova;
Quando v’ è dentro non par che si mova,
E poi se n’esce un cotal pocolino.
E non si cura là onde s’attuffa
Per che li sappi di feccia o di muffa:
Cacciasi dentro a la baruffa,
Cacciasi dentro quel buon piccolino.
Chi lo vedesse così ben armato
Andare alla giostra quel dileggiato;
Dà solo un colpo ed è iscavalcato
Torna piangendo com’un fanciullino.
Questo ugellino, egli è costumato,
Nante a le donne non tien nulla in capo:
Egli sta ritto e sta iscapucciato,
E mai non cura né giel né serino.
Questo ugellino è di questa conviglia,
Egli sta ritto com’una caviglia:
Mona Bernarda per man se lo piglia,
Càcciasel entro com un cacciolino.
1
Date da beccare all’uccellino,
donne e fanciulle, per l’amor di Dio!
Questo uccellino è proprio bello
ardito e forte com un piccolo leone:
un pittore non potrebbe far di meglio
quando gli abbia fatto la testa e la criniera!
Questo uccellino è bramoso d’uova
e sempre ne cerca per quanto ne trovi;
quando ci è dentro sembra non muoversi,
ma poi se ne esce un poco malconcio.
Non bada a posto dove si tuffa,
se sa di feccia oppure di muffa:
Ci si caccia dentro con foga
e ci si immerge tutto, quel buon piccolino.
Chi lo vedesse così ben armato
andare alla giostra per tornare schernito!
Dà solo un colpo ed è disarcionato
e torna lacrimando come un fanciullino.
Questo uccellino è abituato a stare
davanti alle donne senza nulla in capo:
Egli sta dritto e scapucciato,
senza curarsi di freddo o sereno.
Questo uccellino è così fatto,
sta dritto come una caviglia:
Mona Bernarda per mano se lo piglia,
e se lo ficca dentro come un bocconcino.
Carone,198, 78; la probabile soluzione dell’indovinello è il telaio.
Giosuè Carducci, Cantilene e ballate, strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV, Pisa, Tip. Nistri, 1871, 65.
3
Se si considerano nel complesso il brano precedente, questo e, del medesimo autore, Lanzschenech, tu me fai
torto (p. 198) e ancora Putte xé qua l’orbetto (p.318), l’immagine dell’uccellino combattente risulta completa.
2
102
Segue un componimento (primi del ’500) del notaio bellunese Bartolomeo
Cavassico, nato probabilmente per essere letto in occasione di qualche festa di
nozze e dedicato maliziosamente alla sposa per dar gusto agli astanti di coglierne
il possibile rossore. Poesiole e canti a sfondo erotico sono ancor oggi corredo tipico
di questa specie di ’iniziazione’ della novizia che presto andrà al letto nuziale3.
Noviza, va a dormir
che l é n bon pez de not,
va te pur ficha sot i to lenzuói.
02 No dir miga: no voi
perché lo to nuvìz
si te darà d un stiz s tu dis de no.
03 Va via che fin de mo
el sarà bon partì
ghe n é ben qua de quì che l à provà.
04 Va via ch el te farà
tuta la not careze
conzant el cà e le dreze mo de bel.
05 E l à n si bel alcèl
che l te lo vuol donar:
el magna sì ben car (ma) de noviza.
06 O te nasca la stiza
che l à sì bela cresta:
Tu ghe farà ben festa questa sera.
07 Va pur su la litiera
e po tuol, to∫a in man
e mételo pian pian in te l corbàtol.
08 To∫a, no l é n zavàtol
né de quist becamur
mo l é n alcèl dur dur (e) senza òse.
09 El va ma inte le fose
el va cercand ma i bus:
l é dret che l par un fus, l é senza ale.
10 El sta muò inte le stale
el va cercant i bosch:
no l é verz, né losch che no l à ugi.
11 El sta sora i zenugi
fra le còsse e l bonìgol,
tuol pur che no l é prìgol che no l mort.
12 I alcièi di questa sort
no i bèca, chi n à bèch
o ghe fóselo sech a chi vuol dir!
01
Novizza, va a dormire
che è già notte inoltrata;
vai pure a metterti sotto le tue lenzuola.
Non dir mica non voglio
perché il tuo novizzo
userà un tizzone se dici di no.
Va via che fin da ora
ti sarà conveniente:
ce ne sono tra i presenti che l’han provato.
Su, vai, che ti farà
tutta la notte carezze;
ti sistemerà capo e trecce proprio bene.
E ha un così bell’uccello
che te lo vuol donare:
mangia sì, carne (ma) di novizza.
Oh, ti venga il prurito,
che ha una cresta così bella:
Tu gli farai ben festa questa sera.
Vai pure a letto
e poi prendilo in mano
e mettilo pian piano nella gabbia.
Ragazza, non è un fringuello
neppure un passerotto
ma è un uccello duro duro senza ossa.
Va solo nelle fosse
cercando, ma solo i buchi:
è dritto come un fuso, è senza ali.
Sta ora nelle stalle
ma gli piacciono i boschetti:
non è strabico o guercio, non ha occhi.
Sta sopra le ginocchia
tra le cosce e l’ombelico
prendilo pure, non è pigro e non morde.
Gli uccelli di questa sorte
non beccano, giacché non hanno becco
e gli si seccasse ai contrari!
103
Esemplare nel gioco della seduzione, l’amore travestito da uccelletto trova modo
di dar sfogo a tutta la sua civetteria nel consueto straordinario quadretto del
sonetto settecentesco di Giorgio Baffo.
Sora la boca de la mia dileta
ò visto Amor che l gera là puzà,
alora per ciaparlo son andà,
e lu xé corso sora d una teta.
Il popolarissimo canto incentrato sul volo dell’uccellino condivide e ripercorre
esattamente la via poetica fin qui tracciata. Le due più note versioni ancora in
auge si differenziano relativamente per un diverso approccio. Nella prima, nota
come Quel ucelino o Bel ucelino, esso risulta solo un poco più velato.
Il discriminante selettivo è, in questo caso, il ritornello.
050
QUEL UCELINO6 - Gazzo, PD, 2002
Quel ucelino, su quel boschetto,
co l suo bechéto lara là là.
Quel ucelino su quel boschetto
co l suo bechéto lara là là… per far l amor
Lo voleva ciapar per un aléta,
ma da le tete a i piè lu xé ∫volà,
e quando per cucarlo m ò ∫basà,
l à trato un salto su la gamba dreta;
RIT:
E dimi un pò biondina come vai vai vai
quel ucelì oilì oilì.
E dimi un pò biondina come vai vai vai
quel ucelì oilì oilì… per far l amor
l é andà a l zenòcio e mi ghe so andà drio,
e lu s à retirà sempre più in su∫o
per volerse cazar in tel so nio.
Mi co ò visto che l gera ansà e confu∫o,
e dal ∫volar qua e là straco e ∫ba∫ìo,
son andà avanti e l ò ciapà in tel bu∫o.
Quel ucelino su quela rama,
lui canta e brama… per far l amor!
Forza d’amore, xilografia seicentesca CR
RIT:
La medesima ambizione di trasformarsi in uccellino, si trova spesso nelle
villotte e nei canti carnascialeschi4 come i seguenti
Quel ucelino su quela fòlia,
lu g à una vòlia… di far l amor!
RIT:
a)
b)
Se fose un o∫elin de primavera,
vorea ∫volar in orlo a la caldera5;
vorea far finta de raspar par tera,
e far l amore co Ro∫ina bela.
Se deventar podese un o∫eleto,
e avése l ale per poder ∫golare,
voria ∫golar sora quel giardineto
andove sta l mio amor a lavorare;
e mi voréa ∫golarghe intorno intorno
e restar lì tuta la note e l giorno!
4
Riportiamo, ad esempio, lo spezzone di un brano di Rueglio (TO), cantato da Amerigo Vigliermo, Norma
Betteto e Gino Coello al Convegno Soraimar 2001 di Asolo, sul tema. Si tratta di un estratto dal Cantar
Martina, che era un modo d’approccio amoroso a contrasto. Un gruppo di giovani, tra cui l’interessato ad
una certa ragazza, si portava alla casa di lei ed iniziava il dialogo canoro che, dato il tempo di carnevale,
049 meglio consentiva anche punte piccanti, come le seguenti *. Lui: «Vi avvertiamo bele fije / di conservarvi quel
boschetto: / se ci entra l uccelletto, / che bei canti lui farà! - Lei risponde: Il boschetto è già guarnato
(governato) / che da voi è desiderato; / lo daremo ai giovanotti / non a i vecchi maridà!».
Tra le villotte friulane dell’Ostermann (Appendice, 15) si trova la seguente: «Chè panzute muli∫ite / e chèl pél
tant bèn ualìt! / Cheste sere, bambinute / il mio ucèl l à dì fa il nit» (che pancino delicato, e che pelo ben
uguagliato: questa sera, bambina mia, il mio uccello ci deve andare a fare il nido).
5
La caldiera, la caldaia, è ovviamente la nostra Lei. Il Caliari, 66, 67 (folclore veronese), ne presenta anche
altre, tra le quali una versione al femminile che dice: «Se fuse n o∫elin g avarea l ale /vorèa volar su l albarel
de l mare. / Se l albarel del mar fose spino∫o / vorèa volar in brazo a l mio moro∫o» (61).
104
051
QUEL UCELINO7 - Serafina Correa, RS, Brasile
Quel ucelino, sopra la testa,
facea la festa lara là là.
RIT:
Se mi volesi mai mai mai
quel ucelino, laralala
quel ucelino, laralala
per far l amor,
del mio cuor!
Quel ucelino sopra li oci… copa i pedòci
Saverio Barbaro
Disegno per donna e colombo, 1957
RIT:
Quel ucelino sopra il peto… porta il canèco
RIT:
Quel ucelino sopra le spale… porta le ale
6
7
CDE Soraimar, Ciò Tilde, SRM 0171/06; chi canta è nonna I∫eta Zanon (Gruppo Du Muìni).
AGSB, CD BLM 0032/17. La parte più curiosa è il ritornello.
105
052
cui seguono i diversi spostamenti e il ritornello
BEL UCELINO8 - Sv. Peter, Capodistria, 2001
Bel ucelino, su la tua testa
doman ∫é festa larin bon bon
doman ∫é festa larin bon bon
Bel ucelino, su la tua testa
doman ∫é festa larin bon bon… per far l amor
L é volato sora l colo
RIT:
L é volato sule tete
Bel ucelino, sul tu-o peto
L é volato sula schena
L é volato su la pansa
L é volato sui denòci
porta rispeto
l u∫elin ∫bateva i oci.
RIT:
L é volato sul dadrio
porta carianza
l u∫elin, ma co speransa.
RIT:
per far l amor
(creanza)
là l voleva farse l nìo.
RIT:
RIT:
Bel ucelino, su la tua figa
l u∫elin, ma co gran pena.
RIT:
RIT:
Bel ucelino, su la tua panza
l u∫elin fa∫éa bau sète.
RIT:
RIT:
Dìmelo poi, poi, poi,
la riza vai, vai, vai,
bel ucelin biri bin bin bin…
l u∫elin al era molo.
L é volato sula figa
l u∫elin ma co fadiga.
non fa fadiga
RITORNELLO FINALE:
La trama è la medesima ed il volatile, descritto generalmente come essere
gioioso e gentile, si avvicina progressivamente alla meta, descritta più o meno
esplicitamente (la gabbia, la comare, la signora, la padrona ecc.). Ecco alcuni
esempi provenienti dall’area triveneta o d’influenza veneta.
L U ELIN DE LA COMARE 9 - Belluno, 1964
L u∫elin de la comare
no l savéa dove volare;
L é volato su la testa
L u∫elin fa∫éva festa.
paraponziponzipò
paraponziponzipò
paraponziponzipò
paraponziponzipò
RIT:
E ancor più giù (o su) voléa volare
l u∫elin de la comare!
Seguono poi le altre strofe sempre introdotte da
paraponziponzipò
L u∫elin de la comare
no l savéa dove volare;
paraponziponzipò
8
AGSB, BLM0500. La lezione è cantata dal gruppo di donne del paese, note come Savrinke, di madre lingua
slovena ma che nel repertorio familiare annoverano una cinquantina di canti popolari italiani, appresi per
contatto e partecipazione diretta. Le Savrinke, operavano come venditrici ambulanti facendo la spola tra la
costa adriatica e l’interno. Una versione somigliante viene riportata anche da R. Starec (Canzoniere triestino,
227, c. 219) col titolo L u∫eleto con quel bechéto, con richiami anche ad altri brani della serie: «L u∫eleto, co quel
bechéto, lui m à volato, sopra l mio pèto. / la vadi pian signora, la vadi pian pianin».
053 9 AGSB, BLM 0500; Il brano è identico a Porcino (VR) * e di quei cantori è la versiona sonora da me
registrata nel 2003. Simile anche in Valcavasia, (cfr. Posagnot, 65, c.42).
106
E avanti e indrìo volea volare
l u∫elin de la comare!
054
L U ELIN INAMORÀ10 - Valmorel, BL, 2002
L u∫elin vola su la testa,
l u∫elin fa∫éa gran festa!
RIT: pian pian, oi oi, bel bel, signora
e l u∫elin el se inamora pian pian!
L u∫elin vola su la panza,
l u∫elin co piena creanza!
L u∫elin vola su le spale,
l u∫elin bateva le ale!
L u∫elin vola su le ganbe,
l u∫elin ∫larghéva le stanghe!
RIT:
RIT:
L u∫elin vola sora l pèto
l u∫elin con pieno rispeto!
L u∫elin vola su i ginochi,
l u∫elin tirava li ochi!
RIT:
RIT:
L u∫elin vola su le tete,
l u∫elin fa∫éa careze!
L u∫elin vola su l boscheto,
l u∫elin voléa andar rento!
RIT: pian pian, oi oi, bel bel, signora;
l u∫elin l é curt ancora pian pian!
RIT:
10
RIT:
Archivio GLS Belumat; informatore Toni Battistella.
107
055
SI PO∫ Ò
Ò 11 - Garibaldi, RS, Brasile, 1999
057
Si po∫ò sopra la testa
l ucelino tuto in festa
l era lì che l voleva volare
l ucelino de la comare;
QUEL UCELIN PARAPIN PANPAN13 - Possagno, TV, 1998
prosegue poi, consuetamente con le altre strofe inizianti col fatidico si po∫ò:
Quel ucelin
parapim pampin
che avevo in man
parapam pampan
lu l é volà, lu l é volà
lu l é volato sopra le spale
quel ucelino batea le ale.
Quel ucelin
parapim pampin
che avevo in man
parapam pampan
lu l é volà, lu l é volà
lu l é volato su per la via
quel ucelino se ne andò via.
sora le spale
sopra l pèto
su la panza
sopra il piede
sopra una gamba
Quel ucelin
parapim pampin
che avevo in man
parapam pampan
lu l é volà, lu l é volà
lu l é volato sopra la testa
quel ucelino faceva festa.
Finale:
Quel ucelin
parapim pampin
che avevo in man
parapam pampan
lu l é volà e mai più tornà.
batéa le ale;
si lèca l bèco;
ma co creanza;
là si siede;
balava la samba.
Strofa finale:
La padrona tuta contenta
e lo prende tra le sue mani
e lo mete ne la gabiòla
l ucelino si consola!
056
EL GUSTO DE LA SIGNORA12 - area veronese
L è volato, l è volato su la testa larinbonbon
larinbonbon
quel u∫elin faceva festa
sente l gusto de la signora
larinbonbon
e un pò più in giù, e un pò più in giù voleva ndar!
L è volato su le spale
batéva l ale…
L è volato sora l pèto
senza rispèto…
L è volato su la pansa sensa creansa…
bateva i oci…
L è volato su i ∫enoci
L è volato: su i galoni batéa i coioni…
L è volato su l dedrìo fa∫ea pio pio…
(le ultime due… e un pò più su,e un pò più su, voleva ndar)
Strofa finale
L è volato, l è volato su la figa
larinbombon
quel ucelin senza fadiga
larinbonbon
sente l gusto de la signora
larinbonbon
e dentro e fora e dentro e fora l se ne va!
058
QUEL UCELIN14 (noto anche con l’altro titolo di SE L AVÉSI IN MAN) - Primiero, TN
Quel ucelin, se l avési in man,
se l avesi in man
quel ucelin farìa volar.
Faria volare sopra la testa,
faceva festa,
lerì lerà,
faceva festa,
lerì lerà;
faria volare sopra la testa,
faceva festa,
lerì lerà
quel ucelin frin frin.
Faria volare sopra le spale,
batéa le ale…,
Faria volare sopra il mio peto;
batteva il bèco…
Faria volare sopra il ginochio;
strizava l ochio…
Tacuinum Sanitatis (Parigi c. 100v)
Faria volare su la caréga;
l é lì che l frega…
COITO
Natura: è l’unione dei due al fine di immettere lo sperma.
Migliore: quello che dura finché non sia stato emesso…
Giovamento: alla conservazione della specie.
Danno: per coloro che hanno aneliti freddi e secchi.
Rimozione del danno: con cibi che producono sperma.
13
11
AGSB, CDE Soraimar, Spunta l sole, SRM 0194/04; canta Valmor Marasca.
12
AGSB (registrazione dal vivo Convegno Soraimar 2002, canta Grazia de Marchi).
108
Cfr. Posagnot, 64, c. 41, inf. Pierina Pastega.
Cfr. Manuela Corona, Tornon a cantar, 182 . Una versione molto simile nel testo è presente, in Piemonte,
059 a Rueglio, * (Archivio Vigliermo, 1972).
14
109
Nel medesimo contesto è stata raccolta anche la versione intitolata
L ANGUILÉTA E L ANGUILÓN
vàrdate da tut quel che ∫brisa
e da tut quel che pisa
L UCELIN SOPRA LA TESTA
L ucelin sopra l boschetto - leralà
l ucelino à aperto l bèco - leralà
ma un pò più in giù doveva andare
per dar gusto a la comare!
060
L UCELINO DE LA COMARE15 - Rovigno, Istria, 2004
Si po∫ò sopra la testa
l ucelino vestito da festa
era lì che voleva volare
l ucelino de la comare
Sopra na spalla traballa, traballa;
Sopra le tete
bateva le alete;
sopra il pèto
senza rispeto;
sopra un piede più non ci vede;
sopra la cosia s ingrosa, s ingrosa;
sopra la panza incomincia la danza;
sopra la fica
faceva fatica;
Strofa finale:
La comare, una dona ardita,
se lo pre∫e con le dita
e lo mi∫e ne la guardiola,
l ucelino si consola!
La metafora dell’anguilla è parimenti efficace e utilizzata da tempo. Eccola nel
testo di una canzone da battello del XVIII secolo16.
Un anguileta fresca
ve porto sta matina
a vu mia cara Nina
che la ve pia∫erà.
La g ò ciapada viva
dentro la mia peschiera
e viva come l era
ve l ò portada qua.
Se volé conservarla,
sta anguila sempre fresca,
e che nesun la pesca
ma ben altro che vu.
Metela presto in acqua,
che subito è contenta,
basta che vu sté atenta
quando se leva su.
RIT:
RIT:
Tegnila streta cara Nineta
che se la s arìsa ve scaperà.
Se mai se la movese
lasé pur che se mova,
lo fa sol per far prova,
scamparne da le man.
Non dubité mia cara,
de sta bela anguileta
basta tenirla streta
senza de farghe mal.
Quando saré po stufa,
de vederla là dentro,
ciapela in quel momento
vu con le vostre man.
Tochela po bel belo,
che l é delicatina,
vu sola cara Nina
e andeghe drio pian pian.
RIT:
RIT:
Adeso ve la dono
la mia anguileta amata,
che la ve sarà grata,
quando la tocheré.
15
Coniugi in attesa di un aiuto divino, miniatura tardo medievale
110
AGSB, SRM 0234/04. Occorre sottolineare come questa versione istriana e triestina sia analoga, per
melodia e struttura, a quella dianzi vista, cantata in Brasile da Valmor Marasca. Il testo è poco dissimile.
16
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello, Miscellanea, I-Vnm It., Cl. IV 90 (88v-89r) [516-517]
(S, bc, Mi bemolle), qui da me adattata, dal senso erotico molto esplicito.
111
EL GELSOMIN - Rovigno, Istria
L ANGUILÓN17
061
Lezione del Canzoniere Vicentino VI
Lezione del Canzoniere del Progno VR
Una matina andando a la mesa
col truilalèro col truilalà
oilà, ciàpelo in man
ndando a mesa par dir le orasión
sempre alégri e mai pasion
La domenica andando a la Mesa
col tralalèro col tralailà
olì oilà
mi di∫éa le me orasión
sempre alegri e mai pasion,
olì oilà.
Incontrai na bèla putèla
e la portai dentro un portón.
Le ∫gnacài le còtole in testa
e le parài su l anguilón.
Salta fora na bela putela
l ò postà de drio a un portón.
E da lì pasò na vecéta
e la me di∫e ca so un porcón.
G ò butà le còtole in testa,
g ò parà su l anguilón.
Anca mi quando gèro putèla
gh in ciapàvo dei bei bocón.
Salta fora na bruta veciota
‘cosa fèo sporcación’.
Mentra deso ca son veciarèla
me contento de un scatarón.
Anca mi quand ero butèla
me cucava i me boni bocón.
La morale l è sempre quela:
dentro e fora co l anguilón.
Ma adeso che son veciòta
me acontento de don Simón.
EL GELSOMIN
Il gelsomino è, da vecchia data, il ricorrente nome floreale di Lui e lo si può
verificare in molti altri testi dei canti di questo libro. L’esempio successivo è
quello di una canzonetta del primo Novecento entrata, chissà come, nel repertorio istriano di Rovigno18.
17
Cfr. Placida Staro, Il canto delle donne antiche, 258, Anderem a la fera d San Làzer, portata al successo
nazionale dal cantautore Guccini ma esistono versioni in tutta l’Italia settentrionale. In Piemonte, cfr.
Vigliermo, 210 (El pelegrin 2° versione). A Trieste è simile la nota Andando zò pa l Corso.
18
Il brano appartiene al vasto repertorio del cafè chantand della prima metà del Novecento (anni ventitrenta). In alcuni casi, come questo, la canzonetta entra poi nel repertorio popolare. Informatore, Vlado
063 Benussi. Il pezzo è cantato da amici rovignesi * (AGSB, SRM 0234/03). Ciò vale anche per l’altra, canzone
062 attinenete, che ha come protagonista un giardiniere più che solerte * (Toni Pastrovicchio, TS 1975, Arc.
Rauber GP). La metafora dei due ‘vasi’, pure spregiudicata, è significativa.
19
Cfr. Caliari, 175.
112
01
02
Per capriccio una mondana,
disse: io do tutto il mio cuor,
a chi nella settimana
mi pre∫enta il più bel fior!
Lui che aveva ereditato
solamente un gelsomin,
volle fare il candidato
rassegnandosi al destin,
e lui disse così:
Lei per mettere il gran fiore,
due bei va∫i preparò
e pensò, qual sia il migliore,
da se stesso sceglier può,
ma vedendolo venire
con quel tenue fiorellin,
disse: è cosa d’ammattire,
come mai così piccin!
Ma lui disse co∫ì:
RITORNELLO:
CORO
Non è ver
che l’amor
preferisca il grande fior,
vale ancor
quel piccin
come a dire il gelsomin
Non è ver
che l’amor
il grande fior
vale ancor
quel piccin
il gelsomin!
CORO, INSIEME, A BITINADA
Tutto sta nel saper
far con garbo il cavalier,
darlo sì, ma convien,
soprattutto darlo ben!
RIT:
03
Mise il gambo fino in fondo
nei due va∫i il birichin,
e nel primo e nel secondo
si reggeva il gelsomin,
che le stava così adatto
per parecchie volte ancor
fino a renderlo disfatto
le piazzò quel picciol fior…
E poi dissero insiem:
RIT:
Il tema del piccolo ma gentile ed efficace
è comunque noto in precedenza come
attesta anche questa villotta del secolo
precedente in cui tornano ricorrenti, e
non casualmente, il gelsomino e la rosa19.
Non desprezarme se son picolino,
son picolino ma pieno d amore;
se no te l credi varda l giàlsemino
che l é picolin sì, ma pien de udore;
se no te l credi, guarda là le stele,
j è picoline ma grazio∫e e bele;
se no te l credi, guarda qua sta ro∫a:
l é picolina ma bela e grazio∫a!
Falsa Religione, xilografia seicentesca CR
113
COIONI CHI CHE RESTA FORA
casso, longon brasso
co n cojon che pe∫a na lira,
cosa falo l casso se la mona no tira?
SU ALCUNI SOPRANNOMI DI LEI
la stadiera, la bilancia a braccio
Anche i testicoli trovano la loro bella nomenclatura. Così lo scroto è il sachét
(piccolo sacco), la borsa de le àneme (la borsa della questua per i morti). Per la
forma delle due ghiandole, chi le reputa tondeggianti prende spunto da palla per
definirle bale, balote, balói, balonère ma anche maróni 1(marroni).
Chi interpreta la foggia più elittica è ispirato dall’uovo da cui ovi, ùvi, vovi2.
Per identificare la struttura pendula si usa peri (pere), picàndoi, ma anche i sonai
(i sonagli) o tòtani. Un discorso particolare merita la denominazione i dó de
agosto, storpiatura della frase francese les deux a la gouche con allusione, pare,
alla positura imposta ai militari dell’esercito napoleonico.
Siccome i Nostri assistono alla penetrazione senza accedere al ‘paradiso’ sono
anche chiamati i testimoni, ma, più beffardamente, quei che no i é invitadi a l bal,
quei che resta fora de la porta, quei che varda, ossia che non sanno farsi valere.
In questo senso dare del cojon a uno, vale a dirgli stupido, inetto3.
Cojonar, ciór o menar par i cojóni significa di conseguenza sberleffare, berteggiare4.
Avérghene pieni i cojóni significa invece non poterne proprio più.
Normalmente si dicono anche cojóni, coiómbari, cordóni (che sono storpiature
mascheranti); anche i zebedei, i co∫ideti, i santìsimi, i bardanai. Se si hanno cusì,
indicando col gesto cose grosse, oppure quadrati, o se se à le bale, si è forti e senza
paura. Data la loro proverbiale delicatezza vanno comunque tenuti da conto
evitando di farseli romper: romper i cojóni vuol dire, evidentemente, infastidire.
Il loro fondamentale contributo alla virilità è comunque riconosciuto, come
confermano le successive villotte friulane.
Benedetis ches dos bàlis
ta l sacùt a pendolón!
Benedèt sedi chèl mani
dur e drèt come un bastón!
Benedette queste due palle
che stanno a penzoloni nel sacchetto!
Benedetto sia quel gambo
duro e dritto come un bastone!
O ài pesadis dos balotis
ben sieradis t un fagòt;
j j ài misurat il mani
dur e drèt come un picòt.OSA 34
Ho pesato le due palle
ben rinchiuse nel fagotto;
gli ho misurato il manico
duro e dritto come un picco.
1
Frottola: Qual élo l color che pì ghe pias a le fémene? – al marón; ma no ciaro; e gnanca scuro; èco, fra i do maróni!
Dagli italiani do Brasil: Un prete rimproverò dal pulpito un anziano che in chiesa, invece di stare dalla parte
degli uomini, si dislocava sempre nel gruppo delle donne; al che il vecchio gli rispose: «no semo forse fati de la
stesa pasta? Sì - disse il parroco - ma pasta co i ovi da sta banda e pasta senza ovi da st altra!».
3
Nelle sfottiture tra militari si parla del sior coionèlo (per colonnello), giocando sulla pronuncia quasi elisa
della elle veneziana. Altro esempio nel canto: «el prode coionelo cade da cavalo e si rùpero l malèolo!».
4
Giocando alle carte si canzona l’avversario soccombente ricordandogli che «chi perde no cojona!
2
114
de la sardèla l odor;
del mar el savor;
la bava del s’cio∫o,
el pelo del lovo1
Tra i più significativi sinonimi della nostra Lei sono certamente la Signora o la
Paróna come scandisce l’indovinello del chiavistello: al parón e la paróna, tuta
not i se tacóna; la paróna se lamenta che l parón l à poca pénta (spinta) ma lu giura
e ghe spergiura che l ghe à dat la so me∫ura. Questi termini sottolineano subito il
rispetto dovuto a chi detiene potere; tuttavia l’appellativo più noto, in tutta
Italia, si rifà al suo aspetto socchiuso, che ricorda più che vagamente una sezione
di piccolo fico, e non solo nella forma ma anche nel colore della polpa ossia
dell’incarnato. Padre Dante stesso, nella sua Divina Commedia, mostra le fiche
compiendo quello stesso gesto di scherno raffigurato oggi nel più piccolo e noto
monile portafortuna brasiliano2. Nelle Venezie, con i termini di bel fighin o di
bèla fighéta, i valutatori maschi possono andare a riassumere genericamente i
concetti di graziosità, freschezza e gioventù delle ragazze di aspetto esile; con
bèla figa si intende una ragazza ben matura, già maritata o presunta tale, donna
che, se particolarmente dotata fisicamente in tete e cul (la ben nota dota del
Friul)3, può essere considerata, e molto rispettosamente, un gran figón. Nello
stesso senso si usa la metafora del fico come nel caso del canto veronese se te vol
che te incalma el figàro (se vuoi che ti innesti il ‘ficaio’)4.
In tutte le citazioni appena fatte non esiste, nei commentatori nostrani, alcuna
intenzione volgare come invece capita con l’uso di figasa o figaza ad indicare una
donnona assai poco elegante o dalla dubbia moralità. Sempre al medesimo
aspetto fa probabile riferimento l’altro termine di perùsola ad intendere
analogamente la forma di piccola pera (vista in sezione) ma anche il piccolo
uccelletto (Parus Maior), la cìncera, la cìncia, cinciallegra, con un ‘allegra’ molto
pertinente, da relazionare al generico o∫èl con cui si riconosce l’altro sesso.
1
Sempre dal mondo marino esce un altro sinonimo della Lei. In un canto campagnolo del XIV sec., una
donna ne parla paragonandola ad una conchiglia, un nicchio (Mytilus). Il brano è stato trattato da Giosuè
Carducci in Cantilene, 63-64. «Questo mio nicchio, se io no ‘l picchio, / L’animo mio non mi lassa stare. / Questo
mio nicchio vorrebb’uno, / Molto si guarda dal digiuno, / Per lo star diventa bruno: / Jo lo ‘ntendo adoperare.
/ Questo mio nicchio, egli è si fatto; / è non è si folle e matto , / Che chi v’entra e vol far patto / li pegno vi dee
lassare. / Questo mio nicchio, egli è ritroso ,/ Intorno intorno egli è piloso, / Per il diavol quant’ è cruccioso, /
Madre mia, non indugiare. / De li minori ci è di noi / Che hanno marito e figliuoli, / Ed io lassa guardo i buoi:/
Che si possin scorticare. / Questo mio nicchio, se io no ‘l picchio, / L’animo mio non mi lassa stare».
2
Le manine col gesto delle fiche sono comunissime, realizzate in ogni genere di materiale, dal metallo
prezioso alla pietra dura, utilizzate come pendagli portachiavi o abbinate a bracciali e collane.
3
Anche: «tete grose, mona, cul: la dota del Friùl» (comune ancor oggi).
064 4 Gruppo spontaneo di Porcino (VR) * , sull’aria del noto Fazzolettino: «Se te vol che te incalma l figàro (3v)
/ ∫ó le braghe e ∫morsa l ciaro / che l figàro l è bèle incalmà.(2v) / C è chi dice l amor non è bello (3v) / certo
quello l amor non sa far (2v)».
115
Tra le denominazioni ispirate ai pesci troviamo brùsola, pesce triotto (Leuciscus
aula) ma, soprattutto, pàsera o paserina, che prende spunto dalla somigliante forma
del pesce (Plathichtys flesus italicus, Passera) più che avere attinenza con l’altro
piccolo volatile (Passer domesticus Italiae, Passero) che comunque viene coinvolto
(nell’accezione femminile) in una nota canzone da battello del ’7005.
Sempre a un volatile, ma leggero e leggiadro, fa riferimento il termine parpaiola,
corrispondente al farfallina dell’italiano intesa nel medesimo senso, spesso
ricorrente nei canti popolari.
L’epìteto mona, con cui nelle Venezie si individua comunemente la Signora, sembra
aver a che fare con la peluria esterna valendo l’ipotesi di una acquisizione del termine
dallo spagnolo, nel suo significato di scimmia6. Gran bèla mona, un bel toco de mona
sono commenti complimentosi e delicati (soft) ossia virtuali.
Di significato offensivo è invece la frase va in mona de to mare, il cui senso
dispregiativo non credo richieda spiegazioni, o la dà via la mona che indica facilità
di costumi da parte della ‘donatrice d’organo’.
La frase generica va in mona corrisponde semplicemente ad un ‘va al diavolo’, detto
con modesta cattiveria. Tutt’altro senso hanno le frasi in cui il termine mona è usato
al maschile (te sé n mona, no sta far al mona) dove vale per sciocco, stupidotto,
dappoco. Il proverbio che dice l é ben sempre aver zinque schei de mona in scarsèla,
sollecita l’attenzione sulla necessità di trattenersi un qualcosa, un poco per sicurezza,
di scorta in ogni caso. Comuni sono anche le esclamazioni na bela mona! come
reazione ad una affermazione d’altri non condivisa; eh, la mona! per perbacco,
ohibò, che supera in simpatia ed intensità. Il termine mona, nelle Venezie, sembra
aver surclassato l’antico ed abusato pota, potifa7 in voga coi medesimi criteri fino
all’Ottocento. Si usa anche indicarla come el liogo de nàsita, o el pae∫e dove son nato8.
Per indicare la nostra Lei, riferendosi alla peluria pubica, è secolare l’uso di Val
pelo∫a (più volgare la pelo∫a) citato in letteratura e in stampine, fran∫a (frangia),
gata mora (gatta scura), solva (talpa), pantegana9, ma, soprattutto, la peliza (la
pelliccia), termine usato in modo assai vario. Tra gli indovinelli, sono arcinoti i
seguenti: la pelìza che ò davanti, la ghe pia∫e a tuti quanti; grande gusto xé andar
5
Vedi testo e nota su La mia cara passarina a pagina 116.
Con le parole «Salve, mona!» inizia anche il trattato intitolato Ragionamento della Nanna e della Antonia
(fatto in Roma sotto una ficaia, composto dal Divino Aretino per suo capriccio a correzione dei tre stati delle
donne), scritto attorno al 1534 (I Classici, Mondatori Ed., Milano, 1993). Mona è uno scimmiotto grande
circa quanto un gatto e dalla lunga coda. Mona nel senso sessuale si usa sicuramente dal Cinquecento.
7
Il termine vieno fatto risalire, dal Boerio (Dizionario del dialetto veneziano) all’Ebraico Poth.
8
I detti, molto comuni, sono stati il probabile spunto della canzonetta nota come Una sera di carnevale,
raccolta da Amerigo Vigliermo nel Canavese (Rueglio, TO, 1972) dove, nello scorrere una ‘speciale’ carta
065 geografica, ovvero il corpo della donna, ben si individua scherzosamente la patria natia *: «Una sera di
carnevale / vidi una donna originale / che disegnata, su una vestaglia / aveva una grande carta d’Italia / ed
io per curio∫ità / guardai a monti pae∫i e città / ed alla fine, che fortunato, / vidi l pae∫e dove son nato».
9
Equivalente alla romanesca sorca (da sorcio). Col titolo de La partigana, a Rovigno in Istria (oggi Croazia),
si canta una divertente bitinada da osteria sull’aria de Sul pajón (che si vedrà più avanti). In Corso, 231, tra
6
116
rento; se vien fora co scontento! Il secondo dice: la pelo∫a la ò davanti; ghe la
mostro a tuti quanti; carne umana ghe n é dentro… e che gusto che ghe sento!10
La soluzione ufficiale indica i manicotti di pelo (solitamente di pelle di coniglio
rovesciata) che le donne usavano un tempo per scaldarsi le mani magari
applicandoli alle manopole del manubrio della bicicletta, primo mezzo di
spostamento meccanico agli albori dell’era industriale.
Un altro recita: péi de qua, péi de là; pei in cani∫èla… quanti péi g à tua sorela?11
La risposta, questa volta è la coperta da letto.
La barbéta o barbeta de caora (barbetta caprina) è un altro sinonimo la cui
immagine è ripresa anche nell’indovinello na man sul mànego e una su la
barbéta… bati bati e tienla streta! (la gramolatura della canapa).
L’aspetto esterno suggerisce poi una serie di termini come sfe∫a, fésa (fessa,
fessura). In merito si ricorda l’altro indovinello: la mare badésa la met la man in
te la fésa; la ciol le balòte in man e la fa le robe da bon cristian (la suora che recita
il rosario). Comune anche à∫ola (asola) e strìs (striscio) o riga12; comunissimo è
taio13, tagio (taglio) usato anche tra donne ad indicare il diritto a pari
opportunità: semo nate tute co l steso tajo.
A proposito di questo detto è nota la novella secondo cui, incaricato di procurare
la ‘fessura’ alle donne era San Pietro14: «sicome el tajava da soto co la stesa manèra
e a tute el ghe petava co la stesa forsa, a le pìcole ghe restava la inpronta più fonda
e larga de quele che g aveva le gambe longhe» BLM 1998.
Conferma della leggenda popolare viene dall’altro detto femminile
ottocentesco: «la ∫é cascada su la manèra come che semo tute15».
le villotte friulane, si parla della surìs, anche se nel caso si può intendere anche altrimenti: «Su chèl jet furnit
di ro∫is, / l é un durmì dal paradis; / e tal mièz jè une bu∫ute / tant che pase la surìs» (su quel letto di rose, è
un dormire del paradiso; e in mezzo c’è una buchetta, dove passa il sorcetto). Così pure nell’altra villotta
veneta la cui raccolta è attribuita al Balladoro per il Veronese: «La me moro∫a cara, cara, cara, / e che ghe vuto far de la ratara? / Mi la ratara la tegno con quel pato, / se me marido ghe molo dentro un rato».
10
Cfr. Babudri, 70, 345 per uno simile. L’autore riporta quindi l’altra variante (346): «mi g ò una roba tuta
pelo∫a / e tuti trova un gran contento / a ficarghe le man drento».
11
Ibidem, 73, 375. Si noti come to sorela (tua sorella) sia un altro sinonimo della Lei, analogamente a quanto
visto per Lui (me fradel). Inoltre, per la spartizione del pelo pubico, altro sinonimo è spartida o spartidora.
12
Come capita nei versi della villotta: «Ela dis che l à n bel stris / quatro pei che sa da pis…» (cfr. Posagnot,
421); anche riga sia nel senso di ‘segno’ che come mitigazione di ‘figa’ (cfr. l’esempio sonoro tratto dal brano
066 Tu∫é muié giunòtti * , del gruppo Voci di confine di Voghera, CD Il finestrello, 18 (Arc. Paolo Rolandi, 2003):
«E tira la riga, / la riga la é longa / o che bela bionda / inamorar mi fa».
13
Testo di una mia canzone a doppio senso, intitolata Taio, del repertorio dei Belumat (Secco-Fornasier, 1993):
«Chi la vol tènera, chi la vol rosa, / chi la vol ro∫a e chi sugó∫a; / chi n pò nervó∫a, chi grasa e lisa, / chi
magretina, chi soda e fisa; / ognun la vol a pròpio ajo, / parché quel gusto, ghe vien da l tàio! / Ritornello: Oh
bèl cicin, tut da magnar, / che à mile modi de contentar; / che fa felizi la boca e l òcio / da cruda a calda, da
suta, in tòcio! / Altre strofe: Na volta l era difficoltà / aver cicin in quantità; / e par saiàrghene qualche bocón,
/ solo le noze, le féa funzión / tant che la spo∫a, a fin dornada, / se la catéa zà consumada; Ritornello: A l dì
de ncói, ghe n é bastanza, / ma l abondanza, la fà ignoranza; / tant che ghe n é quei che la buta, / che i fà i
diversi e i la rifiuta / mentre noialtri, che avón pasión, / pì cambia l taio, pì se godón!».
14
Similare anche in Corso.
15
Cfr. Ninni, II,184, 310. In Mazzucchi, 138, la variante: «San Piero el g à tagià i culi tuti sul steso toliero».
117
In riferimento alla cavità sono in uso bu∫a, bu∫eta, bu∫ànega storpiatura di buca
ribadito dal modo di dire l é la bu∫ànega na roba miranda: pì se la dòpera e pì la vien
granda (con allusione al cedimento muscolare dovuto al presunto abuso d’esercizio);
anche la preziosa mu∫ina (il salvadanaio), la campanèla16 (la campanella), la zestèla
(il cestello), la borsa o la borseta (la borsa) e persino la scarsèla, la tasca, con
riferimento a quella che le donne tenevano, per maggior sicurezza, nella parte
interna del grembiale e che dava adito al famoso indovinello: l ò qua e no l ò persa;
la ò sot la traversa; la panza no la toca; l é diversa da la boca!17
067
La fessura dell’ago, cioè la cruna, e la gu∫èla, l’ago stesso (lo si immagini visto di
fronte con la punta in alto), sono sinonimo frequente della Lei:
Biel cu∫int un intimeleAAR 39,16
m inpensai di chel banbin…
mi tremave la gu∫ele
m ∫balciave l curi∫in
Molto usato anche cìchera, chichera (chicchera), quasi sempre per sottolinearne
la fragilità e quindi la facilità di rottura, come peraltro già visto in altri canti.
LA BORSETA (LE RAGASE MIEI SIGNORI)18 - Faedo, VI, 2003
069
Le ragase miei signori
CORO: parapunsi-punsi-pà *
aman tanto i caciatori
CORO: parapunsi-punsi-pà *
vanno in cerca proprio quelli
che si intendono di ucelli;
dàghela ben biondina,
dàghela ben biondà!
La bestiola era ancor viva,
la ragazza ne sofriva;
la po∫ò in una nidiata
di piumete ben ornata!
E co∫ì la bela Tina,
incontrò l altra matina,
il signor Domenichini
ben fornito di palini.
CORO:*
CORO:*
L ucelin, a quel tepore,
diventò di buon umore
e cantò con gran pasione
una magica cansone!
CORO:*
CORO:*
CORO:*
CORO:*
RIT:
E la morale è ancor quella:
state atente o ragazine,
state atente a i caciatori
che senò saran dolori!
RIT:
Regalò a la bela Tina
una strana selvagina;
la ragaza in tuta fretta
la ficò ne la borsetta!
CORO:*
CORO:*
RIT:
RIT: IL CORO RIPETE L’ULTIMA QUARTINA
CORO:*
CORO:*
RIT:
RIT:
068
Nel cucire una federa
mi venne in mente quel bambinello (Lui)…
mi tremava tutta Lei
e mi balzava il cuore in petto
16
Come nel canto Chi g à roto la canpanèla * (Gruppo spontaneo di Vila Maria, Serafina Correa, Rio Grande
do Sul, 1997), AGSB, BLM 0044/5.
17
Simile anche in Carone, 196. In Babudri (72,372) c’è questa versione: «chi più larga, chi più streta; / chi
più sporca, chi più neta; / chi più longa, chi più curta / tute quante la gavémo».
18
AGSB, BLM 0500; cantano le Canterine di Faedo (VI).
19
Ad ogni strofa segue il ritornello: «Sei bela, sei cara, però non piangere, però non piangere; / sei bela, sei
cara, però non piangere, non sospirar». Il brano ci è stato cantato da Manuela Corona. Anche in Starec,
Canzoniere Triestino, 189 e 540, c.61: «La Gigia la ∫é pìcola / ghe faremo le zòcole / ghe ∫longheremo le còtole
/ per farla comparir». In Bovo, 213, n. 228: «Dimi chi ti à roto / il bichiere, la tasa, la chichera / l è tropo
picola, / l è tropo picola…». Nel Bellunese «E dìmelo, dìmelo, dìmelo / e chi te à roto la chìchera, / e tu sei
tropo pìcola /per fare l amore con me! (AGSB, BLM0500).
20
È la spina che serve a prelevare il vino dalla botte.
118
LA CHÌCHERA19 - Primiero, TN, 2004
E dìmi chi te l à rota
l bichiere, la taza e la chìchera
e tu sei tropo pìcola
per fare l amore con me.
Ti alungheren le còtole
e i tachi soto a i pié;
diventerai più grande
per fare l amore con me!
Eviva l cul de le pàsere
e quando la mama non c è,
e tu sei tropo pìcola
per fare l amore con me!
La capacità ricettiva è valorizzata ancora da altri termini: si va da barca,
comunissimo nelle zone rivierasche, a tamai (trappola), a tana, coca (per chioccia,
tiepido ricovero per pulcini), a magazin, cànevona (cantinona); concetto che diventa
superbamente indicativo sotto la forma di fóntego de le delìsie (fondaco delle delizie)
e di bote∫ela (botticella) rammentata nell’indovinello: come a l u∫anza, do bas de la
panza, ò n pìndol dentro, che l fa spavento20.
D’uso recente, molto popolare specie nei canti, la bicicleta, come ricorda la
filastrocca: te racomando, cara Gigeta, / de no inprestare la bicicleta. / Se capitase
che i la domande / tiéntela streta tra le tue gambe / che tra manubrio, fren e feral /
là su l davanti stà l capital!21
Il concetto si esalta maggiormente quando il luogo d’asilo è quello tipico degli
uccelli come nel caso di nio, gnaro, nit, nido e soprattutto di gabbia ossia chèba,
gaviòla, gàbia22, metafora ritenuta più consona a significare il potere di detenere,
di imprigionare: la me moro∫a ∫é da Montebelo; la jò la gheba e no la jò l u∫èlo23 (la
mia ragazza è da Montebello; lei ha la gabbia ma non ha l’uccello).
21
Da me raccolto tra le Filandere di Arcade (2002) ma presente con piccole variazioni anche in Coltro, Cante
e cantari, 490-491: «Ti raccomando cara Antonietta / ti raccomando la bicicletta / che a nessuno la devi dare. /
Se qualcuno te la domanda / tu gli devi dir di no. / In tra el freno e el pedal / el manubrio e l fanal / el davanti
l è quel che val!». Sulla ‘bicicletta’, vedi, più avanti, anche i canti El marinèr e Via Vercelli.
22
Anche in Friuli, Robrto Starec ha raccolto una villotta sull’argomento (voci maschili, Cormons, GO,
070 1954), * :«Tu, tu às la s’ciaipulute / e iò iài el u∫ilùt. / Dàmi a mi la s’ciaipulute, / che meti dentri el u∫ilùt»
(Tu hai la gabbietta / e io ho l’uccellino. / Dammi la gabbietta / che vi metto dentro l’uccellino).
23
Cfr. Starec, I canti della tradizione italiana in Istria, 81.
119
Questa villotta, dalle molte varianti, predispone alle successive caratterizzazioni
dell’ambita gabbietta, che potrà risultare ora nuova e preziosa, d’oro o d’argento,
ora rotta o scassata o d’aggiustare. Sul tema se ne vedranno delle belle.
Sempre attinente al tema dell’uccellagione è il soprannome di rochèl, da ròcol(o),
di intenzione dispregiativa essendo il roccolo un ricettacolo di ‘massa’ per la
caccia ai piccoli volatili. D’altronde, lo dice anche il proverbio: a le fémene ghe
pia∫e i o∫èi bragariòi (alle donne piacciono gli uccelli da pantaloni).
Termini usatissimi sono anche quelli legati all’ambiente umido: si passa dalla
palude, la palù, alla pozza, la po∫a, a la conca, alla fontanéta, fontanella, per arrivare
ad epiteti di minor finezza come la ∫brodolóna, la spandesóna, la spandiéra (da
sbrodolare, spandere), la pocióna, la pacèca (la fangosa), la moióna, la moiasa.
In ragione della focosità metaforica del sito, ma anche del tepore naturale24, si
generano i termini di valcalda (valle calda) equivalente, nel senso, agli altri
sinonimi tipo la stuéta (la stufetta), el fornèl (il fornello), che hanno come
superlativo sessuale la bronzèra (il braciere). Sempre al concetto di calore
riconducono la cógoma (la caffettiera), la caldiera25 (la caldaia o paiolo), la pignàta
(pignatta) e la farsóra (padella da frittura, la frixoria), quest’ultima pure adatta ad
accogliere e cuocere i maróni, bisognose entrambe di essere taconade, ovvero
rattoppate, con frequenza, risultando all’apparenza fragili e spesso rotte dal mal
uso od abuso, come si consta nelle varie canzoni su magnani, bandéta e parolòti.
Tutti i visti soprannomi lasciano immaginare un qualcosa di sensualmente ardente
che richiama il ninferno della già vista novella boccaccesca. Il massimo del concetto
pare essere la denominazione di Santa Barbara, notoriamente termine con cui si
identifica il luogo in cui si conservano esplosivi o polveri da sparo.
Una Lei così potenzialmente scoppiettante e impetuosa è l’antitesi della
descrizione che se ne fa raggiunta l’età ‘pensionabile’, dopo la quale si trasforma
in cimitero de i arditi!
Non solo dalla amorosa fama nella storia di Francia arriva l’epiteto Madan
Pompadur, ma principalmente dalle parole pompa-dur (pompa duro) di più
volgare interpretazione. I canti con questa ‘madama’ sono vivaci nel triestino26.
Di individuazione più volgare sono i termini patanfrana, pataca, patàfia o s’ciòna.
Tra i termini ispirati alla gastronomia si trova màndola (riferita alla forma).
071
LA MÀNDOLA27 - Sissano d’Istria, 1998
La j ò le mudande a ∫véntola
per rinfrescare la màndola
La bela mora Jole
la va su i canpi a lavorar
Ta∫i sta sito, che mi te la darò:
te magnerò la dota e poi te laserò!
La j ò le mudande a ∫véntola
per rinfrescare la màndola
La bela mora Jole
la va su i canpi a lavorar
Preti e frati g à meso su n ca∫in
i magna i beve e i ciava e noi li mantegnin!
Relativamente recente è il soprannome patata, patatina (particolarmente in auge
dagli anni Quaranta in poi28, tanto che il termine viene oggi utilizzato in modo
equivoco persino nella pubblicità in TV). Di più antica fama sono invece i nomi
fraga, fraja (fragola, riferita al colore intimo), e castagneta o castagnola (castagna,
riferita a forma e aspetto), specie in Friuli, dove ricorre in molte villotte del tipo:
Se ti pice la chiestine,
e tu fàtile rusà;
Se no tu as il gràti in chia∫e
va dal fari a fàtal fa.
Se ti prude la castagna,
tu fattela grattare;
se non hai la grattugia in casa,
va dal fabbro e fattela fare.
Lis fantatis di covenci
àn il mal dal sivilòt;
Lòr si gràtin la chiestine
dos tre voltis t une gnot.OSA 11
Le ragazze di qui attorno
hanno il male dello zufolotto;
loro si grattano la castagna
due, tre volte per notte.
Quand c a pice la chiestine,
cémud mai si puèdial fa?
O si scuèn rusase solis,
o pur fàsale gratà.
Quando prude la castagna
cosa mai ci si può fare?
O ci si arrangia a grattarsi da soli
o ce la si fa grattare!
Lis fantatis di culenci
e àn l àbit di scarlàt;
lor si gràtin la chiestine
par la gole da l fantàt.OSA 10,11
Le ragazze dei dintorni
hanno l’abito scarlatto;
loro si grattano la castagna
desiderando un bel ragazzo.
27
AGSB, BLM 0016/06, cantato da un gruppo spontaneo paesano. In grigio le precisazioni verbali.
«Io ti dare ciocolata, tu mi dare… la patata» ecco lo scambio proposto in una canzonetta postbellica
sull’aria di un noto ‘blues’, con allusione all’arrivo delle truppe americane composte anche da gente di colore
072 * (cfr. AGSB, SRM 0234/15, cantato a Rovigno da un gruppo di amici, settembre 2004).
29
Cfr. le canzoni della serie ‘cantautori’ Soraimar ‘Occasioni e tradizioni’, dei Tiratirache, Par colpa de un porzel
CDE SRM0167/03 e Andaremo a Santo Domingo, CDE SRM 0164/04. In Arboit, 184, si trova anche la
villotta: «Dug mi diz ch o sói nuvìze / e nisun mi ul spo∫à; / scuegnerai salà la frize / e po métile a secià» (tutti
dicono che son buona da matrimonio, ma nessuno mi vuol sposare: mi toccherà salare la cicciola e metterla a
seccare!). Sempre in Friuli, tra le grida matrimoniali è citata la frase «Bon l é l ucèl / mijor l é la frice…viva la
gnovìce!» cfr. Kostial 1911b, 349.
28
24
Significativa la barzelletta popolare: «Qual elo quela roba calda e umida che le fémene le à in medo a le ganbe,
che ghe pia∫e tant a i omi e che la finise par pò?… La mona pò!».
25
Cfr. Babudri, Rime e ritmi del popolo istriano, 79, n.436, l’indovinello: «La fia del muliner / la se senta sul
fogoler / La se varda fra le gambe / la se vedi robe grande / la se meti a considerar: / questo xé un bu∫o per
guadagnar».
26
Cfr. R. Starec, Canzoniere Triestino, 182: «Carneval no sta ndar via / che ndaremo in scaldatoio / bevaremo
cafè de boio, / col paneto a la Pompadur, / la dur pompà». Ancora più estesamente in Noliani, 144.
120
121
Alla carne si riferiscono invece i termini fongadina, ∫bètega (frattaglia, sfilacciatura
di carne) e ancora sisoleta, frizéta, frìzega, ciceta, cicina29 (ciccioletta – cicciolina).
Abbastanza usata anche la polastrèla (pollastrella), nota specialmente per la
quartina di una villotta, un tempo assai diffusa, il cui testo dice:
LA FRÌTOLA34 canzone ottocentesca - Vittorio Veneto
Piero mio, g ò qua sta frìtola
che te vojo regalar, a regalar.
Sastu, caro, quanti giovani
la voleva ∫gnocolar, a ∫gnocolar.
Maramieo – g ò dito sùbito
ghe la salvo a chi voi mi, a chi voi mi.
Solo a l mio vècio vòlio dàrghela
E quel vècio te sé ti, te sé ti.
LA POLASTRELA30
Soto la cotoléta trema trema
ghe stà na polastrèla che g à fame;
Se la g à fame la g à ncà ragione
de ora in ora l à spetà l bocone!
073
Interessante la variante istriana del brano * in una forma tipica detta canto a la
longa31. Il testo è il medesimo: e soto la traversa ma trema trema / ghe ∫é una
polastrela ma che jò fame (sotto il grembiale c’è una pollastrella ma che ha fame).
Usatissimo gnòca (riferita al mons veneris), brasadela (ciambellina), come nella
villotta del Balladoro: cosa me importa mi se l pan l é caro; / g ò na moro∫a, la fa
la pistóra. / La m à ben dito, se la trovo sola / che la me donerà na brasadela!
Arcinoto anche frìtola (frittella forata), da cui il detto le mègio frìtole ∫é quele che
no se magna32.
LA FRÌTOLA33 poesiola - Belluno. 1972
A mi me pias la frìtola polpo∫a e tenerela,
fra tanti golo∫ez davero la pì bèla!
Se mete te n cadin an poca de farina,
co zuchero, dói ovi, de sal na pre∫etina;
na józa de graspéta e n poc de lat se donta
fin ché la pasteléta, misiando, la gnén pronta;
Pò dopo se ghe tòcia de rento a sto cadin
i tòc de pon pelà, che l và tajà su fin,
e al fin te la farsóra se méte ste fetine,
co l struto o ben co l ojo parché le se cu∫ine.
Pa l gusto de sta roba, ve giure, gnéne mat
pur anca se le fémene, e proprio su sto fat,
le dìs, par gnént d’acordo, che ò n ché da contadin...
perché, pì che la frìtola, ghe piàs i canonzìn!
30
Cfr. Ninni, III, 85 (villotta 127); anche in Babudri e altri autori istriani.
Archivio R. Starec; le due voci femminili sono state registrate a Gallesano, nel 1983.
32
Cfr. C. Pasqualigo, Troiani. D’altra parte vi è anche il detto: «la frìtola ∫é come la dona: se no la ∫é tonda e
un poco graseta, no la ∫é bona»!
33
Tratta dal mio volume di gastronomia locale, con ricette in rima, Polenta e tòcio.
31
122
Varda ben, prima intendémose,
per aver de sto bocon, de sto bocon;
de arar drito sempre giurami,
de restarme fedelon, e fedelon.
Ma mi già te lezo l anima
ti capisco, no giurar.
Piero mio, g ò qua sta fritola,
ciapa ciò, vienla a mangiar.
Vi sono poi alcuni nomi femminili tipici come la Viola, la Dària35, la Lola, la
Marfi∫a, la Filipa (come nell’indovinello panza co panza, tripa co tripa, na man
su l mànego e una su la Filipa, sulla gramolatura di canapa e lino) e la Bernarda,
ispiratrice del detto dal nobile intento vitale: nonostante l ora tarda… viva
sempre la Bernarda! Molto usato anche Nina, Nineta, Ninine protagonista in
Veneto e non solo in Friuli di molte villotte amorose.
074
LA NININE DAL FOGOLAR36 - Refrontolo,TV, 2002
Te ricòrdestu Ninine, paraponzi ponzi pò;
te ricòrdestu Ninine, su l canton de l fogolar!
Te l ciapàvi e te l metevi, paraponzi ponzi pò;
te l ciapàvi e te l metevi senza farghe nesun mal!
Ma quel birbo de to pare, paraponzi ponzi pò;
ma quel birbo de to pare, che no l va mai a dormir!
Ghe darén la strachenina, paraponzi ponzi pò;
ghe darén la strachenina, parché l dorme not e dì!
E co sto fior de la me Ninine, paraponzi ponzi pò;
co sto fior de la me Ninine sempre trinn su l orinal!
34
Tratta da I canti popolari di Luigi Marson, 142.
Oltre a Viola come nome di persona, è parimenti sinonimo ‘viola’ come strumento musicale (analogo a
mandolino e chitarra) qui esemplificato nel lamento-ninna nanna di una donna malmaritata che, volendo
addormentare la figlioletta, nella dolcezza del canto esprime la contradittoria amarezza per la propria vita in
povertà, iniziata con l’errore di essersi concessa (cfr. P. Staro, Il canto delle donne antiche, 557, 257): «Fa la nana
Filumena, / ndèn a let tut senza zena / ma la to mama l à sunà la viola / dorum, dorum ragazola». La Dària è
famosa per il detto «la mona de la Dària, che co la sofia la fa aria», usata per rispondere a chi parla ‘a vanvera’.
36
È interessante l’adozione di strachenina per stricnina, ad indicare la volontà di stancare più che di stroncare.
Trinn è un suono che indica l’azione di pressione sull’orinal, altro sinonimo, in questo caso, della Lei.
El trinn ricorre pure nel ritornello di una villotta a ballo, scherzosa ma esplicita, raccolta a Polcenigo da
Nevio Stefanutti dal titolo No voi capel a pene: «... el trin e trinn co l ciribiribin col tralalarilailèra, el trinn e
trinn co l ciribiribin col tralalarilalà». È interessante anche la scherzosa frase di prologo: «Quando l mus al tira
l treno, anca i omi spo∫erò» (quando l’asino tirerà il treno, allora sposerò perfino gli uomini).
35
123
Altri nomi, stavolta di fantasia sono la be∫àbe∫a, la tìmpena, la porsèpola o persèpola,
la mòmola, la pista, la cìa, la fionda come nel detto… bionda, o bionda, te tìrela la
fionda? In Friuli anche la bebèce, come nella villottaCRS,230
Ti ricuàrdistu, ninine,
in che dì donge il porton?
Jò tochiavi la bebèce,
tu la man ta l patelón.
MUSICA PER ORGANO…
Tra gli strumenti musicali si annoverano alcuni sinonimi di largo uso tra cui
l’armonica, il cui movimento di mantice può ben rappresentare l’elasticità della
Nostra – da cui – sonar ben l armonica, al ghe sona l armonica, la se fa sonar l
armonica, significa ben copulare – e, più recentemente, l’ocarina entrata pure nel
gergo femminile per il senso ambiguo del suo possibile intendimento: l ò carina,
ovvero ce l’ho bellina! Lo strumento eccellente rimane però la chitara o chitarina1
ben esplicitata nell’indovinello: panza co panza e mànego che vanza… e in mèdo
ghe n é na ro∫éta che la se gode, sta maledeta! Soprattutto questo strumento dà
spunto ad alcuni canti popolari che, quando in bocca alle donne, diventano
emblema della loro volontà di emancipazione (rivendicazione provocatoria di
una indipendente gestione del rapporto amoroso e sessuale, che prelude al
motto delle moderne femministe l’utero è mio e lo gestisco io). Il successivo
primo brano era cantato dalle mondine in tutta l’area padana dal Veneto al
Piemonte; il secondo proviene dall’Istria ed è ancora popolarissimo.
Ti ricordi, piccola mia,
là vicino al portone?
Io ti toccavo la bebèce
e tu avevi una mano sulla mia patella.
Interessante anche la ciribiribìcola, specialmente nell’esempio seguente che
individua pure altre denominazioni della Lei.
075
LA CIRIBIRIBÌCOLA37 - Moldoi, BL, 2000
Ciribiribìcola, la ciribiribàcola,
per cinch schèi la dà via la scatola;
ciribiribìcola, la ciribiribàcola,
la va in cerca del tirabusón!38
Ciribiribàcola, ciribiribìcola,
per dis schèi la dà via la frìtola;
ciribiribàcola, ciribiribìcola
la va in cerca del tirabusón!
El tirabusón l ò già trovato
ma mi manca la botilia,
chiaveremo la mamma e la filia
e la serva sul sofà!
Mi à scrito l padreterno
che a l inferno, che a l inferno;
mi à scrito l padreterno
che a l inferno mi tocherà ndar!
ognun al sona ben
al so strumento
076
LA MIA CHITARA L É ROTA2
Venezia di Lignana, 1951
G Ò IMPEGNÀ LA MIA CHITARA3
077
Rovigno, Istria, HR, 2004
01
01
La mia chitara l é rota,
il mandolino l é guasto,
tute le co∫e si spàcano,
come faremo a sonar!
Da Trieste fin a Zara
g ò impegnà la mia chitara:
amor, amor, amor,
che Rovigno ∫è n bel fior!
02
RIT:
Son la più bela di Napoli,
strìngimi al cuore e poi bàciami;
quando ti dico làsiami,
strìngimi ancora di più!
Sei bela, sei cara
bela non piangere, bela non piangere;
sei bela, sei cara
bela non piangere, non sospirar!
03
02
Non mi tocare la chìchera
quando la mama non vede;
ti farò ceno col piede
quando la devi tocar.
Da Trieste fin Duino
g ò impegnà l me mandolino:
amor, amor, amor,
che Rovigno ∫è n bel fior!
1
Egon Schile. 1917, Donna con calze verdi
37
AGSB, BLM 0235, inf. Maria Talin. Interessante la seconda strofa che trova riscontri anche più avanti,
inserita nel contesto dei canti usati dai militari d’assalto e che compare anche nei modi di dire del tipo «Ci
vol andar in paradi∫o in cariola, ciava prima la mama e po la fióla» (cfr. Pasqualigo, per il Veronese), il che
corrisponde alla contemporanea massima nota come «la legge della famiglia: prima la madre e dopo la figlia».
38
El tirabusón è il cavatappi, l’attrezzo che stappa, che apre la bottiglia, da cui la metafora.
124
Analogamente, il sedere diventa el mandolin da cui l’analogo indovinello: «Mànego in man, cul in sen, mena,
mena che gusto ghe vien». Quanto alla chitarra, eccola menzionata anche nella villotta friulana (cfr. Corso,
231): «Ti ricuàrdistu, ninine, / d in che sere insieme in jèt? / Jò sunavi la chitare, / tu tochiavis il clarinèt» (ti
ricordi, mia piccina, quelle sere assieme a letto: io suonavo la chitarra e tu suonavi il clarinetto).
2
Canto delle mondine, in versione originale.
3
AGSB, SRM 0234/01. Il canto prosegue con « da Trieste fin Brioni g ò inpegnà nca i miei coioni./ Da Trieste
fin a Vale g ò inpegnà nca le mie bale. / da Trieste fin Sichici g ò inpegnà i miei strafanici».
Cfr. anche D’Onorà, 40, con ritornello modificato «amor, amor, amor, che Trieste ∫é n bel fior». La canzone
è ancora vivissima e poco si bada al senso suggerito dalla spigliata protagonista.
125
078
La so mama la ghe dimanda:
chi g à roto la scarpinèla?
L é stà el soldato de sentinela,
ma chi g à roto, la pagherà.
RIT:
Ciribiribin, ciape tape tape tà,
che la mena el cul, ciape tape tape tà,
che la va te l cìrcolo, che la va te l cìrcolo.
Ciribiribin, ciape tape tape tà,
che la mena el cul, ciape tape tape tà,
che la va n te l cìrcolo per namorar.
La so mama la ghe dimanda:
chi g à roto la chitarina?
L é stà el soldato de la marina
ma chi g à roto la pagherà.
083
Ancora un brano di analoga struttura e probabile epoca (primi del Novecento);
l’oggetto danneggiato è diventato, nel caso specifico, la carpavella, ovvero la
caccavella6, assai adatta, per conformazione, al doppio senso. Curioso è anche l’incipit
che ricorda un più famoso canto di partenza per la guerra o il servizio militare7.
LA SO MAMA LA GHE DIMANDA4 - Serafina Correa, RS, Brasile
LA CHITARA
La so mama la ghe dimanda:
chi g à roto l argenterìa?
L é stà l soldato de fanteria,
ma chi g à roto la pagherà.
RIT: (ripeti come il precedente)
Ohi cara mama meneme in ce∫a
portéme avanti a l confesore;
con la boca dirò i pecàti
e con il cuore farò l amor.
RIT: (ripeti come il precedente)
MIA5 - Vallesella di Cadore, BL, 1989
Io mi chiamo la bella Ninetta
suonatrice di grande talento
Non c è co∫a che più mi diletta
che di sentirmi suonar lo strumento.
RIT: E con lo zigo zago, moretina vago,
tu m ài roto l ago,
(m ài ferito l cuore) mi farai morir;
da la pasione, mi sento morir!
E trovandomi qui di pasaggio,
circondata da molte persone,
vòlio darvi un brevissimo saggio
se qualcuno vuol prender lezione.
RIT: O state in corte∫ia, la chitara mia
l é na sicheria, l é na rarità,
solo a tocarla l efeto che fa!
4
RIT: (ripeti come il precedente)
E ma solo se voi la tocate
grande vòlia vi vien di suonarla;
se le corde per ben pizzicate
non sarete capaci a lasiarla.
RIT: Un giorno il mio galéto la tocò un pocheto
fece un tale efeto che non so spiegar
e da quel giorno sto sempre a suonar!
E per sentirla suonar con più gusto,
come fosse un armonica o un piano,
è più adatta ad un uomo robusto
perché a un vecchio le trema la mano.
RIT: E con lo zigo zago, moretina vago,
tu m ài roto l ago
(m ài ferito l cuore) mi farai morir;
da la pasione, mi sento morir!
AGSB, CDE Soraimar Bèle e taliane, SRM 0018/11; cantano Sole e Mèia. Si allega la medesima canzone
nella versione del Grupo Scapoli di Vila Maria *. Sulla stessa linea melodica esiste l’altro filone noto col titolo
di Se la vedési (co la va a spaso) di cui esistono anche versione salaci come quella trentina del Morelli * per
Castel Tesino (1978), vicina a quella Brasiliana di Guaporè (AGSB, CDE Soraimar, Mi∫eri coloni, titolo * Se
tu savesi, F. Balbinot, SRM 0220/18) o di quella di Serafina Correa (AGSB incipit: Benedete le figlie more) *.
5
AGSB 0500; canta il duo Cercenà (S.lle Marcolin) di Vallesella di Cadore. Un canto simigliante è quello raccolto
084 dai Posagnot, 430, c. 370, che ha per titolo E la chitara mia * (Possagno, 1982). Il canto è diffuso in tutta l’area
settentrionale italiana in versioni più o meno lunghe e poco differenti; cfr. Vigliermo, 243, (La maestra di chitarra).
079
080
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082
126
085
MARGHERITA AL VEGLIONE8 - Viarago, TN, 1988
Ma perché piangi o tu Margherita
e che il tuo pianto mi fa tanto male,
ma e perché sei co∫ì avilita
e dopo quando pasò il carnevale.
Ma dimi perché tu piangi, perché tu non mangi
dìmelo bel angelo, dimi il perché… la la,
dopo il carnovale non sembri più te.
Ti dico tutto, mio caro Carletto,
ti dico tutto tale e quale;
non ti ricordi quel grande dispetto
che mi facesti la notte al veglione.
Pur d alora il carnevale fu per me fatale,
certo del mio male la cagion sei tu… la la
un altra volta non vengo più.
E mi credevo di farti contento
e di nascosto di ca∫a scapai
in quella note con tuto quel vento
al veglione con te mi recai.
E memoricinèlla con la carpavella
e a la zingarella acompagnavo te… la la
e col clarino facevi drin drin.
Mentre suonavi co∫ì pian pianino
e poi la solita taran tanella,
e poi più forte suonando il clarino
tu mi rompesti la mia carpavella.
E poi la portelota mal me l ài ridota
adesso che s è rota non s agiusta più... la la
troppo è guasta e non suona più.
Ma la mia portelòta tu me l ài ridota
adèso che è rota non s agiusta più… la la
tropo è guasta e non suona più.
E mi dicevi che tu me l agiusti
ed invece più rota me l ài;
e non credevo che un ora di gusto
la mi costasse cent anni di guai.
E la mia carpavella ch era co∫ì bella
più non sembra quella di quel dì… la la
troppo è guasta e non suona più.
E quando il ca∫o lo seppe mio padre
mi ∫vegliò come fossi un somaro
ed invece la mia buona mamma
par che perse il te∫oro più caro.
E quando ci ripensa perde la pazienza
e per penitenza co∫a mi fa far… la la
mi manda in chie∫a e mi fa confesar.
Le dico tutto al mio confessore,
le dico tutto tale e quale.
O figlia mia ài comesso un erore
che si chiama pecato mortale.
Dopo la confesione mi con devozione
gli baciò il cordóne, lui mi acarezò:
co∫ì il pecato mi fu perdonà.
6
Strumento musicale costituito da una pentola, in latino cac(c)abus, chiusa da una pelle tesa su cui è infilato
un bastone che, stretto e percorso dalle dita umide, produce un suono di basso vibrato.
7
Con le medesime parole «ma perché piangi mia bela (nome dell’abbandonata, spesso Angiolina) piangi forse
la mia partensa» iniziano molti canti di commiato (partenze per la guerra o per i luoghi d’emigrazione), come
086 questo Alpagotto portato ad esempio (AGSB, CDE Soraimar Cante pagote, SRM 0050/14, cantori locali) *.
8
Archivio R. Morelli, registrato presso la famiglia Zampedri (Sira, Nilda e Tea Bernabè).
127
087
090
LA CHITARINA9 - Cimadolmo, TV, 1994
E la vien giù dai monti
tuta dispetinada
gridando mama mia
me l ano rovinata
CORO: La chitarina chi te l à rota (e fra-casata)
Le meteren due chiodi
due chiodi a la nostrana
anche se l é dificile
che la ritorni sana
CORO:
Dimi chi te l à rota,
l é stato l mio Bepino,
credeva di sonare
solo co l mandolino
CORO:
Se la ritorna sana
no la darò più via
né a sacrestan né a frati
l é solo roba mia
CORO:
Andai da un profesore
per farla riparare
e l profesor mi dise
la proverò a giustare
CORO:
S à roto l filo armonico10,
i tasti più non suona,
ed or è proprio inutile,
rota no l é pì bona!
CORO: la chitarina, l é roba fina!
GIARDIN DELLE DELIZIE,
EL BÒCOLO E LA RO A
Una tra le metafore sessuali più usate per individuare il sesso femminile è
quella, complessa, del giardino (o del boschetto); si tratta di una specie di
bengodi per il maschio, di un bellissimo luogo di delizia in cui ci si deve
addentrare un po’ alla volta per carpirne i segreti quasi in modo giocoso.
Il concetto corrisponde a quello del giardino rinascimentale, del luogo di
bellezza che ricrea e rinnova, che invita e sorprende, che ammalia e confonde (si
pensi all’uso dei labirinti di siepe, di riviere, roccoli per arrivare al roseto)1.
L’obiettivo dell’amante è quello, al fine, di cogliere il fiore sognato, la rosa
d’amore2, magari promettendo alla ragazza di sposarla come recita bene il canto
092
E a la fin se l è levate
e le mi∫e là sul pra
e dopo na mez ora
l avéa el cul bagnà.
E a la fin se l è levate
e mi diede un bel bacin
e mi dise vien di sopra
vien di sopra o bel alpin.
Emo eo, eo, eo
cosa fatu, sacramento,
questo qua no l é l momento
de sentarse là sul prà.
Me la fa e me la fa e me la fece
me la fece tanto amara
che mi à roto la chitara
no la poso più sonar.
1
093
094
095
096
AGSB, convegno Soraimar, Asolo 2002. Una versione assai simile è quella piemontese di Rueglio fattaci
088 pervenire da Amerigo Vigliermo * (La ghitarina). Del medesimo tipo è pure quella in Posagnot, 429, c. 369,
089 E la chitara è rota, * (Possagno, 1998, inf. Pierina Pastega).
10
Quest’ulima strofa compare in Coltro, Cante e cantari, 435.
Archivio GLS Belumat, canta il gruppo Raza Piave. Una similare è pure in Posagnot,428, c.367, col titolo di
091 Me la fai, me la feci * (Possagno, 1982, inf. Giacomo Favero).
11
128
Non poso dàrtelo questo bel fiore
questo è l onore (l é n di∫onore) del mio giardin.
La ritrosia dell’amata viene sempre sbandierata formalmente4 e ciò fa parte del
normale gioco del corteggiamento tanto quanto l’ostinazione dei giovanotti che
si perpetua nel ritornello utilizzato in diversi e numerosi canti… amor, amor,
amor / e la ro∫a l é n bel fior5!
097
9
O GIARDINIERA3 - Moldoi, BL, 2000
O giardiniera, bela tu sei la mia spo∫a,
dami la ro∫a, la ro∫a del tuo giardin
TE LE LEVI LE BRAGHETE11 - Pieve di Soligo, TV, 1998
Te le levi le braghete
te le levi sì o no!
se non te le levi, te le levo
io te le leverò.
la ro∫a l é n bel fior,
l é l pegno de l amor
098
Cfr. Vardeme pur in ciera, in G. Baffo, Poesie: «… e a sol vardarte me consumo tuto. / Oh! del zardin d amor soave
fruto, / benedeta la coca che t à fato, / el tempo, l ora, el momento, e l ato / de quel cazzo gentil che t à produto».
2
Tra i termini comuni, l’appellativo fiore è sicuramente il più gentile e ro∫a, ro∫éta, ro∫ina, il più usato.
Anche in Friuli la ro∫ute è di gran moda; cfr. Ostermann, 138 e simile in Arboit, 83: «No us domandi un chiamp
di tiere, / no us domandi un capital, / us domandi chè ro∫ute / che vo ves sot il grimal» (non domando un campo
di terra, / non chiedo un capitale / io domando quella rosellina / che avete sotto il grembiale).
3
AGSB, BLM 0235, inf. Maria Talin, con la collaborazione di Aurelio Sacchet. Ho rilevato analogamente il
canto anche a Vallesella di Cadore (duo Cercenà 1978) *. In Canzoniere del Progno, 146, ci sono altre due strofe
assai meno romantiche: «Qoela ro∫a ghe l à l marche∫e / la fin del me∫e, la fin del me∫e / te la darò. / Qoela ro∫a
che m ài promeso / dàmela adeso, dàmela adeso / no fè penar». In De Biasi, 176, le due strofe seguenti dicono
invece: «Prendi sta létera, lègi sto folio / il ben che ti volio nesuno lo sa. / Prendi sto stile, trapasami l cuore, / ch è
un di∫onore del mio giardin». Cfr. anche Bovo,152, n.145. Di rosa, di onore o tradimento parlano pure le altre
seguenti versioni. La prima (versione femminile) è in Posagnot, 114, c. 84, Possagno, 1982 *.
La versione ‘maschile’ * raccolta dal medesimo gruppo mostra la differente percezione sul tema.
Nella versione di Porcino (VR) * (2003), intitolata La bela giardiniera, pure si allude al tradimento e alla rosa:
«avevo quindici ani, ero bela come un fior / e ora che ne ò venti, ò perso anche l onor; / la ro∫a apasita nesun la
colierà / come la dona tradita nesun la spo∫erà» ecc. (cantori di Porcino, AGSB, BLM0500).
4
L’esempio scelto è un’altra parte del Cantar Martina * di Rueglio, TO (già specificata al capitolo uccellino).
Lui, col gruppo dei maschi canta: «Buna sera bele fije / carnevale è qua vicino, / vi auguriamo uno spo∫ino / per
la fin del carneval». Lei, con le ragazze, risponde: «Vi ringraziamo giovanotti /de l augurio che ci fate / lo spo∫in
l abian trovato / per la fin del carneval». Lui: «vi raccomandiamo bele fije / di conservarvi quella ro∫a / chi la
prende si consola / e poi dopo riderà». Lei: «vi ringraziamo giovanotti / del consiglio che ci date / lo terremo per
e∫empio / (a) chi domanda a dir di no». Continua poi nel modo ricordato in precedenza.
5
Cfr. E la me dis, in Posagnot, 423 o La ro∫a è il più bel fiore in Starec, Canzoniere triestino, 133, c. 99 e 540, c. 62
(La mia mama la mi à deto). Il fiore è al centro anche del brano Ciao Ninela, reinterpretato dalla Bandbrian *.
129
099
Il percorso di approfondimento è quasi obbligato e suggerisce la ricerca di un
boschetto con fontanella appresso, dato che proprio là il fiore attende di essere
colto. Il canto popolare che meglio esplicita il concetto è il seguente
o anche…
VENENDO GIÙ DAI MONTI6 - Tambre d’Alpago, BL, 1978
Certamente l’ardire dell’amoroso gioca con facilità sulla natura di entrambi i
sessi per cui si canta:
Venendo giù dai monti trovai na bela mora:
la pre- la pre∫i per moro∫a, la mi voleva ben!
La mi voleva bene, la mi menava a spaso
la mi- la mi portava in bracio là in fondo al suo giardin!
Là in fondo al suo giardino ci stà una fontanela
co l a- co l aqua fresca e bela per rinfrescare i fior!
Per rinfrescare i fiori, per rinfrescar le ro∫e
per ri- per rinfrescar le to∫e che vuole far l amor! (o le to∫e da maridar!)
In me∫o al mio giardino ci stà un bel boscheto:
a l è- a l erta giovineto, te lo farò veder!
Te lo farò provare, te lo farò sentire;
io ti- io ti farò morire da la sodisfasion!
Da la sodisfasione, morire mi rincrése;
farén- farén come fa l pése, noi morirén asién!
Noi moriremo asieme, noi morirén uniti
co∫ì- co∫ì sarà finita la nostra gioventù!
E se savése che fose stà el mio amante
vorave dà le ro∫e e anca le piante.8
So che te pia∫e l bòcolo,
tu mi darai la ro∫a,
cara la mia moro∫a
no starme abandonar.
Fino ad essere massimamente esplicito nello stornello
Fiorin de ro∫a,me pia∫aria tocarla quela sfe∫a
dove la g à la ro∫a mia moro∫a… fiorin de ro∫a9
Il problema per le rose, come per gli altri fiori, è quello di mantenersi freschi e
intatti il più possibile come sottolineano le possibili successive strofe
La mia mama me g à dito
che la ro∫a ∫é n bel fior,
che la tegna riservada
come pegno de l amor10,
La ro∫a è il più bel fiore
come la gioventù
nasce, fiorisce e muore
e non ritorna più11.
Più o meno ‘popolare’ risulti il motivo, analoga è la visione del problema. Nel
settecentesco canto da battello intitolato Amanti sbandite12 si rimarca:
La gioventù l é bèla, la gioventù l é cara:
l amor, l amor senza chitara no la farò mai più!
Con ali spedite il tempo sen vola / il ben che consola non torna, sen va.
La ro∫a, che spunta su gli orti d’amore, / sen langue, sen muore, perde ogni virtù.
Beltà che sia giunta vicino alla sera / se cade, dispera, non sorge mai più…
Il gioco consente altresì di sottolineare il piacere della rosa di essere colta7
8
Stanote me zé stà l giardin averto
e qualchedun me g à robà na ro∫a;
se n altra note el ladro vol tornare
un altro fiore ghe faria trovare! (vorìa donare)
6
AGSB, CDE Soraimar Cante Pagote SRM0050/17. In alcune versioni il canto subisce variazioni
100 significative diventando Di sotto le mie sottane *, con l’aggiunta di ritornelli ulteriori: «Alza la gamba e
fàmelo/a veder»; e ancora «alza la gamba e pàreghelo su!» (Gruppo di Pieve di Soligo, TV, 1998).
Una lezione similare è quella di Maria Grillini (Monghidoro, BO, cfr. Staro, 385, 111) intitolata Sotto la mia
101 finestra, che si muta poi in Sotto la mia sottana *. Esplicita, col finale «per rinfrescar le ro∫e e i gelsomin. / Le ro∫e e i
gelsomini / son fiori degli amanti: / ghe n ò prenduti tanti / l amor lo voglio far», è pure la versione trentina di Viarago,
102 intitolata Là in mezo a l mio boschéto * , avuta da R. Morelli. Prenduti, presi, è la versione birichina di perduti!
7
Presente anche nelle villotte lombarde. Cfr. Leydi, 190.
130
Cfr. Ninni, III, 86 (villotta 131). Poco diverse, ma con lo stesso senso, due strofe in Caliari, 66.
In Balladoro, II, 43, 51: «… e se sapese chi è lo robatore / ghe donaria la ro∫a e anca l mio cuore».
In Bernoni, Canti popolari veneziani,VII, 6, v. 27: «ma se credese che l fuse l mio amore / ghe donaria le ro∫e e
103 anca el cuore». Simile nella lezione della Ronchini in Sentime bona zente, 15, Stanote el mio giardin *.
9
Stornelli veneziani di fine Ottocento: «Fior de ga∫ìa / ti gà na roba sconta tuta tua / che co la penso g ò na
malatia. / Fior de ga∫ìa».
10
Cfr. Starec, Canzoniere Triestino, 214 (La mia mama me g à dito) e Noliani,39. In De Biasi, 402, si legge:
«Garzon, garzon, m intendi / che è vano sospirar / la ro∫a che pretendi / manco la puoi tocar».
11
Cfr. Starec, Canzoniere, 133, ma anche in De Biasi, 403. Lo stesso tema è affrontato anche in molte villotte
friulane come queste: «Maridàisi, fantacinis, / se vi vès di maridà; / che da vece no val nuje / la gialine par
montà» (sposatevi ragazze, decidetevi a farlo, che da vecchia la gallina non è buona da ‘montare’); «Maridàisi,
maridàisi / fin c o sès in zoventut; / co la frize la ven vece / l à pierdude la virtut» (sposatevi, sposatevi fin
che siete giovani: quando la ‘cicciolina’ diventa vecchia, perde ogni virtù); «Olin giòldi e taconàsi; / fra
noaltris zoventut; / J veciàz che stein a chia∫e / che an pierdude la virtut» (vogliamo godere e copulare tra noi
giovani; i vecchiacci che stiano a casa, che han perduto la virtù). Cfr.Ostermann, 13.
12
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello, Miscellanea, I-Vnm, MS It., Cl.IV, 2047, 22 (20v21r), Amanti sbandite (S, bc, Fa) 382-383.
131
104
LA RO A13 - Sideropolis, Santa Catarina, Brasile, 2003
SIOR MARCHE E
01
chi speta nove,
dorme mal
La ibèla, la ibèla, la ibèla va a l giardino
a prender, a prender, a prender ro∫e e fior.
02
La ro∫a, la ro∫a, la ro∫a l é un bel fiore
che presto, che presto, che presto la sfiorirà.
La manifestazione del menarca1 ovvero del mèstruo (le mestruazioni) segna
l’avvenuta maturazione fisiologica della bambina e ne determina la nuova
condizione di to∫a, di ragazza potenzialmente capace di figliare il che le
consentirà, col matrimonio, di perfezionare lo stato sociale di donna.
Il proverbio in tal senso è preciso anche se crudo: figà, manzo o mona, se no la
fa sangue no l é bona (fegato, manzo o mona, se non sanguinano poco valgonoCPS).
Marche∫e, è invece la denominazione più popolare del ripetitivo evento,
derivando forse da segno, ovvero traccia o marca lasciata dal sangue mestruale,
come ben ricorda una strofa raramente usata del canto noto come La Signora,
Ma varda là o Aqua co l mistrà.
03
Ghe casca, ghe casca, ghe casca giò le folie,
la perde, la perde, la perde i suoi color.
Saverio Barbaro, 1985, Alla persiana
04
De note, de note, de note fonda e scura
io vengo, io vengo, io vengo ai tuoi balconi.
05
Con canti, con canti, con canti, bali e suoni
per farte, per farte, per farte inamorar.
Non è possibile concludere questo argomento senza prendere in considerazione due
sonetti del Baffo che lo sintetizzano perfettamente. Si tratta di un elogio alla Signora
e alla sua genesi, tesa a dimostrare l’altro suo massimo sinonimo ovvero el paradi∫o14!
ELOGIO
Cara mona, che in me∫o a do colone
ti xé là messa, come un capitelo:
per cupola ti g à do culatone,
e l bus del culo sora xé l to celo.
GENESI
Nove mistri s à messo a far la potta.
El primo xé stà el mistro falegname,
e con un manarín g à dà una botta,
che à fatto un profondisimo forame.
Perché t adorin tute le persone,
ti stà coverta soto un bianco velo,
che, se qualcun te l alza, e che t espone,
vitima sul to altar casca ogni o∫elo.
Xé vegnù el lovo, e l g à lasà la fame,
per questo de la carne la xé ghiotta;
l orso g à messo tuto el so pelame,
per questo se ghe di∫e la marmotta.
El sacro bosco ti me par de Diana,
dove un per banda gh è do mustacioni,
che a l arca ne condu∫e de la mana.
G à dà le zate el granso, el can i denti,
l odor el bacalà, e la renghéta,
e l cospetón el sal per tuti i venti.
Note e zorno ti fa miracoloni,
che l acqua che trà su la to fontana,
dà vita al cazzo e spirito a i cogioni.
La lumaga più asae d una celeta
g à fatto, e la g à meso i fornimenti,
e questo è quello che sempre la peta.
13
105
AGSB, CDE Soraimar I ori de Angelin SRM0226/04; canta nono Angelin Ambrosio.
Archivio R. Starec, Benedetis lis Cjargnelis * (Lomax 26), voci miste, Ovaro (Udine), 1954: «Benedetis lis
Cjargnelis, / benedèz i lòr pais. / Lor àn panse cul e tetis / e par sot, al paradis» (Benedette le Carnielle, /
benedetti i loro paesi. / Loro hanno pancia culo e tette / e, di sotto, il paradiso). L’aria è la medesima che
contraddistingue, in Istria, il canto noto col titolo di Dove ∫é la Tere∫ina (U la ∫ì la Tere∫ina).
14
132
106
MA VARDA LÀ2 - Faedo, VI, 2004
Ma varda là quela signora, inbriaga
ma varda là quela signora, inbriaga de mistrà.3
Ela la dis che no l é vera, che l é aqua,
ela la dis che no l é vera che l é aqua e no mistrà.
Ma varda là quela signora che pisada,
ma varda là quela signora che pisada che l à g à dà
Ela la dis che no l é vera, varda in tera,
ela la dis che no l é vera: varda in tera l é bagnà.
La g à sporcà tuto de roso, varda in tera,
la g à sporcà tuto de roso dal marche∫e che la g à.
Ela la dis che no l é vera, varda in tera,
ela la dis che no l é vera: varda in tera l é bagnà.
L’arrivo delle mestruazioni era atteso dalle madri poiché le rassicurava sulla
fertilità delle figlie; il più delle volte esse non preparavano le ragazze all’evento e,
alla sua manifestazione, si limitavano a consigli comportamentali sul modo di
tener riservata la cosa e a pochi altri suggerimenti di ordine pratico.
1
Fra le divinità dei Romani c’era anche Mena, la Menia dei Greci, protettrice delle donne mestruate. Tracce
di questa medesima devozione potrebbero intravedersi nel culto cristiano di Santa Maria delle Grazie. Mena
non è altro che la luna, che attraverso le sue fasi regola le mestruazioni. La luna nuova è il momento di partenza per le mestruazioni delle fanciulle, la luna calante lo è per le donne più attempate.
2
AGSB 0235; versione delle Canterine di Faedo. Simile in Posagnot, 461, c. 398.
133
Le fémene che avea le so robe, ovvero i so benefìzi, i so me∫i, el parént, el marco,
dovevano infatti limitare il proprio raggio di azione in casa ed evitare, ad
esempio di:
•
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•
andare in orto o per i campi di recente seminati (non nascerebbero getti);
toccare le piante giovani (si seccherebbero);
raccogliere prodotti agricolo o silvestri (l’uva vendemmiata produrrebbe
scarsissimo vino, le castagne risulterebbero vane cioè vuote);
curare o innaffiare i fiori (mortale per i gerani) ovvero ‘inquinare’ l’acqua;
in cucina montare panna (fare il burro);
lavorare creme che crescono di volume;
in stalla mungere (il latte inacidirebbe presto);
alimentare galline (non produrrebbero uova);
avvicinarsi ad arnie (il miele risulterebbe scarso o cattivo);
spellare animali da piuma o da pelo (si rovinerebbero);
lavorare le carni di maiale (irrancidirebbero subito);
fare dolci o il pane (non lieviterebbero);
scendere in cantina e armeggiare col vino (che andrebbe in aceto);
baciare i neonati (verrebbe loro il mughetto).
Queste prescrizioni valgono pressoché ovunque in tutto il mondo occidentale ed
hanno origini arcaiche con riferimento alla valenza sacro-magica del sangue e
della rappresentazione attribuitagli di essenza della vita. In questo senso,
perdere sangue significa perdere potenza4.
I divieti menzionati esemplificano perfettamente il concetto per cui tutto ciò che
la mestruata tocca, si riduce, si affloscia, perde energia. La sola sua presenza, per
quanto poco, è efficace. Vi è chi addirittura cerca di sfruttarla pilotando a fin di
bene questo presunto potere. Il bresciano Camillo Tarello, tra i significativi
scrittori d’agricoltura che tra il XIV e XV secolo contribuirono ad arricchire le
edizioni veneziane della Serenissima Repubblica, suggerisce di mandare una
ragazza co le so robe nuda e scalza nell’orto a far morire vermi e larve parassite.
Citando Plinio e Columella egli ricorda che «donna mestruata, che vada discinta,
scalza e coi capelli sparsi giù per le spalle, dove sieno animali infetti (cioè senza
osso) che noiano gli orti, l’erbe, le piante, le fave seminate, i melloni et ogni altra
cosa, gli ammazza tutti5».
3
Bevanda tipica fatta con liquore d’anice mescolato a birra.
Per questo la mestruante non è ‘gradita’ anche nei raduni pubblici di qualsiasi genere, il che la dice lunga
sulle tradizioni delle civiltà primitive di tenere isolate (segregate lontano dalla sede della comunità) le
ragazze mestruate. In ogni caso, in alcune zone alpine, fino a metà dello scorso secolo, le donne mestruate
erano use a portare il fazzoletto in testa annodato in un particolare modo che indicasse il loro stato; cfr.
Corso, 119.
5
Cfr. Camillo Tarello, Ricordo d’agricoltura, a cura di Marino Berengo. Einaudi, Torino, 1975, 45.
Egon Schiele, Nudo femminile a bocconi, 1917
Così pure, proprio come il veleno che a piccole dosi è utilizzato come curativo
per diverse patologie, qualche goccia di sangue mestruale entra nella medicina
popolare per curare malattie che si manifestino con escrescenze, tumefazioni o
altro tipo di eccesso6. Un discorso a parte meriterebbero gli usi ‘magici’ legati
agli effetti di sostanza mestruale, specie del primo mestruo, nei riti amorosi.
In qualsiasi caso tale sostanza è potentissima nel bene e nel male. Bisogna
pertanto badare che non vada dispersa e che non entri in contatto con altri
oggetti. Le straze del marche∫e vanno lavate a sè stanti e l’acqua dispersa in luogo
sterile. Neppure vanno riposte con l’altra biancheria.
Riguardo ai rapporti sessuali, la tradizione popolare li vuole vietati nel periodo
mestruale7 dato che altrimenti provocherebbero la gonorrea al maschio, ossia gli
farebbero venire l’umido, lo scolo. Figli concepiti troppo vicini al ciclo patirebbero
poi di crosta lattea o potrebbero nascere con qualche tara. Perciò, per copulare in
sicurezza occorre badare al detto: mona suta, mona sanaCPS.
Sul tema del mestruo, sul problema del suo eccesso o della sua interruzione,
indice elementare d’inizio gravidanza e perciò spesso temuto, ci soccorrono
ancora i versi del Tubiolo con i consueti suggerimenti sull’uso delle erbe.
4
134
6
Cfr. Corso, 114-124.
Cfr. A livello di prescrizioni o divieti di carattere religioso, erano considerati peccaminosi (da confessare e
passibili di penitenza), per gli uomini, i rapporti con la moglie o comunque con una donna mestruata e per
le donne, religiose o laiche, la partecipazione a servizi aventi a che fare col ‘divino’: dal rammendare, cucire
o stirare paramenti sacri, al pulire in chiesa (cfr. Cleught, 361-362).
7
135
El gh è po el Polenzuolo
ch è n erba pì que bona
a far vegnir i so mi∫i a agno dona.
E an co le partorise,
se fuora el no vegnise
la segonda, tuolìne
una brancà e bogìne;
bevìne po na scuela in la cariéga,
que la ven fuora, ditafato, intriéga.
Gh è po i Presimoliti,
que an igi à na vertù
da tuti quanti i viegi cognosù:
que, co i no po pisare,
i ghe suole armiliare
bevando agno maitina
de bruo na scuèla pina.
In beve anca le to∫e,
co no ghe vien, fradiegi, quele co∫e.
C’è poi il puleggio
che è un’erba capace
di far venire i ‘propri mesi’ a ogni donna.
E anche quando partoriscono,
se non uscisse
la placenta, prendetene
una manciata e bollitela,
bevetene poi una scodella, sulla sedia da parto,
e uscirà subito intera.
Ci sono poi i prezzemolini,
che anch’essi hanno una virtù
conosciuta da tutti gli anziani:
che, quando non possono pisciare,
sogliono rimediarci
bevendone ogni mattina
una intera scodella di brodo.
Ne bevono anche le ragazze,
quando non vengono loro, fratelli, quelle cose.
L Antemisia pò an ela
mo la fà pur servizio
a le to∫e que n à el so benefizio,
prequé in l aqua bogìa
(questa no l é bo∫ia)
s entro le peta el culo,
crezìlo que a no zulo,
que mè la no fa falo,
que ditafato a le vezì a cavalo.
Lo Calaminto an élo,
se vu lo fe bogìre,
a le done le conse el fa vegnire
e se un burto bison
becàse un puover òn,
l é racèta segura.
Pò se quarche criatura
foése pin de viermi, a ve prometo
que no se cata mè megior sagreto.
El ∫é qua an la Pionia,
que fa si bel fiorón
que tanti el vée, el ghe pare un postón.
Questa cierto la vale
a chi dal burto male
casca, e mè la fa falo
de far nare a cavalo
tutte le bele to∫e
que no ghe ven, fradiegi, le so co∫e.
L è qua an mesier Giusquiamo
que agn uno fà ruonchezare
quando le so samenze i vol magnare.
L è bone, in do parole,
anca pre le bisola
e pre lo mal de l ango;
a chi à fruso de sango
digo denanzo via
de la so cara e bela monarchia.
L’Artemisia anch’essa
serve alle ragazze
che non hanno il loro beneficio,
perché, bollita in acqua,
(questa non è bugia),
se ci mettono dentro il culo,
credetelo che non imbroglio,
mai non fallisce e tosto,
perché subito le vedete a posto.
La Calaminta anch’essa,
se la fate bollire,
fa venire le lor cose alle donne;
e se una brutta serpe
mordesse un pover’uomo,
è rimedio sicuro.
Poi se qualche creatura
fosse piena di vermi, vi assicuro
che mai si ritrova miglior segreto.
C’e qui anche la Peonia,
che ha un fiore così bello e grande
che a chi lo vede sembra un posteriore.
Questa vale per chi
ha il mal caduto (l’epilessia),
e non falla mai
nel mettere in sesto
tutte le ragazze
alle quali non vengono, fratelli, le loro cose.
È qua anche messer Giusquiamo
che fa dormire tutti quelli
che mangiano le sue sementi.
Sono anche buone, detto in due parole,
per le bisciole
e l’angina
e a chi ha perdite di sangue
innanzitutto
dalla sua cara e bella potta.
Tacuinum Sanitatis (casanatense, c. LXXVI)
FINOCCHIO
Natura: calda e secca in II grado.
Migliore: quello domestico.
Giovamento: alla vista e alle febbri di lunga durata.
Danno: al flusso mestruale.
Rimozione del danno: con… carrube.
136
Tacuinum Sanitatis (Rouen, c. 29)
GHIANDE
Natura: fredda in II grado, secca in III.
Migliori: quelle fresche e grosse.
Giovamento: sono di aiuto alla ritenzione.
Danno: impediscono le mestruazioni.
Rimozione del danno: mangiandole arrostite
con zucchero.
137
FAI DA TE (O FATE FA)
Tra i canti da osteria se ne trovano alcuni che accennano al tema, ricorrente,
della ragazza che si propone di aiutare il giovane a compiere la sua azione.
chi fa da sè,
fa per tre
107
LA PIÙ BELA ROBA A L MONDO3 - Sissano d’Istria, 1998
La più bela roba a l mondo
l é pulirse l cul col saso tondo,
Manuela, I∫abela,
Manuèla, I∫abela.
Le ∫é bocù
parlé vu fransè,
parlé vu fransè
.......
masturbazione1,
Ero ne l orto
che me lo menavo
e la mia bela
che mi sta a guardare.
E la me di∫e:
co∫a ti fai mato,
dàmelo a mi,
che no ti stanchi l brasso!
Un capitolo a parte attiene alla
che fa parte delle esperienze
personali e che rappresenta un passo importante e naturale per la conoscenza del
proprio corpo. La sua pratica è stata tuttavia censurata, senza ottenere alcuna
collocazione nel contesto educativo, essendo considerata fortemente peccaminosa e
fuorviante a livello di dettato religioso, per cui sicuramente dannosa anche alla
salute fisica, soprattutto dei maschi2. L’incombente prospettiva di deventar orbi
(ciechi) o restar nani (tanto rischiavano i trasgressori) non ha interrotto la continuità
dell’esperienza che, a livello di compagni di gioco, di scuola, di colonia o di
caserma, si manifestava persino in momenti di attività collettiva. Per le ragazze,
fino a tempi recenti, salvo per quelle che entravano in compagnie di perdizione o
frequentavano ambienti di comunità femminile, la pratica sembra meno vivace
anche se la frequenza di canzoncine e villotte rende debole questa apparenza e
lascia intravvedere un mondo femminile popolare meno bigotto di quanto narrato.
Era ne l orto e me menava el dugo,
la me moro∫a me da∫éa da mente
e la me di∫e: O toco de furbasso,
mételo qua e no stracar el brasso!
SUL SISTEMA MANUALE
e la parodia della canzone degli anni Quaranta, L’elefante con le ghette
Sora de tuti vògio lodar quelo
che, senza che gnesun g abia insegnà,
con una natural simplicità
xé stà el primo che s à menà l o∫elo.
L’esercizio maschile è comunemente
noto come farse o tirarse na sega, an segon
a richiamo dell’alternativo gesto del
boscaiolo. Comuni sono anche le altre
Che! No l merita forse un capitelo?
definizioni tra cui menarse el cicio, al
Altro che chi la bóssola à trovà!
mànego, el cuco; ∫gorlar el batocio, al
Le gran benedizion sò che g ò dà,
perèr, al pomèr; andar su e zo pa l
me l arecordo, insina da putelo.
menarièl, scapelar al parón, tirarse la pèl.
Praticamente vale il concetto di
Podévelo pensar co∫a più bona?
affiancare ai già visti soprannomi di Lui,
Trovar una maniera de ∫borar
un qualsiasi verbo o immagine che faccia
senza aver bi∫ogno de la mona?
intuire un movimento alternativo.
L’azione è da taluni considerata utile a
È vero che cusì no se pol far
dar sfogo alla naturale esuberanza
nè Santi, nè dotori de Sorbona,
giovanile e tollerata, se non incoraggiata.
ma gnanca se fa zente da picar.
Segheta (segaiolo) è detto scherzosamente
un giovanetto troppo emaciato (che si presume consumato dalla eccessiva attività
solitaria) o quando tenta i primi approcci con le ragazze (in questo caso per eccesso di
autoconsolazione in attesa di fare esperienza). Mèda sega è invece un ragazzo di scarso
valore in generale. Il Baffo, poeticamente, ne tesse l’elogio.
138
Simile, la villotta ottocentesca attribuita al Balladoro4
108
L ELEFANTE5 - Refrontolo, TV, 2002
Le ciliege le ciliege vien col caldo,
le su∫ine vien co l jasso,
le ragase ghe pia∫e l casso6.
Le ciliege le ciliege vien col caldo,
le su∫ine vien co l jasso,
le ragase ci piace l casso6
per potersi a divertir!
Il botaio, il botaio fa le boti,
caregaio fa le careghe (catenaio fa le catene)
le ragase ci fan le seghe6 .
Il botaio, il botaio fa le boti,
caregaio fa le careghe,
le ragase ci fan le seghe6
per potersi divertir!
1
Il sinonimo di masturbazione è onanismo. Il riferimento biblico è alla storia di Onan, che «disperdeva il proprio
seme» davanti alla moglie Tamar per non generare figli che avrebbero portato il nome del suo primo marito,
fratello di Onan (per la legge biblica dell’evirato). Secondo molti, però, il testo biblico sembra indicare che l’azione
di Onan fosse successivo al coito con Tamar: si tratterebbe quindi di coitus interruptus e non di masturbazione.
2
Cfr. Mazzucchi, 108: «El mestiero de la sega, ∫longa i brazi e scurza la tega!», detto anche del mestiere dei segantini.
Secondo recenti studi scientifici sembra invece che la masturbazione non solo sia priva di risvolti negativi ma
addirittura abbia effetto benefico per l’apparato di ricambio seminale.
3
AGSB, CD BLM 0016/08, canta un gruppo spontaneo del paese.
4
Cfr. Corso, 240. La villotta sembra la trasposizione maliziosa di un’altra molto più comune: «Ero ne l orto che
ba∫ava l gato, / la me moro∫a me dava da mente / E la me di∫e, co∫a fetu mato, / bà∫eme mi e no ba∫ar el gato»
(Righi, 2; anche in Ive, 134, 22). La versione Istriana con dialetto di Rovigno: «… la dèi∫e: siur parón, vui signì
mato; / ba∫ìme mèi e lasì stare l gato» è simile a quella del Bernoni, Canti popolari veneziani, I, 10, v.42.
5
AGSB 0500, registrato da un gruppo spontaneo in osteria.
6
I più timidi, al termine schietto sostituiscono un meno impegnativo jun-pà-pà.
139
Sul tema del primo approccio e contatto parlano chiaramente alcune villotte
friulane7
SUL SISTEMA DIGITALE
Il gnò Sef l à olut mostràmal,
jò curio∫e l ài tocat:
Chèl bricòn, c une sclizade,
la manute al mi à bagnat! OSA 19
Il mio Beppe ha voluto mostrarmelo
e io curiosa l’ho toccato:
quel briccone con uno schizzo
mi ha bagnato le manine!
109
La masturbazione femminile è nota col soprannome di ditale, ditalino ma
soprattutto coi termini di menarse la… con l’aggiunta dei nomi già visti della Lei.
È nota la canzoncina da fine gita adattabile alle più diverse melodie e che fa... la
Rina la mena la mona, la mena la mona la Rina co l det che va eseguita ripetuta
di seguito fino a stufarsene. Consueto anche il graffito o l’incisione sui banchi di
scuola (fine anni Cinquanta - primi Sessanta) +  – +  godo, eseguito però dai
maschi per provocare le ragazze delle prime classi medie a formazione mista.
Arcinoto anche il ritornello * «La chitara è quela co∫a che si suona con due dita;
ma la dona è più istruita: può suonarla co n dito sol»1. Tutto sommato il quadretto
più vivace sul tema continua a darcelo il Baffo dai cui due sonetti tematici
andiamo a cogliere alcuni aspetti del tema
Domandat i ai na ro∫ine
a l mio zovin benedèt;
Lui m à scuarte la manine,
e ài ciapat un biel macét.ARB 59
Ho domandato una rosellina
al mio giovane benedetto;
lui mi ha guidato la manina
ed ho preso un bel mazzetto.
Egon Schile, 1911, Masturbazione
Cfr. Corso, 228, 229 che precisa: «Questo secondo gruppo di villotte è un piccolo saggio di documenti
demopsicologici di un genere diverso da quello visto nel primo gruppo, e precisamente di costumi erotici e
di sentimenti sensuali. Gli amori campagnoli, così lascivi, si rispecchiano nelle semplici costumanze
popolari. Uno dei più comuni scherzi erotici che introducono il rapporto sessuale è quello di far toccare alla
ragazza, di sorpresa, il pene, prendendole la mano e mettendola nel pantalone con un pretesto…». A quanto
narrato dal Corso aggiungo una ulteriore informazione sul costume inverso di certe ragazze di lasciar
penetrare la mano del giovanotto sotto la gonna attraverso una sua apertura laterale ‘di servizio’, detta scriz
(montagna bellunese in generale).
7
140
...Cosa feu, care pute, (in) sto bordelo
fra de vu altre in camera solete?
Ve menevi la molla, poverete,
o vardevi chi g à più rizo el pelo?
Cara, co no ti vol altro, anca mi
la me pìzega sempre, e la se mola,
ma mi procuro menàrmela ogni dì,
e specialmente quando che son sola
El culo ve palpevi, chi à più belo,
o vardevi chi più dure à le tete?
Provevi le culate a tegnir strete,
come se fa, co (se) se tiol l o∫elo?
Esplicite sono anche alcune villotte friulane che illustrano il desiderio incipiente
nelle giovinette ormai mature sessualmente e pronte al primo incontro2
Ce bièl cur di ro∫e rose
che il mio moro mi à mostrat!
co ma l mostre, i crès il mani
e i dà fur l umiditat.
Che bel cuore di rosa rossa
il mio moro mi ha mostrato!
Quando me lo fa vedere, gli cresce il gambo
e ne esce dell’umore.
...Vien qua, Tonina, senti una parola.
Eh che no poso... Senti, cara ti,
la me spilla, che star no poso pì,
co me la meno el cuor se me consola.
Bièl lavand la masarìe,
mi metèi t un gran pensìr;
za il dotor a me l à dite,:
jò patis il mal da l tir.
Mentre lavavo i piatti
mi è venuta una preoccupazione;
già il dottore me l’ha detto
che soffro di mal da ‘tiro’.
Bièl lavànd la masarìe
mi metèi t un gran pensà:
ve di vêle tant bilite,
e frujàle cul pisà!
Mentre lavavo i piatti
mi è venuto un gra pensiero:
quella di averla tanto bellina
e di consumarla col pisciare!
Cé mi zove ve la dote
no podemi maridà?
A mi tire la parùse,
jò no sai plui du la stà.
Che mi serve aver la dote
se non mi posso sposare.
Tanto mi tira la ‘perettina’
che non so più dove sta.
1
AGSB, CDBLM0118, cantori di nozze a Morgano (TV) 1984, raccolta E. Bellò. Anche, sonarse (o farse sonar)
la chitara. Cfr. pure Bovo, 88, 43: «La chitara è un altra cosa / che si suona con le dita; / è la dona più istruita che
la sapia ben suonar». Un’altra canzoncina sembra alludere al problema a livello familiare (AGSB, a Morgano):
110 * «Cara mama marideme, / che me n voio ndar lontan. / Filia spèta n antro ano. / Me (te) la frego co le man».
2
Cfr. Corso, 226-228, nel menzionare l’Ostermann.
141
E ducuàntis si marìdin
e a mi mi toche di zunà;
e a mi, tant c a mi tire
che fin stenti a chiaminàOSA 7
Intanto tutte si sposano
e io devo digiunare;
e mi ‘tira’ così tanto
che perfino stento a camminare.
Altro contributo al tema ci vien dato da Alessandro Pericle Ninni in un
quadretto di fine Ottocento che accenna persino al clitoride (la punta ovvero la
spilla o la molla del Baffo), il cui nome dialettale in veneto è grilét (grilletto).
Quand che l giàl fas chichi-richi,
dos tre òris denànt dì,
si di∫mov la me ninine,
prin ca l mùini a sune dì.
Quando il gallo fa chicchirichì
due o tre ore prima che faccia giorno,
si risveglia la mia piccola
prima che il sacrestano suoni il giorno.
No me tocar davanti
che g ò di∫doto ani,
abaso co le mani
no vògio libertà.
Quand ch i soi jò besoline,
ben chialdute tal gnò jet,
a mi tire la ninine,
e la tochi cun t un det.
Quando sono sola soletta,
ben calduccia nel mio letto,
mi tira la piccina
e la tocco con un dito.
No me tocar i pèti
perché li g ò postisi:
aveva tre novisi
li ò persi tuti tre.
Quand ch i voi tal jèt la sere,
jò m in voi par ripo∫à;
ma mi tire la palise,
no lor puès mai cu-jetà.OSA11,12
Quando vado a letto la sera,
ci vado per riposare,
ma mi tira la pelliccia
e non posso stare quieta.
No me tocar davanti
che g ò la calamita:
pò-ve-ra son tradita
no me marido più.
Se savesis, done mari,
ce ch i voi cirind la gnòt!
Voi cirind ches dos balutis
e lu mani dal fagòt.
Se sapeste, donna madre
cosa vado cercando la notte!
Cerco quelle due palle
e il manico del fagotto.
No me tocar la punta,
la punta del capèlo:
per ti moreto belo
per ti mi morirò.
Se savesis, done mari,
ce ch i voi cirind la gnòt!
Voi cirind jò un bièl zóvin,
lui par sore e jò par sot.OSA 7,8
Se sapeste, donna madre
cosa vado cercando la notte!
Cerco un bel giovanotto,
lui di sopra e io di sotto!
Ce tant gust a maridasi,
viodi l om cusì bièl nud,
e busasi e sfré-olasi .
e giavasi dùt il brud!OSA 10
O che bello maritarsi,
vedere l’uomo così bello nudo,
e baciarsi e strofinarsi
e togliersi tutto il ‘brodo’.
Oh sì, sì, uèi maridàmi
se m in toche un di biel;
jò patis la tiradorie,
ài bi∫ugne d un ucèl.
O sì, sì, voglio maritarmi
se me ne capita uno di bello:
soffro là, alla ‘tiratora’,
ho bisogno di un uccello!
Oh sì, sì, uèi maridami
s o crodés di ciòli un mùs;
uèi fa zuia la me parùse
su la crùchigne dal zus!OSA 6
O sì, sì, voglio maritarmi
a costo di prendere un asino:
voglio far godere la mia ‘perussa’
sulla groppa dello stupidotto!
NO ME TOCAR DAVANTI3
Gustav Klimt, Donna seduta a cosce aperte, 1916-1917
Altri piccoli accenni si hanno nella canzoncina-filastrocca nota come cin cin
perùsola4 che gioca sull’equivoco dell’uccellino e che, del tutto innocente
quando usata dai bambini, assume altra valenza quando citata dagli adulti.
111
CIN CIN PERÙSOLA
Versione della Valcavasia,TV5
Versione di Laste di Rocca Pietore, BL6
Cin cin cin cin perùsola
cosa faren diman
se palperén la frìpola (trìpena)
co tute do le man!
Tin tin tin tin perùsola,
ci festo sun chel legn?
Me grate n cin la tìmpena
e po vède a impijé l fuoc!
3
142
Cfr. Ninni, III, 129-130.
Un altro esempio dell’ambiguità del termine è queste villotte: «Ti ricuàrdistu, ninine, / tu che sere sul pujul? / Tu
mi dàvis la parùse, / jò ti davi il rusignùl» (in Ostermann, Villotte friulane, Appendice, 42, equivalente a quella in
Arboit, 248: «Ti ricuardistu, gargiona, / chela sera sul pojul? / Tu mi davis la parùsa, / jò ti devi il grizignul».
5
Cfr. Posagnot, 517, c. 459, inf. Giulio Dei Agnoli, Cavaso, 1983. Nel primiero (TN), similare è la seguente:
112 «La Ménega e la Bórtola / le va su l altipian, / le se mena la porsèpola / co tute do le man» (Archivio Corona).
113 6 Da me registrato a Laste di Rocca Pietore (BL), nel luglio del 2003 (AGSB 0500), inf. Angela de Cassan, Mèdra.
4
143
ATTRAZIONE FATALE
quando la roba pia∫e
ogni roba se fa∫e
sonetto di Giorgio Baffo
dal volume ‘Poesie’ (1781)
Piutosto se pol dar che l sol no lu∫a,
che no se veda in cielo più la luna,
che casca zó le stele a una a una,
che in tera no ghe sia gnanca una bu∫a,
che ogni co∫a in natura sia confu∫a,
che el vento in mar no faza più fortuna,
che no ghe sia più pése in la laguna,
che le ponte de fero più no ∫bu∫a;
la piova se pol dar, che più no bagna,
el fogo se pol dar, che più no scota,
che no buta più fiori la campagna,
che torna crua la carne, che xé cota,
che vada el fiume verso la montagna,
ma no se pol mai dar… che mi no fóta.
L’ineluttabilità dell’aspettativa sessuale si esplicita nel più famoso proverbio
della serie: tira pì un pél de mona che n car de bò ovvero sento gòmene o sento para
de bò1. Il detto trova varianti dialettali in ogni zona d’Italia. Ne sono equivalenti
nel senso anche gli altri motti prettamente veneti: roba de pota, la va che la
trota2 e roba de mona, la va che la sona3.CPS Ne consegue una giustificazione per
la smania da molti manifestata nei confronti della copulazone intesa come
godimento supremo. Puntuale e poetico, Giorgio Baffo è l’inimitabile cantore di
questa gioia che ben si constata nella poesia posta a fronte.
L’impossibilità di contrastare la pulsione naturale si manifesta anche coi
proverbi… a cazzo tirà, no se ragionaCPS cui corrisponde anche… la mona no
ragionaCPS. Analogo èCPSil senso delle frasi... cazzo che tira no vol conségiCPS e… el
cazzo no xé filosofo . L’identificazione massima della donna-femmina nel
detto la dona ragiona co la monaCPS non va perciò letta in senso dispregiativo
come usa fare normalmente il maschio. Ancor più esplicita la frase… la fémena
l à dói boche par convinzer, cui si contrappone… l òn l à dói teste da contentar (la
donna ha due bocche per convincere l’uomo mentre l’uomo ha due teste da
accontentare) di cui non si ritiene necessario il commento esplicativo.
1
Per altri della serie si veda in Pasqualigo, Troiani.
Siamo nella serie di proverbi sulle cose fatalmente attraenti (come visto in precedenza per la dote) che
comprende anche quest’altro ovvero roba de stola, la va che la vola, con riferimento al vantaggio dei preti.
3
La roba che sona, che suona, sarebbero i denari che in qualche modo si devono impegnare (o altro di
equivalente) per possedere il ‘giochino’.
2
145
Il detto moderno ‘far bene all’amore fa bene all’amore’ promuove un concetto
condiviso da tempo immemorabile ed equivalente al seguente proverbio di certo
in voga nell’Ottocento: co la testa picola va in gloria, la granda perde la
memoriaCPS (la soddisfazione amorosa cancella qualsiasi altro pensiero o ricordo).
Dire che la via de medo l é la pì giusta, ossia la via intermedia è la migliore, nel
nostro contesto ha un proprio specifico senso e sottolinea l’importanza della
Signora. Ne fa fede anche l’altro detto: co le fémene bi∫ogna sempre ciapar la via
de mèdo, con le donne si deve sempre prenderla con prudenza (in fase di
approccio), il che si presta chiaramente ad interpretazione lubrica per dire che le
donne sono buone solo per andarci a letto! Sul concetto insistono anche altri
proverbi del tipo: la fémena la val dal col in dó; l òn dal col in su, che è analogo
nel senso al cinquecentesco… de i pesci e de le done, el mègio sta ne la panza XTV.
Stando ai detti, la limitata pertinenza è chiara: a le fémene: fornèl, mastèl e o∫èl (la
competenza delle donne è stare ai fornelli, lavare la biancheria e darsi all’uomo)!
Occorre poi considerare, è una questione strettamente fisiologica, che il piacere del
maschio, e la permanenza dello stato d’erezione del parón, risultano condizionati in
parte dalla pressione sulle sue pareti operata dalla paróna che lo trattiene. Pertanto,
una inguainatura lasca non giova sicuramente al gioco dell’amore e in tal senso una
natura stretta resta massimamente ambita come ben considera il famoso proverbio:
sete l é i boconi boni: fìghi, dàteri, meloni, pan del giorno, vino puro, mona streta e
casso duro4 o l’altro… aqua fresca, vino puro, figa streta, casso duro!
La cosa viene ribadita anche nel seguente canto popolare dedicato alla beltà
femminile: e la donna, per esser bella deve avere tre co∫e strette5: strette mani, stretti
fianchi e stretta…
Anche il Ruzante, con la scusa di commentare le vesti delle donne padovane,
usa un analogo doppio senso:
«Guardè le nostre fémene:
cum pì le è strete de soto,
a le ne pia∫e pì e sì par miegio.
E così a cherzo
che le dìbia pia∫er a tut òm».6
Guardate le nostre donne
che tanto sono più strette sotto
più piacciono e ben si mostrano.
Così credo
debbano piacere a tutti gli uomini.
La cosa è ovviamente consona alle giovani che non abbiano ancora generato.
Come si dice nel Veronese: dov è pasà putèi, no gh è gusto par i o∫èi!7
4
«Sete xé i boni boconi: fighi, dàtoli e meloni, pan fresco e vin puro, mona streta e cazzo duro»CPS.
Vedi i canti al capitolo seguente.
6
Intermedio d’una comedia de Ruzante a la Pavana, 10 (Prologhi inediti alla Moscheta).
7
Anche «fémena, bot e orinal, co i é roti poc i val» (Refrontolo 2002).
5
146
Tale caratteristica elasticità è comunque presto persa tanto da considerarsi rara
come cita l’altro annoso detto: guanto, figa e beretta, non fu mai stretta.XTV, 131,1677
Per questo quella che possiede tale virtù giustamente cerca di trarne vantaggio
come, per voce maschile, afferma il verso del brano raccolto in Brasile, noto
come la parpagnola8, ed il cui testo è stato rielaborato sull’aria del più famoso
Cappello nero. Nel caso la protagonista diventa una certa Fumagalli la cui
vicenda, a Milano fu a suo tempo al centro di un clamoroso scandalo9.
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LA PARPAGNOLA10 - Sideropolis (Nuova Belluno), Santa Catarina, Brasile, 1997
La Fumagali la va in giardin,
a cior le ro∫e.
Se le ro∫e l é un bel fiore:
ohi Fumagali
dami la parpagnola!
3v
La parpagnola non te la do,
parché l é streta.
Se l é streta la faremo mi∫urare
e intant che la mi∫uremo
su ghe lo pianteremo!
8
Nel Settentrione d’Italia si trovano svariate versioni de la parpagnola (la farfallina, altro sinonimo della Lei)
Es.: «La parpagnola non te la dò perché l é freda: se é freda la faren scaldare; o mia belina, dami la parpagnola. /
La parpagnola non te la dò perché la scota: se la scota la faren sorare; o mia belina, dami la parpagnola. /
La parpagnola non te la dò perché la vola: se la vola ghe tajeren le ali; o mia belina, dami la parpagnola. /
La parpagnola non te la dò perché l à fame: se l à fame la faren mangiare; o mia belina, dami la parpagnola» ecc.
9
Cfr Castelli, 90, 90, per il valenzano. Sul tema l’Autore ci fornisce alcuni specifici dati: «... la canzone trae
spunto da uno scandalo che agli inizi del Novecento aveva turbato l’opinione pubblica, per i fatti avvenuti
in un istituto religioso lombardo (chi dice l’Asilo della Consolata di Milano, chi dice di Monza, chi di
Pallanza), complici la suora Maria Fumagalli e il prete don Giovanni Riva. Cesare Bermani, in Esperienze
politiche di un ricercatore di canzoni nel novarese, scrive: «Ricordata un po’ dovunque è poi la canzone che
prende spunto dal clamoroso scandalo scoppiato nell’estate del 1907 nell’Asilo per bambine della Consolata
a Milano, che ebbe come protagonisti il prete Riva e la suora Fumagalli. La Fumagalli la va n giardin cun al
don Riva dovette essere, nel novarese, l’inno di battaglia delle agitazioni anticlericali di quell’anno» (Il nuovo
canzoniere italiano, n. 4, 1964). Sul settimanale L’Asino ebbe particolare rilievo la notizia, secondo cui gli
ecclesiastici violentarono dei fanciulli trasmettendo loro anche malattie veneree. L’istituto fu chiuso e i
religiosi arrestati e condannati. L’epiteto di ‘pallanzeschi’ stette ad indicare, sulla rivista, gli atti turpi
commessi sui bambini. Come indizio della vasta popolarità del canto, si veda, nella raccolta di JonaLiberovici, Canti degli operai torinesi, 84: «La Fumagalli la va ntal bosch / e don Riva ai sauta adoss / i sàuta
adoss a i tira sü la vesta / oh che bela festa…» e, su altro motivo musicale: «Dun Riva, Dun Lungo,/ Fumagalli
e sucietà / sun la ruina d le ma∫nà / lur sa van ant le famije / pär pudèi rubé le fije…» (366).
A riprova della risonanza e dell’emblematicità che il fatto assunse nel clima anticlericale dell’epoca, stanno
vari fogli volanti da cantastorie, tre dei quali sono riprodotti nel volume citato (367-370): La Banda nera,
canzonetta nuovissima di Quirino Trivero, Torino, Tip. Marengo, s.d.; Il fatto dei preti di Milano e
l’assessore comunale dell’Incisa, Nuova canzonetta di Cesare Picchi, Firenze, Tip. Ducci, 1907; Epilogo del
Mistero delle Consolate, autore Luigi Canzi, Milano, Tip. Genolini, 1908.
10
AGSB, CDE Soraimar, Soto l albero fiorito, SRM 0005/06, canta il Grupo belune∫i de Sideropolis.
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La versione veneta più comune pare la seguente
115
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La g à la bicicleta streta streta,
ghe pasa l ortolan co la careta
(ghe pasa l mariner co la barcheta)
l ò vista ieri sera in bicicleta;
non ti scordar di me.
LA BARBAIOLA11 - Oppeano, VR, 1977
La Filomena la và a l marcà a comprar le ro∫e;
e da le ro∫e la g à pasà parola
uè, Filomena, dami la barbaiola!
La barbaiola non te la dò perché l è mia,
e se l è tua, tienila da conto
uè, Filomena, dàmela che son pronto!
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La difficoltà di mantenere tonico questo particolare muscolo, specie se
sottoposto a ‘stress’, è sottolineata nell’antico adagio: l é la bu∫ànega na roba
miranda: pì se la dòpera, pì la vien granda! Ne deriva una pratica svalutazione
del mezzo per cui la rosa, da bòcolo, diventa ro∫a spampanà.
Alla medesima elasticità fa riferimento un canto dall’apparenza innocente e che
è rimasto tra i più noti e praticati a livello popolare:
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RIT:
Quando ti vedo a te
il paradi∫o mi par di veder,
quando ti vedo là
in mezo al mare mi par di vogar.
Come visto nei brani precedenti, la piazza del mercato e i suoi personaggi tipici,
i venditori da una parte e le donne, in particolare quelle di servizio, dall’altra, è
spesso al centro di incontri galanti e tresche amorose. Lo racconta anche il brano
che segue, la cui altra particolarità è quella di essere cantato in forma bilingue.
Si tratta ancora di un canto istroveneto adottato per frequentazione anche dalle
genti dell’entroterra di madrelingua slava.
La barbaiola non te la dò perché l è mia;
e se te si pronto te tocherà spetare
uè, Filomena, dàmela da provare!
E da provare non te la do perché l è mia
e se l è tua, tienila da conto
uè, Filomena, dàmela che son pronto!
EL MARINER - Sissano d’Istria, 1998
IA SAN BIO A FIUME14 - Sissano d’Istria, 1983
Ia san bi a Fiume
in piaza de le Erbe
e ò incontrato
cento mila serve.
Se gavési puska
mi te mazarìa
el ben che mi te voio
.......
Lei mi à deto
sei un bel moreto
e poi mi à meso
una man su l pèto.
Lei mi à deto
sei un bel ragazo
e poi mi à méso
una man su l brazo.
A dirla tutta, non pare poi che al maschio dei tempi andati importasse molto che
il piacere fosse reciproco. La donna-oggetto è stata per secoli una realtà
inconfutata. Non scandalizzi la franchezza e si pensi piuttosto al comune senso
del ‘dovere’ mostrato dalle nostra nonne che, intervistate dalla cima delle Alpi
all’altipiano della Sila, ci hanno raccontato che, prima di alzarsi, all’alba, si
rivolgevano al proprio marito con frasi del tipo me léve o me dòretu? (mi alzo o mi
adoperi) nelle Dolomiti venete, oppure voléu comodarve? in pianura, equivalente
al m alzo o v abbi∫uogno? (mi alzo o avete bisogno di me) nella Calabria centrale.
La strada del bosco,
l é lunga, l é larga e l é streta;
l é fata a barcheta,
l é fata per fare l’amor.12
Largo per abusato, diventa anche lo spunto del dileggio in molti canti simili a
quello che ora segue, raccolto in una piacevolissima osteria a Sissano d’Istria,
elaborazione di un similare assai meno ardito13
14
11
Versione Piccolo Teatro di Oppeano (Convegno Soraimar, novembre 2002). Cfr. Coltro, Cante e cantari,
256-257, La Filomena la va a l marcà, meglio nota come la barbaiola, la barbuta. Anche in Cornoldi, n. 205
(La Filomena).
12
La versione summenzionata è cantata dalle donne di Faedo (VI) ma il brano è comune in tutta l’area
padana tanto da risultare riportato in quasi tutti i testi citati; riportiamo, a confronto, anche la versione
117 piemontese dei cantori di Rueglio * (Archivio Amerigo Vigliermo). La quartina è simile anche tra le villotte
friulane: «j è la strade lunge e large / in t al miez al è un puarton; / il puarton de me moro∫ e / sempre alegri e
mai pasion» (cfr. Arboit, 74, 158).
13
Il brano è noto con più nomi tra cui El marinèr: «La g à i oceti neri, neri, neri / e l vi∫ o de bambina pena
nata, / l ò vista l altra sera e l ò baciata / non ti scordar di me»; AGSB, CD BLM 0016/04.
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L’altr’anno sono stato a Fiume: Anche questo brano proviene da Sissano, vicino Pola, (Archivio Starec, Istria
10.17) e la registrazione risale al 1983. Lo eseguono tre voci maschili. Interessante anche la finale con la frase
aggiuntiva «alza la gamba Màrize, fàmela vedere». Lo stesso canto è stato da me raccolto nel retroterra di
Capodistria cantato dalle donne di Sv. Peter (Savrinke) ed è qui parimenti riportato * . Vi è da dire che molti
altri canti locali presentano commistioni. Tra i più noti, e inerente al nostro tema, c’è quello noto come Moja
mare kuha kafè (Mia madre fa il caffè), una cui strofa dice: «Se vuoi fare l amore con me / giù le mudande e su
il combinè». La prima versione che riportiamo è quella di Oscurus *, 1984 (Arc. Starec, Istria 19.10), con 2 voci
maschili, armonica diatonica e bassetto. La seconda e la terza sono quelle da me raccolte dal trio La Zonta *
(2000) e dalle donne Savrinke (2001) *. La traduzione del testo croato dice: « Mia madre fa il caffè solo con
della cicoria, basta che ce ne sia. /Mia madre fa il caffè solo con l’orzo, basta che ce ne sia. / Mia madre fa il
caffè solo con la cenere, basta che ce ne sia.». Segue quindi la strofa del su l combinè (ficcaci su il…).
149
LA DONNA È BONA TUTTA
la mona no g à patria
La donna è bona tutta: recita così uno tra i detti più vecchi e condivisi che vuole
sottolineare come le beltà femminili, ovvero le attrattive apprezzate dagli
uomini nelle donne, siano assai più d’una e particolarmente vengano ben
valutate nelle giovani, come cantano i due seguenti stornelli nostrani.1
Fiore de ruta,
la carne de la dona è bona tuta,
e specialmente quela giovinota!
126
UNA DONNA PER ESSER BELLA3 - Rovigno d’Istria, 2004
Una donna,
una donna per esser bella
deve avere,
deve aver tre co∫e nere:
nere ciglia,nera chioma…
Una donna per esser bella
deve aver tre co∫e rosse:
rosse labbra, rosse guancia…
RIT: ecc.
RIT:
L altra poi,
l altra poi ve la di∫arò;
l altra poi non ve la digo,
un antra volta,
un antra volta ve la dirò!
Fiore de zuca,
la carne de la dona è bona tuta,
e specialmente quela de la puta!
Delle donne, gli uomini cercavano di valutare sia l’aspetto fisico che caratteriale.
Per cercare di individuare quest’ultimo, data la scarsità di contatti conoscitivi
diretti, esisteva un modo empirico affidato a sentenze dedotte da:
I canoni della bellezza vengono ben enumerati nei canti popolari dove gli
evidenti doppi sensi individuano i punti focali d’interesse, sottolineando nel
contempo le aspettative di carattere collaborativo nella gestione familiare in
generale.
COLORE DEI CAPELLI
E LA DONNA2 - Belluno, 1964
Tol la mora par moro∫a;
tol la bionda par to spo∫a!
Prendi la mora per amante;
prendi la bionda come sposa.
La mora la vol;
la bionda la pol.
La mora vuole;
la bionda può.
Castane, fa matane;
more, fa l amore;
bionda, fa la ronda;
rosa, fa la fòsa!
Le castane sono inaffidabili;
le more sono amorose;
sulla bionda occorre vegliare;
la rossa ti scava la fossa!
Rosa de pél,
zento diaoi par cavel!
Rossa di pelo,
cento diavoli per capello!
El pì bon de i ros,
l à butà so mare in te l fòs!
Il più buono dei rossi
ha gettato il padre nel pozzo.
Rosa de pel, bona da o∫èl!
Rossa di pelo, buona amante!
E la donna
su pa l prà
e la donna
su pa l prà
e la donna per esser bella,
su pa l prà
deve avere
su pa l prà
deve avere
su pa l prà
deve aver tre co∫e nere; su pa l prà
cilia e chioma,
su pa l prà
chioma e cilia,
su pa l prà
e la donna per esser bella,
su pa l prà
deve avere,
su pa l prà
nere nere,
su pa l prà
le sue man per lavorar. su pa l prà
1
Seguono col medesimo criterio e il
corretto, su pa l prà, le altre strofe, un
poco dramatizzando il canto
E la donna per esser bella
deve aver tre co∫e strette:
strette mani, stretti fianchi
streta sfe∫a de l tà-cuin!
…
E la donna per esser bella
deve aver tre co∫e fonde:
fondo gli occhi, fondo l cuore
fonda tasca de l grambial!
Cfr. De Biasi, I canti popolari veneti di Luigi Marson, 310.
Questa lezione bellunese è da me praticata avendola imparata fin da giovane; addirittura mi è capitato
recentemente di coinvolgere un gruppo ‘gospel’ di Atlanta (USA) in questo canto, il giorno di Natale del
124 2001 a Laste di Rocca Pietore, con il risultato sonoro qui riportato * . Una versione analoga per profilo
125 musicale e simile nel testo esiste a Rivamonte, nel Basso Agordino, col titolo La ronca * (Gruppo La Marol).
In questo caso, le cose belle nella donna sono rispettivamente ochi e cilia poi pancia e culo e alfine corda e spola
che sono gli attrezzi necessari per legare il fieno nel lenzuolo con cui la donna stessa lo porterà poi a casa dal
monte, caricando il pesante fardello sulla testa.
2
150
DAL COLORE DEGLI OCCHI
Oci bi∫i, paradi∫i,
oci mori, rubacuori,
oci selèsti fa inamorar;
oci bianchi fa da cagar!4
Occhi bigi, paradisi;
occhi neri, rubacuori;
occhi celesti, fanno innamorare;
occhi chiari, fanno schifo!
AGSB, SRM 0234/02. La versione mi è stata fornita da Vlado Benussi che pure la canta, a bitinada,
assieme a un gruppo di amici di Rovigno in Istria (oggi Croazia); la versione istriana ha punti in comune
(terza e quarta strofa) con la versione bellunese.
4
Cfr. C. Musatti, Proverbi veneziani, cit. e anche G. Bianchi, Proverbi e modi proverbiali veneti.
3
151
Oci mori val te∫ori;
oci bi∫i val servi∫i;
oci castani fa malani.
Occhi neri, valgono come tesori;
occhi bigi, sono di donne servizievoli;
occhi castani portano malanni.
127
DALLA FORMA IRREGOLARE DEL NASO
Chi à l nas che trà a la testa,
al é pèdo de la tempesta.
Chi ha il naso che guarda in su
(al capo), è peggio della tempesta.
Chi che à l nas che trà a la boca,
guai a chi li toca!
Chi ha il naso che guarda in giù
(alla bocca), guai a toccarli!
DALLA PROVENIENZA
Vache da montagna
e fémene da campagna.
Vacche di montagna e donne di campagna
sono la miglior scelta.
Vardate da la bolp, dal tas
e da le fémene co l cul bas.
Guardati dalla volpe, dal tasso
e dalla donna col culo basso.
Fémene e bò dei pae∫i sò.
Donne e buoi dei paesi tuoi.
Fémena foresta,
bona solo da festa!
Donna forestiera,
adatta a farci festa!
Donna pelosa, matta o virtuosa.
DALLA POSTURA ADOTTATA
Un bel sentar
fa una dona belaGBN.
Un bel modo di sedere
qualifica una bella donna.
Anche attraverso i canti popolari si davano consigli in ragione delle caratteristiche
fisiche delle possibili spose5. Eccone alcuni esempi ancora di gran moda presso le
nostre comunità all’estero. Ad una prima serie fa riferimento il canto in cui la donna
viene valutata nel momento in cui va a letto.
La conclusione, ovvia, individua nella bella la persona ideale con cui fare all’amore.
5 Tra quelli recenti è noto il brano col seguente incipit La mia mama mi diceva / non fidarti de le more che son
tute traditore; / de le bionde… vagabonde; / de la rosa… che la parte a la riscòsa) ecc.
6 AGSB, CDE Soraimar, I ori de Angelin, SRM0226/17. Gorda, termine brasiliano, sta per grassa. Roncar
o ronzegar è voce nostrana e significa russare. La donna di pelle scura è la mulatta o la nera, e compare spesso
nei canti dei taliani do Brasil, quasi mai valutata in modo positivo, secondo un modo diffidente nei confronti
di questa comunità, che persiste tuttoggi.
7 AGSB, CDE Soraimar Mì∫eri coloni SRM0200/08, canta la famiglia Balbinot. Il brano è noto anche con l’altro
titolo de I vol che me maride. Non si sa come il canto sia giunto in Brasile ma qui gode di grande popolarità.
152
La dona magra no la voi no;
2v
co la va in leto, la par na càura,
la dona magra no la voi no.
La dona risa no la voi no;
la va su l leto, e la se pisa,
la dona risa no la voi no.
La dona górda no la voi no; (grassa)
la va su l leto e la me ∫gorla,
la dona górda no la voi no.
La dona scura no la voi no;
la va su l leto e la fa paura,
la dona scura no la voi no.
La dona granda no la voi no;
la va su l leto, la par na stanga,
la dona granda no la voi no.
La dona bruta no la voi no;
la va su l leto e là la spusa,
la dona bruta no la voi no.
La dona pìcola no la voi no;
la va su l leto, la par na strìcola,
la dona pìcola no la voi no.
La dona bela mi la voi sì;
la va su l leto e la fa l amore,
la dona bela mi la voi sì.
La dona grasa no la voi no;
la va su l leto, la ronca masa,
la dona grasa no la voi no.
Nella seconda tipologia, che ha molte caratteristiche comuni a quella appena
vista, la valutazione tiene conto di aspetti più generali e l’obiettivo del brano è
quello di screditare il matrimonio.
DALLA VILLOSITÀ
Dona pelo∫a: mata o virtuo∫a.
LA DONA MAGRA MI LA VOI NO6 - Sideropolis, SC, Brasile, 2003
128
I VOL CHE ME MARIDE7 - Guaporè, RS, Brasile, 2003
I vol che me maride
mapin mapon mapan
ma mi g ò mai pensato
mapin mapon mapan
che per esere comandato
ghe ól tempo de pensar
mapin mapon mapan
Seguono
e vanno eseguite,
col medesimo criterio,
le altre strofe
Se mi la trovo pìcola,
picola picenina,
la scóva la cu∫ina
e altro no la fa.
Se mi la trovo magra,
tuti ghe ciama renga
e mi bi∫ón che spenda
par farla ingrasar.
Se mi la trovo bela,
g ò sempre gente in ca∫a
e mi bi∫ón che ta∫a,
pasarme de rufian.
Se mi la trovo bruta,
mia la ∫é par sempre;
quando me vien arente,
spavento la me fa.
La storia ∫é fenita,
e piantaremo n ciodo
e questo l é l so modo,
così farò anca mi.
153
129
I VOL CHE ME MARIDE8 - Garibaldi, Rio Grande do Sul, Brasile
I vol che me maride
no no no g ò pensato
per eser comandato
g ò tenpo da spetar.
*
*
*
Se me la trovo grasa,
la ciapa tut al leto
el pajón l é longo e streto,
e in due no se ghe stà.
Da maridar no stago,
g ò l sangue che me boie;
vol dir che na doneta,
la volerìa anca mi.
Se me la trovo magra,
tuti ghe ciama rénga
e mi bi∫òn che spenda
per fàrmela ingrasar.
Se me la trovo pìcola,
pìcola picolina,
la spasa la co∫ina,
e altro no la fa.
Se me la trovo bruta,
bruta la g ò per senpre,
co la me vien darente,
spavento la me fa.
Se me la trovo granda,
granda ben grandona,
la vol far la paróna,
e mi star te un canton.
Se me la trovo bela,
g ò senpre gente in ca∫a
e mi bi∫òn che ta∫a,
lasarla divertir.
Se me la trovo pegra,
pegra e lazarona,
la se senta in carega, (o poltrona)
e altro no la fa.
Se la trovo cativa,
g arò na vrespa in ca∫a,
la beca tuti i giorni,
la é sol drio brontolar.
Se me la trovo rica,
ricasa de richese,
la se mete le braghese,
la me comanda a mi.
No no, no me marido,
perché so n poc gelo∫o,
no servirò da spo∫o,
nisuni spo∫erò.
Se me la trovo pòvera,
pòvera poverina,
ghe vol dopo na mina,
per darghe da magnar.
La storia ∫é fenida,
ghe piantaremo n ciodo,
ognun la vol so modo,
co∫ì la voi nca mi.
RITORNELLI RIPETITIVO (TRE PER OGNI STROFA):
8
* mapin mapon mapan.
AGSB, CDE Soraimar Spunta l sole SRM 0194/03. Canta Valmor Marasca. Il canto è tra quelli satirici nati
in seguito all’introduzione della tassa sul celibato (1935, sotto il regime del fascio). Il cantautore brasiliano
di origine italiana (nonno di Ala di Trento e nonna vicentina) oltre a questa, che analogamente si riscontra
in Veneto (cfr. Pagnin-Bellò, 174-175, I celibi), ne ha in repertorio anche un’altra intitolata, per l’appunto,
130 La tasa doloro∫a! *. La mina è la miniera.
154
Per ciascun uomo la donna rappresenta il complemento non solo fisiologico ma
anche relazionale. In questo senso la condivisione della vita può risultare più o
meno pesante una volta che la scelta sia fatta e non si preveda la possibilità di
ripensamenti: per questo si diceva mat chi se marida e nello stesso tempo mat chi
no se marida. Avendo responsabilità di scelta l’uomo temeva la donna ovvero il
proprio possibile errore. Ciò spiega la paura verso l’altro sesso e il tentativo di
screditamento preventivo racchiuso nella maggior parte dei proverbi sul tema9.
LA DONNA DANNO
Ogni dona l é strìa.
Ogni donna è strega.
La fémena ghe l à fata anca a l diaol.
La donna l’ha fatta anche al diavolo.
Diàol, dona, dan e malan: tut al temp de l an.
Diavolo, donna, danno e malanno…sempre.
Tre D rovina l omo:
diavolo, denaro e dona.GBN
Tre D rovinano l’uomo:
diavolo, denaro e donna.
LA DONNA COME PERICOLO
La figa xé na gran nemiga.CPS
La fica è la vera nemica dell’uomo.
Dio te varde
da la fan, da l fun, da l frét, da la guera
e da l bus che varda in tera!
Dio ti salvi,10
da fame, fumo, freddo e guerra
e… dal buco che guarda in terra!
Vardete da l bò, davanti,
da l mul dadrio,
e da la fémena da tute le bande.APN II,119,170
Guardati dal davanti del bue,
dal di dietro del mulo
e dalla donna… dovunque.
Dio te guarda da sete co∫e:XTV, 149, 1772
ca∫a nuova, osto novelo, putana vècia
vin de spina, pan de scafa,
legne de ligazo e vin de fiasco!
Dio ti guardi da sette cose:
casa nuova, oste novello, puttana vecchia,
vino di spina, pane esposto,
legna di legaccio e vino di fiasco.
La rovina de i òn:
magnar polenta cruda,
laorar sot na piova menuda…
andar in let co na fémena nuda!
La rovina degli uomini:
mangiare polenta cruda,
lavorare sotto una pioggia minuta,
andare a letto con una donna nuda!
Quando i monti scavalcherà i piani,
i liévori corerà drio i cani,
e le done tacherà a comandare…
pezo de lì no la poderà ndàre!
Quando i monti scavalcheranno i piani,
quando le lepri rincorreranno i cani,
quando le donne comanderanno…
peggio di così non potrà andare!
9
Il complimento: « La fémena cen su tre cantoni de ca∫a e l òn un solo» e i tre di seguito segnalati tra i ‘vantaggi del
matrimonio’, pressocché unici del genere, ribadiscono la visione unidirezionale e maschilista del rapporto.
10
Nel Libro delle X tavole anche: Dio te varde da cinche F: Fame, Fumo, Fiume, Frate, Fémene, cioè móneghe.
155
L arma de le fémene… é la voia de i omi!
L’arma delle d. è il desiderio degli uomini!
LA DONNA INAFFIDABILE
Le done stua più mòcoli che i sacrestani. CPS
Le d. spengono più candele dei sacrestani.11
Una mà∫ena de soto,
ghe ne consuma sénto de sora.CPS
Una macina di sotto
consuma cento macine superiori.
Da moro∫e car e boi
e da fémene… pore noi!
Da innamorate: carro e buoi.
Da sposate… Dio ce ne scampi!
La zoéta incanta i o∫èi!GBN
La civetta (la donna) incanta gli uccelli!12
Da maridar: le tira la grapa e l car.
Da maridade: grape deventade!16
Da maritare: tirano carro e grappa.
Da sposate, ecco che diventano grappe!
La fémena
o che la impianta o che la despianta.
La donna ha il potere
di determinare il risultato dell’unione.
LA DONNA IDEALE… MA PER LAVORARE
La fémena l à da aver
boca da porzèl e schena da a∫enel!
La donna ideale deve
mangiare di tutto e portare ogni peso!
An pal in pié,
na fémena in pian
e na saca intorta…
no se sa quant che le porta!13
Un palo in piedi,
una donna a letto
e una ritorta di nocciolo,
supportano qualsiasi cosa!
La fémena:
che la pia∫a, che la ta∫a
e che la stae a ca∫a!
La donna ideale:
che piaccia, che taccia
e se ne stia sempre a casa!14
Secondo la fémena, tira l camin!
A seconda della donna, la casa rende!
VANTAGGI DEL MATRIMONIO
De na fémena n òn
arà sempre be∫ on.
Un uomo avrà sempre
bisogno di una compagna.
Pore quel badil (o zest)
che no l abie n mànego.
Povero quel badile (o cesto)
che non abbia un manico ovvero
quell’uomo che sia senza la donna.
L é la fèmena che fà l òn!
È la donna che fa l’uomo.
SVANTAGGI DEL MATRIMONIO
òn maridà, o∫èl in gabia!
LA DONNA BELLA MA...
Co parla na fémena bela,
l à senpre ra∫ón!
Quando parla una bella donna,
ha sempre ragione!
Co na fémena bela la vol, ogni roba la pol!
Quando una bella donna vuole, può tutto!
Le bele va vardade,le brute va spo∫ade.
Le belle van guardate, le brutte, sposate.
Chi à bela mojér, no l é mai solo!15
Chi ha una moglie bella, non è mai solo!
Matrimonio,
metà del Signor
e metà del demonio.
Chi mal se marida
no l finis mai la fadiga.
Anche perché
ha altri che la bramano
Chi nase bela g à la dote co ela.GBN
Chi nasce bella, ha già con sè la dote.
Dona bela: o mata o vanarela.GBN
Donna bella: matta o superficiale.
GBN
A la dona bianca, beleza no ghe manca.GBN
Alla donna di pelle chiara non manca bellezza.
Chi se marida, presto se intriga:
crese la briga e cala l morbin.
Uomo sposato, uccello in gabbia!
Il matrimonio
è mezzo del Signore
e mezzo del Demonio.
11
«L aqua ∫mola la tera, al fogo ∫mola l fer, la fémena ∫mola l o∫el». Ascoltata personalmente a Refrontolo nel 2002.
Si usava la civetta come uccello da richiamo nei roccoli in cui si tendevano le reti. All’arrivo degli uccelletti, specie
delle allodole, il capocaccia lanciava un oggetto presso la civetta e i volatili, scappando, s’impigliavano nelle reti.
13
Il proverbio è dei più noti. In Pasqualigo: «palo in pìe,dona butà e stropa intorta, no gh è pe∫o che no i porta»; ovvero
«stropa intorta, palo in pié, dona butà, la porta un pe∫o che no se sa!».
14
Il concetto è ribadito anche nella Dottrina di Pio X, ma già nelle Dieci tavole dei proverbi si può leggere: «Le done
da ben no à ne ochi né orechie», 89 L V, 1059. 15
«Chi à bella moglier, la non è tutta soa», XTV,43,C IX, 360. Nel medesimo volume (115,S II,1462) anche:
«Saviezza di pover omo, bellezza di puttana, forza de fachin… no val un bagatin».
12
156
Chi sbaglia a sposarsi
non finisce mai di faticare.
Chi si sposa, presto s’impiccia:
cresce la fatica e cala il desiderio.
16
Peruch, 226.
Foglio per ventola, xilografia remondiniana del XVII secolo
157
Quello che l’uomo pretendeva da una buona moglie sotto il profilo del
comportamento è presto detto o meglio viene ben riassunto nei punti sottostanti
tratti da una stampina del primo Settecento intitolata Ufficio della madre di
famiglia17, oggetto che veniva appeso ai muri di casa… e non tanto per scherzare.
Far ogni giorno oratione a Dio, pregando per Marito e figliuoli
Legger libri lodati dal Marito e dalla chiesa
Contentarsi del Marito che Iddio gli ha dato
Farsi soggetta al Marito come suo capo
Amare il Marito, no(n) la sua bellezza, fortezza o richezza
Amare nel Marito la bonta, la modestia, la prudenza
Imitar il Marito no(n) facendosi lecito certe cose lecite a lui
No(n) far cosa fuor della cura familiare senza licenza del Marito
Non dire o fare al Marito una cosa per un altra
Non scriva sol che per necessità al Marito
Non rinfaci al Marito bene che per lei habia
Non avillirà il Marito in conto alcuno
Né al Marito ne a’ suoi maggiori romperà il parlare
Al Marito sarà mansueta amorevole e costante
Dal Marito adimandata, presta e (v)eritevolmente risponda
Atenda con allegra fronte al Marito e a’ figliuoli
Nutrisca i figliuoli con il propio latte
Non creda a superstizioni, incanti o sogni
Non vadi a spasso, perché non tornerà migliore
Si faccia monda e non bella, vestendosi come il suo grado
Non dia bevanda al Marito per farsi amare
Stia e tenghi in esser cioè figliuole e fante(s)che
Tralasci fino le chiese quando il Marito è gravato da infermità
Al Marito crederà ogni cosa
Non dica gli secreti del Marito a persona vivente
Non tenga comercio for che con suo Marito e figliuoli
Sia amorevole, così nel fare come nel ordinare
Non si sdegnerà d’ogni cosuccia
In assenza del Marito stimi haverlo presente
Non tolga presenti fuor che da streti parenti
Fugga la curiosità di saper i fatti d’altri
D’huomeni nulla parli o per necessità
Havendo a parlar, usi poche parole
Parlar di secreto non consenta
Non s’affettioni de figliuoli più all’uno che all’altro
Non dica, ne meno insegni, a dir mio, tuo
Insegni con l’esempio di sè e non con gridi o minacie
Non la(s)ci praticar per casa persone infami o rapaci
Fantesca trovata in errore, non ritolga
Non facci la schifa, ne meno la sfaciata
Non besserà alcuno facendo diformità di viso o di persone
Non chieda al Marito più di quello che ei possa
Non parli o ascolti cose nefande
Non giochi, se non li figliuoli la faran tribular viva e morta
17
158
Le dimensioni originali della stampa sono 22 x15,6 cm.
159
Siccome qualcuno ritiene che la provvidenza non abbia limite, ecco il desiderio
complementare espresso dal maschio nella verità del proverbio popolare: La
bona fémena à da ver quatro M; la deve èser: modesta in ce∫a, matrona in strada,
masèra in ca∫a, mata in let! (La donna ideale deve avere in dote quattro M; deve
essere: modesta in chiesa, matrona in strada, massaia in casa e matta a letto!18).
Hai detto niente! Così, per quanto riguarda i desideri materiali, il possesso della
donna si materializza nei suoi diversi dettagli anatomici accennati talvolta con
gentilezza ma con chiaro intento di arrivare, finalmente, alla chechina.
131
133
Che bei capéli la g à
la canpagnola de amor;
Questi capéli beli
io tengo per far l amore – ohilà –
Che bela la canpagnola
sui canpi a lavorar!
E quando si fa sera
in canpagna non si va non si va:
morire mi fa, la canpagnola de amor!
CHI T À FATO19 - Sideropolis, Santa Catarina, Brasile, 2003
Chi t à fato quei bei oceti, oceti de amor?
B ) La me l à fati la mama mia, facendo l amor -.
CORO: * Vilan, pae∫an, sta via co le man. O banbinela de amor!
A1)
1
Nelle strofe successive si sostituiscono
progressivamente le altre parti del corpo:
Le strofe si susseguono col medesimo criterio e con riferimenti successivi a:
Chi t à fato quele tetine, tetine de amor?
Chi t à fato chela panseta, panseta de amor?
Chi t à fato quele ganbete, ganbete de amor?
Chi t à fato quela chechina, chechina de amor?
132
Che beli capéli che g à la Milane∫a; 2v
beli sì sì, bruti no no,
capéli beli la Milane∫a no, no!
Seguono le altre strofe adattate alla già vista struttura, che vanno ad inserire oggetti
e parti anatomiche fino ad arrivare alle cose più intime (a seconda del contesto).
Che bele recéte che g à la Milane∫a;
Che beli océti che g à la Milane∫a;
Che bel na∫éto che g à la Milane∫a;
Che bela bochéta che g à la Milane∫a;
18
Che bela facéta che g à la Milane∫a;
Che bele tetine che g à la Milane∫a;
Che belo vestito che g à la Milane∫a;
Che bele scarpéte che g à la Milane∫a.
Il suo amante doveva avere 4 S ovvero essere: san, sior, solecito, segreto GLS (sano, ricco, premuroso, segreto
ovvero ignoto agli altri), che equivalgono alle «quatro S vuol Amor: savio, solo, sollicito, secretto» XTV, 149,1779.
In alternativa le donne si accontentavano delle tre D: doven, devoto, discreto (giovane, devoto, discreto).
19
AGSB, CDE Soraimar, I ori de Angelin, SRM 0226/12. Questo brano è assai diffuso. Nella versione
analoga di Coltro, Cante e cantari, 466-468, il ritornello è più esplicito: «Vilan, pae∫an, sta su co le man / non
mi tocar son giovane / son verginela d amor». Similmente in Ninni, Scritti dialettologici, III, 37-38: «Vilan, fa
pian, sta su co le man / son bambinela d amor».
20
AGSB, CDE Soraimar, Rose do Sul, SRM 0004/13, cantano i Fratelli Dal Cin.
160
Vigilanza, xilografia seicentesca CR
Che bei ochiéti la g à…;
Che bel na∫éto la g à…;
Che bela bochéta la g à… ecc.
*
*
*
*
LA MILANE A20 - Piemonte di Carlos Barbosa, RS, Brasile, 1997
LA CAMPAGNOLA DE AMOR21
Piemonte di Carlos Barbosa, RS, Brasile, 1997
135
DAMELE A ME22
circondario di Serafina Correa, RS, Brasile, 1998
Che bele scarpete tu à,
cosa tu fa, dàmele a me
CORO: *La mama vol mia!
Dighe a la mama che la tegne le sue,
dame le tue, dàmele a me! (tuo, tua, tui)
Si prosegue nel medesimo modo
Che bele gambete tu à, cosa tu fa, dàmele a me…
Che bel corpeto tu à, cosa tu fa, dàmelo a me…
Che bela bocheta tu à, cosa tu fa, dàmela a me…
Che bei caveleti tu à, cosa tu fa, dàmeli a me…
Che bele tetine tu à, cosa tu fa, dàmele a me…
Che bela co∫eta tu à, cosa tu fa, dàmela a me…
21
AGSB, CDE Soraimar, Varda la luna, SRM 0003/12,
cantano i Fratelli dal Cin. Sulla falsariga di questi, come dei
134 precedenti canti, si colloca Formiga e formigón, con l’evidente
doppio senso (AGSB, CD BLM 0500).
22
AGSB, CD 0500 cantori da osteria.
Il Piacere, xilografia seicentesca CR
161
La richiesta diventa ancora più esplicita allorché espressa dalla sola compagnia
maschile. La donna allora viene scomposta e rimontata nei pezzi di una
fantomatica carrozza o biroccio su cui salire, o meglio ‘montare’ per godere dello
straordinario viaggetto: almeno così si canta.
136
137
E coi capelli de la rossa
CORO: che ci vogliamo fare?
due belle briglie per la mia carossa,
coi capelli della rossa,
coi capelli della rossa;
TUTTI: due belle briglie per la mia carossa
coi capelli de la rossa, vogliamo far!
LA CAROSA23 (LA BELA DONA) - Garibaldi, RS, Brasile, 2000
E mi voleva na bèla dona!
CORO: Co∫a farai co la bèla dona?
E mi voleva i so cavegéti!
CORO: Co∫a farai co i so cavegéti?
(briglie)
Due lingerete per la caròsa,
amo le dòne bèle, amo le dòne bèle;
TUTTI: due lingerete per la caròsa,
amo le dòne bèle per fare l amor!
E mi voleva na bèla dona!
CORO: Co∫a farai co la bèla dona?
E mi voleva i so océti!
CORO: Co∫a farai co i so océti?
(fanali)
Due feraléti per la caròsa,
amo le dòne bèle, amo le dòne bèle;
TUTTI: due feraléti per la caròsa,
amo le dòne bèle per fare l amor!
E mi voleva le sue recéte!
Due paralama per la caròsa,
(parafanghi)
E mi voleva la so bochéta!
Stampo de rode per la caròza;
(ruote)
E mi voleva el so corpéto!…
Un casonéto per la caròsa,
(tettuccio)
139
(cassone)
E mi voleva el so onbighéto!…
(campanello)
Un bu∫inéto per la caròsa,
Seguono le altre strofe con la medesima
struttura in cui si collocano le frasi:
(stanghe)
E mi voleva el so na∫éto!
Un timonéto per la caròsa,
E mi voleva el so culéto!…
Una descàrga per la caròsa,
(scaletta)
Variante finale
La mia caròsa è una bela dona!
TUTTI: Co∫a farai co la tua carosa?
Ghe monto sora e fago un viajéto,
Amo le done bèle, amo le done bèle;
Ghe monto sora e fago un viajeto;
amo le done bèle per fare l amor!
23
162
AGSB, CDE Soraimar, Spunta l sole, SRM
0194/05, canta V. Marasca. L’ombigheto è l’ombelico.
23b
Un seno sodo (come i respingenti di una locomotiva) è
un valore celebratissimo a livello popolare. Anche quello
di una donna energica vale in tal senso: Ala de capón, colo
de castrón e tete de masàra (massaia), ∫é na roba rara!
di seguito col medesimo criterio
con gli occhi
con le tette
con le gambe
con le chiappe
co a bernarda
due bei fanali
due belle trombe
due belle stanghe
due bei cuscini
una bela spassola
LA ROSSA24 - Rovigno d’Istria, 2004
E con le gambe della rossa
CORO: cosa faresti tu?
due timoni per la mia carossa
con le gambe della rossa,
con le gambe della rossa;
TUTTI: due timoni per la mia carossa
con le gambe della rossa, vorìa far!
E mi voleva le sue tetine! 23b…
Due paras’ciòchi per la caròsa, (respingenti)
E mi voleva le so ganbéte!…
Due fioréti per la caròsa,
Venustà, xilografia CR
138
E mi voleva i so deéti!…
Tuti i rajeti per la caròsa, (raggi delle ruote)
E mi voleva el so vestito!…
Una leonéta per la caròsa,
LA CAROSSA DE LA ROSSA - Preganziol, TV, 2001
di seguito col medesimo criterio
con gli occhi
con le tette
con le mutande
con il culo
co la fi… bia
due fanali
due guanciali
due bei tendaggi
un tubo de scàrico
una scartassa
IO VOREI LE BELE DONE25 - Valmorel, BL, 1980
Io vorei le bele done
CORO: Che ne faresti tu
vorei la sua bocucia
CORO: Che ne faresti tuper baciarla matina e sera
TUTTI: gnìchete gnàchete e curucucu!
di seguito col medesimo criterio
Vorei i suoi ochioni...
due ferai per la caroza…
Vorei le sue tetine…
per nutrir le mie bambine…
Vorei il suo pancino
un tamburin pel re di Francia…
Vorei i suoi piedini
per girare l Italia bella…
Vorei i suoi ginocchi
per guardar più in su co li ochi
Vorei la sua cicina (pancina)
variante sul ritornello finale
panza co panza e tripa co tripa
CORO: man su la frìtola e curucucù!
24
La versione istriana, a bitinada, è stata da me registrata assieme a Sergio Sergas, a Rovigno, in una sera di
settembre del 2004. Si può ipotizzare una contaminazione tra questa e la versione brasiliana nella relazione
tra tubo de scàrico e descarga, nome dialettale della scaletta della carrozza (AGSB, SRM 0234/07).
25
L’informatore è Toni Battistella; il canto è dovuto ad un gruppo di amici di Conegliano giunti a godere le
arie buone di Valmorel (2004). Un canto similare è pure in Canzoniere del Progno, p. 174, col titolo de La
cameriera. Un brano intitolato Io vorei la cameriera è pure riportato da Piera Wassermann in I canti popolari
narrativi del Friuli (a cura di Roberto Starec), 74, dove le varie parti servono poiché… al mio biroccio ci
manca… Altra versione ‘notturna’ di Mi piacion le done bele, l’ho ascoltata e registrata personalmente a Baio
140 Dora da alcuni resistenti amici del gruppo dei Malgari * (2002).
163
PANZA
Ma scendiamo un poco sui bocconi migliori del desiderio poiché è su di essi che
si combatte la battaglia dell’attrattiva e del gioco amoroso. Panza, tete, cul non
sono soltanto la dote del Friùl, dove tanto più vige la villotta26, ma quella ambita
per tutte e in ogni luogo. Tere∫ina, co la panza mole∫ina, co le tete de veludo,
Tere∫ina te saludo! è una filastrocca insegnata persino ai bambini perché ritenuta
allegra e innocua, comunque assai meno maliziosa di quella serie di canzonette
da cafè chantant che la pancetta l’hanno esaltata in modo assai più sottile
giocandosela sul filo del profumo di un fiore: ah, che bella pansè che tieni, che
bella pansè che hai, me la dai, me la dai, me la dai la tua pansè?
TETE
La dote femminile per eccellenza è però un bel seno come precisa l’ennesimo
proverbio: Le tete xé la biava del cazzoCPS, le tette sono la biada ossia alimento
eccellente per la fantasia erotica del maschio. Una donna dotata de n bel senato, de
na bela laterìa, attira subito l’attenzione purché ciò che si vede dia l’idea della
consistenza, di una soda vitale prorompenza. Passa allora in secondo piano la
forma e dimensione delle beltà e vanno bene pomi (sap danùgi), pereti, zuchéte
fino ad arrivare ad angurie e meloni. Nel passato poche donne plebee avevano
tempo di badare alla bellezza di questa dote che era valutata invece per la
produttività27. L’allattamento della prole col latte materno era infatti una funzione
vitale per il ceto popolare e si considerava disgraziata la madre incapace di
allattare. Si diceva che l era sterpa, asciutta ed essa allora si votava a Santa Agata
con la speranza di poter essere graziata o diventava devota a San Mamante.
Il continuo allattamento, dovuto alla numerosità dei figli, portava presto la
ghiandola mammaria a prolasso e non contava nulla bersi qualche bicchiere in
più, dando credito al detto… pan e vin fa le tetine bele, se non per consolarsi.
La bellezza restava una qualità perseguibile solo dalle abbienti, che
noleggiavano le balie per svezzare i figli, o dalle votate alla castità, come ricorda
bene la sentenza: te sé delicato come le tete de le siore (anche… de la regina o de le
móneghe, delle monache, per la scelta implicita di rinuncia al possibile e naturale
utilizzo). Perciò: dona de bel pèto, dona de respèto.
26
Cfr. Ostermann, 289: «La dote del Friul: / vite gruèse, tetis ∫glonfis e un biel cul»; anche «La dote del Friul:
/ tete, mona e cul» che viene ribadito in «Fra mona, cul e tete / le ∫é tre mila nete» (cfr. Pasqualigo 335). Ancora
l’Ostermann (19 e 24) «I fantaz di chiste vile / la chiamè∫e i àn de cambrì; / e àn la pance sclagne, sclagne, /
debolécie de murì»; «Lis fantatis di culenci / a no son par fa l amar; / son tiràdis su di pance / come il chian dal
chiasadar». In queste ultime due si sottolinea la povertà delle zone in cui ci sarebbe poco da mangiare, a
motivo delle pance inconsistenti, deboli flaccide o tirate come quelle del cane del cacciatore, tenuto
notoriamente a stecca per migliorarne la resa nella caccia.
27
Per questo motivo venivano apprezzati in genere i seni grossi e sodi che supponevano generosità. Le ragazze che
li avevano scarsi o flosci rischiavano addirittura di rimanere zitelle: «Ma cui votu che te tuèli / cun chel pèt
di∫baratat: / culis tetiz ruspigozis / cum an legn mal dispedat» (ma chi vuoi che ti prenda, con quel seno svuotato,
con quelle tette appena accennate, come un legno mal piallato); cfr. Arboit, 490,495, per Cavasso e Fanna, (UD).
164
Una straordinaria ode al seno è quella dell’immancabile Baffo
Tete fate de late, e de zongida,
pastizeti, che el genio m incitè,
pometi, che la vita consolè,
cara compo∫ision insucarada.
Tette fatte di latte e di giuncata,
pasticcini che mi eccitate la fantasia,
piccole mele che mi consolate la vita,
cara composizione inzuccherata.
Tete bianche de neve nevegada,
cusinelo dove dormirave un Re,
pana impetria, che el gusto inamoré,
late∫ini per dar la Papolada.
Tette bianche di neve immacolata,
cuscinetto da far dormire un Re,
panna pietrificata, che fate innamorare,
latte come animelle da mangiare.
Tete de zen∫amin, de cao de late,
tete, che al zen∫amin sé do zuconi,
tete, che nel mio cuor sempre combate,
Tette di gelsomino e capo di latte
tette come due zucche di gelsomino,
tette che nel mio cuore sempre combattono,
tete, de darghe mile morsegóni,
tete, che sé per mi le co∫e mate,
tete, chi no ve ba∫a è gran cogioni.
tette da dargli mille morsi
tette che per me siete pazzesche,
tette, chi non vi bacia è proprio scemo!
CUL
La ∫biaca è un negro fumo in paragon
del bianco vostro cul, madona Cate,
le vostre candidisime culate
fa che el zèso più fin para un carbon.
La biacca è un nero fumo a paragone
del bianco vostro culo, madonna Caterina,
le vostre candidissime culatte
fanno che il fine gesso assomigli al carbone.
No ocóre miga che se tegna in bon:
dove ghe xé sto cul, l avorio e l late;
l alabastro più fin, le nevi intate
cede tuti a sto cul la so ra∫on.
Non occorrono gare di bellezza:
dove c’è questo culo, avorio, e latte;
l’alabastro più fine, le nevi immacolate
cedono tutti al suo confronto.
Le colombe xé negre, i cigni mori,
se el zen∫amin, e l zijo se trovase
dove è sto cul, no i parerìa più fiori.
Le colombe son nere, i cigni scuri,
se il gelsomino e il giglio si trovassero
dove lui è, non sembrerebbero più fiori.
Se i gavése sto cul tanti bardase
i poderave vadagnar te∫ori;
ma più belo el saria, se no l cagase.
Se avessero questo culo, tanti bardasse
potrebbero guadagnar tesori;
ma più bello sarebbe, se non cacasse.
Ancora eloquenti le altre: «a ci crostu di fa gole / cun chel pèt di∫botonat! / Iò ti diz che robe frole /an d è simpri
su l marciat»! (a chi credi di far gola mostrando il petto; te l ho detto che di robe frolle se ne trovano sempre al
mercato (ibidem 83, 192) mentre «Ches tetinis, ches tetinis, / quand me s dastu di busà! / Lor son duris, torondinis,
/ jò lu sin int al palpà» (che tettine, che tettine, quando me le dai da baciare! Sono dure e rotondette, le sento
quando le tocco); cfr. Ostermann, 2. Comune è anche il blasone in tutte le Venezie e in Istria: «E le to∫e da [nome
del paese] le va via a sete a sete / no le à ne cul ne tete / le partende a far l amor (e le vol se maridà)» cfr. Secco,
Di che paese 6?; anche in friulano «Lis fantatis di ste vile / a no s val un carantan; / lor no àn né cul, né tétis, / lu
à dit ànce il plevan», cfr. Ostermann, 18. A tutela dei seni piccoli, che sarebbero invece abbondantemente
lattiferi, c’è il proverbio rodigino: «Pèto pegorin, ora l é vodo, ora l é pin», cfr. Mazzucchi, 23.
165
Nel complesso degli elementi d’attrattiva sessuale per il maschio non vi sono
dubbi che la parte posteriore del basso tronco femminile abbia sempre avuto un
peso rilevante28, tanto da essere sottolineato persino in una favoletta per
bambini nota un po’ in tutto il Veneto29 come quela de indoraculi e argentaculi.
Nel caso, la vanità delle donne è consapevolmente sollecitata dal mariuolo che
promette di saper valorizzare la loro particolare risorsa con dipingerla in oro o in
argento secondo il gusto e le tasche. Così, dopo aver messo col deretano all’aria
le due amiche contendenti, le dipinge bene rispettivamente col rosso e con la
chiara d’uovo (l’oro e l’argento truffaldini), lasciandole allo scherno dei mariti
che le ritrovano, gonne all’aria, in attesa di asciugare i propri tesori!
Se menar ben el cul, ovvero sonar ben al mandolin, da noi non ha valutazione
artistica quanto nei paesi d’oriente dove la ‘danza del ventre’ esprime al
completo la sua potenzialità conturbante (un’arte erotica davvero straordinaria
e affatto oscena) è pur vero che ne rimane apprezzato almeno l’accenno
nonostante la proverbiale disapprovazione poiché… dona che mena l anca, se
troia no la é poco ghe manca! Ovvero… to∫a che mena el cul, presto se mola30 CPS,
dato che… co a na dòna l cul ghe bala… se no l è vaca, poco ghe fala31!
28
Cfr. Secco, Della saggezza, 23, «Il sedere o culo, che identifica la parte posteriore inferiore del tronco, è noto,
nel nostro dialetto con un numero di termini ancora maggiore, come dadrìo, sentar, fondo, bòfice, bèro,
pretèrito, taiér, badèl, bavèl, pro∫o, tondo, fraco, paìn e così via. Culo è voce di origine indeuropea passataci dal
latino culum, il qual termine sembra avere attinenza con i concetti di estremità e rotondità. Questa particolare
parte anatomica è, nella donna, oggetto di attenta valutazione critica da parte del maschio che sembra quanto
mai apprezzarne le fattezze se le ciape, o culate, che lo formano, sono ben modellate e ricordano il fondo del
mandolin o di un bel panàro, cioè di un taffiere su cui è saltata una tonda e soda polenta di granoturco.
In questo caso si parla anche de n cul stagno o fis, o come l butìro, immaginandone visivamente la consistenza. Se
invece è troppo magro è ∫lap, se è poco formoso l à le ciàpe a cuciarin (a cucchiaino); se appare ingombrante si parla
de n tanfanàrio, an baùl, n armerón, prendendo a spunto i più ingombranti mobili di casa; se è enorme si paragona
a una brénzia, grande contenitore da fieno, fatto con ritorte di salice, a forma di tronco di cilindro. Se posto sopra
gambe alte e slanciate di una femmina alta de cavalo è, di solito, graditissimo; se invece è basso si arriva a
commentarlo in modo maligno affermando che la detentrice la g à n culo che, se la caga goti, no la li spaca. A magra
consolazione di ciò, si dice che la é bona da fiói, è adatta a far tanti figli, o che l é ovaròla, come si fa indicando le
galline buone da chioccia (ed è questo il vero motivo per cui questa attrazione è ‘fatale’ dato che è genetica».
Ad integrazione dei soprannomi menzionati, se ne riportano altri tratti dalla ennesima poesia del Baffo: «… ma,
quando arivo al sésto, / tuto me scordo el resto, / meggio no so trovar. / Ghe dago sénto nomi, / ghe digo le roàne,
/ puine padoane, / ano, torototò, / va∫o de cerimonie, / tabaro, opur daòto, / e tuti i nomi adoto, / che imaginar
me sò. / De spiziarie la scatola, / de la mostarda el va∫o, / tabaco per el na∫o / de qualche corte∫ an; / sésto de
pomi e zìzole, / scartozo de no∫èle, / libro da do cartèle / da tegnir sempre in man; / Tiberio, Marcantonio, /
Toni, Martin, tapéo, / famo∫o Culi∫eo / de la mia Nina onor, / baul, sental, culàtolo, / ed alveo articulare, /
tute parole rare, / che m à insegnà un dotor; / tondo e rico edifizio, / che no g à egual a l mondo, / sferico
mapamondo, / misier, e vernegal, / richisima vali∫e / da no fidar a tuti, / mistro Fabian, persuti / da no butar
de mal; / botega da salai, / bri∫iole, e coraèlle, / chiappe grazio∫e e belle, / sonoro chitarin; / le parti deretane,
/ opur setentrionali, / e quanti nomi eguali / pol darme el Calepin. / El casetin de i storti, / el tondo, el butiro∫o,
/ el boconsin golo∫o / a i grandi reservà. / Ah! Se podése tiòrme... / Basta, de più no digo, / ma quel proverbio
antigo / qualcosa à denotà. / Se trovo un nome insòlito, / che forse al too s adata, / come la carne mata /me sento
a consolar. / Lo chiamo el liogo tòpico, / la bòssola, la nautica, / liógo che l sorze pratica, / la spada da portar.
/ Lo chiamo el Canal regio, / la strada a l mondo novo, / e la ra∫on ghe trovo, / ghe trovo el so perché. / Famo∫a
xé l’America / per le richéze, e l oro, / ma d ogni gran te∫oro / questo più rico xé».
166
PER IL DOMINIO SULLA NATURA
mona l é mona!
Natura è un altro termine con cui si indica la ‘Signora’ anche se realmente
individua l’intero apparato genitale femminile del mondo animale e quindi anche
umano; è insomma un termine universale che sottintende la vita e la sua
continuazione, che ben rappresenta il centro del mondo1. La malizia sul tema,
peraltro rara, consiste nell’interpretare a doppio senso le caratteristiche di una
donna considerata bona de natura ovvero di ottima indole, come si usa peraltro
dire al maschile (l é n òn bon de natura). Sta di fatto che il mantenere intatta la
natura, per una donna, è stato per secoli la condizione fondamentale pretesa dalla
Comunità per farla risultare degna del matrimonio. Portare al marito questa dote
basilare era indispensabile per valorizzare il concetto del di lui integrale e pieno
possesso, poco o nulla contando se la di lei scelta era subita per imposizione della
parentela. Non a caso, in molte società, la validità del matrimonio è condizionata
dalla certificazione dello stato verginale di cui spesso il marito (o la sua famiglia)
esibisce la prova a posteriori mostrando drappi più o meno insanguinati ad
indicare il risultato della ‘deflorazione’ (tanto per tornare alla ro∫a). Il massimo
segno di disprezzo nel rapporto tra i maschi è stato (ed è, per la gran parte
tuttora) rubare o violare la donna altrui la qual cosa giustifica, a seconda
dell’etica corrente, anche le reazioni più estreme (si va dal civile divorzio delle
società più avanzate alla uccisione della rea e/o del trasgressore senza alcuna
scusante per le possibili causali). Se la cosa trova infatti la donna consenziente il
disonore ricade sulla testa, che non a caso si ‘cornifica’, dell’uomo assegnatole
dall’Autorità; nel caso di violazione forzata il disonore per il maschio è doppio
giacché non solo si è dimostrato incapace di mantenere, ma neppure di
difendere il proprio ‘possesso’. Non a caso, nel corso delle guerre, il disprezzo
maggiore nei confronti del ‘nemico’ è sempre consistito nel distruggere o rubare
i suoi beni ma, soprattutto, si è compiuto stuprando o rubando le sue donne.
Nonostante si voglia far credere che queste sono cose d’altri tempi e luoghi non
mancano esempi di spavalderie militari nostrane relativamente recenti come si
può evincere da alcuni canti militareschi tra cui il seguente, sicuramente cantato
nel corso della prima guerra mondiale2.
29
Cfr. Coltro, Paese perduto, vol. IV, p. prima, 585-589. Lo stesso motivo è anche in una villotta del Balladoro (II,
183, 23): «sta matina anàndo in piaza / ò trovà di una Marieta, / e par farse l culo groso / la s à meso una foreta!»
30
Pure: «dona che mena l anca, se no la é putana poco ghe manca». Anche: «dona che, caminando, el cul ghe
bala, se no la ∫é putana, de poco la fala».
31
Anche: «Dona che camina e l cul ghe bala, se vaca no la ∫é l proverbio fala», in Ninni, II,108, 65 .
1
Nell’ambito delle descrizioni, col medesimo senso si ha che l’utero (anche la placenta) sono popolarmente
noti come la mare (la madre) o la matrìs (la matrice), che a loro volta danno il nome alle specifiche malattie.
2
La leggera (da cui lingera) era la fanteria d’assalto (armata con armi leggere) che quindi arrivava per prima
nei terreni di conquista e conseguentemente li violava e depredava. Il temine è passato poi, per similitudine,
nel gergo di alcuni lavori come quello dei minatori, dei cavatori e così via.
167
141
OH LINGERA3 - Sideropolis (Nuova Belluno), Santa Catarina, Brasile, 1997
RIT:
RIT:
Oh lingera, oh lingera,
io ti vegno, io ti vegno a ritrovar.
Oh lingera, oh lingera,
io ti vegno, io ti vegno a ritrovar.
Per quanto mal che sia
la machina l é pronta
e la lingera monta,
e la lingera monta.
Per quanto mal che sia
la machina l é pronta
e la lingera monta,
la monta a far l amor!
Con quatro cinque gnòcoli
quanta roba che si pilia;
se ciava la madre e filia
se ciava la madre e filia.
Con quatro cinque gnòcoli
quanta roba che si piglia;
se ciava la madre e filia
e la serva su l sofà.
Il ritornello dell’abuso sulla madre e sulla figlia viene rimarcato in altri canti
dello stesso genere a sottolineare un modo di pensare o di agire presente nella
società del tempo: el tirabusón l ò già trovato / ma mi manca la botìlia /
chiaveremo la madre e la filia / e la serva sul sofà4.
L’altro famoso canto militare sul tema è quello delle Stazioni passato poi
all’ambiente goliardico come le Osterie, di stile numerativo e in cui si elencano,
procedendo nell’itinerario da un luogo all’altro, tutte le bravate possibili e
immaginabili a sfondo sessuale, con varianti personalizzate e aggiunte senza limiti.
La versione riportata fa parte del repertorio degli emigrati italiani nel Brasile a fine
Ottocento e il cantore5, all’incontro più che novantenne, ci ha detto di averla
imparata dal padre. Il ritornello che ricorre tra le strofe... dàghela ben biondina,
dàghela ben biondà, non fa altro che sottolineare l’aggressività del contenuto.
143
LE STASION - Sideropolis (Nuova Belluno), Santa Catarina, Brasile, 2003
01
02
La stasion de l numero un
* mapin mapun mapan
no se ciava mai nesun
* tapin tapun tapan
ciava preti e ciava frati
ciava noi che sian soldati.
La stasion de l numero dói
*
le mie ganbe fra le tue
*
quando le ganbe l é incrociate
noi faren quatro ciavate.
03
07
La stasion de l numero tre
tute le done ghe pia∫e l cafè
ghe pia∫e l cafè co l aqua vita
intant se ciava la Margarita.
La stasion de l numero sete,
la serva e l arsiprete,
l arciprete e la camariera
i se ciava matina e sera.
04
08
La stasion de l numero quatro,
no le l vol parché l é fiapo,
se no l é fiapo ghe l darón duro,
faren tremar le ciape de l culo.
La stasion de l numero oto,
la serva l à rot el goto;
de la paura de la paróna
se lo sconde n te la mona.
05
09
La stasion de l numero cinque,
se no l é (in)cinta la (in)cintaremo,
se no l é (in)cinta la (in)cintaremo,
ciàvela ti che mi la tegno.
La stasion de l numero nove,
se va in mona quando piove,
quando che piove se va in mona:
l é na co∫a co∫ì bona.
06
10
La stasion de l numero sei,
tute le done ghe pia∫e i o∫èi,
ghe pia∫e i o∫èi sensa ale:
pàrelo su fin a le bale.
La stasion de l numero die∫e,
tute le done le g à l marche∫e,
le g à l marchese e na ∫boradura
che (ghe) stampa la creatura.
Ogni occasione è utile, alle compagnie giovanili, per creare strofette inneggianti la
potenza del maschio, il che passa anzitutto per la metafora sessuale. Nel caso si
tratta dell’impertinente adattamento di un celebre passo di un’aria lirica tratta
dalla Norma di Vincenzo Bellini.6
145
NORMA DEI MIEI RIMPROVERI7
Sissano, Istria, 1998
Norma dei tuoi rimproveri
non me ne importa un casso!
CORO: un casso!
E de le fighe vergini
noi ne faren sconquasso.
Con cossa?
CORO: col casso!
3
AGSB, CDE Soraimar, Soto l albero fiorito, SRM 0005/13, cantato da nono Angelin Ambrosio, classe 1912,
che, a tal proposito, sulle donne ricordava anche l’altro detto imparato dal padre italiano: «Le fémene l é come l
bacalà: pì che te le bate, pì le vien bone», e non era cosa nuova dato che nel XVI secolo pure si diceva: «Bon caval
e rio caval vol spirón; buona dona e ria dona vuol bastón».XTV, 25, B IX, 132
142 4 Vedi per esteso il canto La ciribiribìcola * riportato a pagina 124.
5
AGSB, CDE Soraimar I ori de Angelin, SRM 0226/05, sempre cantato da Nono Angelin Ambrosio.
144 Una seconda versione, nel medesimo archivio, è quella di Valdir Anzolin, di Veranopolis *.
168
6
7
Rappresentata per la prima volta nel 1831.
AGSB 0016/09, cantato da un gruppo spontaneo paesano.
Verginità, xilografia seicentesca CR
169
Aggressività, anche se mascherata da invito, è presente pure nei seguenti brani
146
BIONDA PETÉNETE8
Belluno, 1964
BIONDA PETÉNITE9
Trieste, 1975
Bionda peténete,
fate la riga in banda,
se l vècio te domanda;
Bionda peténete,
fate la riga in banda,
se l vècio te domanda,
dighe de sì!
Bionda peténite,
fate la riga in banda,
el general comanda;
Bionda peténite,
fate la riga in banda,
el general comanda,
el batalion!
Bionda peténete, fate la banda in riga,
se l vècio fà fadiga iùtelo ti!
Bionda peténite, fate la riga in mezo,
co∫a te vol de pezo, de un mi∫ero calafà!
Bionda peténete, fate la riga in centro,
se l vècio no l va rento, iùtelo ti!
Bionda peténite, fate la riga in banda,
se Toni te la dimanda, no stàghela molar!
Bionda peténete, fate la banda in riga,
se par ca∫o la te intriga, dàmela a mi!
Bionda peténite, fate i burloni,
che vegnerà Toni e te farà balar!
Sempre tra i canti dei coscritti si ricorda il seguente di largo uso che, tra i primi,
è stato adottato dall’avanguardia delle donne emancipate dal lavoro (mondine,
filandere ecc.) le quali vi hanno aggiunto una propria strofa rivendicativa che
rappresenta un salto qualitativo nella tipologia dei canti popolari a contrasto.
SEBEN CHE SON PICINO/A
Seben che son picino,
ce l ò come papà
l é un palo telegrafico,
l é un palo telegrafico
seben che son picino,
ce l ò come papà
l é un palo telegrafico
ma i fili non ce li à!
Seben che son picina,
ce l ò come mamà
la par na barca a vela,
la par na barca a vela
seben che son picina,
ce l ò come mamà
la par na barca a vela
ma la vela no la g à!
RIT:
RIT:
Dàghelo molo, dàghelo duro,
fàghe tremare le ciape del culo;
se te la rompo, no te la pago,
ma te la ligo co n toco de spago!
Dàghelo molo dàghelo duro,
fàghe tremare le ciape del culo;
Se te lo rompo, no te lo pago,
ma te lo ligo co n toco de spago!
8
9
I Belumat, Convegno Soraimar 2002, Asolo.
170
Cfr. Noliani, 145.
Anche il successivo brano, ancora intonato e pressoché analogo alla versione
ottocentesca del veronese Balladoro10, presenta una seconda parte in cui è la donna
ad esprimersi da protagonista assoluta della propria sessualità11, adottando pure un
linguaggio da coscritti.
CARE DONE, CORÉTE CORÉTE12 - Barbisano, TV, 2002
Care done, coréte, coréte
l é rivada na barca de cassi,
el più curto l é longo do brassi,
cara mama ghe n voi anca mi;
Cara mama, comprémelo duro,
che l me rompa la mona e anca l culo;
cara mama conpréghene du:
uno par mi e po n altro par vu!
Il diritto a desiderare il maschio come oggetto sessuale, e fuori dal matrimonio, è
a malapena accettato nel mondo moderno occidentale. La parità è comunque da
tempo intravista e passa per il sinonimo dell’eccitazione che, sia al maschile che al
femminile, è tira. Occorre dire che alla donna, in tal senso, viene riconosciuta una
potenzialità straordinaria, vicina alla bestialità: a la mona che tira no ghe val
lucheto,CPS, ovvero mona (dona) calda, mona (dona) ribalda! La cosa, quando
esagerata, potrebbe risultare un’altra forma di difesa preventiva ad uso dei maschi.
Le filastrocche che seguono, la seconda ottocentesca, inducono invece a considerazioni
di carattere paritario:
E anca ela
l é come la Lola,
i ghe toca le tete
ghe tira la viola.
E anca mi
son fat cusì:
i me toca le bale
me tira l pipì!
La diga,
la diga,
palpando le tete
ghe tira la figa?
E cusì
son fato anca mi;
palpandome l cul,
me tira el pipì!
Può essere interessante osservare anche l’evoluzione di questo canto tipico di
coscritti o militari, noto come Sul pajón, sul pagliericcio. Nella prima versione,
raccolta tra i discendenti degli emigrati italiani in Brasile, permane, nel
ritornello, il richiamo alla militaresca prevaricazione di gruppo e il ruolo della
donna è passivo; nella seconda, di più recente utilizzazione, la strofa finale è
invece di stampo rivendicativo.
10
Corso, 240.
Sessualità riconosciuta dall’altro proverbio: «no ghe n é Pasqua senza fogia, né dona senza vogia».
Cfr. Ninni, II,114,122.
12
AGSB 0500 gruppo spontaneo a Barbisano, 2002. Anche in Ive, Canti popolari istriani, 269,10: «Care duone,
curìti, curìti / a ∫i vegnòuto ouna barca de mòusoli / e grandi e gruosi cume li vuliti / Care duone, curìti, curìti».
I mòusoli sono una sorta di mitili che richiamano l’immagine sessuale della Lei ma che, per simpatia, indicano
pure Lui, come in questo caso, il che rende la villotta analoga.
11
171
147
Sullo stesso motivo musicale, a Rovigno, in Istria, si canta La partigana, la
pantegana.
SUL PAION13 - Piemonte di Bento Gonçalves, RS, Brasile, 1997
02
01
Tuti i dis che l diàol l é morto,
ma invése no l é mia vera,
el g ò visto geri sera...
che l someiàva a l molinar!
sul pajón
sul pajón
sul pajón
Tralerà polenta e tocio,
tralerà che tociaremo,
che moro∫e ghe n avemo
trentasei per un ventin!
su l pajón
su l pajón
su l pajón
149
01
Mi g avevo una partigana
che la iera asai pelo∫a,
iera quela de mia moro∫a,
la g aveva più péi de mi.
RIT:
03
RIT:
Sul pajón de la fratèla,
rechiam eterna e così sia
e che vegna la madre mia
e tuti quanti in conpagnia
su l pajón, su l pajón, su l pajón.
E nei canpi mi no vado,
su l pajón
perché divento masa mora,
su l pajón
il mio moro che l me adora
su l pajón
e lu el mi adora e l mi vol ben.
Sul paiòn de la fraterna
requiem eterna e co∫ì sia
va remengo ti, tu mare, tu pare e tu ∫ia
tuti quanti in compagnia sul pajòn,
sul paiòn… a fare l amor!
su l pajón
su l pajón
su l pajón
Il bataglione Feltre
sta sempre su le cime
ma quando scende a vale
atente ragazine!
02
sul pajón
sul pajón
sul pajón
RIT:
Sul pajón de la ca∫erma
requiemeterna co∫ì sia
va a remengo ti, to pare, to mare e to ∫ia
e la naja e compagnia
sul pajón, sul pajón
de la ca∫erma!
il ritornello si ripete ad ogni fine strofa
13
El prete de…
l à deto predicando:
atente ragasine
che l Feltre sta arivando!
sul pajón
sul pajón
sul pajón
RIT:
03
El prete de…
l à continuato in ce∫a:
atente ragasine
che l vècio alpin ve frega!
sul pajón
sul pajón
sul pajón
RIT:
04
Una de le più bele
g à dato na risposta:
se l vècio alpin ne frega
l é tuta roba nostra!
sul pajón
sul pajón
sul pajón
AGSB, CDE Soraimar, Varda la luna, SRM0003/05, versione Fratelli Dal Cin. All’interno del brano si
vedono adattate strofe tipiche anche di altri canti.
148 14 Una versione particolare è quella istriana di Sissano * (AGSB, CD BLM 0016/03, 1998, El prete de Sisano).
15
Da me registrato a Rovigno nel 2004. AGSB, SRM 0234/05.
172
sul paiòn
sul paiòn
sul paiòn
03
E mia nona ∫é morta in guera
morsigada da una pantera,
e mio nono ∫ó per le scale
el se g à roto el fil de le bale.
sul paiòn
sul paiòn
sul paiòn
RIT:
Oltre ai già visti canti ispirati alla ‘chitarra’ altri ve ne sono di somiglianti nel
senso, sia di complicità, come risulta dalle seguenti versioni di se te toco, che di
provocazione come nell’emblematico già visto frammento de La màndola: Ta∫i
sta sito che mi te la darò: te magnerò la dota e poi te laserò! In questa prima
versione vi è un altro gentile e calzante sinonimo della Lei ossia bocón galante.
SUL PAION14 (versione cori alpini anni Sessanta)
01
E mia nona dona sicura
che del fogo la g à paura,
la g ò vista l’altro ieri
drio na gràia con sei ponpieri.
RIT:
04
(fratèla, anche fraterna, confraternita)
02
sul pajòn
sul pajòn
sul pajòn
RIT:
RIT:
Tuti dis che l é malata,
per non mangiare più polenta,
e bi∫ogna portar pasiensa
e, e asàrla maridar.
LA PARTIGANA15 - Rovigno, Istria, 2004
150
SE TE TOCO16 - Guaporè, RS, Brasile, 2002
01
03
Se te toco la tua bocheta,
lo dirèto a l tuo pupà?
Se te toco le tue manine,
lo dirèto a l tuo pupà
RIT:
RIT:
Ma sito mato che mi lo diga
del piacere, del piacere che me fa.
Ma sta fermo, sta fermo con le mani,
che te vede la mama mia,
ma poi quando la mama dorme,
alora sì, alora sì, alora sì.
02
04
Se te toco le tue tetine,
lo dirèto a l tuo papà?
RIT:
05
Se te toco le to recete
lo direto a l tuo pupà?
Se te toco l bocón galante
lo dirèto a l tuo papà?
RIT:
RIT:
16
Questa versione è stata raccolta per mia cura da Solange Soccol, nei dintorni di Serafina Correa (1997), nel
Rio Grande do Sul, in Brasile ma è ancora molto diffusa anche nel Veneto dove si ritrova in diverse versioni
musicali su un testo pressoché analogo (cfr. Posagnot, 516, 458; 1984). Anche la Soccol la canta con la
151 compagna Mèia (Amelia) in modo assai efficace *.
173
DÀMELA, LA GABIA D’ORO
l o∫èl, in te la gabia
o che l canta de amor
opur par rabia
Possedere una vergine ‘matura’ rimane dunque la massima ambizione del potere
maschile giacché questa corrisponde alla massima potenzialità femminile. Tale
condizione viene definita fisiologicamente con l’arrivo del segno della fertilità
(menarca) dove nel mondo maschile si configura invece, in modo empirico, con la
coscrizione (localmente, entrar in gioventù)1.
Il coscritto, tra i nuovi diritti acquista anche quello di esercitare le relazioni con
le donne, primariamente quella sessuale (a pagamento, come bottino di guerra,
col matrimonio) mentre alla donna tutto ciò resta proibito in attesa che nel
sistema familiare e sociale si assesti il suo destino definendo anche le relazioni
con l’altro sesso: moglie per far figli, serva in casa propria o d’altri, religiosa da
relegare in convento, puttana in strada. Tutto questo, lo voglia o no ovvero si
degni o no come ricorda bene il canto
Rembrant, Il letto alla francese ovvero La felice posizione, 1640 circa
SIA BENEDETO L’ALBERO E L’ANTENA2 - Istria
Altrove anche
SE TE TOCO19
zona veronese
Se te toco le tue ganbete…
Se te toco sora i ∫enòci…
152
01
Se te toco le to manine t un canton,
SE TI TOCO NA MANINA17
Vittorio Veneto
Se ti toco na manina la-la-la
ghe diras-tu a l tuo papà?
Ma mi no che no ghe l digo
che mi sento consolar!
CONTINUA:
3v
ghe dirètu al tuo papa - incantonà
Sito mato che mi ghe l diga a me popà 3v
che contenta so restà incantonà!
Seguono, con lo stesso modulo
le altre strofe col medesimo ritornello
SE TE TOCI UNE MANINE18
Friuli
Se te toco i to braseti t un canton,
Se te tóci une manine
i al dirasto a l to papà?
Parcé ustu che i al di∫i
s ò mi sinti consolà!
Se te toco le to tetine t un canton,
17
3v
3v
CONTINUA:
3v
CONTINUA:
Se te toco la frìgola, la fràgola t un canton, 3v
CONTINUA:
Cfr. De Biasi, I canti popolari veneti di Luigi Marson, 176.
L’analoga versione friulana è quella citata dall’Arboit (40, 17) come pure le seguenti, ancor più
provocanti, che paventano persino il tradimento: «se te tócie une manine i al dirasto a l to morós?/ Parcé ustu
che i al di∫i/ Tócie, tócie dutis dos» (165, 547) anche con l’altra finale «…lis mis mans no son lis sos» (17, 20).
19
Versione del Canzoniere veronese, cantata da Grazia De Marchi *.
18
174
Sia benedeto l albero e l antena, bimba ba,
sia benedeta la barca che lo mena.
Dàghela bela, la verginela, che non si degna,
non si degna di fare l amor.
Poco m importa, poco m importa, bimba ba,
se non ti degni, se non ti degni di fare l amor!
Il coscritto diventava quindi il predatore per eccellenza e la sua preda ideale, la
verginella. Al mantenimento dello stato verginale miravano dunque le
particolari attenzioni materne, l’educazione religiosa e familiare in genere.
Il maggior pericolo paventato era quello dell’ingannatore, di colui che, con la
promessa delle nozze, riusciva a carpire anticipatamente quel tesoro arrivando
poi a deridere l’ingannata accusandola di leggerezza:
E vèstite di nero, / se t ò lasciato / ma dentro la tua barcheta / t ò già remato!3
Il concetto si ritrova nel tempo tanto che il proverbio antico dice: El te prométo
infina che te l meto; co te l ò metù, te l ò desprometù! XTV, 61, E IV,633
1
Nella tradizione popolare, la potenza della vergine ‘matura’ è tale che il solo avvicinare il membro maschile
di un malato di lue alla sua ‘natura’ può portarlo a guarigione.
2
Cfr Starec, Canzoniere triestino, 53, 20. La villotta è citata anche dall’Ive in Canti popolari in veglioto
odierno (121, villotta 17) e dal Ninni in versione più estesa (cfr. Scritti dialettologici, III, 82,118). Anche in
Dalmedico, 108 e in Noliani, 36. Il sinonimo barca, con allusioni sessuali al remo e al rematore, è tra i più
sottili tanto da esser chiaro, talvolta, solo agli smaliziati come nel caso della bitinada rovignese intitolata
153 Remator la barca è pronta * (Arc. Starec).
3
Cfr. Starec, 84, da uno stornello di Gallesano, in Istria.
175
Il canto popolare illustra una infinità tipologica di attentatori e traditori
rappresentando un monito informativo continuo per la comunità dei cantori e dei
partecipanti al filò. La brutta fine ‘sociale’ delle giovani protagoniste aveva anche
uno scopo educativo e preventivo sull’auditorio. Il messaggio continuo era quello
di non cedere, di resistere all’impulso naturale, di capitalizzare il desiderio,
insomma, detto alla popolare, de no dàrla. Dàmela invece era il contrapposto
concetto spiccio, improponibile in modo verbale diretto ma che arrivava come un
urlo attraverso implorazioni ed intimidazioni indirette facilmente individuabili
anche nelle frasi di questo libro. A dirla in villotte:
Mi t ò visto al ponte de i Dai
che ti parlavi co do ufiziai
Perché me tràtistu pè∫o de un can:
dàmela,
dàmela,
dame…
la man! 4
Il soprannome di ‘gabbia d’oro’ pare perciò calzante, risultando emblema di
preziosità ma anche di pericolosità, come ben testimonia la nostra cultura orale.
156
Ò girato l Italia e l Tiròl
sol per trovare na verginela;
RIT: ciùmbalalilaleila viva l amor
Na verginela no pòso trovar
solo mi basta che la sia bela;
RIT:
Se no l é bela faremo indorar
prima de rento e dopo de fora!
RIT:
Noi Tirole∫i sian bravi soldati
tuta la note di sentinela!
RIT:
Noi Italiani sian bravi soldati.
tuta la note co to sorela!10
oppure
Nineta, dàmela, quela ro∫éta…
che me la meta / sora l capèl!5
e chi non ha mai cantato
Me pia∫e i bìgoli co la lugànega6
Marieta dàmela per carità?
Le metafore nascondono minimamente l’allusione che non solo si cantava, ma si
ballava pure allegramente prestandosi la frase al ritmo…
154
155
(A) Checo dàghela, (a) Checo dàghela,
(a) Checo dàghela, dàghela, dàghela;
(a) Checo dàghela, (a) Checo dàghela,
(a) Checo dàghela, dàghela al… can!7
CANARIN, BEL CANARINO12 - Treviso, 1938
157
5
176
Canarin, bel canarino
se vuoi volare sulla mia cheba.
Mi no non voi venire
perché la cheba l è tuta rota.
RIT:
RIT:
Oi trum larilalera
Òi trum larilerà
La faremo indorare
prima di dentro e poi di fuori.
10
4
Cfr. Ninni, II, 62, villotta 77.
Cfr. Pagnin-Bellò, 171 (Guarda quell’albero).
6
Cfr. anche Starec, Canzoniere triestino, 279 e Noliani: «Te pia∫i i bìgoli co la lugàniga, Marieta dàmela sul canapè».
7
Questo è il bal de l oimè, vicentino, nella ricostruzione di Modesto Brian (Convegno Soraimar 2002) che
nell’occasione ha peraltro sottolineato la valenza sessuale della maggior parte dei balli popolari, come nel caso dei
bastoni ‘fallici’ del bal de la guera, o nei gesti ammiccatori e consueti delle manfrine. Non a caso il ballo è stato per
secoli considerato dalla chiesa il maggior veicolo di perdizione della gioventù e perciò vituperato in ogni occasione!
8
AGSB 0500, registrata a Refrontolo nel 2003.
9
A tal proposito risulta simpatica una delle villotte popolari in voga a Caneva di Sacile (inf. Carlo Zoldan):
«Se il Papa bene mi donase Roma / e il Re di Francia pur la sua corona / le to∫e da…(nome del proprio paese)
la sua chioma / e quele da…(nome del paese da canzonare) la sua mona!».
L’uomo zodiacale: incisione
dal Fasciculo de Medicina (Venezia 1494)
Il brano attiene alla serie nota col titolo convenzionale di Uccello fuor di gabbia
(Nigra 63) o, più comunemente, Canarin, bel canarino11 (o canerin)
e anche…
Ro-∫ina dàme…la,
dàme..la, dàme..la, dàme..la;
Ro-∫ina dàme..la,
dàme..la, che son qua!
Si cantava pure8 * dàghela riza, dàghela bionda, dàghela tonda tonda tonda sul sofà!
Le riottose che resistevano a promesse, lusinghe e minacce, così venivano
rimproverate dagli spasimanti inappagati: ciò, cosa crédetu, de aver la mona d oro?
Più genericamente con la frase le fémene le crede tute de averla de oro l’uomo
manifesta ancor oggi la delusione tipica di chi prende l’iniziativa rimanendo però
deluso9.
LA VERGINELA (Ò GIRATO L’ITALIA E L TIRÒL) - Garibaldi, RS, Brasile, 1998
158
159
160
161
Le due ultime strofe erano cantate in Brasile rispettivamente dai discendenti dei Trentini (che venivano
dall’austroungarico Tirol) e dai Veneti, quando, pur parlando praticamente lo stesso dialetto e festeggiando
in compagnia, rivendicavano in questo modo la loro diversità. Il tono di dileggio è ben chiaro.
11
La versione riportata da R. Morelli per Viarago * è similare. «Canarino mio bèl canarin / vuoi tu venir ne
la mia cabiola? (Rit: e ciómbola lila leila eviva l amor) / Ne la tua cabiola non voglio venir / perché l éi vechia
e no la ∫é nuova (Rit: ) / Se l èi vechia la farem rinovar / oro al di dentro, argento al di fora (Rit:)».
Assai simile anche la versione di Monghidoro (BO) cantata da Maria Grillini (cfr. Staro, 426, 149), intitolata
Gardellin mio bel gardellin *. In Ninni (II, 70-71) ci sono anche altre frasi «Vogio andar de là del mar / per
trovarmi una verginela / perché sti òmeni ∫é inganatori», che sembrano raccordarsi perfettamente alla versione
‘brasiliana’. La frase è viva similmente anche in una versione (Vieni vieni mio bel ucelino) raccolta a Polcenigo (PN)
da N. Stefanutti, qui riportata anche se l’audio è di scarsa qualità * e che presenta, di seguito, l’ulteriore strofa:
«Verginele no ce ne son più / ma co∫a importa, pur che sian bele - e con lo ∫igo ∫igo ∫ele, e con lo ∫igo ∫igo ∫à».
Due versioni del Canarino sono presenti anche nella raccolta dei Posagnot, Canti del Grappa, 382-383, * (gruppo
maschile di Onè di Fonte, TV, 1998); la seconda lezione corrisponde a quella di Sante Zanon; la prima lezione (325)
è comunque coerente. Cfr. anche Bovo,165,145, e Mazzotti, 29.
12
Raccolta da Sante Zanon. Simile anche a Chipilo, Messico (emigrati Segusinesi a fine Ottocento, TV) *.
177
Il termine sverginare trova nei termini imprimar (utilizzare per primo) e ni∫ar19
(iniziare) due ottimi sinonimi. Una straordinaria immagine di iniziazione ci
viene dal canto seguente anche se el petenin de amor (piccolo pettine d’amore),
tuttaltro che gentile, alla fine rimane pre∫onier, prigioniero del suo gioco.
VILLOTTE AMOROSE scelte tra quelle testimoniate nell’Ottocento
01
06
La me moro∫a la la g à indorada,13
la careghina andóe la sta sentada,
la ghe l à indorada d oro e d argento,
la careghina dóe che la sta drento.
Sié-stu ti benedeta cocolóna,
ciàpa n baiòco e móstrime Verona;
e sto baiòco cambialo in ducato,
che mi te mostrerò Bernardo mato.
02
07
La me moro∫a me ne à fato una14
stando al balcon la m à mostrà la luna.
Mi ghe n ò fato una de pì bela
che g ò mostrà l fradel de so sorèla.
Moro∫a mia fa si che te lo meta,
el fazioleto roso intorno a l colo;16
co te l ò meso te sarà contenta,
te me farè tociar ne la polenta!
03
08
Su fate a la finestra puta cara
vien fora che te sòno la chitara,
e se no te bastase l concertino
te pòso anche sonare el mandolino.
La me moro∫a la la g à de tola,
la speta n marangón che ghe la piana,
che ghe la piana e che la meta a segno,
la me moro∫a la la g à de legno.17
04
09
Su fate a la finestra e dame gusto,
metete la cami∫a senza busto,
metete l fasoleto su le spale,
che l aria de la note te fa male.
Sta note m ò insugnà che trava∫ava:
la mia moro∫a me tegnia l spinelo;
e mi m ò de∫misià tuto confu∫o
co in man la spina e no trovava l bu∫o.
05
10
Sastu cosa m à dito la gastalda15
che soto i so balconi mai no piove:
se ghe ne dago una la sta calda,
se ghe ne dago do no la se move.
Siora paróna vol la che ghe l meta
el mio cavalo drento la so stala;
vardé che no l ve rompa la caveza
e che no l ve rovina la cavala.18
13
163
164
165
166
APN(III,135,202)
Cfr. Caliari, 253.
È forse questo l’incipit più famoso tra quelli delle strofe di villotta. Roberto Starec me ne ha cortesemente
passate alcune in forma sonora: le prime due sono istriane (Gallesano, voce maschile e chitarra, 1983) * «La mia
moro∫a me g à dito una / de sul balcon la me à mostrà la luna. / La mia moro∫ a me g à ditò sete / de sul balcón la
me à mostrà le tete». Ancora, nel volume recentemente edito, I canti della tradizione italiana in Istria, ne riporta
altre tra cui la seguente, in funzione di risposta: «E mi ghe ghin de dito una più bela / ghi è mostrà l u∫ èl co la
capèla». Ancora, a Sissano si canta la villotta, La me morosa me n è fato una *. Un’altra è friulana (Giais d’Aviano,
1990, Friuli 58.13, voce maschile e voce femminile, informatrice classe 1894) * :«La me moro∫ a m indà fata una
/ a sta sul balcon me à mostrà la luna / e iò ne g ò fata una più bela / ie g ò mostrà Martin con la capela / e io ne
ài fate dos de più bele / ghe ài mostrat Bartoldo con le campanele». In Ostermann, 17: «La me moro∫ e m ind à fate
une, / di bièl mi∫ dì jè mi mostrà la lune; / e jò ind ài fate a jè une plui bèle, / ch i ài mostrat il tor cu la capele».
15
Cfr. Ninni, III,131, 190; anche in Caliari, 224.
16
La prima parte della quartina della strofetta si ritrova in Istria in forma di canto soto le pive, col titolo di E
vien Marieta, vien che te lo meto. La registrazione del brano * mi è stata fornita da Roberto Starec che l’ha
effettuata a Sissano, nel 1983. Per specifiche sulle particolari tipologie di canto cfr. R. Starec, I canti…, 17-93.
17
In Ninni, III,127 (villotta 180) oltre alla menzionata è previsto anche il finale «che ghe la piana co la
zichignola / la mia moro∫ a la la g à de tola».
18
Ninni, III,134, 201. Nell’Archivio Starec, la forma è quella di basso col testo analogo, dialettizzato in forma
locale; il titolo è Moro∫ a mia fa che ti lu meto *. La registrazione è stata fatta a Valle (Istria), nel 1983.
14
162
APN(III,134,199)
178
167
LA BORTOLA E LA STÈFENA20 - Sao Marcos, RS, Brasile, 1999
01
La Bórtola e la Stèfana le vol che mi la pètena,
le vol che mi la pètena co l petenin de amor.
02
La tìrela, la mòlela, te gala mai tirà?
Me g à tirà più volte per tuta la cità!
03
El petenin se spaca, la Bortola no lo sa;
lu l g à ciapà el restèlo e l scominsia a petenar.
04
La Bortola e la Stéfana le vol che mi la pètena,
le vol che mi la pètena co l petenin de amor.
05
Vui veder se a se spaca, scominsia a sfondar:
el g à copà la Bortola, gera tuta insanguinà.
06
La Bortola e la Stèfana le vol che mi la pètena,
le vol che mi la pètena co l petenin de amor.
07
E dèso cosa faso, scominsia a ∫becar;
la g à vardà là in volta, e la lo g à ciapà.
08
La Bortola e la Stéfana le vol che mi la pètena,
le vol che mi la pètena co l petenin de amor
09
La g à tirà anca elo, in pre∫on lo g à menà,
No sté mia far cosìta, gh è visto cosa g à tocà.
La deflorazione21 era il dovere prima che il piacere dello sposo che prendeva così
possesso del suo nuovo prezioso bene. Stando ai canti popolari il rituale dello
sposalizio veneto si considerava compiuto alla conclusione del ciclo, peraltro
assai rispettoso, previsto dalla villotta nuziale che segue.
19
Ni∫ar si usa correntemente per indicare l’inizio del consumo di un cibo integro, ad esempio un salame, un
formaggio, passato però anche a ni∫ar na to∫a, ni∫ar la spo∫a. Condividersi nudi era alla base del rito come ben
cita la villotta (Corso, 22): «Questa è la ca∫a de le alte piope, / quest è la spo∫eta che ò dormì sta note, / lenzuoli
bianchi e schiavina gri∫a, / ela despojà e mi senza cami∫a».
20
AGSB, CDE Soraimar, Maledeto carnevale, SRM0007/07, cantano le Sorelle Bianchi.
21
Spupillare è il termine che definisce al maschile la prima esperienza sessuale con l’altro sesso.
179
VILOTA DA NOZA22 - Tambre d’Alpago, BL, 1978
sposo
Quatro vilòte te le voi cantare, quatro vilòte te le voi sonare,
sora le to beleze, anima bela, mi canto e sòno sora d una stela;
parti subito a l brazo del conpare; el prete in ce∫a ne vol maridare.
sposa
Ere da maridar, son maridada, ò ciòlt quel ch é vegnù, son contentada!
compare
Paróna de la ca∫a fàte in fora, che l to to∫at al t à menà na nora!
comare
Ti cara Nina tirete pì infora; che l to Giovani l t à portà la nora.
suocero
E quando che la nora é su la porta / che bel se so madona fuse morta.23
sposo
O mare t ò menà la me to∫ata / se te òl na brava to∫a, la và fata!
suocera
Dime la verità, o nora mia, la prima not com éla pasà via?
sposa
La verità mi te la poso dire; la prima note l m à lasà dormire!
cognata
Dime la verità, cara cugnada, e la seconda com éla pasada?
il secondo giorno
sposa
A dir la verità mi no m importa, a la seconda not son qua∫i morta!
il terzo giorno
sposa
il quarto giorno
22
Daspò che son rivada in sto cortivo me par d èser rivada in paradi∫o!
e quando vien la sera ne l me leto, cosa che fae no l dighe par rispeto.
Al matrimonio l é n galante u∫o, se fa le gambe mole e lonc al mu∫o.
Pressoché nella totalità delle pubblicazione ottocentesche citate in bibliografia si trovano tratti di villotte
‘matrimoniali’ che hanno il medesimo timbro e quasi le stesse parole. Questa, che ho raccolto a Tambre
d’Alpago nel 1988, presenta un quadro abbastanza completo e, a suo modo anche curioso, per l’astinenza
sessule degli sposi nella prima notte, forse antico richiamo alle cosiddette ‘notti di Tobia’ (cfr Cleugh, 371).
Il suono non l’ho potuto registrare ma l’aria era tra quelle tipiche venete. La diffusione delle strofe tipiche
era ampia. L’amico Starec, ad esempio, a Giais di Aviano, ne ha documentate di similari con integrazioni
168 (1990, voce maschile) *; «Dime la verità, cara moro∫a / come tu ài pasà la prima note / Dirte la verità poco
me importa / la prima note ero quasi morta / e a dirte la verità no ero u∫a / bater con mio marì a panza nuda».
Da sottolineare l’esclamazione tipica di ogni fine frase (cik).
L’argomento della prima notte di nozze è il più sentito; in Ninni, III, 39, v. 25: «Contémela, contémela Catina
/ come gavéu pasà la prima note? / La g ò pasada molto doloro∫a / che g ò dormio co un che no gèra u∫a». La stessa
villotta è citata dal Bernoni in Canti popolari veneziani, X, 15, v. 79. In Balladoro, II. 36, 22 invece: «… la prima
note l ò pasada male / ma la seconda ò fato carnevale». In Corso, 24: «...la prima note che ò dormìo co Nane / da
la vergogna mi me vergognava; / ogni qualvolta che me revoltava, / da la vergogna mi me lo ba∫ava».
23
Il rapporto conflittuale ovvero lo scontro di potere (per il dominio sul mondo domestico) tra madona e
nora (suocera e nuora convivevano sotto lo stesso tetto) è un classico della cultura popolare (si vedano i
proverbi; «co la nora è su la porta, so madona la fuse morta»; «madone e sant i stà ben in corni∫ e»; «Le madone:
una viva, una morta e una picada drio la porta». Si riporta a titolo di esempio ‘ambientale’ una preziosa
villotta cantata da Antonietta, la solista del gruppo ‘anziano’ del Piccolo Teatro di Oppeano in cui le figure
171 della madre, prima, e della suocera poi, sono al centro dei pensieri della ragazza (E anca me mama *).
180
Allusioni al rapporto sessuale – sulla cocéta, il giaciglio, e i cavaleti, i sostegni del letto
(le tole) scardinati dall’ardore amoroso – sono evidenti nell’altra villotta nuziale.24
Quando sarà quel dì, cara colona,
che a to mama ghe dirò madona
e a to papà ghe dirò misier
e a ti, belina, te dirò mugier.
Quando sarà quel dì e quela note
che la cocéta farà ciche e cioche,
che se daremo quei forti ba∫eti
che butaremo in malora tole e cavaleti.
Il pranzo di nozze è il momento ideale per i canti augurali di abbondanza e fertilità.
Il più significativo è noto come canto de la spo∫a25 (o l’appetito della sposa) che presenta
spesso metafore sessuali legate ai cibi, specie al salame, al collo dell’oca o a fantastiche
salsicce di carne ‘viva’ di cui la bella dovrebbe fare indigestione. Altrettanto rituale è
quello dedicato ai suonatori, per la cui obbligatoria presenza, la novizia era disposta a
‘impegnare’ progressivamente il suo vestiario fino a rimanere nuda per il bene comune:
la g à impegnà, la g à impegnà la so cami∫a, per pagare i sonadór26 . Cibo, suoni e canti
sono quindi il suggello dell’unione. Matrimonio a parte, le schermaglie amorose per
ottenere i favori del partner desiderato condiscono da sempre la vita di uomini e donne.
È stato il ruolo sociale a pilotare i comportamenti e lo si vede bene oggi allorché la
donna, emancipandosi economicamente e non dipendendo più dall’uomo, tende a
rivoluzionare il suo comportamento relazionale con ciò mettendo in serio imbarazzo la
controparte27. La maschera della donna ritrosa, ben rappresentata in questi stornelli
veneziani, pare perciò allontanarsi rapidamente.
Fiorin de seda,
la me moro∫a mai no la g à vuda,
o almen cusì la vole che mi creda,
fiorin de seda!
Fiore de ùa,
te giuri sempre ti che ti ∫é mia,
ma co te la domando la ∫é tua!
Fiore de ùa!
La riflessione, che appare oggi condivisa da entrambi i sessi, è che prima che i vermi la
magne, l é meio che i o∫èi i la bèche, ossia prima che i vermi la mangino, è meglio che se
la becchino gli ‘uccelli’. Non meno lapidario sempra il detto: bu∫o era e bu∫o resta prima
e dopo de la festa (anca dopo la festa). Se si bada infine al proverbio: na lavada, na
sugada e… gnanca doperada, vale a dire che con un piccolo riassetto dopo l’uso la
Nostra è bella e pronta come nuova, l’esserne gelosi parrebbe anche sciocco.
24
A.P. Ninni, Ribruscolando, 76, con possibile variante finale: «che la cocéta farà tu-babao / Marieta, ti da pìe e
mi da cao» che potrebbe alludere ad altro gioco erotico. Anche in Corso, 230, tra le villotte friulane, in modo assai
esplicito: «Ti ricuardistu, ninine, / quand ch i èrin da pis dal jet? / Sul plui bièl che s al metèvin / al si à rot il cavalét».
25
Cfr. il mio volumetto Noze nozete, 36-38, ma anche l’eccellente lavoro sul tema di Domenico Zamboni.
169 26 Si riportano alcuni esempi; ho raccolto il primo a Moldoi *, nel 2003 e il secondo a Garibaldi (RS), Brasile,
170 nel 1987 dalla voce di Valmor Marasca affiancata da quella dei Belumat *. La trama è rituale «O sonador,
sonador soné na polca, che da noi saré pagà!». Dopo un avvicinamento più o meno lungo durante il quale la
sposa può impegnare «la ciòca e i ovi; la pipa a l moro, el vin de le bote» e così via, si arriva alla biancheria e
all’intimo senza mai sapere dove il coro deciderà di far cessare canto e rito.
27
Il concetto è ben illustrato in una versione modificata del famoso canto E me marì l é bon che diventa E me marì
172 l é bel, poiché «el sabo e la domenega l me para su l o∫èl!» * (cantori a Refrontolo, TV, 2003, AGSB, BLM 0500).
181
Ci sono voluti quasi tre secoli prima che questo medesimo consiglio, espresso
dal Baffo in rime provocatorie, non suonasse troppo scandaloso:
177
Dòne credéu che solo per pisar
la mona v abia fato la natura?
La ve l à fata, perché el mondo dura
faséndove da i òmeni ciavar.
Ogni qualvolta la volé salvar
e che ghe meté su la seraùra,
che vu fé un gran pecà mi g ò paura,
per el qual v àbie el culo da bru∫ar.
Tiolélo ancùo piutosto che diman,
che oltre che gavaré sto bel solazzo,
faré un opera bona da Cristian.
Perché, sapié, che come è fato el giazzo
per renfrescarne e, per magnar, el pan,
cusì la mona è fata per el cazzo.28
Prudenza, xilografia seicentesca
CR
Occorre dire che molte cose, di fatto non meno provocatorie, passavano più
dolcemente attraverso le ballate popolari, come nel caso capitato alla brunetta29
che, su consiglio della madre, accetta formalmente di far l’amore a pagamento,
praticamente di prostituirsi, per accantonare i soldini della dote. È pur vero che
con l’inganno ottiene il guadagno senza donarsi ma il comportamento resta, e
movente e complicità pure; il che la dice lunga su bisogni, aspirazioni e
compromessi dei tempi andati.
173
174
175
176
182
01
08
E la mia imama, l é ∫veliarina,
su su bonora mi fa levar,
e la me mete le sece a spala,
via per aqua la me fa ndar.
E co l é stato a la matina
che la fantina se ri∫veliò.
O su∫o su∫o, bel cavaliere,
conté i danari che mi ài de dà.
02
09
E co l é stata metà la strada
de un cavaliere me g ò incontrà:
Endove vètu, bela Bruneta,
co∫ì soléta per la cità.
E co na mano conta i danari
e con quel altra i oci sugò.
Co∫a piangéo bel cavaliere?
Piangi i danari che mi ài de dà?
03
10
Vado per aqua, a la fontanela,
ndove mia oimama me g à mandà;
e co i oceti facea l amore,
e co l penino l aqua à intorbià.
E mi no piangio per quei danari,
piangio la note che g ò pasà….
e altri cento io te darìa
de un altra note dormir con te.
04
11
Ferméve un poco, bela Bruneta,
che intanto l aqua se s’ciarirà.
E mi non poso mia fermarmi
perché mia imama prèsa mi ài dà.
Speté che vado da la mia imama,
n altro consilio la mi dirà.
De la tua imama no voi consili:
l é stata quela che mi à inganà!
05
O cara mama mi ò da dire
che un cavaliere ghe g ò incontrà;
cento ducati lù l me darìa
sol che una note dormir con me.
06
Ciàpeli, ciàpeli oi filia mia,
che i sarà boni per maridar.
Oh cara mama mi g ò da dire
che g ò paura a restà inganà.
28
G. Baffo, Poesie.Giorgio Baffo nacque a Venezia nel 1694 da nobile famiglia. Poeta e gentiluomo fece parte
della suprema corte di giustizia veneziana e potè valersi dell’immunità patrizia contro le numerose denunce per
la licenziosità dei suoi scritti. Si sposò e visse da benestante fino alla morte sopraggiunta nel 1768. La sua prima
raccolta di sonetti fu pubblicata post mortem nel 1781. Anche se famoso per le sue poesie a sfondo erotico, per
cui Casanova lo definì «Genio sublime, poeta nel più lubrico dei generi, ma grande e unico», fu in realtà un poeta
estroverso, sensibile, e pungente, attento a tutta la realtà veneziana, al mondo e agli avvenimenti del suo tempo
che puntualmente descrisse nei suoi versi, specialmente coi sonetti in cui è davvero maestro.
29
Il titolo convenzionale di questo brano, tra i più noti, è La bevanda sonnifera (Nigra 77). Bernoni, Canti popolari
veneziani, V, 6, c. 4; Bovo, 317, 342; Coltro, 262-268; Cornoldi, 275-276; Ferraro, 110 (La ragazza onesta); Ive, 324;
Nigra, 462-471; Ninni ,III, 32 (varianti); Paiola, 184-5; Radole, 48-49-155-158; Righi, 33; Vigliermo, 23-176; Zanon,
94; Wassermann, 231-235. Una bella versione monodica * è quella rilevata da Roberto Starec che l’ha inserita, con
una decina d’altre, nel suo Canti della tradizione italiana in Istria, 104-115 (reg. 1983, inf. Iginio Cuccurin).
Interessante anche la versione di Emil Zonta * per la stessa zona, con accompagnamento di piva istriana che
ho raccolto nel 2001. Più estesa del consueto quella ottocentesca, sempre istriana dell’Ive, allorché al cavalier
piangente dopo la seconda notte a vuoto, la ragazza maliziosamente dice: «e ti gavivi la spu∫a al lieto, / e per chi
cuossa nu la bassià? / E ti gavivi li carte in mano, / e per chi cuossa non li zugà?». Una ulteriore lezione è quella
di Gazzo (PD) cantataci da nonna Iseta Zanon *.
La versione di Monghidoro (BO) di Maria Grillini *, è in linea con le altre strutture viste (Archivio P. Staro).
LA BRUNETA30 - Sao Marcos, RS, Brasile, 1977
07
Noi ghe daremo de una bevanda;
tuta la note lu l dormirà.
Tuta la note dorme e se sogna,
no l se ricorda più de l amor.
178
29
(Continua). * Il canto persiste anche nell’oasi
linguistica segusinese di Chipilo (Puebla, Messico).
30
AGSB, CDE Soraimar Maledetto carnevale,
SRM0007/05, cantano le Sorelle Bianchi.
A fianco, una stampina remondiniana con proverbi
(foglio per ventola, xilografia del Seicento)
183
A fianco
e in basso
Xilografie
dal Decamerone,
Venezia, 1492,
degli episodi
descritti nella
nota 20 (p. 194)
con posizioni
alla ‘todesca’
o more pecudum
o more canino
ovvero a pegorina
A proposito di bei cavalieri è curioso
scorrere quest’altra poesia del Cavassico
che dimostra come il tema, e il modo di
affrontarlo, non abbiano tempo ovvero
necessità di adeguamento.
L’amplesso inteso come ‘battaglia
d’amore’ è tra le metafore più comuni,
risultando congegnale all’ideale del
maschio guerriero e cavaliere, il cui
bisogno di conquista può qui espletarsi
con basso rischio e certo godimento.
Gir in giostra, andar in giostra cioè al
torneo cavalleresco ha, in questo caso
significato di copulare, oggi come
mezzo millennio or sono. È questo
l’unico duello che paradossalmente si
concluda sempre col vanto di una
sconfitta – quando va bene, ‘ai punti’ –
lasciando sconsolato a meditare
persino il lanzichenecco, senza
scrupoli, incerto sulla affidabilità della
propria arma, considerata fraternamente
e somigliante, a tratti, al visto augellino
consigliato alla novizia.32
31 Cfr. Le rime
di Bartolomeo
Cavassico,
a cura di Carlo
Salvioni, vol. II,
Bologna,1894,
99-100,
Oda XXXV,
Ad Priapum).
32 Stesso A.
vedi questo V.
a pagina103.
184
Rit: Lanzschenech, tu me fai torto,31
quando sun per gir in giostra
tu me fai la bella mostra,
poi nei fati pari morto.
Lanzschenech, tu me fai torto!
Tu sei ardito al cominciare,
nel combater poi tu manchi;
tu me fai si disperare
perché presto tu te stanchi.
Io ti prego te rinfranchi
e non star cotanto ∫morto.
Rit: Lanzschenech, tu me fai torto, ecc.
Che ti val prender l’invito
S el ti manca lo valore!
Prendi, prendi ormai partito
che non abi di∫onore.
Tu solevi esser in fiore,
ben gagliardo, ardito e scorto.
Rit: Lanzschenech, tu me fai torto, ecc.
Tu te perdi in ogni bosco,
che non sai prender la via,
Tu sei cieco, tristo e losco
che nervo∫o esser solìa:
Certo questa e gran folia
che non possi intrar in l orto.
Rit: Lanzschenech, tu me fai torto, ecc.
Me ricordo el bi∫ognava
ben tignerti cum bon freno,
tu menavi furia brava:
or me par tu vegna al meno,
Non ti dò paglia, ne feno,
ma erba dolce de bon orto.
Rit: Lanzschenech, tu me fai torto, ecc.
quando sun per gir in giostra
tu me fai la bella mostra,
poi nei fati pari morto!
CIAPIN CIAPIN
prima l é astronomo, po cazadór e po pescadór1
A proposito di metafore e serrature, uno tra i verbi di maggior uso per copulare è
chiavare, ciavar. Inchiavare, significa detenere il potere, avere il dominio
sull’incastro più ricco e sontuoso, poter gestire a piacere la ricchezza, godere a
volontà del bene prezioso. Se maschile è il riferimento alla chiave, la ciave, la
serratura rappresenta quello femminile. Il termine seradùra, seraùra, non risulta
eccessivamente frequentato nell’immaginario popolare, forse per mancanza di
riferimento visivo col quotidiano dove ci si riferisce più facilmente al catenaccio.
Il protagonista rimane sempre il maschio che appare l’elemento attivo per
eccellenza, mentre alla Lei si rivolgono raccomandazioni di salvaguardia finalizzate
al di lui godimento, come capita nelle seguenti villotte friulane a contrasto.2
Fantacinis, fàit judizi,
dal judizi tignit cont;
tignit cònt da sieradure
che la clav e và pa l mondo
Ragazzine fate giudizio
siate ben assennate;
tenete da conto la serratura
che la chiave è sempre in giro.
Tignir cònt da sieradure?
l à un bièl dì, lui, siòr plevàn.
Ce si fà∫ial quand c a tire,
quand che dan la clav t a man!
Stare attente alla serratura?
Ha un bel dire il Signor parroco!
Come si fa quando (Lei) tira
e ti danno la chiave in mano!
Va a farte ciavar, da noi, equivale al ‘vai a farti fottere’ italiano, ma con una
sfumatura di sottomissione in più; ciapar na ciavada o dar na ciavada significa
prendere o dare una fregatura. Per indicare il coito si usa invece far na ciavada, na
ciavadina, se veloce e poco impegnativa (anche na ∫veltina). Peraltro si usa anche dire
andemo o andón a ciavarse n ombra per invitare gli amici a bere un buon bicchiere di
vino, per il quale nel triveneto si ha un evidente trasporto ‘amoroso’. Sempre
impositivi e più volgari sono i gesti di montar, montare (sulla cavalla, sulla carrozza,
perfino in giostra3), taconar, tamponare (mettere la toppa), pompar (azionare lo
stantuffo della pompa) e folar (pigiare l’uva ma anche azionare il mantice, il follo).
1
Astronomo, perché mira in alto, al cielo; cacciatore perché spara dritto; pescatore perche la canna pende
all’acqua: la metafora delle posizioni di Lui nel ciclo dell’atto sessuale maschile sono evidenti.
2
Cfr.Ostermann, Villotte friulane, Appendice, 10. Lo Starec ha registrato una serie di villotte a Poffabro, nel
179 1987, (Friuli 39.11, voce femminile, rif. n. 1901), di cui la prima * analoga: «Fantacinis da judizi / da judizi tignei
cont / tignei cont li seraduris / che li clafs a son pal mont. – E ancje i arbrui àn braùra / quan c a son cjamàz di
flors / e cusì chelis ninine / quan che àn qualchi morós. – Iò t ài iodude in cjame∫ute / cul batòn di∫botonàt / e
maladete la primure / che par dut iò no ài cjalàt» (Ragazzine con giudizio / con giudizio tenete da conto / tentete
da conto le serrature / che ci sono tante chiavi nel mondo. – Anche gli alberi sono orgogliosi / quando sono
carichi di fiori / e così quelle ragazzine / quando hanno qualche innamorato. – Ti ho vista in camiciola / col
bottone sbottonato / e maledetta la fretta / che non ho guardato dappertutto.
3
Cfr. Coltro, Cante e cantari, 476 (Son partito da Milano): «…E con cinque si va in giostra / altri cinque si
beve un litro / e l amore è già finito / l amore è già finito». La strofa ci pare consona ai coscritti e la giostra cui
si accenna è probabilmente quella del parco dei divertimenti, a sua volta ispirata ai tornei cavallereschi.
185
Ancor più ‘taglienti’ i sinonimi incalmar, inserire (dell’innesto botanico); piconar,
picconare (usare il picco), inpirar (infilzare con lo spiedo), guzar (affilare il
coltello, l’attrezzo) e perfino scanar (truculento, scannare, nel senso di sverginare,
ma poco usato). Tociar, tipico del vocabolario gastronomico, intingere,
presuppone una condivisione col partner.
Pinciar4, comunissimo, è gergale (forse assaggiare, tastare come nello spagnolo).
Famoso è il giochino di parole che qualche giovane ci insegnava da bimbi
chiedendo che lo andassimo a ripetere a sorelle o cugine maggiori: digli tre volte
ciapin – che per noi era la presina da usare in cucina per non scottarsi le mani –
e così ingenuamente iniziava la nostra filastrocca con assicurato ceffone di
ritorno… ciapinciapinciapin!
Altri verbi usati sono cucar (conquistare, beccare), incalcar, ingrumar, (calcare,
pressare), urtar (cozzare, di antico uso, ma corrente nel Veronese), trombar.
Scoàr, scopare, è entrato solo di recente nel vocabolario locale, derivando dal
modo italiano, soprattutto nell’accezione scoadina, scoàda che si affiancano a
montada, tociada, incalmada, taconada, piconada, inpirada, guzada, pompada,
cucada, pinciada e così via.
No digo che no sia gusto a tocar *
Non manca la puntualizzazione del
un bel culo de qualche buzarona,
Baffo* sul tema che occupò buona parte
che no sia gusto de licar la mona,
della sua produzione e che lo rese celebre
che no sia gusto fàrselo menar.
facendone però trascurare la valutazione
globale. La particolare tematica non è
Co la so lengua in boca da ba∫ar
d’altronde un suo vezzo personale ma si
no digo no la sia una cosa bona,
ricollega ad un filone di poesia ‘eroticoinsoma tuto quel che co una dona
amorosa’, assai vitale a Venezia, specie
de più lascivo a l mondo se pol far,
nel ‘500 e che aveva trovato in Maffio
xé tuti quanti gusti bei, e boni,
Venier un altro interprete straordinario5.
ma quelo de l ciavar per mi sostento,
Di questo Autore riportiamo un brano
che l sia un gusto tra i gusti buzaroni,
esemplare, dedicato alla giovinetta che lo
indusse ad un amore capace di
perché quando in mona se xé drento,
raggiungere l’idillio con naturalezza,
de tuto el mondo par se sia paróni,
passando per un mondo dei sensi
e tuto se darìa per quel momento.
terragno coincidente con quello poetico.
4
In Bernardi, Abecedari, 343, si ricordano anche gli altri modi di dire: anda da pinciona (ragazza con
camminata sexi), òcio pinción (sguardo sexi) e far pincéte (sbaciucchiarsi, toccarsi in preamboli).
5
Nella prima metà del XVI secolo, specie nei decenni 1520-1540, nell’ambito della letteratura comico-satirica
veneziana, allora al massimo splendore, si sviluppò un sottogenere di tipo decisamente osceno che diede luogo
a novelle, poesie, ragionamenti e poemetti i cui temi dominanti furono le avventure amorose delle meretrici e il
mal france∫e. Basta pensare alle opere dell’Aretino e dei suoi amici come Lorenzo Venier (il padre di Maffio)
autore della Puttana errante e della Zaffetta. La pubblicazione di operette popolari sulla sifilide e sulle cortigiane
continuò per tutto il XVI e buona parte del XVII secolo, ma a partire dalla metà del ’500 i testi acquistarono un
tono sempre più moraleggiante, che appesantì il genere e gli tolse ogni brio fino all’arrivo del Baffo.
186
CANZON (de l albuòl)
CANZONE DELLA MADIA
Brama pur chi se vuol fra armezi d oro
e soto rensi e séa
fóter a so pia∫er dona lasciva,
zóvene e bela e bramà longamente,
creda pur fermamente
che quela sola sia la vera via
a la qual chi ghe ariva
retrova de l ciavar tuto el te∫oro,
che mi lontan d umor, co∫ì cogion,
adeso che ò gustà,
cazzo, co∫a è bontà,
no bramo altro mai che l magazen
a pè pian su l terén
sobogìo, sporco e pien d umidità,
e quel gramo albuòl vecio apuzà a l muro
cusì in canton, a l scuro,
e quela dolce e delicà masèra
che fotì a l improvi∫o verso sera.
Brami pur chi si voglia, fra oggetti d’oro
e sotto candidi lini e seta,
fottere a suo piacimento donna lasciva,
giovane e bella, e desiderata a lungo,
creda pure fermamente
che quella sola sia la vera strada
alla quale chi ci arriva
scopre del fottere tutto il tesoro,
perché io, privo di umore, così coglione,
ora che ho gustato,
cazzo, che cosa è bontà,
altro non desidero che il magazzino
a pianoterra, sul suolo sobbollito,
sporco e pieno di umidità,
e quella vecchia madia appoggiata al muro
in un angolo, così, al buio,
e quella dolce e delicata serva
che ho fottuto di punto in bianco verso sera.
Cogioni, adeso sì che ò cognosuo
che più fra le bassezze
che tra superbie vanità fumo∫e,
l ànemo e l cazzo resta consolao;
perché de aver provao posso ben dir
tute quelle dolcezze
più care e saoro∫e
che abia gustà quanti che à mai fotùo.
Coglioni, solo ora ho capito che,
meglio in mezzo alle cose umili e povere
che non tra superbia e vanità fumose,
l’animo e il cazzo trovano consolazione;
perché posso ben dire d’aver provato
tutte quelle dolcezze
più care e saporite che mai
abbiano gustato quanti hanno fottuto.
Vaga pur da qua in là
in tanta malora
l aver l occhio ai palazzi,
e digo, soto sora,
letiere d oro, perle e caenóni,
bei rizi e zocolóni,
bàvari, anelli con spaliere e razzi,
che no (ghe) be∫ogna altro per gustar
che cosa sia el ciavar
che una potifa monda, schietta e pura,
giusto come l à fata la natura.
Vada pure
in tanta malora
chi ha l’occhio ai palazzi,
e questo per dire
alcove dorate, perle e gran catene,
belle acconciature e alte calzature,
collari, anelli con montature e arazzi,
perché altro non serve per gustare
cosa sia fottere
che una potta pulita, schietta e pura,
proprio come natura l’ha fatta.
187
Tuto el resto xé tara, tuto el resto
si xé intrigo e desturbo
che strùsia, che travagia e che dà impazzo,
come pur troppo chiaro e troppo espresso
n à mostrà Apollo in esso,
in questo certo sora ogni altro furbo,
scozón, astuto e lesto,
che quando ghe à tirà sì forte el cazzo
l é corso come un lovo zorno e note
per voler lecar via
Dafne fra boschi e gròte,
perché l saveva, no siando balota,
che asai più d una pota
che no sia sta lecà, tocà o forbìa,
trova dolcezza e giubilo compìo
ogni cazzo incazìo,
che da un mijèr tuto il dì strusiàe
con forfete, stropagni e aque stilae.
Tutto il resto è spazzatura, tutto il resto
è sovrappiù e fastidio
che affaticano, affliggono e impacciano,
come con troppa chiarezza e sveltezza
ci ha dimostrato Apollo,
in queste cose furbo più d’ogni altro,
cozzone, astuto e svelto,
che quando il cazzo gli ha per ben tirato
è corso come un lupo dì e notte
per voler leccare
Dafne tra boschi e grotte,
sapendo (non era un coglione)
che molto più da una potta
che non sia stata leccata, toccata o forbita,
ogni cazzo incazzito
trova dolcezza e soddisfazione completa,
che da mille potte ogni giorno travagliate
da forbicine, tamponi e acqua distillata.
Mile respeti e mile impedimenti
sempre con essa porta
dona che viva e che staga a la granda,
tuti a l azion del fóter doloro∫i,
pessimi diavolo∫i;
oro, zògie, damaschi, no comporta
a l cazzo quando el manda
afflitto e duro a l ciel mòcoli ardenti.
Mille rispetti e mille impedimenti
porta sempre con sé donna
che viva e si comporti con esagerazione,
tutti contrari all’azione del fottere,
pessime diavolerie;
oro, gioielli, damaschi, non giovano
al cazzo quando, afflitto e duro,
manda al cielo moccoli ardenti.
El so conforto xé co la ghe monta
aver immediate
una potifa pronta,
no in leto fra lascivie e strisarìe,
ma su un albuòl in pìe,
dolce sustegno d un pèr de culate.
Per queste ogni altra pompa se ghe laga,
e si se ghe ne incaga,
che tal moza è fra zògie, oro e veluo,
che xé tuta formagio, mozi e bruo.
Ché longhe servitù!
che spasizar
tuto il dì suspiro∫o e suspeto∫o!
Il suo conforto è, quando gli salta il ticchio,
di avere immediatamente
una potta pronta,
non in un letto fra lascivie e strisciamenti,
ma in piedi, su una madia,
dolce sostegno d’un paio di natiche.
Per questo si abbandona ogni altro lusso
e lo si incaca, che tale mozza
si trova fra gioielli, oro e velluto,
ed è tutta formaggio, mocci e brodo.
Macché lunghe servitù!
macché passeggiare
tutto il giorno sospirosi e sospettosi!
188
Ché star tuta la note come lari
a inspiritarse in su le cantonae,
che per do grame ociàe
andar i me∫i intréghi in su e in ∫o∫o;
ché butar via danari
in rufiane per farghe parlar,
che alfin ve manda po tute in bordèlo,
amisi, roba e onor,
la sanità e l servèlo,
se senza ste fature e ste ruìne.
con quatro paroline,
in s un albuòl se fote da signor,
con tanta soavitae e zentilezza,
e con sì gran dolcezza,
seguri da pericoli e da intrighi,
da panòce, caruòli e becafighi.
Macché starsene tutta la notte come ladri
ad eccitarsi sulle cantonate,
e per due misere occhiate
andare su e giù per mesi interi;
ché buttar via denari
in ruffiane per contattarle,
che alfine vi mandano tutte al bordello,
amici, beni e onore,
la salute e la mente,
se senza queste tresche e questi accidenti
in quattro e quattr’otto
su una madia si fotte da signore
con tanta soavità e delicatezza,
e con sì gran dolcezza,
immuni da pericoli e da inghippi,
e da infezioni veneree.
O dolce albuòl, o caro magazen,
assai pì dolce e cara
masereta zentil, galante e bona,
perché no sòngio bon da lau-darte,
almanco in qualche parte,
la grazia, la maniera unica e rara
del to spòrzer de mona,
che mai pì al mondo ò chiavì cusì ben.
Vardè, che qua sia stà quel no volemo,
orsù via, mo stè in pa∫e,
che ve penséu che sémo?
Sì, cazzo apónto, caro océto mio,
àldi un po qua da drio.
La vien de longo via senza altre ra∫e,
ghe dago un ba∫o e ghe digo ribalda,
et essa sì sta salda,
ghe alzo su le tàtare e l pre∫ento.
La ride, e mi, un pentón, e l cazzo drento.
Ceda l ambro∫ia e l nètare de i Dei,
e vaga al la lovana
perché no i zonze al terzo de la strada.
Altro che i campi Eli∫i sì ghe vuol
a superar l albuòl
che aporté in tuti do sì dolce mana.
O dolce madia, o caro magazzino,
e assai più dolce e cara
servetta gentile, galante e buona,
perché non sono io capace di lodarti
almeno in parte
la grazia, il modo unico e raro
del tuo porgere la fica,
che mai al mondo ho fottuto meglio.
Badate, non vogliamo sia ciò,
orsù via, state in pace,
che vi pensate che siamo?
Sì, cazzo appunto, caro occhietto mio,
ascolta un po’ qui dietro.
Lei viene di botto senz’alcuna malizia,
le do un bacio e la chiamo briccona,
e lei sta ferma,
le sollevo le gonne e glielo presento.
Ride, ed io, una spinta, glielo ficco dentro.
Cedano l’ambrosia e il nettare degli dei,
e vadano in malora,
perché non arrivano ad un terzo della strada.
Altro che campi Elisi ci vogliono
per superare la madia
che procurò ad entrambi sì dolce manna.
189
A la prima cazada
ne fu forza criar ohimei, ohimei,
e dar dentro de longo a i morsegoni,
a suzi, a susti, a ba∫i
e ai più dolci spentoni,
per farla co se diè subito e presto,
come porta l onesto
d un cazzo e d una pota in simil ca∫i.
Mo no so miga al fin co no morisse
alora che ghe disse:
Te laso, anima mia, no pòso pì,
e ela: Ohimei, ohimei, vegno anche mi.
Laso pensar el resto a chi à intelletto,
e cussì a passo a passo
considerar el fóter ben compìo,
e che dolcezza che mi gustì alora,
finché gh è l cavè fuora
straco fòfio, sudao, pianzioto e lasso,
no lasando da drio
che anche el deo borghizase qualche puoco,
che mi, zonto a sto segno pì no pòso,
è forza che me imuta
con dir che me cognóso
che l mondo pòsa dar masa lichéti,
cieli, stele, pianeti,
perché senza un pensier, qua∫i a la muta,
senza servir, se puol star su le zanze,
cerimonie e creanze,
con quatro ba∫i e do ‘raì∫e mia’
provar de l fóter l alta monarchia.
Canzon, porta da lai co ti va in volta
sempre un bon pistole∫e,
e per ogni pae∫e
vàtene via resolta
de petarlo intraverso de l mustazzo
a chi te leze e no ghe tira el cazzo.
Alla prima chiavata
dovemmo gridare ohimè, ohimè,
e dar dentro di botto ai morsi,
ai succi, ai sospiri, ai baci
e alle più dolci spinte,
per farla come si deve subito e presto,
come in questi casi impone il diritto
d’un cazzo e d’una potta.
Non so proprio come alla fine non sia morto
quando le ho detto:
Ti lascio, anima mia, non ne posso più,
e lei: Ohimè, ohimè, vengo anch’io.
Lascio pensare il resto a chi ha intelletto,
e a mano a mano
considerare così il fottere ben fatto,
e quale dolcezza gustai allora,
finché glielo estrassi
stracco, floscio, sudato, lacrimoso e sfinito,
non tralasciando sul retro che anche il dito
indugiasse un po’ nel ‘borgo’,
ed io, che a questo punto non ne posso più,
è necessario ammutolisca
dicendo di essere consapevole
che il mondo possa dare tanti godimenti,
cieli, stelle, pianeti,
perché senza una sola preoccupazione,
discretamente, si può stare sulle ciance,
su cerimonie e creanze,
con quattro baci e due ‘radice mia’
provare del fottere l’alto dominio.
Canzone, quando te ne vai in giro porta
sempre al fianco un buon pistolese,
e per ogni paese
vattene decisa
a cacciarlo in chi,
leggendoti, non gli tira il cazzo.
Il brano è tratto dal Codice Marciano IX. 73 cc. 49 r. 51 r. Maffeo (Maffio)Venier. Letterato (Venezia 1550-1586),
ebbe una vita corta, intensa e avventurosa: da giovane libertino ad Arcivescovo di Corfù. Fu drammaturgo e
poeta di notevole levatura; noto per aver scritto la Strazzosa, considerata tra le più fresche poesie dialettali
veneziane del Cinquecento è autore di molti componimenti anche di forza amorosa e sensuale accentuate. Una
rivalutazione dell’Opera poetica di Maffio Venier è stata di recente fatta dall’amico Attilio Carminati.
190
TAV.
I: Venus genitrice
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
II: Paris e Cenone
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
III: Angelica e Medoro
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
Tante sono le metafore utilizzabili ed usate per indicare l’amplesso6 come si è già
visto e come si continuerà a vedere. Anche molti degli indovinelli da filò
rientrano in questa categoria e sono la dimostrazione del modo pratico utilizzato
dal mondo contadino per superare il veto religioso e poter esprimere, anche
scherzando, la propria esigenza di comunicazione sessuale.
IL CAMINO
Me nono vecio antico
in medo le gambe l à l nemico:
tut intorno l à la lana
e in medo l à la cana (la tana).
Mio nonno vecchio e antico
tra le gambe ha il nemico:
intorno ha la lana
e in mezzo ha la canna.
IL CAMINO DI CASA
Se no l tira co ghe pias,
le fémene tira l nas!
Se non tira quando occorre,
le donne nicchiano!
OCCHI E NASO7
Pél con pél
doi bale in mez a l pél
an afar lonc in mez le bale!
6
Pelo con pelo (le ciglia)
due palle in mezzo al pelo (i bulbi oc.)
un affare lungo in mezzo alle palle!
A proposito di potta e di nomi attinenti ai sessi e al fare sesso riportiamo una piccola lezione dell’Aretino (Cfr.
Ragionamento della Nanna, 84). Antonia:
« Io te lo ho voluto dire, ed emmisi scordato: parla alla libera, e dì cu, ca, po e fo, che non sarai intesa se non dalla
Sapienza Caprinica con cotesto tuo cordóne nello anello, guglia nel coliseo, porro nello orto, chiavistello ne l’uscio,
chiave nella serratura, pestello nel mortaio, rossignuolo nel nido, piantone nel fosso, sgonfiatoio nella animella,
stocco nella guaina; e così il piuolo, il pastorale, la pastinaca, la monina, la cotale, il cotale, le mele, le carte del
messale, quel fatto, il verbigrazia, quella cosa, quella faccenda, quella novella, il manico, la freccia, la carota, la
radice e la merda che ti sia non vo’ dire in gola, poi che vuoi andare su le punte dei zoccoli; ora di’ sì al sì e no al
no: se non, tientelo».
Cu, ca, po e fo sono abbreviazioni furbesche dei termini: culo, cazzo, potta e fottere. Con la Sapienza Caprinica,
l’Autore allude al Collegio (Sapienza = Studio universitario) di Capranica in Roma, dove studiavano gli
ecclesiastici, protagonisti di molte gesta narrate dall’Autore. La pastinaca è una carota selvatica che, con fittone,
radice e altri termini analoghi, è da sempre termine usato in modo allusivo. Nel medesimo trattato sono presenti
moltissime altre e diverse denominazioni. Poco più avanti, ad esempio, nella continuazione del dialogo è la
Nanna a rincarare la dose narrando a sua volta le fatiche del Pievano Arlotto:
«Dico che, ottenuto il capretto, e fittoci dentro il coltello proprio da cotal carne, godéa come un pazzo del vederlo entrare e uscire; e nel cavare e nel mettere avea quel sollazzo che ha un fante di ficcare e sficcare le pugna nella pasta.
Insomma il piovano Arlotto facendo prova della schiena del suo papavero, ci portò suso di peso la serpolina fino al
letto; e calcando il suggello nella cera a più potere, si fece da un capo del letto, rotolando, fino al piede, poi fino al
capo; e di nuovo ritornando in suso e in giuso, una volta veniva la suora a premere la faccenda del piovano, e una
volta il piovano a premere la faccenda della suora; e così, tu a me e io a te, ruotolaro tanto che venne la piena: e
allagato il piano delle lenzuola, caddero uno in qua e l’altro in là, sospirando come i mantici abandonati da chi gli
alza, che soffiando s’arrestano. Noi non ci potemmo tenere di ridere quando, schiavata la serratura, il venerabil prete
ne fece segno con una sì orrevole correggia (salvo il tuo naso) che rimbombò per tutto il monestero: e se non che ci
serravamo la bocca con la mano l’uno a l’altro, saremmo stati scoperti».
192
IL CALZINO O LA CALZA DI LANA
Pél de fora e pél de rento
alza la gamba e fìchelo/a rento.
Pelo fuori, pelo dentro
alza la gamba e ficcalo dentro.
Pél co pél, pél tirà,
alza la gamba e fìchelo/a là.
Pelo con pelo, pelo tirato,
alza la gamba e ficcalo là.
La vecia da i sete tormenti,
la alza la gamba e la strenz i denti:
no la varda l pagamento
ma che l orbo vada rento!
La vecchia dei sette tormenti
alza la gamba e stringe i denti:
non guarda il pagamento
ma che il cieco vada dentro!
IL REMO E LA BARCHETTA8
Te vegno a ritrovar, bela bruneta,
e senza farte mal te salto adòso
e fico l mio cotal ne la bu∫eta;
po te faso flic-floc fin a che pòso.
Dopo che g ò strusià ben e sudà,
lo meto dentro suto…
fora lo tiro bagnà!
Ti vengo a ritrovare, bella brunetta,
e senza farti male ti salto addosso
e ti ficco il mio affare nella buchetta;
poi ti faccio flic-floc fino a che posso.
Dopo aver ben faticato e sudato,
lo metto dentro asciutto
e lo tiro fuori bagnato!
LO STIVALE O LA SCARPA DI PELLE
Pèl de fora e pèl de rento
alza la gamba e fìchelo/a rento.
Pelle fuori, pelle dentro
alza la gamba e ficcalo dentro.
IL CALZINO, LA CALZA, LO STIVALE
An toc de carne cruda,
te n bus la va metuda
e le robe no vien fate
se no se ∫górla (∫larga) le culate.
Un pezzo di carne cruda
va messa in un buco
e le cose non si fanno
senza muovere (allargare) le chiappe.
IL CHIAVISTELLO9
No vae in let contento
se no lo mete rento,
no leve su bonóra,
se no lo tire fora.
Non vado a letto contento
se non lo metto dentro
non mi alzo presto
se non lo tiro fuori. (apro casa)
7
Per il solo occhio, anche «péi de sot e péi de sora e un in mèdo che laora», sempre in Valbelluna. Simile in Ive,
Canti popolari istriani, 302,20, in cui la bala de l ocio, il bulbo oculare, diventa il cardellino (l’uccellino), che
lavora: «pil de suta e pil de sura, el gardilèin in miezo che lavura».
8
Babudri, 80, 438, per l’Istria.
9
Nella versione istriana del Babudri (78, 246): «El vilan co la vilana, tuta la not i se spalpana; / la vilana se
lamente, che no l g à dà una bona spenta; / el vilan giura e spergiura, / che l g à dà na quarta de bona mi∫ura».
193
IL TELAIO10
Do co∫ e sora un leto,
do spinai, un per fereto,
una roba co la barba
che se riza e che se ∫ larga!
Due cose sopra un letto,
due spinati con un ferretto,
una cosa con la barba
che si rizza e che si allarga!
GLI ORECCHINI11
Bele pute da maridar,
se no gavé l bu∫ o, févelo far,
ma ne con forfe, né con brìtola
se no con quel che pìcola!
Belle ragazze da maritare,
se non avete il buco, fatevelo fare,
né con forbice, né col coltellino
ma con quello che penzola!
LA BOTTE E LA SPINA12
El dispensier del convento
el g à una roba che fa spavento;
no la ∫ é né de carne né de sisa…
e l la ciapa in man co la pisa!
Il dispensiere del convento
ha una cosa che spaventa:
non è né di carne né di cicciolo
e la prende in mano quando piscia!
IL COCCHIUME DELLA BOTTE
Pineta bela pineta,
dove vutu che te lo meta?
Na olta l era u∫ anza
de méterlo in medo la panza!
Beppina bella Beppina,
dove vuoi che te lo metta?
Una volta si usava
metterlo in mezzo alla pancia!
LA SPINA DEL CARATEL (PICCOLA BOTTE)13
La signora sta a seder;
vien el cavalier,
el ghe toca l boconzin:
la signora fa pisin!
10
La signora sta seduta;
viene il cavaliere,
le tocca il bocconcino
e lei piscia!
Ibidem, 75, 405. Ispirata al telaio è anche la villotta friulana che dice: «Se jò vés di maridami/ vorés cioli un
chiesedor; / lis mes giàmbis par la trame, / la so spuèle par fa l or» (Se mi dovessi sposare, prenderei un
tessitore: le mie gambe come trama, la sua spola per fare l’ordito!) cfr. Ostermann, Appendice, 10.
Col medesimo spirito anche questo veronese: «Mi ve saluto, dona tesarola! / Se volè far la tela, chi gh è el
filo. / In tra mi e vu trarem la nave∫ela:/ se el filo se convien, la tela én bela» (Caliari, 120).
11
Ibidem, 73, 382. Quello che pende è l’orecchino stesso col cui gancetto si può direttamente forare il lobo
dell’orecchio.
12
Ibidem, 79, 430.
13
Ibidem, 79, 434.
14
Si riporta l’esempio sonoro dello Zigo zago dovuto al Coral Pelegrinhos da montanha di Nova Veneza (Nuova
Venezia), SC, Brasile (AGSB, BLM 500) che lo usa come intermezzo in una sequenza di note villotte dall’incipit
180 L é qua che pasa adèso *.
15
Espedita Grandesso, Prima de parlar ta∫ i, Edizioni Helvezia, Spinea Venezia, 2002, 120.
16
Cfr. Corso, 141: «Prima del coito si è soliti lubrificare il glande con saliva, olio, strutto, sapone e, in genere, con
quelle sostanze che gli antichi Romani comprendevano nel termine olea. Non c’è uomo potente sessualmente
che non ricorra a questi olea, soprattutto se ha a che fare con una donna vergine».
194
Non è difficile individuare ora, quel certo mago, co la testa rosa (o co la pipa in
boca, rossa egualmente) che con lo zigo zago rompe la cruna e l’ago (o altro) e che
fa morire-impazzire le donne in molti ritornelli dei canti popolari, tra cui alcuni
menzionati in questo volume14. Quando la donna non riesce a rimanere incinta
l’amico del marito fraternamente così lo sollecita: bati saldo (insisti), ara fondo
(penetra più a fondo), s’ciupa e péndi (sputa e spingi) mentre i maligni insinuano…
o che l póso ∫ é fondo o che la corda ∫ é curta!15 oppure, al canón el ghe n é, l é le bale
che manca! o ancora, l é scarso de bale. Raramente comunque si insisteva sul tema
dato che la mancanza di figli si imputava quasi esclusivamente alla donna.
Semmai si cercava di dare cibi al marito che aumentassero la secrezione, la
∫ boradùra per poter inpienirla mèio. Così, quando la donna è incinta, da noi si
dice l é piena. A proposito dello sputo, della saliva usata come lubrificante,
occorre dire che il gesto è tra i più comuni per facilitare il rapporto16.
Importante, anche la posizione assunta dagli amanti vuoi per favorire la
penetrazione ottimale ai fini di figliare (così si credeva) ovvero per trovare il
maggior diletto. Di nuovo le visioni del gesto si divaricano a seconda
dell’approccio filosofico vuoi religioso17, vuoi libertino. A livello popolare le
positure abituali, più che quella fronte a fronte, unica ammessa nel criterio
religioso e detta a la piana18, sembrano essere la caregheta19 e, soprattutto, la
pegorina20 che lasciano intravvedere nel nome anche il ‘modus agendi’,
richiamato peraltro in alcuni blasoni indicanti paesi a vocazione pastorale (es.
pincia-ciàore da Borcia) anche se animati da protagonisti diversi. Trovate anche
le denominazioni a la sacrestana o stùa mòcol, a spéo, a ciodo, ela a cavalon che
sembrano individuare la donna sopra a cavalcioni del maschio disteso o seduto21.
17
Cfr. Corso, 28: «Se il matrimonio è un sacramento (secondo la dottrina dei Padri della Chiesa), è giusto che
l’accoppiamento coniugale venga purificato da quell’insieme di voluttà e concupiscenza che sono gli elementi
fondamentali dei rapporti sessuali. Per questo i moralisti hanno disposto in lunghe casistiche: «Modus vel situs
naturalis in usu coniugii est ut mulier sit succuba et vir incubus, cum sit aptior ad effundendum et recipiendum semen».
Ogni altra posizione, «vel stando, vel sedendo, vel more pecudum, vel a latere, vel viro succumbente», è decisamente
peccaminosa! Più grave è il peccato se l’accoppiamento viene compiuto «in vase praepostero, in ore, in aure»,
anche se il coito venga poi portato a compimento nella vulva, «dein in vase naturali consummetur».
18
In Toscana detta all’angelica, quasi che i coniugi si abbracciassero come due angeli. Anticamente a la riscontra.
19
Taluno individua questa posizione denominandola alla maritata; l’uomo prende da dietro la donna ed
entrambi stanno coricati sul medesimo fianco.
20
Lat. more pecudum; pure more canino o alla tedesca. Forse un accenno alla posizione è nella villotta friulana:
«Si vicina l ora tarda / si vicina mieza not / la me puèma a s è voltada / cun chel zore a è lada sot» (si avvicina
l’ora tarda, si avvicina mezzanotte, la mia donna si è girata e da supina si è posta a bocconi - cfr. Arboit, 246,
833). In un’altra ancora si legge (Ibidem, 232, 841, pur se con interpretazione diversa): «Fa l amor a la
todéschie / no l è frégul di pechiat; / quatri pas lontan da l àtris / fa l amor cun libertat». Questa posizione è
stata avversata probabilmente perché troppo ‘animale’ ovvero implicitamente ‘naturale’. Nella letteratura
boccaccesca sono straordinarie le sue descrizioni nella novella seconda della VII giornata narrata da Filòstrato
(Peronella che dialoga col marito che scrosta l’interno del doglio mentre l’amante l’assale da dietro) e nella
decima della giornata IX, in cui Dioneo narra l’insegnamento pratico fatto da Donno Gianni a compar Pietro
su come trasformare la moglie in cavalla, interrotto fatalmente all’applicazione della sua coda!
21
Lat. mulier equitans (in italiano a cavalcante).
195
Le fantasie sulle possibili posizioni del
coito sono comunque planetarie e se ne
sono ritrovate espressioni sacro artistiche
in forma di pittura o scultura in ogni
parte del mondo e dai tempi più
antichi, dimostrando che più che alla
pornografia esse attengono al patrimonio
culturale comune.
Ci facciamo perciò aiutare dal Baffo e
dall’Aretino22 per accedere a questo
mondo, per molti ancor oggi tabù, che
questi letterati sembrano padroneggiare
mostrando di conoscere anche i contenuti
dei manuali sacri dell’erotismo Tantra.
22
Mi ciavo la mia dona in tante forme
che gnanca no le poso ben contar.
A la deste∫a mi scomenzo a far,
dopo a la giostra, e po fanciul che dorme.
Col mio cazzo xé in molla, el ghe ne indorme,
a quel de più, ch el mondo posa dar,
è quando la moro∫ a el pol ciavar,
e in più maniere, el g à un contento enorme.
El lo fa a la todesca, a la gianeta,
col premischena, e a calza boracin,
e a marche∫ e la vol che ghe lo meta,
là co la gamba in colo, e a calcagnin.
Ma quei, che vol capir sta mia riceta,
che i leza la Putana d Aretin.
Corso, pp. 147-149. «Nel libro del poeta del XVI secolo Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e
dell’Antonia, fatto in Roma sotto una ficaia (Parigi, 1534), sono enumerate ben trentatré posizioni del coito.
Le elenchiamo qui sotto, osservando che alcune di esse sono ancora praticate, mentre altre sono esercitate
solo nei postriboli. 01 Fare in piè o la potta, cioè la vulva: uomo e donna stanno sulle piante dei piedi rivolti
a faccia a faccia. 02 La grù: la donna solleva una gamba. 03 La patta d’Anteo: uno di fronte all’altra, a faccia
a faccia, mentre lei solleva tutte due le gambe. 04 Alla tedesca: la donna volge le spalle all’uomo, il quale le
sta dietro, passando le braccia al di sotto di quelle della donna e incrociando le mani dietro al collo di lei la
tiene prona. 05 A pasci-pecora: come per il n. 4, solo che la donna tiene le mani a terra. 06 Far candele di sego:
l’uomo sta seduto, lei sta a cavalcioni sulle cosce del maschio poggiando i piedi per terra. 07 All’albero: la
donna nella posizione del n. 6, ma con le gambe in alto e i piedi appoggiati alla sedia vicino alle natiche
dell’uomo. 08 Fanciullo che dorme: la donna siede in grembo all’uomo, poggiando le spalle al suo braccio
destro e con le gambe sulla coscia sinistra e sotto il braccio sinistro di lui. 09 Alla distesa: la donna siede,
l’uomo sta in piedi fra le gambe di lei alzate e flesse per poggiare i piedi per terra. 10 Premi-schiena: la donna
solleva entrambe le gambe ripiegandole sul dorso del maschio. 11 Cornamusa a sedere: l’uomo tiene una delle
gambe di lei sul braccio e l’altra sotto, vicino al proprio fianco. 12 Gamba in collo a sedere: l’uomo regge con
un braccio una gamba della donna. 13 Borsacchino: lui afferra con le mani le labia maiora allungandosele sul
pene. 14 Alla giostra: l’uomo va con il penis erectus verso la donna, introducendolo nella vulva. 15 Alla piana:
entrambi stanno distesi, lei con le gambe ben divaricate e lui sopra. 16 A ranocchio: lei porta i talloni alle
natiche. 17 Cornamusa a giacere: simile al n. 11. 18 Gamba in collo a giacere: come il n. 12. 19 Alla giannetta:
lui sta supino e lei sopra. 20 L’androgino: lei giace sul ventre e lui l’abbraccia dalle spalle. 21 In profilo:
entrambi sono distesi di fianco, a faccia a faccia. 22 A patta scherzia: lui tiene una delle gambe di lei sul suo
fianco. 23 Retro in canna: la donna tiene una gamba sollevata sul fianco e l’altra pure sollevata, al di sotto
della prima. 24 Riccio in fiume: la donna sta supina, l’uomo sopra: lei tiene le gambe sollevate sulle natiche
di lui. 25 Cavalcar l’asino: l’uomo disteso all’indietro, lei sopra con il viso rivolto verso di lui e il pene nella
vulva. 26 Galera: come il n. 25, ma la donna volge le spalle all’uomo. 27 Cavalcar in basta: come il n. 26,
però la donna cavalca per traverso. 28 Alla moresca: l’uomo è disteso sul letto con le gambe divaricate, al pari
della donna, che però tiene su le gambe, sulle cosce dell’uomo, stringendolo così in maniera più forte. 29
Argomento davanti: lei è stesa di fianco, lui in piedi, mentre lei fa ricader fuori dal letto la parte di dietro. 30
Sonar coi piedi: lei è distesa, le gambe appoggiate al muro e l’uomo fra le sue gambe; intanto lei solleva una
gamba e abbassa l’altra. 31Gambe in collo alla rovescia: lei giace sul ventre tenendo le gambe sulle spalle di
lui. 32 Calcagnetto: lei batte le gambe sulle natiche dell’uomo durante l’eiaculazione. 33 Il timpano: l’uomo
steso supino in terra, la donna accovacciata in un canestro forato che, per mezzo di una corda retta da lui,
viene mantenuto sospeso. L’uomo fa sì che la donna si abbassi su di lui e, quando ha il pene nella vulva,
blocca la corda in modo che il canestro non si sollevi, poi fa ruotare con le mani il canestro e la donna
procurando a entrambi un piacevole divertimento».
196
Sulle possibili manifestazioni delle intimità coniugali risulta esemplare un canto
medievale a contrasto in cui la madre inizia ai misteri del piacere la propria figlia
che avverte, benché solo quasi decenne, le prime pulsioni sessuali.23
01
09
17
Madre mia dammi marito
– figlia mia dimmi il perché –
che mi faccia dolziemente
quel che fa mio padre a te.
ficheraviti dentro il dito
poi lo piglia per la punta
lo schudo e la maza a fronte
ficchal tutto in chorpo a te;
sto che sia gran divieto
tutti porai giu bocchoni
et lui sara a chavalcioni
assaggierai il bocchone che gli è.P4
02
10
18
Figlia che sie maladetta
tu non hai anchor deci anni
troppo vuoi marito in fretta
et non ti sai alzare i panni;
Figlia mia quando e tetoccha
et volessiti baciare
mettigli la lingua in boccha
dolzemente lo lascia fare;
Quando non riza la punta
che non potesse schermire
lo tuo schudo alla maza afronte
e comincialo afferire;
03
11
19
non regieresti agli affanni
si ài tenere le choscie
a ricievere le perchosse
che dà lo tuo padre a me.
se le labra e vuol succiare
gìttagli al chollo la man manca
et la ritta sotto l ancha
acciò chei tiri la posta a teP1
quando il senti rinvenire
el chapo gli metti nel chaldo
et chon la mano lo tien saldo
finché ei possa far da seP5.
04
12
L altra notte madre mia
tu facievi un gran menare;
isvegliami che dormìa
cominciai un pocho ascholtare
Quando di sopra ti monta
figlia fa che sia chortese
sta di sotto alla rischontra
et terrai le choscie stese P2
05
13
il baciare e l abracciare
chol dire nol far troppo in fretta
un chotal pocho m aspetta
che l farò insieme chon techo.24
màndale in verso l paese
falla trita e ben chalchata
quando chonpie la sua giornata
e tu chonpi la tua per te.25
06
14
Non posso ciellar la doglia
che ie sento dentro al petto
quando mio padre si spoglia
per prendere di te diletto
Quando tel vuol far talotta
fa che gli usi dolci modi
pianamente te gli achosta
et chon esso lui ti ghodi;
07
15
tutto fa tremare il letto
e tremando egli a me chocie
delle braccia ti fa crocie
truovane uno chel faccia a me.
non churare chel corpo sodi
gittagli le ghanbe adosso
e poi prendi il buon sanz osso
ficchalo tutto in chorpo atteP3.
08
16
Figlia mia poi chetti piacie
troverotti un bel marito
fa che soffrischa in pacie
quando sie giunta al partito;
Et se per magior diletto
tel volessi far dirieto
achostagli le rene al petto
mosteragli il viso lieto;
Questa posizione
illustrata nel dipinto indiano,
detta Utkalita in Ananga ranga
è troppo simile a quella
prospettata dall’Aretino
per non supporre una circolazione vasta
delle idee sul tema
23
Cfr. Severino Ferrari, Biblioteca di letteratura popolare italiana, Firenze, Tip. del Vocabolario, 1882, 334-335.
È descritta la ricerca dell’orgasmo contemporaneo ovvero del vègner insieme (plenus coitus).
25
Le annotazoni indicano rispettivamente le diverse posizioni: P1, P2 e P3 varianti di alla piana; P3 e P4
alla pecorina (o in vase praepostero); P5 a cavalcante.
24
197
I SENSI COINVOLTI
el sesto senso
l é la bona memoria
VISTA
TAV.
IV: Il satiro e la ninfa
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV. V:
Giulia con un atleta
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
Nel mondo dei bigotti, quella di ‘vedere’ è l’occasione più scandalosa, quella che
più direttamente eccita e scatena gli appetiti. Anche se il movente ci appare
pretestuoso è certo che sulla efficacia dell’immagine c’è poco da dire e la
presente civiltà, definibile dell’apparire, lo conferma, ponendo l’immagine al
centro della comunicazione. Fondamento del comportamento era no mostrar e
tutto quanto attinente all’aspetto doveva essere il meno sottolineato possibile,
anche nei momenti di intimità. Tantomeno si tollerava l’esibizione del sesso a
qualsiasi livello confidenziale. Vanto della buona madre di famiglia, nel parlare
tra donne, era anche la frase: La mea no l à vista nesun, gnanca me òn! (la Mia,
non l’ha vista nemmeno mio marito). Ed ecco l’uso di abiti coprenti, poco o
niente attillati, di fazzoletti e veli per la testa, di gonne lunghe fino ai piedi per
le donne, anche perché, sotto, non si usavano mutande1. Resta il fatto che per
lavorare nei campi bisognava in qualche modo raccogliere queste vesti, e per
certi lavori, decisamente sollevarle per non farle sporcare o bagnare. Ed ecco lo
scandalo e la fama di licenziosità affibbiati con facilità a mondine (perché
mostravano le gambe), alle balie (perché mostravano i seni), alle contadine, che
si denudavano le spalle per poter meglio lavorare; ecco perché l’evento della
nascita era a cura esclusiva delle donne come pure tutte le altre azioni implicanti
il loro apparato genitale. Lavorare, sudare, scoprire, emancipare sembra lo
strano ciclo che ha portato le donne a prendere, un po’ alla volta, coscienza di un
diverso diritto di rapporto con l’antico ‘padrone’. Certamente la massima
ambizione per un uomo era riuscire ad ammirare una bella ‘natura viva’2. Ciò
significava non solo essere pervenuto ad un’intima, ma anche complice relazione,
garanzia di un piacere con un valore aggiunto inconsueto.
1
TAV. VI:
Ercole e Dejanira
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
A livello popolare le mutande femminili sono stata adottate solo in tempi relativamente recenti e come
indumento vezzoso, mentre quelle maschili sono di uso anteriore per ripararsi dal freddo. Le braghése a Venezia
(sec. XVI), erano portate solo dalle meretrici ed altrimenti erano considerate immorali. Dai primi dell’Ottocento
le donne delle classi abbienti hanno cominciato ad usare mutande lunghe sino alla caviglia, in principio, che si
sono accorciate via via col mutare della moda sino a ridursi ai minimi termini nello slip moderno.
2
Al contrario, col sinonimo di ‘natura morta’ si canzonano gli organi sessuali esterni di entrambi i sessi quando si
presuppongono esausti o in deficenza funzionale. Sul godimento del vedere è impostata la villotta friulana citata
dall’Ostermannn (Appendice, 3): «Butait jù linzui e pletis, / restait nude sun chél jét; / su mostràimi ché robute, /
soi lu uèstri benedét» (Tira giù lenzuola e coperte, resta nuda su quel letto / su, mostrami quelle cosine meravigliose).
Ancora «Dulà sonin lis belezis, / che tu crodis tu di vé? / Forsi a son fra mièz li cuézis, / che nisun lis pò vedé?» (Dove
sono le bellezze, che credi di avere; sono forse tra le cosce, che nessuno le può vedere?); Ivi, Appendice, 2.
199
Per questo, nella sua semplicità, il detto val pì un che la varda che die∫e che la palpa
è quanto mai significativo. La frase più ardita da profferire ad una ragazza era: fame
vardar la Cina o, con pari senso fame véder Venèsia3, frase evolutasi, scaduto il
fascino della Serenissima, in quel dai, móstrame l America arrivato ai giorni nostri
anche travasato in bocca femminile come promessa di divertimento4.
La cosa non è comunque una novità se si pensa alla provocazione che la
protagonista del canto, noto come Vegnendo zó dai monti, rivolge all’amato
dicendogli: te la farò vedere, te la farò sentire, io ti farò morire da la sodisfasión5.
Si potrebbe pensare ad un nesso, fisiologico addirittura, anche ascoltando il
canto che è divenuto l’inno dei nostri emigrati di fine Ottocento, laddove si dice
che l America l é longa e l é larga (quanto quasi la strada del bosco già vista).
Anche tra coniugi quindi il pudore andava rispettato e si andava a letto indossando
una camicia da notte di modello ‘unisex’, magari dotata di vèrta, cioè apertura, di
fessura per facilitare l’espletamento di diverse funzioni. Le fesse passarono anche
sulle mutande quando esse diventarono d’uso più comune (in realtà incentivando
ancor più il normale desiderio).
Ociar, guardare, resta comunque uno dei divertimenti più semplici, dove
l’eccitazione non deriva tanto dall’immagine percepita quanto dall’aspettativa e
dalla pulsione sessuale dell’osservatore. Ben esprime il concetto questo
aneddoto popolare che ho raccolto a Nova Palma (IV Colonia, RS, Brasile, da
discendenti di Italiani emigrati a fine Ottocento): Ghe n era na volta an to∫at che
l era ndat a tégnerghe la scala a na so dermana che l era ndata su na zarie∫èra
selvàrega a ciór su marinèle. Siché na olta, se sa, no i doperéa le budande e sta
to∫ata, intant che la de∫montéa, la se à ciapà la còtola te na rama e sto to∫at al l à
ben remirada par sot. Dopo, medo vergognós l é ndat da l prete a confesarse e l ghe
à domandà se l éa fat pecà. A la fin el prete el ghe à dimandà: ma insoma, ti, atu
vist o atu vardà! E sì, parché la ménda (penitenza) l é diferente!
Prestare attenzione a non farsi vedere discinte era un consiglio ripetitivo che le
madri davano alle figlie e sottolineato pure in villotta6.
La mia mama me l à dita
che non vada più in cu∫ina
perché Toni me rovina
da i gran ba∫i che l me dà!
3
La mia mama me l à dita
che non vada più in sofita
perché Toni me l à vista
quanto larga (granda, longa) che la xé.
Il fascino esotico, l’imensa ricchezza del misterioso mondo che i Polo incontrarono si sono prestati come
sinonimo ideale della nostra Lei. Cina, cinéta, cinin è ancora termine di comune utilizzo. Oltre ad indicare
il Celeste Impero, potrebbe derivare anche dall’aggettivo piccola (piccina, piccinina). Analogamente la
valorizzazione è caduta su ‘Venezia’ e la sua splendida fama e, meno frequentemente, su Verona.
4
Cfr. Gianna Nannini, America: «Fammi volare, lui allunga la mano e si tocca l’America… ».
5
Durante il canto d’osteria è comune l’inserzione di un coro esterno che si insinua a metà della quartina
esclamando pomposamente la frase: alsa la ganba e fàmela veder (anche alza la ganba e pàreghelo su)!
6
Cfr. Ninni, III, 56 (villotta libera 59).
200
Vedere la donna nuda era una ambizione talmente grande da rendere timida la
richesta che approfittava, per manifestarsi, magari dell’occasione di un canto7,
come è nel caso della celeberrima ballata della Pinota8
181
LA PINOTA9 - Tambre d’Alpago, BL, 1978
01
06
O Pinota, bela Pinota
una grazia vorei da te.
Son qui scalza e in camiciola,
dami l tempo da rivestir.
02
07
Dimi pure che grazia vuoi.
Una note dormir con te!
Non m importa che tu ti vesta
quando nuda tu piaci a me!
03
08
Una note l é tropo poca
volio sempre dormir con te.
E la mama di dietro a l ùsio
sente tuto co∫ è l amor.
04
09
Vieni pure a le ùndici ore
quando mama e papà non c è.
Marcia in camera filiola mia
che costui l é un traditor.
05
10
Le ùndici ore son già suonate:
o Pinota vien giù ad aprir.
Io non sono un traditore
son venuto per far l amor.
Il tema del ‘bel vedere’ è al centro anche di molte villotte di cui la seguente è uno
degli esempi più castigati10
Bela, no andar in leto co la lume,
che l altra sera t ò visto in cami∫a.
T ò visto per un picolo balconselo.
G ò visto poco, ma g ò visto de belo;
g ò visto per un pìcolo bu∫eto,
g ò visto poco, ma so andà via contento.
Siestu benedeta, mora mora,APN, III, 134, 200
e così mora te me pia∫i tanto;
vorìa vederte sora de una stiora,
se ti ∫é bela, bianca, rosa o mora!
7
Cfr. Leydi, 182, in una villotta con liolèla di Lendinara, in Polesine: «Siestu pur benedeta a leto nuda / e mi
co la cami∫a tacà a n ciodo / dirindindina dirindindina / dirindindina, dirindindà».
8
Il titolo convenzionale (Nigra 76) è Convegno notturno, su cui convegono molti canti apparentemente diversi,
noti coi diversi nomi locali di Angiolina, bela Angiolina, O Gigiota bela Gigiota, Chi elo che batte a le mie porte,
E picchia picchia e così via. Cfr. D. Coltro, Cante e cantari, 252-3; A. Cornoldi, Ande, bali e cante del Veneto,
263; R. Morelli etc., Canti e cultura tradizionali nel Tesino, 224; C. Nigra, Canti popolari del Piemonte, 456-460;
V. Paiola, Canti popolari vicentini, 181-182; A. Vigliermo, Canavese che canta, 157; Wolf-Widter, Volkslieder
aus Venetien, 320; S. Zanon, Cento canzoni popolari della marca trevigiana, 96.
9
AGSB, CDE Soraimar, Cante Pagote, SRM0050/12. Le voci sono di Bepi e Celio Fullin. Cfr. anche Bovo. 313, n. 337.
10
Cfr. Bernoni,Canti popolari veneziani, I, 9, v. 38.
201
La maniera di spogliarsi può diventare una vera attrattiva sessuale se fatta in un
certo modo e tempo. Quella dello ‘spogliarello’ è un’arte antica e, a livello
popolare, fatta più che altro con la fantasia e, perché no, cantando in compagnia.
TAMBURIN CHE TAMBURAVA11 - territorio veneziano, 1875.
01
03
Tamburin che tamburava,
lu pian∫eva e sospirava;
na signora ghe domandava:
– Cosa gastu, tamburin? –
– Oh signora, se la volése
che le scarpe mi ghe cavése! –
– Càvile, càvile, tamburin;
càvile, càvile, dolze mio ben! –
Mentre lu ghe le cavava,
lu pianzeva e sospirava;
la signora ghe domandava:
– Cosa gastu, tamburin? –
– Oh signora, se la volése
che la cami∫a mi ghe cavése! –
– Càvila, càvila, tamburin,
càvila, càvila, dolze mio ben!12
02
04
Mentre lu ghe le cavava,
lu pianzeva e sospirava;
la signora ghe domandava:
– Cosa gastu, tamburin? –
– Oh signora, se la volése
che le còtole mi ghe cavése! –
– Càvile, càvile, tamburin;
càvile, càvile, dolze mio ben! –
Mentre lu ghe la cavava,
lu pianzeva e sospirava;
La signora ghe domandava:
– Cosa gastu, tamburin? –
– Oh signora, se la volése
che in te l leto mi ghe vegnìse! –
– Vieni, vieni, tamburin,
vieni, vieni, dolze mio ben!
TATTO
Il tatto è senz’altro il senso più coinvolto nelle sensazioni amorose e non solo
perché molte volte e per vari motivi si fa all’amore in luoghi appartati ed in
penombra ma perché il rapporto è macchinosamente e complicatamente tattile
ancorché soddisfacente. La consolazione delle meno belle e la loro rivincita era
la capacità di toccare e di essere toccate, l’abilità di aprire nel compagno la vista
sul canale dell’immaginazione. Co sona l Ave Maria, l é bela la tua come la mia
diceva il proverbio che, al tocco della campana serale, riportava anche le brutte
in potenziale parità.
Al tatto si confrontavano le beltà in periodi in cui non solo non si mostrava nulla,
ma neppure si poteva farlo dato che durante il giorno, il periodo della luce
naturale, tutti lavoravano e che di notte predominava il buio e scarseggiavano
torce e candele, almeno per la maggior parte della gente.
Il gesto eccellente in questo contesto era la palpada, il palpeggiamento, spesso
costretto a ridursi a veloce gesto di comunicazione, di assaggio e proposta.
Le palpadine da filò erano perlopiù mascherate da inciampi, da scivolate fatte ad
arte, corpose più per idea che per sostanza, sorrette a livello verbale da
indovinelli del tipo séntete bèla puta, che te la palpe tuta: fin che no l é mes rento,
no te sente alcun tormento, che alludeva al far le bùcole, i piccoli fori per gli
orecchini1; oppure a quest’altro: l ò qua, no l ò persa; l é sot la traversa e al
contrario de la boca, la cami∫a me la toca, che indicava la tasca interna del
grembiale. La palpada attraverso lo scriz, l’apertura di aggancio della gonna che
dava accesso diretto al possibile sottostante paradiso, era cosa già di massima
complicità, pericolosa e temeraria anche se talvolta reciprocamente incoraggiata
come si vede nelle villotte2.
Te recordetu, ninine,
sul cantón de l fogolar;
te di∫evi, palpa, palpa,
palpa pur sot a l grambial!
Ti ricuàrdistu, ninine,
in che dì su l fogolar;
Tu di∫evis: palpe, palpe,
palpe pur sòt il grimàl!
Te recordetu, ninine,
co se jèra là in cantón;
te di∫evo palpa palpa
palpa soto l patelón!
Ti ricuàrdistu, ninine,
in che dì ta l camarin?
Ti di∫evi: palpe, palpe,
palpe sòt da l patelin!
1
Saverio Barbaro, Donna con velo, 1985
11
12
Cfr. Bernoni, Tradizioni popolari veneziane, 43.
Si prosegue elencando eventuali altre vesti ‘intime’ fino alla domanda cruciale seguente.
202
Anche in Babudri, 81, 499 per l’Istria: «Bela puta feve arente / che ve lo meto dolcemente / che ve lo meto
con amor; / bela puta, g avé sentìo dolor? / No g ò sentio ne dolor ne dòia / parché g avevo una gran voia!».
Simile in Bernoni,Tradizioni popolari veneziane,68: «Bela puta, fate arénte / che te li meto, qua, a l pre∫ente. /
Bela puta, te fazo mal? / No me fé né mal ne dògia / che ghe n avevo pròprio vogia!».
2
Quelle venete sono state da me raccolte a Refrontolo (AGSB 0500, nel 2002) e, con altre citate in questo
libro, mostrano la logica condivisione col friulano (l’uso di ninine oltre al contenuto; cfr. Ostermann, 38, 39,
per le due sopra riportate, a destra).
203
182
183
Palpar è l’azione eminente in uno stuolo di canti popolari dai vari protagonisti,
specialmente del dottore (il palpeggiatore per mestiere). La trama invece è
costante e consiste nel progressivo avvicinamento della palpada verso il centro del
mondo femminile cui corrispondono diverse considerazioni sul luogo e sulla
reazione del personaggio subente che alla fine diventa, con entusiasmo,
consenziente. Riportiamo alcuni esempi sul tema che ha, come versione più
leggera, la celebre La Gigia l é malata * in cui el dotore l entra in camera e l ghe
pal-pa pal-pa l polso.3
PALPA DOTOR4 - Garibaldi, RS, Brasile, 1998
El g à palpà la fronte e la g à dito no
no no signor dotore lì male no ghe n ò.
palpa più in zó dotore
palpa più n zó, più n zó
o altrimenti il male
non paserà mai più.
Come le precedenti, di seguito
El g à palpà il peto
El g à palpà la pansa
El g à palpà i pìe
El g à palpà le ganbe
184
185
Ultima strofa:
El g à palpà le cosce
e la g à dito mmmm
caro signor dotore
darénte ormai ghe sé…
stai a posto con le mani
palpa un poc su e ∫ó
o altrimenti il male
non paserà mai più
LUI MI TOCCÒ LA FRONTE5 - Monghidoro, BO, 1990
Lui mi toccò la fronte
e io le dissi oilà
più giù ce l’ho una fonte
dove risiede la trainanà.
RIT:
Trainanà d amore
qui si tribola e non si muore,
amor se mi vuoi bene
e lasciati baciar!
Lui mi toccò i capelli…
Lui mi baciava il vi∫o…
Lui mi toccò una gamba…
Lui mi toccava il seno…
Lui mi carezzò la pancia…
Arrivò nel paradi∫o
e io le dissi oilà
fermati amore mio
oltre non devi andar!
Lui mi toccò la chicchera
e io le dissi sì,
sì mio caro amore
adesso resta lì.
EL DOTOR E LA BELA6 - Refrontolo, Treviso, 2001
Il dotor gli tocò la testa
e la bela gli dise no!
CORO: gli dise no!
Ma no, no, signor dotore,
no ∫é questo el male de l amor!
E gli tocai un cin più in giù,
ora pro nobis!
Il dotor gli tocò i galoni
e la bela gli dise no!
CORO: gli dise no!
E no no, signor dotore,
no ∫é questo el male de l amor!
E gli tocai un cin più in là,
ora pro nobis!
Come le precedenti, di seguito
Il dotor gli tocò la riga
e la bela gli dise sì!
CORO: gli dise sì!
E sì sì, signor dotore,
é proprio questo el male de l amor!
E lo fracai un cin più in su,
pace dona eis Domine!
Il dotor gli tocò le tete
Il dotor gli tocò la panza
Il dotor gli tocò i ginochi
186
SOTO L ALBERO FIORITO - Sideropolis, Santa Catarina, Brasile
01
05
Soto l albero fiorito, *
se ripo∫ava la bela mia, *
che l é l amore e l alegria, *
che l é la vita de el stralarilerà. *
E ghe meto le mani su i galóni,
la me risponde pore Toni,
e là più in baso se trova dei bu∫óni,
indove abita el stralarilerà.
02
E ghe meto le mani su la testa,
la me risponde bruta bestia,
e là più in baso ghe n era na finestra,
indove abita el stralerilerà.
03
E ghe meto le mani su le tete,
la me risponde co∫a fete,
e lì più in baso ghe n era le co∫éte,
indove abita el stralerilerà.
06
E ghe meto le mani su i denoci,
la me risponde pore gnochi,
E là su in sima ghe n era dei pedòci,
indove abita el stralarilerà.
07
E ghe mete le mani sui calcagni,
La me responde pore nani,
E su là in sima ghe n era de li ingani,
indove abita el stralarilerà.
04
E ghe meto le mani su la panza,
la me risponde senza creanza,
e là più in baso ghe n era quela stanza,
indove abita el stralarilerà.
* IL CORO CANTA: bim, bum bam!
e questo vale per tutte le strofe
3
AGSB, CDE Soraimar, Vorei baciar Nineta, SRM 0197/09, cantano le donne di Faedo (VI).
AGSB, CDE Soraimar, Spunta l sole, SRM 0194/16, cantata da Valmor Marasca.
5
Noto anche come la trainanà, il canto è eseguito da Maria Grillini (cfr. P. Staro, 246,40).
4
204
6
Simile anche in Coltro, Canti e cantari, 480-482 (El dotore ghe toca la testa) e in Canzoniere del Progno, 177
(E alora più giù).
205
187
Sugli odori delle parti intime non ci resta che conoscere l’opinione del Baffo:
EL GRÒSO DEL CARO PAPÀ - Refrontolo, TV, 2001
E non mi tocar più là col dito
ma co l gròso del caro papà.
Ma lu l ghe toca l amato pèto;
ela ghe dis: aspèto aspèto;
ma va pì n zó che gh é un boscheto
per el groso del caro papà.
E lu ghe toca l amata panza;
ela ghe dis: avanza avanza;
ma va pì n zó che gh é na stanza
per il groso del caro papà.
E lu l ghe toca anca i galoni
ela ghe dis: i é boni boni ..
ma dónteghe su anca i bonboni
ma col groso del caro papà.
La mona a dir el vero è un gran bocón
e credo, che a gnesun la ghe despia∫a,
mi compatiso queli, che la na∫a,
siben che no la sa gnente da bon.
Ma gnanca el bus del cul no xé cogion,
perché l é un bel roverso de sta ca∫a,
che se per sorte qualchedun la ba∫a,
no l ghe perde mai più la devozion.
Infati i xé do bu∫i, che no so
a chi se deva el primo. Za se sa
che per odor i spuza tuti do,
ma mi, se g ò da dir la verità,
credo ch el bus del cul faza più prò,
perch el cazzo stà fresco e più setà.
E lu l ghe toca l amata riga
ela ghe dis: quanta fadiga;
ma va pì n su che gh é na via
per il groso del caro papà
E non mi tocar più là col dito
ma co l gròso del caro papà.
OLFATTO
Sembra che l’olfatto sia ancora un fattore importante nel favorire e stimolare la
relazione tra i partners pur se le nostre virtù ‘animalesche’ risultano per la
maggior parte perse e riconvertite alla percezione di odori più ‘sociali’.
Indubbiamente il richiamo dei nostri effluvi ghiandolari resta, ma in secondo
piano, e la saturazione del senso ha ormai altre abitudini e tarature; doveva
essere ben diversa un tempo quando si imponevano gli odori forti dovuti alla
mancanza o scarsità di pulizia personale o alle convivenze obbligate con animali
di tutti i generi. Quegli odori restano ormai solo nel mondo dei selvatici dato che
persino gli animali domestici stanno ormai cambiando le loro abitudini
entrando sempre meno ‘in calore’ per la proliferazione delle fecondazioni
artificiali. Ma qualcuno l’ha mai sentito l’odore de n béch in calda (di un caprone
in amore) dato dalla stagionatura dei suoi liquidi seminali sul lungo vello? O
ancora ha mai pensato al perché le troie7 sono straordinarie come cacciatrici di
tartufi? Beh, gli odori che ci competono sono ormai minimi e di carattere
raffinato anche quando sono malodori come il saver da mufìn, da freschin, da
moltrin (da mucido, da uova, da caprino). La nostra Lei invece odora di un
salmastro carico e quasi eccessivo che si intensifica in fase di eccitazione
rispettando il detto... pì i ghe la palpa e pì la ghe spuza. Il mix sembra
riconducibile a sentori di sardella, baccalà, aringa e salacca salate, tutti cibi di
esperienza in Veneto per giudizi conseguentemente affidabili. Il nostro Lui
sembra caratterizzato più o meno dalla presenza dell’odore acidulo del formai
capelan, la secrezione glandare, mentre el ∫ bòro, il liquido seminale, ha un vago
profumo dolciastro come di castagne.
7
Le scrofe sono attratte dall’odore del tartufo che è assai simile a quello del seme del verro e sono in grado
di percepirlo anche a notevole distanza e quando filtra dal terreno.
206
Xilografia seicentesca con massima augurale sulla sorte
Tra i tanti canti dedicati all’uccellino abbiamo deciso di collocare qui la lezione
di Oppeano giacché in questa il ‘volatile’ sente il profumo de la signora che lo
guida verso la meta8. La struttura del canto è quella consueta:
188
L u∫ elin de la comare volea volare… Dove?
L è volato su…
Sente il profumo de la Signora… ecc.
Velatamente ma non poi troppo, dati i già visti precedenti, risultano specifiche
metafore anche le successive villotte.
O chié biela s’ciatulina9,
o chié bon tabac ca l à;
mi ndà dat una pre∫ina
che mi à fat inamorà!
O che bella scatolina,
o che buon tabacco che ha;
me n’ha data una presina
e mi sono innamorato!
El me moro∫o che l g à l na∫o longo10,
e con quel na∫o longo a mi l me pia∫e.
Vegnerà l tempo de la molonara
che l na∫erà i moloni stando a ca∫a!
Il mio moroso, ha il naso lungo
e con quel naso lungo così mi piace.
Verrà il tempo della ‘melonaia’
quando annuserà le angurie stando a casa!
8
La versione, del Piccolo Teatro di Oppeano, è stata registrata al Convegno Soraimar 2002, in Asolo.
Cfr. Arboit, 158, 524.
10
Cfr. Balladoro, II, 178, 6. Risulta chiaro il doppio senso di naso per pene; il tempo della molonara è quello
in cui l’anguria (sinonimo della rossa Lei) sarà accessibile (dopo il matrimonio), tanto che il bel giovane se
la potrà annusare stando a casa! Il gioco di parole si collega perfettamente al sonetto ‘pavan’ del Codice
Ottelio visto in precedenza a pagina 76.
9
207
UDITO
GUSTO
Accennare all’uso di questo senso nel presente contesto può sembrare
azzardato, ma non si tratta di approfondire qualche bizzarra fantasia, ma di
sottolineare come il parlare e l’ascoltare siano componente importantissima
dell’atto amoroso, considerato, quando compartecipato, il momento più alto
della comunicazione. Esso infatti prevede tutti i ‘con’ dell’Amicizia e dell’Amore sia a livello intellettuale che fisico (con-dividere, con-durre, compiacere, con-quistare con-giungere, con-penetrare ecc.). Le parole scambiate
nel corso di questo gioco, che taluno paragona ad una lotta, una guerra d’amore
in senso buono, sono il condimento qualificante del rapporto potendo contribuire notevolmente a stimolare gli altri sensi del contesto attraverso le
immagini create ed elaborate nella fantasia dell’intelletto. Un atto senza colonna
sonora è perciò monco anche quando non sia privo delle risposte fisiologiche
agli stimoli del piacere. Sono fin troppi gli uomini che tra loro si vantano
sbandierando le gesta amorose col dire la g ò lasada là che la sigava ancora.
I tempi stanno tuttavia mutando rapidamente e i controcommenti delle donne
per la medesima occasione sono assai più pesanti del tipo... no se lo tirava più su
gnanca co le àrgane.
Lo stesso parlare di cose amorose e sessuali, di racconti diversi e fantasie
implementa il desiderio. Di questa meccanica si è ad esempio servito il
Boccaccio nell’ambientare il suo Decamerone e ne è pienamente cosciente anche
il nostro Baffo che al tema dedica due diversi sonetti.
Nel capitolo gusto si sono compendiate in realtà molte altre espressioni
relazionali che si incrociano e si compenetrano come d’altronde consiglia il
genere dell’argomento e, soprattutto, il proverbio… tra ciuciar e licar ghe ∫é n
toco da gustar!
Come chi sta a scoltar qualche comedia,
co mio gran gusto, e con un gran sollazzo
ascolteria a parlar de mona, e cazzo
per tuto un dì senza che mai me tedia.
Come sucede ne l istà su l ora
che se suscita in ciel qualche tempesta,
che vien impetuosa, e po s aresta,
che se ferma un momento, e torna ancora,
Che vada pur i altri a la tragedia,
o in una chiesa a sentir far schiamazzo
un gran predicator, che fa strapazzo
de la ra∫on, e che natura asedia.
Cecilia de vedér fé conto alora,
perché ve l asicuro xé anca questa
impetuo∫a tanto, e tanto presta,
tanto piena d umor, quando la ∫bora.
Per mi li mandarave a Satanasso
sta mercenaria zente e sti cogioni,
che al tocar i ghe di∫e pecadasso.
Infiamada nel vi∫o, e tuta ardente,
come fa i cani co la lengua fora
l ansia, la ∫mania, la ve par languente.
Che gran gusto è sentir parlar d o∫elo,
de ciavar, de ∫borar, e de bu∫oni,
gusto no gh è mazor mi credo in cielo.
A zèmer la sentì, par che la mora,
ma no ve ∫bigotì, che no xé gnente,
perché la fà cusì, quando la ∫bora.
208
BA∫AR
Il bacio è forse il gesto più spontaneo e, al contempo, più significativo di
confidenza. Chi bacia afferma la propria dedizione, chi lo accetta sottolinea la
propria disponibilità. Il bacio è di fatto una dichiarazione di intenti che usa la
bocca (legata sacralmente al cibo e alla parola) come sigillo della condivisione.
Non a caso il bacio, nell’incontro tra amici o parenti equivale a testimoniare e a
rinnovare il reciproco patto stipulato e, d’altra parte, lo si è usato per
rappresentare un comportamento di massima viltà attraverso l’azione del
traditore (te sé n Giuda).
Un pubblico bacio tra uomo e donna non imparentati è valso, per molto tempo,
come segno di impegno preciso e deciso, di matrimonio nei confronti della
comunità1. Tale valore ha trovato espressione popolare nel detto dona ba∫ada,
meda ciavada2.
Anche quando tenuto a livello privato il baciare o farsi baciare equivaleva ad una
dichiarazione d’impegno personale e se è pur vero che el ba∫o no fa bu∫o, precisa
il proverbio che… ∫é la scala pa rivarghe su∫o3 (il bacio non fa buco ma è la scala
per arrivarci sopra). In modo più pragmatico l’altro proverbio sottolineava che
el ba∫o, xé un domandar al terzo pian se l primo xé da afitar4 CPS. In tal senso
intendeva indicare alle donne d’essere prudenti nel concedere la propria fiducia
poiché: tre calighi fa na piova; tre piove na brentana, tre ba∫i (anche bai, bali) na
putàna. I meno drammatici ribadivano comunque che se tuti i ba∫i fose bu∫i, tuti
i mu∫i sarìa ∫bu∫i!
Il bacio non è tuttavia un fatto solamente emblematico ma un mezzo di
comunicazione assai più complesso ed espansibile nelle implicazioni di
reciproco piacere sensoriale. Così esistono tipologie di baci con la bocca aperta e
con le lingue a contatto a la ∫lenguazona, a trivèla, a la ∫brodolona, a ∫lapasù5.
1
Cfr. R. Corso, 13.
Anche in Pasqualigo, Troiani.
3
Ibidem. I pareri nei proverbi appaiono spesso contrastanti ma in realtà non lo sono rappresentando
comunque le verità delle due facce della medaglia: chi non ricorda il passo della famosa villotta friulana che
dice:«a busà fantatis bièlis / no l é frégul di peciat» (a baciare le belle ragazze non c’è un briciolo di peccato).
4
Nel Veneziano, ancora oggi: «El ba∫o xé un avi∫o del primo pian, che l secondo xé verto». Nella Miscellanea
di F. Zorzi-Muazzo (vissuto nel sec. XVIII) c’è questo, che sembra Cadorino: «Né per ba∫é, ne per toché,
no vol dir nè».
5
Alla linguacciona, con la lingua a moto a vite, insalivato e col risucchio.
2
209
Occorre anche sottolineare come, specie nel canto popolare, si usi il termine
baciare per copulare: sono infatti innumerevoli i casi che, dopo baciata, la ragazza
rimane incinta8.
Anche se questo non vuole essere certamente un manuale di erotismo, va pur
considerata la realtà che, attraverso immagini, scritti e tradizioni sussurrate da
ogni angolo del mondo, ci porta da secoli, usanze la cui diffusione e numerosità
ce le fa apparire ordinarie anche se molto private. Il fatto stesso che tanto intimo
sia arrivato a noi indica la diffusione di queste pratiche amorose, più ‘popolari’
di quanto si creda e sappia. Le memorie più note ci vengono, è vero, dalle classi
sociali di potere o più abbienti ma, le si giudichi al momento vizio o virtù, sta di
fatto che tra le fonti di piacere, molte implicano il bacio e la reciproca
‘degustazione’9.
Baci si possono dare o ricevere in altre parti sensibili del corpo amplificandoli
col succhio, analogamente a quanto si fa nell’apprezzare il cibo: par ben gustar,
bi∫ogna ben ciuciar.
Ecco, ad esempio, una quartina ottocentesca, raccolta dal Ninni.
La gera despogiada,
la gera sensa busto,
o che pia∫er che gusto,
darghe un ba∫in d amor.
Come pure i canti popolari confermano.
189
VOREI BACIAR NINETA6 - Faedo, VI, 2003
Vorei baciar Nineta ma lei mi dise no,
là soto la scaleta, là soto la scaleta
Vorei baciar Nineta ma lei mi dise no,
là soto la scaleta, baciarla non si può.
CIUCIAR10
Quando ci si imbatte in frasi tipo… la mèio arma
de le done, é la lengua! occorre essere davvero
attenti al contesto perché non sempre ci si riferisce
alla loquacità. Si potrebbe ottenere una ulteriore
precisazione del tipo… a le fémene la boca no ghe
serve solo par parlar, se non una dichiarazione
esplicita di valorizzazione funzionale: le arme de la
dona: sospiri, lengua e monaCPS. L’indovinello ciùcelo, lèchelo, alza l cul e mételo11 (succhialo,
leccalo, alza il di dietro e mettilo), che indica il
posizionamento del filo nella cruna dell’ago
(gùcia), oltre a indicare un possibile sistema di
lubrificazione prodromo alla copulazione, realizza
anche una delle fantasie più comuni indicata come
àncora di salvezza per la sessualità in vecchiaia: le
fémene, co no le ∫é pì bone da bu∫o le ∫é bone da boca.
Che la pratica sia auspicata invece a qualsiasi età si
evince dai discorsi confidenziali captabili tra i
maschi dopo l’eventuale caccia amorosa: Gh èto
dato da magnar spàre∫i e ovi? (le hai dato da mangiare asparagi e uova?) oppure Ghe atu fat far i
orali? (le hai fatto fare gli orali?, quasi una domanda
da esame).
Vorei baciarle il vi∫o… perché l é n paradi∫o;
Vorei baciarle il seno… la soto l regiseno;
Vorei baciar le gambe… la soto le mudande!
194
TE TIRELA7 - Faedo (VI), 2003
Te tìrela, te molela, te g ala mai tirà
me g à tirà na volta,
me g à tirà na volta;
Te tìrela, te molela, te g ala mai tirà
me g à tirà na volta
fin ca iero da maridar!
Rit:
Ti volio ben, ti volio tanto ben,
baciar le tue tetine, baciar le tue tetine.
Ti volio ben, ti volio tanto ben,
baciar le tue tetine, che tieni al sen!
6
Bei come mi, me mama no ghe n fa pì,
se à roto la machineta,
se à roto la machineta;
Bei come noi la mama no ghe n fa pì,
se à roto la machineta
e l papà no la giusta pì.
Rit:
Ti volio ben, ti volio tanto ben,
baciar le tue tetine, baciar le tue tetine.
Ti volio ben, ti volio tanto ben,
baciar le tue tetine, che tieni al sen!
La lezione ci è stata cantata dalle donne del paese. Il canto è adottato con testo e melodia identiche, ma a bitinada,
190 anche a Rovigno d’Istria *. Interessante anche la versione illustrata in Posagnot, 515, c.457, 1982, che ha un testo
191 leggermente diverso con un ritornello aggiuntivo * «… quanto è belo far l amore; chi non bacia non à cuore».
7
Canterine di Faedo (AGSB 0500). Questa prima strofa, o la sua altra variante «…Te tìrela, te molela, te g ala
mai tirà / me g à tirà più volte su l orlo de l sofà», erano utilizzate come liolèla in canti a ballo arrivando ad essere
192 inserite nel brano epifanico della stela (Recoaro, 1997, Arc. Brian-Zamboni). Nella seconda parte, la lezione
riprende l’altro tipico ritornello emblema della gioventù (belli come noi la mamma non ne fa più) di cui
193 riportiamo in questa nota una ulteriore versione raccolta a Possagno (TV) * (Arc. Posagnot, PSG03-23, 1984).
210
195
Pablo Picasso, 1903
Isidoro Nonell e figura di donna
8
Si veda l’esempio proposto dal canto Su confessati o ragazzina * (Maria Grillini, Monghidoro, cfr. Staro, 387, 113).
Si veda, volendo, il Ratiratnapradipika, testo tra i più esauriente sui piaceri orali.
10
In latino fellatio, dialettale pompin imitazione di effetto pompa, di risucchio. In padovano anche sofegasso.
11
In Babudri, 78, 424: «Lo tazo, lo lico… ne l cul ghe lo fico».
9
211
Una valenza di iniziazione sembra avere il seguente motivo, utilizzato
ritualmente durante il pranzo matrimoniale e rivolto, specie dalle donne, alla
stessa sposa. Esso è noto come chi à mangiato il bèco de l anitra12. Si tratta di un
canto cumulativo a ritroso. Finanche in questo caso si vede come cibo e sesso
risultino incrociati ed integrati, a sostegno di un progetto auspicatore di vita13.
CHI À MANGIATO IL BÈCO DE L ÀNITRA14
Chi à mangiato il bèco de l ànitra?
L ò mangiata io, io io
eeee… bèco mio, bèco tuo, bèco co bèco co grande risputo…
Vieni qua a mangiare l anitra, vieni qua a far l amor!
vengono nominate poi nella successione le varie altre parti anatomiche
Chi à mangiato il… de l ànitra?
L ò mangiata io, io io… Eeee…
culo mio, culo tuo, culo co culo l è n grande trastulo;
panza mia, panza tua, panza co panza e l resto che vanza;
schena mia, schena tua, schena co schena, la grande balena;
tete mie, tete tue, tete co tete se cava e se mete;
peto mio, peto tuo, peto co peto, co grande rispeto;
ale mie, ale tue, ale con ale, su ciapa le bale;
colo mio colo tuo, colo co colo, l é duro e l é molo;
bèco mio, bèco tuo, bèco co bèco co grande rispeto…
Vieni qua a mangiare l anitra, vieni qua a far l amor!
LECAR1
Poco prima della metà del ’500 Giulio
Landi, nobile eclettico, viaggiatore e
buongustaio, nell’assolvere all’incarico
di scrivere una memoria sulla inarrivabile squisitezza del formaggio Piacentino
(il ‘Grana’), ci dona, a margine dell’argomento, una divertente motivazione per
una più estesa visione dei piaceri del gusto. Nella Formaggiata di Sere di Stento
al Serenissimo Re della Virtude, analizzando le diverse qualità del prodotto, egli
lo scompone negli elementi fondamentali e nei metodi di produzione fino ad
arrivare alla seguente considerazione:
Veniamo hora alla seconda parte materiale del Formaggio, che esser il sale fu di sopra
detto. Il Sale è cosa tanto eccellente e necessaria che senza essa l’huomo non potrebbe
vivere come huomo. E che dico io come huomo? Più oltre voglio dire che senza il sale non
si può esser buon chrístiano. La prima propositione non ha dubbio alcuno, perciò che dal
vivere delle bestie a quello dell’huomo, la maggior differenza è questa, che le bestie non
salano le cose che mangiano, e gli huomini non potrebbono secondo il loro naturale
saporitamente mangiare cibo alcuno che col sale condito non fusse. E perciò la natura
delle donne, acciò potesse l’appetito del naturale dell’huomo più agevolmente
ingagliardire et incitare nella creatione sua, Iddio la fece salata, quasi come l’acqua del
mare, e s’alcuno fusse così ignorante che ciò non sapesse o non credesse, gùstilo e pròvilo,
ovvero addimandi agli huomini habbitanti a Poppi, Castello di Firenze che faranno di
ciò buono e vero testimonio. Di qui nasce che quando la natura il natural mastica e
succia, ne sente l’un per l’altro tanto piacere e dilettevole gusto, perché la natura di
ensalarlo si diletta e egli di essere da lei salato gode, e gioisce. O dolce e mirabile
proprietà del sale, ò suave e caro condimento della vita humana!
12
196
197
198
199
200
Il sinonimo di becco d’oca (e dell’anitra) per pene è certificato anche in uno dei Sonetti veronesi di Giorgio
Sommariva in Marisa Milani, Antiche rime venete, 78-79, scritti attorno al 1462 e inseriti nel codice Otellio (c.
264v): «Puseri siando fuora in mezo un pra / a stugiar fen de Zuan de Summariva, / quel so figiol pì grando me
assagiva / con qui so muoti, che i u∫a a la cità, / e sì di∫ea:– Mo fève un poco in cià! – / E mi me ghe mostrava
tuta schiva / e el me volea cazar pur su la piva / lì de drè da la riva d un fosà. / Mo mi no vussi mè lasarlo fare
/ perché éa paura de non esro vezùa / da qui ch era ivalogo a lavorare. / Oh, mao de l angio, con sa l mè ben
rengare! / Se l ghe ven pì, per la pota da Iua, / per agna muò el voio contentare. / E ve imprometo, mare, / s u
aissi vezù quel so bel becco d oca, / che l ve serà vegnù la lato in boca» . (L’altro ieri, mentre ero fuori in mezzo
un prato / a rivoltare il fieno di Giovanni Sommariva, / quel suo figliolo più grande mi assaliva / con quelle
belle parole che usano in città, / e mi diceva: Fatevi un poco in qua! / Io mi gli mostravo tutta schiva / e lui mi
voleva ben cacciare su il piffero / lì dietro la riva d’un fossato. / Ma io non volli lasciarlo fare, / perché avevo
paura di essere veduta / da quelli che stavano lavorando lì attorno. / Oh, mal dell’ango, come sa parlare bene!
Se ci viene ancora, per la potta di Iua, / lo voglio accontentare in ogni caso. / Vi giuro, madre, che, se voi aveste
visto quel suo bel becco d’oca, / vi sarebbe venuta l’acquolina in bocca).
13
Ulteriore conferma anche nel seguente Canto della spo∫a *, tra gli ‘obbligatori’ di ogni matrimonio e
diverso da zona a zona, in cui sembra si accenni, anche se caso raro, ad un boccone sessuale particolare
ovvero el pistonsin, il pistoncino (raccolta Zamboni, in valle dell’Agno, VI), storpiatura probabile di pitonsin.
14
Sono innumerevoli le versioni di questo canto. Ne riportiamo un paio (sola voce maschile * e poi,
femminile *) provenienti dalla Valcavasia (Archivio Posagnot, raccolta G. Vardanega).
Il pezzo si ripete similmente nelle Venezie ma lo si trova anche sull’appennino bolognese (Monghidoro,
Maria Grillini * ; cfr. Staro, 410, 140).
Nel revival della veronese Grazia de Marchi si conferma tutta la vitalità del brano *.
212
Lussuria, xilografia seicentesca CR
Il blasone popolare degli abitanti di Poppi è dunque quello di leccafiche!
E bravo il Landi che come il Baffo2 cerca motivazioni quasi divine al nostro
‘paradiso’ terrestre.
1
In latino, cunnilingus; in Veneto anche magnar mona, ∫lapar mona.
Ancora il Baffo, in altro componimento specifica:«… No voi più co la lengua / tocarte el saltarelo, / ma a
forza del mio o∫elo / te vògio far ∫borar».
2
213
Il Baffo inoltre, considera questa
azione tra quelle in grado di riscattare
sessualmente la vecchiaia!
Co se xé veci, no se xé più boni,
me sento in te le rece a susurar,
e cosa d una dona voliu far
e criando me va sti bardasoni.
Ghe rispondo: sentì, cari cogioni,
credéu no ghe sia altro che ciavar?
Ghe xé l gusto de fàrselo menar,
e de farghe sul cul dei spegazoni.
Ghe xé quello d alzarghe le carpéte,
de vardar, de tocar, se la xé bona,
e quelo de ∫borarghe in te le tete,
ghe xé quel de menarghela a la dona.
E po di∫eme, àneme benedete,
dove laseu quel de licar la mona?
Tra le villotte non mancano gli accenni, attraverso il doppio senso, alla dolcezza del
boccone
Anche a livello popolare comunque
non si scherza e l’azione viene
sottolineata in un canto ben noto ai
coscritti, come pure lo si trova
travasato nell’ambiente goliardico.
Esso sembra possedere, perciò, una
valenza di iniziazione3
… moro∫a bela, moro∫a da l ùa,
no me la becolar che l ò vendùa
che l ò vendùa a l osto de Fumane
no me la becolar co le to mane;
l ò vendùa a l osto del Carota;
no me la becolar co la to boca!6
… e la mona de le galine
se la magna col pan,
mentre quela de le bambine
se la leca (magna) pian pian!
Allusiva pare anche la successiva, che potrebbe raffigurare, nel gioco
d’interpretazione tra le rose, anche la cosiddetta spagnola.
Le rio∫e della prima quartina sono le areole dei capezzoli; quelle della seconda
assumono successivamente i significati di Lei e Lui… con attributi7
Non a caso la prima esperienza
capitava spesso in occasione di una
visita al ca∫in, come descritto in un
fluente dialetto triestino, nella scena
seguente4:
Despòjete ben mio, che ndemo in leto,
làsime far a mi quel che so(n a) fare
e mòlati la stregna del tuo pèto
quele due rio∫e làsele tocare.
La mia moro∫a (g) à un difeto sol:
la g à na rio∫a in man senza bocòlo;
La g à una in man e l altra in boca
e la g à un due in sen(o) che si toca.
«Iero sai giovine, un sédi∫e ani gavarò vu, e mi, che de mistier iero cromador, quela
volta ndavo par ca∫òti solo per lavor. Ma te sa: un poco de simpatia, un poco perché
carne fresca e no dispia∫evo, scanpava de profitarse per ∫vodar la canòcia che la iera
sempre càriga e pronta. Una volta una la me fa: – Ti g à mai magnado mùsoli5? –
Mi sì. E che boni che i xé. – Bon, lora te pol scominziar anca a magnar mona! –
Grande novità iera e via vanti. Insoma, la se gira e la me fa un lìver ∫baténdome el
bosco in tel mu∫o e la me di∫i: – Lica, alè! – E mi: – Ma no so come! – Va avanti,
un poco qua, un poco là! –».
Aggiungiamo altre due strofette satiriche inventate sulla già vista aria
dell’Elefante con le ghette.
201
3
Cfr. il mio, Mata, 82: «Coscritti erano i giovani maschi in procinto di essere chiamati a prestare il servizio
militare. La chiamata avveniva in base ad una selezione annuale o ‘classe di leva’ dei ventenni. L’essere
chiamati al servizio corrispondeva ad un riconoscimento pubblico di raggiunta maturità per cui il giovane
veniva considerato pronto, ossia ‘abile’, ad entrare definitivamente nel mondo degli adulti. Fra gli altri,
acquistava i diritti di frequentare le ragazze, di andare all’osteria, di sposarsi, di andare a vivere
indipendentemente e d’ereditare»
4
Cfr. V. Fabris, Storia di storie di casini triestini, 50.
5
Il mùsolo (Arca barbata, in italiano Mandorla pelosa, Arca pelosa, Arca barbata) è un frutto di mare
appartenente ai molluschi bivalvi (lunga sui 5-8 centimetri) che, oltre a possedere il tipico sapor-odore di
salmastro, ha una specie di peluria nera e setosa al bordo delle valve. Il tutto richiama alla mente la nostra
Lei e trasforma il mollusco in un simbolo della libidine per cui, mangiandone, questa attitudine andrebbe
maggiorandosi. Da ciò anche il detto: el mùsolo xé l òstriga de i poaréti (il mussolo è l’ostrica dei poveri). Fino
agli anni Cinquanta, a Trieste, si trovavano venditori di mùsoli crudi o al vapore agli angoli delle strade e,
non a caso, presso i casini. A dirla tutta il mùsolo può assurgere, per simpatia, anche a sinonimo di lui. Resta
il fatto che ai mitili in generale sono attribuite virtù ausiliarie all’eros e si dice che cibandosene cresca il
desiderio sessuale (la qual cosa sembra avere anche un minimo di fondamento scientifico). Sia l’aspetto dei
contenitori, le conchiglie, che del contenuto, giocano comunque un ruolo importante sull’attrattiva.
214
VARIAZIONI SU ‘L’ELEFANTE CO LE GHETTE’8 - Refrontolo, TV, 2001
E la vigna e la vigna ci dà l uva
il frumento ci dà la spiga
le ragase ci dan la jun-pa-pà
E la vigna e la vigna ci dà l uva
il frumento ci dà la spiga
le ragase ci dan la jun-pa
per potersi a divertir!
Pasticere, pasticere fa le paste,
caramele e ciocolatini
le ragase ci fano e jun-pa-pà
Pasticere, pasticere fa le paste,
caramele e ciocolatini
le ragase ci fano e jun-pa
per potersi divertir!
6
A. Balladoro, Folklore Veronese, vol II, 45-46 (villotta 62).
Widter-Wolf, 290. In Balladoro, II, 38 (30), c’è una quartina similare: «la me moro∫a cara de Novaje / do
ro∫e la g à in man che le me pia∫e. / Una la ghe l à in man e l altra in boca / e do la ghe j à in sen che le se toca».
8
Ho registrato il canto da un gruppo spontaneo, a Refrontolo, nel 2001.
7
215
Nel commentare la successiva canzonetta, ‘zio Nino’ raccontava che questa era
una delle più cantate dai coscritti che andavano o tornavano dalla visita di leva,
nella qual occasione si fermavano spesso in ca∫in o praticavano qualche allegra
ragazza disposta a fornire servizi… multidisciplinari, avendone essi anche
vantaggio economico. Non è un caso neppure che la ragazza, nei canti a sfondo
sessuale, si chiami Rosina, ovvero piccola Rosa12.
69 NUMERO MAGNO
Far sesantanove indica l’azione del reciproco e simultaneo lecar e ciuciar che trae
spunto dalla rappresentazione grafica di questo numero ad incastro: 69.
Il groviglio dei corpi è scherzosamente descritto nel proverbio casso in le tete, naso in
te l cul e lengua in figa: eco l gropo de la formìga!RCR e più precisamente dal solito
Baffo, eccellente rilevatore d’ogni particolare «...Quando che l sol xé in pése la figura
/ avemo fato proprio a l natural, / e semo mesi in quela po∫itura; / mi la testa ò puzà
sul cavezal, / in boca ela m à méso la natura, / mi in boca soa g ò meso el mio cotal».
Un piccolo brano erotico sembra essere anche una delle più comuni filastrocche per
giochi infantili9, chissà come arrivato alla popolarità tra gli innocenti ed innocuo per
chi non ne conosce il codice… Su e zo sesantanove, / ca∫e nove da giustar! / Daghe
la papa a l vecio/ dàghela co l cuciaro / dàghela sul panaro/ / cusì l se tira su!
All’interno di buona parte delle Canzoni da battello, d’uso comune specie nel
Settecento, si trovano anche allusioni a questo genere, mascherate per lo più tra
strofe ben composte e ridondanti. Sul tema10, ad esempio, riportiamo un paio di
quartine tratte dalla canzone intitolata maliziosamente La mia cara passarina11.
03
Se gli davo un pignoletto
e lei presto la prendeva
e col bèco lo stringeva
or mai più gliene darò.
Rit: Dove sei ma dove sei,
dove sei mia Nina so.
LA RO INA DEI CINQUE AMANTI 13 - Refrontolo, TV, 2001
01
03
A Milano ci sta una ragasa
che di nome si chiama Ro∫ina;
era bela grazio∫a e carina,
specialmente nel fare l amor!
Uno in cicia va subito drento,
l altro in culo al mede∫imo tempo;
uno per mano, comincia a menar
e del quinto non sa co∫a far!
Rit.:
Ritornello:
Come si fa,
come si fa,
quando la vedo,
mi resto incantà!
04
Salta un tichio al suo mato cervèlo:
co le tete la forma n ∫gabèlo
e con la boca ghe ciucia l ucèlo:
e anca l quinto la g à incontentà!
Rit.:
05
02
05
La prendevo poverina,
ella presto s’appressava
alle labbra, e mi succhiava
e scordarmela no so.
Rit: Dove sei ma dove sei,
dove sei mia Nina so.
Era in cinque che andava a trovarla,
tuti cinque (la) solita sera,
la Ro∫ina, con bela maniera,
tuti cinque la g à incontentà!
Rit.:
Pare (una) cosa di gran meravìlia
di vedere la luna le stele:
la Ro∫ina, con cinque capèle,
tute cinque la g à incontentà!
Pablo Picasso,
Due figure e un gatto,
1902, disegno
12
9
Si canta marciando tenendosi a coppie, a braccia
incrociate in modo da non dover staccare le mani
quando, a fine strofa, si inverte la direzione.
10
A livello di canto popolare non vi è molto di
specifico e bisogna cogliere consuetamente tra le
righe, come nel caso del finale del canto La vien giù da
le montagne nella versione veronese riportata da
Coltro in Cante e Cantari, 297: «Di un baston, di un
baston di ciocolata / lo meteremo, lo meteremo in
cogomina / lo mangeremo sera e matina / sera e matina
da mi e lu!
11
Cfr. Barcellona-Titton, Canzoni da battello, Miscell.,
I-Vnm, MS It., Cl. IV-17 [372-373] S, bc, Sol.
216
202
Cfr., ad esempio, D. Coltro, Cante e cantari, 437-8. in Quando passa la Ro∫ina il cui testo dice: «E quando
pasa la Ro∫ina, daghe l tubo, daghe l tubo ben fracà. / E se l tubo l è un po groso, daghe l oso, daghe l oso ben
fracà. / E se il tubo ti fa male, va in canale, va in canale a rinfrescar».
13
Un accenno si ritrova anche in Coltro, Canti e cantari, 391, ma l’accenno alla Ro∫ina, che nel caso sta a
Bovolone, si ferma alla prima strofa. Altra analogia è con Balladoro, II,131, 70: «A Verona gh è cinque ragazze
/ tute cinque lo steso momento / le g à tute un temperamento / solo per farghe fiu fiu» (dove fiu fiu è un fischio
a completare, alludendo, il tema erotico). La versione sonora riportata è stata da me raccolta da un gruppo
spontaneo di voci miste, a Refrontolo (TV) nel 2001; cfr. AGSB 0235.
Un canto a doppio senso noto come La Ro∫ina è certamente presente dal Cinquecento (periodo in cui vi è
anche un ballo che porta tale medesimo nome). Lo si trova, ad esempio, menzionato nel Lamento de una
gioveneta la quale fu volenterosa de esser presto maritata, la quale, essendo ben presto e per copione, delusa,
così, fra l’altro si lamenta: «L é tre me∫i e una stemana / che io non m ò cavà la pelìza. / Sto fiol de la putana /
tutta la notte si me ciza. / Io me sento tanta miza / per cantarghe la Ru∫ina / che non posso la matina / star in
letto né avoltà». È evidente il disagio della giovane malmaritata che sfoga la sua insoddisfazione nei confronti
del marito che da più di tre mesi non la coglie nonostante lei lo solleciti esemplificando il desiderio col canto.
(Opuscoletto della Biblioteca Palatina, Firenze, citato in Salvioni, Le rime di Bartolomeo Cavassico, 293-4).
217
La Ròi∫a, la Rosa dispensatrice di grazie è arrivata fino in Istria dove rimane in
un canto analogo dotato di un orecchiabile ritornello, cantato a bitinada (una
imitazione dell’orchestrina veramente azzeccata).14
203
LA RÒI A15 - Rovigno d’Istria, 2004
Ritornello:
E la ròi∫a, la ròi∫a, la ròi∫a
(per tre volte)
Tuti cinque la g à incontentà.
03
Uno per mano si mise a menare,
uno per boca si mise a baciare,
uno in mona sta pe ndar dentro,
quel de drio che speta un momento;
02
E una sera ièrimo in cinque,
tuti cinque mede∫ima sera,
la Ro∫ina, con bela maniera,
tuti cinque la ne g à contentà!
O che gusto o che piacere,
a vedere la luna e le stele,
a vedere le cinque capèle,
tute cinque che sta per ∫borar.
Ritornello:
Ritornello:
Per finire si lascia al lettore l’analisi del seguente proverbio… pan e parón stropa
la boca16 (pane e padrone tappano la bocca): non sarà anche questo un caso
metaforico? Il dubbio del doppio senso appare lecito anche alla luce dell’altro
Dio castiga chi no magna pan e figa17 che, poco diverso da altri menzionati, ci
porta a fare una considerazione, oltre che sulla necessitarietà riconosciuta
dell’atto copulatorio, anche su quella simbolico-religiosa del pane. Pani a forma
di organi umani, specie di quelli sessuali sono infatti comuni in tutte le religioni,
arcaiche o meno che siano, e si offrono in occasioni di diverse feste a
simboleggiare la fertilità e l’abbondanza ma anche la stessa vita eterna. Si pensi,
ad esempio agli osi de morto, tipici nella commemorazione veneta dei defunti
(pani a forma di tibia, si dice, ma che assomiglia tanto ad un membro con le
palle) che vanno in accoppiata con le brasadèle o i bozolà, ciambelle col buco
(dove c’è buco c’è Lei). Offrire pani ai morti significava, riconoscendo col gesto
la necessità della loro alimentazione, reputarli ancora vivi nell’aldilà. Così pure
simili pani si ritrovano offerti a capodanno o durante il carnevale.
Anche molte delle pezzature ‘normali’ si richiamano comunque e non
casualmente ai sessi, pani come simbolo di vita: da una parte ci sono spaccatine,
foglie, biove e dall’altra filoni, grissini, montasù e così via.
TAV. VII:
Marte e Venere
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV. VIII:
Il culto di Priapo
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
14
Cfr. R. Starec, I canti della tradizione italiana in Istria, 179-192.
Ho registrato il canto da un gruppo spontaneo, a Rovigno (AGSB, SRM 0234/06).
16
Il pane perché, soddisfacendo la fame rende meno aggressivi; il padrone perché dà soggezione, se non si
hanno alternative, per paura di perdere il pane. In senso volgare, si può leggere anche in altro modo.
17
In Pasqualigo «l omo che no ghe pia∫e l vin e la figa, Dio lo castiga»
15
218
TAV.
IX: Antonio e Cleopatra
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
SESSO E SPESSO
SUGLI ECCESSI
Se le gesta dell’appena menzionata Rosina appaiono esagerate e si ritengono fuori
della normalità ovvero frutto di esigenze esibizionistiche, altrettanto si rimane
perplessi nel leggere il desiderio espresso nel sonetto del Baffo che rappresenta il
suo specchio al maschile. Sembra di intravvedere una probabile connessione tra
molti dei suoi versi e quanto si legge nei testi tantrici provenienti dalla cultura
orientale quali il Kâmasutra e il Kâmasashtra18 dove si ritrovano immagini molto,
troppo simili a quelle menzionate dal nostro Autore.
in let se fa
e se desfa
Sot la pieta tut se chieta1 (sotto le coperte tutto si sistema), equivalente al già
visto, moderno, fare l’amore fa bene all’amore, sottolinea come un buon rapporto
di coppia trovi giovamento nel fare sesso, soprattutto se lo si fa bene ossia con
mutuo divertimento e soddisfazione. In questo senso è da intendere il detto a tola
e in let ghe vol rispèt, che ne pretende il reciproco riconoscimento. Per ottenere
ciò, anche un tempo, si percepiva la necessità di creare la giusta ‘atmosfera’, di
predisporre le condizioni ideali sia per lui che per lei dato che, se è vero che
quando no gh è alegrezza, el cazzo no se drezzaCPS, è altrettanto assodato che la
mona no vol pensieri, come osserva pure Giacomo Casanova nelle sue Memorie2.
Occorre poi trovare una sana confidenza dato che chi à vergogna no à mai piazer.
Bisogna anche tenere alto il gioco con rinnovata fantasia, specie se il rapporto è
datato poiché quel che no dà natura, arte procura!GBN e poi, chi se dà, piazer ghe
n à (chi si dona con entusiasmo, ne ottiene piacere!). Insomma tola e leto porta
afèto e, al contrario, chi se divide de leto, divide de afèto.GBN
Riportiamo ora alcuni dei più noti indovinelli che durante i filò servivano,
dietro l’apparente innocenza, a sollecitare le menti sul tema:
Sète done voria per mio solazzo
e tute nue d intorno le me stase.
Una voria, che l culo me licàse,
l altra, che in boca me tiolése l cazzo.
Altre dó le voria sora un stramazzo,
che co la panza in su le se butàse,
per menàrghela infin che le ∫borase,
fin che me straco l uno, e l altro brazzo.
Altre do voria in tera destirae
per poder con i pie de quando in quando
darghe in mona de bone furegae.
IL FABBRO CHE SCALDA IL FERRO NELLA FUCINA
Perché no stase l ultima de bando,
ghe voria dar de gran bone licae,
po andarghe l cul col na∫o buzarando.
Dur al mete, ros al cave,
fae l laoro e dopo l lave.
IL BISCOTTO NEL LATTE, LA MELA IN FORNO
La pittura indiana ottocentesca rappresenta
una delle forme di piacere del Marajà (Goyuthika).
Non si può fare a meno di valutare
le identità esistenti con la poesia del Baffo
In tutti i casi, quando il desiderio sessuale diventa un bisogno inappagato dai
normali rapporti e si trasforma quasi in ansia patologica per cui l’uomo è sempre
alla caccia della femmina senza grandi discriminazioni, si dice di lui che l é n
pontaról, o semplicemente gli si allunga il nome col consueto appellativo popolare,
per cui lo si chiama Bepi Pico, Toni Gnòca, Gino Fraca19. Lo stesso vale per la
donna quando goda fama di sfrenata goditrice o appassionata dell’altro sesso20.
Diventerà allora Maria O∫elèra, Angelina Ba∫apit, Gina Rochèl e così via21.
18
Da Kama, piacere sessuale e amoroso, desiderio come potenza cosmica.
Come a dire Giuseppe Piccone, Antonio Gnocca, Luigi Spingi.
19
Ninfomane è un termine popolarmente poco conosciuto (deriva dal termine greco equivalente a ninfa, che
individuava anche la (il) clitoride).
19
Come a dire Maria Uccellaia, Angelina Baciagallo, Gina Roccolo.
19
220
Duro lo metto, rosso lo levo,
faccio il lavoro e poi lo lavo.
Al va dentro dur e ben tirà;
el vien fora cèch e ∫bau∫à.
Va dentro duro e ben teso
e vien fuori molle e con la bava.
LA MELA IN FORNO
Te l mete dentro dur e sech;
te l tira fora mol e cèch. (anche fiap e cèch).
204
Lo metti dentro duro e secco;
lo tiri fuori molle e tenero.
1
Il proverbio sembra essere ripreso nel canto friulano raccolto da Roberto Starec, Ghiti ghiti sot la plete *
(Lomax 23), voci miste, Ovaro (Udine), 1954:«Ghiti ghiti sot la plete, / ghiti ghiti volin fà, / cu la bocje volin
ridi, / cu lis mans volón palpà. / Mi displàs a vigni vieli, / bandonà la zoventut, / bandonà chés bielis frutis
/ ch a mi àn simpri plasut. / L è un biel di di maridàsi / e di cjoli cui c al plàs, / e di dì si fàs barufe / e tal ièt
si fàs la pàs». (Il solletico sotto le lenzuola, / il solletico vogliamo fare, / con la bocca vogliamo ridere, / con
le mani vogliamo palpare. / Mi dispiace diventare vecchio, / abbandonare la gioventù, / abbandonare
quelle belle ragazze, / che mi sono sempre piaciute. / E un bel giorno sposarsi / e prendere chi piace, / e di
giorno si fa baruffa / e nel letto si fa la pace).
2
Giacomo Casanova, Memorie, vol. III. 6 cap. XVIII, Parigi, 1880, 441.
221
IL BISCOTTO NEL LATTE
El va dentro dur e l vien fora mol
co la gioza bianca in ponta.
Va dentro duro ed esce molle
e con la goccia bianca in punta.
I BUOI CHE TIRANO L’ARATRO
Panza co panza e mànego che vanza
e ghe n é n timon in mèdo,
che fa n de∫ìo e pèdo.
Pancia con pancia e manico che avanza
e c’è un timone in mezzo
che fa gran confusione.
Pèl co pèl, panza co panza:
va dentro tut e ancora se n vanza!
Pelle con pelle, pancia con pancia:
va dentro tutto e ancora ne avanza!
LA BOTTE CON LA SUA SPINA
Grosa me sente e no pose partorir
parché ò n pìndol dentro
che me fa morir.
Bus co bus, pèl viva sul bus
na man sul cul e… avanti.
Buco con buco, pelle viva sul buco
una mano sul fondo e… avanti.
Bus co bus, carne viva sul bus,
an det par sot fa alegri tuti doi.
Buco con buco, pelle viva sul buco
e un dito sotto fanno allegri tutti due.
IL BATTACCHIO DELLA CAMPANA
brìndol ∫bràndol…
sot la cami∫a el va de picàndol.
brìndolo ∫bràndolo…
sotto la camicia va pendolando.
∫
Fémena granda da vardar…
fémena pìciola da gustar! (ciavar)1.
Donna grande, da guardare…
donna piccola da gustare.
Dona granda, boca granda…
dòna donéta, boca stréta!2
Donna grande, bocca (vulva) grande…
donna piccola, bocca piccola!
Granda, vizio∫a;
pìcola, dispeto∫a!GBN
Donna grande, viziosa;
donna piccola, dispettosa!
Dona picenina par sempre zovanina.GBN
La donna piccola par sempre giovinetta.
El galo magro3 ∫é bon de raza.GBN
L’uomo magro è un buon amante.
ALTEZZA
Piccola al ballo,
grande a cavallo (alla monta).
Un vecchio sporco e lercio
poco furbo e stupidotto
in mezzo ha una buona canna
e un affare che si affanna.
Dona nana, tuta tana;
omo basso, tuto* casso (*longo/groso).
Donna nana, tutta tana;
uomo basso, con gran cazzo.
Culo basso, bon da casso…
culo alto, bon da salto (o asalto).
Donna col sedere basso, amante eccellente;
donna che lo ha alto, cede facilmente.
Mena e rimena (gira)
più si manipola,
più si ingrossa.
Dona longa, bu∫a fonda…
òmo ∫nelo, poco o∫èlo.
Donna alta ha la vagina profonda;
uomo snello ha poco membro.
IL GOMITOLO
Menèlo, menoloto
co più se lo mena
più l vien groso.
L’aspetto di cose, animali e persone, da sempre suggerisce fantastiche letture
legate all’interpolazione di diverse loro possibili caratteristiche in un ambito che
sta tra superstizione e mondo del magico. Anche in ambito sessuale ciò accade
attraverso le interpretazioni di alcune caratteristiche fisiche e fisiognomiche dei
possibili partners che ne suggerirebbero temperamento e capacità di relazione,
resa amorosa e, addirittura, struttura dimensionale degli organi implicati.
Ecco alcune sentenze riferite rispettivamente a:
Picola al balo,
granda a cavalo.
LA CATENA DEL FOCOLARE
Un vecio sporco e ∫lordo
poco furbo e piasè tordo,
in mè∫o na bona cana,
co l lambico che se afana.
pì de l vero
pìzega l pensiero
CORPORATURA
Mi sento grossa e non posso partorire
perché ho un fittone dentro
che mi fa morire.
L’UOMO CHE BEVE A CANNA DAL FIASCO
∫
VIRTÙ E DIFETTI
NEL ‘KAMASUTRA’ NOSTRANO
LA BILANCIA
Mi ò na coda longa
che co la mena de qua e de là
la dis senpre la verità.
222
Ho una coda lunga
che quando si sposta di qua o di là,
dice sempre la verità.
1
Cfr. Ive, Canti popolari in veglioto odierno, 15, n.39: «Beati chi à la molje pizinina / tuta la note i la fa
bagolare! / I la fa bagolar da sera a matina, / Beati chi à la molje picenina».
2
La bocca, in questo caso, è assolutamente metaforica e si intende la vagina.
3
Cfr. Bianchi: «El galo magro ∫é de raza bona: co l vede na galina la incastona».
223
FATTEZZE DEL VISO
ZOPPI E GOBBI MA…
Bruta de mu∫o, bona de bu∫o.
Brutta di viso, buona di buco (amante).
Bruta in vi∫o ma soto… un paradi∫o.
Brutta in viso, ma sotto… un paradiso!
Boca carno∫a, dòna sontuo∫a…
lavro carno∫o, omo lusurio∫o.
Bocca carnosa, donna sontuosa;
labbro carnoso, uomo lussurioso.
Da la boca se vede la Paróna;
da l na∫on se vede l Parón.
Dalla bocca si intuisce la vagina,
dal gran naso, il pene.
Boca pìcola, mona streta;
na∫o grando, casso gròso.
Bocca piccola, vagina piccola;
naso grosso, pene grande.
Na∫o gròso, ca∫a grande (ca∫a nòbile).
Naso grosso, vagina grande.
Dona na∫uda no l é mai pasuda;
omo na∫on, porta l picon!
Donna nasuta non è mai sazia;
uomo nasuto, gran amatore (picconatore).
da quei segnai da Dio,
tre pas indrìo
Non si sa bene il perché – la gente comune pensa si potrebbe trattare di una
ricompensa che la natura fornirebbe a quelli da lei stessa posti in difetto – ma zoppe
e gobbi sono valutati sessualmente assai più dotati del normale. No sa cosa che sia
pota, chi no fote na sota1, dice un proverbio ottocentesco, avvalorato da consimili
che si protraggono nel tempo: Chi vol sentir gusto de pota, ciava na sota2.
Già nel Cinquecento giravano le strofette maliziose di questa canzonetta basata
sul noto equivoco delle parole sospese3:
01
03
E la zotta sta sul muro
e la mi mostra el cu, el cu,
el cuco de so marì.
O zotta, mala zotta,
che ‘l cor furato m’hai!
E la zotta mi dà impatio
e la mi mostra el ca, el ca,
el caputio giù per le spalle
O zotta, mala zotta,
che ‘l cor furato m’hai!
02
04
E la zotta mi dà briga
e la mi mostra la fi, la fi,
la figura del so bel vis.
O zotta, mala zotta,
che ‘l cor furato m’hai!
E la zotta sta sotto el ponte
e vol che lui la fo, la fo,
fornisca di confessar.
O zotta, mala zotta,
che ‘l cor furato m’hai!
Altrettanto si dica per la gobba la cui dimensione indicherebbe proporzionalmente quella degli organi sessuali dei possessori rappresentandone nel
contempo la potenza sessuale.
Goba e casso camina a brasso.
Gobba e pene viaggiano insieme.
La goba xé n palasso
da paregiar co l casso.
La gobba è un volume
cui equivale il pene.
1
In Pasqualigo, riportata anche in Corso: (Non sa cosa sia potta, chi non fotte una zoppa!).
Ibidem. (Chi vuol provare gran piacere dalla lei, fotta una zoppa!). Una villotta ottocentesca del Balladoro
insiste ancora così: «me voglio maridar e tor la zota, / e voglio contentar lo genio mio / Si no la pol corer, che
la trota / me voglio maridare e tor la zota». Cfr. Folklore veronese, II, 54.
3
Il testo è riportato in una incatenatura (o centone, o quodlibet; oggi si direbbe pot-pourri) di testi poeticomusicali di larga diffusione dovuta a Ludovico Fogliano che inizia con Fortuna d’un gran tempo e si trova in
Frottole Libro Nono, Venezia, Petrucci, 1508, ff. 38v-39r. A ciascuna delle quattro voci è stata assegnata una
strofa: pertanto il canto dovrebbe essere eseguito a parole sovrapposte in modo da confonderne la
comprensibilità, eccetto per il ritornello (O zotta, mala zotta,) che risulta identico per le quattro voci. La
presente annotazione è dovuta all’Amico Bepi Carone.
2
Rembrant, Giuseppe e la moglie pottona, 1634, incisione
224
225
205
Ciò nonostante, almeno nella canzone popolare, non vi è ragazza giovane che
aspiri a sposare un gobbo; questo accade solo in casi estremi, quando risulta
persa ogni speranza di trovare un ‘normale’ partito.
CONSIGLI SALUTARI SULL’U O ED ABU O
PIUTOSTO DI MORIR VERGINE4 - Brendola, VI, 1985
Consigli specifici sulla frequenza ideale dei rapporti sessuali seguono nei detti
successivi:
E piutosto di morir vèrgine
mi contento a spo∫ar un gobo,
e se no l farà a l me modo
ghe ∫macherò l gobón;
e boja di un gobo alsati,
e àlsati, e àlsati;
e boja di un gobo àlsati,
e àlsati dal sofà;
e fami fa un baleto
e fami un sori∫eto;
e fami fa un baleto
e fàmela balar;
e boja di un gobo séntate,
e séntate, e séntate;
e boja di un gobo séntate,
e séntate sul sofà.
Semmai parecchie canzoni sono di stampo ironico, spesso anche eccessivo,
prevedendo scherzi di dubbio gusto5.
Tra i proverbi raccolti in Veneto è citato anche il seguente… no fote co∫a degna, chi
no fote dona pregna6, che oggi però non trova molto seguito.
Le virtù amatoriali dell’uomo sembrano molto dipendere dal tipo di impegno
sociale per cui omo studio∫o, poco amoro∫o; ma è soprattutto la condotta morale più
o meno adeguata al dettato cristiano ad incidere fortemente sulla vita sessuale di
ambo i sessi dato che se omo virtuo∫o è magro amoro∫o, dall’altra parte si dice: mona
benedìa, mona desavìa! Il pelo pubico poi sarebbe segno di grande potenza sessuale
in entrambi i sessi come ricorda il proverbio mona pelo∫a, mona sontuo∫a e omo
pelo∫o o mato o furio∫oGBN. Un pube senza questa dote non rientra nella concezione
del passato giacché la mona la g à el pelo e l cazzo é so fradeloCPS. In tal regime una
cute depilata doveva avere il senso di una terra bruciata, di una sorgente esausta
per cui la mona senza pel, no dà gusto a l o∫el7 ovvero di una cosa ormai di nullo
valore per cui mona pelada, ∫vànzega8 ∫bu∫adaCPS.
4
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210
Archivio Brian-Zamboni; si tratta sempre di un canto a ballo (bal del gobo).
Oltre alla mitica e divertente Faméia dei gobón *, che non in questo esempio ma correntemente hanno la
gobba anche sui rispettivi genitali, all’autoconsolatorio siben che g ò la goba *, ai dispettosi do gobeti
veneziani *, al gobo delu∫o de Son partìo da Milan cocolona (Mazzotti, 61), al menù de l osteria dei tre gobi
*, occorre dire che sono i gobbi innamorati ad avere la peggio come in questo * scherso da gobo. Tutti gli
esempi mi sono stati cantati da nonna I∫eta Zanon di Gazzo (PD).
6
È così nella Miscellanea del nob. Zorzi-Muazzo; ma il proverbio è oriundo toscano, e la sua forma originale
sembra questa : «Chi vuol far chiavata degna, chiavi donna quand’è pregna».
7
Correvano, fino alla metà dello scorso secolo frasi del tipo: «Varda quela siora (fiola) che bel pél; chisà che
bela marmòta (se rossa, che bela bolpèra - termine che individua la volpe ma anche la tana) che la à».
8
La ∫vànzega è il nome dialettale del ventino (dal tedesco zwanzig, venti), una moneta di poco valore.
Al contrario, si senta come era valorizzato il pelo pubico nella seguente villotta friulana (Arboit, 184): «Chei
riciòz a mieze vite / no si puedin mai viodé; / Ju ài di viodi in che sere / c ò larai durmì cun jè» (quei ricciolotti
a mezza vita, non si possono mai vedere; / li vedrò quella sera che andrò a dormire con lei).
5
226
Na olta a la setimana, na roba sana;
tuti i dì, varda ti1;
na olta al me∫e…
anca l piovan de l pae∫e!
ogni masa
ronp la casa
Una volta alla settimana, è cosa sana;
tutti i giorni, vedi tu;
una volta al mese…
anche il parroco del paese!
Il secondo, che pur gli somiglia, ha una finale di notevole buonsenso:
Na olta a la setimana, na roba sana;
na olta a l me∫e…
anca l piovan de l pae∫e;
na olta a l an…
anca l prete pì cristian;
na olta a l dì… sol se te sé fornì!2
Una volta alla settimana, è cosa sana;
una volta al mese…
anche il parroco del paese;
una volta all’anno
anche il prete più cristiano;
una volta al giorno… solo se ne hai!
Quanto alla frequenza quotidiana il detto parla chiaro…
Una o dó, sa da amor;
tre o quatro, sa da mato!3
Una o due sanno da amore;
tre o quattro sanno da matto!
In qualsiasi caso, al di là delle considerazioni generiche, vi è anche una
possibilità di autovalutazione suggerita dal motto corrente
Se la mona fa gnér fan:
te se san;
se la mona fa gnér son:
fa atenzion!
Se copulare ti fa venire fame,
sei in salute;
se copulare ti fa venire sonno,
stai attento!
Senso analogo ha la sentenza di Cristoforo Pasqualigo
Se la te fa fame, sèguita;
se la te fa sé, mòderela;
se la te fa sono, làsela4.CPS
Se copulare ti fa fame, continua;
se ti fa sete, moderati;
se ti fa venir sonno, tralascia.
1
In Corso, riferito da Balladoro per il Veronese, anche pezo par mi (peggio per me).
In Pasqualigo, Troiani: «Na volta al dì, pènseghe ti; na volta a la setimana, la xé na co∫a sana; e na volta al
me∫e anca l curato del pae∫e».
3
Ve n’è uno simile in Pasqualigo, Troiani.
4
Ovvero: «Se f... fa èfe, va ben ; se f... fa èse, no convien». - Se il fottere fa fame, va bene: se fa sonno, non conviene.
2
227
che è simile a quest’altra
Se f... fa èfe, va ben;
se f... fa èse, no convien.
BU I E BU ARONI
Se fottere fa fame, va bene;
se fottere fa sonno, non conviene.
Gli eccessi sessuali possono infatti procurare stanchezza sia fisica che
psicologica; un detto, che vale anche come scioglilingua, così recita
L abu∫o de l u∫o del bu∫o,
porta al di∫u∫o de l u∫o del bu∫o!5
L’abuso dell’uso del buco,
porta al disuso dell’uso del buco!
Moderazione nella frequenza dei rapporti sessuali indica pure il seguente consiglio
Chi no la mi∫ura,
no la dura.GBN
Chi non valuta bene le proprie forze,
non dura.
altrimenti quello che deve essere un piacere può trasformarsi in noia o peggio
come ricorda il detto
Quando no se g à vogia,
anca l pelo intriga.APN (III, 216)
Quando se ne ha poca voglia,
perfino il pelo dà fastidio.
I consigli si succedono anche in ragione della forza della controparte, a dire il
vero assai temuta, specie quella nel pieno della sua maturità psico-fisica
Vàrdete dai cortèi dei bechèri,
dai bastoni de i vilani,
e da la mona de quaranta ani.CPS
Guardati dai coltelli dei macellai,
dai bastoni dei villani
e dalla donna di quarant’anni!
che lascia aggiungere la seguente considerazione
Val pì na vècia spolverada
che na dóvena impatinada!
Vale più una donna vecchia esperta
che una giovane imbellettata!
per arrivare al riconoscimento che in fondo in fondo
Carne vecia, fa bon brodo;
legna seca, fa bon fogo.
Donna esperta, rende bene;
legna secca fa buon fuoco.
Caliéra vecia
fa polenta bona.
Paiolo vecchio
fa la polenta buona.
5
In Pasqualigo: «Guai a l abu∫o de l u∫o del bu∫o».
228
nero e tondo come l ocio de n colombo
colombo no l é: indovina che che l é
l’ano
Recia, reción, culatón, ma soprattutto bu∫arón1 (bu∫erón, buzerón) sono i nomi
popolari attribuiti a chi si appassiona dell’altra natura, quella inconsueta e
perciò da sempre ritenuta comunemente perversa o almeno fuori della linea
normale (‘contro natura’, relativamente al fine riproduttivo, comunque attuata
da ‘diversi’ ovvero da persone che non ‘concordano’ con la maggioranza).
A seconda della fase storica e sociale queste persone sono state tollerate, censurate e
anche perseguite fino a prevederne, per lungo tempo, la messa a morte.
Egiziani, Greci e Romani sembrano non aver fatto gran caso alla moda dei
giovani efebi2 che si accompagnavano spesso a gente di cultura3 e di potere,
nessuno escluso comprendendo anche il ceto sacerdotale. La convivenza in
comunità unisessuali sembra aver favorito lo sviluppo del fenomeno ancorché
marginale. Forse è per questo che i preti, in una tradizione orale popolare e
sommessa, sono rinomati altresì par andar a predicar in Valculèra4, ∫brisar in
Valculèra o andar e vègner par Valculèra5 nonostante d’altra parte siano riconosciuti ottimi padri, anche oltre il metaforico senso spirituale.
1
Il termine sembra derivare da ‘bùlgaro’ giacché dalla Bulgaria arrivò la teoria manichea della negazione
divina di Cristo (III secolo) ovvero l’eresia (‘contro natura’) per cui a tutti gli eretici fu abbinata
indistintamente anche l’accusa di omosessualità; così si ha to bugger in inglese, bougrer in francese e buggerare
in italiano, per sodomizzare. È curioso constatare come siano stati denominati bùlgari, dai colonizzatori
italiani, anche gli indios nativi del sud America (probabilmente attingendo al medesimo senso di ‘senza dio’
interpretato come anormali in senso negativo). L’epiteto bùlgaro è ancor oggi in vigore nella parlata
dialettale, specie nella pianura veneta (es. semo invasi dai bùlgari, te sì n bùlgaro o pè∫o dei bùlgari).
2
Parola che deriva dal greco; composta da sopra e giovinezza; adolescente già entrato nella pubertà ma che
ancora non ha l’aspetto definitivo dell’adulto. Per estensione, giovine che ha aspetto e forme ancore delicate,
vagamente anche femminee.
3
La pedofilia o pederastia è l’attrazione amorosa (morbosa) verso i fanciulli; dal greco paidós [figlio, fanciullo]
e erastes [amatore, da eros, amore]. Senofonte lascia intendere come nella antica Grecia, se non autorizzata,
questa moda era spesso tollerata. Lo stesso accadde nel mondo orientale e in quello romano dell’Impero.
L’omosessualità è il trasporto amoroso verso membri del medesimo sesso. L’omosessualità femminile è
anche nota come lesbismo e la sue praticanti sono lèsbiche, dal nome della poetessa greca Lesbo che teneva
tale atteggiamento. L’omosessualità maschile è nota come ‘vizio socratico’ (dal nome del filosofo Socrate) e
più modernamente e delicatamente come vizietto. Nell’ultimo decennio, il movimento di tutela per i diritti
rivendica per i gay la pari dignità, puntando al riconoscimento legale delle unioni di coppia.
4
Si noti anche l’uso della frase tona in val culèra con cui si indica, nel bellunese, l’areofagia.
5
Sul vizietto dei prelati esiste, nel passato, una cospicua e continua letteratura. L’attenzione al fatto è
riscontrabile anche nelle cronache scandalistiche e giudiziarie dei nostri giorni. El cul l é l bocón del prete si dice,
precisando di alludere alla parte terminale posteriore della gallina che popolarmente è nota con tale nome. Vige
anche la storiella popolare sulla nascita di tale denominazione (GLS, Campagna Lupia, VE, 1992): «Un prete
de campagna, ciò, el gèra pien de fame e l ∫é pasà a ca∫a de n sioraso, andove che i fa∫eva festa. E sì i g aveva
le tole piene de ogni ben de Dio, de caponi e de polastri. Co l ghe g à domandà se i podeva farghe un poca de
carità da magnare, i ghe g à dito: sì, sì, ciapa sto polastro ma varda che quelo che ti ti ghe farà a quelo, noi te
faremo a ti! Alora l prete, che l g aveva na fame de quele, el se g à meso a lecarghe l culo a sto polastro… e
dàghela, e ancora, fin che l parón el ghe g à dito: brào ti ∫é stà, dèso sì che te mèriti de magnartelo in pa∫e…»
229
Al fiol del prete è infatti un personaggio ricorrente nei racconti di vita paesana e lo
fu soprattutto un tempo, quando le comunità risultavano per lunghi periodi
private dei maschi emigranti lontano per lavoro6. Molte anche le frottole e le
favolette allusive in tal senso7. I frati invece, simpatici e golosi, ma soprattutto
lussuriosi, si occuperebbero solitamente di prosperose spose o di giovani
fanciulle8, a seconda dell’età, da accudire a casa o curare in convento ma
soprattutto da soddisfare in ogni ‘tempio’ e luogo9, salvo una piccola frangia,
comunque canzonata10. La satira sui religiosi è evidentemente diretta al loro
ruolo sociale e nulla ha a che fare con la religione in sè. Sui numerosi canti
dedicati a queste speciali categorie di personaggi già si sono visti esempi ed altri
se ne vedranno nello specifico capitolo più avanti.
Giorgio Baffo, settecentesco poeta veneziano sessualmente aperto a ogni
esperienza, per non dire ‘rotto’, giustifica in più modi questa passione tanto
condivisa da generare il detto… par l’altro bu∫o, no sta pensar su∫o (per l’altro
buco, non ti preoccupare11); ci illustra inoltre un diverso approccio al tema che
potrebbe, oggi, definirsi ‘polivalente’.
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La nascita di bimbi concepiti fuori del matrimonio non era cosa rara e, tutto sommato, veniva accettata
dalla Comunità che la rendeva presto ‘normale’. Ben inteso il genitore maschio poteva essere chiunque o,
realmente, anche il prete. È significativa la strofa di questa ninna-nanna di Monghidoro (BO), accennata da
Maria Grillini * (cfr. P. Staro, Il canto delle donne antiche, 556, 257) che dice: «fa la nana, fiol d un frè / dim a
mè chi l è i to pei, / l è l padron de i capuzin / fa la nana, fa i nanin / don, don din don», (fa la nanna figlio di
un frate / dimmi chi è tuo padre. / è il padrone dei cappuccini (il priore) / fa la nanna, fa la nannuccia). Altra
considerazione interessante ci viene da una consuetudine popolare di una cultura a noi vicina, quella slava,
dove , col consenso del marito la sposa infeconda, cercava di farsi ingravidare da un pope, credendo con ciò
di poter raggiungere l’obiettivo di famiglia senza peccare. Ben inteso ciò non rientrava tra i compiti d’ufficio
del prete (cfr. Francis Conte, Gli Slavi, 174).
7
Le favolette sono per lo più incentrate sulla infedeltà delle mogli che trescano col pievano, come nel caso della
storia di Don Dorìgo * (AGSB 0049/10, narrata da Giovannina Antole, ‘Ro∫ina, Pedeserva, BL, 1981) o quella
del Pore sacrestan * o delle ∫brisiade * (AGSB, CDE Soraimar, Fròtole taliane, SRM0200/03 e 06, narrate da
Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, Brasile), dove, oltre che a deridere i cornuti, si ricatta o berteggia il prete.
8
Ecco una frase a botta e risposta, un tempo comune quando, in famiglia, si pensava bene di avere un figliolo
tonacato: «Va tu prete o va tu frate?: Vae frate, ma de quei de San Doàni, con na bela to∫a de vinti ani!» (udita
a Curogna di Pederobba (TV), negli anni Sessanta).
9
Tanto per segnalare quanto antica sia la storiella, Thomas Wright, vissuto sotto il regno di Riccardo III
cantava popolarissimi stornelli di questo genere: «Se d’una casa fossi signore / e qualche donna con me abitasse
/ non vorrrei frate né monsignore / ch’entro le mura con me restasse. / Egli potrebbe prender la donna /
tranquillamente senza bordelli / e poi lasciarle sotto la gonna / un pargoletto o due gemelli». Cfr. Cleugh, 22.
10
Sempre di ritorno dal Brasile, sono molte le frottole su questo tema come quelle intitolate El misionario *
e El viajante e la tata * (AGSB, CDE Soraimar, Fròtole taliane, SRM0200/02-10, narrate da Diomedes
Rossato, Nova Palma, RS, Brasile).
11
Cfr. Cleugh, 179 «Le pratiche omosessuali erano così apprezzate e diffuse tra i veneziani che nel 1460 fu
istituito un Collegium Sodomitorum i cui medici erano tenuti a trasmettere i casi di pazienti che
lamentassero danni ai posteriori. Le formidabili cortigiane di Venezia condussero una guerra inesorabile
contro i loro concorrenti maschi, che spesso si travestivano con abiti femminili. Per smascherare questi loro
sleali competitori alle cortigiane non restava che denudarsi il seno: ed a questo espediente esse adottarono
l’abitudine di ricorrere regolarmente e clamorosamente su di un ponte tuttora chiamato Ponte delle tette».
230
Incauta la natura nel formar
quei do bei bu∫i al sèso feminin,
un, che deve servir per far pisin,
l altro, co riverenza, per cagar.
Dove mai trovareu zente che loda
quei, che va in mona come fa i Furlani;
l é deventà in ancùo gusto da cani,
sibén che el gera un gusto a la gran moda.
Pròvida a l omo ghe doveva dar
in vece dei cogióni un lanternin,
perché, volendo fóterla a pasin,
in culo no g avése da ∫brisar.
L inverno sì, che tuti se la goda,
che la xé mègio asae più dei fa∫ani,
ma l istà, che la spuza un mìo, lontani
laséla e che le done pur se roda.
Per Dio! do bu∫i in tanta vicinansa,
come se pol u∫ar d una maniera,
che no ve ∫brisa in cul quel che va in panza?
Do bu∫i à fato Dio, che za se sa,
e nu, che avemo solamente un cazzo,
salvémoli un l inverno, un per l istà.
Ah natura indiscreta! O al genio uman
ti dovevi acordar volontà intiera,
o farghe el bus del cul tre mìa lontan.
L istà, che caldo xé, nel fresco andar,
l inverno, co xé fredo e co xé giazzo,
andar in mona senza su pensar.
L’attrazione infatti prescinde dal genere sessuale e mira direttamente all’oggetto.
L’equivoca pratica verrebbe inoltre favorita dalla stessa struttura anatomica
umana, come ben ricorda il detto: dal culo a la figa: un paso de formìga,
risultandone perciò ‘normale’ conseguenza12. D’altronde anche il blasone popolare
tra l cul e la figa stà Co∫niga (TV), vuol indicare spazio assai stretto.
Lo stesso Baffo fa spesso riferimento al bu∫o tondo13 distinguendolo dal bu∫o quadro
entrambi distintamente valorizzati: quello tondo risultererebbe inoltre più ‘fresco’ e
in tal senso ‘adatto’ all’uso estivo. Questa credenza sembra essere l’interpretazione
estremizzata di un precetto del Regimen Sanitatis della scuola Salernitana:14
«Scalda e scioglie per costume / poi l’estate e si desume / da che allor la bile rossa, /
spiega in specie la sua possa. / Fredda e umida sia l’esca / e d’amor cessi ogni tresca».15
La sestina potrebbe aver suggerito il ben noto proverbio dugno, lùio, agosto
fémena mia non ti conosco, che appare più esplicito nelle versioni sicuramente
presenti almeno dal Cinquecento ai giorni nostri: co l formento l é a la spiga, no
sta torte pì la briga, e no sta tornar inséma fin che dura la vendéma16 ; e ancora…
co l formento g à la spiga, tol su l goto e lasa la figa.
12
Nel Cinquecento: «Da la figa a l cul gh è la tomba d un pùle∫e» (XTV,49, D IV,467).
Il Baffo, ancora:«Oh bela Cate, che col pelo biondo / ti xé vegnua a ferirme i oci e l cazzo, / fame tornar in
mente el gran solazzo, / che ò bu la prima volta nel to fondo. / Fame véder el bu∫o ro∫eo e tondo, / che còtole e
cami∫a no dia impazo, / e quel bianco e magnifico culazo, / scoverta tuta senza gnente a l mondo».
14
Si tratta di un poemetto in versi leonini (XI-XII sec.) contenente una sintesi dei precetti della famosa scuola medica.
15
Cfr. Ferrario, Regimen Sanitatis seu Flos medicinae Salerni, 77 (traduzione di Humida, frigida ferula dentur;
sit Venus extra… LXXXVII. De quatuor temporibus anni (traduzione di P. Magenta del 1835).
16
Sia in Pasqualigo che in Corso: «Quando el formento l é in la spiga, tira l vieto de la figa; e no ghe lo tornar, fin
che no xé tempo de vendemar»; anche, in finale «fin che non n è campi da vendemar» (XTV,113, QV, 1437).
13
231
L’alternativa all’astinenza era quindi l altro bu∫o che evitava de ciapar el riscaldo
ossia di patire infiammazioni cutanee dovute agli eccessivi umori e sudori.
Il detto veneziano mona streta e bu∫o tondo: mègio robe de sto mondo lascia pochi
dubbi sul pari apprezzamento che il Baffo ci ha mostrato nei precedenti sonetti.
L’autore diventa ancor più esplicito qui di seguito allorché, colpito da malanno
venereo (imputato alla Lei), trova la forza di prevedersi dedito al piacere
socratico in prospettiva della guarigione; nel quarto sonetto si fa chiara la
motivazione che lo spinge a questa preferenza.
O Dio! No poso più, mo l é un gran mal,
la mona maledia m à sconquasà,
da cao a pie son tuto rovinà,
che bi∫ogna che vaga a l ospedal.
ò visto l altro giorno una putana
con una mona granda in tal maniera,
che in prencipio ghe gera una riviera
con un bastimento tuto pien de lana.
Co vago a pisar in orinal,
che me vedo la testa scortegà,
me vien la freve, el sta incapuzà,
pianzendo la di∫grazia mia fatal.
Son andà drento in quel impura tana,
e ò visto che i ziogava a la bandiera,
che a un postiglion andando de cariera
el caval gh è cascà in t una fontana.
Questo mi ò vadagnà a andar in pota,
ma se guariso mai, pofar al mondo!,
no ghe ne magno più gnanca de cota.
ò visto un tiro a sie, e un gran palazzo,
dove ghe gera un omo, che a un putelo
ghe meteva nel cul tanto de cazzo.
Co mi sarò guarìo, chi sa, segondo
co che m inzegnerò col deo peota,
e me devertirò sempre col tondo.
E ò visto che, sonando un campanelo,
una mùnega i à meso in t un tinazzo,
che al gastaldo g avéa impestà l o∫èlo.
L’alternativa sessuale nell’ambito della normale coppia mista, pur rientrando
nell’ambito del tacito accordo, si trova accennata in alcune frasi del tipo… al ghe
va drioman a so fémena o, vagamente nell’indovinello del cucchiaio: te l mena
avanti e indrio e te l ciapa pa l dadrìo (lo muovi avanti e indietro e lo afferri per di
dietro). L’atteggiamento trova altre motivazioni a supporto; principalmente è un
mezzo per evitare figli indesiderati come ricorda il detto veronese casso in culo no fa
fanciuloRC o l’altro veneziano casso in culo no fa fioi ma fa brodo da fa∫iòi17, anche se
il consiglio risolutivo resta, cazzo in braghe no fa fioi. CPS
17
In taluni casi questa ‘alternativa’ era giustificata con la necessità di mantenere vergine la via ‘normale’, condizione
indispensabile per accedere al matrimonio o ad ottenere sostegni dotali pubblici (per le poverelle).
18
Il detto ha carattere di grave disprezzo nel meridione d’Italia dove fa parte del gergo malavitoso. Cfr. Corso, 145.
19
In una favoletta narratami da Diomedes Rossato, discendente di vicentini emigrati in Brasile a fine Ottocento, il
217 protagonista convince l’amico a non impiccarsi dato che l’anima «… se no la pol scampar par sora, la vien fora par
soto e alora la se sporca e alora se finise a l inferno». AGSB, CDE SRM 0200/09. Vedi anche Ruzante nella Betìa.
20
Cfr. Bovo, 213, 227.
21
A meno che non si tratti di un invito a farla alla todesca; Ferrari, Biblioteca di letteratura popolare italiana, 334-335.
232
In tempi in cui la contraccezione era del tutto tecnica inaffidabile, questa
certezza riusciva a demolire il valore di disprezzo del famoso va fa in culo18 e
pure la schifiltaggine provocata dalla sentenza sulle conseguenze: chi va in cul se
∫merda. Neppure si badava molto all’altra favoletta secondo cui par la figa se vien
e pa l cul se va19. Un accenno al costume potrebbe essere colto nei versi di questa
variante nel canto popolare
… e con lo ∫igo ∫ago,
salta fora l mago
co la testa rota
co la pipa in boca,
el g à cavà le braghe,
el g à spuà sul cul!
Da la pasione, mi sento ∫venir!20
ma anche nei visti versi medievali, dove lo si dà per severamente proibito e pur
tuttavia21...
E se per maggior diletto
tel volesse far dirieto,
accostagli la rene al pèto,
mostreraigli il viso lieto
sto che sia gran divieto,
tu ti porrai giù bocconi
e lui sarà a chavalcioni,
assaggerai il boccone che gli è.
La sensazione di piacevolezza anale è d’altronde fisiologicamente riconosciuta
ed esiste col diverso obiettivo di favorire l’espulsione fecale22. Lo sfruttamento
di tale percezione con intenti di maggior generale godimento è noto da tempi
lontani come ricorda l’usato detto popolare sulla perfezione… al sta ben come n
det te l cul23, concetto qui di seguito rafforzato dalle parole dell’Aretino24 nel
dettaglio del trastullo nel fischio, inserito tra i mezzi estremi per sollecitare il
vecchio amante
NANNA: Un vecchio grimo, grinzo, rancio, lungo e magro, si imbriacò di me e io della
sua borsa; e potendo tanto godere del piacere amoroso quanto de le croste del pane
uno sdentato, si spassava in toccarmi, in basciarmi e in popparmi; né per tartufi,
né per carcioffi, né per lattovari (elettuari) poté mai drizzare il palo: e se pur pure
lo alzava un poco, tosto ricadeva giuso, non altrimenti che un lumicino che non ha
più olio, che mentre mostra di raccendersi si spegne; né gli giovava menare né
rimenare, né dito nel fischio, né sotto i sonagli».
22
Giovanbattista Barpo, Le Delizie dell’Agricoltura e della Villa, Venezia 1634, Libro primo ricordo X:
«Procura d’aver beneficio del corpo, espellendo quotidianamente: se non puoi per natura, fallo con l’aiuto di qualche
supposta di sapone, o miele, o piglia avanti pasto un poco di zucchero e cannella nel buon brodo».
23
Ancora il Baffo, in altro brano intitolato Chi no sa cosa sia cazarse in leto… «Che se po se ghe mete / el mu∫o in
te le tete, / e per mazor trastulo / un deo in tel bus del culo, / alora ve prometo, / se va, co se sol dir, / tut in brueto».
24
Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e della Antonia, 184.
233
Si riportano, nella nota seguente, alcune
leggi contro la sodomia previste, in terra
veneta, negli statuti cittadini dai primi
del Trecento a Seicento inoltrato.
Danno a pensare la severità delle pene
(morte e rogo), la fragilità del sistema
suppositorio affidato a delazioni e
interpretazioni, soprattutto quando ciò
sia messo in relazione a quanto letto
nella prosa e nella poesia cinquecentesca
dell’Aretino e del Venier per arrivare su,
fino al Baffo, dove tale comportamento
appare decisamente tollerato e quasi
considerato ‘normale’ nei rapporti
eterosessuali del patriziato25.
Et si aliqua persona aliquem accusaverit de dictis vitiis
dicens secum aliquem commisisse dictum peccatum, &
de hoc fidem fecerit Potestati, quod quantum ad
personam suam sit absolutus usque ad presentem diem de
peccato, quod usque nunc commisit; & centum libras
den<ariorum> par<vulorum> habere debeat a
communi, & accusantes, & testes in credentia
teneantur. Et quod Potestas teneatur sacramento omnia,
quam diligentius, & subtilius poterit, inquirere de
supradictis capitulis.
Padova Annus Domini 1329 Liber V, statutum VIII, caput 2
Qui mulierem, vel masculum polluerit contra naturam
igne comburatur. Patiens vero puniatur, vel castigetur,
aut etiam absolvatur abritrio Potestatis, & suae
Curiae, considerata qualitate delicti, & Persona, &
aetate sua.(vol. 2, p. 205)
De viris, & feminiscommiscentibus contra naturam.
Di uomini e donne che abbiano peccato contro natura
Item statuimus, quod si aliqua persona relicto usu naturali
cum aliqua persona se miscuerit, scilicet vir cum viro, qui
sint quatuordecim annorum, & supra, & foemina cum
foemina quae sit duodecim annorum, & ultra,
committendo vitium sodomiticum, quod dicitur vulgariter
‘buzeron’, vel fregator, & hoc liquidum fuerit Potestati;
quod illa persona sic reperta in platea Carubij omni
vestimento nudata, si masculus fuerit, supra palum in ea
platea, confixum eius membrum virile cum uno aguto, sive
clavo figatur, & sic illic permaneat tota die, & tota nocte
sequenti sub fìda custodia, sequenti vero die igne
comburatur extra civitatem.
Inoltre stabiliamo che se una persona si congiunga con
un’altra abbandonando l’uso naturale, vale a dire
maschio con maschio (dai 14 anni in su), e femmina con
femmina (dai 12 anni in su), compiendo il vizio
sodomitico detto volgarmente ‘buzerón’ o fregatór, e ciò
sia stato accertato dal podestà, quella persona colta in
flagrante, se maschio, sulla piazza del Carubio, sia
spogliato di ogni indumento e appeso sopra un palo in
quella piazza, con il membro virile trafitto con un ago o
un chiodo; e così rimanga tutto il giorno e la notte
seguente sotto buona custodia; poi il giorno seguente sia
bruciato fuori dalla città.
Si autem mulier vitium, seu peccatum commiserit
contra naturam, in platea Carubii ligetur ad palum
omni vestimento nudata, & ibi per totam diem, & nocte
sequentem manere debeat sub fida custodia, sequenti
vero die cremetur extra civitatem.
Se invece fosse una donna ad aver commesso questo
vizio, o peccato contro natura, sia legata a un palo in
piazza del Carubio, spogliata di ogni indumento, e lì sia
lasciata per tutto il giorno e la notte seguente ben
sorvegliata; poi il giorno dopo sia bruciata fuori città.
Et super his quaelibet persona teneatur manifestare
sacramento domino Potestati; & si aliqua persona
manifestaverit, vel denuntiaverit, seu accusaverit
aliquam personam incidisse in peccatum praedictum, &
de hoc fidem fecerit Potestati, habere debeat a communi
centum lib. den. par. & Potestas teneatur sacrato infra
quindecim dies a tempore condemnationis facere
solutionem illi personae manifestanti, vel denuntianti,
seu accusanti de dicta pecuniae quantitate.
Stabiliamo che ogni persona, venendone a conoscenza, sia
tenuta a dare informazioni su queste cose al signor podestà;
sotto giuramento; chi le fornisse, o denunciasse, o accusasse
qualche persona di essere caduta nel predetto peccato, e
sembrasse attendibile all’autorità abbia a ricevere dal
Comune cento lire in denari piccoli, e che il podestà sia
tenuto sotto giuramento, a versare la suddetta somma di
denaro a chi abbia dato le informazioni, denunciato o
accusato. entro 15 giorni dal momento della condanna.
234
Quello che avrà ardire di contaminare donna, o uomo
contro natura sia bruciato. Il passivo venga punito e
castigato, ovvero ancora si assolva ad arbitrio del
Podestà, e della sua Corte, considerata la qualità del
delitto, la persona, e la sua età.
Feltre Annus Domini 1404 ca.
Punizione, xilografia seicentesca CR
Statutum Tarvisii / Statuto di Treviso - Annus Domini 1313 III, 4.7
Se qualcuno denunciasse altri per i predetti vizi, dicendo
che questi avesse commesso il suddetto peccato con lui, e
se ciò sembrasse attendibile al podestà, [stabiliamo] che al
presente egli sia prosciolto dal peccato commesso, e che gli
accusatori, e i testimoni considerati degni di fiducia, debbano ricevere dal Comune le cento lire in denari piccoli.
E [stabiliamo] che il podestà sia tenuto, sempre sotto
giuramento, ad investigare quanto più diligentemente ed
accuratamente possibile, su tutte le cose che riguardano i
capitoli suddetti.
De adulteriis, & qualiter raptum, incestum, vel in violentiam
committentes, & contra naturam polluens puniatur. (p. 109)
Sugli adulterii, e su come sia punito il ratto, l’incesto,
chi compia violenza e chi contamini contro natura.
(...) Si vero quis mulierem, vel virum contra naturam
polluerit, igne comburatur, paciens vero considerata
qualitate, & persona, & aetate ipsius, arbitrio
Potestatis & suae curiae puniatur, aut castigetur vel
etiam absolvatur.
Se qualcuno contaminerà una donna, o un maschio,
contro natura, sia bruciato col fuoco. Il passivo però,
dopo aver considerato la qualità <del delitto>, la persona
e la sua età, sia o castigato o assolto ad arbitrio del Podestà
e del suo Consiglio.
Vicenza, Annus Domini 1425
Liber tertius, cap. ‘De violentijs’, 10.
Libro terzo, cap. ‘Sulle violenze’, 10.
Item quicunque [sic] mulierem vel masculum polluerit
contra naturam, igne concremetur: patiens vero
muliebria puniatur sive castigetur, aut etiam absolvatur
arbitrio Rectoris, suorum assessorum & consulum
communis Vicentiae considerata aetate, & inspecta
qualitate facti, & personarum.
Inoltre chiunque contaminerà donna o maschio contro
natura, sia bruciato col fuoco. Chi ha subìto atti da
donna sia punito o castigato, oppure assolto, ad arbitrio
del Rettore e dei suoi assessori e consoli del Comune di
Vicenza, dopo aver considerato l’età ed esaminato la
qualità del fatto, e delle persone.
Rovigo, Annus Domini 1648
Tractatus IV, cap. CLXXI De muliere, vel masculo polluto contra naturam.
Qui mulierem, vel masculum polluerit contra naturam,
prius capite puniatur, deindeque statim cremetur.
Patiens verò tali poena non puniatur; sed aut castigetur,
aut absolvatur arbitrio Rectorum considerata qualitate
delicti, illius persona, & aetate.
Trattato 4, cap. 171 Su donna o maschio contaminato contro natura.
Chiunque contaminerà contro natura donna o maschio,
subisca prima la pena capitale, poi sia bruciato. Il passivo
non sia però punito con tale pena, ma sia castigato o
assolto ad arbitrio dei Rettori, considerata la qualità del
delitto, la sua persona, e l’età.
25
L’atteggiamento repressivo nei confronti della sodomia (che comprendeva anche i rapporti con animali) fu
comune in tutta Europa e la pena di morte rimase in vigore fino ai primi dell’Ottocento. Il concetto di
omosessualità fu del tutto trascurato e il termine omosessuale fu usato per la prima volta nel 1860.
235
INFRÀ LORE
Il discorso sul lesbismo, nella tradizione
popolare, è povero o appena accennato e,
a più alto livello, comunque considerato
in modo totalmente diverso dal modello
maschile. Se vi fossero ancora dubbi sulla
diversità di trattamento tra maschi e
femmine, nonostante la presunta parità
raggiunta, questa è un’altra conferma che
la barriera tuttora persiste.
In omaggio al concetto che l’esibizione
del corpo femminile è più plausibile di
quella maschile, anche l’amoreggiare tra
donne si considera meno ‘peccaminoso’ e
perfino quasi giocoso. Ne fa fede il mezzo
di comunicazione per eccellenza, la tivu
che ogni giorno, ad ore ‘fuori programma’,
non esita ad ammannire spettacoli di
saffismo senza alcun ritegno. Questo
dimostra come, al di là delle intenzioni, a
livello borghese la donna rimanga, per
troppi, ancora e solo icona del bello,
protetta e considerata in fondo nello stesso
modo di mille anni fa, ossia donna oggetto,
dato che non può penetrare, rompere,
prendere possesso fisico.
Il Baffo non è distante da questo
concetto e qui si potrebbe-dovrebbe
riaprire il discorso sul valore della
identità umana, sulla parte spirituale
che la determina; ma questa è una
provocazione che necessita di ben altro
spazio mentale.
A proposito, quando è stata riconosciuta
l’anima alla donna? E dove essa è
considerata?
INCESTO
A sentir che do done inamorae
xé tra ele, me vien su∫o la stiza,
perché penso che, quando la ghe piza,
altro no le pol far, che le monae.
Vardé che bele mate buzarae,
una co l altra se vol far noviza,
ma una chiza no pol a l altra chiza
se no che darghe delle ∫lenguazae.
Vogio ben che le g abia un gran contento,
ma el so gusto sarà sempre imperfeto,
co gnente no le g à da meter drento.
Al più le poderia per bel dileto,
che l é come balar senza instrumento,
ciavarse co la mona a scartozeto.
L’incesto è tra gli atti più censurati e contrastati dalle regole comuni nate da esigenze
sociali e di conseguenza divenute ‘morali’. Il rapporto carnale tra consanguinei porta
infatti all’indebolimento della possibile discendenza e quindi della specie da cui il
tabù (divieto sacrale). Nonostante ciò, l’incesto è fenomeno testimoniato nella
cultura popolare, facilitato dalla promiscuità in cui di fatto si viveva nella famiglia
allargata (Pare, mare, òn, fémena e tut el parentòs) in ambienti assai ristretti che
consentivano poco di privato e con eccessi ‘alcolici’ che vieppiù aumentavano il
pericolo di violenza del padre-padrone. I casi d’incesto erano talmente comuni da
essere memorizzati a livello proverbiale: chi in parentà no ∫ bi∫ ega, in paradi∫ o no
trotolaCPS; chi in parentà no fùrega, in paradi∫ o no bùlega (o no abita). Occorre però
sottolineare come questi detti comprendano, nella considerazione comune, anche
quelli impropri della copulazione con membri della famiglia non consanguinei, che
rappresentano la maggioranza dei casi. Il pater familias, il genitore, o il figlio
maggiore si trovava spesso ad avere nuore o cognate in casa e figli o fratelli fuori a
lavorare, il che incrementava la possibilità o probabilità dell’evento26.
La composizione domestica poteva risultare assai complessa convivendo tra loro
parenti diretti e indiretti compresi in tre, a volte quattro generazioni, nelle diverse
posizioni di nonni, genitori, figli e nipoti, ma anche fratelli, cognati, zii e così via.
Una figura particolare era poi quella del compare de anel che non solo era il
responsabile morale, el pare, come dice il proverbio, de l primo putèl, ma talvolta si
sostituiva al marito assente anche in altre funzioni ausiliarie, non proprio previste
dalla consuetudine, tanto far nascere il detto an bon compare, l à vintiun onge27.
Il fenomeno si è ridotto nell’ultimo tratto di secolo con la transizione ad un modo
familiare mononucleare con aumento del tenore di vita, educativo e di disponibilità.
ZOORASTIA
Il fenomeno di certa zoorastia ‘popolare’, ovvero di quella indotta dalla solitudine
pastorale o meno (mal del pastor), rivolta particolarmente a caprette e pecorelle – da cui
gli epiteti pinciafede o pinciacàore28 (che si è già visto in un blasone popolare) – è ben
noto nelle zone vocate a pastorizia dove testimonianze orali ci hanno descritto l’usanza,
viva almeno fino alla metà dello scorso secolo, anche come passo di iniziazione dei
nuovi addetti in fase di salto generazionale29. Il parlarne fuori d’ambito resta tuttavia
tabù. Non raro ritrovare come epiteto anche pinciagaline, pinciapolastre e pinciaoche,
detto di persone dappoco ma col medesimo senso veritiero di fondo.
27
Egon Schile, Donne abbracciate,1915
26
Ad esempio, nelle culture slave esisteva la Snochacestvo (dal russo snocha, nuora), ovvero il diritto conferito al
suocero di accoppiarsi con le nuore qualora fossero spose di figli impuberi e precocemente ammogliate per
necessità di manodopera familiare, o di figli adulti assenti per lungo tratto. Questo, pur non avendo a che fare
con la nostra situazione culturale, mostra comunque che tale logica è peraltro altrove ammissibile.
236
Ventun unghie indicano altrettante ‘dita’. Anche Franzina nell’introibo (nota 60) cita un proverbio simile a
quest’altro che ho raccolto a Guia (TV, 2001): «No resta bon compare quel che no serva in tut a so comare».
28
La figura del fauno e la sua vocazione alla libidine sulla scena mitologica ha sicura relazione col fenomeno. Lo
stesso diavolo (= sesso) viene spesso dipinto in tutto o in parte con la fisionomia del caprone. Come capretti e
caprette (giòl/a, giolét/a, marzòcul/a) si individuano fra l’altro i nostri giovani montanari innamorati o i novizi.
29
Nella zona feltrina di Lamon (BL) esiste una variante del minestrone detto alla pincia-porzèla.
237
Il peccato è menzionato comunemente nei Penitenziali dei diversi secoli
lasciando intendere la sua frequentazione e relativa valutazione. Tali libri30 erano
delle specie di prontuari nei quali venivano catalogate le singole colpe cui venivano
fatte corrispondere una serie di pene canoniche ossia penitenze atte alla
amministrazione del corrispondente sacramento. L’uso di questi manuali venne
introdotto dal VI-VII secolo allorché il ministero si ampliò dai vescovi ai preti in
generale, al fine fosse da loro adottata una linea sufficientemente comune di giudizio
nei casi proposti31. Evidentemente nel guidare il confessante, il confessore si poteva
servire della domanda che di per sè illustrava il contenuto del peccato, con ciò
fornendo una idea concreta di tale possibilità anche a chi lo ignorava. Si riporta, a
titolo di esempio, il capitolo sulla fornicazione tratto da uno dei primi Penitenziali
del sec.VII (Poenitentiale Theodori - Penitenziale di Teodoro) dove si possono
vedere previste, descritte e ampliate, tutte le pratiche di cui si è fatta menzione
nelle precedenti pagine32.
II. De Fornicatione
II Sulla fornicazione
1. Si quis fornicaverit cum virgine, I. anno peniteat.
Si cum marita<ta>, IIII. Annos, II. Integros, II alios
in XL.mis. III.bus., et III dies in ebdomada peniteat.
1. Se qualcuno avrà fornicato con una vergine, faccia
penitenza per un anno. Se lo avrà fatto con una donna
sposata, quattro: due di penitenza integrale e gli altri,
nelle quaresime e per tre giorni alla settimana.
2. Qui sepe cum masculo aut cum pecude fornicat, X.
Annos ut peniteret judicavit.
2. Chi fornica frequentemente con un maschio o con
una bestia da gregge, che faccia penitenza per dieci anni.
3. Rem aliud. Qui cum pecoribus coierit, XV. Annos
peniteat.
3. Altrove: chi avrà avuto rapporti sessuali con
animali, faccia penitenza per quindici anni.
4. Qui coierit cum masculo post XX. Annum, XV.
Annos peniteat.
4. Chi avrà avuto rapporti con un maschio dopo i
vent’anni d’età, faccia penitenza per quindici anni.
5. Si masculus cum masculo fornicaverit, X. Annos
peniteat.
5. Se un maschio avrà avuto rapporti con un maschio,
faccia penitenza per dieci anni.
6. Sodomitae VII. Annos peniteat [peniteant]; molles [et
mollis] sicut adultera.
6. I sodomiti facciano penitenza per sette anni; i molli
[passivi] come un’adultera.
7. Item hoc; virile scelus semel faciens IIII annos
peniteat;
si in consuetudine fuerit, ut Basilius dicit, XV.
Si sine, sustinens unum annum ut mulier.
Si puer sit, primo II.bus annis; si iterat IIII.
7. Ancora: chi abbia commesso il ‘misfatto maschile’
una volta sola, faccia penitenza quattro anni;
se fosse diventata un’abitudine, quindici, come dice S.
Basilio. Se non c’è abitudine, astinenza per un anno,
come una donna. Se fosse un bambino, la prima volta
per due anni; se lo ripete, per quattro.
8. Si in femoribus, annum I. vel. III. XL. mas.
8. Se tra le cosce, un anno o tre quaresime di penitenza.
30
Penitenziale, dal lat. poenitentialis, derivato di poenitere, pentirsi. Questi libri, che hanno speciale
importanza nella storia delle fonti medievali del diritto canonico e non furono senza influenza sullo
sviluppo della disciplina della Chiesa, cominciarono ad apparire in Occidente nell’ambiente della Chiesa
irlandese e anglosassone (cfr. anche Cleugh, cap. XIII, I censori, 351-378).31
L’uso cominciò a declinare dopo il X secolo, pur non scomparendo del tutto che molto più tardi, quando,
con l’elaborazione della teologia sacramentale, la penitenza, perdendo il carattere penale di riparazione
sociale, conservò solo il suo carattere espiatorio e sacramentale, mitigandosi nelle forme.
238
9. Si se ipsum coinquinat, XL. Dies [peniteat.]
9. Se si procura polluzione da sé, quaranta giorni.
10. Qui concupiscit fornicari [fornicare] sed non potest,
XL. Dies vel XX. Peniteat.
Si frequentaverit, si puer sit, XX. Dies, vel vapuletur.
10. Chi desidera fornicare ma non ne ha la possibilità,
faccia penitenza per quaranta o venti giorni. Se cade
spesso in questo desiderio, se è ancora un bambino,
venti giorni, o sia bastonato.
11. Pueri qui fornicantur inter se ipsos judicavit ut
vapulentur.
11. I bambini che fornicano tra loro, che siano
bastonati.
12. Mulier cum muliere fornicando [si… fornicaverit],
III. Annos peniteat.
12. Una donna che abbia fornicato con un’altra
donna, faccia penitenza tre anni.
13. Si sola cum se ipsa coitum habet, sic peniteat.
13. In questo stesso modo faccia penitenza una donna
che si fosse procurato un orgasmo da sola.
14. Una penitentia est viduae et puellae. Majorem
meruit quae virum habet, si fornicaverit.
14. La stessa penitenza si dia a vedove e ragazzine: se a
fornicare è la donna sposata, ne merita invece una
maggiore.
15. Qui semen in os miserit, VII annos peniteat: hoc
pessimum malum. Alias ab eo judicatum est ut ambo
usque in finem vitae peniteant; vel XXII. Annos, vel ut
superius VII.
15. Chi abbia eiaculato sperma in bocca, faccia penitenza
per sette anni: questo è un male dei peggiori! Altrove fu
stabilito da lui, per questo caso, che entrambi facciano
penitenza per il resto della vita, oppure ventidue anni,
oppure sette anni come sopra.
16. Si cum matre quis fornicaverit, XV. Annos peniteat,
et nunquam, mutat [mutet] nisi Dominicis diebus: et hoc
tam profanum incertum [incestum] ab eo similiter alio
modo dicitur ut cum peregrinatione perenni VII. Annos
peniteat.
16. Se qualcuno avrà fornicato con la madre, faccia
penitenza per quindici anni, e non cambi questa penitenza
se non nelle domeniche; altrimenti si dice che questo è un
incesto tanto blasfemo da dover fare penitenza per sette
anni, continuamente pellegrinando.
17. Qui cum sorore fornicatur, XV. Annos peniteat, eo
modo quo superius de matre dicitur, sed et istud XV.
Alias in canone confirmavit; unde non absorde XV.
Anni ad matrem transeunt qui scribuntur.
17. Chi avrà fornicato con la sorella, faccia penitenza
per quindici anni, nella stesso modo detto sopra per la
madre; anche altrove, nel canone, questo numero di
quindici è confermato; quindi opportunamente si
trasferiscono alla madre quei quindici indicati.
18. Qui sepe fornicaverit, primus canon judicavit X.
Annos penitere; secundus canon VII.; sed pro infirmitate
hominis, per consilium dixerunt III. Annos penitere.
18. Chi avrà fornicato, che faccia penitenza per dieci
anni (I canone)o per sette (II canone); tuttavia, stante la
debolezza umana, consiglio una penitenza di tre anni.
19. Si frater cum fratre naturali fornicaverit per
commixtionem carnis, XV. Annos ab omni carne
abstineat.
19. Se un fratello avrà fornicato con un fratello
naturale con congiungimento della carne, si astenga
da tutte le carni per quindici anni.
20. Si mater cum filio suo parvulo fornicationem
imitatur, III. Annos se abstineat a carne, et diem unum
jejunet in ebdomada, id est, usque ad vesperum.
20. Se una madre imita un rapporto sessuale col
figlioletto, si astenga dalla carne per tre anni, e faccia
digiuno un giorno alla settimana, cioè fino al tramonto.
21. Qui inludetur fornicaria cogitatione, peniteat usque
dum cogitatio superetur.
21. Chi è traviato da un pensiero di fornicazione, faccia
penitenza fino a quando il pensiero sia stato superato.
22. Qui diligit feminam mente, veniam petat ab eo [a
Deo] id est, de amore et amicitia si dixerit si non est
susceptus ab ea, VII. Dies peniteat.
22. Chi ama una donna con la mente, chieda perdono
a Dio, cioè, se le parlerà d’amore e amicizia, se non è
stato accettato da lei faccia penitenza per sette giorni.
32
Per penitenza si intendeva un digiuno a pane ed acqua, oppure il vestire di sacco, o tutte e due, tranne la
Domenica e i giorni di festa. Si potevano aggiungere anche altre penitenze secondo il criterio del Confessore.
239
GOLDONI MA NON CARLO
TAV.
X: Bacco e Arianna
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
XI: Polieno e Crisi
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
XII: Il satiro e la sua donna
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
quela che va in leto col marì,
la ris’cia ogni dì.
Ela dó, che semo tre1, ovvero se va in let in dó e se se alza in tre. Proverbi simili a
questi sono stati per anni più il terrore che la consolazione delle donne. Il desiderio
di controllare la fertilità si accompagna alla nostra storia quanto il bisogno di
generare e proseguire nella specie. L’istinto alla propria perpetuazione, assunto
ovunque come valore sacro e di legame con la Divinità massima generatrice (di cui
l’essere umano è ‘figlio’, qualsiasi sia la religione di riferimento), sconta la parallela
necessità di controllare in qualche modo l’esito di questa stessa potenzialità, vuoi per
motivi pratici che per i coesistenti motivi biologici legati al ‘piacere’ che la sessualità
stessa impone. Voler scomporre questa univoca realtà genetica interpretandola in
frammenti di valore assoluto – ovvero vedere la sessualità solo in funzione della
riproduzione o solo in quella del piacere – ha marcato notevolmente l’evoluzione
delle diverse civiltà trasferendo il problema dal piano fisiologico a quello filosoficoreligioso con le conseguenze, ben visibili, di creare assai più problemi del dovuto.
La babilonia è tuttora vivissima e lo sarà, credo, per molto tempo a seconda
dell’attualizzazione culturale, delle teologie e delle loro evoluzioni. Non a caso,
più laica diventa la società democratica, ovvero più tollerante nei confronti delle
libere scelte dei singoli, più essa viene tacciata dalla controparte di corruzione e
decadenza. Si ritorna alla logica del dualismo tra i Poteri (assoluto o
democratico, centrale o del singolo) di cui si è accennato all’inizio.
Così, a seconda del pensiero con cui si scopa – compiendo un atto assolutamente
identico – si può essere di Dio o del Diavolo, del bene o del male, buoni o cattivi,
belli o brutti, di destra o di sinistra. Che gliene frega, al Censore di turno, se
consideri di avere pochi mezzi, troppi figli, o non ne vuoi, se vuoi solo sfruttare
il mezzo senza fine dato che non puoi ottenere il tuo fine senza mezzo?
Il risultato di questa etica fluttuante, che oggi da noi si misura discutendo sui
possibili utilizzi degli embrioni, di cellule staminali e via dicendo, è di aver
spostato il centro di interesse più avanti, relegando il problema della
contraccezione in una specie di magazzino polveroso giacché, se nel nostro
mondo occidentale la teoria religiosa non è cambiata, la pratica invece sì e le
donne, in buona parte, la pillola se la gestiscono benissimo poiché hanno capito
che essa rappresenta la metà della loro possibile ‘libertà’. L’altra metà è
rappresentata dall’opportunità di emancipazione economica, dalla capacità di
autosostentamento fuori dell’orbita maschile. Per questa via passano le nuove
unioni di uomini e donne finalmente liberi di scegliersi reciprocamente, con pari
dignità e opportunità di amarsi, aiutarsi e rigenerarsi. Ma la strada è difficile e
siamo solo all’inizio; si può andare avanti ma si può anche regredire.
1
«Lei giù, siamo già in tre». Cfr. Le dieci tavole dei proverbi, 71, E X, 794 (XVI secolo).
241
Che gli anticoncezionali possano essere presi oggi ad emblema della libertà mi
lascia un poco stupefatto anche se poi il tutto rientra nella logica del pensare,
dato che solo da pochi anni essi hanno raggiunto la sicurezza funzionale, senza
effetti collaterali per la salute, e sono diventati un fenomeno di massa; ciò dopo
qualche millennio di continui tentativi ed esperienze d’ogni genere, fatte per
buona parte in clandestinità, con diffusione limitata.
Una volta compreso che la generazione era conseguenza del coito – pur non
avendo conoscenza del perché, del come, del quando – le vie sperimentate per
contrastarla passarono primariamente attraverso tentativi di impedire
meccanicamente al seme maschile di raggiungere la madre femminile ovvero di
rendere sterile il contatto. Per le donne ciò significò introdurre in vagina
tamponi e pessari di vario tipo intrisi delle più diverse sostanze ritenute adatte a
schermare, isolare o neutralizzare quel liquido che in qualche modo si capiva
essere in relazione con la germinazione della vita umana. Per l’uomo, provare a
contenere diversamente la propria materia seminale imbrigliando il membro nei
modi più efficaci salvaguardando il più possibile la capacità sensoriale.
Stampa inglese ottocentesca con interno di casa con prostituta in cui si vede il riciclo dei preservativi
2
Veniva usato l’intestino cieco che, dopo lavorato, veniva sezionato e cucito su un lato.
Cfr. Sterpellone, 87: «Secondo la mitologia, Pasifae – moglie di Minosse re di Creta – sapendo che suo marito
amava le scappatelle, fece preparare dalla sorella Circe un filtro magico in virtù del quale lo sperma del marito
conteneva embrioni di serpenti e di scorpioni che avrebbero avvelenato le amanti. Ma una donna di nome
Procride ebbe l’idea di inserirsi nella vagina una vescica di capra, nella quale Minosse poté liberarsi di tutto il
suo seme inquinato.…Gli ermeneuti non sono ancora concordi se fu lo stesso Minosse ad usare sul proprio
pene la vescica di capra come preservativo o se si sia in realtà trattato di un preservativo vaginale».
4
Forse anche prima (cfr. Sterpellone, 88: «Un altro antico riferimento al preservativo lo si ritrova nelle famose
grotte preistoriche di Les Combarelles, nella Francia sud-occidentale, dove è tra l’altro raffigurata una coppia
in procinto di praticare il coito: il pene dell’uomo appare ricoperto da una specie di guaina… Da parte loro i
Cinesi fabbricavano i profilattici con fogli di seta oleata; i Giapponesi usavano invece i kabutogata, fatti di cuoio
o di squame di tartaruga, sia a scopo anticoncezionale che per sostenere il pene in caso di impotenza»).
3
242
Il Nostro divenne così uno degli
‘insaccati’ preferiti da inserire nel budello
animale, preferibilmente caprino o
ovino2, di cui furono tentati vari
trattamenti e conce per renderlo più
morbido e sicuro possibile (non a caso,
nel medioevo, furono, in genere, i norcini
a confezionarli). Di questo metodo si ha
comunque certa notizia a partire da
Greci3 e Romani4, anche se la moderna
denominazione di ‘condom’ viene fatta
risalire al nome di un presunto medico di
corte inglese, forse mai esistito, il che
comunque testimonia la diffusione del
preservativo nell’area anglosassone, nel
Settecento. In Veneto, questa pellicina
protettiva è chiamata goldón, che è
probabile storpiatura di condom.
Stando all’immagine della stampina,
sicuramente i goldoni erano utilizzati da
Giacomo Casanova, cui probabilmente
si deve l’importazione del termine e
Stampina tratta dal volume Vita di Giacomo Casanova,
che illustra una dimostrazione coi preservativi
che, come libertino, a loro doveva parte
della propria fortuna con le donne, le quali si sentivano evidentemente sicure nel
rapporto con lui nonostante egli li usasse a malincuore: «È come essere avvolti da
una pelle morta!», diceva, chiamandoli con i vari nomi di retingote inglese, calotta di
sicurezza, vestitino inglese che mette l’anima a riposo5.
Se a Londra il preservativo andava, a Parigi faceva faville anche se ufficialmente
la cosa era dipinta come scandalosa e da abbietti. Così, chiamando il còndom
‘budello francese’, si dividevano un po’ le colpe: come il solito, mal comune è
mezzo gaudio! La ricchezza delle terminologie locali rende comunque giustizia
alla diffusione del mezzo e alla fantasia dei portatori: cappotto della salute,
guanto di donna, colletto della sicurezza, pelle divina, camicetta di Venere,
spegnicandela, pentolino, fino ai veneti pèl, pele∫ ina, pèl mata, stropabus, scudelin,
capelin, l orbo. In alternativa, avendo destrezza e senso del tempo non restava
che… tirar al cul indrio6 e sperar ben, magari continuando a praticare diete
alimentari che si supponevano adatte a ridurre la potenza procreativa e che da
secoli erano motivo di sicurezza psicologica per i più sensibili al problema.
5
6
Ibidem, 86. L’A. meglio ipotizza una derivazione di còndom dal latino condere, proteggere, infoderare.
In epoca ‘automobilistica’ anche far o méter la retromarcia.
243
È interessante allora prendere nota delle vivande ‘depressive’, quelle che si
credeva, e talvolta si crede anche oggi, facciano svanire l’ardore amoroso, ad
esempio, la verdura a foglia, specie l’insalata, come ricordato dal detto… magna
tanta salata che te farà vita beata. Mangiare di questa verdura si diceva favorisse
il sonno levando forza al coito. Oltre ad essere considerata ‘fredda’ l’insalata
produce infatti una secrezione biancastra che richiama vagamente lo sperma ed
è probabilmente questo l’aggancio alla credenza. Come si evince dalle stampine
e dagli erbari la convinzione era radicata in tutte le classi sociali.
La Latuga po an ela,
Scapuzina e Romana,
ch agnuno in vol
denanzo na gran piana:
no crezo ch el se cate,
a far vegnir la late,
un remièlio maore;
e se quarcun quatr ore
à vuogia d arponsarse,
ch i ne magna, s i vuole ruonchezare.
La Lattuga, anch’essa,
Cappuccina o Romana,
che ognuno ne vuole
davanti un gran piatto:
non credo che si trovi
per far venire il latte
un rimedio maggiore;
e se qualcuno ha voglia
di riposare quattro ore
ne mangi, se vuole ronfare.
Tacuinum Sanitatis Rouen c.10)
LATTUGA
Natura: fredda e umida in II grado.
Migliore: quella a foglie ampie e di color citrino.
Giovamento: calma l’insonnia e la spermatorrea.
Danno: a coito e vista.
Rimozione del danno: mescolandola con sedano.
Il Platina suggerisce tuttavia un pronto rimedio raccomandando di aggiungere
alla lattuga della ruchetta cruda che, a suo certo parere,… eccita in modo
incredibile ai piaceri di Venere. Come si vede alcune usanze contemporanee
hanno una tradizione assai datata. La salute era comunque al centro
dell’attenzione quotidiana in mille altri modi7.
7
Giovan Battista Barpo, Le Delizie dell’Agricoltura e della Villa, Venezia 1634, Libro I, Ricordo X: «Ricordati,
per la salute, il proverbio antico: mangia poco e bevi meno. Il vino non l’userai molto grosso, ossia integrale;
esso sia piuttosto chiaro che torbido, di colore rosato, che ti scaldi lo stomaco ma non ti procuri bruciore. Bada
che per lo stomaco debole è adatto l’acquatello o vin piccolo in quanto più facile alla digestione; del grosso
infatti, non puoi berne così poco che i suoi fumi non ti diano alla testa. Perciò regolati secondo la tua
costituzione fisica e osserva quale sia il comportamento più conforme alla tua salute, non alla tua bocca. Alla
lussuria poni freno; dormi in palco e stai coperto: grave cura non ti ponga, se vuoi aver tua vita longa».
244
La ruta8, mentre diminuirebbe di molto
la potenza sessuale al maschio, avrebbe
nel contempo un’azione stimolante alla
libido femminile.
Tuolìme po la Rua
pre chi à male a la panza;
agnò ca si fa l ògio
e g à st usanza.
E chi non vuol feg(l)iuoli
beva du o tre megiuoli de l so sugo
e che i monta po soto a la perponta
aliegramén, e crezìlo a Tubiolo,
preché mi a l ò imparò da l Matiòlo.
Prendetemi poi la Ruta
per chi ha male alla pancia;
ogni famiglia si fa il proprio olio
e ha questa usanza.
E chi non vuole figli
beva due o tre bicchieri del suo sugo
e vada poi sotto le coltri
allegramente, e credetelo a Tubiolo,
perché io l’ho imparato dal Mattioli.
Tacuinum Sanitatis Parigi, c. 32)
RUTA
Natura: Calda e secca in III grado.
Migliore: quella nata in prossimità di un fico.
Giovamento: rende più acuta la vista
e dissolve le ventosità.
Danno: aumenta lo sperma e smorza il desiderio del coito.
Rimozione del danno: con cibi che moltiplicano lo sperma.
La mattina fa un po’ di esercizio fisico all’aperto, rivolto verso levante, ma che l’aria sia dolce, non in tempo
di nebbia o di vento freddo. Comincia adagio, poi va’ un poco più in fretta, finché si eccita il sudore; poi,
ritornato a casa, riposati e cambia anche la camicia, che ciò molto allevia e conforta. Se non potessi uscire, o
per il clima avverso o per tue indisposizioni, passeggia in camera o nel portico ben chiuso, o fatti portare in
lettiga, in carrozza o a cavallo; oppure, stando anche a letto, farai le frizioni, che tanto dilettano, cominciando
dai piedi e salendo lungo il corpo con un panno ruvido; riposati, dopo, secondo il tuo bisogno. Il tuo dormire
di giorno, se sei abituato a ciò, sia breve: non a letto, ma sopra qualche comoda sede; stai piuttosto appoggiato
che disteso. Quello della notte sia secondo la costituzione fisica; chi ha lo stomaco debole ha bisogno di un
sonno più lungo. Procura d’aver beneficio del corpo, espellendo quotidianamente: se non puoi per natura,
fallo con l’aiuto di qualche supposta di sapone, o miele, o piglia avanti pasto un poco di zucchero e cannella
nel buon brodo. Guardati dal coito frequente e conosci le tue necessità: non lo fare per le tue sfrenate voglie, fallo
per debito alla natura. Con questo bel modo di vivere acquisterai un carattere buono, che ti custodirà dai cattivi
pensieri che ti tormentano con mestizie, desideri sfrenati di vendette, risse, odio e diffidenze, i quali nascono per
lo più dai fumi che annebbiano il cervello, generati nello stomaco dai cibi indigesti; così pure ti saranno attenuati
l’eccessivo dolore e la tristezza. Piaccia al Signor Iddio, concederti ciò in santa pace e tranquillità dell’anima tua,
con abbondanza e prosperità per tutta la tua onorata famiglia».
8
Con malva e salvia, questa pianta resta considerata, popolarmente, tra le più salutifere. Nel menzionato
Regimen Sanitatis della scuola Salernitana, alla voce Del modo di correggere le cattive bevande (Capo 20), si legge
in traduzione dal latino: «Salvia e ruta nel bicchiere / ti faran sicuro bere. / Se di rosa aggiungi il fiore / scemerai
l èstro d’amore». Ancora al Capo 61, Della ruta: «Pianta nobile è la ruta / poiché fa la vista acuta / Se tu meglio
vedi, al certo, / opra è sua, ed è suo merto. / Dessa l’estro all’uom rallenta / e alle femmine l’aumenta…».
245
Tra gli anticoncezionali a disposizione degli uomini che non si ritenevano capaci di
praticare adeguatamente il sistema del coitus interruptus o non volevano incorrere in
rischi, vi erano i decotti di ninfea, e le sementi di canapa i cui effetti ipotizzati
consistevano in una diminuzione del poter fecondante del liquido seminale. Di certo
queste erano cose delicate e che non si dicevano in pubblico e che poco centravano con
la virilità ma rimanevano più attineneti alla prudenza. Dice ancora il Tubiolo9:
O madona ∫gninfèa
a sì stà molto tardi a saltar fuora de l aqua
prequé umor gh ì da segnora.
Questa, a qu(e)i che s insogna
de dromir co la Tuogna
e ch(e)i ∫bora, a l so male,
friegi, molto la vale;
e bevanto l so bruò in te n megiòlo,
le done no fa mè negun fegiolo.
O madonna ninfea
Avete tardato ad uscire dall’acqua
perché avete vezzo da signora.
Per quelli che sognano
di dormire con la Togna
ma che non riescono a controllare
l’eiaculazione, fratelli, vale assai:
e bevendo un bicchiere del suo brodo
le donne non faranno alcun figliolo.
El cànevo pò gh è
che le so somenzine
le fa far milant ovi a le galine
e s uno in vuol magnare
mè el no poerà impregnare;
e pre lo mal de gola
l è bon in t una parola,
el lo sa sti ladroni
que tanti el n à vario que gh éa i cagioni.
C’è poi la canapa
le cui sementine
fanno fare moltissime uova alle galline
e se uno ne vuole mangiare
non potrà impregnare la donna;
e per il mal di gola
è proprio buona
e lo sanno questi ladroni
che ne ha guariti tanti dagli stranguglioni.
Se i rimedi appena prospettati attengono ad un tipo di medicina preventiva, la
maggior parte degli altri consigli sono invece rimedi ovvero tentativi di riparare
ad un danno come, ad esempio, un aborto spontaneo, nel contempo indicando
il modo di tentarne la procura ovvero come interrompere la gravidanza10:
La Centaurea Menore
la salda agno ferìa,
la sea quanto la vuole ben fondìa;
e a chi à lùcere viegie
acerca a le caégie,
pòta, la xé pur bona!
E se gh è quarche dona
la qual volése farse cavagiera,
l è na racèta pur sprefèta e vera.
9
La Centaurea Minore
salda ogni ferita,
sia quanto profonda si vuole;
e a chi ha vecchie ulcere
attorno alle caviglie,
potta! è davvero buona.
E se c’e qualche donna
che volesse abortire,
è una ricetta vera e perfetta.
Le poesie sono sempre tratte da L’Erbolato di Tubiolo (Erbario rustico del ’600).
10
C’era assai poco cuore per le ‘peccatrici’, che oltre al danno subivano spesso la beffa come ben dimostra la
246
La Bàcara po an ela
fa vegnir quele co∫e
a le to∫ate, a le védoe e a le spo∫e;
e le g à po an fidanza,
co le g à énfia la panza
pre so de∫aventura,
fare che la criatura
fuora dal so coàto,
bevando el brùo, la saltuza de fato.
La Baccara poi anch’essa
fa venire quelle cose
alle ragazze, alle vedove e alle spose,
che hanno la certezza,
quando han la pancia gonfia
per lor disavventura
di far che la creatura,
dal proprio cuccio,
bevendone il sugo, salti di certo fuori.
Càncaro, el Pan Puorcino
g à un fior de bon aldore
e na raì∫e po de gran valuore!
El ve fa ben cagare,
quando al suolì pricare
sora de l omberìgolo;
ma el ghe saràe mo prìgolo,
s una to∫ata ése la panza dura,
que la fase sconzare la criatura.
Canchero, il Pan Porcino
ha un fiore profumato
e una radice di gran valore!
Vi fa cacare bene,
quando lo applicate
sopra l’ombelico;
ma ci sarebbe pericolo,
se una ragazza avesse la pancia grossa,
che la facesse abortire.
An l Iva é saltà fuora,
que mi l ò mesa in pràtega
per lo maliazo male de la sciatega;
e se quarche criatura
pre so de∫aventura
foése morta in la panza de so mare,
se la in vuole pigiare
una brancà bogìa in te l a∫eo,
la la farà in t un menar de deo.
Anche l’Iva è saltata fuori,
che io l’ho messa in pratica
contro il maligno male della sciatica;
e se qualche creatura
per sua disgrazia fosse morta
nella pancia della madre,
bisogna pigliarne
una manciata bollita nell’aceto,
e la espellerà in un attimo.
La Fàrfara po an ela
xé n erba molto bona
quando l à∫emo g à quarche persona;
e qui che la cognóse
la dòvra an per la tose;
e a chi à el fogo salbègo
no gh è el maor remègo;
e s in panza un to∫ato foése morto
a na spu∫a, la l cava in tiempo corto.
La Farfara anch’essa
è un’erba molto buona
quando qualcuno ha l’asma;
e quelli che la conoscono
l’adoperano per la tosse;
e per chi ha il fuoco di Sant’Antonio
non c’è rimedio maggiore;
e se a una sposa fosse morto il feto in pancia,
glielo leva in breve tempo.
seguente sarcastica villotta friulana: «Le puarine, jè malade! / Ce gràn mal che je vignùt! / L à vierzùt la
sieradure / e l mulin al é cresùt» (Oh, la poveretta, è malata; che gran male le è venuto: ha aperto la serratura
e il ‘mulino’ le è cresciuto» (Cfr. Ostermann, Villotte friulane, Appendice, 37).
247
NOTA SULLA CONTRACCEZIONE11
Nell’antichità
Studi di antropologia hanno dimostrato l’impiego, anche presso i popoli primitivi, di metodi
contraccettivi empirici, talvolta non privi di un minimo di efficacia come, ad esempio, tamponi
da introdurre in vagina, formati da alghe e foglie di artemisia. Si ritengono note sin dall’antichità
anche le pratiche del coitus riservatus, obstructus, interruptus e inter femora (riservatus, ossia
trattenuto tramite la forza di volontà e l’esercizio; obstructus, attraverso la pressione delle dita
nella regione tra il pene e l’ano il che provoca una deviazione del liquido seminale dall’uretra
esterna alla vescica; interruptus, con l’interruzione dell’azione prima del suo apice; inter femora,
con l’eiaculazione procurata badando di essere ormai esterni alla vagina, tra le cosce). La civiltà
Egizia ci fornisce il più antico documento medico che accenni specificatamente a metodi
contraccettivi: nel papiro di Ebers (circa 1500 a.C.), si consiglia, per evitare la gravidanza, l’impiego di un tampone vaginale costituito da foglie di acacia. Nel mondo orientale (India), oltre a
ricorrere a particolari rituali (come ingerire melassa di tre anni e trattenere il respiro durante il
coito) sono testimoniati metodi più razionali, come i lavaggi vaginali con sostanze quali il
salgemma e il burro cotto (oggi riconosciute ad attività spermicida), e i soliti tamponi.
Greci e Romani
Gli scritti Ippocratici più volte riportano metodi anticoncezionali. Si va dai consigli stimolati da
esperienze statistiche (come quello di esporsi ai venti del sud, perché pare che le donne del sud della
Grecia fossero meno fertili) ai consigli dietetici, ma si parla pure di tamponi vaginali, di asportazione di utero e ovaie e persino di una sorta di sistema basato sull’astensione periodica. Di una bevanda
specifica, con sostanze (pare solfuro di ferro o rame) sciolte in acqua da assumere prima del coito
(prima intuizione di un contraccettivo di tipo orale), oltre ad Ippocrate, parla anche Aristotele che
confida nella combinazione degli elementi dell’alimentazione pur continuando a consigliare, come
metodo anticoncezionale l’impiego di medicazioni vaginali a base di olio di cedro e di oliva. La
medicina romana prosegue nel solco di quella greca con importanti contributi come quello di
Sorano di Efeso, medico vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., autore di numerosi trattati sulle
malattie delle donne e di ostetricia, che raccomandava i consueti contraccettivi a barriera, come
pessari occlusivi e tamponi vaginali impregnati con olio di oliva, miele, gomma di cedro. Pare
comunque che fossero diffuse, tra il popolo e anche tra i ceti elevati dell’età Greco-Romana,
metodiche empiriche, come la crudele infibulazione (cucitura del prepuzio o delle grandi labbra) e
anche primordiali profilattici fatti con vescica di capra.
Medioevo e Rinascimento
La visione della Chiesa Cattolica su sesso e procreazione e la conseguente pesante condanna
della contraccezione, fecero ufficialmente scomparire il tema dai trattati medici del mondo
occidentale per tutto il Medioevo, lasciando la pratica sommersa a livello personale in base alle
esperienze precedenti. Ampio spazio ebbe invece il tema nei testi arabi di Rhazes (vissuto a
cavallo tra il IX e il X secolo d.C.) e Avicenna (XI secolo d.C.). Questi grandi medici
introdussero alcune innovazioni, quali l’impiego di catrame misto a cavolo come tampone
vaginale e un nuovo sistema basato sull’astensione periodica. Il Rinascimento, con la riscoperta
di questi autori tornò ad applicarsi nello studio dei metodi contraccettivi pur mantenendo come
riferimento, la filosofia aristotelica.
11
Cfr. Momenti di medicina e chirurgia (12, anno XI , set. 1997) e L. Serpellone, Contraccezione, una storia.
248
La Rivoluzione Scientifica
Con l’introduzione del metodo sperimentale, caratteristico
della cosiddetta ‘Rivoluzione Scientifica’ del XVI secolo
iniziò una nuova era anche per lo studio della ginecologia e
dell’embriologia. Nel XVII-XVIII secolo acquista popolarità, come metodo contraccettivo ma soprattutto come
prevenzione della sifilide, il profilattico, perlopiù fatto di
raffinata seta. Il primo testo in cui se ne parla è un trattato
sulla sifilide di Falloppio. Il nome con cui il profilattico
passa alla storia è tuttavia quello di Mr. Condom, presunto
dottore di corte del Re d’Inghilterra Carlo II.
L’Ottocento
L’Ottocento vede un approccio più razionale e scientifico alla
problematica della contraccezione, stimolata dalla teoria
demografica del filosofo Malthus secondo cui il genere
umano sarebbe presto entrato in crisi per mancanza di risorse
senza un adeguato controllo delle nascite.
Al desco, xilografia seicentesca
I miglioramenti, furono costituiti dal salto di qualità consentito
dalla scoperta della vulcanizzazione della gomma con aumento della sicurezza e della sensibilità dei
condom ad uso maschile. Dalla tre quarti del secolo vi fu quindi un boom negli utilizzi. Ad uso
femminile, fu perfezionato il metodo di barriera con l’introduzione del diaframma; ciò accadde nel
1891 ad opera del medico americano Mensinga.
Il Novecento
Solo in questo secolo si arriva finalmente a disporre, per il controllo delle nascite, di un metodo
efficace, sicuro e di massa che non si basi su blocchi meccanici (condom o diaframma): si tratta del
contraccettivo orale ormonale ad uso delle donne, presto noto come ‘pillola’. L’uscita del primo
preparato risale al 1955 e fu opera del Dr. Pincus. Per giungere a questo risultato erano occorsi decenni di ricerche partite dalle scoperte di Beard e di Zschokke (1897-98), che non vi è ovulazione
durante la gravidanza e che la sterilità femminile può essere causata dalla persistenza del corpo
luteo. Negli anni ‘20-30 altre ricerche appurarono che gli estratti luteinici sopprimono l’ovulazione
e che era almeno teoricamente possibile, indurre una ‘sterilizzazione ormonale temporanea’ con gli
ormoni placentari e del corpo luteo. Queste scoperte spalancarono la strada all’introduzione di
preparati ormonali per la contraccezione, risultato cui diedero un determinante contributo i
laboratori Schering di Berlino, dove fu sintetizzato l’etinilestradiolo e il primo progestinico di
sintesi, l’etiniltestosterone. Nella seconda metà dello scorso secolo la tollerabilità e la sicurezza
della pillola sono state progressivamente migliorate con l’introduzione di progestinici di sintesi
sempre più puri e con la riduzione del contenuto in estrogeno dei preparati.
Oggi
La pillola è riconosciuta come il metodo contraccettivo più efficace e sicuro in assoluto (vicina al
100%), anche se il suo impiego è tuttora limitato da remore moralistiche e timori spesso ingiustificati. La ricerca farmacologica continua mirando all’ulteriore miglioramento della tollerabilità e
sicurezza di impiego, pensando anche alla realizzazione di una pillola equivalente ad uso maschile.
Il condom rimane comunque e più che mai in auge a salvaguardia delle malattie che si trasmettono
per contatto fisico diretto, non ultima l’aids.
249
DONA VANA, TRADITORA E PUTANA
TAV.
XIII: Giove e Giunone
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
XIV: Messalina nella loggia di Lisisca
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
le fémene
l é tute putane
Parlando di sesso e di rapporti tra i sessi non è possibile trascurare il capitolo del
meretricio1 che è di basilare importanza, il che viene sottolineato popolarmente da
un numero impressionante di detti e aneddoti. Il tema è infatti perennemente vitale
rappresentando parte di una realtà sociale più o meno accettata, secondo tempo e
luogo, anche se continuamente contestata. Non a caso si tratta del ‘più antico
mestiere del mondo’ il che, al di là di tutte le considerazioni di carattere ‘morale’, ci
suggerisce la necessità di una valutazione seria che prenda in considerazione i
motivi della sua ipotizzata ‘necessarietà’. Ci sembra infatti improprio considerare
marginale un fenomeno che, in alcune fasi della sua manifestazione, ha coinvolto
una percentuale della popolazione femminile valutata dal 10 al 30% della specifica
società sessuale di riferimento2. Pur essendo qui impossibile una esauriente
trattazione del tema, data la sua complessità, si può comunque individuare nella
precaria condizione femminile la maggior causa del fenomeno, ovvero nella
impossibilità di automantenimento della donna al di fuori degli stretti ruoli,
assegnatigli nelle società patriarcali, di moglie e madre. Le donne in esubero a tali
ruoli correvano il serio rischio o di finire in convento – se di famiglia agiata – o a
servitù – con tutti i rischi dei subordinati che hanno poca scelta – o in qualche
bordello per uno sfruttamento senza limite. Alcune brevi considerazioni
potrebbero aiutare ad inquadrare questa situazione che ha origini assai lontane e
che sembra prendere spunto dalla stessa condizione strutturale sviluppata da
buona parte della razza umana. In un contesto nel quale, per programmazione
genetica, la numerosità dei soggetti femminili è mediamente superiore a quelli
maschili3 (detto par ogni mas’cio ghe n é sete fémene) e in cui il medesimo soggetto,
pur risultando basilare per la riproduzione della specie, rimane in una condizione
di debolezza proprio nell’attuare ed esaurire questa sua funzione, si è affermata
l’idea del potere maschile e ciò in ragione della sua capacità di potere-dovere
garantire la sopravvivenza della prole in tali situazioni critiche.
1
Dal latino meretrix-icis, derivato di merere ‘guadagnare’.
Cfr. Marisa Milani, Contro le puttane, 13: Elencando le «anime che si atrova in la cità de Veniexia» nel 1509
il Sanudo annotava che su 300.000 abitanti, di cui 48.346 erano «fémene e puti», le fémene da partido, ossia
le meretrici, ammontavano a 11.654. Togliendo i puti dal numero delle fémene ed escludendo le donne della
nobiltà e dei cittadini originari, risulta che la percentuale delle puttane era superiore a un terzo di tutto il
contingente femminile, vale a dire che come minimo una donna su tre faceva la meretrice. Per quanto le cifre
date dal Sanudo siano gonfiate (Venezia raggiunse il massimo della popolazione nel 1563 con 168.627
abitanti, mentre nel 1509 ne contava all’incirca 115.000), è probabile che il rapporto reale non cambiasse di
molto, e ciò spiega, al di là di ogni retorica moralistica, la costernazione dei legislatori veneziani espressa nei
proclami e terminazioni riguardanti l’inarrestabile espandersi del meretricio.
3
Ciò induce la natura per motivi di sicurezza riproduttiva (tempo relativo di fertilità, probabilità di alta
mortalità di madre e figli ecc.)
2
TAV.
XV: Achille e Briseide
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
251
Vi è un secondo motivo parallelo per l’affermazione del concetto, ovvero
l’intuizione della necessità salutifera dell’incrocio genetico che ha motivato
comportamenti tesi a procurare, per figliare, donne di ceppo diverso da quello
del proprio clan maschile. Perciò, a seconda della situazione, in questi tipi di
società, le donne sono state scambiate, rubate, e anche comprate o cedute4
diventando, in questa funzione, ‘merce’ di famiglia o, ciò non accadendo, ònere
per la stessa. Il destino di una figlia è, generalmente, quello di andarsene di casa.
Se rimane, è spesso considerata più di peso che d’utilità in quanto la funzione
materna viene delegata ad altri. Non a caso vigevano i detti: co nas na to∫ a,
cambial che scade (per il fatto di doverla ‘dotare’) o anche: co nas na to∫ a, nas tre
ladri (la madre che, complice della figlia, la lascia sposare al genero).
Il suo destino, nel caso di restare, se accettata, era diventare una collaboratrice
domestica a livello servile5, col rischio non raro di subire prevaricazioni di
carattere sessuale anche da parte dei familiari stessi.
Inoltre, essendo delegata alla linea di discendenza maschile la continuazione
gestionale dei beni familiari (eredità) e con essa la responsabilità del sostegno dei
genitori anziani fino al travaso del patrimonio, la funzione della nubile senza
figli risulta ancor più svalutata.
Per questi motivi in molte società arcaiche era praticamente tollerato
l’infanticidio o si esponevano6 o vendevano figli e figlie in età infantile a gente
capace di trarne vantaggio e ci vuole poco a capire quale sia stato il modo più
comune di farlo: schiavitù e prostituzione. Quest’ultimo termine deriva
appunto dal latino prostituere ossia mettere in vendita7.
4
L’Enciclopedia Treccani riporta, al termine Prostituzione, una annotazione sulla cosiddetta Prostituzione
Sacra: «Con questo termine si indicano almeno due fenomeni differenti, benchè diffusi pressappoco nella stessa
area culturale. Il primo è la vera e propria prostituzione esercitata costantemente da determinate donne presso
un tempio, al cui personale esse appartengono (ndr. e che ne trae pratico beneficio).… L’altro fenomeno,
indicato generalmente con lo stesso nome, è l’obbligo religioso, riguardante tutte le fanciulle, di offrire la propria
verginità, prima di sposarsi, ad uno straniero in un tempio, lasciando il denaro ricavato al tempio stesso
(Babilonia, Persia, Grecia). Mentre per quest’ultima forma della prostituzione sacra si trovano addentellati
anche con il mondo culturale dei popoli primitivi e col pensiero magico secondo cui la deflorazione è un atto
pericoloso che comporta rischi di contaminazione e perciò non deve essere compiuta dal marito, la prostituzione
sacra permanente e organizzata nel modo descritto è un fenomeno più circoscritto; essa sembra tuttavia
inseparabile dall’ideologia religiosa relativa alla fertilità, che anche presso i popoli primitivi occasionalmente si
manifesta in forme orgiastiche, con il totale superamento delle norme che regolano la vita sessuale. In
considerazione dell’area di diffusione, si ha motivo di ritenere che, nel Vicino Oriente, si tratti di un fenomeno
culturale d’origine anteriore all’egemonia dei popoli di lingua indoeuropea e semitica».
5
Era abbastanza frequente anche il caso di vedove adottate o sposate, in seconde nozze, da un fratello del
defunto (frequente anche nella cultura Slava).
6
Si attendeva che qualcuno se li prendesse, senza porsi troppi problemi. I più coscienziosi cercavano
affidamenti a parenti che avessero necessità di qualche aiuto praticabile da bambini. Molte volte erano
adottati da persone esterne e talvolta senza scrupoli che li cercavano per sfruttarli in modo disumano. La
storia di Remy, nel romanzo Senza famiglia è, tutto sommato, una rappresentazione leggera del fenomeno
che era grave e molto diffuso: tutto per ridurre il problema di una bocca in più da sfamare.
7
Dal latino pro ‘davanti’ e statuere ‘collocare’, mettere davanti, offrire a chi passa.
252
Nel medesimo giro entravano a loro volta, generalmente, i figli dell’attività di
meretricio, avendo le madri necessità di sopravvivere alla loro decadenza fisica
ovvero alla possibilità di continuare a mantenersi. Questa realtà è ben descritta in un
passo del Ragionamento della Nanna e della Antonia, da Pietro Aretino8 (1533).
NANNA: «Le puttane non son donne, ma sono puttane; e però pensano e fanno ciò che
io feci e dissi. Ma dove lascio una nostra saviezza che staria bene alle formiche che
si proveggono la state per il verno? Antonia mia, sorella cara, tu hai da sapere che
una puttana sempre ha nel core un pongolo che la fa star malcontenta: e questo è il
dubitare di quelle scale e di quelle candele che tu saviamente dicesti; e ti confesso
che, per una Nanna che si sappia porre dei campi al sole (sappia risparmiare e
investire i propri guadagni), ce ne sono mille che si muoiono nello spedale (ricovero
per vecchi e malati); e maestro Andrea soleva dire che le puttane e i cortigiani
stanno in una medesima bilancia, e però ne vedi molti più di carlini (monete di
scarso valore) che d’oro. E che fa il pungolo che elle hanno anche nella anima, non
pure nel core, le fa pensare alla vecchiezza, onde se ne vanno agli spedali, e scelta
la più bella bambina che ivi venga, se la allevano per figliuola; e la tolgono di una
età che appunto fiorisce nello sfiorire della loro, e gli pongono un dei più belli nomi
che si trovino, il quale mutano tuttodì; né mai un forestiere può sapere qual sia il
suo nome dritto: ora si fanno chiamare Giulie, ora Laure, ora Lucrezie, or
Cassandre, or Porzie, or Virginie, or Pantasilee, or Prudenzie e ora Cornelie; e per
una che abbia madre, come sono io della Pippa, un migliaio sono tolte dagli spedali.
E c’è dei guai a indovinare il padre di quelle che facciamo noi, se bene diamo il
nome. O che son figliuole de signori e di monsignori: perché son tanti vari i semi che
si spargono nei nostri orti che è quasi impossibile di appostare chi sia quello che ci
piantò quello impregnativo; ed è pazza chi si vanta di conoscere di qual grano sia
quello che nasce in un gran campo seminato di venti ragioni di grano, sanza che ci
si ponga altro segnale.
ANTONIA – È certissimo.
NANNA – E guai per chi incappa nelle mani di puttana che ha madre; tristo per chi
ci si incapestra! perché, se ben sono vecchie, vogliono la sua parte dello unto; onde
bisogna che elleno mescolino co’ tradimenti delle figliuole alcune ruberie per via
delle quali possino pagare chi le sfami ben bene: però che sempre si intabaccano di
giovani; e questo è costume delle vecchie, che a pena ponno trovar credito pagando».
La lettura mette crudamente a nudo gli aspetti del mestiere e la trafila del meretricio
che rende le vittime obbligate a loro volta a nuove crudeltà di cui pure sono
consapevoli come pure della triste fine che aspetta la maggior parte di esse, come
ribadisce popolarmente l’altro cinquecentesco proverbio: Vecia che da zóvene xé sta
putana, jn cé∫ a vende candele o fa la rufiana.XTV, 135,1736 e CPS
8
Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e della Antonia, 178.
253
La descrizione di questa miseria, riportata nella precedente stampina risalente
agli inizi del Seicento9, sembra più un monito per le giovani dabbene che un
invito alle sfortunate per tentare di smettere un mestiere che per molte ragioni
appare ineludibile.
Hoimè son arivada
a sta vita meschina,
Anzola poverina,
de sanità privada
sul fior della vita
O che dòia infinita!
E l pezo é l ospealèr
che brontola e che cria
e ne vol cazar via
per far el so dover
se la notte criemo
o per dolor zememo!
Cosa intravien a tutte
putane poverette
che el ciel ve lo promete
per averne distrutte
In mi donca specchieve
e de me arecordeve!
Son pur a l Ospeàl
in sto letto deste∫a
e d’ogni banda offe∫a
che tutto me fa mal.
O dove ve haveu (a)sco∫i
o miei cari moro∫i!
O che infelicitae
aspetar el mangiar
e covien mastegar
bever del vin ∫vampìo
e sto pan desavio!
Che gera bella e ricca
e servìa da Signora,
e adesso in mia malora
son mi∫era e mendica,
a l’ospeàl struprada
e co∫ì mal tratada!
E pur questo si è niente
Quando a esenpo el barbier
per far el so mestier
e che l ne vien arente
in pé da carezarve
el comenza a criarve!
E se in te l vostro letto
morise per ventura
la é manco segura
de aver tanto intelletto
de buona contrizion!
Senza po che se spende
quel che co mal se acquista
e che l longo peccao
sempre con un contende
e l Diavolo ne intopa
con la Superbia in gropa!
Vu che in zoventù
e la verzenitae
avé mal conosù,
se non ve mendaré
vu me seguitaré!
Esempio mi ne son,
bella ricca e galante
con ben più de un amante
e me tegneva in bon
e son cascada d alto
meschina mè, in t un salto!
Bisogna desfasarse
e là, senza vergogna,
mostrar tutto bi∫ogna
a chi vol ben netarsi
e così a tormentarne
E l comenza la carne!
Vu altre che i marii
avé, per i bertoni,
fatti tanti montoni
con averli tradii,
credelo, a longo andar,
me vegneré a trovar!
Góme, bojononi e doie,
groste, rogna e spuzor,
sólfer, petti e rumor:
queste sié le mie zoie,
queste é l oro e l’arzento
che se spende qua drento!
Masère e servitori
che mi mangiava il mio
e adesso pago el fio
de quel che decipamo
e ancor consumamo!
I mazori dotori
si é tutti ricordi
de spassi e de bagordi,
de pre∫enti e de favori:
tutte co∫e depente
che se converte in niente!
Ma questo sarà niente:
el ve saverà forte,
dopo la morte nostra,
andar al fuogo ardente
dove staré in eterno
sepolte in te l inferno!
Putane sié avertìe
se ben ho detto niente
non seguité per niente
abiéve convertie
e tegnive questo a cor:
chi mal vive mal mor.
Lì sono i bali, i canti,
i superbi boconi:
tuti m é strangoioni
tuti lacrime e pianti
e adeso mi che l provo
che son piena co é l ovo
E adesso retrovarse
de esser si deprezada,
dal mal tutta arsirada;
e no(n) poder voltarse
e deventada orba
in sta puza che amorba!
El scampa la bellezza
e non poder voltarse
i danari se spende
e po vien la vecchiezza
a tal che ogni Puttana
diventa Rufiana!
Putane de∫graziae
a che partìo vivemo
e non consideremo
che semo condanae
morir a l ospeal
ma questo é l manco mal!
Altro che ambra e zibetto
o muschio di levante!
Un spuzor si galante
che me circonda il letto,
de càntari e orinali:
mu∫iche da ospeàli!
E così sta bellezza
che in mal(e) se nutrise
ogni modo patise
o in zoventù o in vecchiezza
e vecchie con del mal
se zonze a l ospeàl!
Questa bocca, sti bracci
non vegnì più a guardar
che ne soleva dar
tanti e tanti solazzi
Mo che descorte∫ia,
dal cuor ne son insia!
Me fidava anca mi
dicando, mi son bella
o fortuna ribella
ti m à tradìo co∫ì
Non m à valso bellezze,
amici né ricchezze!
9
Ecco il miserabil fine della sig.ra Anzola,: questo è il titolo che compare alla base del disegno; segue il testo
su quattro colonne e, in basso sulla destra il nome e il luogo: Pietro Paolo Tozzi Forma, Padoa. Le dimensioni
sono 210 x 150.
254
255
Tra le motivazioni a sostegno della tesi della ‘prostituzione necessaria’10 vi era quella
(e ancora qualcuno la sostiene) che considerava un rapporto sessuale comprato
capace di soddisfare gran parte delle ‘naturali pulsioni maschili’11 e perciò in grado
di scaricare molte tensioni sia a livello familiare che sociale12.
Anche per questo, l’esercizio della prostituzione, in molte società fu (ed è ancora,
con varie sfumature) tollerato e spesso organizzato e sfruttato con partecipazione
diretta o indiretta del civico potere centrale e talvolta, più anticamente, anche di
quello religioso. La forma dell’offerta, come in ogni genere di mercato, si adattava e
spesso anticipava la domanda finendo col proporre una scelta vastissima di modelli
qualitativi, non solo nell’ambito sessuale ma anche intellettuale.
Di qui la nascita di una funzione femminile più raffinata, bisognevole, oltre che di
bellezza, di supporto culturale, artistico e di capacità relazionali elevate atte a
valorizzare l’uomo cui si accompagnavano, sia a livello privato che pubblico.
Etere13, Gheishe14, Cortigiane15, hanno molto in comune tra loro pur essendo
vissute in luoghi distanti e in civiltà diverse: mantenute d’alto rango, poetesse e
artiste, ma in fondo, puttane anche loro.
10
Nel 386 S. Agostino d’Ippona dice: «togli le prostitute dal mondo e ogni cosa sarà travolta dalla libidine»
(cfr. Cleugh, 174) e ancora S. Tomaso d’Aquino, che reputa le prostitute «altrettanto necessarie quanto le
cloache di un palazzo se non si vuole che l’intero edificio divenga fetido» (cfr. Cleugh, 105).
11
Al contrario, quelle femminili non si consideravano bisogni ma vizi.
12
Ancora l’Enciclopedia Treccani riporta, al termine Prostituzione la seguente annotazione: «La prostituzione
esiste come istituzione sociale, retta talvolta da leggi severe, anche tra molti popoli a cultura inferiore. Presso quelle
popolazioni in cui l’etica tribale vieta alle ragazze di avere rapporti sessuali prima del matrimonio, la
prostituzione può costituire la salvaguardia della castità delle altre donne. I Tasmaniani e talune tribù australiane
del Victoria obbligavano le vedove a darsi alla prostituzione a favore dei celibi del gruppo tribale. In questi casi la
prostituzione non può considerarsi un’azione contro i principi morali, ma un atto imposto dalle necessità sociali,
come lo scambio o l’offerta della moglie all’ospite, nelle tribù di cacciatori nomadi. Cortigiane pubbliche, per le
ragioni esposte, esistono anche tra gli Eschimesi».
Sul medesimo tema cfr. Marisa Milani, Contro le puttane, 9-10: «Se la condanna morale del meretricio era universalmente condivisa, nessuno Stato, e tanto meno quello veneziano, si sognava di perseguire le meretrici in
quanto tali, e quando una di esse rivelava particolari doti artistiche in campo letterario o in quello musicale, poteva
entrare senza alcuna discriminazione a far parte dell’eletto mondo degli intellettuali, come dimostrano i casi di
Gaspara Stampa e di Veronica Franco, che vantava fra i suoi corrispondenti principi e prelati. D’altronde le
cortigiane, almeno a Venezia, erano parte fondamentale della società costituendo un passaggio indispensabile
nell’educazione sessuale dei giovani patrizi e un elemento stabilizzatore per le unioni matrimoniali del patriziato.
I rampolli delle buone famiglie veneziane cominciavano a frequentare le cortigiane fin dai 15 anni, ne divenivano
poi protettori e amanti stabili, e amici fidati in età avanzata. Mantenere una o più cortigiane era del tutto normale
per il nobile danaroso, tanto più che spartiva le spese con gli altri amanti. La cortigiana ricca, la puttana
honorata, fastosa o sontuosa, come veniva chiamata, non era una donna pubblica ma sceglieva gli amanti in base
al loro reddito e al loro potere. La sua unica preoccupazione era quella di mantenerli fedeli il più a lungo possibile
e per questo usava abilmente le sottili arti del sesso e della gelosia, non disdegnando in caso disperato di ricorrere
all’aiuto delle tante ‘strigarie’ allora in uso…».
13
Etera, dal greco ‘compagna’. Con questo nome si indicava, presso gli antichi greci, la cortigiana. Le etere
avevano solitamente una cultura assai superiore a quella delle donne di buona famiglia, che soprattutto ad
Atene conducevano vita modesta e appartata; uscivano liberamente in pubblico, usavano eleganza nel
vestire e nell’ornarsi, e raffinatezza di modi cui talvolta si accompagnava una certa elevatezza di sentimento.
In genere non erano cittadine, ma forestiere, liberte o schiave.
256
Tra mogli matrone da cui si esigevano
solo figli di qualità16 e cortigiane
compagne da cui si pretendeva gioia e
divertimento in tutti i sensi non si sa
bene distinguere chi avesse vita
migliore pur nel momento della
maggior fortuna. Certamente le
condizioni di vita quotidiana delle
puttane di bassa lega era infame come
pure il destino di quasi tutte loro, anche
delle già famose, a fine ‘carriera’ come
ben sottolinea il detto ancora in auge
andar a putane che è chiaro sinonimo di
Amanti in una xilografia del XVI secolo
fallimenti d’ogni genere17, come ben
sentenziano persino Cadorini e Friulani coi rispettivi detti la roba de le putane, la
dura puòcie (pochi) aneCPS e bez di lat, di pene e di putane, no durin trop.CPS
Resta il fatto che il rapporto con la categoria sembra perennemente un gioco sul
filo del rasoio giacché il maschio che compra la prestazione avverte più o meno
consapevolmente il suo limite relazionale. La frustrazione che ne deriva si
manifesta superficialmente in una serie di proverbi-invettiva che mirano a invertire il
ruolo della vittima: insomma la colpa del disordine sarebbe della donna, della sua
natura vana e della conseguente cupidigia per soddisfare la quale ella è sempre
disposta a vendersi. Come dice il proverbio: Le done laora de soto, per vestirse de sora18.
E ancora l oro e l cazzo fa tirar la monaCPs, oppure a l son de sta campana (del denaro),
ogni dona da ben se fa putana.
Si arriva genericamente a considerare ‘puttanevole’ l’indole di tutte le donne:
Dove l é campane, l é anca putane (dove ci sono gonne – a forma di campana –
ovvero donne, ci sono puttane). Ancor peggiori, ove possibile, sono i seguenti:
nona mare e fia, tre putane in compagnia e trenta sartore, trenta cameriere e trenta
dame veneziane, fa in punto novanta putane19.CPs Secondo questo modo di vedere
non esisterebbe donna al mondo in grado di resistere alle seguenti lusinghe dato
che tempo, pazienza e comodità, manda in malora la castità.CPS
14
Geisha, accompagnatrice-danzatrice giapponese. Il nome deriva da gei (arte) e sha (persona). È una
istituzione peculiare della società giapponese che ha il compito di intrattenere gli ospiti. Le giovani geishe
praticano un lungo tirocinio che comprende il canto, la musica, la cerimonia del te, l’arte di conversare. Esse
allietano con la loro arte riunioni private e pubbliche vecchio stile o la solitudine del viaggiatore di passaggio.
Di norma, non sono necessariamente prostitute, ma l’arte…
15
Cortigiana, donna di corte, intesa poi come mantenuta in cambio di favori, quindi frivola, meretrice.
16
Non dare figli, ovvero non ‘produrre’ eredi (al di là di conoscerne la causa) è ancor oggi riconosciuto valido
motivo di ripudio della moglie presso molte società.
17
Il medesimo senso ha pure questo proverbio: «Saviezza di pover omo, belezza di putana, forza de fachin…
18
no val un bagatin» XTV, 115, S II,1462. - Anche in Pasqualigo.
19
Vivo alla fine del sec. XVIII, ai tempi di Pietro Buratti.
257
A livello paesano il termine puttana è usato raramente in modo diretto e vi si ricorre
solitamente in senso generico, a livello di blasone popolare o villotta, specie per le
rime in piane-putane nei paesi con terminazione in -ane come nel caso di «Andreane,
Reveane, Càupo (BL), Miane (TV),Telve (Valsugana,TN): ca∫e piane, òmeni béchi,
fémene putàne20»; ma anche a Palestrina (VE), a e a Santa Doméniga di Visinada in
Istria «da le bone (bèle) campane, i òmeni béchi, le fémene putane», a «Barco (PN) de le
rane, òmeni béchi e fèmene putane» e a Tonadìc (TN) dove hanno «ca∫e piane, fémene
putàne, òmeni strigoni, to∫at lazaroni!». Assimilabili anche i detti con ca∫in, tipo
quelli riferiti a Sant’Antonìn (TV) e a San Stin (VE) dove «... ogni strada l é n ca∫in»!
Facili le rime in -or come per San Fior o Vidor (TV) dove vivono «òmeni béchi e
fémene senza onor». Analoghi sono gli epiteti diretti, come in Putàne da Port
(Portobuffolè) e, in Alto Friuli: «Son lis Sclavis gran putanis, / che mai mai no àn un
fin; / ma fra dutis a resistin / lis putanis di Tulmin21». Curiosa la canzonatura (invidia
per l’altrui abbondanza) nei confronti dei paesi in cui esistevano due fontanili come
accade nei dintorni di Mel (BL): «A Zotier l é dói fontane: una par le sante e una par
le putane!». Così pure in Comelico (BL) l’antagonismo gioca brutti scherzi: «A Dudlé
le rufiane, a Padla le putane». L’insinuazione nelle villotte, comuni in tutti i paesi per
canzonare le ragazze, può rimanere generica o farsi specifica pur utilizzandosi le
stesse frasi per località anche distanti tra loro.
Le mule de…
(nel TriestinoNLC)
g à l cercio fin a l culo;
in panza le g à el mulo
e no le sa co chi!
Le to∫e da…
ghe pia∫e la panada,
ghe pia∫e l pan bogìo
e le fa béco so marìo!
Le mule de…
(nel TriestinoNLC)
le porta l Cristo in pèto;
le g à l marìo che nàviga,
l amante soto l lèto!
Ce usance che àn metude
lis fantatis dal comum:
nèlin fa lis verginelis,
e la dàn ad ognidun.
(in FriuliGCR)
(nel TrevigianoGLS)
Le to∫e da…
no le à ne cul ne tete:
le ghe fa bon a l prete
da drio l confesional!
S o mi ài fàt ne cotulute.
Come l astu pajade tù?
N o me l àjo uadagnade
cu la mè panzute in sù!
(in FriuliGCR)
(nel Veneziano)
La gioventù usa comunque altri modi per ‘sputtanare’ le ragazze locali, come quello
di lasciare particolari segni fuori della porta delle loro case, in occasioni di specifiche
feste primaverili: ad esempio foglie di rumex acetosa, ossia lengua de vaca (per
vacca); il piolo tappabuco della fontana (per fottuta) e così via.
20
O campane, con analogo senso. Cfr. Secco, Di che pae∫ e 6?. A Venezia, che genericamente «xé l reame de
i frati e de le putane» e in «tera venesiana, dove tuto se trova fora che mona sana», se ne hanno diverse
collocazioni: «In Cioverè gran bechèri, / a Rialto gran spizieri, / a Samarco le gran dame / a San Luca gran
putane » oppure. «San Samuel, picolo e belo, / poca zente e asai bordèlo», mentre «Quele de Corte Nova / le
xé in leto co la pasiensa: / so marìo no ghe di∫ e gnente, / le fa i fioi alegramente»
21
Cfr. Ostermann, 36.
258
Dòna che gira la testa o mena l anca,
se putana no l é, poco ghe manca!
Donna che si gira a guardare o ancheggia
se non è puttana, poco le manca!
Dona che tropo zira in strada,
la ciavarè se no la xé ciavada.CPS
Donna che gira troppo per strada,
presto l’avrete se già non l’avete fatto.
Dona che ride a dirghe bela,
la strada è fata per la capela.CPS
Donna che ride a dirle bella,
si lascia presto fottere.
Dona che se asa palpar le tete,
no sa tégner le gambe strete22.CPS
Donna che si lascia palpeggiare i seni,
non sa tenere le gambe strette.
Auguste Rodin, Cortigiana,1900 ca
L’indole ‘puttanesca’ della donna pare non aver limiti nella fantasia del mascho,
come sottolineano ancora molte altre sentenze vive sicuramente nell’Ottocento:
Tre calivi fa na piova,
tre piove na montana,
tre feste da bal fa na putana!23
Tre nuvole fanno una pioggia,
tre piogge una alluvione,
tre feste al ballo, una puttana!
Dona biscazile,la va da l uno al mile24.
La puttana non ha limite in amanti.
La mona xé na reliquia benedeta:
chi la vol veder descoverta,
bi∫ogna che ghe faza la so oferta.CPS
La mona è come una reliquia benedetta:
chi la vuole vedere scoperta,
deve fare per lei una offerta!
A intrar ghe vol inzegno,25
a l insir, denari o pegno!TXV, 17, AI,7
Per arrivare a possederla occorre furbizia,
per uscirne, soldi o impegno!
22
Anche in Pasqualigo. Il concetto ritorna pure tra le villotte friulane (cfr Arboit, 248, per Anduis, di Vito d’Asio):
«I ai palpadas las tetinas / no mi à nencia conosut; quand ch i ai dada cognosinza / ai palpat là ch ài volut» (le ho
palpato le tettine e non mi ha riconosciuto; quando mi sono presentato poi, ho toccato là dove ho voluto).
23
In Ninni: «tre calighi fa na piova, tre piove fa una brentana, tre feste da balo, na…» In Pasqualigo: «tre nebie fa
na piova, tre piove fa na brentana, e tre festini fa na putana» e ancora: «Tre gioze fa na piova, tre piove na brentana,
tre bali na putana». Si noti l’insistente accostamento ballo-puttana, sottolineato con costanza dai predicatori, ad
ogni festa comandata, fino a tempi assai recenti.
24
In Pasqualigo: Co la dona deventa biscazile, la va de cazzo in cazzo fin a mile.
25
Il proverbio sottolinea ulteriormente la diffidenza della donna nei confronti del maschio. Se l òn l é cazador, ovvero
tende a correre dietro a tutte le donne, la femmina è restia a concedersi quando non creda in una relazione duratura;
ciò per una istintivo bisogno di sicurezza in funzione della possibilità di gravidanza e mantenimento della prole.
259
Tra i difetti attribuiti alle puttane, oltre alla falsità che lo stesso Aretino ricorda
citando il coevo proverbio sugli occhi piangenti delle donne26 ovvero le puttane
con uno, le maritate con dui e le moniche con quattro, inconsistenza, inaffidabilità
e infedeltà restano parecchio sottolineate nonostante rientrino nella logica del
mestiere.
A la putana ghe pia∫e un cazzo solo:
quelo che no la paga.27
Alla puttana piace un uomo solo:
quello che sceglie senza farsi pagare.
Amor de putana e carità de frate,
le xé co∫e che more apena nate.CPS
Amore di puttana e carità di frate
sono cose di poca durata.
Amor de putana e vin de fiasco CPS
la matina l xé bon, la sera l xé guasto.XVI, 17, AI, 4
Amore di puttana e vino di fiasco,
al mattino son buoni e a sera già guasti.
Chi va al molin s infarina;
chi va a putane se rovina.CPS
Chi va al mulino, certo, si infarina;
chi va a puttane, certo, si rovina.
Chi serve a putane, perde tempo;
chi magna scalogne, caga vento.XTV
Chi va a puttane perde tempo;
quanto chi mangia cipolle, scoreggia.
Amor de putana, odor de zàngola.CPS
Amore di puttana, odore d’acido.
L’atteggiamento di diffidenza verso le prostitute resta infine evidente negli altri
cinquecenteschi adagi riportati nel libro Le dieci tavole dei proverbi.
Dio te guardi da: 139, 1753
putana de bordello,
frate da mantello,
barcaruol da traghetto,
prete da Grossetto,
barbier salarià,
vescovi senza intrà
e da zuogo de i tre dà! (dadi)
e
Asai vadagna
chi putana perde! 17, AII, 15
Stampina del Cinquecento che illustra
l’attività di meretricio e dove è interessante
notare anche la presenza del giullare (con lo
scettro culminante con la testa del diavolo)
26
Pietro Aretino, Ragionamento della Nanna e della Antonia, 181; e ancora, 186 «Insomma le puttane hanno
il mèle in bocca, e in mano il rasoio e ne vederai due leccarsi da capo a piè» perché «a una puttana non parrebbe
esser puttana se non fusse traditora con grazia e privilegio; e una puttana che non avesse tutte le qualità di
puttana, saria cocina sanza cuoco, mangiar sanza bere, lucerna sanza olio, e maccaron sanza cascio».
27
Cfr. Pasqualigo, La carne più cara xé quela de vaca. In Friuli: La ciàr plui ciare j é ché de vace.
260
PUTANE E CA IN
ca∫in e fortuna no i marc(i)a a una
Il termine più usato per indicare la donna che offre il suo corpo a pagamento è
puttana, dispregiativo di putta, ragazza1. È analogo anche nel francese antico,
pute, putaine. Con l’andare del tempo2, su termini ‘neutri’ come appaiono
meretrice (anteriore al 1294) e prostituta, bona donna – da cui ‘figlio di buona
donna’ – (XIV sec.), prevalgono quelli di tipo insolente: di malavita (1342),
bagascia (1363), mondana3 (1367), puttana o femmina da conio (Dante), sgualdrina
(1598), zambracca (1492); baldracca (Aretino, 1534), bardassa (XIV sec.),
donnaccia (1584), di malaffare (1653), pubblica (1729), mignotta (1791), di mondo
(1869). Al Novecento risalgono malafemmina (1900), donnina allegra, di facili
costumi, di giro (1905), dissoluta o trista, perduta (1916), di quelle ‘signore’ (1920),
peripatetica (1923), lucciola (1930), cocotte (alla francese), donna di piacere, di
strada (1935), segnorina (1944), passeggiatrice (1950), squillo (1954), battona
(1959), donna di vita, da marciapiede, zoccola4. A livello veneto, più popolare e
locale, sono in voga da tempo immemorabile troia, lùia, vaca5, vecia carampana6.
I luoghi di esercizio dell’attività di meretricio sono stati molti. Dalla strada al
tempio, dalla casa privata segreta a quella pubblica tutelata dallo stato.
La nomenclatura è altrettanto variegata: si va da lupanare, dal latino lupanare(m),
da lupa nel significato di meretrice7, a postribolo, dal latino tardo prostibulum,
derivato di prostare, essere esposto in vendita (1364 ca.). Bordello deriva dal
francese antico bordel, casetta, derivato dal franco borda, capanna di assi.
1
In Veneto puto, putin, putina (bambino/a) putèl, putèla (ragazzino/a), puta da sen (ragazza assennata).
Cleugh, 177, lo fa derivare da puteus, pozzo, presso il quale si ritrovavano le prostitute di strada inglesi.
2
Si indicano tra parentesi gli anni in cui compare per la prima volta l’uso del termine.
3
Donna che conduce una vita frivola e galante; meretrice di lusso. Anticamente significò meretrice in genere:
imberrettate come le mondane vanno (Sacchetti).
4
Dal gergo romanesco, probabilmente derivato di un latino volgare *sorcula, diminutivo femminile del
classico sorex-icis, sorcio, corrottasi in zoccola. Non si dimentichi che il più famoso soprannome della lei, a
Roma, è per l’appunto sorca, sorcia.
5
L’uso del termine dispregiativo, vacca, appare localmente anche nella dialettale Egloga Pastorale di Morèl
(primi del Cinquecento). Nel corso della vicenda narrata, la ragazza bramata dal giovine pastore scappa di
casa con un altro amante. Il fratello di Cetre, il giovane tradito, incontrando il padre di lei così lo apostrofa:
«Addio barba! (Meneg) - O benvegnù Morel - / (Morel) Che zéyo mo fagan da chilò sù, / haesào perdù per sort
vacca o vedel? (Meneg):- Credo ben cert che na vacca é perdù, / da do pié, no da quattro, in la malora, / e te
vuò dir quel che m é intravegnù». Cfr. Egloga pastorale di Morel, a cura di Giovan Battista Pellegrini, Trieste
1964; ristampa Conegliano (Studium coneglianense), 1975. Per quanto riguarda luia e troia, sono i nomi
dialettali della scrofa veneta.
6
Dal nome di una calle veneziana notissima per essere ghetto di puttane. I nobili Rampani, nel XVI secolo,
affittarono alcune loro abitazioni, presso Rialto, ad un certo numero di prostitute che non riuscirono poi ad
allontanare. La zona diventò così nota come ghetto di puttane di bassa lega: cà rampane fu soprannominata
popolarmente la calle e carampane le sue prostitute.
7
Ciò detto, si può dubitare della mitica ‘ lupa’ da cui furono allattati Romolo e Remo.
261
Pure da casa deriva casino, inteso in passato casa signorile di campagna (casino
di caccia, casino di pesca) anche sinonimo di circolo, come casino dei nobili,
casino da gioco, luogo riservato a gente particolare; in questo senso anche case
chiuse8 e non disponibili a tutti. Vi potevano accedere infatti maschi al di sopra
dei diciott’anni. Casa di tolleranza9, casa di piacere ovvero casino, ca∫in, è il
nome, in voga nell’Ottocento e nello scorso secolo, di questi luoghi che rimasero
sotto il controllo dello Stato dal 1883 fino al 20 settembre del 1958 quando, con
l’entrata in vigore della legge Merlin10, essi furono dichiarati fuorilegge.
La chiusura dei casini rappresentò, a livello sociale, un trauma non indifferente
e ciò per più di un motivo. La loro11 pratica, se non obbligatoria, rientrava
spesso tra le ‘prove’ di raggiunta maturità del maschio e non a caso, fin poco
oltre la metà dello scorso secolo, i periodi di coscrizione o leva militare
coincidevano spesso con tale iniziazione.
8
Vi erano case ‘chiuse’ per clientele di ogni età, censo, istruzione, condizione sociale. Ve n’erano di
miserrime, da poveracci, ma anche per i ricchi, con arredamenti sfarzosi, donne di ogni nazionalità, giovani,
bellissime, educate, anche istruite e adeguate alle esigenze borghesi.
9
Risultano interessanti, in merito, alcune considerazioni di carattere ‘filosofico’ inserite nella relazione,
presentata alla Direzione Militare di Sanità, dal capitano medico Angelo Bellini a Milano nel 1916, sul
tema La vigilanza del meretricio nel territorio del Corpo d’Armata di Milano (cfr. Franzina 155.156): « Non
è dubbio che qui ci troviamo di fronte ad un problema più che mai scabroso, poiché, essendo incontrastato
che la prostituzione è un male sociale, parrebbe ovvio che lo Stato non debba e non possa riconoscere chi è
agente precipuo di questo male, vale a dire le prostitute. Il riconoscimento implica diritto di funzione; ed
il diritto trae con sé il dovere statale di protezione; e ‘proteggere’ può essere eventualmente interpretato
sinonimo di ‘favorire’, ‘sostenere’, ‘raccomandare’. Perciò tutti gli Stati rifuggono dalle parvenze di
riconoscere la prostituzione; e non potendola sopprimere per forza di cose e per tema di incorrere in mali
peggiori, ricorsero all’eufemismo del verbo ‘tollerare’. Ma non è chi non iscorga tutta l’ipocrisia che è
nascosta in quella sostituzione verbale, quando si consideri che, in instato di fatto, la tolleranza si risolve
in un reale riconoscimento non soltanto della prostituzione, ma anche del lenocinio. Si tollerano le
prostitute clandestine colla stessa aria come si dicesse loro: sappiamo che agite male; ma non potendolo
impedire, vogliamo che si supponga che non vediamo quel male che fate. Si tollerano le prostitute accolte
nei postriboli, perché anche quei luoghi si devono supporre come non visti dagli occhi casti dell’autorità
vigilante; ma nello stesso tempo si rilascia regolare autorizzazione di tenere le case ‘di tolleranza’ a lenoni
od a mezzane, che sfruttano nel modo più losco la carne altrui. Ed è colla semplice trovata del verbo
‘tollerare’, che si crede di salvaguardare il dovere e la dignità dello Stato! Diciamolo nettamente! Un tal
modo di procedere manca di franchezza e di sincerità. Quando si ammette che la prostituzione non può
essere soppressa, meglio vale riconoscerla nel diritto comune; poiché solo dal riconoscimento di questo
diritto possono scaturire i doveri che lo Stato imporrà alle meretrici riconosciute, a tutela della società».
10
Questa legge prese il nome dalla anziana senatrice socialista, ex combattente partigiana, che la portò
avanti per una decina d’anni prima di convincere i colleghi alla sua approvazione, e non senza remore.
11
In ogni città ne esistevano una o più di queste ‘case’. Ufficialmente, nel 1898 se ne contavano 1115 (con
5244 meretrici); nel 1908, 882. Nell’ultimo dopoguerra, nel 1948, esse erano 3400 mentre, nel 1958, 2700,
con circa 7000 ‘operatrici’. Il dato è comunque relativo poiché riferito ai postriboli riconosciuti, per ragioni
di Salute Pubblica, dallo Stato che era interessato a vigilare affinché nei casini vi fosse una stabile assistenza
medica a scopo preventivo. Il dato è quindi parziale non tenendo conto del gran numero di prostitute
‘irregolari’ che esercitavano per strada o in luoghi diversi. Al giorno d’oggi si calcolano ‘impiegate’ nel
settore globalmente sulle sessantamila donne, quasi tutte ormai straniere, provenienti dalle regioni più
povere del mondo, specie dall’Africa ma anche dai paesi dell’Est Europeo. Il problema di riaprire le ‘case’
o di inventare luoghi equivalenti di esercizio è ancora in auge, più o meno con le medesime problematiche
del passato.
262
Di frequente la prova era spronata dallo stesso genitore maschio, magari
frequentatore del medesimo sito, che trovava ‘didattica’ e preparatoria tale
esperienza in ragione di un futuro buon andamento matrimoniale del proprio
erede! L’assoluta naturalezza con cui la cosa accadeva la dice lunga sulla
valutazione della controparte e sull’assioma donna-puttana già evidenziato.
Pare oltretutto che neppure si dovesse confessare al prete tale azione giacché
non rientrava nel catalogo dei peccati commissibili12! Più donna ‘oggetto’ di così
non si può. Per molti la visita al casino era un’abitudine non necessariamente
legata a un vero e proprio rapporto carnale, ma a un rapporto umano, anche se
spesse volte (soprattutto in gruppo) veniva vissuto goliardicamente13. In
qualsiasi caso, per evitare che una frequentazione continua potesse far sorgere
pericolose amicizie, l’organizzazione delle
case prevedeva normalmente la rotazione
delle ‘bellezze’ ogni quindici giorni anche se
non per tutte ciò accadeva. Ecco una immagine che ci porta diretti nell’atmosfera di
quell’ambiente14:
«Sora iera la rufiana, drio de un banco, che la ghe
domandava i documenti a quei che no pareva che i
g abi i ani… e la stava atenta che no ghe vegni
drento inbriaghi o indecenti. Sora la testa, tacà sul
muro, iera le ca∫ele co i numeri de le camere che
serviva per comunicar. Se podeva far la dopia, la
tripla, mez ora, una ora e via vanti. Ma co veniva
un cliente fora norma, podeva esere un prete, o un
sai rico o una autorità, o chi che no voleva farse
conoser, la rufiana serava la tenda de la sala
comune e la faceva vegnir drento el cliente ne la
saleta in parte. La incasava la flica e la ghe dava el
controvalor in marchete a la putana15. E ncora,
ogni tanto, te la sentivi zigar: – Alè muli, ndemo in
càmara, no stemo dormir, no vegnir far flanela! –»
12
Potendo omettere di confessare la frequentazione, implicitamente non si ammetteva il ‘peccato’. Fare e tacere
(o non domandare, dall’altra parte) consentiva di restare in una specie di spazio di pseudo-rispetto reciproco in
cui ciascuna parte dava a credere all’altra di condividere l’opinione sul tema; l’effetto di questa cortina fumogena
lasciava così nel vago i difformi punti di vista tra una buona parte della società civile e il mondo conservatore
ecclesiastico. Oggi la cosa sembra ripetersi avendo al centro i temi del divorzio, della contraccezione ecc. Uno
scontro duro e diretto tra le due ‘morali’ in gioco potrebbe portare a disaffezioni poco ‘convenienti’.
13
Questo è nel dire comune di chi ha frequentato i casini, e non è certo una opinione personale.
14
V. Fabris, Storia di storie di casini triestini, 30.
15
Le marchette potevano consistere in bollini o gettoni con funzione di sostituti del denaro.
263
Il rapporto
pare
valutato dal
maschio come
puro
scambio
merceologico
senza alcuna
necessità
di altro tipo
di rispetto.
Le sole
preoccupazioni
riguardano
le possibili
conseguenze
da malattie
connesse all’atto
sessuale.
E…
la puttana
come donna?
E che c’entra!
la puttana
è puttana,
e ancor di più,
la puttana
è allegra,
generosa
e persino felice
di potersi donare
al nuovo maschio
in versione di
‘nave scuola’! 16
Egon Schiele, Nudo femminile seduto, 1914
Ed ecco allora la scena dell’incontro amoroso, così come fissata nella memoria di
un giovane praticante triestino affezionato17:
«Co te ieri in camera la te lavava l u∫el, la te lo strucava de soto in su∫o par vèder che no
scoli e la te siringava in te l bu∫eto permanganato18. Iera un controlo minuzio∫o de la capela
che no la g abia tai o ùlcere; solo dopo veniva la domanda de òbligo, né petulante né
insistente: – te vol far la dopia? – Che po no voleva miga dir che te fazevi do… iera solo un
fià più longo. – Come femo la po∫izion? – E de solito la te pasava de lingua che cusì te
vegnivi prima e tante le iutava co i urli e co i gèmiti. Tuto finta, ma la testa iera là! E in
ultima la te meteva un deo in te l cul movendolo pian pian, ma co la sentiva che iera l culmine
de i gusti, co sapienza, la andava più forte e finiva che te schizavi òsi de pèrsigo, come che
se di∫eva. Iera finì: ancora una di∫infetada co la siringa de permanganato e ela la se fa∫eva l
bidè, voltada contro l muro, co le gambe verte e l culon che ∫bordava.
Cusì finiva che te contentavi anca l ocio e, se ghe scampava una pisada, anca la recia.
Dolente, lora, te se lumavi zo per le scale per pasar de la cassa.
E se sa, pagar no ∫é mai un pia∫er».
Dal mare al monte per confrontare le usanze e sorridere su un altro coincidente
quadretto dell’eccellente poeta bellunese Ugo Neri, avente come protagonista
un fantomatico Gigi ∫brega, ottimo nome di battaglia per studenti ‘arditi’!
Ancora dovenòt ma co na tega
da meter veramente sojeziòn
da Lanta, raza Piave, Gigi ∫brega,
coi ani e co l o∫el de prescriziòn
e na tremenda voja de la mona,
co sot al braz al libro de latin
e i schei del sàntol prete e de so nona,
inveze de studiar l andea in ca∫in.
La Nadia, che l mestier la fea pulito,
che fuse Toni, Nani, Checo o Gigi,
co i la montea la se vardéa l sofito
o come gnent la ro∫eghéa bagigi.
Ma n dì de luna piena an fià invojada
da l anda, l óga, l estro del torel,
fursi na s’ciantenina inamorada
del nostro Gigi ∫brega tut o∫el,
16
A livello di espressioni ‘popolari’ non mi risultano elementi riferibili alla prostituzione maschile sul quale tema
si rimanda ad altri volumi in bibliografia; cfr. Cleugh, 169, La prostituzione.
17
18
Cfr. Fabris, Storia di storie di casini triestini, 35 e 38. - Si tratta di un disinfettante usato per profilassi.
264
l à scominzià a sofiar e oltar i oci
a morsegarlo tut da sot in su,
a strenderlo co i det e coi denoci,
a remenar le ciape sot de lu.
«Oh Gigi, stronzo, dàmene de pì...
fràchelo tut... no sta tirarlo fora.
Che gusto... che piazer, morir cusì.
Ojuto, mare mea, che gnene ancora...!»
Al Gigi, pore fiol, par gnent u∫à
a sto sistema novo, a sta menada,
inpensierì dal fato e spa∫emà
là trat al cul indrio co na frenada
e sora la so bela in denocion
restà de stuc, de merda, come n pal,
col tubo grant e gros a picolón,
la dita: Nadia mea, te gnénlo mal?
La Nadia, gran putana, ma de cor,
par gnent impensierida de sta fin,
tirada la marcheta dal so amor,
la ghe à lavà l o∫el sul lavandin.
265
Con un salto all’indietro di quasi mezzo secolo andiamo a sbirciare in un’altra
poetica vicenda similare
DIALOGO DI DUOI VILLANI PADOANI19
sonetto de un villan che scontra un altro e dice
Sto carneval pasò, ch a fu a solazo
a le Venie∫ie, andié in Carampane
per darme del pia∫er con quele anguane20
ch è ivelò. Ascolta, el me Bertazo.
Il carnevale passato, che fui a divertirmi
a Venezia, andai in Carampane
per darmi piacere con quelle fate
che sono lì. Ascolta, Bertazzo mio.
A viti una ch éa un bel mostazo,
molto pì bela che n è le pavane.
Pota, le è pur polìe ste vigniciane!
La parea una fegura fata a guazo.
Ne vidi una che aveva una bella faccia,
molto più bella delle padovane.
Potta, sono pur fini queste veneziane!
Pareva una figura dipinta a guazzo.
Cola m ave ba∫ò, la di∫e: «Zenso,
andon in cà e butónse sul leto,
ànema dolce, core∫in d amore».
Come mi ebbe baciato, disse: «Zenso,
andiamo in casa e buttiamoci sul letto,
anima dolce, cuoricino d’amore».
Co l alcié su, a ghe viti uno inzenso
atacò la cami∫a [co] un zibeto
de merda e sangue marza, e per l odore
Alzate le gonne, le vidi un incenso
attaccato alla camicia, con un profumo
di merda e sangue marcio, e per l’odore
de quel stragno pudore
me se voltè l magon e gomitare
a comenzié zò ch éa magnò a di∫inare
di quella strana puzza
mi si voltò lo stomaco e a vomitare
cominciai ciò che avevo mangiato a desinare.
E per poérme consolare
vini a Rialto a una spiciaria
e lì mastegié un soldo de tre∫ia21.
Poi per potermi rimettere in sesto
venni a Rialto in una farmacia
e lì masticai un soldo di confetti.
19
Antonio B. L. (non identificato altrimenti), Dialogo di duoi villani padoani, 423, 424. Cerchiamo ora di
dare anche una immagine dell’ambiente e delle persone in cui i nostri villani si imbatterono: «Non si può
facilmente descrivere come elle s’acconcino la testa, né si veggono alle finestre, frequentando elle piuttosto la
porta et la strada per tirar nella ragna quanti passano. Quivi si trattengono cantando canzonette amorose, ma
con poca gratia et conforme alla loro vile conditione, facendosi di più quasi tutte sentire con la voce roca» (cfr.
Vecellio, Meretrici de’ luoghi pubblici); Altro luogo di incontro con le puttane veneziane era l’osteria: «e il
primo dì che un oste apre la taverna, senza metterci scritta s’intende che ivi si beve, si mangia, si giuoca, si
chiava, si riniega e si inganna» (Aretino,102). Tra le altre cose rimarcabili nell’abbigliamento delle ruffiane,
all’inizio del XVI secolo, ci sono le vesti gialle «azoché da tutti possino essere cognosciute» e gli zoccoli di
legno ricoperti di cuoio alti almeno un piede (fino a una cinquantina di centimetri).
20
Le anguane sono mitiche ninfe che vivono presso l’acqua (da cui acquana, agana) spesso rappresentate coi
piedi di capre o con più mammelle ma dal viso bellissimo e atte alla vita materna e casalinga.
21
La spacconeria giovanile nell’andare a puttane è ben rappresentata anche da una serie di strofe inserite
218 solitamente sull’aria di altri canti simili al tipo qui proposto in allegato sonoro * (Quatro cavalli bianchi, dal CD
Il finestrello del gruppo Voci di Confine di Voghera; Archivio P. Rolandi) una cui strofa così recita: «fin che avevo
soldi soldi ne le mie tasche pagavo le ragazze per fare l amor». Nelle versioni trivenete i testi sono similari: «Fin
che g avevo tàleri / tàleri ne le scarsele / tute le bimbe bele / facevano l amor (fin che gavéa palanche / bèsi ne le
scarsèle, / con le banbine bele / facevo l amor)». In Starec, Canzoniere Triestino, 238, c. 237: «Quando g avevo
dòlari, / dòlari ne le scarsele / tute le mule bele / vegniva da me».
266
La Venezia libertina del Cinquecento, le sue puttane e i suoi personaggi trovano nei
versi dei Venier degli straordinari cantori che, specie nel giovane Maffio, arrivano
ad una poesia vera ed efficacissima nonostante la scabrosità delle situazioni
affrontate che mostrano, peraltro, come esse rientrassero nel costume del tempo.
Lo dimostra bene anche la composizione che segue nella sua cruda descrizione22.
M ò consumà aspetando te, ben mio,
più che non se consuma un pegno in Ghetto
e più che la speranza d un falìo.
ò magnà tutti i fiochi a l fazoletto
da rabia, da dolor e da martelo,
pasizando e aspetando te, ninetto.
Quanti bateva, «ecco il mio nino belo!»
Quanti spuava e subiava in [la] cale,
«Tira – di∫eva – l è el mio pùarèlo».
Tanbem, ben mio, ti m è zonto a le spale.
Moro∫o bello, ti xé vegnù in nana,
che a pena m ò cavà le calze zale.
E me gèra vegnù la zùliàna:
co sentì dar el bòto de le sìe,
credeva dover tior la càsia in cana.
Dove stava cargà de fanta∫ie
e con la mia carpéta a armacòlo,
co ti me vedi, e pi∫olava in pìe.
No voleva più pe∫o a l mio bigòlo.
S ti stavi un poco pì, gèra pì straca
che no è un caval d un tiraor dal Dolo.
Le làgrime m à ben lavà la biaca,
e i rizi si è disfati da i sospiri
e l martelazo m à ben fato fiaca;
ma pur sia laudà Dio, che i miei martiri
con un solo saludo i xé pasai.
In efèto st amor fa de bei tiri!
Mi sono consumata aspettandoti, ben mio,
più che non si consuma un pegno in Ghetto
e più della speranza di un fallito.
Ho mangiato tutti i fiocchi al fazzoletto
da rabbia, da dolore e da martello,
passeggiando su e giù e aspettandoti, ninetto.
Sentivo bussare «Ecco il mio nino bello!»
Sentivo sputare o fischiare giù in calle,
«Apri – mi dicevo – è il mio fantolino».
Alla fine, ben mio, sei giunto di sorpresa.
Moroso bello, sei venuto in nanna,
che a malapena mi sono tolta le calze gialle.
E mi era venuta la febbre:
quando sentii battere le sei,
credevo di dover prendere la cassia in canna.
Così stavo immersa nelle mie fantasie
e con la mia gonna ad arma collo,
come mi vedi, e pisolavo in piedi.
Non volevo più peso al mio bicollo.
Se tardavi un poco più, ero più stanca
d’un cavallo da alzaia delle barche di Dolo.
Le lacrime mi hanno levato il trucco,
i riccioli si sono disfatti per i sospiri
e il gran martello mi ha fatta fiacca;
ma pur sia lodato Dio, che i miei martiri
con un solo saluto sono passati.
In effetti questo amore fa dei bei tiri!
22
I versi sono tratti dalle Rime di Maffio Venier (cfr. Milani, Contro le puttane, 55-60). Oltre all’evidente valore
poetico, il brano sintetizza molti dei comportamenti e degli ambienti veneziani fin qui accennati. Ci conferma,
ad esempio, il colore giallo (le calze) imposto alle cortigiane dalla Serenissima, l’uso curioso della cassia, la
Cassia Fistula, come medicinale (le febbri si curavano anche coi lassativi dato che purgarse era considerato un
toccasana per qualsivoglia problema di salute). Dai rumori per strada, ai richiami amorosi, alla descrizione
particolareggiata del fare all’amore esaurendo ogni desiderio dell’amante, tutto viene descritto con la capacità
di usare le parole come ammortizzatori della carnalità pur nell’esaltazione della passionalità. Si rimanda al
libretto appena accennato, per poter considerare un panorama ben più vasto del fenomeno delle cortigiane e
degli altri ‘vizi’ imperanti nella Venezia del XVI secolo. Lo scandalo era comunque ‘familiare’ dato che «chi non
à putana o povero o matto in parentà, è nasciuto de lampo e de ton». XTV, 43, C IX, 366
267
Pensa, ben mio, co ti me sarà a lai
e che staremo streti in un gropeto,
se refaremo i miei dani pasai.
Pensa, ben mio, quando mi sarai a lato
e che staremo stretti in un nodo,
ci rifaremo dei miei danni passati.
Tìrate adonca in qua, caro nineto,
adèso che ò butà via la carpéta.
In bon ora, no ò tolto el fazoleto!
Làsame andar, sta ti soto a la pieta.
Se ben l è scuro, el trovarò in t un tratto,
ché i xé sul fondo de la caseleta.
Li ò catai. Oh, che fredo, ciape,
e bato i denti per ti! Tiò la to putina.
Dove sestu? Vien qua, che no te catto.
Meti un puoco la man su la monina.
Oh, fio mio caro, ti è tuto agiazao!
Mostrame se ti à freda la lenguina.
Oh can, mo che salivo inzucherao!
Che fastu? Stà, giotón, con quei to dei.
Tira fuora de là, che son in cao.
Guarda, te magnarò tutti i cavei.
Can, te vògio zuzar tutta sta bocca.
E te voio pupar sti to caviei.
Senti mo qua, ben mio, co scoto. Toca.
Ohimè, son morta! Vòi vegnir de sora,
che in un tratto faremo el bèco a l oca.
Tira la coltra in zo, che no me sòra.
Mèttite el mio cusin sotto la schena.
Sta saldo, pare, così se lavora.
Stà fermo ti e lassa che mi mena.
Zàfame qua in te i fianchi e tira zo∫o.
Ohimè, son morta! O santa Polisena!
Penzi un puoco anca ti, caro moro∫o.
No tanto forte. Tiò che l é cazùo!
Maliazzo, mi era pur vegnua zo∫o.
Tirati dunque in qua, caro ninetto,
adesso che ho buttato via la gonna.
Alla buonora, non ho preso il fazzoletto!
Lasciami andar, sta’ tu sotto il lenzuolo.
Se bene è scuro, lo troverò subito,
che sono sul fondo della cassetta.
Li ho trovati. Oh, che freddo, accidenti!
Batto i denti per te! Prendi la tua bambina.
Dove sei? Vieni qua, che non ti trovo.
Metti un po la mano sulla mia monina.
Oh, figlio mio caro, sei tutto ghiacciato.
Mostrami se hai fredda la linguina.
Oh cane, ma che saliva zuccherata!
Che fai? Fermo, birbante, con quelle tue dita.
Tirale fuori di là, che sono appena all’inizio.
Guarda, ti mangerò tutti i capelli.
Cane, ti voglio succhiare tutta questa bocca.
Ti voglio poppare questi tuoi capezzoli.
Senti, ben mio, senti come scotto. Tocca.
Oh, son morta! Voglio venire sopra,
che in un momento faremo il becco all’oca.
Tira in giù la coltre, che non mi raffreddi.
Mettiti il mio cuscino sotto la schiena.
Sta’ saldo, caro, che così si lavora.
Sta’ fermo tu e lascia che io meni.
Afferrami qua sui fianchi e tira giù.
Ohimè, son morta! O santa Polisena!
Spingi un poco anche tu, caro moroso.
Non tanto forte. Ecco che è caduto!
Malignaccio, ero pur venuta giù.
Sì, sì, me vògio ben voltar de drio!
Ma de in bona fé no, che per sta volta
ti podaressi pianzer el zodìo.
No, misier no, che no vòi far. Ascolta.
Sia maledetto chi à trovà st u∫anza:
tuta la mia dolcezza m è stà tolta.
Sì, sì, mi voglio proprio voltare di dietro!
Ma certo che no, che per questa volta
potresti fare il pianto ebraico.
No, signor no, che non lo voglio fare. Ascolta.
Sia maledetto chi ha trovato quest’uso:
tutta la mia dolcezza mi è stata tolta.
268
No è mo megio far panza con panza?
Mo tiò, pota de mi, no te instizar:
se no basta un cotal, fica una lanza,
Pota, premo arecòrdate ben prima a bagnar.
E sora el tutto, co averem po fatto,
che sie secretto e no pettegolar.
Potta, e sì mi torò un cotal sì fatto?
Che sarà, laro, co ti me avrà squartà?
Saràstu po contento, ah, can ingrato?
Ben, quella mia vestura che sarà?
Me darastu pì ∫longhe, bu∫iaro?
Di’ mo, me l averòio guadagnà?
Fa pian, buzeronazo, porco, laro!
Bàgnalo prima ben in te la mòza,
che l no vada in te l culo tanto amaro.
Orsù, tiò, can, el fronte. Senti che l gióza.
Mèrita ste fadighe altro che no∫e!
L é altro che insir fuora d una póza.
Mò penzi pian, se no alzarò la vo∫e
che me sentirà tuta sta contrà.
Pian, te digo, che crìo, per santa Cro∫e!
Non è meglio fare pancia con pancia?
E prendi, potta di me, non ti arrabbiare:
se non basta un arnese, ficcaci una lancia,
ma ricordati bene di bagnarlo prima.
E soprattutto, quando avremo fatto,
che sia segreto e non pettegolare.
Potta e io mi prenderò un tale arnese?
Che sarà, ladro, quando mi avrai squartata?
Sarai poi contento, ah, cane ingrato?
Bene, di quella mia veste che sarà?
Mi darai più rinvii, bugiardo?
Di’ mo, me l’avrò guadagnata?
Fai piano, buggerone, porco, ladro!
Bagnalo prima nella gatta,
che non vada nel culo tanto amaro.
Orsù, ecco, la fronte. Senti che gocciola.
Queste fatiche meritano altro che noci!
È altro che uscir fuori da una pozza:
Spingi piano, sennò alzerò la voce
che mi sentirà tutta questa contrada.
Piano, ti dico, che grido, per santa Croce!
Ah can sasin, t àstu mo contentà?
T àstu mo sazìà? Para pur via.
Co ti me averà guasta, che sarà?
Saziate de sta carne, vita mia.
Mo che mazor contento xé del mio?
Che far? Dir che per ti mi moraria!
Pare, te salo bon co∫ì de drio?
Metime una manina in la muzeta,
che voio far an mi bonin, per Dio.
Sfregola ben drean ti, e tieme streta.
Ponta là i pie in te l muro. Alza sto brazo,
ché ti me farà bruna a la to teta.
Ah can, adesso an ti fà, che mi fazo!
Tiò pur via, si ti vol, la to manina.
Ohimè, magno el cosin, magno el stramazo!
Co me xé vegnù freda la lenguina!
Co el core∫in me bate! Or su, in efeto
concludo che sia mel in la munina,
e in te l cul sia zùcaro e confèto.
Ah cane assassino, ti sei ben soddisfatto?
Ti sei saziato? Lascia pur andare.
Quando mi avrai guastata, che sarà?
Saziati di questa carne, vita mia.
Quale maggiore gioia della mia?
Che fare? Dire che per te io morirei!
Amico mio, ti piace così per di dietro?
Mettimi una manina nella gattina,
che voglio anch’io godere, per Dio.
Sfregala bene in fondo, e tiemmi stretta.
Punta i piedi sul muro. Alza questo braccio,
sennò mi ammaccherai la tua tettina:
Ah cane, ora fai anche tu ciò che io faccio.
Tira pur via, se vuoi, la tua manina.
Ohimè, mangio il cuscino, il materasso!
Come mi è venuta fredda la linguina!
Come mi batte il cuoricino! Orsù, alfine
mi pare vi sia miele nella monina
e nel culo ci sia zucchero e confetto.
269
SESSO, BELLE DONNE E MALATTIE
TAV.
XVI: Ovidio e Corinna
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
TAV.
XVII: Enea e Didone
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
atu volest la bicicleta
... pedala!
Fare sesso a pagamento era usanza
talmente diffusa da spingere i maschi
ad una valutazione ‘merceologica’
delle ragazze in generale, entrata a far
parte di molti blasoni popolari del tipo
... a le bele meda lira; le medane trenta
schei, (a) quele brute gnanca quei!1 e
ancora… le campione, trenta soldi, le
sorze, vintioto; le tonèle n gabanoto e le
lèle col cul a l scuèrt2! La filastrocca si
ritrova anche in forma cantata3.
Per le professioniste del mestiere, oltre
alla sua fatuità, all’incertezza quotidiana
dell’impegno, al continuo sfruttamento
subito in condizioni di pressoché
obbligata sottomissione4, c’era poi il
rischio di contrarre fastidi5 e malattie
contagiose di varia natura, alcune un
tempo incurabili6, a danno proprio e
della ‘clientela’.
Edgar Degas, L’attesa, 1879
1
Il blasone è attibuito alle ragazze di Primiero dai Feltrini. La tipologia è comune in tutte le aree del Triveneto.
Il detto è relativo alle ragazze da Cugnac, nell’Agordino; cfr. GL Secco, Di che paese 6, 144. Gabanoto era il
soprannome del ventino, una moneta di poco valore. Nello Zoldano: «Chele da la capela le val na lira; le
Forgnacole, mèdo franco; chele da Dont, ancora de manco». Ibidem, 116, tanto per dare degli esempi.
3
Cfr. Starec, Canzoniere triestino, 269, c. 274, E la vecia de l apalto (racc. Catalan): «A le more, a le more trenta
soldi / a le bionde, a le bionde vintioto / a le rose, a le rose gnanca oto / a le gri∫e (le vecchie) un patacon».
4
Raramente le puttane riuscivano a emanciparsi dai loro protettori e non è fatto solo di ieri.
5
Le piàtole sono dei piccoli pidocchi, parassiti ematofagi (Phtirus pubis), visibili anche a occhio nudo, di forma
ovalare, dotati di tre paia di arti con cui si fissano saldamente al pelo pubico, alla base del quale depongono le
uova. La malattia è caratterizzata da forte prurito che porta gli infetti a grattarsi e a procurarsi danni più gravi.
Le piàtole si possono acquisire sia per contatti intimi con partner inpestà, ovvero infetto, sia per sporcizia
ambientale e cattiva igiene personale. Cause ed effetti della scabbia sono simili ma cambia il parassita che
stavolta è il Sarcoptes scabiei hominis.
6
Ne fa memoria questa villotta friulana di rimbrotto: «∫largie pùr ches tos giambatis, / no mi ven plui gole a nù;
/tu mi as dade un impestade / che anchiemuò no pues guarù (allarga pure quelle tue gambacce, tanto non me
ne viene più voglia; mi hai tanto appestato che non posso più guarire). Cfr. Ostermann, VF, Appendice, 38.
2
TAV.
XVIII: Alcibiade e Glycere
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
270
271
Le più note sono lo scolo7 e la lue o sifilide8, quest’ultima davvero micidiale e
nota da noi col nome popolare di mal francese o male celtico.
La reietta responsabilità di questa pestilenza è evidente nelle diverse
imputazioni di paternità in voga in varie nazioni: i Francesi la definirono ‘mal
napolitano’ ovvero mal de Naples, gli Spagnoli ‘mal dei tedeschi’, gli Olandesi
ed Inglesi ‘mal degli spagnoli’, i Russi ‘mal dei polacchi’, i cristiani tutti ‘mal dei
turchi’ e i Turchi ‘mal dei cristiani’.
«La sifilide si scatenò per la prima volta in Italia, e precisamente a Napoli nel
1495, durante l’occupazione militare capeggiata da Carlo VIII re di Francia.
Molte favole si sono raccontate riguardo a questo avvenimento: che la lue ad
esempio si fosse scatenata in quell’esercito in seguito al boicottaggio degli spagnoli;
secondo alcuni essi avrebbero inquinato le fontane e corrotto i fornai perché
avvelenassero il pane, oppure avrebbero corrotto le vivandiere dell’esercito perché
falsificassero il vino col sangue dei pazienti dei lazzaretti o perché, infine,
mescolassero nel cibo la… carne dei soldati morti in battaglia. La realtà è che un
esercito di 36.000 uomini di varia nazionalità si spostò per l’Italia, seguito da un
manipolo di 800 prostitute9.».
Questa datazione e definizione del ‘mal francese’ trova conferma in un passo
dell’Egloga Pastorale di Morèl, considerata tra i primi esempi di scrittura in
dialetto alto-trevigiano o basso-bellunese, fatta risalire a cavallo dei due secoli10,
dovuta ad un anonimo quanto valente poeta locale. Anche in questo caso,
l’epidemia viene imputata ai militari di passaggio
Che a la po fat,
sta cagna patarina?
La é zuda via con Zan de Corbanes,
e sì (i) à pasà la barca
a Lovadina.
Nol me duol tant del dan,
quant, che m incrés,
con qualche fantacin, su l ostaria,
un dì la se imperà de mal francés11
E cosa mai ha poi fatto
questa cagnaccia?
È scappata con Giovanni da Corbanese
e così hanno traghettato
la Piave a Lovadina.
Mi spiace non tanto per il danno,
quanto mi rincresce
finirà col prendersi la lue, all’osteria,
con qualche soldataccio!
L’accoppiata militari-puttane rimane comunque un altro caposaldo della nostra
storia tanto da porre il dubbio su quale sia davvero il più antico mestiere del mondo.
Vige infatti la credenza che esista un diretto rapporto tra la soddisfazione sessuale
della truppa e il suo rendimento in battaglia per cui, per tenere alto ‘il morale’ del
soldato (che sia un altro nome del nostro Lui?) gli si predispongono donne di facile
conquista che non lascino sentire troppo la mancanza di madre, moglie o sorelle.
Qui la provocazione sulle donne tutte puttane si fa davvero ardita eppure...
272
7
Lo scolo, prende popolarmente nome dall’effetto
dell’infezione che provoca la fuoriuscita dall’organo sessuale
di secrezioni purulente di color giallastro-grigio.
La gonorrea è provocata dal diplococco (Gram negativo)
Neisseria gonorroeae e causa una fastidiosa uretrite nel
maschio e endocervicite nella femmina, con possibilità di
complicanze se trascurata. La malattia si trasmette
sessualmente ma anche per contatto indiretto con entità
infetta. Si cura con specifiche cure antibiotiche.
8
Cfr. Ernesto Riva, La questione del Mal Francese e
l’imponente mercato del Legno Santo in Le vie delle spezie,
Edizioni GV, Milano, 2002, 134. «‘Sylphis ostendit turpes per corpus achores... a primo traxit morbus Syphilidenque
ab eo labem coloni’. Con questi versi il medico veronese Girolamo Fracastoro assegnò, nel 1530, il nome ad una
malattia che si era manifestata in Europa con una tale virulenza ed espansione da costituire una vera e propria
pandemia. Fu un vero e proprio flagello sociale che ben presto si diffuse in tutta Europa e contemporaneamente
in Africa settentrionale e nel vicino oriente, colpendo popolazioni biologicamente impreparate a combatterla e
culturalmente disposte ad ogni sorta di interpretazioni e congetture. Mostro, calamità, peste nera, corruzione,
male oscuro e privato, vergognoso oggetto di burle e bersaglio di facili moralismi.…
Qualsiasi fantasia che in qualche modo alimentasse l’odio fra le nazionalità era dunque buona per attribuire
una propagazione geografica alla malattia, e altrettanto fantasiose e perverse erano le interpretazioni intorno
all’origine del contagio. C’era chi sosteneva che la sifilide originasse dal coito con i lebbrosi, o peggio dal congiungimento carnale con animali; chi invece metteva in giro strane dicerie sui popoli d’oltremare che si
cibavano di carne umana corrompendo così a tal punto i loro umori da generare la malattia. C’era anche chi
attribuiva le cause dell’epidemia alla sfrenata libidine delle donne d’America che, per eccitare il desiderio del
maschio, introducevano nel loro letto certi insetti, le cantaridi, il cui veleno, creduto afrodisiaco, scatenava
invece il morbo sviluppando delle ulcere maligne; altri ancora ritenevano che si originasse dalle proprietà
irritanti del sangue mestruale delle stesse donne. Ma erano tutte maligne congetture falsamente attribuite alle
popolazioni d’America per nascondere forse le inaudite crudeltà che gli spagnoli esercitavano su di esse. L’idea
più atroce fu però quella di voler far coincidere l’origine della sifilide con l’infelice destino dei cosiddetti
‘marrani’, gli ebrei spagnoli molto bistrattati dallo stato e dalla chiesa, i quali – verso la fine del XV secolo –
furono cacciati dalla patria. Alla loro migrazione in Italia fu attribuita la diffusione generale della malattia e
ancor più al loro ‘rimescolamento’ con gli zingari migrati dall’India, ritenuti a loro rassomiglianti perché
ambedue popoli che si distinguevano per estrema libidine. Proprio per il suo carattere sessuale, la sifilide fu
considerata vergognosa fonte d’impurità, male nefando causato dai nuovi peccati della cristianità, che colpiva
con pena tanto grande quanto era grave la lussuria. Le delizie e le perversioni sessuali della casta signorile, il
clima di corruzione morale e politica, le orge stregonesche clandestine erano i funesti peccati il cui prezzo si
pagava con una penitenza altrettanto tremenda. Questa era l’opinione dei teologi. Congiunzioni e opposizioni
di pianeti erano, secondo gli astrologi, le cause principali del morbo: la congiunzione di Marte, signore dei
membri di generazione, con Saturno, dio della bruciante passione, sotto il segno dello scorpione, che nelle
tavole anatomico-astrologiche presiede agli organi genitali. Secondo gli astrologi e moltissimi medici fu
dunque questa nefasta congiunzione, che avvenne il 25 novembre del 1494, la causa che scatenò l’infezione
dell’aria e la corruzione nei corpi. In mezzo a queste confuse e fantasiose interpretazioni i medici si dividevano
fra americanisti ed europeisti. Gli uni sostenevano che la sifilide fosse una malattia totalmente nuova,
importata dal Nuovo Mondo con la spedizione di Colombo: il 15 marzo 1493, giorno dello sbarco di Colombo,
fu designato in Europa come il ‘dies fatalis’. Altri invece negavano che la sifilide fosse malattia nuova, bensì
conosciuta da sempre, antica quanto il genere umano, adducendo a prova di quest’opinione una serie di testimonianze teologiche e storiche. Si asseriva che l’affezione sifilitica avesse contagiato migliaia d’israeliti durante
il loro passaggio nel deserto perché, si disse, erano dediti all’adorazione degli idoli e soprattutto di Priapo, e che
la malattia fosse giunta perciò come atto provvidenziale per mettere a freno la loro smodata libidine».
9
Ibidem, p. 134, dove si legge in nota
10
Tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Cfr. ancora l’Egloga pastorale di Morel, a cura di
Giovan Battista Pellegrini, Trieste 1964; ristampa Conegliano (Studium coneglianense), 1975.
11
Si tratta dello sfogo di Cetre, il deluso amoroso, che racconta al fratello Morel la fuga della Dina, la ragazza
bramata da cui è stato rifiutato, per la quale prevede la terribile malattia, dandole praticamente della puttana.
273
Di fatto il bisogno fisiologico è legato ad una potenza-essenza giovanile che per
esser soddisfatta non bada a formalità tanto da correre il rischio delle malattie.
I ‘casini di guerra’ sono così sempre esistiti con l’altro obiettivo di controllare la
salute dell’esercito12. Anche noi abbiamo tenuto i nostri fino a l’altro ieri come
ben illustrato dall’amico Franzina nell’omonimo volume13. In qualsiasi caso ne
fanno fede, oltre alla già menzionata sequela della stazion o osteria numero uno,
numerosi altri canti popolari, di contesto soprattutto militare o di coscrizione,
come quelli sotto riportati.
L ALTRA SERA ANDANDO A SPASO14
01
L altra sera andando a spaso
ndando a spaso piano piano
una dona dal terso piano
la mi fa... oh oh ah ah!
02
Vien di sopra giovanotto
vien di sopra che son sola
sono un pèso di figliola
sol per far... oh oh ah ah!
03
Quando poi fui salito in camera
mi diste∫e sopra l leto
con le man le strinsi il peto
la mi fa... oh oh ah ah!
04
La matina mi sono ∫veliato
mi trovai sacramentato;
quela troia mi aveva impestato
sol per far... oh oh ah ah!
05
State a l erta giovanoti
state a l erta tuti quanti;
con le done ci voliono i guanti15
se si fa... oh oh ah ah!
12
Libero arbitrio, xilografia seicentesca CR
Il problema delle malattie veneree è chiaramente descritto in questo Appunto per sua Eccellenza il
Ministro (indirizzato al Ministero dell’Interno dal Direttore Generale della Sanità, Alberto Lutrario che
integrava quella già vista precedentemente in nota, del capitano medico Bellini, a Milano, nel 1916):
«Per chiarire i criteri seguiti nell’adozione degli straordinari provvedimenti adottati per la vigilanza
sanitaria sul meretricio durante la guerra, sarà bene riassumere l’evoluzione legislativa a riguardo di tale
materia. Senza parlare delle antiche legislazioni, basta ricordare che all’epoca napoleonica, le meretrici
dovevano essere iscritte nei registri della polizia, ed essere sottoposte a visite periodiche obbligatorie, e, se
infette, a cura coattiva in appositi ospedali.
274
Lo stesso principio fu sostanzialmente riprodotto nel Regolamento Cavour del 1860; principio che pel
regime vessatorio e poliziesco più che sanitario, produceva l’effetto di aumentare straordinariamente il
numero delle meretrici clandestine, interessate ad occultare in ogni modo le malattie celtiche per sfuggire
così alla cura coattiva in istituti che avevano più del carcere che dell’ospedale.
Colla legge Crispi del 1888, tali criteri furono capovolti.
Le malattie celtiche furono equiparate alle malattie comuni; furono aboliti i sifilicomi; alla costrizione della
cura, fu sostituita la esibizione da parte dello Stato dei mezzi più adatti, più facili e più discreti per una cura
gratuita: sale celtiche e dispensario. Questo passaggio repentino da un regime vessatorio, ad una libertà
sconfinata, non poteva non produrre necessariamente un accentuato aumento delle malattie celtiche, per
cui si sentì la necessità di disciplinare in qualche modo tale libertà.
Fu quindi emanato nel 1891 il Regolamento Nicotera, il quale, pur ispirandosi al rispetto della libertà
personale delle meretrici, attribuiva speciali facoltà alle Autorità di P. S. per ciò che riguardava
principalmente la vigilanza sui locali di meretricio, dando una parte quasi secondaria e subordinata alle
autorità sanitarie per la profilassi celtica.
Si addivenne finalmente al Regolamento legislativo del 27 luglio 1905, in cui il principio del rispetto della
libertà personale delle meretrici, si completa con l’assoluta separazione del regime di polizia da quello
sanitario rimanendo così in vigore il Regolamento 1891 soltanto nella parte che ha tratto al buoncostume
e all’ordine pubblico.
Detto Regolamento legislativo 27 luglio 1905, fu inscritto nel vigente Testo Unico delle leggi sanitarie. In
esso sono contenute le norme che regolano la profilassi delle malattie celtiche, la quale viene esercitata col
moltiplicare ed agevolare i mezzi gratuiti di assistenza e cura degli infermi, partendo dal criterio che ogni
infermo curato e guarito corrisponde ad un focolaio infettivo estinto.
Tali mezzi si compendiano nell’obbligo sancito ai medici condotti di curare gratuitamente i malati celtici
al pari di tutti gli altri malati comuni; nella istituzione del dispensari celtici gestiti dai comuni col
contributo dello stato; nella istituzione di sale celtiche negli ospedali e nelle cliniche dermosifilopatiche.
In corrispondenza a questi mezzi di cura fu regolata la vigilanza sanitaria sui locali di meretricio, vigilanza
che si esplica con visite bisettimanali con medici fiduciari designati dai tenutari dei locali e controllate da
appositi visitatori di nomina governativa. Tale vigilanza si esplica a tutela tanto dei frequentatori dei locali,
quanto delle donne che vi abitano.
Si è voluto anche in questo campo abolire qualunque violazione della libertà personale, qualunque misura che
avesse carattere di coazione, togliendosi altresì dalle sale celtiche l’impronta infamante che un tempo
avevano… I benefici risultati ottenuti con l’attuale legislazione liberista sono rilevati dalle statistiche della
mortalità per malattie celtiche nel R. Esercito e nella Regia Marina, e dalle statistiche della mortalità per
sifilide nella popolazione.
Nel 1890 la morbosità nel Regio Esercito per malattie celtiche nel loro complesso fu di 104 per mille uomini
di forza, proporzione questa che discese via via a 63 per mille nel 1910. Una diminuzione non meno
confortevole si è avuta per la sifilide, soprattutto negli ultimi tempi in cui l’adozione del sistema di
rilevamento a schede individuali consente di seguire il fenomeno nelle manifestazioni primitive, e cioè nei casi
nuovi che danno l’indice più sicuro del grado di diffusione della lue.
Nel 1899 si ebbero 9,6 casi di manifestazioni primarie della sifilide per ogni mille uomini di truppa; tale
media discese via via a 4,4 per 1000 nel 1910. Una diminuzione rilevante si ebbe anche fra la morbosità fra
i militari della Regia Marina: le malattie veneree dal 1893 al 1910 subirono una diminuzione del 37,7% e la
sifilide una diminuzione del 30%. Infine le statistiche sulla mortalità nel Regno per sifilide segnano
anch’esse una diminuzione assai rilevante. Nel 1893 era registrato un quoziente di mortalità pari a 77 ogni
1000 abitanti, quoziente ridotto a 49 nel 1913. La diminuzione è anche evidente se si considera
l’andamento della mortalità per sifilide nei grandi centri. In effetti nel complesso delle città capoluogo di
provincia si aveva nel 1892 una mortalità del 21 per 100.000 abitanti, negli ultimi anni si è ridotta a 11,9
nel 1906 ed a 13,7 nel 1910.
In conseguenza dello stato di guerra si è creduto opportuno di rinvigorire, mediante disposizioni
eccezionali, il servizio ordinario di profilassi celtica, sia impiantando nuovi dispensari e nuove sale celtiche,
sia col sottoporre a severa vigilanza tanto il meretricio pubblico che quello clandestino».
13
Emilio Franzina, Casini di guerra, Udine, Gaspari Editore, 1999.
14
Analogo in Archivio Posagnot, 512, 454 e in Pagnin-Bellò, 207.
15
Probabile un doppio senso di guanto per preservativo.
275
219
VIA VERCELLI16 - Refrontolo, TV, 31 agosto 2001
01
05
E pasegiando per via Vercèli
na signorina a la finestra
e la mi di∫e: bel giovanòto
per me∫a lira in bicicleta te voi portar!
E co fui stato giù per le scale
sentivo tuto a bruciolare:
Oi mama mia son rovinato,
a l ospedale mi toca andar.
02
06
Non tengo soldi e ne moneta;
io tengo solo una corona,
per carità, dami la ro∫a
e non sta farmi mai più penar.
E co fui stato a l ospedale
e due infermieri mi àno spoliato,
e due infermieri mi àno spoliato
e il profesore mi vi∫itò.
03
07
La ro∫a sì, te la darìa,
se il capitano ti dà l permeso.
Per carità, dàmela istéso
e non sta farmi mai più penar.
El vada piano signor dotore
e con quei feri da macelaio,
e con quei feri da macellio
sei la rovina de la gioventù.
04
E co fui stato ben sodisfato
le mi∫i in mano due palanconi,
e la Ro∫ina tuta contenta
per mile volte mi ringraziò.
220
IL CORO RIPETE SEMPRE
GLI ULTIMI DUE VERSI,
SIA IN QUESTO CHE NEL SUCCESSIVO BRANO
Il legame puttana-ospedale-puttaniere viene sottolineato in parecchi canti.
Sulle malattie paiono incentrate anche le successive rime. Nel primo sonetto,
della metà del cinquecento, intitolato Dialogo di duoi villani padovani, si
descrive perfettamente la lue18.
Giruolimo, a san stò a pecarise
a Pava in la contrà de l Albarela
(sì, al sangue, al corpo de la giandela,
ch a no te mento!), e sì he vù altro che bri∫e
d una che l éa larga co è una vali∫e.
La m à infrusignò tuta la capela
d un certo bordelame, a la fé bela,
perché de soto via da le ∫baì∫e
atorno gh è una frata de brognuoli,
che la m à dò sta sporca ∫merdoliera,
che l morbo la ∫breghe co se fa i molón!
La m à imbóazò tuto da caruoli,
questa bruta fràe∫a e prevìera,
che m à fato infìar tuto el baldón.
Della stessa malattia si lamenta anche il Baffo che sembra patirne nel Settecento.
Putana buzarona! Più no poso
darme trastulo alcun, né alcun solazzo,
più no poso ciavar, che ò marzo l cazzo,
e colmo a pien del mal france∫e ogn òso;
EL GALETO DE LA SIGNORA MARGHERITA17 - Refrontolo, TV, 2001
01
04
La signora Margherita - * paraponzi ponzi po
la g aveva n bel boscheto - *
La voleva che l mio galéto
andase dentro a pascolar.
Ma a che pasi sian reduti
che camino co l bastoncèlo;
me ne vo pianin pianèlo
per le vie de l ospedal!
02
05
El mio galeto l é tropo groso,
e la testa l é senza òso;
entra dentro piano piano,
senza far chichirichì!
Ma l oca∫ione di questo male
e l é stato una verginela;
lei gavéva na cincirinèla
tuta rota e sconquasà!
03
06
Su l entrada faceva l galiardo,
su l entrada faceva l galiardo;
su l entrada faceva l galiardo
e su l usìta faceva l poltron!
Ma quel giorno che muoio io
suonerano le campane;
piangerano le putane
che l é morto l pinciador!
16
Gruppo spontaneo, Refrontolo (TV), 31 agosto 2001, AGSB, CD 0235. Il tema dell’ultima strofa è rituale
in altri canti in cui si trattano malattie perniciose. Per la TBC, la tubercolosi, ad esempio, si veda R. Starec,
Canzoniere triestino, 96, c.56, La prego sior primario: « E la prego sior dotore / el me cambi la medizina / che
le sponte me rovina / e l cro∫oto me fa sai ben». Anche in Posagnot, 514, c. 456.
17
Gruppo spontaneo, Refrontolo (TV), 2001, AGSB, CD 0235.
276
Girolamo, sono stato a puttane
a Padova in contrada dell’Albarella
(sì, al sangue, al corpo della peste,
che non mento!), e ho avuto altro che bene
da una che l’aveva larga come una valigia.
Mi ha impestato tutto il glande
di una certa porcheria, alla fé,
perché sotto attorno i lati
ho un gran numero di pustole,
che mi ha dato questa sporca merdosa,
che il morbo la spacchi come si fa con le angurie!
Mi ha tutto ricoperto di tarli,
questa brutta puttana da frati e da preti,
che mi ha fatto gonfiare tutto il salsicciotto.
l o∫elo g ò, come un somaro, groso,
su le pote no voi più far strapazzo,
in culo per adèso più no guazzo,
quando nol fuse largo, come un fòso.
Co quatro porifighi in la capela,
co una panocia, e un verde scolamento
me son reduto ne l età più bela.
No vògio più ciavar co sto istromento,
ò in cul la pota, e ò in cul chi fa per ela,
za che no pòso in pota andar più drento.
La stampina illustra la botte in cui venivano messi i luetici
per venire a contatto coi vapori di mercurio
18
Antonio B. L. (non identificato altrimenti), Dialogo di duoi villani padoani, Venezia, Candido Bindoni,
MDLII, in Marisa Milani, Antiche rime venete, 447, 448.
All’effetto della lue potrebbe essere ispirato anche questo branetto satirico che ho registrato in Istria, a Sissano,
221 nel 1998 e il cui interesse iniziale è focalizzata su una ‘canna piena di buchi’ dall’evidente doppio senso * di pene
malato, di canna marcia ovvero impestada, appestata (AGSB, CD BLM 0016/10).
277
Ancora significativo questo ultimo brano sul tema in cui il protagonista descrive
la propria iniziazione e frequentazione giovanile in casino, le sue conseguenze, i
malanni acquisiti e i rimedi tentati.
222
LE BELE DONE19 - Sideropolis (Nuova Belluno), Santa Catarina, Brasile
01
04
Quando aveva, quando aveva quìnde∫ ani
ero un un pèso di galera (remo da galera).
Co le bele done ghe vol maniera
per poderle a caresar.
A che pasi a che pasi son redùto,
caminar co l bastoncèlo.
E co∫ì pian pian bel bèlo
a l ospitale mi son rivà.
02
05
Quando aveva, quando aveva di∫dot ani
ero un giovano stimato.
Da una bela dona so stà inganato,
da le bele done non vago più.
A l ospitale, a l ospitale son rivato,
gh èra un leto preparato.
Da una bèla dona so stà spurgato
e l dotore me à vi∫ità.
03
06
Da una gamba, da una gamba mi fa male,
da quel altra mi son soto.
Se guariso da questo bruto male,
da le bele done non vado più.
Vada piano, vada pian signor dotore
l vada pian co la medicina,
che la pietra la me- la me rovina
e l mercurio el me fa mal.
Questo ultimo canto riporta in primo piano la preoccupazione per le malattie
veneree per le quali vengono persino date indicazioni terapeutiche20 che
prevedevano l’uso delle fumigazioni allo zolfo (probabilmente la ‘pietra’) e
similari terapie al mercurio. La cura delle malattie veneree, almeno fino
all’arrivo degli antibiotici fu davvero dura specie per la lue che viene ora
efficacemente combattuta ma solo con massicce dosi dei più sofisticati
antibiotici, e se presa per tempo.
19
AGSB, CDE SRM0005/11, Soto l albero fiorito, cantato dal Gruppo dei cantori paesani. Un canto
presocché analogo è citato da Starec (Canzoniere triestino, 86, 42) per la raccolta Noliani 1955, con le ultime
due strofe un poco diverse: «Ma la prego, ma la prego sior Primario, / la me fazi una sortita / ghe lo giuro su
la mia vita / che qua drento no vegno più, e ancora…Ma la prego, ma la prego sior Primario / el me cambi la
medizìna / che le sponte le me ruvina / e l mercurio me fa morir».
20
Ernesto Riva, La questione del Mal Francese, in Le vie delle spezie, 138: «Per i teologi, dato che la lue era
una conseguenza dei peccati dell’uomo e della sua degradazione morale, l’unica misura profilattica possibile
era l’astinenza: la procreazione era resa infetta dal veleno del desiderio carnale e l’unico modo per difendersi,
per interrompere questa sorta di patto con il diavolo, erano le misure magico-religiose con il ricorso ai santi
intercessori quali San Giobbe, San Lazzaro e San Rocco. Per astrologi, ciarlatani e praticoni, ogni rimedio
che avesse connessioni magico-astrologiche di simpatia con gli effetti della malattia stessa era buono: farsi
succhiare le lesioni purulente da persona di vile condizione o apporvi sopra un gallo spennato e scorticato
oppure una rana aperta a metà. Tutto ciò perché era convinzione che il trasferimento degli umori infetti ad
altri soggetti fosse l’unico modo per liberarsi dalla malattia. In effetti i medici, impreparati di fronte allo
scoppio improvviso della pandemia, non sapevano quali cure effettuare, tanto più che il ricorso ai
278
tradizionali rimedi della medicina ippocratica dava risultati poco soddisfacenti se non disastrosi. Il salasso,
basato sulla convinzione che servisse ad eliminare il sangue impuro e corrotto, o l’uso dei purganti energici
e dei colagoghi diretti a colpire il fegato ritenuto fonte della corruzione del sangue, non facevano altro che
prostrare ancora di più lo sventurato paziente. Ecco allora apparire sul mercato un rimedio anti-sifilitico
miracoloso quanto costoso, chiamato legno santo, proveniente proprio da quel Nuovo Mondo che aveva
prodotto la malattia. Era la corteccia del Guajacum officinale, un albero diffuso nei terreni aridi delle Antille,
una delle prime nuove droghe importate in Europa verso i primi del ‘500. Personaggi influenti beneficiati
in qualche modo da questo prezioso legno ne divennero subito degli entusiasti sostenitori e medici
autorevoli ne decretarono l’efficacia. Scrive Mattioli: ‘si conosce manifestamente che può egli senza alcun
dubbio operare ciò che si ricerca nella cura del Mal Francese… può veramente con le facultà sue valentemente
disseccare, sottigliare, liquefare, modificare i già infettati umori, parimente provocare il sudore,… opporsi alla
contagione, putrefazione, che regnano nel Mal Francese’. La fama del guaiaco trionfò per tutto il XVI secolo
con gran vantaggio per medici, farmacisti e banchieri;… Gli svantaggi erano invece tutti per lo sventurato
sifilitico il quale, oltre che veder vuotare le proprie tasche, doveva anche sottoporsi ad estenuanti e penose
cure diaforetiche senza per altro godere dei benefici vantati dal mondo medico di allora. Così la fama del
guaiaco andò pian piano declinando finché l’illustre medico Francesco Redi, nel XVII secolo, ridimensionò
le virtù di questa ‘droga americana’ dichiarando di non riconoscerle l’efficacia da altri attribuitale».
16
Ernesto Riva, Il Mal Francese nella Teoria e pratica del medico Giovanni Colle in Magia e scienza nella
medicina bellunese (dal 1500 al 1700), IBRSC, Belluno, 1986, 58: «Ma dove l’autore più dimostra curiosità e
interesse è per le risorgenti teorie medico-astrologiche. Non nuova era infatti la convinzione che tutte le cose
della terra subissero l’influsso dei corpi celesti. ‘Dobbiamo sempre tener presente - egli dice - l’influenza
degli astri: come Marte e Saturno scatenano la lue, così Giove, Venere e Mercurio la contrastano perciò tutte
le piante, i minerali e gli animali utilizzati come medicamenti devono essere preparati sotto gli auspici di
Giove, Venere e Mercurio… ‘. Queste idee indussero il nostro autore ad affermare che esistevano dei precisi
rapporti fra pianeti, segni zodiacali e corpo umano e che ci fossero fra pianeti e metalli numerose analogie…
lo convinsero a preparare i suoi rimedi mescolando, filtrando e distillando tenendo conto dell’influsso delle
costellazioni e applicando tutti i crismi delle dottrine ermetiche e spagiriche: rimedi astrologici, li chiama,
perché preparati ‘sub Jove, Venere et Mercurio cospirantibus’… lo indirizzarono all’ultizzazione del mercurio
quale estremo rimedio antiluetico. Il mercurio, metallo nobile di natura vischiosa e sottile, freddo e umido
insieme, argento vivo corrodente e aspro, era considerato il principio dello stato liquido della materia, unico
vero e originale seme di questa. Una materia prossima a convertirsi in metallo che rimaneva così nella sua
imperfezione perché gli mancava l’umore caldo e secco che lo facesse condensare. Qual era dunque il miglior
sistema per spegnere gli umori caldi e virulenti scatenati dalla lue?… ‘è certamente un veleno’, conclude
l’autore, ‘ma è anche e soprattutto un medicamento molto efficace, attivo, potente e frigido che può anche
nuocere a tutte le frigide membra ma che deterge, attenua, e come se non bastasse, toglie il dolore. Scioglie
gli umori peccanti, come il sole scioglie i ghiacci e le nevi, e li trasporta per le vene disperdendo il calore per
il corpo ed eliminandolo attraverso i polmoni, il sudore, i reni e la saliva’. In realtà il metodo di cura usato in
quel tempo dai cosiddetti ‘mercurialisti’ era alquanto barbaro; consisteva nell’ungere da capo a piedi i
disgraziati luetici e farli coricare per lungo tempo sotto lenzuola intrise di unguento mercuriale o peggio di
rinchiuderli in una speciale botte munita di un braciere nel quale si facevano bruciare i preparati mercuriali. Il malato veniva così sottoposto a lunghe, estenuanti e crudeli fumigazioni. Dopo questi atroci trattamenti
l’intossicazione non tardava a venire e altrettanto violenta: ‘La gola si ulcera, la lingua, il palato e le gengive
si gonfiano, i denti cascano, la saliva cola dalla bocca fetida e velenosa...’ dicevano i cronisti del tempo i quali,
non a torto, definivano carnefici gli autori di questi trattamenti. Sull’efficacia del mercurio molti autori si
sono affannati alla ricerca di testimonianze di guarigione; in effetti fra tanti danni esistono anche dei casi di
guarigione pressoché completa. Questo spiega perché la terapia mercuriate contro la sifilide sia proseguita
ininterrottamente quasi fino ai giorni nostri. Non c’è dubbio che il mercurio agisca farmacologicamente
come treponemostatico e che il suo uso abbia portato a forti riduzioni delle lesioni leutiche primarie, a
risoluzione delle manifestazioni secondarie o al rallentamento dell’evoluzione delle manifestazioni terziarie
specialmente quando ne furono studiate le forme farmaceutiche più corrette, i dosaggi più convenienti
(meno tossici) e le vie di somministrazione più fisiologiche. L’associazione inoltre del mercurio con altri
metalli come il bismuto, l’arsenico e lo iodio portò a risultati ancora più soddisfacenti, e meglio ancora,
l’associazione di questi con le pennicilline portò a complete guarigioni; ma per vedere questi risultati
bisogna giungere ai giorni nostri».
279
I RIMEDI POETICI DEL TUBIOLO CONTRO I MALANNI VENEREI
SCOLO, rimedi: Malva, Erba dora, Millefoglie
An le Malve à vertù,
friegi, de rinfrescare
e al scuolamento l è sprefete e arare,
preché a so ch a un me amigo
che g aeva st intrigo,
el ghe cuolava zó
de contugno del brùo:
lo gramazo varì
dovrando la consierva, in puochi di.
Anche le Malve hanno, fratelli,
virtù di rinfrescare
e sono rare e perfette per lo scolo,
perché so che a un mio amico,
che aveva questa noia,
gli colava giù
di continuo del brodo:
il poveretto guarì
in pochi giorni usando la sua conserva.
El gh è po l Erba Dora,
ch an Cetraco i ghe di∫e
che a chi denanso
à spurche le cami∫e
pre l gran scolamento
l è un remièlio celento…
C’è poi l’Erba Dora,
che chiamano anche Cetracca,
che per quelli che hanno sporche
le camicie sul davanti
a causa dello scolo,
è un rimedio eccellente...
El Millefuogio an ello
bevù in lo bruo, el sangue el sol stagnare
a tuti quigi che lo suol spuàre.
L è po anca valento
pre chi che à l scolamento…
Il Millefoglie anch’esso
ferma il sangue
a quelli che son soliti sputarlo.
È anche efficace
per chi ha lo scolo...
Tacuinum Sanitatis Parigi, c. 85)
FRUTTO DI MANDRAGORA
secondo Giovanni
Natura: fredda in III grado, secca in II.
Migliori: quelli grossi e profumati.
Giovamento: annusato, agisce sul mal di testa…
Danno: stordisce i sensi e provoca il sonno.
Rimozione del danno: con frutto di edera.
Ora scomparsa, questa pianta fu per anni al centro di
molte credenze per la forma della sua radice che
ricordava il corpo umano, per cui si assicurava
gemesse all’atto di estirparla dal terreno.
Le furono attribuite molte virtù ‘magiche’ anche in
relazione ad usi inerenti il sesso e come filtro
amoroso, come mostrano i versi del Tubiolo: «La
Mandragola an gh è, / que a chi g à el (de)Munio
adoso / la ve l descaza prestamen dal doso. / La ve fa
po an stopire / tanto la fa dromire; / e se gh è quarche
to∫a, / que sea vostra moro∫a / ne la ve vuogia ben, /
questa ve farà amar contugnamen».
280
SIFILIDE, rimedio: Sambuco
An lo conte… Sambugo
∫è qua co le so bale tute negre
che a farve vuomitar no le ∫é pegre.
N unguento po el sa fa
pre chi che vien scotà;
e s uno no à repu∫o
mè pre lo mal franzuó∫o,
che l se faga del vin co i so grandegi
che l vegnirà più graso de i porciegi!
Anche il nobile sambuco
è qua con le sue palline tutte nere
che son leste a farvi vomitare.
Ci si fa poi un unguento
contro le scottature;
e se uno non trova pace
a causa del mal francese,
che si faccia del vino coi suoi granelli,
che verrà più grasso dei maiali!
PRURITI ALLE PARTI INTIME, rimedio: Salvia
La Salvia po ghe ∫é,
la qual cava el ∫bru∫ore
a i testimoni,
co i g à el pizegore;
e po anca la vale
a chi dal bruto male caze;
e po a quele done
che tra le dó colone
sempremè le ∫é muògie,
an co la mare
ghe fa mile duogie.
C’è poi la salvia,
che leva il bruciore
ai testicoli,
quando hanno il pizzicore;
e poi va bene
per chi cade dal brutto male,
e alle donne
che fra le gambe
sono sempre bagnate
e anche quando
duole loro la matrice.
ULCERE VAGINALI, rimedio: Piantaggine
La Piantàzene ven,
que g à na vertù bela,
che, se co n ovo
a ve fè na fritella,
el fruso la varise;
E se lo vero scrise
el miègo ∫matiòlo
la varise an de ∫olo le lùzere,
che ven a le bele to∫e
che sul bordelo
suol far le moro∫e!
La Piantaggine viene,
che ha una virtù bella,
che, se con l’uovo,
vi fate una frittella,
la diarrea guarisce.
E se il vero ci scrisse
il medico Mattiolo,
guarisce al volo le ulcere
che vengono alle belle ragazze
nel bordello
abituate a fare l’amore!
281
CANTI E PRELATI
TAV.
XIX: Pandora
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
Le stampe sono tratte
da una serie di disegni preparatori
che Agostino Carracci,
ispirandosi a modelli di Giulio Romano
e Raffaello,
predispose per l’opera citata.
L’incisione avvenne
a cura di Marcantonio Raimondi,
nel 1602.
Agostino Carracci
(Bologna 1557 - Parma 1602)
appartenne ad una famiglia di artisti
di cui il più noto
fu il fratello maggiore, Annibale.
i preti e i frati,
i é nasudi te na bona ora:
i magna chel de i altri e no i lavora;
i prega la parola de Cristo,
i magna de chel bon
e i lasa de chel tristo!1
Insieme ai santi iniziatori e ad una schiera di sincere anime elette, per secoli
monasteri e conventi furono praticati anche da una quantità di gente eterogenea
non sempre e non tutta convinta da vera vocazione2. Rappresentando un
evidente centro di potere, le famiglie nobili, abbienti o che miravano in alto
predisponevano parte della prole ad entrare nei ranghi della Chiesa. Il
nepotismo era una cosa normalissima e le cariche si compravano con una certa
facilità e noncuranza3. Nei conventi delle monache finivano anche le figlie
diseredate, svergognate o semplicemente ‘scomode’ delle famiglie patrizie4, le
deluse dalle passioni, le ragazze delle famiglie borghesi in sovrannumero senza
ambizioni di matrimonio, le figlie dei ceti minori con difficoltà di dote o
desiderio di riscatto e un’altra serie di ‘pentite’ di diverso genere. In quelli
maschili avveniva altrettanto5, con una maggior possibilità di interagire poi, a
tutti i livelli di potere, col parallelo e speculare mondo esterno ‘civile’.
La struttura piramidale e rigida del sistema (la similarietà con quella militare
non è casuale) le garantiva una solidità cementata soprattutto dal dogma
dell’obbedienza, dalla certezza della fede (ai cui contenuti lavoravano solo degli
‘specialisti’ in linea col potere centrale) e dall’attrazione della carità (oggi si
direbbe ‘gestione delle periferiche’, tanto per intendersi).
1
Cfr. Carone Bepi, Na vita perfida, 196
Questa realtà è sempre stata, d’altronde, al centro della preoccupazione della Autorità ecclesiastica.
3
Interessante, in tal senso, è la lettura Del Canonico Politico di Giovan Battista Barpo (trascrizione e note
a cura di Cornelia Tagliabò Padovan, Belluno, I.B.R.S.C. serie ‘Storia’ n. 17, 1996).
4
Si pensi a quanto dice uno dei canti più drammatici della nostra cultura popolare, noto coi diversi nomi de
La filia del fitàvolo, la filia del cine∫e (titolo convenzionale, Mònaca per forza, Nigra). Si riporta, a titolo di
esempio, la versione di San Donà di Piave (AGSB, CDE SRM0180/05, cantore Sergio Barbazza): «E la
filia di un cine∫e/ si fece monaca; / si fece monaca per un dolor, / per un caprìcio de l suo primo amor. / Dopo
tre me∫i che era mònaca, / la monachèla / scrive una letera a l suo papà, / che l é malata e a ca∫a vuol tornar./
Suo papà ne scrive un altra / ancor più bela: / se sei malata tu dovrai sofrir, / in quel convento tu dovrai
morir. / Io maledico la prima pietra di quel convento; / io maledico papà e mama , le mie sorele / che ∫é sta
quele che mi à nsegnà / ad ascoltar solo i preti e i fra».
5
Il fenomeno dei figlioli mandati a studiare in seminario per togliere una bocca da sfamare da casa è
arrivato fino a qualche anno fa. Si mandavano in seminario anche i ragazzi più dotati per dar loro l’unica
possibilità di studiare e di aspirare ad un salto di condizione. La vocazion la te vegnerà, si diceva ai meno
convinti; d’altronde anche ‘i preti’ accettavano il rischio verificando l’esito positivo della probabilità. Così,
anche per questo motivo e per il fatto che le famiglie popolari erano più numerose, non vi era famiglia, fino
agli anni ottanta, che non annoverasse tra i parenti, uno zio, fratello, sorella, preti o suore.
2
TAV.
XX: Il satiro in azione
Agostino Carracci: Aretino e gli amori degli Dei, 1602
283
Insomma non sempre Dio appariva al centro di questo mondo a lui
particolarmente dedicato; anzi, le attenzioni al materiale gareggiavano
praticamente con quelle allo spirituale su cui si basava l’immagine e il modello
teorico che si andava proponendo e imponendo in questa commistione e
interazione continuativa dei due poteri – religioso e civile – in evoluzione e che
tuttora continua lentamente con la momentanea tendenza, da noi, ad una
progressiva inversione di ruoli (maggior peso del potere laico su quello religioso).
Agli strumenti di garanzia di questo sistema, taluno reputa appartenga pure l’obbligo
del celibato per i ministri di culto, tema sempre dibattuto e concausa di fratture al suo
interno, possibile indice della volontà di mantenere il predominio dell’uomo sulla
donna in modo indiscutibile ovvero dogmatico al di là di tutti i riconoscimenti
paritari di carattere teologico (come la concezione del Dio Padre ma anche Madre).
Con lo strumento ‘spontaneo’ della confessione, si poteva inoltre verificare, al di
là del bisogno spirituale dei fedeli, anche lo stato d’ordine di entrambi i sistemi che
venivano misurati con particolare attenzione alla sfera sessuale6, badando cioè ad
una necessità che, pur caratterizzandosi come del tutto ‘naturale’, risultava di fatto
comodo mezzo di controllo dell’accettazione delle regole: su una esigenza naturale
si pongono dei severi limiti indicandoli come voleri divini e si misura l’efficacia
della propria posizione e influenza in ragione del loro rispetto, alla luce delle
lusinghe riservate ai reverenti7 e delle punizioni previste per i disobbedienti8.
Anche i religiosi rimanevano ovviamente sottoposti
alle esigenze umane basilari, sesso compreso, per cui
la trasgressione da essi compiuta talvolta alle regole
nel contempo predicate, quando scoperta9, suscitava
maggiore ‘scandalo’, risultando testimonianza di
malafede, scusata con la prevaricazione diabolica
sulla ‘debolezza della carne’10. La drammaticità del
tipo di controllo esercitabile attraverso la
confessione si è vista nel ‘Penitenziale’, riportato
come esempio in precedenza. In alcuni periodi
tali strumenti rasentarono il paradosso essendo
in grado di rappresentare ogni possibilità
Religione, xilografia seicentesca
espressiva dell’erotismo. Leggendo la sequela di
domande che il confessore aveva obbligo di porre
ai propri fedeli per meglio puntualizzare gli ‘errori’ e calibrare le penitenze, si
rimane sbalorditi immaginandone il possibile effetto11. La conoscenza stessa della
svariata tipologia, poneva inoltre il confessore, smessa o no la maschera religiosa,
in condizioni tentatorie di notevole stimolo12. Non a caso, tra i temi prediletti della
canzonatura popolare, questo è il più ricorrente (te a lo mai tocà…)13.
L’altro tema caro al volgo pare essere quello dell’insidia che preti e frati portano
direttamente a casa col pretesto, vuoi della questua, vuoi dei ‘servizi’ spirituali
a domicilio. In tutti i casi, l’irriverenza manifestata non è mai diretta alla
religione in sè, ma solo agli uomini che tiepidamente l’amministrano.
CR
6
È logico che l’imposizione di questi ‘comportamenti, inerenti all’ordine sociale, abbia a che vedere con un
sistema di strutturazione della collettività ben più arcaico della storia della Chiesa romana, la quale tuttavia
è intervenuta a ridisegnarne alcune modalità nel corso della propria evoluzione, in ragione del mutante
sistema di competenze di guida ovvero gestione del potere. In regime assoluto, il volere personale del caposciamano (del Faraone o Imperatore) coincidono con quello della divinità. La ‘democratizzazione’ delle
società, iniza con la scomposizione di questi ruoli e col conseguente dibattito sulle rispettive competenze:
da una parte uomini (ovvero espressioni di essi) che scelgono giustificando ciò in nome di Dio; dall’altra
altri che vogliono farlo egualmente senza portare tale giustificazione. La dinamica evolutiva delle due
tendenze corre più velocemente per quest’ultima parte, in genere detta progressista, mentre l’altra è più
consevatrice. Ciascuna di esse tende a rosicchiare parte del potere all’altra, nel contempo tentando di
impadronirsi delle nuove forme emergenti del potere stesso. La minestra pare sempre la stessa avendo,
come ingredienti base, i problemi esistenziali dell’uomo ovvero i suoi bisogni di attualità ma anche di
eternità: ricchezza e felicità sulla terra o premio sicuro nell’aldilà? Uomo fatto a immagine di Dio o Dio a
immagine dell’uomo? Il gioco continua nelle filosofie.
7
La prospettiva della vita eterna nella felicità (il Paradiso) non è poco.
8
Oltre alle penitenze fisiche, si pensi alla prospettiva della dannazione eterna (l’Inferno) e del ‘Purgatorio’
com’erano un tempo paventate. Si pensi alle forma di interesse economico connesse ai riti di propiziazione
(indulgenze, celebrazioni, donazioni a scopo di autosalvaguardia ecc.) relazionandole alle contemporaneee
modificazioni interpretative di questa parte della ‘dottrina’, che stanno intervenendo al fine di non far
perdere alla chiesa ‘cattolica’ contatto con la realtà della società civile. La criticità delle menzionate
posizioni ha generato nel tempo, e nonostante la forza impositiva arrivata alla perversione temporanea
della Santa Inquisizione, le varie lotte con cui gli ‘eretici’, hanno sottratto massa al monolito romano
formando chiese a sè stanti di diverso modello interpretativo ma non sostanziale.
284
9
Cfr. Ostermann, Villotte friulane; 45, 8, 5 rispettivamente le tre villotte di seguito. A: La Pine convertide
/ che ven fur da l monastir / a si à fate fa l amor / ma di un vechio dal mistir. - B: Ta l convent de Sante
Clare / al è un frari benedet / Uèi fa jo come mio pari / un par sorte e dói per jèt. - C: Anchie i prèdis si
divièrtin / qualchi volta a fa l amor: / lor taconin e ∫ lapagnin /cence dilu a l confesor!
10
Né sono valse gran che le continue censure interne intese a migliorare la situazione e il buon nome delle
istituzioni religiose. Semmai la ‘normalizzazione’ del sistema sembra procedere con l’evoluzione della
società civile e del suo standard. Le vocazioni, nel mondo del consumismo sono senz’altro più ‘vere’ di
quelle espresse in condizioni di necessità, per una maggior possibilità di esercitare la libera scelta.
11
Cfr. Cleugh, 351-378, al capitolo I Censori.
12
Si vedranno più avanti alcuni canti tutti basati sul tentativo di corruzione della penitente. In qualsiasi caso,
la debolezza del ministro-uomo risulta chiara in altre villotte di condiscendenza e complicità, del tipo: son
andata a confesarme / benedeto l confesor / lu me à dat par penitenza / che continue a far l amor (AGSB, per
Carve, BL) che corrisponde esattamente alla friulana: iò son stade a confesàmi / benedet chel confesor / lui mi
à dat di pinitinze / quìndis dis di fa l amor (Arboit, 233, 844), o, come finale… di tornà a fa l amor (ibidem,
71, 142); e ancora: Il moroz me à tant busade / iò l ài dit a l sior Plevan / Lui mi à dat di penitence / c al mi
busi ancie doman (Il mio ragazzo mi ha baciata; io l’ho detto al signor Pievano; lui mi ha imposto, per
penitenza, di baciarlo anche domani). Ibidem 71,143.
13
La domanda sull’autoerotismo è quella classica delle confessioni fino a tempi recenti. Lo testimonia la
presenza delle seguenti villotte raccolte sia in Veneto che in Friuli: Son andata a confesarme /sabo sera da l
Piovan /e l s à meso a domandarme / se me toche co le man (cfr. AGSB, Refrontolo 2001); L altre dì te l
confesami / chel birbant de capelan / l insisteve a domandami / se mi tochi cu la man (cfr. Ostermann, 8).
285
PADRE SCARPAZZA5
I FRATI
IL BANCHETTO COL FRATE
Al centro della trama, dopo l’assicurata lontananza del marito, c’è il banchetto
della donna col frate che lascia immaginare l’imminente speciale carità.
Il contesto in cui si svolge l’evento può essere la casa di lei o la cella del padre, a
seconda del canto. Nella serie Cosa farale ste done o El convento dei fra, vengono
raccontate, nelle strofe iniziali, la civetteria femminile e l’arrivo al convento.
Esistono poi versioni con parti finali moraleggianti che prevedono o il rifiuto
sdegnoso della donna alle richieste del frate (es. Padre Scarpazza1) o l’arrivo
improvviso del marito con conseguente bastonatura del religioso2. In ogni caso
queste evenienze appaiono marginali al nocciolo del canto3.
224
EL CONVENTO DE I
FRA4 - Sideropolis (Nuova Belluno), RS, Brasile, 1999
01
04
Vùtu savere che fa le done
quando va via il suo marì?
Le se peténa, le se fà bèle
e po le va su l convento de i fra.
ah ah ah ah, a l convento de i fra.
E ghe farémo un bon brodéto,
frito un ovéto e formàio gratà;
e ghe farémo un bon brodéto,
frito un ovéto e formàio gratà;
ah ah ah ah, formàio gratà!
03
05
La prima roba che l ghe dimanda
Spo∫a l é in ca∫a il tuo marì?
Il mio marito l é andà ai lavori.
Siamo sicuri che a ca∫a no l é.
ah ah ah ah, che a ca∫a no l é.
Qua gh é salame, qua gh é pre∫unto,
qua gh é de tuto de quel che volé;
Qua gh é salame, qua gh é pre∫unto,
qua gh é de tuto de quel che volé;
ah ah ah ah, de quel che volé!
1
Cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, Venezia, Tipografia Fontana-Ottolini, 1873, XI, 8, c. 7.
È il caso del canto intitolato Ciàmelo dentro, riportato da Coltro in Canti e cantari, 276-7 le cui strofe dicono:
«Ciàmelo dentro quel povero frate / ciàmelo dentro a far colazion; / La prima co∫a che lu l ghe domanda / spo∫ina
cara dov è tuo marì; / Il mio marito l é ndà sui lavori / siamo sicuri che a ca∫a no l ven, / Giunta la sera ariva el
marito / straco sfinito e ela malà; / Se tuti i béchi i gavese l lampion / Ge∫ù Maria che iluminasion».
223 3 Nell’altro esempio sonoro intitolato Il vecchierello *, del gruppo Voci di confine di Voghera, CD Il finestrello,
09 (Arc. P. Rolandi, 2003), struttura e andamento sono simili e cambia solo il protagonista (il vecchietto
anziché il frate) con ciò riallacciando il discorso ai canti visti ad inizio volume (cfr. Maledeto carnevale).
4
AGSB, CDE Soraimar I ori de Angelin, SRM0226/24, cantata dal Grupo Belunesi (si è omessa la seconda
strofa il cui testo è: «Na sonadete de canpanèlo / frate più belo lu l vien sul porton» ripetuta due volte.
Altra versione è quella in AGSB,CDE Soraimar, Via da londi, SRM0198/01, cantata dal Gruppo Scapoli,
225 Villa Maria (RS) * : «Che co∫a fale anca ste done, / quando el marito l é fora de cà; ah ah ah ah. /Lore se pètena,
se fano bele, / sol per andare a l convento dei fra; / E con tre bòtole su l canpanelo / frate più belo el vien su l
portel; / La prima co∫a che i ghe domanda / cara spo∫eta dov élo l marì; / El mio marito l é andà ai lavori /
siamo sicuri che a ca∫a no l vien; / El ghe parécia na caregheta / cara spo∫eta senteve ∫ó qua; / E lu l ghe prèpara
un buon brodeto, / dentro n oveto e l formaio gratà; ah ah ah ah». Analoga è anche la versione di Serafina
226 Correa, (RS), in Brasile, registrata nel 1999, (AGSB, CDE Soraimar Bele e taliane, SRM0018/05, cantata da
Sole e Mèia). Le lezioni italiane del settentrione sono numerosissime. Cfr. Castelli, 91, 91.
2
286
227
01
04
Un giorno andando, padre Scarpaza,
adimandando la carità,
bate la porta. Dona Francesca,
ch è a la finestra, di∫e: chi xé?
Ma mi no vògio pan, né parsuto,
solo quel fruto, zà m intendé!
Moleve l busto, signora mia,
in corte∫ia, per un tantin.
02
05
La caritate, povaro frate!
e per pietate la dimandò.
Se la farete, merito avrete;
merito avrete col Superior.
Andè in malora, frate bricone,
scaltro e saltrone, ndè via de quà!
Andè in de∫erto, entro i boscheti,
co i o∫eleti a parlar cusì!
03
06
Intrate, padre, ne la mia stanza;
a piena panza vu magnarè
del pan, del vin, de lo parsuto;
farò de tuto, purché magné.
Andè in le selve a prendar moglie!
Presto l se toglie, presto non v è.
Il menù dell’intima cenetta è abbastanza stabile, brodetto con uova e formaggio
grattugiato, pane, vino, prosciutto e salame: gli stessi elementi energetici visti
nel capitolo iniziale dei ricostituenti amorosi.
Gli stessi ingredienti compaiono anche in un altro canto con protagonista
femminile, come evidenzia il titolo: Quand ero mònica6.
UN FRATE DI CARNEVALE ovvero L’AMANTE CONFESSORE7
L’avvenimento si incentra sul salutifero effetto di una confessione, richiesta ad un
frate, dalla madre di una giovane preoccupata per il grave malore della figlia. In
molte versioni il prologo spiega trattarsi di uno scherzo di carnevale architettato
dai due giovani amanti per cui il frate altri non è che il giovanotto travestito da
capuccino. In altri casi il gesto ha lo scopo di impedire la monacazione della
giovane. In alcuni tipi di finali si prevede prima la benedizione della madre al
frate, per l’apparente guarigione avvenuta e, di seguito, la maledizione per i reali
effetti conseguenti. Elemento comune ad altri tipi di canto è l’allusione al cordón,
alla grossa e lunga corda che cinge il saio del frate, che diventa sinonimo del suo
altrettanto dotato sesso.
5
Cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, XI, 8, c. 7.
Archivio A. Vigliermo, Ruèglio, 1972.
7
Titolo convenzionale, Nigra, 97.
6
287
IL PADRE CAPUCCINO8
228
01
05
– O padre capusin,
fermève qua n tantin,
che g ò na figlia bela;
Che la xé per morir.–
La confesion xé fata,
el frate xé andà via,
la figlia leva su∫o:
– O mama, son guarìa!–
02
06
– Se la xé per morir,
bi∫ogna confesarla.
– xé qua lo confesor,
o mia figliola cara. –
–Sia benedeto el frate,
l autorità che l porta!
Se no gèra quel frate,
mia figlia sarìa morta.–
03
07
– Sarè porte e balconi,
a ciò che nisun senta;
a ciò che nisun senta
la nostra confesion.–
In cao a i nove me∫i,
xé nato un bel bambin:
el somegiava tuto
a l padre capusin.
04
– Quanti pecati avéu?
– Mi ghe n ò fati do,
mi ghe n ò fati tre,
e l quarto sarè vu.–
UN DÌ DI CARNEVALE9 - Arsié, 1975
EL FRATUCIO10 - S. Correa, RS, Brasile
01
01
Al tempo di carnevale avevo una moro∫a
come devo far pe andare a ritrovar
vestì da capucino mi convien de andar.
G aveva na moro∫a che i la teniva in ca∫a
e no sapéa che fare pe andare a ritrovarla.
Vestito da capucino me convien andar.
02
02
Vestì da capucino pin pun pichiai la porta
pin pun pichiai pichiai, no steme a ∫balordir
che g ò na filia in leto che l é per morir.
Mi g ò batù a le porte de la Ro∫ina in ca∫a
e ghe domando domando la carità.
Fratucio, bel fratucio, no sta farme da no dir
che mi g ò na fiola in leto, la mi vol morir.
03
E se l é per morire, bi∫ogna confesarla;
e voi che sié quel fra, quel frate capucin,
sendéte par le scale e confeséla ben.
229
03.
El sende par le scale, si avicina a fianco a l leto:
e stendi qua la man, e abracia sto cordón
se vuoi che io ti porti la resuresion.
E se la vol morire conviene a confesarla.
Vu frate confesore venite a confesarla.
L à sentisto ste parole, el va dentro su la porta
el va soto i so linsioli, e la prende per la mano
e la strende sul cordón,
e che dentro de poco tenpo ghe darén l asolusion.
06
04.
04
Da là da pochi me∫i la luna va cresendo.
Da là a pochi me∫i l é nato un bel bambino
che l somejava tuto a n frate capucin,
che l à tradì la figlia ch era per morir!
In zona si trovano anche altre strofe
04 bis
O mora o bela mora, ma quanti amanti avete
di amanti ce n ò tre, trecentoventitre,
ma quel che più mi piace sta vicino a me!
05
El frate capucino sentir queste parole:
el tira ∫ó l cuertor, el salta sul cusin
se ti te g à la ro∫a mi g ò l gelsomin!
L asolusion l é data e l capucin va via.
La fiola la se alsa: cara mama son guarìa;
ò benedì quel fra e con quel cordón che l g à;
el me g à guarìo la fiola; l era in let malà.
05
Ma in capo quatro me∫i la luna va cresendo:
che mal saralo stato: quel fra de quel convento
G ò maledio quel fra e chel cordón che l g à
el me g à tradìo la fiola: l era in let malà.
06.
Ma in capo nove me∫i l é nato un bel banbino;
lu l someieva tuto quel frate capucino.
G ò maledio quel fra e chel cordón che l g à
el me g à tradìo la fiola: l era in let malà.
8
Cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, XI, 11, c. 9.
La versione feltrina ci è stata passata da Daniela Perco. Altri brani coerenti per tipologia, sono i brani in
Wassermann, 242-244, tra i quali spicca quello raccolto a Marsure di Aviano dove il frate accenna
specificatamente ad una posa amorosa: «E se la tire là sul let / con le ganbe sul suo pet / - O ∫bati, ∫bati oi bela /
∫bati con un bacin». Questo canto è sicuramente tra i più popolari in tutto il settentrione d’Italia: cfr. Pilla, 44 (El
frate capucin); Ronchini, 19 (El carneval xé ndà); Castelli, 46, 32 (L’amante confessore); Ive, 322, 2 (L’amante
confessore); Dalmedico, 41 risulta anche tra quelli conservati dagli emigrati veneti in Slavonia (Croazia) a fine
Ottocento (AGSPB, SRM, CD Tera par gnent).
10
La lezione del Grupo Scapoli de Vila Maria (AGSB, CDE SRM0198/01, Via da londi, ) risulta con frasi
230 accavallate e strofe irregolari per evidente falla di memoria dei cantori; ciò la rende però interessante sotto il
profilo esecutivo. Del tutto simile è anche la versione di Sole e Mèia, * proveniente dalla medesima zona
(AGSB, CDE SRM0018/01, Bèle e taliane).
9
Rembrant, Il monaco nel campo di grano, incisione, 1645
288
289
La versione nota in tutta Italia come Co sta pioggia e co sto vento è tutt’oggi
praticata come canto da osteria14.
LA CONFESSIONE DI FRA FORMIGA
Una pedante ricerca dei peccati a sfondo sessuale è il motivo conduttore di
questa confessione11 che rende peccatore il frate, non casualmente riconosciuto
come Fra Formiga ma, più propriamente, Fra Fornica (da fornicare12).
Anche in questa tipologia il doppio senso indecente arriva con la richiesta di
baciare el cordón, peraltro non ignoto alla scaltra ragazza.
231
CO STA PIOVA E CO STO VENTO15 - Rovigno, Istria, 2004
Co sta piova e co sto vento,
chi è che busa al mio convento?
RIT:
FANFORNÌCA13
01
Fanfornìca, Fanfornìca!
Co∫a vuoi da Fanfornìca?
Gh è na povara vedovela,
che se vol aconfesar.
Vedovela? Mandéla via!
no la vògio confesar.
02
Fanfornìca, Fanfornìca!
Co∫a vuoi da Fanfornìca?
Gh è na povara maritata,
che se vol aconfesar.
Maritata? Mandela via!
no la vògio confesar.
03
Fanfornìca, Fanfornìca!
Co∫a vuoi da Fanfornìca?
Gh è na povara verginela,
che se vol aconfesar.
Verginela?… bagatela!
Sì, la vògio confesar.
04
Quanto tempo séstu stata,
che no ti xé aconfesata?
Sarà quinde∫e o vinti dì.
che no me aconfeso pì.
11
Da quel tempo fin adeso,
dime i pecati che ti à comeso.
Son na povera vechierela
che si vuole confesare. (e la allontana)
05
Padre mio! ò batuto el gato
per un falo che l m à fato:
el m à roto n orinal.
Figlia mia, xé poco mal
e per segno de sudizione,
prendi e bà∫ia sto cordóne;
06
prendi e bà∫ia sto cordóne
che te dò l asoluzione.
Padre, sì, lo ba∫iaria,
ma g ò paura de mama mia.
Dime in dove stai de ca∫a.
A San Luca, in Sali∫ada.
07
Dime el numero de la porta.
Sinquesento e tanti importa.
Dime l ora ch ò da vegnir.
Su l più belo del dormir.
Dime chi ne farà la scorta.
Mia sorèla su la porta.
Va, che l siel te benedisa!
Benedeto Fanfornìca!
Come confessori, i Frati sono di gran lunga preferiti poiché de mànega larga (di manica larga)… ma sarà
solo nel senso di più tolleranti o mànega, manica, sarà un altro sinonimo?
12
Dal latino tardo fornicare, da fornix-icis, arco, volta e per estensione, bordello: avere rapporti carnali (sessuali)
con altra persona che, se non col coniuge e in modo consentito secondo la propria legge, per la chiesa diventa
peccato di fornicazione (contro il sesto Comandamento). La difficoltà di rendere il contenuto del termine
fornicare ha fatto sì che non pochi di noi, da giovani, abbiano avuto in merito idee molto confuse.
13
Cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, XI, 9, c. 8. Fanfornìca, anche Fra Fornìca (da fornicare), in altri
canti diventa Fra Formìga.
290
ciùm balailèi, ciùm balailèi, ciùmbalailìlailèlo,
ciùm balailèi, ciùm balailèi, ciùmbalailìlailà.
T alo mai tocà la panza
Padre sì, ma con creanza.
RIT:
T ali mai tocà le tete?
Padre sì, co le molete.
RIT:
RIT:
Co sta piova e co sto vento,
chi è che busa al mio convento?
Te alo mai tocà le gambe?
Padre sì, sensa mutande.
RIT:
RIT:
L é na povera verginela,
che si vuole confesare.
T an tocato mai la fica?
Padre sì, ma con fatica.
RIT:
RIT:
Vieni pure, vieni avanti,
io confeso tuti quanti.
Or se vuoi l aso-lusione
Bacia e prendi sto cordóne!
RIT:
RIT:
T alo mai tocà il peto
Padre sì ma con rispeto.
RIT:
Padre mio se no son orba,
questo è casso non è corda!
RIT:
14
Cfr. Posagnot, 518, c. 460. Il canto presenta leggere differenze ed un ritornello, peraltro frequente, che
intervalla ogni strofa (ciàpelo, lìghelo, mételo in galera, / ciàpelo, lìghelo mételo in pre∫on). Ecco la sequenza
delle strofette: Co sta piova e co sto vento, chi è che bussa a sto convento?/ L é na povera verginela, che si vuole
confesare / Te alo mai tocà le tete / padre sì, ma co e manete / Te alo mai tocà la panza / padre sì, ma co
creanza / Te alo mai tocà le gambe / padre sì, ma co e mutande (anche sensa mutande) / Te alo mai tocà la
figa / padre sì, ma co fadiga / Se tu vuoi l aso-lusione / ciapa e ba∫a sto cordóne! / Caro padre no son orba /
questo è casso no l é corda!
Cfr. anche U. Bernardi, Abecedario, 140-141. La forma è simile e si ha il medesimo ritornello: Co sta piova
e co sto vento chi é che bate a sto convento / Co sta piova e co sto vento no se confesa n sacramento / L é na
povera verginela che si vuole confesare / Entra, entra verginela che te meno a la capèla / E te ài mai tocà la
gamba – Padre sì ma no son stramba / E te ài mai tocà le tete – Padre sì, i me le à anca strete / E te ài mai
tocà la panza – Padre sì ma co creanza / E te ài mai tocà la figa – Padre sì, ma co fadiga / Se tu vuoi l asolusione, prendi in mano sto cordóne / Caro Padre no son orba, questo è un casso e no na corda / Co sta piova e
co sto vento, Chi éo restà drento l convento? / L é restà Padre Formìga, che ghe pia∫e tant la figa.
15
AGSB, SRM 0234/13. Il ritornello è del tipo semplificato.
291
LA CONFESIONE DI CATARINELA16 - ottocentesca, di area trevigiana
O Catina,
Catarinela
* oh, oh, oh
** eh, eh eh
232
T a lo tocato
Padre sì,
* mai la mano?
* ma piano piano.
**
**
Ma g astu mai * fato l amore?
Ma padre sì, * ma con timore.
**
**
T a lo tocato
Padre sì,
* mai el pèto?
* ma con dileto.
**
**
T a lo tocato
Padre sì,
* mai la testa?
* ma gera festa.
**
**
T a lo tocato
Padre sì,
* mai la panza?
* ma con creanza.
**
**
T a lo tocato
Padre sì,
* mai la fronte.
**
* ma l gera un Conte **
T a lo tocato
Padre sì,
* mai le gambe?
**
* ma le gera stanche. **
T a lo tocato
Padre sì,
* mai el vi∫o?
* ma co n sori∫o.
T a lo tocato
Padre sì,
* mai i pìe?
* ma gèrimo in sie.
**
**
**
**
234
La cena del benestante, xilografia seicentesca
FRATE FRANCESCO E LA LATTAIA17
La storia del frate, che circuisce la villanella che porta il latte fresco di buon
mattino, si ripete in versioni con diverse sfumature. Nel primo caso si tratta
addirittura di uno spulzellamento dettagliato. L’indifferenza della giovane,
preoccupata più di salvaguardare la propria immagine nei confronti dei parenti
che del fatto stesso che le accade, rendono meno cruenta la storia ma indica pure
come questi avvenimenti entrassero in circostanze considerate ‘normali’ (la
prevaricazione dei potenti, ovvero di chi ha l’autorità, sugli ‘impotenti’, sui
villani). La versione cittadina tramandataci dal Bernoni, viva nell’Ottocento, è
solo leggermente più addomesticata.
16
Il testo ottocentesco è quello riportato dal Ninni, Scritti dialettologici, II, 66-69, che riporta con puntini le
domande più scabrose del ‘padre’. Questa variante conferma la popolarità tipologica del canto.
17
Cfr. D. Coltro, Cante e Cantari in più versioni; 277-8, ed interessanti strofe finali: «E mi sì che lo farìa /
basta che lui che l fasa e l ta∫a; / Se i vien saverlo i miei di ca∫a / la più grama, la più grama saria mi. / Sta
sicura giovanetta / che faremo in freta in freta / far bolir la cogometa / co l bon late che te gh è ti».
In una successiva versione, l’atto amoroso è ancora più esplicito (280-281) ed è la fanciulla che parla: «E adeso
sì, e adeso sì che stao fresca / te m è roto, te m è roto la pignata – lerombombom / te m è roto – lerombombom /
e la pignata – lerombombom / e anca l orlo e anca l orlo de l orinal – lerombombom».
L’analoga versione passatami dall’amico Bepi Carone per Polcenigo (PN) dice: «La vien giù, e la vien giù
da le montagne paraparapà / co la gerla, co la gerla sule spale paraparapà / la va gridando larimbimbon /
par ste contrade paraparapà / late e pana a chi la vol! /Sul convento era un frate /che a sentire sta bela voce
292
LA LATAIA18 - Gruppo spontaneo, Moldoi (BL), 2000.
01
04
La vien giù, la vien giù da le montagne –
paraparapun
co le sécie, co le sécie su le spale,
la ron bon bon
la va gridando – paraparapon
per ste contrade – la ron bon bon
late fresco, late fresco a chi ne vol!
E io sì, e io sì che la farìa,
che no lo sàpia
i miei di ca∫a
...
02
05
La pasa là, la pasa là a l convent de i frati;
la vede n frate, la vede n frate a la finestra
che l ghe fa n segno co la testa,
poi comincia, poi comincia a sénder giù!
E a la sera, e a la sera torna a ca∫a
tuta sporca, tuta sporca e insanguinata;
dove sei stata figliola cara
e la note, e la note e tuto l dì.
03
06
O Gigiota, o Gigiota contadina
tu mi sembri, tu mi sembri spirito∫a;
io da te vorèi na co∫a:
far merenda, far merenda e colasion!
Mi son stà, mi so stà a l convent de i frati
là g ò trovà, là g ò trovà Padre Francesco
che l me à menà su n leto fresco
e là l me g à par ben ciavà!
basta solo, basta solo che tu ta∫a,
LA LATAIA PATATERA19 - voce femminile, Possagno (TV), 1988
La vien giù, la vien giù da le montagne *
e con un saco, con un saco di patatele,*
e la ghe n magna **
cargà la pèle **
da la fame, da la fame che la g à !
E da un frate d un convento
l à sentìo sta alta voce
e fato l segno di santa croce
giù da le scale egli andò.
E l la ciapa per un braceto
e la mena in camerèla
e po l ghe sara la porticela
sopra l leto la fà ndar.
Marcia via bruto frate
e va a dir la tua corona
non son mica na matu∫ona
come quele de la cità.
La va a ca∫a da la sua mama
tuta quanta spetinata;
o figlia mia dove sei stata
che sei tuta spetinà.
Io son stata a l osteria
e a béver il vin bianco
e co n bel moreto in fianco
quanti baci il mi à donà.
* ronbonbon ** tarataratà
/ el se fa l segno de la santa croce / e l se mete sul porton. / E l ghe di∫e bela mora / mi dovreste far na co∫a /mi
dovreste fare una co∫a / e di darmi il vostro amor. / E io sì che la farìa / basta pure che lu l ta∫a / che no i lo sapia
i miei de ca∫a / che no i lo sapia mai nesun. / El à ciapà quella manina / el l à portà su per la scaleta / e co l cordón
che l pendolava / l la distira sul sofa; / E adèso sì che mi sto fresca, / al me g à roto la ghitara / che no lo sapia i
miei de ca∫a / che no i lo sapia mai nesun! / Co fu in cao a nove me∫i / ghe ∫é nato un bel bambino / che el somigliava
padre Francesco / el somiliava proprio lu».
18
ASGB, BLM, Moldoi (BL), inf. Maria Talin, 2000.
19
La versione, particolare per l’accenno ai tuberi, è quella raccolta a Possagno (TV) da Gabriele Vardanega (inf.
233 Ida Ferraro) cui si deve anche il reperimento della seconda, messa accanto in nota (in Posagnot, 433, c. 373).
293
FRA FRANCESCO - D. G. Bernoni, Tradizioni popolari veneziane, 42
01
04
07
La Nineta andando in piaza
co do sésti su le spale
va sigando per le cale:
late e pana, chi ne vol?
– Sto to late e sta to pana
∫ela fresca e ∫ela sana? –
– La xé fresca e la xé sana
forse ancora più de vu! –
– Come vol lo mai che faza,
che là drento gh è clau∫ura!
mi del diavolo g ò paura:
no, no fazo sto pecà. –
02
05
08
Mentre un frate gèra in cela,
a sentir sigar sta vo∫e,
presto lu se fa la cro∫e:
Oè, del late? vegnì qua!
– Ma va là, bela putela!
ti xé molto spirito∫a,
ti dovresi far na co∫a
vegnir drento qua co mi.
– No temer, o vilanela,
che qua drento el papa stéso
una grazia el m à concèso:
far intrar chi vògio mi.
03
06
09
Dime l vero, o vilanela:
ma sto late ∫elo fresco? –
– Ve lo giuro, fra Francesco:
sto mio late xé d ancuò. –
Vo mostrarte la mia cela:
dove dormo, eco la stansa:
Nina mia, se ti à creansa,
vegnir devi qua con mi. –
Cosa mai ch el g abia fato
el bon frate a sta vilana:
S à sentìo la meridiana,
la vilana gera là.
I successivi due canti sono riportati dal Bernoni ma risultano attualmente caduti
in disuso. La loro presa popolare è infatti scarsa dato che scontata e troppo
debole è la trama.
FRA FABIO21
01
03
Fra Fabio fa pazìe
per una sèrta dona
onesta savia e bona,
che zà tuti lo sà.
Vien a ca∫a el marìo,
el lo trova su le scale;
el lo condu∫e in cale:
– Bricón de un fratacion!
02
04
El se produ∫e in ca∫a,
come che fa sti frati,
da povari insensati,
dimandando la carità.
Ma vardè ben ste porte,
sior frate fiol d un can;
co la corona in màn
sie stanzie recitè –.
EL FRATIN22
FRATI PER CASA
235
01
04
Quella che segue è la confessione di una moglie che narra al marito del suo
incontro con un frate come si trattasse di un sogno anche se la descrizione degli
eventi è quanto mai reale.
– Va là, vilan, va a cà,
ti trovàra el fratin!
Vilan, vilan, va a cà,
el trova el frate in t un stanzin.
Vilan tol su un baston,
e tinf e tonf, lo paga!
El frate va in convento
co la cerega insanguinada.
PRESTA ASCOLTO MARITO MIO20 - Moldoi (BL), 2000
02
05
– E cosa gastu là, fratin,
la testa insanguinada? –
– Sonando la campana,
m ò roto la ceregada. –
01
04
Presta ascolto marito mio,
che ti raconto la verità;
E dai colpi che lui mi dava,
girava l leto di qua e di là.
– E cosa fastu qua, fratin? –
– Confèso la tua dona. –
– Confèsila pur ben,
che te darò la paga.
02
05
gèro in leto che dormivo
e soto l leto ghe gèra un fra.
La matina mi son ∫vegliata
e col cul tuto scasà.
03
03
Lu l g aveva la barba longa
e l cordón l era ben tirà.
– Da che mi fazo el frate,
no ò mai tirà la paga. –
– E mi te la darò,
ti te l à meritada! –.
20
La versione è quella che ho raccolto da Maria Talin, ma ne ho trovato una simile anche a Campagna Lupia
(VE) il cui testo è quasi identico: «Cito, cito (anche zitto, zitto), marito mio, vòlio dirvi la verità. / Ero a leto
che mi dormivo, soto l leto ghe jèra un fra. / Lu l gavéva li ochioni neri che l faceva inamorà./ Lu l gavéva la
barba longa e l cordón che era ben tirà. / Se no jèra più che svelta l me ciapava su l cavesà./ El m à dato la
penitenza e g ò fato la carità. / E da i colpi che lu l me dava, me sentiva tuta bagnà». Il canto si ritrova pure nel
Polesine e risulta adottato dalle mondine, fino in Piemonte (cfr. Castelli, 91-92, 92, Sotto il letto c’era un
frate). Versioni veronesi sono riportate anche in Coltro, Cante e cantari, 281 (Su ascolta marito mio) e in
Canzoniere del Progno, 153 col titolo El paracar, data la presenza di una ulteriore strofa dedicata al cordón del
frate che «l era longo più di un metro / l era longo più di un metro / la grosesa di un paracar».
294
21
Cfr. Bernoni, Canti popolari veneziani, XI, 12, c. 10.
Cfr. Bernoni, Tradizioni popolari veneziane, 51. Una versione intitolata Il fratino pagato è anche in G.
Ferraro, 140, tra i canti popolari Monferrini (1870).
22
295
236
ANCORA SUI FRATI
Al motivo appena visto risulta legato anche l’altro brano istriano intitolato
Il seguente canto satirico è strutturato in modo analogo a quello già visto per ‘la
zoppa’ e si basa sull’equivoco della parola sospesa.
IL FRATE GABBATO25 - Istria
VARDA QUEL FRATE23 - Valcavasia, TV
Guarda quel frate,
con quela suora,
come che l ∫bocome che l ∫bocome che l ∫bo… la la la la là
guarda quel frate
con quela suora,
come che l ∫borsa la carità!
Varda quel frate,
soto la scala,
come che l ciacome che l ciacome che l cia… la la la la là
varda quel frate
soto la scala
come che l ciama la carità!
Nel canto che segue il frate promette e regala progressivamente alla ragazza
tutta una serie di capi d’abbigliamento facendo felice lei e la madre. L’obiettivo
non si dice ma emerge dal gioco di parole che ad un certo punto viene messo in
campo e lo trasforma in modo divertente!
237
LA VIDE L FRATE (I FRATI) A CORERE24 - Refrontolo, TV, 2002
E la vide l frate a córere la bela se ne va !
E le dice oi bèla férmete ti volio regalar!
Ti regalerò le scarpe;
la bela se ne va !
Ti regalerò le scarpe;
la bela se ne va !
E la sua mama tuta contenta
nel vedere la sua filia
inscarpetàta… com la ièra…
e su per la riviera la bela se ne va!
E la vide l frate a córere la bela se ne va!
E le dice oi bèla férmete ti volio regalar!
Ti regalerò le calse;
la bela se ne va!
Ti regalerò le calse;
la bela se ne va!
E la sua mama tuta contenta
nel vedere la sua filia
inscarpetàta
incalsetata,
com la ièra…
e su per la riviera la bela se ne va!
23
24
Continua col medesimo criterio
Ti regalerò le camicia / le mutande, el
vestito, la chiave / la pompa…
E la sua mama tuta contenta
nel vedere la sua filia
inscarpetàta
incalsetata,
incamiciata
in mutandata
ben vestita
ben chiavata,
ben pompata,
com la ièra…
E ancora: el capèlo (incapelata); la tromba
(ben trombata); la siarpa (insiarpetata) ecc.
Il frate dona altre cose (a inventiva,
spesso con allusioni sessuali) fino che
alla fine
CORO: Povero frate descapelà,
descapotà, descarpetà, descami∫à,
de∫braghesà ecc.
DESIDERIO DI FARSI FRATE26 - Rovigno d’Istria
Siura mare, i vuoi zéi frate,
d oùna sierta riligione;
Quando sona el matutèino,
me se tèira lu curdone.
Quanto è biela la tu buca!
Senpre parla e mai nun pica.
Tei el baston e mei la ruca,
Tei la cana e mei la stieca!
Quant è biela la tu tiesta!
spelarèia oùna salata;
Per dumani, che ∫ì festa,
magneremo oùna pulastra.
Quanto è biele li tu mani!
Cu li meie screivi in lateino.
Tei ti son trupo a luntano,
Nun te puoi vignei a vi∫eino.
Quant è bielo lu tu fronte!
El fa loùs quanto oùn diamanto.
Durmireìa cun teì, siur conte,
∫uta el peie d oùn cavalcanto.
Quanto è bielo lu tu pito!
Che l fa loùs quanto un diamanto.
Giuchereia cun tei a pichito,
Senza oùn ura de lasarte.
Quanto è bieli li tuoi uoci!
Ch i fa loùs quanto dui stile.
Durmireia cun ste putiele,
Senza loùme, nè candìle.
Quanto è biela la tu pansa!
Cu la meia ∫ì stà a la consa;
L uò pe∫à, su la balansa,
Li trì lire mieno oùn onsa.
Quanto è bielo lu tu na∫o!
Che l è drito quanto oùn foù∫o.
Quando el sento stu gran ca∫o,
Ghe se ∫basa doùto el moù∫o.
e su per la riviera la bela se ne va!
Archivio Posagnot, 519, c. 461 (Guarda quel frate), qui nella versione de I Posagnot (Conv. Soraimar 2002).
AGSB 0500.
296
E su per la rivèla,
la bela cantando va.
Un frate ghe va drio
di∫endo: – bela aspètami –
– Co∫a mi donerete? –
Il capelo le donò
CORO: Povero frate descapelà!
25
26
Cfr. Radole, Canti popolari istriani, 181.
Cfr. Ive, 349-350, 18.
297
PRETI
Un tema classico nei canti popolari ‘onti’ con preti protagonisti è quello del loro
rapporto con la perpetua, ovvero la serva1, che compare in quasi tutte le vicende
narrate
238
EL PRETE VA DE SORA2 (O GINGIN) - Canterine di Faedo, VI, 2003
El prete el va de sora - ora ora
e l trova la serva che dorme ancora - ora ora
e l ghe mete na man su la testa:
testa, testin, teston, testorum
per ònia seculi seculòrum
El prete el va de sora - ora ora
e l trova la serva che dorme ancora - ora ora
e l ghe mete na man su le tete:
tete, tetin, teton, tetorum
per ònia seculi seculòrum!
RIT:
RIT:
Oh gingin, mio bel gingin
ancora una volta, ancora una volta;
Oh gingin, mio bel gingin
ancora una volta, ancora un bacin!
El prete el va de sora - ora ora
e l trova la serva che dorme ancora - ora ora
e l ghe mete na man su le pansa:
pansa, pansin, panson, pansorum
per ònia seculi seculòrum!
El prete el va de sora - ora ora
e l trova la serva che dorme ancora - ora ora
e l ghe mete na man su le spale:
spale, spalin, spalon, spalorum
per ònia seculi seculòrum!
RIT:
RIT:
El prete el va de sora - ora ora
e l trova la serva che dorme ancora - ora ora
e l ghe mete na man su la… farsóra
parlato (la farsóra ∫é dove se co∫e i maróni)
farsóra, farsorin, farsoron, farsororum
per ònia seculi seculòrum!
RIT:
1
Contro l’Abate Maurie, satira contro i religiosi del periodo rivoluzionario francese
298
Numerose sono le frottole dove la perpetua (la serva) e il cibo, conditi con un po’ di latino, sono al centro
dell’attenzione popolare. Come primo esempio, una frottola di ritorno dal Brasile, intitolata La polastrela de
239 la Caterinela * (AGSB, CDE Soraimar, Frotole taliane, SRM0200/04; narratore Diomedes Rossato.), di
cui, fra l’altro si trova traccia in Balladoro, Folklore veronese, II, 182, 19 «bene facesti Catarinela, /con quela
canicèla / meza a leso e meza a rosto / per Cristun dòmino nostro». La seconda è piemontese, Al preive munta
240 in coro * (Archivio Vigliermo, Coro Canavese, 1975). Anche questa ne trova una somigliante tra le villotte
del Balladoro (in Corso, 240): «Na olta gh era la serva d un prete / En me∫o le gambe l aveva na mosca / El
capelan, co le so sante man / el g à tirà via la mosca e meso el tavan».
2
Questo stesso brano trova versioni dialettizzate in tutta l’area settentrionale. Bella assai è quella di Coltro,
in Cante e cantari, 491-494, intitolata Adeso di∫emo el rosario, che si richiama scherzosamente a questa
funzione e dove, ad ogni strofa, alle gesta del prete che tocca la serva, il coro aggiunge dopo l’amen… e dentro
l ciò (chiodo), e fora l ciò, la biondina la fa l amor! La versione sonora di una analoga versione piemontese
di Alice Superiore (1971), ci è stata gentilmente concessa dal Centro Etnologico Canavesano e da Amerigo
241 Vigliermo. Localmente è nota col titolo di E lei la va cantando *.
3
Un canto similare è in Canzoniere del Progno, 187, Signor curato meno strutturata «Signor curato / in
sacrestia / con la Maria / a far l amor» e, con testo più vicino, in Wassermann, I canti popolari narrativi del
Friuli, 309. Anche in Radole, Canti popolari istriani, 189.
299
242
El prete e la serva
se mete a viagiar
Rit: (fischio) ciao Ninela, se mete a viagiar!
La serva va via a cavalo
e l prete l é drio a troto
Rit:
La serva la pasa l ponte
e l prete l é cascà zo
Rit:
243
La confessione resta al centro di questo canto popolare, sicuramente noto alla
fine dell’Ottocento e riportato tra quelli che Luigi Marson raccolse nel
Vittoriese a tre quarti di quel secolo5. Si tratta di una frottola musicata, giocata
sulla severità del confessore che si fa mite nel momento in cui la penitente
mostra di conoscere il medesimo peccato che egli fa con la propria serva. Le altre
versioni note mostrano la derivazione da un unico medesimo testo ancora ben
definito in lingua italiana.
EL PRETE E LA SERVA - Grupo Scapoli de Santa Maria, Serafina Correa RS Brasile
La serva la ghe dimanda:
se g alo fato mal?
Rit:
Son scavesà una gamba
e roto l canocial!
Rit:
La serva la magna i bròcoli
e l prete, scataron!
Rit:
EL CURATO3 - Nono Juan, Serafina Correa RS Brasile Arc. GLS Belumat
El curato sentàto su l erba... la la la la la,
co la sua serva faceva l amor.
L areloio che bate le ore... la la la la la,
a le oto ore dobiamo partir.
La sua serva la ghe dimanda... la la la la la,
se l é pecato per fare l amor.
Partiremo diman di matina... la la la la la,
co la carosina del mio pupà.
Se l é pecato, pecato che sia... la la la la la,
la serva mia spo∫arla voi mè.
La carosina fornita di fiori… la la la la la,
sarà i onori del mio pupà.
A ROVIGO A GH È UN CURATO4 - valle del Progno, Verona
E a Rovigo a gh è un curato - bela ti do
e a Rovigo a gh è un curato
che l confessa tuti a l ato - bela ti do
ti do ti do biondina bela,
bela ti do un bacin d amor
Finché l curato la confesava…
con gli ochi la guardava,
con le mani la tocava,
con la boca la baciava…
Signor curato gh è qua na vecia…
che si vuole confesare…
Se l è na vecia mandèla via…
la rovina la compagnia…
O caro figlio non dirlo al padre
che l curato baciò la madre…
Se l à baciata l à fato bene…
l à solevata da tante pene…
Signor curato gh è qua na spo∫a…
che si vuole confesare…
Se l è na sposa mandèla avanti…
che confeso tuti quanti…
Va ca∫a l filio, lo dise a l padre...
che l curato baciò la madre…
Così che l padre el s infuriava…
fora di ca∫a la scaciava…
4
Simile in Canzoniere del Progno, 188. Altra simile versione veronese è quella del Piccolo Teatro di Oppeano
244 * riportata da Coltro in Canti e cantari, 495-96; è presente anche in Istria (GLSA, Zachigna 2005).
5
Cfr. De Biasi, I canti popolari veneti di Luigi Marson, 396. METTI. Altre versioni nelle Venezie, col titolo
L’amore non è un peccato, in Wassermann, I canti popolari narrativi del Friuli, 287-290.
300
245
PADRE SANTO6 - Scarmagno, TO, 1994
F: Padre santo ai vostri piedi
voi vedete, voi vedete un’infelice
penitente che vi dice
s’è peccato, s’è peccato far l’amor.
CORO: Chi lo dice è un mentitor
F: Io li dissi per favore
di venire di venire sopra il letto
e lo tenni stretto stretto
fino a l’ora, fino a l’ora di levar
CORO: Gran pecato a perdonar
P:
Confessate o figlia mia
che vi ascolto che vi ascolto con piacer
ma non dite la bugia
confessate solo il ver.
CORO: Confessate solo il ver
P:
F: All’età di quindici anni
mi sentivo un fuoco in petto
per amor del mio diletto
non potevo non potevo ripo∫ ar.
CORO: Un peccato a perdonar
F: Quel che feci voi già sapete
Ma mi dovete, mi dovete perdonare
So che voi la serva avete,
mi potete, mi potete giudicar.
CORO: Figlia mia basta co∫ì
F:
Una sera presto presto
nella camera dormire mi pareva
di udire sotto il letto
sotto il letto, sotto il letto un gran rumor.
CORO: Dolce co∫a è far l’amor
Io credevo o Padre Santo
di provare di provar na volta sola
ma ò visto che consola
non lo lascio, non lo lascerò mai più.
CORO: Non lo lascerò mai più
Mezzanotte era suonata,
al chiarore al chiaror di un lumicino
quando scorsi Giovannino
rannicchiato, rannicchiato in un canton.
CORO: Scandalo∫a posizion
P:
F:
6
Confessate o figlia mia
ch io vi ascolto con piacer
ma non dite la bugia
confessate solo il ver.
CORO: Confessate solo il ver
F:
Io t’assolvo figlia mia
dei peccati dei peccati confessati,
conosciuti ed accu∫ati,
io t’assolvo, io t’assolvo in verità.
CORO: Io t’assolvo in verità
La versione è quella dei cantori del paese (Arc. Cento Etnologico Canavesano; Ed. MC 41). Amerigo
246 Vigliermo, con Norma Betteto e Gino Coello la cantano poi * in occasione del Convegno Soraimar, Asolo 2002,
sul tema dei canti popolari a sfondo sessuale. Nella stessa occasione cantano pure un altro pezzo sulla
247 confessione, incentrato sul racconto di iniziazione della giovane (incipit: O bongiorno signor sacrestano) *.
301
I MESTIERI
el mestier de l arte∫an
se no l ∫é bon ancùo
∫é bon doman
sonetto di Giorgio Baffo
dal volume ‘Poesie’ (1781)
Se sia la calamitta, o el fèro sia
quelo che tira, no la xé deci∫a;
chi di∫e che la forza xé divi∫a,
Quello dei mestieri ambulanti è un filone classico nei doppi sensi a sfondo sessuale.
L’andare di casa in casa ad offrire proprie merci o servigi a donne sole, con i mariti
al lavoro o alla guerra, rappresenta una fin troppo facile occasione di tresca
amorosa. Lo stesso vale, ma con meno forza, per i negozianti o venditori che al
mercato potevano trovare femmine sole nel far acquisti. Il divertimento è giocato
tra domanda e offerta ed usa gli attrezzi e i gesti ‘del mestiere’ per innescare
continue allusioni.
Tra i vari personaggi di questo mondo, quello dell’imbonitore, del venditore di
pomate dall’effetto miracoloso contro ogni male, del dispensatore di elisir amorosi
e di lunga vita, del millantatore per eccellenza, risulta essere una presenza costante.
che tuti do se tira in compagnia.
Cusì come che gh è gran simpatia
fra el cazzo, quando el tira, e la Marfi∫a,
ancora sta question resta indeci∫a,
se in l uno, o in tutti do sia l energia.
Mi digo, senza tanto dubitar,
248
VENITE DONE DA L BON DOTOR1 - Sideropolis (Nuova Belluno), RS, Brasile, 2003
Spunta l sole a la colina
e la luna in me∫o l mar
che la fa ciaro a le ragase
a la sera a spasegiar.
...
...
Per le contrade spasejeremo
sui palaseti faremo l amor.
Venite o done bele bele
venite o done care care
venite tute dal bon dotor.
Venite o done bele bele
venite o done care care
venite tute dal bon dotor.
che tutta la vertù sia in te la dòna,
e lo pòso da l fato giudicar,
perché a mi, no credè che ve cogiona,
la mona me l à fato ben tirar,
ma mi no ò fato mai tirar la mona.
302
Un mestiere che, per i canti del nostro tipo, ha suscitato certamente grande
interesse è stato quello dello spazzacamino. Lo testimoniano le molte lezioni che
hanno attraversato i secoli quando esso era in auge.
1
AGSB, CDE Soraimar I ori de Angelin SRM0226/14; canta nono Angelin Ambrosio. Il soggetto risulta
inusitato nel panorama dei mestieri con scaramuccia amorosa e le condizioni di reperimento della lezione
portano a pensare che sia per lo meno ottocentesca. La parte per noi interessante è introdotta da una strofa
pertinente ad un altro brano (Spunta l sole a la colina) che ha vita autonoma in diverse versioni, comuni in
tutta l’area del Brasile del Sud colonizzata dagli emigrati italiani a fine Ottocento.
303
(del Cinquecento)2
O spazzacamin!
Chi vuol belle madòn
spazz el camì?
Co i nostri mucegù
curt e gros d ogni ra∫ù
v intraren su la colmegna
spazzaren da paladì.
Gniè volen de vos quatrì
Gniè da bìver, gniè magnà
sol pensen a ben spazzà
tucchi la canna del camì
Ooo... spazzacamino!
Chi vuole, belle donne
spazzare il suo camino?
Con i nostri arnesi
corti e grossi e d’ogni tipo
vi entreremo fino in fondo,
spazzeremo da paladini!
Non vogliamo i vostri quattrini,
nulla da bere o mangiare;
pensiamo solo a spazzare bene
tutti la canna del camino.
01
07
Son qua putaze care
(del Settecento)3
se el scoacamin ve preme,
son lesto comandeme
son qua ve voi servir.
Su resolvé per tempo,
no fé che perda el gusto
che qua l ó∫e me frusto
e niente non farò.
02
08
Se l camin sporco avessi
g ò qua la scoa de rusto;
v obbedirò con gusto
e spero de sortir.
Ve pentiré po quando
no ghe sarà più tempo;
o ben démoghe dentro
o pur che via andrò.
03
09
Benché i vostri camin
non li ò provai gnancora
lasé che vegna sora
e a mi laséme far.
Se ve ciapase fuogo
imbestialia sarési
e presto cercherési
dove xé el scoacamin.
04
10
Benché la scoa sia frusta,
el manego xé niovo:
vardelo, e se ve giovo
pincipié a comandar.
Alora de l afronto
certo vorìa refarme
e sì voria ingrasarme
nel vostro bru∫eghin.
05
11
De vu altre chi è la prima
che brama el camin neto?
A vu caro vi∫eto
ve lo voria scoar.
Tegnì pur mu∫o duro
che a mi m importa poco
trateme pur d alòco
e avanti lasé andar.
06
12
Donéme sto contento,
ve l scoerò per niente
xélo questo qua arente
che lo tendé a vardar.
Pien de scarpìe e scoaze
e pien de petolóni
che scoe, che manegoni
che ghe vorà a netar.
304
249
SPAZACAMINO4
Sideropolis (Nuova Belluno),
RS, Brasile, 2003
01
Al ciaro de la luna
e al sole resplendente
gridava alegramente.
gridava alegramente.
Al ciaro de la luna
e al sole resplendente
gridava alegramente
eco l spazacamin!
02
Girando pe ste contrade
trovò na signorina
con voce tremolina
chiamando spazacamin.
03
Per non sapere il mio nome
la mi chiama pianpianino
vien qua spazacamino
il mio camin l é da spazà.
Gaetano Zompini,
Le Arti che vanno per via nella città di Venezia, 1785
sopra, el caregheta, il seggiolaio
sotto, el gùa, l’affilatore
04
Bravo spazacamino
tu mi ài ben contentata
tu mi ài bene spazata
la cana del camin.
05
Ti prego un altra volta
di qua tornar pasare
e di tornar gridare
l é qua l spazacamin.
2
Testo e musica sono attribuiti a Filippo Azzaiolo e si
trova ne Il Primo Libro de Villotte alla Padoana,
Venezia, Gardano, 1557, n. 17 (informazione di Bepi
Carone).
3
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello...,
Miscellanea, I-Vnm It., Cl. IV 62 (60v-61r) [462463] (S,bc, RE. H*)
4
AGSB, CDE Soraimar, 2004, I ori de Angelin
SRM0226/10; canta nono Angelin Ambrosio.
305
Le due trasposizioni più attuali e note sembrano essere le successive; la prima
possiede più i tratti di una storia a lieto fine ed è certamente la più moderna.
250
SPAZACAMIN CHE VIEN DAI MONTI5 - Arsié, BL, 1975
01
05
Spazacamin che vien da i monti
vien da i monti a la cità
va gridando per le strade
chi à l camin da far spazà!
Mi no voi ne pan ne vin
ne danari ne quatrin
sol vorèi un bacin d amor
per consolarme l core∫in.
02
06
Salta fora na ragasina
e la ghe di∫e alto là
el se ferma galantomo
che ò l camin da fa spasà!
Vàtene via o bruto vecio
bruto vecio de n vecion
tu voresti farmi spo∫a
per un saco di carbon.
03
07
Tira fora la raspeta
la raspeta e l martelin
el ghe dà na ochiadina
po l va su per el camin.
Quando andrò nei miei pae∫i
tuto di nuovo mi vestirò
e co l aqua e col sapone
capo e piedi mi laverò.
04
08
Signora paróna la vegna qua
che il camino é già spasà
El me diga galantomo
quanti soldi che g ò da dà.
– Io sarò la tua Gingiota –
Io sarò il tuo Gingin
e ci chiameremo spo∫i
e mai più spasacamin!
si sono rilevate anche alcune leggere varianti nei testi delle strofe
02
03
Salta fora na giovane e bela
e la ghe di∫e alto là
el se ferma galantomo
che ò l camin da fa spasà!
Tira fora la raspeta
la raspeta e l martelin
e po l alsa la ganbeta
e l va su per el camin.
5
Quella presentata è la versione raccolta da Daniela Perco. Analoghe ve ne sono nell’Archivio Posagnot
Questa seconda è la versione classica (in taliano), del celeberrimo canto, tra i
pochi che sembrano non risentire dell’usura del tempo.
254
SPAZZACAMINO6 - Valcavasia, TV, 1998
nota: le strofe si ripetono due volte
01
07
Su e giù per ste contrade
di qua e di là si sente
la voce allegramente
dello spazzacamin.
Bravo spazzacamino,
mi avete accontentato,
mi avete ben spazzato
la cappa del camin!
02
08
S affaccia alla finestra
na bella signorina
con voce assai carina
chiama lo spazzacamin.
E prima di uscire
da questa santa porta
proviamo un’altra volta
su e giù per il camin.
03
09
Prima lo fa entrare
e poi lo fa sedere;
dà da mangiare e bere
allo spazzacamin.
E dopo quattro mesi
la luna va crescendo
la gente va dicendo
dello spazzacamin.
04
10
E dopo aver mangiato
mangiato e ben bevuto
gli fa vedere il buco,
il buco del camin.
E dopo altri due va
a preparar le fasce
per il bambin che nasce
dello spazzacamin.
05
11
Mi spiace giovanotto
se l mio camin l é stretto;
povero giovinetto,
come farà a salir!
E dopo nove mesi,
l é nato un bel bambino,
asomigliava tutto
allo spazzacamin.
06
12
Non dubiti Signora
son vecchio del mestiere
so fare il mio dovere
su e giù per il camin.
Lo porteremo in chiesa,
in chiesa a San Martino
gli metteremo il nome
dello spazzacamin!
251 tra cui la seguente * della Valcavasia. Il canto è comunque diffuso in tutta l’area del settentrione d’Italia (si
252 veda, ad esempio, quest’altra della Val Trompia *). Cfr. anche Coltro, 395-397 (Spazacamin), Noliani, 61
(Spazacamino). Nella versione menzionata da Castelli (54, 38 Lo spazzacamino) il canto si conclude
sull’equivalente strofa 5 con le parole «no voi né pòn e né ven e né quatrém / soltanto la bicicletta, / d andà
fina a Tirén» ( non voglio né pane, ne vino ne quattrini / ma solo la bicicletta / per andare fino a Torino).
Sul significato di bicicletta si è peraltro già detto.
Una versione intermedia tra queste illustrate e la successiva ‘classica’ sembra essere quella in voga
253 sull’Appennino Tosco-Emiliano *, cantato dalla Compagnia del Maggio di Monghidoro (BO) in occasione
del Convegno Soraimar 2002, ad Asolo.
306
6
Questa versione (cfr. Posagnot, 124, c.94) corrisponde alla tipologia forse più nota. Nello stesso Archivio
255 e col medesimo testo ma altra linea musicale si canta quest’altra (incipit: Su e giù per le montagne) *.
Possagno, 1982. Questo canto è riportato pressocché in tutti i volumi in bibliografia che trattano il canto
popolare (per il Friuli cfr. Wassermann, 281-286), ecc.
307
L’arrotino, el moleta, girava soprattutto per le città per arrotare lame di forbici e
coltelli; arrivava anche nei paesini dove aveva meno successo perché tutti erano
dotati di ruota molare per affilare in casa manere, manerìn, ronche e ronconi.
Forse proprio qui trovava modo di essere ancor più convincente con le più
disparate prestazioni: da narratore di novità a ‘incantore di femmine’.
256
DONNE, L É QUI IL MOLETA7 (Ottocento)
01
04
Or vien dalla Lorena
il vostro molador
e la cariola mena
per le contrade ancor.
E fórbe∫i e coltelli,
grida chi vol molar
avete corte∫ia,
non state a dubitar!
E zin e zon e zan.
Coltelli e forbe∫ette
molar, ò grand onor,
quando sia grazio∫etta
la sua padrona ancor.
Signora l ò servita
con tutto il mio piacer
faccia pur capitale
che so ben in mestier.
E zin e zon e zan.
02
05
Donne, l é qui il moleta
che fa ben il mestier
che restaré contente
ed averé pia∫er.
Io faccio andar la mola,
e zin, e zon e zan
l é un arte che consola,
l é un bon mestier che ò in man!
E zin e zon e zan.
Quand anche vò in campagna
a far questo mestier
nessun de me si lagna
che faccio il mio dover;
e la cariola menando,
co∫ì, co∫ì pian pian,
battendo alla porta
di questi pae∫an.
E zin e zon e zan.
03
E fórbe∫i e coltelli,
grido chi vuol molar
che da una giovin bella
mi sento a dimandar.
E quanto voi volete
mi dice quella ancor,
farete corte∫ia
il mio caro molador.
E zin e zon e zan.
EL MOLETA8 - Serafina Correa, RS, Brasile, 1999
01
02
Oh fórbe∫i, cortèli,
portate qui da me:
se g avé la forbe∫éta
che ghe manca la brocheta
el ciodin ghe lo meto mi!
Oh done bele o brute,
mi ghe voi ben a tute,
se g avéte la forbe∫éta
che ghe manca la morséta:
el morsìn ghe lo meto mi!
RIT:
RIT: (ripeti come il precedente)
E la mola la va e la gira,
e la mola la gira e la va;
gira gira Gioàn che fin sera
senpre la girarà.
E la mola la va e la gira,
e la mola la gira e la va;
gira gira Gioàn che fin sera
senpre la girarà.
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello, Miscellanea, I-Vnm It., Cl. IV 80 (78v-79r), [496497] (S, bc, Sol). Questa versione coincide in parte con quella ‘trentina’ resa famosa dal coro della SAT
negli anni Sessanta.
308
Oh done bele o brute
mi ghe voi ben a tute
solo mi basta
che le vègna e che le torna,
e le me daga da guzar.
RIT: (ripeti come il precedente)
Il mestiere dell’ombrellaio solitamente era abbinato a quello dell’arrotino ma
poteva accadere fosse praticato esclusivamente.
258
ONBRELAIO9 - Vicentino
Onbrelaio onbrelaio,
onbrelaio l é rivà
son qui che meto il mànico,
son qui che meto il mànico
onbrelaio onbrelaio
onbrelaio l é rivà
son qui che meto il mànico
non pòso tralasiàr.
é rivato l onbrelaio,
é rivato el pescatore,
se avete onbrele rote,
se avete onbrele rote
∫
∫
8
7
03
é rivato l onbrelaio,
∫é rivato el pescatore,
se avete onbrele rote,
metétele a giustare.
∫
Son qui che meto il mànico
con masima atenzione
pregai la signorina,
pregai la signorina;
son qui che meto il mànico
con masima atenzione
pregai la signorina
che non mi méta in confu∫ione.
AGSB, CDE Soraimar, Bele e taliane, SRM0018/07, cantato da Sole e Mèia.
257 Sul mestiere dell’arrotino Gianni Sberze del Canzoniere Vicentino ha raccolto anche una favoletta *.
Cfr. Coltro, Cante e cantari, 497-98 (Pute bele è rivà).
Il brano è stato raccolto nel 1984 a San Vito di Leguzzano (VI) da Luciano Zanonato (inf. famiglia
Saccardo).
9
309
I giustacrepe riparavano pentole, vasellame e piatti di coccio fessurati ovvero
crepadi, rinforzando le parte cedente con placche e ribattini. I calderai, magnani o
bandéte, vendevano o riparavano il pentolame di rame o ferro, le caliére, le farsore
operando in modo analogo. Mettere e ribattere era il loro lavoro e poi via per altri
luoghi ed incontri. Forse anche a questo aspetto di momentaneità di rapporto,
d’impegno relativo da ‘na bòta e via’, era dovuto il successo dei nostria amatori.
259
CALDERAI10
Noi sian zingari calderai
che venian da Cofienza.
(Cosenza, Faenza, Piacenza)
Aggiustiamo le padelle
con piacere e preferenza.
RIT:
EL BANDETA
Venite qua donéte,
vegnì che bravi semo
se ce l avete rota
noi ve la giusteremo.
Se la ∫é ncora bona
se no ∫é grando l bu∫o
no steghe aver paura
no sté pensarghe su∫o.
Se la caldiera spande
(anche pignata, farsóra)
e più no la tien bota
no sté a butarla via
anca se la ∫é rota.
Venite avanti tute,
se ci lasiate fare,
con quatro cinque colpi,
ve la faren giustare.
Gavemo bona banda,
gavemo bon martelo,
ghe demo quatro bote
e vedaré che belo.
Contente resterete
de averla come nova
e se non ci credete
ghe femo n antra prova!
(metéteci a la prova)
Done venite a baso
che ∫é rivà l bandeta
che l ve la tira nova
che l ve la torna neta!
Se invese la ∫é vecia
e in più la ∫é sfondada
no val gnanca la pena
de darghe na justada.
(de dar na taconada)
(de darghe na stropada)
Gaetano Zompini, Le Arti che vanno per via nella città di Venezia,
1785, n.20, Il giustacrepe e calderaio
310
Due botte noi ci dian,
le caldaie accomodian
ma per quelli che non sentono
ci conviene a noi gridar
calderai, o calderaio!
Noi teniamo un martelluccio
lungo un palmo, vantaggiato
di acciaio sopraffino
gran caldaie abbian sfondato.
RIT:
A quelle belle noi ci dian
due colpi di buona voglia
aggiustiamo la fessura
senza pena e senza doglia.
A voi giovani dabbene
ve l aggiustiamo di buona voglia;
vi saldiamo la ferita
senza pena e senza doglia…
RIT:
A voi donne maritate
che l’usate a tutte l’ore
se per caso non avete
presso voi lo stagnatore…
RIT:
Per voi vedove arrabbiate
il nostro stagno è troppo poco
ma con cento martellate
noi si spegne il vostro fuoco…
RIT:
A voi vecchie che ci avete
la caldaia ormai sfondata
non ci basta rame e stagno
ci si vuole una giornata…
RIT:
RIT:
A quelle brutte noi ci dian
due colpi in fretta in fretta,
aggiustiamo le fessure,
sia larga sia stretta.
RIT:
Seguono alcune strofe integrative con
lo stesso ritornello e melodia poco
diversa raccolte a Refrontolo (2002)
10
Gaetano Zompini
Le Arti che vanno per via
nella città di Venezia
1785, calderaio
L’esempio è quello proveniente da Quincinetto (TO), registrato a Bajo Dora nel 1972 da Amerigo Vigliermo
260 che qui ripropone, a sua volta, con Norma Betteto e Gino Coello, il similare brano raccolto a Scarmagno * dove
nel locale Carnevale, compaiono, tra i personaggi tipici, gli zingari razziatori, proprio come, in Veneto nel
carnevale di Canale d’Agordo (Convegno Soraimar 2002 sul Canto Onto, Asolo).
Una versione veneta raccolta dal Canzoniere Vicentino è accennata nell’allegato documento sonoro cantato da
261 Gianni Sberze *. Alcuni simili esempi sono in Wassermann, 86-88. Della medesima regione è la villotta
attinente (cfr. Arboit, 47: «Ciolmi me, ciolmi, ninine, / c a soi bon di lavorà; / O soi bon di rompi citis / e tornailis
a giustà» (Prendimi, prendimi, piccina, che son capace di lavorare; sono bravo a rompere le pignatte e tornarle
a riaggiustare). Somigliante in Noliani, 60, la maliziosa proposta questa volta fatta dal bottaio: «Come va paróna
bela? / Come va la sua mastèla? / La g à bi∫ogno de l botèr?». Insomma, contenitore che sia, per la Lei va bene!
311
262
SCARPOLIN11
Sideropolis (Nuova Belluno),
Santa Catarina, Brasile
Gaetano Zompini, Le Arti che vanno per via nella città di Venezia,
1785, n.3, Giustascarpe (calegher, scarpolin)
Gaetano Zompini, Le Arti che vanno per via nella città di Venezia,
1785, n.34, Giustascarpe, (calegher, scarpolin)
Il calzolaio, scherzosamente calzoliere o
scarpolin, aggiustava le scarpe, quelle da
festa s’intende, che un tempo erano rare
e diventavano presto strette o, passando
da persona a persona, necessitavano di
adattamenti.
I due esempi riportati, pur di linea
melodica diversa, risultano coerenti
nella forma e nello sviluppo del tema
che gioca sulla richiesta della ‘cliente’
di farsi allargare la ‘scarpetta’ troppo
stretta. Ciò si faceva, tempi addietro,
sapendo che la pelle, con cui venivano
realizzate tutte le tomaie, torna elastica
quando bagnata e può assumere quindi
una forma maggiorata rispetto allo
originale. Questo avviene facendola
riasciugare e col batterla a contatto del
nuovo modello. Il doppio senso erotico
viene subito intuito e amplificato
nell’immaginazione che colloca la fase
di ‘bagnatura’ accanto all’uso corrente
amoroso di utilizzare la saliva come
lubrificante.
Sì sì, la mia signora,
son pronto per servirla
e poi per ubidirla
e co la forma in man.
Un scarpolin che pasa
gridando l suo mestiere
(Gridando done bele brute)
chi g à le scarpe rote
bone de far giustar
Ma quando che l à la vista
la ∫é rimasta stufa.
la forma é tropo grosa
questa non fa per me.
S afacia a la finestra
na bela signorina
con voce grasio∫ina
chiamando scarpolin
No no la mia signora
no no la se spaventa
che più de mile e centa
la mia forma ghe n à ∫slargà.
Mi g ò una scarpeta
che la me stà n po streta
(ghe) vorìa una formeta
per potermela ∫largar.
Ghe daren na bianadina
e po na sugadina,
la scarpa ∫é più mole∫ina
e su la se n darà!
11
La versione, par talian (veneto) (AGSB, CDE Soraimar, I ori de Angelin SRM 0226/11), usa il termine
scarpolin perché il canto era (ed è ancora) usato anche in Lombardia. Un analogo brano è cantato dal Coral
263 Pelegrinhos da montanha * (Caravaggio di Nova Veneza, SC, Brasile), di origine bergamasca. AGSB 500.
312
264
O CALZOLIÈRE12
Grancona,VI, 1996
E son tre ani che vado ricercando
e domandando lerà
venite fora tuti larà
venite fora tuti larà
che l calzolièr l é qua.
Sì sì signora son qua per contentarla
...
venite fora tuti larà
venite fora tuti larà
che l calzolièr l é qua
Una signora si afacia a l suo balcone
o calzolière per carità domando
ò una scarpina nera larà
un momentino streta
se avési una forméta larà13
potérmela alargar.
Eco signora, è bela e contentata,
mi dà la paga che mi sono meritata.
Venite fora tuti larà
venite fora tuti larà
che l calzolièr l é qua!
12
La versione vicentina ci è stata gentilmente fornita dal raccoglitore Luciano Zanonato, del Canzoniere
vicentino che pure ha aggiunto le seguenti due strofe recuperate sull’aria di un altro brano: «Cara mama
volio marito / che marito voresti tu; / volio il marito calzolaio; / calzolaio no fa per te / machè machè; /
calzolaio el va el viene / sempre in mano la supia el tiene / se ghe salta la fantasia / lu l insupia e poi l va via»
265 * (reg. a Zovencedo, VI, sempre nel 1996). La supia (subia) è la lesina. Confronta anche Bovo,251, n.276.
13
La formetta è l’attrezzo che serve a modellare l’interno della scarpa.
313
Quello del molinaro era un mestiere importante perché direttamente connesso
al sistema alimentare familiare. Erano le donne ad andarlo a trovare con la
materia prima necessaria a trasformare in farina la granaglia secca che si
macinava un po’ per volta onde evitare che andasse più facilmente a male.
Il mulino era quindi anche luogo di appuntamenti che poteva riservare sorprese.
Il seguente canto presenta molte versioni poco differenti dall’esempio riportato.
266
EL MOLINAIO14 - Refrontolo, TV, 2002
01
06
La mama di Ro∫ina era gelo∫a
*bin e bon e tira che l vien,
che gusto che l g à
Ro∫ina dàmela!
La manda a prender aqua
con li ochi bianchi e neri
la manda a prender l aqua a la fontana
Stà fermo molinaio co le mani*
io tengo sei frateli
con li ochi bianchi e neri
io tengo sei frateli, ti amaserano
02
Ma un giorno che Ro∫ina va a l molino *
la trova el molinaio
con li ochi bianchi e neri
la trova el molinaio che dormiva.
03
E ∫veglia, molinaro che l é giorno*
son qua da stamatina
con li ochi bianchi e neri
son qua da stamatina per macinare.
04
E dato che sei rivata per la prima*
ti volio macinare
con li ochi bianchi e neri
ti volio macinar farina fina.
05
E mentre che il mulino macinava*
le mani dentro il seno
con li ochi bianchi e neri
le mani dentro il seno le meteva.
14
270
LA BELA MANFRINOTA15 - Cavazzale (VI), 1989
La bela manfrinota
la viene dal monfrin
la vende la castagna
bela calda e brustolà
IL MACELAIO16 - Verona, 1996
IL MACELAIO17 - Nervesa, 1988
E la gà l onbrel che piove,
e la me diga ndo la sta de ca∫a;
Mi stago fora da la Porta Nova,
e par vegnirla a ritrovar.
O buongiorno macelaio,
signorina che cosa vuole
mezo chilo da farghe brodo
un salame e tre braciole
07
Non ò paura di sei, e ne di sete*
io tengo na pistola
con li ochi bianchi e neri
io tengo na pistola caricata.
08
L é caricà con due paline d oro*
io sparo contro te
ti sparo tra le ganbe
ti rompo la camicia… e le mutande!
09
Ma dime chi l é stà la prima volta*
l é stato il mulinaio
de la farina fina
l me à messo contro l saco, a la pecorina!
Possono seguire altri finali del tipo
de la farina gialla… a la maresialla
de la farina nera… a la bersaliera
de la farina nera… a la putaniera
AGSB 0500. Questo brano risulta tra i più diffusi e quasi tutti i libri di canto popolare consultati ne
contengono una o più versioni. Cfr. Coltro (La mama di Ro∫ eta, 382-383); Bovo, 222, 242; ecc.
267 Riportiamo, a titolo di confronto, la versione brasiliana di Pedro Gregianin * e quella delle donne Savrinke,
268 abitanti nell’Istria slovena nel retroterra di Capodistria, localmente nota come Lunedì matina * .
314
269
RIT:
RIT:
E la vegna qui a bracetin con mi
e se la vol sentir el tichetichetì;
e se la sta là no la sentirà
el mio cuor che fa tichetichetà.
Né de prima, né seconda
né de tersa qualità
la carne che ve dago,
l é la mia specialità!
Pagheria metà de la mia vita
per sapere l suo bel nome;
Io mi chiamo Margherita,
Margherita di sopranome.
RIT:
La me scu∫a macelaio,
no ghe par che sia masa l òso!
E la lo meta in stufarola,
e la vedrà se la g à l òso!
RIT:
E la vegna dietro l banco,
e la mia cara signorina:
La sentirà che carne bona
la sentirà che carne fina!
El salame lo vendo a chilo
anche al metro se volete;
l é l onore di questa ca∫a
e contenta ci resterete.
RIT:
Se per caso ne dubitate
ve lo poso apogiare in mano
e amirare co∫ì potrete
quanto è groso e quanto è sano.
RIT:
State atenta signorina
che a tocarlo l é delicato,
la la pèle tanto fina
che la mano l ve à già ingrasato.
15
Archivio Luciano Zanonato (03/01/86, inf. Margherita Ravazzolo). Il doppio senso di questo richiamo
di lavoro della caldarrostaia è evidente né risultava scandaloso per nessuno tanto più che gli astanti erano
presi dal profumo delle castagne arrostite e del castagnaccio. Di certo la formula promozionale era efficace.
16
La versione è quella di Grazia De Marchi, da anni attenta ricercatrice e ripropositrice del canto popolare
veronese. Cfr. Bovo, 234, 258.
17
Il brano è stato da me raccolto in osteria, dalla voce di alcuni anziani e simpaticissimi cantori. Una simile
(forse la stessa) è quella raccolta a Rueglio (TO) nel 1972 da Vigliermo (inf. Guido Camosso) che è assai
271 simile nella linea musicale e nelle parole *: «O buongiorno macelaio, / signorina cosa vuole /un chilo de carne
lesi / con due tre braciole. / Rit: oi qua, oi là, prima e seconda e tersa qualità! oi qua, oi là, groso e picino di
tuta qualità! / E mi lo vendo a chili /a spane a metri se volete/ del mio salame amabile / contenta resterete. /
Rit: / Se c è qualche ragasa /che non lo crede sano / si faccia vicinissima / che ce lo do in mano»
315
Gaetano Zompini,
Le Arti che vanno per via nella città di Venezia, 1785:
a sinistra, fruttivendolo; a destra venditore d’erbe
EL MARCERETTO O PUTTE19
EL FRUTER18
01
06
Bella insalata fresca
donne chi vuol comprar
e cavoletti e rape
a prezzo vi vo’ dar.
Perché voi siete, cara,
vi voglio far piacer
vi dono senza soldi
e cavoli e il giardinier.
02
07
E per farvi vedere
che non son tanto avaro
un grato ravanello
vi voglio regalar.
Per voi padrona bella
tengo nel mio giardino
un bel piantin di rose
e un vago gelsomino.
03
08
Lattughe cappuccine
aglio, belle carotte
a comprar venite
da me care mattote.
Cara se voi volete
nell’orto trappiantar
contenta poi sarete
vederlo germogliar.
04
09
Che pien di cortesia
io sono un giardiniere
oh che gioia che sento
nel far questo mestier.
Io già non posso dire
il dolce e bel piacere
che pruovo e che sento
in far questo mestiere.
05
10
Oh che bella fortuna
sentir a dimandar
da una gentil ragazza
che i cavuoli vuol comprar.
Oh che bella cuccagna
nell’orto lavorar
e poi andar gridando:
donne, chi vuol comprar?
18
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello..., Miscellanea, I-Vnm It., Cl. IV 2047, 31 (29v-30r),
[400-401] (S, bc, Fa). Come si vede, rosa e gelsomino non possono mancare neppure sul banco della frutta!
316
Gaetano Zompini,
Le Arti che vanno per via nella città di Venezia, 1785:
a sinistra, venditrice di frittelle; a destra merciaio
01 El marceretto o putte
l é qua per ben servirve
e quel che mi voi dirve
sté attente ad ascoltar.
El brazzoler xé allesto
e de giusta misura
e non abbié paura
che niente voi robbar.
02 Né vardé qua sta quarta
che l é quasi una spanna
e qua nissun s’inganna
che tutti pol vardar.
Donca comandé presto
voleu misurar niente,
perché qua in drio g ò zente
che me tende a ciamar.
03 Azze, cordelle e seda
d’ogni color xé alesta
se no volé de questa
d’ogni altra sorte gh é.
Vorressi qualche aghetto
longo, sutillo o grosso,
de questi dar ve posso
se ghe ne comandé.
04 Da pomola ghe n’ho uno,
per vu Cattina o Betta
che per la vostra petta
a posta fatto el par.
Vardé che ve lo mostro
che bella cosa è questa,
che a vederla ogn’un resta,
e tutti el sta a vardar.
05 G ò qua dei bei cordóni
con la so ponta in cima,
questi ve farà mina
se ghe ne compreré.
Ma principié de sotto
se ben volé impirarli
e procuré tirarli
che in alto arriveré.
06 In somma gò de tutto
no me comandé niente?
Vago da st’altra zente,
che questi comprerà.
Chi ciama el marceretto,
via donne salté fuora,
e se ‘l volé de sora,
de sora el vegnirà.
19
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello, Miscellanea, I-Vnm It., Cl. IV, 2047, 61 (59v-60r),
[460-461] (S, bc, MI*). Come si vede al termine del brano, l’allusione a sfondo amoroso non manca mai.
317
OSTERIA: UNIVERSITÀ DE I PUARÉT
Ecco quest’altro testo, ad esempio. Si tratta di un canto da battello in uso verso
la metà del Settecento a Venezia, tratto dal manoscritto Cicogna ed il cui
protagonista è un ciechino. Si potrà notare la somiglianza con la poesia del
Cavassico (l’uccellino regalato alla novizia che è ‘senza occhi’) sia per quanto
riguarda lo stile metrico ma anche il sistema di allusioni.
Vi è poi una lunga serie di canzoncine di tradizione più recente che rappresenta il
probabile punto di incontro tra osteria ed università in quanto a canto a sfondo
sessuale. Il filtro popolare, diversamente da quello goliardico, ha un proprio mondo
metaforico da rispettare oltre il quale non si accettano condivisioni. Talvolta è
difficile individuare la fonte primaria anche se ciò non è poi così importante. Tra i
canoni comuni rientra il seguente che già abbiamo visto in auge da lunga data.
PUTE XÉ QUA L’ORBETTO20
01
09
Pute xé qua l orbetto
feghe la carità
ve prego abié pietà de sto putèlo.
El resta inalocà,
incocalìo, incantà.
mo via, ∫longhé una man, via, soccorelo.
02
10
Povero fantolin
l é nato a sto destin
mo via, ∫longhé una man, via, socorelo.
De cognizion l é senza
e co l é badanà
st’orbetto in verità l é un matto bello.
03
11
L é cusì de natura
lu caminar nol sa,
dove el se pu∫a el sta, done credelo.
Lu no sta più a quartier,
star nol se sa a dover.
mo via, ∫longhé una man, via, soccorelo.
04
12
E gavaré sto cuor
cazarlo al so dolor;
mo via, ∫longhé una man, via, socorelo.
Nol sa cosa che sia
quel che sia ben o mal,
per lù tuto xé ugual, no l à cervelo.
05
13
No basta sto malano
che l g à, che xé fatal,
che l prova un altro mal de più sapielo.
Ai sassi el fa pecà
co quel mal g à ciapà.
mo via, ∫longhé una man, via, socorelo.
06
14
El va fora de lù
co quel mal che vien su.
mo via, ∫longhé una man, via, socorelo.
Quando che a una portela
el se sente pu∫à
in diavolezo el va, non ghé più in elo
07
15
Un certo efeto el prova
che convulsion la par
el se sente a ligar i nervi in quelo.
ritegno, né ra∫on,
el va ∫ó a tombolón.
mo via, ∫longhé una man, via, socorelo.
08
16
Non ve fé più pregar
dé quel che podé dar,
ma co le vostre man, care, agiutelo.
In ca∫o de sta sorte
pute abié compasion
fé un ato che sia bon sì sì via felo.
20
Cfr. S. Barcellona e G. Titton, Canzoni da battello, Antologia, I-Vmc, MS Cicogna 178 [846-847] S, bc,
Si bemolle.
318
MI G Ò UN O ELO DE GRAN VALOR1
Mi g ò un o∫elo de gran valor,
e me lo me - e me lo me e me lo meto sul comò.
con lo stesso criterio si presegue
Mi g ò un o∫elo de gran valor:
Lo meto in mo- lo meto in mostra nel giardin.
Lo meto in bo- lo meto in borsa da portar.
Lo meto in cu- lo meto in cuzo a ripo∫ar.
LA ME MENAVA2
La me menava el cala me menava el cael cagnolino a spaso;
RIT: tranlarelolilà e tranlarelolilà *
272
La me fregava la fi- la fibia de le scarpe
La me mostrava la co- la cotola de soto
La me palpava l cu- el cuciarin d argento
La me cavava le ba- le bale de la tómbola
*
*
*
*
VIENI MIA BELA VIENI3 - Rovigno d’Istria, 2004
RIT: Vieni mia bela vieni
vieni soto la tetoia
sei sempre stata trotropo fedele a me!
E la signora del primo piano
la g à la mo- la gà la mo- la gà la mola la la la là
E la signora del primo piano
la g à la moka la fa l cafè!
RIT:
si prosegue poi con la medesima struttura
E la signora del secondo piano
la g à le te- la g à le te- la g à le tela g à le tende da sopresar!
RIT:
E la signora del terzo piano
la g à la fi- la g à la fi- la g à la fila g à la filia da maridar!
RIT:
1
L’accenno al canto è tra le villotte raccolte dal Bernoni.
Ninni,III, 55-56, canzonette libere (57).
3
AGSB, SRM 0234/08. La versione è stata registrata a Rovigno e rappresentra il mio contributo alla serata
canora. Essa è pertanto tipica del basso Bellunese anche se il coro è degli Amici istriani. Si ritrova anche in
Posagnot, 519, 461 e in Pagnin-Bellò, 172 col medesimo titolo di Guarda quel frate, con le altre maliziose frasi
«A la matina quando mi also / mi meno il ca-, mi meno l cane a pasegiar. / A mezogiorno quando ritorno, /lo meto
in cu- lo meto in cucia a ripo∫ar!». Versioni e rime alternative sono moltissime: per le finali in te, tecé da re∫entar,
ténche da cu∫inar; per quelle in fi, l afìto da pagar, la fiera da vi∫itar; per quelle in cu, in cuzo da riscaldar, in
cura da l so dotor, ecc. e chi ne sa, più ne metta.
2
319
273
VIENI CON ME PALMIRA4 - Rovigno d’Istria
275
Vieni con me Palmira,
vieni con me a Milazzo;
ti mostrerò il mio cacaro e amato genitor.
Vieni con me Palmira
vieni con me a Verona
mi mostrerai la mola mostra de la rivolusion.
Ò comprato una malia di lana
l ò comprata, picina, per te;
ò saputo che fai la rufiana
e la malia di lana la tengo per me.
RIT:
RIT:
RIT:
Alora sì, alora sì,
a fare l amore se fa cusì;
alora sì, alora sì
a fare l amore se fa cusì;
Vieni con me Palmira
vieni con me a la diga
mi mostrerai la fila fibia dei pantalon.
RIT:
Alora sì, alora sì,
a fare l amore sì fa cusì;
alora sì, alora sì
a fare l amore se fa cusì;
Vieni mia bela vieni CORO: *
in fondo a quel castelo;
ti mostrerò l ucè...
lucente amor mio.
277
Ò comprato una bel va∫o di vetro
l ò comprato soltanto per te
ma da quando ti àn roto l didietro
il va∫o di vetro lo tengo per me.
RIT:
Ò comprato una radio Marelli
l ò comprata, picina, per te,
ma da quando tu ciuci li ucelli
e la radio Marelli la tengo per me.
RIT:
I MONELLACCI7
Coglioni siete stati amici miei
di non entrare tutti in quel casino
e noi che siamo entrati pian pianino
si siamo fatti fare un bel...
Di dietro al monumento di Mazzini
giocavano all’amore i ragazzini
fra calci e pugni e mille e tante beghe
qualcuno si sparava del...
Pompino di Bologna ha comperato
se lo tenevano tutti ben fasciato,
la signorina che l’era giuliva
se lo faceva metter nel...
Vieni mia bela vieni CORO: *
in fondo a quella vale;
te mostrarò le ba...
le bale del canon.
Le seghe circolari ben s’intende
dalla questura furon sequestrate
la signorina che faceva le prove
distesa sul sofà per un...
La Fiat è una gran macchina italiana
che la scavalca il piano e la montagna,
la signorina che faceva le spese
no se ne accorse che aveva...
RIT:
Sessantanove arditi son partiti
per l’Africa Orientale destinati
portavano un gran mantello sulle spalle
e a tutti gli faceva veder...
Il marchese di Trieste era partito
e alla fin del mese ritornato
andava in cerca di una vedovella
che gli piaceva tanto la...
Le palle dei cannoni sono ovali
son tonde, ben rotonde, micidiali
qualcun le chiaman palle dei cannoni
qualcun le chiaman palle dei...
Cannella smemorata di Collegno
diceva il professor con gran ritegno
e lei che gli toccava i tasti neri
addio Cannella, addio Bruneri.
Vieni mia bela vieni CORO: *
in fondo a quela diga;
ti mostrerò la fila fibia de l grombial.
RIT:
Vieni mia bela vieni
via par le Bancete
ti mostrero le te...
l eterno amor mio.
CORO: *
RIT:
AGSB, BLM-SRM 0234/11. Tra i canti ottocenteschi citati dallo Starec (cfr. Canzoniere triestino, 532, c. 18)
questo analogamente dice: « A) Al suon di questa zetra / faremo un gran solazo, / prendi questo… canto / del to gentil
pastor. B) A l ombra de sto albero / noi faremo la danza / lasa che te tochi la… pa∫e / la pa∫e del mio cuor. Il ritornello
tra le strofe è ancor più esplicito: «Sei bela / sei bona / dami la tua ... corona / che grande la farò».
5
Archivio R. Morelli, inf. Vincenzo Franceschini e amici.
320
RIT:
L’altra sera passeggiando sui bastioni
in compagnia di un gran signore
e che di nome si chiamava Pietro
se lo faceva metter nel...
RIT:
4
Ò comprato una radio Fraschini
l ò comprata, picina, per te;
ò saputo che fai i pompini
e la radio Fraschini la tengo per me.
RIT:
VIENI MIA BELA VIENI5 - Castel Tesino, TN, 1978
Vieni mia bela vieni,
CORO*: dimi dove dimi dove
in fondo a quella valle;
a che fare a che fare
ti mostrerò la pa...
sporcacion e sporcacio(ne)
le palle de i canon.
finirà, finirà, el contrasto de l evolusion
noi saremo felici e contenti
la mona fra i denti per l eternità.
Vieni con me Palmira
vieni con me in n botega
tu mi farai una seseria dichiarasion.
RIT:
274
Ò COMPRATO6 - Rovigno d’Istria, 2004
6
Cfr. Posagnot, 521, la lezione raccolta da G. Vardanega dal titolo Ò comprato, prevede altre strofe come: «Ò
comprato un rimorchio Bertoja / l ò comprata, soltanto, per te / ma da quando tu fai la troja / il rimorchio Bertoja
lo tengo per me», oppure «Ò comprato un per di galosce / l ò comprate, soltanto, per te / ma da quando tu mostri
276 le cosce / un per di galosce le tengo per me», ecc. Ne presentano anche una in versione pudica *.
Cfr. anche Coltro, Canti e cantari, 421.
7
Inf. A. Zucca, Bajo Dora 2002, Arc. Vigliermo, più noto nelle Venezie come Di dietro il monumento di Mazzini.
321
Tra i canti trovati in Brasile nelle comunità di discendenza italiana, quello che
segue risulta tra i più noti ed è intonato in ogni festa e occasione d’incontro. Non
siamo riusciti ancora a capire se si tratti di un brano portato dall’Italia o
elaborato in loco. Il tema è infatti molto popolare e il ritornello, ispirato al vino,
è il movente per una serie di strofe a sfondo esplicitamente sessuale che, negli
esempi riportati, risultano in parte comuni più per le azioni o le parti del corpo
indicate in rima che per i soggetti che vengono inventati a piacere.
278
EL VIN L É BON8
Garibaldi, RS, Brasile, 1998
RIT:
E l vin l é bon, l é n bon bicer
l é meio na serva che un cavalier.
279
EL VIN L É BON10
Garibaldi, RS, Brasile, 1998
RIT:
280
El vin l é bon, l é n bon bicer
l é meio na serva che un cavalier.
Pupà in cantina el gueva la sega,
le to∫e su l leto grateva… la pansa.
El vecio in cantina el cavea el vin
e i to∫i su l leto se sfregava… paranpanpan.
RIT:
RIT:
La nona n te l quarto misieva i pajóni,
al nono contento el grateva… i ∫inòci.
La vecia su a stala mon∫eva le vache,
le to∫e nte a cam(er)a se sfregava… le culate.
RIT:
RIT:
Pupà zo n stala el forniva el mul,
i to∫i in colonia co n deo nte l… na∫o.
El pupà e la mama dormia nte a cucita,
le to∫e nte a càma le se gratea… na ganba.
RIT:
RIT:
EL VIN L É BON9
Bento Gonçalves, RS, Brasile, 1998
RIT:
El vin l é bon, l é n bon bicer
l é meio na serva che un cavalier.
La mama in cantina peleva e patate,
le to∫e su leto grateva e culate.
RIT:
Le to∫e in cantina trava∫eva el vin,
pupà là su leto che fea un banbin.
RIT:
La mama in cantina (in)pileva i matoni
pupà là su leto el grateva… le rece.
El vecio in cantina el fornìa el mul,
le to∫e nte a cam(er)a co n deo nte l… na∫o.
RIT:
I pomidori nte l orto i rizava la foia
le to∫e nte a cam(er)a le morìa de… a grataA.
RIT:
La vecia su i quartiB ∫misiava i pajóni,
el vecio in cu∫ina se sfregava i… oci!
RIT:
El vecio su a mola el gusava la brìtola,
la vecia in cu∫ina se gratéa… el micuinC.
RIT:
RIT:
La vecia a matina levéa su a le oto;
el vecio bonora ghe piantea… la salata.
Le to∫e in cantina furneva el mul
pupà là su leto co l deo nte l… na∫o.
A: prurito - B: camera - C: specie di piccolissimo
parassita rosso, qui sinonimo di clitoride.
8
Cfr. AGSB, CDE Soraimar, Troperi, SRM 0146/12, cantato da Valmor Marasca che, altrove canta anche la
seguente strofa: «Son morto mi, / sonéa le canpane, / putane piandéa: / morto el putanier».
9
Cfr. AGSB, CDE Soraimar, Troperi, SRM 0146/14, cantano Bepi de la gàita e Danilo Arcari (da Bento).
10
Cfr. AGSB, CDE Soraimar, Troperi, SRM 0146/13, cantano i fratelli Zardinello, da Casca.
322
Tutte le stampe sui mestieri qui riportate, sono dovute all’arte e alla perizia di Gaetano Zompini, che le
incise su rame per l’edizione veneziana del 1785; i versi posti ai piedi delle tavole sono pure in veneziano e
illustrano i vari mestieri ambulanti che si praticavano nella Serenissima città lagunare. L’opera conobbe,
all’uscita, un enorme successo ed ebbe vasta risonanza in tutta Europa con ripetute successive ristampe.
323
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sonetto di apertura e dedica di Giorgio Baffo
del suo volume ‘Poesie’ (1781)
Canti del Sile
Treviso, Ass. Marchesan, 1988
Mi dèdico ste mie compo∫izion
a i òmeni, e a le donne morbino∫e,
a quelli veramente, che le co∫e
le varda per el verso, che xé bon.
Soto le meto a la so protezion,
come persone tute spirito∫e,
perché da certe teste scrupolo∫e,
i le difenda co la so ra∫on.
Che i diga che qua drento no ghe xé
né critiche, né ofese a le persone,
che de Dio no se parla, né de i Re,
ma sol de co∫e alegre, bele, e bone,
co∫e delisio∫ìssime, cioè
de boche, tete, culi, cazzi, e mone.
Canzoniere del Progno
A cura di Paolo Domenichini,
Verona, Cierre Edizioni, 1997
Civiltà rurale di una valle veneta.
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Cento canzoni popolari della marca trevigiana
Treviso, Zoppelli Editore, 1938
ELENCO DEI BRANI MASTERIZZATI NEL CD ALLEGATO IN FORMATO MP3.
Le versioni sonore sono ascoltabili solamente tramite lettori che supportino il formato MP3 o in computer che prevedano
programmi per tale opzione (quasi tutti ne sono forniti o risultano scaricabili gratuitamente dalla rete). Di seguito: numero
progressivo, titolo, protagonista, località, provincia, data registrazione, regione, stato, Archivio di provenienza.
001, Cara mama voi maridarme, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani , GL Secco
002, Mama voi maridarme, Filandere di Arcade, Arcade, TV, 1998, Veneto, Italia, GL Secco
003, Mama vui maridarme, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
004, Filia ti volio dar, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
005, Se à maridà Tare∫a, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
006, La mia filia à tolto un veceto, Checa Manarin, Visome, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
007, Quando l vecio andava in leto, Amici Cantoria, Serafina Correa , RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
008, Maledeto carnevale, Sorelle Bianchi, Sao Marcos, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
009, Papà mio bel papà, voci maschili, S. Lorenzo di Umago, Istria, 2005, oggi Croazia, GL Secco
010, La mal maritata, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
011, Giulieta e l veceto, cantori popolari, Castelcucco, TV, 1982,Veneto, Italia, Posagnot
012, Co se deventa veci, cantori di nozze, Morgano, TV) 1984, Veneto, Italia, E. Bellò
013, Maledeta la cana de i veci, voce femminile, Vila Maria, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
014, C era una volta na bruta vecia, Bairro S. Paulo, Bento Gonçalves, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
015, E pasegiando per un boschetto, voce femminile, VI,1986 , Veneto, Italia, L. Zanonato.
016, La bruta vecia, Fam. Zampedri, Sira, Nilda, Tea, Viarago, TN, 1991, Trentino, Italia, R. Morelli
017, No voi capel a pene, voci femminili, Polcenigo, PN, 1982, Friuli, Italia, N. Stefanutti
018, La dona quando è vechia, cantori di nozze, Morgano, TV, 1984, Veneto, Italia, E. Bellò
019, El vecio sesantin, Manuela Corona, Primiero, TN, 2004, Trentino, Italia, R. Morelli
020, Varda Nina che l albero pende, c antori paesani, Sissano d’Istria, 1998, oggi Croazia, GL Secco
021, Varda Nina che l albero pende, Gruppo Rovignesi, Rovigno, Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
022, I ovi de la Falù, Bepi Stagno Dal Cin, Bento Gonçalves, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
023, La donna dei pompieri, cantori di nozze, Morgano, TV) 1984, Veneto, Italia, E. Bellò
024, Pelegrin che vien da Roma, cantori paesani, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
025, Pelegrin che vien da Roma, Checa Manarin, Visome, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
026, Maledeta che sia l America, Fratelli Fullin, Tambre d’ Alpago, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
027, El Bernardo, Fratelli Fullin, Tambre d’ Alpago, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
028, La si vesti e la se incalza, voci maschili, Sissano, Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
029, El Bernardo, Valdir Anzolin, Veranopolis, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
030, El Bernardo, Pedro Gregianin, Vila Maria, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
031, El Bernardo, cantori popolari, Viarago, TN,1991, Trentino, Italia, R. Morelli
032, Bondì bongiorno, Sole & Meia, Serafina Correa , RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
033, Bondì bongiorno, gruppo agricoltori, Guaporè, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
034, Vi dò il bongiorno, Antonio e Francesca Rubinich, Cherso, Istria, 1984, oggi Croazia, R. Starec
035, Cara muier, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 1980, Veneto, Italia, PT Oppeano e Coltro
036, Marion, L. Ronchini, Venezia, 1974, Veneto, Italia, L. Ronchini
037, Barbera tu, L. De Nadai, Cappella Maggiore, TV, 1982, Veneto, Italia, C. De Biasi
038, Barbera ti, L. Ronchini, Venezia, 1974, Veneto, Italia, L. Ronchini
039, Omi tiré fora l o∫èlo, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
040, La panoceta del bàile, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
041, Cara Guerina, Toni pastrovicchio, Trieste, TS, 2005, Venezia Giulia, Italia, G.P. Rauber
042, O quanto mi piace, Famiglia Balbinot, Guaporè, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
043, El sifoloto, Valdir Anzolin, Veranopolis, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
044, El galeto de la Margherita, Cantori spontanei, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
045, La mia cugina Carolina, Marietta e Melino, Rueglio, TO,1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
046, Il mio galletto, voce maschile, Bajodora, TO, Febbraio 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
047, El galeto, voce femminile, Lasen, BL, 2002, Veneto, Italia, Coro Oio
048, L orologio, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
049, Cantar Martina: il boschetto, Trio Vigliermo, Rueglio, TO, 2002, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
050, Quel ucelino, I∫eta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
051, Quel ucelino, Gruppo spontaneo, Serafina Correa, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
052, Bel ucelino, Donne Savrinke, S. Peter, Istria, 2002, Oggi Slovenia, GL Secco
329
053, Quel ucelino, Cantori paesani, Porcino, VR, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
054, L u∫elin inamorà, Gruppo spontaneo, Valmorel, BL, 2004, Veneto, Italia, GL Secco
055, Si po∫ò, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
056, El gusto de la Signora, G. De Marchi, Verona, VR, 1982, Veneto, Italia,
057, Quel ucelin parampin, Cantori locali, Possagno, TV, 1998, Veneto, Italia, Posagnot
058, Quel ucelin se l avesi in man, Cantori locali, Primiero, TN, 1984, Trentino, Italia, M. Corona
059, L ucelin, Cantori locali, Rueglio, TO, Febbraio 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
060, L ucelino de la comare, Gruppo Rovignesi, Rovigno d’ Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
061, L anguilon, G.M. Sberze, Vicenza, 2004, Veneto, Italia, GL Secco
062, Il giardiniere, Toni pastrovicchio, Trieste, TS, 2005, Venezia Giulia, Italia, G.P. Rauber
063, Il gelsomin, cantori Rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
064, Se te vol che t incalma l figaro, cantori locali, Porcino, VR, , Veneto, Italia, G. Bovo
065, Una sera di carnevale, Marietta e Melino, Rueglio, TO, Febbraio 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
066, E tira la riga, Voci di Confine, Voghera, PV, 01/12/02, Lombardia, Italia, P. Rolandi
067, Le ragase miei signori, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
068, Chi g à roto la canpanela, cantori locali, Vila Maria, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
069, La chichera, Manuela Corona, Primiero, TN, 2004, Trentino, Italia, GL Secco
070, Tu, tu as la s’ciaipulute, voci maschili, Cormons, GO, 1954, Friuli, Italia, R. Starec
071, La màndola, cantori locali, Sissano d’Istria BLM16/06, 16/07/98, oggi Croazia, GL Secco
072, O Jony Jony, cantori rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
073, E soto la traversa ma trema, canto a la longa, 2 voci fem., Gallesano d’Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
074, La ninine del fogolèr, cantori locali, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
075, La ciribiribicola, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
076, La mia chitara l é rota, donne mondariso, Venezia di Lignana, NO, 1954, Piemonte, Italia, Ente Risi
077, Da Trieste fin a Zara, cantori rovignesi, Rovigno d’ Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
078, La so mama la ghe dimanda, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
079, La sua mama la ghe dimanda, Grupo Scapoli, Vila Maria, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
080, Se la vedesi, Vincenzo Franceschini & amici, Castello Tesino, TN, 1878, Trentino, Italia, R. Morelli
081, Se tu savesi, cantori locali, Casca, RS, 2000, Brasile coloni italiani, GL Secco
082, Benedete le figlie, Cantori locali, Casca, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
083, La chitara mia, sorelle Cercenà, Pieve Cadore, BL, 1994, Veneto, Italia, GL Secco
084, E la chitara mia, Maria Zulian ‘Menon’, Possagno, TV, 1982, Veneto, Italia, Posagnot
085, Margherita al veglione, Fam. Zampedri, Sira, Nilda, Tea, Viarago, TN, 1888, Trentino, Italia, R. Morelli
086, Ma perché piangi, Cantori locali, Tambre d’Alpago, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
087, La chitarina, Mario e Bruno, Belluno, BL, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
088, La ghitarina, cantori locali, Rueglio, TO, Dicembre 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
089, E la chitara è rota, Pierina pastega ‘Dee Bete’, Possagno, TV, 1998, Veneto, Italia, Posagnot
090, Te le levi le braghete, cantori raza Piave, Pieve di Soligo, TV, 1994, Veneto, Italia, GL Secco
091, Me la fa e me la fece , Cantori locali, Valcavasia, 1988, Veneto, Italia, Posagnot
092, O giardiniera, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia
093, O giardiniera, Duo Cercenà, Vallesella di Cadore, BL, 1978,Veneto, Italia, GL Secco
094, O giardiniera, voce femminile, Possagno, TV, 1982,Veneto, Italia, Posagnot
095, O giardiniera, voce maschile, Possagno, TV, 1982,Veneto, Italia, Posagnot
096, La bela giardiniera, cantori paesani, Porcino, VR, 2003,Veneto, Italia, GL Secco
097, Cantar Martina, altra parte, Trio Vigliermo, Rueglio, TO, 2002, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
098, Ciao Ninela, Bandabrian, VI, 2002, Veneto, Italia, Bandabrian
099, Vegnendo giù dai monti, cantori locali, Tambre Alpago, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
100, Soto le mie sotane, cantori raza Piave, Pieve Soligo, TV, 1994, Veneto, Italia, GL Secco
101, Sotto la mia finestra, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1990, Appennino Emiliano, Italia, P. Staro
102, Là in mezo a quel boscheto, voci femminili, Viarago, TN, 1988, Trentino, Italia, R. Morelli
103, Stanote el me giardin, Luisa Ronchini, Venezia, VE, , Veneto, Italia, L. Ronchini
104, La ro∫a, Angelin, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
105, Beneditis lis ciargnelis, cantori locali, Ovaro, UD, 1954, Friuli, Italia, R. Starec
106, Ma varda là quela signora, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
107, La più bela roba a l mondo, cantori locali, Sissano d’Istria, 16/07/98, oggi Croazia, GL Secco
108, L elefante co le ghette, parte, cantori locali, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
109, La chitara è quela co∫a, cantori di nozze, Morgano, TV) 1984, Veneto, Italia, E. Bellò
330
110, Cara mama, cantori di nozze, Morgano, TV) 1984, Veneto, Italia, E. Bellò
111, Cin cin perusola, cantori locali, Valcavasia, 1988, Veneto, Italia, Posagnot
112, La porsèpola, Manuela Corona, Primiero, TN, 2004, Trentino, Italia, GL Secco
113, La tìmpena, Angela De Cassan, Laste Rocca Pietore, BL, 2004, Veneto, Italia, GL Secco
114, La parpagnola, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, SC, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
115, La barbaiola, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
116, La strada del bosco, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
117, La strada del bosco, cantori paesani, Rueglio, TO, Dicembre 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
118, El marinèr, cantori locali, Sissano d’Istria, 16/07/98, oggi Croazia, GL Secco
119, Ia san bio a Fiume, tre voci maschili, Sissano d’Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
120, Ona mi e recle, donne Savrinke, Sv. Peter, 2001, oggi Slovenia, GL Secco
121, Moia mare huha kafè, 2 cantori, diatonica e bassetto, Oskurus, 1984, oggi Croazia, R. Starec
122, Moje mate huha cafè, La Zonta, Grisignana d’Istria, , oggi Croazia, GL Secco
123, Moje mate huha cafè, Savrinke, Sv. Peter , 2001, oggi Slovenia, GL Secco
124, E la donna, GL Secco e The Divine, Laste Rocca Piet., BL, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
125, La ronca , Gruppo La Marol, Rivamonte Agordino, BL, 1998 Veneto, Italia, Gr. Ricerca Trad. Ven.
126, E la donna per esser bella, cantori rovignesi, Rovigno d’ Istria, 2004, Oggi Croazia, GL Secco
127, La dona magra mi la voi no, Grupo Belunesi, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
128, I vol che me maride, Famiglia Balbinot, Guaporè, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
129, I vol che me maride, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
130, La tasa doloro∫a, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
131, Chi t à fato, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
132, La milane∫a, F.lli Dal Cin, Carlos Barbosa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
133, La canpagnola de amor, F.lli Dal Cin, Carlos Barbosa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
134, Formiga e formigon, cantori locali, Serafina, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
135, Dàmela a me, cantori locali, Serafina, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
136, La bela dona, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
137, La carossa de la rossa, Francesca Gallo e amiche, Preganziol, TV, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
138, La rossa, cantori rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
139, Io vorei le bele done, voci maschili, Valmorel, BL, 2004, Veneto, Italia, GL Secco
140, Mi piacion le donne belle, Malgari, Bajo Dora, TO, 2001, Piemonte, Italia, GL Secco
141, Oh lingera, Grupo Belunesi, Nuova Belluno, SC, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
142, La ciribiribicola, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
143, Le stasion, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
144, Le osterie, Valdir Anzolin, Nuova Belluno, SC, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
145, Divagazioni dalla Norma, Cantori locali, Sissano d’Istria, 16/07/98, oggi Croazia, GL Secco
146, Bionda peténete, Belumat, Belluno, BL, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
147, Su l pajón, F.lli Dal Cin, C. Barbosa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
148, El prete de Sisano, gruppo spontaneo, Sissano d’Istria, 16/07/98, Oggi Croazia, GL Secco
149, La partigana, cantori locali, Rovigno d’Istria, 2004, Oggi Croazia, GL Secco
150, Se te toco, Cantori locali, Guaporè, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
151, Se te toco, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
152, Se te toco, Grazia De Marchi, Fumane, VR, 1982, Veneto, Italia, G. De Marchi
153, Remator la barca è pronta, voci maschili, Rovigno d’Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
154, A Checo dàghela, musicisti locali, Vicentino, 2002, Veneto, Italia, Brian-Zamboni
155, E dàghela riza, cantori locali, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
156, Ò girato l Italia e l Tirol, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 1998, Brasile coloni italiani, GL Secco
157, Canarino bel canarin, cantori locali, Viarago, TN, 1991, Trentino, Italia, R. Morelli
158, Gardellin mio bel gardellin, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1990, Appennino Emiliano, Italia, P. Staro
159, Vieni vieni bel ucelino, voce femminile, Polcenigo, PN, 1782, Friuli, Italia, N. Stefanutti
160, Canarin, Cantori locali, Valcavasia, TV, Veneto, Italia, Posagnot
161, Bel o∫elin, voci femminili, Chipilo, 2002, Puebla, Messico, GL Secco
162, La me moro∫a me g à dito una, voce maschile e chitarra, Gallesano d’Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
163, La me morosa me n è fato una, voci maschili, Sissano, Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
164, La me moro∫a mi ndà fata una, voci masch. e femm., Giais di Aviano, PN, 1990, Friuli, Italia, R. Starec
165, E vien Marieta vien che te lo meto, due voci maschili e pive, Sissano d’ Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
166, Moro∫a mia fa che ti lu meto, basso, Due voci maschili, Valle d’ Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
331
167, La Bortola e la Stèfena, Sorelle Bianchi, S. Marcos, RS, 2002, Brasile coloni italiani, GL Secco
168, Dime la verità cara moro∫a, Voce maschile, Giais di Aviano, PN, 1990, Friuli, Italia, R. Starec
169, I sonador, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
170, Per pagar i sonador, Valmor Marasca e Belumat, Garibaldi, RS, 1997, Brasile, GL Secco
171, E anca me mama, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 2002, Veneto, Italia, PTO e Coltro
172, E me marì l é bel, Cantori locali, Valcavasia, 1988, Veneto, Italia, Posagnot
173, La Bruneta, Iginio Cuccarin Me∫arecia, Istria, 1983, oggi Croazia, R. Starec
174, La Bruneta, Gruppo La Zonta, Grisignana d’Istria, 2001, oggi Croazia, GL Secco
175, La mia mama è una vechierela, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
176, Dove vai bella brunetta, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1990, Appennino emiliano, Italia, P. Staro
177, La Bruneta, Sorelle Bianchi, Sao Marcos, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
178, Zento scudi, voci femminili, Chipilo, 2002, Puebla, Messico, GL Secco
179, Fantacinis da judizi, voce femminile, Poffabro, UD, 1987, Friuli, Italia, R. Starec
180, Zigo zago, Pelegrinhos da montanha, Nuova Venezia, SC, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
181, O Pinota, Gruppo Tambre, Tambre d’Alpago, BL, 1978, Veneto, Italia, GL Secco
182, La Gigia l é malada, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
183, Palpa dotore, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
184, Lui mi baciò la fronte, la trainanà, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1990, App. Emiliano, Italia, P. Staro
185, El Dotor e la bela, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
186, Soto l albero fiorito, Grupo Belunesi, Nuova Belluno, SC, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
187, El groso del caro papà, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
188, El profumo de la signora, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 2003, Veneto, Italia, PTO e Coltro
189, Vorei baciar Nineta, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
190, Vorei baciar Nineta, cantori rovignesi, Rovigno d’ Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
191, Vorei baciar Nineta, Giacomo Favero, Possagno, TV, 1982, Veneto, Italia, Posagnot
192, Te tìrela e stella, Silvio Storti, Recoaro, VI, 08/02/1997, Veneto, Italia, M. Brian
193, E bei e bei e bei, cantori popolari, Possagno, TV,1984, Veneto, Italia, Posagnot
194, Te tirela, Canterine di Faedo, Faedo, VI, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
195, Su confessati o ragazzina, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1990, App. Emiliano, Italia, P. Staro
196, Co∫ ala magnà la spo∫ a, cantori di nozze, Valle dell’Agno, VI, 1986, Veneto, Italia, D. Zamboni
197, L anitra, voce maschile, Valcavasia, TV,1998, Veneto, Italia, Posagnot
198, L anitra, cantori popolari, Possagno, TV, 1982,Veneto, Italia, Posagnot
199, Chi à mangiato, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 2001, Appennino Emiliano, Italia, P. Staro
200, L anitra, Grazia De Marchi, Fumane, VR, 1984, Veneto, Italia, G. De Marchi
201, L elefante, parte, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
202, La Ro∫ina dei cinque amanti, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
203, La Ròi∫a, cantori rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
204, Ghiti ghiti sot la plete, voci miste, Ovaro, UD, 1954, Friuli, Italia, R. Starec
205, Piutosto di morir vèrgine, Brendola, Vicentino, 1985 , Veneto, Italia, Zamboni-Brian
206, La fameia dei gobon, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
207, E seben che g ò la goba, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
208, Do gobeti, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
209, L osteria de i tre gobi, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
210, Scherso da gobo, Iseta Zanon, Gazzo, PD, 2002, Veneto, Italia, GL Secco
211, Fa la nina fiol d un frè, Maria Grillini, Monghidoro, BO, 1991, Appennino Emiliano, Italia, P. Staro
212, Don Dorigo , Rosina Antole, Pedeserva, BL, 1984, Veneto, Italia, GL Secco
213, El pore sacrestan, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
214, Le ∫brisiade, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
215, El misionario, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
216, El viaiante e la tata, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
217, Quel che volea picarse, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
218, Quatro cavali bianchi, Voci di Confine, Voghera, PV, 01/12/02, Lombardia, Italia, P. Rolandi
219, Via Vercelli, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
220, El galeto de la Margherita, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
221, Zela na cana piena de bu∫i, gruppo spontaneo, Sissano d’Istria, 1998, oggi Croazia, GL Secco
222, Le bele done, Grupo Belunesi, Nuova Belluno, SC, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
223, Il vecchierello, Voci di Confine, Voghera, PV, 2002, Lombardia, Italia, P. Rolandi
332
224, El convento dei frà, grupo Belunesi, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
225, El convento de i frà, grupo Scapoli, Vila Maria, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
226, El convento de i frà, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
227, Quand ero Mònica , G. Camosso e Gelso V., Rueglio, TO, 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
228, Un di di carnevale, Anna Faoro, Arsié, BL, 1975, Veneto, Italia, D. Perco
229, El fratucio, Grupo Scapoli, Vila Maria, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
230, El frate capucin, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
231, Co sta piova e co sto vento, cantori rovignesi, Rovigno d’ Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
232, La lataia, Maria Talin, Moldoi, bl, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
233, La lataia, voce femminile, Possagno, TV, 1982,Veneto, Italia, Posagnot
234, La lataia, patatera, Ida Ferraro, Possagno, TV, 1988, Veneto, Italia, Posagnot
235, Presta ascolto marito mio, Maria Talin, Moldoi, BL, 2000, Veneto, Italia, GL Secco
236, Varda quel frate, Posagnot, Valcavasia, TV, 1998, Veneto, Italia, GL Secco
237, La vide i frati a corere, gruppo spontaneo, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
238, O Gingin, Canterine di Faedo, Faedo, VI, Italia, 2003, Veneto, Italia, GL Secco
239, La polastrela de la Caterinela, Diomedes Rossato, Nova Palma, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
240, El preive munta in coro, Coro Canavese dopo prove, Bajo Dora, 1975, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
241, E lei la va cantando, Cantori Alicesi, Alice, TO, 1971, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
242, El prete e la serva, Grupo Scapoli, Vila Maria, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
243, El curato, Pedro Gregianin, Vila Maria, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
244, A Rovigo gh è un curato, Piccolo Teatro, Oppeano, VR, 1982, Veneto, Italia, PTO e Coltro
245, Padre Santo, gruppo di canto spontaneo, Scarmagno, TO, 1994, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
246, Padre Santo, Trio Vigliermo, Convegno Soraimar sul canto onto, 23/11/02, Italia, A. Vigliermo
247, La confessione della vergine, Trio Vigliermo, Conv. Soraimar sul canto onto, 2002, Italia, A. Vigliermo
248, Venite o done dal bon dotor, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
249, Spazacamin, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, RS, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
250, Spazacamin che vien dai monti, Anna Faoro 0117/07, Arsié, BL, 1975, Veneto, Italia, D. Perco
251, Spazacamin che vien dai monti, cantori popolari, Valcavasia, TV,1988, Veneto, Italia, Posagnot
252, Spazacamin che vien dai monti, cantori popolari, Valtrompia, 1996, Lombardia, Italia,
253, Spazacamin che vien dai monti, Compagnia del Maggio, Monghidoro, BO, 2002, Italia, P. Staro
254, Spazacamin, cantori popolari, Valcavasia, TV, 1998 , Veneto, Italia, Posagnot
255, Spasacamin, cantori popolari, Valcavasia, TV, 1982, Veneto, Italia, Posagnot
256, El moleta, Sole & Mèia, Serafina Correa, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
257, Favola del moleta, GM Sberze, Vicenza, VI, 2003, Veneto, Italia, Canzoniere Vicentino
258, Ombrelaio, GM Sberze, Vicenza, VI, 2003, Veneto, Italia, Canzoniere Vicentino
259, Calderai, Giovanni Dalle, Quincinetto, TO, 1971, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
260, Calderai, Trio Vigliermo, Convegno Soraimar sul canto onto, 23/11/02, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
261, Calderai, GM Sberze, Vicenza, VI, 2003, Veneto, Italia, Canzoniere Vicentino
262, Scarpolin, Angelin Ambrosio, Nuova Belluno, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
263, Scarpolin, Pelegrinhos da montanha, Nuova Venezia, SC, 2003, Brasile coloni italiani, GL Secco
264, Calzoliere, voce femminile, Grancona, VI, 1996, Veneto, Italia, L. Zanonato
265, Cara mama voglio un marito, GM Sberze, Vicentino, 2003, Veneto, Italia, Canzoniere Vicentino
266, El molinaio, cantori paesani, Refrontolo, TV, 2001, Veneto, Italia, GL Secco
267, El molinaro, Pedro Gregianin, Vila Maria, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
268, Lunedì matina, donne Savrinke, Sv. Peter, SI, 2002, oggi Slovenia, GL Secco
269, La bela manfrinota, voce femminile, Cavazzale, VI, 1989, Veneto, Italia, L. Zanonato
270, Il macelaio, Grazia De Marchi, VR, 1984 , Veneto, Italia, G. De Marchi
271, Il salame, Guido Camosso, Rueglio, TO, 1972, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
272, Vieni mia bela vieni, G. Secco e Amici, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
273, Vieni con me Palmira, Cantori rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
274, Vieni mia bela vieni, Vincenzo Franceschini & , Castello Tesino, TN, 1878, Trentino, Italia, R. Morelli
275, Ò comprato, cantori rovignesi, Rovigno d’Istria, 2004, oggi Croazia, GL Secco
276, Vorei comprarti, Pierina Pastega, Possagno, TV, 1998 , Veneto, Italia, Posagnot
277, I monellacci, Anselmo Zucca, Bajo Dora, TO, 2002, Piemonte, Italia, A. Vigliermo
278, El vin l é bon, Valmor Marasca, Garibaldi, RS, 1997, Brasile coloni italiani, GL Secco
279, El vin l é bon, Bepi de la Gaita, Bento, RS, 1999, Brasile coloni italiani, GL Secco
280, El vin l é bon, Fratelli Zardinello, Casca, RS, 2001, Brasile coloni italiani, GL Secco
333
NOTE BIOGRAFICHE SULL’AUTORE
RINGRAZIAMENTI
Gianluigi Secco, si dedica al settore della cultura popolare, ai temi dell’identità e delle pubbliche
relazioni ed è ideatore, conduttore e regista di rubriche televisive sui medesimi argomenti.
È autore di una trentina di volumi tra saggistica e poesia. Ha ideato e sostiene una mostra
itinerante sui Carnevali arcaici delle Dolomiti venete che propone in Italia o all’Estero.
È anche formatore sui Sistemi di Qualità (Total Quality) e Organizzazione del lavoro con
particolare riferimento ai settori dei Prodotti Tipici, dell’Ospitalià e dell’Enogastronomia.
È consultore membro della Accademia Italiana della Cucina ed autore di una enciclopedia
multimediale sulla cucina veneta.
È cantautore e, dal 1972, animatore del Gruppo Belumat che ha all’attivo più di 2000 concerti in
Italia e all’estero.
È fondatore e presidente dell’Associazione Internazionale Soraimar che ha lo scopo di mettere in
relazione autori e cultori delle tradizioni popolari e di stimolare la salvaguardia di ogni identità
culturale. In questa veste cura direttamente alcune collane multimediali in CD tra cui quelle
americane del Brasile e Messico, e quelle di cultura istro-veneta.
Ha ideato, e si occupa da alcuni anni, della realizzazione di un sistema di Archivi multimediali per la
salvaguardia della cultura orale, oggi utilizzati sia dall’Associazione Soraimar (www.soraimar.it,
entra in SORAIMARC) che dalla Regione Veneto (www.venetrad.it, entra in A.T.O.V.).
Oltre a ringraziare Emilio Franzina
per il supporto ‘morale’
e il ponderoso saggio iniziale,
voglio esprimere la mia gratitudine nominalmente
ad alcuni Amici che hanno contribuito
con loro materiale di Archivio
a rendere cospicuo
il patrimonio dei documenti allegati;
nel mentre mi scuso delle involontarie omissioni:
(in ordine alfabetico)
Vive e lavora in via Garibaldi 41, 32100 Belluno (Italia) e-mail [email protected]
BIBLIOGRAFIA
POLENTA E TOCIO, ricette bellunesi in versi dialettali, Belluno, Tarantola,1972
LA MARE TERA, poesie in vernacolo, con introduzione di Biagio Marin, Belluno, Tarantola, 1973
STORIA BELORIA, raccolta di filastrocche, cante, giochi della tradizione bellunese, Belluno, Tarantola, 1974
INDOVINA INDOVINEL, raccolta di indovinelli popolari della Valbelluna, Belluno, RTD, 1977
CANTE, liriche in vernacolo, Belluno, RTD, 1978
DIMMI DI CHE PAESE, blasoni popolari del Veneto del Nord-est, intr. di G.B. Pellegrini; Belluno, Belumat, 1979
STORIE DE LA NONA, favole popolari venete, Belluno, Belumat, 1979
N AN, liriche in vernacolo, Belluno, Belumat, 1980
MAGNAR RÙSTEGO, ricette rustiche venete con note di storia e costume; intr. Bepi Maffioli, Belluno, Belumat, 1981
LA LUNGAMERICA, liriche in lingua su un taccuino di viaggio, Belluno, Belumat, 1983
NOZE NOZETE, note sul pranzo nuziale nel Veneto; Belluno, Belumat, 1984
SAN MARTIN: tradizioni popolari attorno alla festa del Santo, Belluno, Belumat, 1984
DA NADAL A PASQUÉTA, tradizioni, orazioni e canti del periodo natalizio, Belluno, Belumat, 1986
INDOVINA MERLO, raccolta di indovinelli popolari del Veneto, Belluno, Belumat, 1987
VIVA LA VITA, testi e musiche delle canzoni dei Belumat (primi vent’anni); Belluno, Belumat, 1987
VIVA VIVA CARNEVALE, maschere e riti nella tradizione dei carnevali veneti, Belluno, Belumat, 1988
A TAVOLA CON DOLOMIEU, storia e ricette della cucina bellunese: Belluno, 1988
LA PIAVE 1 (con altri Autori), storia di un fiume, Belluno, Belumat, 1990
DI CHE PAESE SEI, blasoni popolari delle Tre Venezie, introduzione di G.B. Pellegrini, Belluno, Belumat, 1991
LA PIAVE 2 (con altri Autori), storia di un fiume, Belluno, Belumat, 1992
LA CUCINA DEL VENETO, serie tascabile; Trento, Publilux, 1995
LA CUCINA BELLUNESE, serie tascabile; serie tascabile; Trento, Publilux, 1995
DELLA SAGGEZZA, UTILITÀ E INELUTTABILITÀ DEL CESSO, piccola storia con note di folklore; Belluno, 1996
MATA, la tradizione popolare e gli straordinari personaggi dei carnevali arcaici delle montagne venete;
intr. Cesare Poppi (con un CD), Belluno, Belumat, 2001
GRANDI E GROSI DA CHIPILO (con J. A. Zago Bronca): sulla emigrazione segusinese in Messico (1882-2004);
con 2 CD, Comune di Segusino, 2004
MANGIAR VENETO, multimediale sulla cucina veneta in12 vhs o DVD per temi enogastronomici (1993-2005)
Per i materiali audio e video riferiti alle canzoni di cui è Autore o coautore, e ad altre produzioni (video) di
carattere culturale, si veda la specifica discografia dei Belumat nell’Archivio SORAIMARC sopra citato.
334
Vanità, xilografia seicentescaCR
Chiara Alessi
Toni Battistella
Ulderico Bernardi
Modesto Brian e Domenico Zamboni della Bandabrian
Emanuele Bellò
Vlado Benussi e gli Amici cantori di Rovigno
Angelo Berra
Giorgio Bovo
Le Canterine di Faedo vicentino
Luciano Zanonato e Gianmaria Sberze del Canzoniere Vicentino
Franco Castelli
Dino Coltro
Manuela Corona
Camillo De Biasi
Grazia De Marchi
Le Filandere di Arcade, Bepo Pilla e Giovanni Doro
Gianna Marcato
Renato Morelli e Bruno Filippi
Daniela Perco
Il Piccolo Teatro di Oppeano
Ernesto Riva
Paolo Rolandi e il gruppo Gente di Confine
Aurelio Sacchet
Roberto Starec
Placida Staro
Sergio Sergas e Giampaolo Rauber
Solange Soccol
Nevio Stefanutti,
Gabriele Vardanega e I Posagnot tutti
Amerigo Vigliermo, Norma Betteto e Gino Coello
Emil Zonta
e, non ultimo, il mio compagno Belumat
Giorgio Fornasier, che all’Archivio del Gruppo
collabora soprattutto per quanto riguarda le trascrizioni musicali.
335
Degas, Doppia carezza, 1897
finito di stampare per conto di
Belumat Editrice
da Grafiche Antiga, Cornuda (TV)
novembre 2005
Distribuito da
Libreria Walter Pilotto, Feltre