«Aprimi, amica mia» (Ct 5,2) Il Cantico dei Cantici: poesia erotica o

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«Aprimi, amica mia» (Ct 5,2) Il Cantico dei Cantici: poesia erotica o
«Aprimi, amica mia» (Ct 5,2)
Marc Chagall, Cantico dei cantici V (dettaglio)
Il Cantico dei Cantici:
poesia erotica o metafora religiosa?
Riflessioni sul dialogo tra ebrei e cristiani
Michael P. Maier
Roma, 14 maggio 2012
1. Un bacio non è un bacio?
‫דֶדיךָ ִמיִָּין‬
ֹּ ‫“ – יִָּׁשֵקִני ִמנְִּׁשיקֹות ִּפיהוּ ִּכי־טוִֹבים‬Egli mi baci con i baci della sua bocca! Sì, più dolce
del vino è il tuo amore!” (Ct 1,1)
Con questa esclamazione appassionata inizia il Cantico dei Cantici. La ragazza arde dal
desiderio di incontrare il suo amato. Però, se è vero che non è una poesia erotica, ma una
metafora religiosa, allora i baci non sono più baci, ma qualcosa di diverso.
Non è facile accettare questa tesi, cioè, che uno dei più bei testi della letteratura erotica non
sia affatto un canto d’amore. Ammettere che i baci non siano baci, è deludente per un
giovane che sente e ragiona in modo naturale. Infatti, i rabbini hanno vietato lo studio del
Cantico dei Cantici ai minori, non di 18, ma di 30 anni(!), per evitare che vi riscontrino i
loro stessi sentimenti.
Non c’è dubbio, interpretare il Cantico dei Cantici metaforicamente, come inno sull’amore
tra Dio e il suo popolo, produce un significato profondo, teologicamente e spiritualmente
ricco. Però, tale interpretazione tramuta il senso letterale delle parole. Nero e bianco non
sono più colori, della pelle o dei capelli; testa, collo e seno non sono più membra del corpo
umano. Simboleggiano invece personaggi biblici, oggetti e eventi della storia biblica,
atteggiamenti dell’uomo religioso che studia la Torah.
C’è ancora un altro difetto: l’interpretazione allegorica è fissa, rigida, non può essere messa
in discussione. Conferisce alle immagini, ad ogni singolo tratto, un determinato significato
che all’estraneo, spesso, appare arbitrario. Così i rabbini spiegavano: lo sposo è Dio, la
sposa Israele, e i teologi della Chiesa spiegavano: lo sposo è Cristo, la sposa la Chiesa. Una
spiegazione soppiantava l’altra, senza possibilità di un dialogo.
Però, il compito della Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio è proprio questo: cercare
punti di contatto per superare le contrapposizioni, costruire ponti o, per citare il titolo della
nostra serata, aprire porte affinché Israele e Chiesa, ebrei e cristiani si incontrino in modo
nuovo.
Per inaugurare una nuova fase di dialogo – anche di disputa! – dobbiamo rivedere
criticamente l’interpretazione allegorica di tutte e due le parti. Ma prima ancora dobbiamo
cercare il senso letterale chiedendoci: Che cosa significa il Cantico dei Cantici se lo
leggiamo come un vero colloquio tra due innamorati?
Nel libro, i due sono chiamati Sulammita e Salomone. Potremmo chiamarli anche Eva e
Adamo, poiché il loro amore è quello proprio del paradiso. In un certo senso, il Cantico dei
Cantici non fa nient’altro che descrivere il compimento della parola pronunciata sulla prima
coppia: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre, si attaccherà alla sua donna e i due saranno
un’unica carne.” (Gen 2,24)
2. Esiste solo un amore.
Per secoli e secoli il Cantico dei Cantici è stato spiegato come metafora religiosa. Il suo
carattere profano, per moltissimo tempo, fu negato o almeno oscurato, anche se il senso
letterale non fu mai ignorato del tutto; anche il più autorevole commentatore ebraico Rashi
(1040-1105) spiega alcuni passi secondo il peshat, il significato semplice e evidente.
Però, più ancora degli esegeti, furono i poeti a cercare il senso originario dietro
l’interpretazione religiosa che, come una vernice, aveva coperto il testo. Il poeta e teologo
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tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803) descrive la sua ricerca così: “Tornai
nuovamente al libro per vedere che cosa vi era; consultai gli esegeti, quelli più antichi e
quelli più moderni, però, non preferii nessuno se non il lucido senso delle parole stesse che
tutti avevano offeso, senso che è l’esegeta di tutti gli esegeti.”1
Che cosa dice „il lucido senso delle parole“? Qual è il messaggio del Cantico dei Cantici
compreso non metaforicamente, ma letteralmente? Può essere ancora Scrittura Sacra se non
narra la storia della salvezza? Dobbiamo considerare però che anche la natura, la creazione
stessa è un “libro” per mezzo del quale Dio si esprime. Anche quell’amore che unisce due
persone, e che congiunge la famiglia e la società è sacro, perché proviene da Dio e conduce
verso di lui. E’ impossibile separare l’amore di Dio e del prossimo, l’amore di Dio e l’amore
appassionato di due amanti. Oppure come sintetizza Herder: “Esiste un solo amore, allo
stesso modo come una sola bontà, una sola verità.”2
Se è vero che nel mondo esiste un solo amore, allora, amore erotico, umano e amore divino,
spirituale, lungi dallo stare in antitesi, appartengono alla stessa, unica realtà. Ogni amore,
“più dolce del vino” come abbiamo sentito all’inizio, porta in sé il gusto dell’eterno amore
di Dio.
3. L’amore mira all’eternità.
Papa Ratzinger ha voluto dedicare la prima enciclica proprio a questo tema, con il titolo
programmatico: Deus caritas est, “Dio è amore”. Nella prima parte biblica, teologica,
intitolata „L’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza“, tratta anche il
Cantico dei Cantici. Benché non sappia l’ebraico (me l’ha detto una volta in un incontro), il
Papa ha fatto uno studio sul testo originale per vedere quale parola corrisponda alla nostra
parola „amore“. Ha incontrato un fenomeno interessante: “Nel corso del libro si trovano
due parole diverse per indicare l’amore. Dapprima vi è la parola dodim, un plurale che
esprime l’amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola
viene poi sostituita dalla parola ahavah, che nella traduzione greca dell’Antico Testamento
è resa col termine, di suono simile, agape che, come abbiamo visto, diventò l’espressione
caratteristica per la concezione biblica dell’amore.”3
Soffermiamoci un attimo su questa osservazione. Laddove nelle nostre traduzioni leggiamo
„amore“, il testo ebraico usa due parole: ‫ דודים‬e ‫אהבה‬. Anche i traduttori della Settanta, colti
ebrei dell’antica metropoli di Alessandria, hanno rispettato la differenza di questi due
termini, traducendo il primo in modo sorprendentemente concreto con μαστοι, seni. Per il
secondo, invece, hanno scelto la parola rara α γα πη per indicare la relazione non egoista in
cui uno non utilizza l’altro per il proprio interesse, ma cerca il suo bene, al fine di scoprire in
lui, in lei quell’Altro che è Dio stesso.
Infatti, il termine dodim che indica il primo tipo di amore appare sempre con il pronome
possessivo: il mio amore, il tuo amore. Mentre il termine ahavah si trova nel testo nello
stato assoluto: l’amore, cioé, un amore non „posseduto“ né dall’uno né dall’altro, e neanche
da ambedue insieme. Un amore, allora, che li trascende, al quale i due partecipano, un
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1
“Ich ging nochmals zum Buche, zu sehen, was da war, und zog die ältesten und neuesten Ausleger zu
Rath, nur keiner war mir lieber als der von allen beleidigte klare Wortverstand, der Ausleger aller
Ausleger.“ (J. G. Herder, Sämmtliche Werke zur Religion und Theologie VII, Tübingen: J. G. Cotta’sche
Buchhandlung, 1807, p.74)
2
“Es giebt nur Eine Liebe, wie Eine Güte und Wahrheit.“ (J. G. Herder, Sämmtliche Werke, p.96)
3
Deus caritas est, n.6.
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amore superiore che verso la fine del libro è caratterizzato così: “Forte come la morte è
l’Amore, tenace come il regno dei morti è la Passione.” (Ct 8,6)
Ascoltiamo ancora una volta come il Papa spiega questo amore, ahavah oppure, in greco,
agape: “Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime
purificazioni, che esso cerchi la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso
dell’esclusività – «solo quest’unica persona» – e nel senso del «per sempre». L’amore
comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non
potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira
all’eternità.”4
4. La sposa e le sue compagne
Come spiegato all’inizio, l’interpretazione allegorica ha il grande difetto di creare dei “ghetti
esegetici”: ogni parte sostiene la propria posizione senza possibilità di trovare un accordo.
Ciò si nota facilmente nei commentari dei Padri della Chiesa e nelle omelie dei teologi
medievali: la Chiesa, mediante una nuova lettura dei testi, rimpiazza il popolo ebraico,
pretende di essere la sposa legittima mentre Israele diventa l’ex, ripudiata, divorziata,
maledetta.
Poche sono le eccezioni. Nel sec. XIII un anonimo teologo, impressionato dall’acutezza del
commentario di Rashi, lo tradusse dall’ebraico in latino (Expositio historica Cantici
canticorum secundum Salomonem). E’ una bella coincidenza per noi che il manoscritto sia
conservato nella Biblioteca Vaticana, mentre l’edizione critica fu pubblicata da studiosi
dell’Università Bar Ilan in cui, in passato, anche Amnon Shapira insegnava.
La traduzione latina segue l’originale ebraico quasi alla lettera, fa solo qualche piccolo
cambiamento. Accetta anche l’approccio fondamentale, cioè quello di identificare la sposa
con il popolo ebraico e di riscoprire nel poema l’intera storia di Israele con Ha-Qadosh
Barukh Huu. Alla fine, però, il traduttore cristiano aggiunge una frase che cambia tutto,
perché preclude ogni possibile intesa: “Sostengo che tutto questo si è compiuto
spiritualmente negli ebrei che si sono convertiti a Cristo, e si compirà ancora in quegli ebrei
che si convertiranno alla fine del mondo.”5
Non l’Israele biblico o post-biblico allora, ma solo quella parte che abbraccia il credo
cristiano! Tale dottrina, d’obbligo nell’epoca passata, non può più formare la base su cui
fondare il nuovo dialogo tra ebrei e cristiani.
Per quanto ne so, la visione più lungimirante fu quella dell’esegeta medievale Niccolò di
Lira (1270-1349). Nel suo voluminoso commento sull’intera Bibbia, Postilla litteralis,
critica l’interpretazione unilaterale sia dei cristiani sia degli ebrei. A suo parere, il Cantico
dei Cantici racconta la storia di Israele e della Chiesa, dell’unico popolo di Dio composto da
ebrei e cristiani. Questo popolo nasce con la creazione del mondo, e più specificamente, al
Sinai dove, con il dono della Torah, ottiene da Dio la dignità di sposa.6
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4
Deus caritas est, n.6.
„Et ego dico quod haec omnia sunt impleta spiritualiter quantum ad Iudaeos ad Christum conversos, et
adhuc spiritualiter complebitur quantum ad Iudaeos in fine mundi convertendo.” (S. Kamin and A.
Saltman, eds., Secundum Salomonem. A Thirteenth Century Latin Commentary on the Song of Salomon
[Ramat Gan: Bar-Ilan University Press, 1989] 88).
6
Niccolò di Lira, Postilla litteralis, Introduzione al Cantico dei cantici (cf. D. Turner, Eros and Allegory.
Medieval Exegesis of the Song of Songs [Cistercian Studies Series 156; Kalamazoo, MI; Spencer, MA:
Cistercian Publications, 1995] 394-7).
5
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In tempi recenti, alcuni teologi, mossi da una tolleranza impropria, hanno scelto un’altra
scappatoia: sostengono l’esistenza di due spose, Sinagoga e Chiesa. Qualche anno fa, in
questa stessa università, anche il rabbino capo di Roma ha preso in considerazione questa
strana ipotesi, cioè, se Dio fosse bigamo avendo due amanti, due spose.
Di fronte a questa matassa intricata, sentiamo il bisogno di una prospettiva differente.
Sicuramente non sarà sufficiente dare all’antico testo una spiegazione nuova, ci vorrà, prima
di tutto, una esperienza nuova. Solo questa permetterà di superare l’abisso che ci separa,
consentendo, per esempio, ad un ebreo ortodosso di andare oltre l’esegesi tradizionale con
il suo netto distacco tra il popolo eletto e le nazioni straniere. Rashi, infatti, identifica le
“figlie di Gerusalemme”, menzionate qua e là, con le nazioni non-ebraiche, pagane. Esse
sempre creano fastidio, disturbano l’intimità tra Israele e il Signore, tentano persino di
sedurlo per seguire altri dèi.
Il testo biblico, però, non è per niente univoco a questo riguardo; offre anche spunti per
immaginare un ruolo diverso delle “figlie di Gerusalemme”, un loro ruolo positivo. Già con
la prima frase  „Egli mi baci con i baci della sua bocca!”  la ragazza non si rivolge affatto
all’amato, ma alle sue compagne. Yair Zakovitch, nel suo recente commentario, osserva:
“Davanti ad un pubblico meramente femminile [la ragazza] si esprime con grande
naturalezza, mentre nel corso della strofa e indirizzandosi al vero oggetto del suo affetto,
parla meno arditamente.“7
Un altro esempio è offerto dal capitolo 5 quando l’amato, dopo aver bussato inutilmente,
scappa. Allora la fidanzata chiede alle amiche di aiutarla nella ricerca. Esse vogliono sapere
di più e chiedono: “Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, tu che sei bellissima tra le
donne? Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, perché così ci scongiuri?” (Ct 5,9) – Che
cosa ha il tuo Dio, Israele, più di tutti gli altri perché ti attacchi così a lui e non vuoi
scambiarlo con nessuno?
Poi, la sposa racconta orgogliosa del fidanzato, descrive con entusiasmo i suoi pregi, la sua
bellezza; è incantata dal ricordo e diviene essa stessa sempre più incantevole.
Come reagiranno le altre ragazze, vale a dire, le nazioni straniere? Saranno prese
dall’invidia, si faranno beffe della più fortunata e la vesseranno? O la soccorreranno? Il
capitolo successivo offre la risposta sperata; le fanciulle, infatti, replicano: “Dov’è andato il
tuo amato, tu che sei bellissima tra le donne? Dove ha diretto i suoi passi il tuo amato?
Vogliamo cercarlo insieme a te.” (Ct 6,1)
Con questa proposta – “Andiamo a cercarlo con te!” – le rivali diventano compagne, le
seduttrici amiche. Ora possono, con la sposa, cercare l’amato scomparso, possono
preoccuparsi e finalmente rallegrarsi insieme a lei. Come damigelle d’onore possono dare un
contributo affinché l’amore tra i due sfoci nella gioia comune di una festa nuziale.
5. Aprire porte nuove
Il grande panegirico dell’amore ci invita ad aprire porte nuove, incamminarci verso strade
non ancora esplorate, anche nel rapporto tra ebrei e cristiani come indica il sottotitolo di
questa serata. Vorrei finire, dunque, il mio contributo con tre proposte, piste da percorrere
insieme, incoraggiato da questo luogo significativo, dal giorno particolare, l’anniversario
della fondazione dello Stato d’Israele, e dalla costellazione delle persone qui radunate.
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Y. Zakovitch, Das Hohelied (HThK.AT; Freiburg; Basel; Wien: Herder, 2004) 111 (traduzione nostra).
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a) La comune ricerca di Dio: “L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non mi
ha risposto!” (Ct 5,6): queste parole della sposa sono divenute per noi, uomini del terzo
millennio, come il lamento per la scomparsa di Dio. Ad Auschwitz, si dice, Dio ha taciuto.
Sarebbe più corretto dire: gli uomini, con i crimini ivi compiuti, lo hanno zittito. Oggi
deploriamo non solo il suo silenzio, ma la sua assenza, „l’eclissi di Dio“ come suole
esprimersi Papa Benedetto.
Come ritrovarlo, come sentire nuovamente la sua voce? Ci vorrà un grande sforzo, una
nuova cooperazione tra tutti coloro che si impegnano per il bene dell’uomo.
Il Dio scomparso si farà ritrovare? Molto dipenderà da noi. Ma abbiamo anche la promessa,
tramandata dal profeta Isaia: “Prima che mi invochino, io risponderò; mentre ancora
parlano, io li ascolterò.” (Is 65,24)
b) Una revisione teologica: Ho accennato al luogo in cui ci troviamo, il Laterano. Un ebreo
che sente questo nome, ricorderà spontaneamente il IV Concilio Lateranense (1215). 800
anni fa la Chiesa Cattolica decretò la segregazione degli ebrei, imponendo loro il vestito
distintivo e proibendo l’esercizio di uffici pubblici.
Anche se questi decreti, per quanto sappia io, non sono stati formalmente revocati, il
Concilio Vaticano II nondimeno ha compiuto passi decisivi nel riavvicinare la fede cristiana
alla radice ebraica. Tra i teologi del dialogo spicca il Cardinale Walter Kasper, ex-presidente
della Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. In una recente
monografia Kasper definisce la divisione tra ebrei e cristiani „lo scisma primordiale“
(Urschisma) e afferma coraggiosamente: “il permanere di questo scisma ricorda ai cristiani
che manca ancora la piena realizzazione del Sì di Gesù Cristo all’antica alleanza. [...] Fino a
quel giorno anche la Chiesa si trova ancora in cammino, aspira al suo perfezionamento
escatologico.”8
c) Una nuova forma di popolo di Dio: Con lo Stato d’Israele, stato democratico come tanti
altri, è nata, rinata anche la nazione ebraica, intesa come realtà politica, secolare che
comprende anche persone non religiose. Un contributo essenziale all’identità nazionale e
alla crescita economica è venuto dai kibbutzim, sparsi per tutto il territorio.
L’esistenza dello stato laico potrebbe ora dare spazio a qualcosa di nuovo: un nuovo tipo di
convivenza volontaria, basata sulla fede nel Dio unico il quale raccoglie i suoi adoratori da
tutte le nazioni. In tali piccole comunità internazionali, impegnate e solidali quanto sono i
kibbutzim, si compirebbe la profezia sempre valida: le genti, insieme ad Israele, saranno
“mio popolo” (cfr. Zc 2,15).
Una rete di comunità in cui ebrei e cristiani, israeliani, arabi e altri popoli convivono per
rendere testimonianza del Dio “re della pace” (‫)מלך ׁשהׁשלום ׁשלו‬.9 Un bel sogno, una utopia?
Ma questo rimprovero dell’utopia fu rivolto anche ai profeti biblici quando annunciavano
cose inaudite. “C’é forse qualcosa di impossibile per me?” (Ger 32,27; cf. Zc 8,6); con
questa provocazione Dio, più di una volta, si rivolse agli scettici.
Spero che questa serata abbia aiutato a comprendere meglio e ad avere fiducia in una storia
d’amore, ancora piena di sorprese.
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8
“Umgekehrt erinnert das fortdauernden Schisma zwischen Juden und Christen dzie Christen daran, dass
die volle Verwirklichung des durch Jesus Christus gekommenen Ja zum alten Bund noch aussteht... Bis
dahin ist auch die Kirche noch unterwegs und geht ihrer eschatologischen Vollendung entgegen.“ (W.
Kasper, Katholische Kirche. Wesen - Wirklichkeit - Sendung [Freiburg; Basel; Wien: Herder, 2011] 424).
9
Cfr. Rashi, ‫פירוש על שיר השירים‬, ad Cant 1,1 (Kamin and Saltman, eds., Secundum Salomonem, ‫)פא‬.
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