La maschera della Morte Rossa

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La maschera della Morte Rossa
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Alla mia gatta Zarina
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Stelvio Mestrovich
LA MASCHERA
DELLA MORTE ROSSA
Il ritorno di Giangiorgio Tartini
Dario Flaccovio Editore
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Stelvio Mestrovich
La maschera della morte rossa
Il ritorno di Giangiorgio Tartini
ISBN 978-88-579-0310-1
Prima edizione: giugno 2014
© 2014 by Dario Flaccovio Editore s.r.l. - tel. 0916700686
www.darioflaccovio.it [email protected]
Mestrovich, Stelvio <1948->
La maschera della morte rossa / Stelvio Mestrovich. - Palermo : D. Flaccovio, 2014.
ISBN 978-88-579-0310-1
853.914 CDD-22
SBN PAL0270528
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
Stampa: Tipografia Priulla, Palermo, giugno 2014
Ringraziamenti
A Raffaella Catalano, editor e addetto stampa, per l’ottimo lavoro svolto.
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Capitolo 1
Poi Giangiorgio Tartini impugnò la pistola di ordinanza e si sparò un colpo alla testa… ma non morì.
Il fatto accadde a casa dell’amico Dario Farsetti il
12 gennaio dell’anno 2007. A cena, Tartini alzò il
gomito, ma sembrò tranquillo. Verso le ventitré si
accomiatò e all’una del mattino uno sparo nel silenzio di una notte non più noiosa delle altre fece
precipitare Dario nella camera degli ospiti. Farsetti
chiamò subito i soccorsi.
All’ospedale San Giovanni e Paolo i medici estrassero un proiettile calibro 9mmx19 dalla parte posteriore del cranio di Tartini. La pallottola non gli
aveva leso punti vitali. L’amico poliziotto, con la
complicità dell’agente scelto Marescalchi, mise a
tacere la sbronza di Giangiorgio di inizio anno alla
Punta della Dogana nel corso dell’inchiesta, ma
nulla poté per negare il tentativo di suicidio. Tartini, alla fine dell’indagine straordinaria, ordinata
dall’autorità competente a un organo interno della
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Polizia di Stato designato per ottenere la verifica
dei fatti, fu esonerato dal servizio per una “possibile depressione per motivi personali, con il consiglio
di ricorrere a cure di specialisti per alleviare il peso
di fratture psicologiche difficilmente sanabili nel
silenzio della propria intimità”. In pratica, fu buttato fuori dalla Polizia.
Ad assistere Farsetti, si prodigarono la signora Rebetz, Tullia Rampani e Camilletta Franco. Non fu
da meno il gatto Annibale che rischiò di morire di
dolore, evitando il cibo e mostrando una continua
agitazione durante l’assenza del suo padrone. Furono le ostinate cure della signora Rebetz a salvarlo da
morte sicura. Alla prima carezza di Giangiorgio Tartini, il micio non si contenne dalla gioia. Il suo miagolio e le sue effusioni di affetto durarono a lungo.
Tartini non fu più lo stesso. Lo capì al primo risveglio dopo l’operazione. Si ricordò in un lampo il
non breve segmento di vita dalla sua nascita alla
scampata morte. E rabbrividì. Non era riuscito nei
suoi scopi, nemmeno a uccidersi. Aveva adoperato
tutti i fiammiferi, nessuno si era acceso. Non avevano fatto che fumo. Adesso non gli rimaneva che
una scatola bruciacchiata e vuota. Pensò alla sua
cittadina natale: come Pirano d’Istria, esisteva ma
non c’era. Egli viveva al di fuori della sua vita. Piacere, Tartini: uno sconosciuto.
Dopo la convalescenza passata da Dario Farsetti,
Giangiorgio, seppure contro la volontà del suo ami6
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co, tornò ad abitare nel suo appartamentino in Corte
Colombina. Con il fidato gatto Annibale e con l’antipatica, ma gentile, vicina di casa signora Rebetz.
Suonò il violoncello più volte, provando piacere e
disillusione. Le note sfumavano mute. Era la memoria, non il cuore, a uscire dallo strumento musicale. E Annibale era sempre lì, attento. Non andava
via come prima.
Il ricordo di Mitzi, una prostituta di cui si era innamorato, che aveva accolto in casa sua con la
massima fiducia e che, come ringraziamento, era
scappata con i suoi soldi e oggetti di valore anche
affettivo, custoditi in cassaforte, senza una parola
di spiegazione, schiacciò Tartini come si fa con un
verme. Lui pensò a un proverbio russo, che recitava: ti è piaciuto farti portare in slitta? Prova adesso
a trascinarla!
Forse non sarebbe stata una cattiva idea cambiare
casa… Ma il fedele gatto come l’avrebbe presa?
E dove avrebbe ritrovato un’altra signora Rebetz?
Scartò immediatamente quella ipotesi.
Capì che soltanto la musica gli avrebbe dato da vivere d’ora innanzi. Magari dando lezioni private
agli studenti del Conservatorio. Lasciò il violoncello, fece due coccole al gatto, uscì fuori. Soffiava
un freddo vento di fine aprile. La vecchia Venezia
gli apparve sempre più ammalata. Ormai vicina al
collasso. Massacrata dai turisti, abbandonata al suo
destino dagli amministratori corrotti e ignoranti,
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sempre meno lodata da artisti e letterati, Venezia
si mostrava ai più come un luna park in cui si mulinavano sogni ordinari e di poca durata. A tanto si
era ridotta la città lagunare, una volta regina dell’Adriatico. A un carrozzone d’acqua e di pietra, ricco
di maschere di Carnevale made in China, sempre
pronto a mostrarsi, per il vil denaro, agli obiettivi
di macchinette fotografiche e alle cineprese sofisticatissime.
Tartini entrò in un negozio di libri usati e ne uscì
con Al limite estremo di Michele Artzybascev e con
Oblòmov di Ivàn Gončarov. Si era dato alla letteratura russa, l’unica nella quale il suo malandato
spirito trovava pace. Aveva abbandonato Marco
Aurelio e la sua filosofia per passare alla sofferenza
slava.
Alzò il bavero del giubbotto e accelerò il passo.
Giunto che fu all’imbarcadero di San Marcuola,
gettò un’occhiata alla facciata incompiuta della
chiesa dei Santi Ermagora e Fortunato. Com’era
messo con la fede?, si interrogò. Beh, mica bene,
rispose a se stesso. Uno che voleva uccidersi… Se
non fosse stato per quel mona di Dario… chissà
dove sarebbe adesso o se ancora esisterebbe sotto
forma di anima. Giangiorgio si ricordò di una perla
dei Fratelli Karamazov: non è che non accetti Dio,
ma semplicemente gli restituisco, con la massima
deferenza, il mio biglietto. Si accese una sigaretta
Memphis Light, contrariamente ai pareri della medicina universale, e attese l’arrivo del vaporetto.
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Scese alle Zattere, si fermò al bar Il Cucciolo per
prendere un caffè, camminò lentamente verso la
Punta da Màr. Lì si era ubriacato, gridando alla
gente che festeggiava il nuovo anno: “Signori, avevo una donna che amavo che era una puttana e che
puttana è rimasta. La volete? Mitzi, questo è il suo
nome d’arte, scopa benissimo. È una vera artista
del coito…”
Erano le sette passate, quando una mano robusta
lo scosse e lo svegliò. Era quella dell’agente scelto Marescalchi, che lo portò subito da Farsetti in
campo San Lorenzo. E dopo l’insano gesto…
Tartini fumò di nuovo. Attraversò il ponte dell’Accademia, direzione piazza San Marco. Come fosse
una tappa d’obbligo, rimirò il grande e melanconico Palazzo, attribuito al Sansovino, in campo San
Maurizio, dove aveva abitato Giorgio Baffo. In primis era stato Brafo. Uomo dai bei modi, castigato
nei discorsi e di carattere austero, ma che era passato alla storia della letteratura come disonesto e
infame, nonché poeta licenzioso. I suoi versi erano
stati scritti nel dolce dialetto veneziano che è soffice come la seta. Ma la loro volgarità, così era stata
ai suoi tempi definita ed ancor oggi in parte lo è, li
imbrattarono di sconcezze.
Ma la realtà non porta sconcezza? O, meglio, le due
parole non sono sinonimi? La vera vita dei signori
veneziani del Settecento era stata descritta, meglio
di un quadro di Pietro Longhi, dal nobile poeta. In
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appendice a questo ragionamento, Giangiorgio si
ricordò di questi versi: “Come vien un pensier fazzo un sonetto, e’l fazzo in Venezian, come son nato,
sibben che so, che gho se più d’un mato, che me
condanna, perché parlo schietto”.
Già. Bordelli, puttane, corrotti, preti debosciati. Un
affresco a tutto tondo di una città logora, lasciva e
decadente.
Tartini puntò il dito sulla lapide commemorativa di
Apollinaire sulla facciata di Palazzo Bellavite, che
recitava: “Questo celebre sifilitico, soprannominato l’osceno, lo potremmo considerare il più grande
poeta priapeo mai esistito, ma, al contempo, uno
dei massimi poeti lirici” ed esclamò con partecipazione a bassa voce: “Ne so qualcosa io, di puttane!”
Il consiglio di andare da uno psichiatra, venuto sia
dall’ospedale sia dal medico curante, non fu preso
sul serio dall’ex ispettore capo. Furono sufficienti
due sedute, dopo le quali la decisione di non salire
più le scale di quella casa che portavano allo studio
dello “strizzacervelli”. Tartini capì subito che tra il
vivere e il non vivere c’era una terza possibilità: tirare avanti senza medicine e senza intrusioni esterne che lasciano il tempo che trovano. E lui scelse
quella.
L’avvenire è fumo e lusinga, rifletté. Passeggiando
verso la piazza, rise osservando tra sé che anche
Venezia non aveva avvenire, eppure continuava a
trastullarsi tra fumi di nebbie e di lusinghe.
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Capitolo 2
Passarono dieci mesi.
Grazie all’interessamento dell’amica Rampani,
Tartini fece un corso di perfezionamento di violoncello e, in seguito, cominciò a suonare in un quartetto con pianoforte. Numerosissimi furono anche
gli allievi che andarono da lui per le lezioni private. Giangiorgio si organizzò bene, si dette molto da
fare, riscoprendo così la sua vena artistica che durante il servizio in Polizia si era, volente o nolente,
nascosta sotto pelle. Si procurò nuove conoscenze
e al conservatorio Benedetto Marcello godette della
stima di tutti.
Gli rimasero due amici carissimi, di vecchia data:
Dario Farsetti, nonostante gli avesse salvato la vita,
e il maresciallo Carmelo Celso della stazione dei
Carabinieri di Castelbuono in Sicilia, con il quale
aveva collaborato in passato nel caso del delitto in
Casa Goldoni. Il primo andò a trovarlo quasi ogni
giorno; il secondo non mancò mai di tenersi in con11
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tatto telefonico con l’ex segugio dei canali. Durante il periodo più delicato del ricovero ospedaliero di
Giangiorgio, Carmelo e signora si precipitarono da
lui e, a turno, fecero due nottate di veglia. Tartini,
quando lo seppe, ne rimase profondamente commosso. Si propose di andarli a trovare al più presto
e di sdebitarsi in qualche maniera.
E Tartini aveva acquisito un nuovo amico, conosciuto al conservatorio: Giobbe.
Era Giovedì Grasso. Giangiorgio non capì bene di
quale anno. Si sentì confuso.
Festa sacra per i veneziani. Il giorno della grande
abbuffata, della smoderatezza, della gozzoviglia,
del “tutto è concesso”. Il giorno della Triade: vizi,
abusi, depravazioni.
Si osannava il maiale, si abbordavano le putele. Si
cercavano il vino e la mona. Il popolo si dava alla
pazza gioia.
Tartini uscì di casa senza una meta fissa. Si concesse una camminata e la mente, più che i piedi, lo portò al ponte delle Tette, che è situato a San Cassiano,
in zona delle Carampane, e unisce il sestiere di Santa Croce con quello di San Polo. Vicino a Rialto, è
una di quelle zone di Venezia in cui le prostitute
sono costrette a concentrarsi sin dal secolo quindicesimo, per disposizione delle leggi sull’ordine
pubblico. Per attirare la clientela, le donne di malaffare, tempo addietro, se ne stavano sedute sulle
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finestre a seno nudo e con le gambe penzoloni per
mostrare le loro grazie. Le più audaci addirittura sul
ponte stesso.
Una di quelle ordinanze era stata emanata per debellare l’omosessualità, che era diventata un problema serio. Sotto i portici di Rialto erano state poste, nel 1450 e a carico della Repubblica, quattro
grosse lampade per rischiarare la zona e scoraggiare gli omosessuali che lì si radunavano.
Erano stati riportati alcuni esempi.
Un tale Francesco Cercato era finito impiccato per
sodomia fra le colonne della piazzetta nel 1480.
Un s. Bernardino Correr, nel 1482, “volse sforzar
ser Hieronimo q. ser Urban zovene bellissimo per
sodomia una sera che lo trovò in calle da Ca’ Trevixan a S. Bortolomio e li taiò le stringhe de le calze, el qual non volse consentir, andò ai Cai di X et
dette la sua querela”.
Francesco Fabrizio, prete e, ahimé!, poeta, lo avevano decapitato e bruciato nel 1545 per tale vizio
“inenarrabile”.
Tutti i medici e i barbieri che erano stati chiamati a
curare qualche uomo, oppure qualche femmina, “in
partem posteriorem confractam per sodomiam”,
furono obbligati a farne denuncia entro tre giorni
alle autorità, in maniera tale che i sodomiti fossero
giustiziati fra le due colonne della piazzetta.
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Ma la vera ragione della rabbia delle prostitute era
un’altra. Le troppe cortigiane o puttane di lusso.
Nel 1509 ce n’erano più di undicimila. E il lavoro a
quelle a più buon mercato scarseggiava …
Lungo le calli gruppi di scalmanati ballavano al ritmo sfrenato dei tamburi. Nei Campi si improvvisavano moresche e altre danze.
Il popolo era in festa.
Tartini, in questo immaginare, rivide Mitzi, che lui
aveva accolto in casa e che voleva sposare, perché
si era innamorato di lei. La incontrò proprio lì. Bellissima troia. Che lui avrebbe voluto trasformare,
povero meschino, in un’onesta principessa. Risultato? Mitzi era scappata via con tutti i suoi denari
e con tutti i suoi sogni. Lui non si era dimostrato
Gesù. E Mitzi non aveva avuto il cuore della Maddalena.
Giangiorgio, sempre tra fantasie storiche e realtà,
incontrò, strada facendo, cartomanti, ciarlatani,
giocolieri, giocatori di dadi, prestigiatori, venditori
ambulanti e improvvisati, guardie ubriache, barboni, cani randagi, gatti.
Dopo Rialto, si avvicinò alle Carampane.
C’erano diversi falò e persino un orso incatenato
a un palo. Si doveva difendere dagli attacchi dei
levrieri. Ne seguì un combattimento cruento a colpi
di morsi e di unghiate.
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“Non sopporto questo spettacolo”, si ritrasse Tartini, “allora è vero che la vittima, e non l’assassino,
torna sempre sul luogo del delitto”.
Uscì dalla zona a luci rosse. Piano piano, come fotogrammi di un film che ritrovarono l’ordine cronologico, i contorni del suo spazio visivo si fecero
più nitidi e, in prossimità di Rialto, lui riacquistò lucidità. Non ebbe, però, il coraggio di definirla tale.
Non era forse meglio prima?
Andò a salutare il ristoratore di Al Buso. Il proprietario non c’era. Il cameriere gli domandò se volesse
mangiare qualcosa e disse che il suo tavolino rasente il ponte era sempre libero. Lo avevano ricoperto
di un telo, sopra il quale erano state poste saliere,
bottiglie di olio e di aceto, posaceneri. Giangiorgio
rispose che non aveva fame, ma che lo avrebbero
rivisto presto. Si avviò verso l’imbarcadero e mentre aspettava il vaporetto, squillò il suo cellulare
con il suono della canzone russa più famosa di tutti
i tempi, Kalinka, scritta nel 1860 dal compositore
Larёnov. Era Dario.
“Dimmi, ispettore capo”.
Silenzio e gelo.
“Ci sei?”, brontolò Giangiorgio.
“Sì. E avrei bisogno del tuo aiuto”.
“Vuoi una lezione di musica?”, disse Tartini con
una certa acidità.
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“No. Che tu mi dia una mano a risolvere un delitto”.
“Dove ti trovi?”
“Al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Civile”.
“Chi hanno ammazzato, qualcuno del Partito della
Libertà?”
Questa volta Farsetti rise.
“Ti raggiungo. Avverti i tuoi sbirri, altrimenti non
mi fanno entrare”.
E pigiò il tasto con la cornetta sbarrata.
Tartini prese il vaporetto numero 1 per San Zaccaria e poi il 52 per l’Ospedale. Nonostante i pestoni,
i turisti assatanati, le persone mascherate, i ragazzini maleducati, le lotte per entrare e uscire dalle
imbarcazioni strapiene, riuscì a venirne fuori a Castello, seppure mezzo massacrato. Accese subito
una sigaretta maledicendo la città e i suoi trasporti.
Era gonfio di bile, però il riaccostarsi a un’indagine
lo animava interiormente. Come, o quasi, ai vecchi tempi... E senza alcun dovere o responsabilità.
Avrebbe agito da esterno. Meglio di così.
All’interno dell’ospedale, si fece indicare da un
medico l’ala del Servizio Psichiatrico di Diagnosi
e Cura. Salì due rampe di scale, percorse due corridoi, infine vide un paio di ex colleghi fuori di una
porta. Era arrivato.
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Dario gli strinse la mano senza dire una parola, poi
lo accompagnò sul luogo del delitto.
Una donna giaceva in un lago di sangue, a cavalcioni del letto. Stanza numero 6. Con la massima
precauzione, Tartini si avvicinò al corpo e notò che
le erano stati inferti diversi colpi con le forbici. Era
una graziosa biondina con tratti non privi di piacevolezza. Aveva il naso a punta, indossava solo una
camicetta bianca, non doveva avere più di una venticinquina d’anni. C’era un fazzoletto vicino alla
spalla sinistra. Doveva essere servito all’assassino
per impedirle di urlare. Visibili alcune ecchimosi
sul collo. Sul capo aveva due banconote: la prima
da 20 euro, la seconda da 10. Sul lenzuolo, con il
sangue, era stato scritto Deus vu.
“Il nome della poveretta?”, si interessò Giangiorgio.
“Marina. Marina Minio”.
“Di dov’era?”
“Di Padova”.
“Quando è successo l’omicidio?”
“Stamani all’alba”.
Tartini rifletté. “Un assassino che lascia 30 euro…”.
Poi chiese: “La vittima aveva parenti?”
“Stiamo controllando”.
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“Qualcuno ha visto qualcosa?”
“Un’infermiera, tale... Zusto, Gabriella Zusto... che
sostiene di avere scorto un uomo con una maschera bianca che piangeva lacrime di sangue, con un
mantello nero, mentre fuggiva dalla stanza. È lei
che ha scoperto il corpo”.
“Che tipo di forbici…?”
“Di quelle per mancini, che presentano lame invertite. La Zusto dice che l’assassino è scappato scavalcando la finestra che dà sui tetti”.
“Come le è parso? Alto, basso, grasso, magro?”
“Piuttosto alto. E robusto”.
Si sentì la voce baritonale del pm in avvicinamento.
Si intromise fra Tartini e Farsetti e, rivolto al primo,
tuonò bilioso:
“Lei che cazzo ci fa qui?”
“Sono un paziente del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Stanza 14”.
Il magistrato lo squadrò da capo a piedi. Non aveva
mai nutrito simpatia per quell’uomo. Si lisciò i baffetti alla Poirot, passò una mano sui pochi peli che
ornavano un cranio basso, si aggiustò il nodo alla
cravatta, ostentando un Rolex d’oro.
“E allora? Risponda alla mia domanda”.
“Sono venuto a salutare il mio amico Farsetti”.
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“L’ha fatto?”
“Sì”.
“E allora se ne vada!”
“Ma sono un testimone…”
Il dottor Pizzetti, il magistrato, placò il suo astio e
domandò all’ex ispettore capo che cosa avesse visto.
Giangiorgio assunse l’aria di un matto e scandì:
“Un nanetto lombardo con un mini-uccello che insidiava la figlia del Doge”.
A Dario scappò una risata incontrollabile.
Il pm: “Ma torni nella sua stanza e si faccia ben
curare!”
“Provvederò. Tanto paga lo Stato”.
Tartini scambiò un’occhiata di complicità con Farsetti, quindi si allontanò a grandi passi.
Andò a sbirciare dalla finestra, dalla quale era fuggito l’omicida.
In effetti, era una facile scappatoia. Con un piccolo
salto si poteva raggiungere un tetto e poi un’altana
e scendere ancora e ancora, sino a toccare terra.
Un maniaco, pensò. E la scritta Deus vu? Che significava? Dio lo vuole o Deus le volt, anche se in19
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completa, si ricordò Tartini. Fu il grido di battaglia
usato da Pietro l’Eremita nelle sue predicazioni per
arruolare uomini per la Crociata dei pezzenti. Tale
motto giustificò l’utilità della conquista militare
della Terra Santa come un sacrificio per la libertà
del Santo Sepolcro. E, se non errava, era stato utilizzato anche in seguito dai guerrieri delle successive Crociate. Leggenda voleva che persino papa Urbano II avesse usato questo motto, dopo il celebre
discorso tenuto a Clermont, in aiuto della Chiesa
d’Oriente, privata della città di Gerusalemme. Probabilmente il pontefice aveva inteso difendersi dalle accuse di interesse personale e commerciale che
gli erano state rivolte da più parti.
Va bene, ma tutto ciò che cosa c’entrava con il delitto?
Giangiorgio attese Dario, che giunse dopo un quarto d’ora. Gli disse le sue prime impressioni, poi se
ne andò a casa. A piedi.
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Capitolo 3
Non fu visto da nessuno entrare nella chiesa di San
Giovanni in Bragora nel sestiere di Castello. Puntò
diretto alla cappella dedicata a San Giovanni l’Elemosiniere, che custodisce le preziose reliquie del
Santo dal 1249, in una cassa dorata, sostituita poi
nel 1326 con un’altra “più ornata e decente”. Si
inginocchiò, facendosi il segno della croce. Ansimava un po’. Nascose la faccia tra le mani e pregò. L’odore delle candele accese si fece sentire. Ma
non disturbò affatto l’uomo che ormai, fra preghiere e ricordi, era vittima consenziente della mente.
Ogni tanto un bagliore e un tuono, da mozzare il
fiato. Poi il suono sinistro della pioggia battente,
che riportò il fedele indietro nel tempo, davanti a
un cancello di una villa in stile liberty, sulla riviera
versiliese, con i libri bagnati tenuti sottobraccio,
dopo avere ripetutamente suonato il campanello.
Aveva allora undici anni e frequentava la seconda
media. Era stata la nonna ad aprirgli il cancello.
Lui aveva corso per tutto il parco, aveva lambito la
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piscina, salito cinque gradini ed era entrato in casa
bagnato fradicio. Senza salutare si era diretto come
un bolide verso la sua camera, che condivideva con
il fratello più piccolo, di quattro anni. Lo aveva
trovato in un angolo, bastonato e piangente. Botte, sempre botte, aveva pensato. Chissà che cosa
aveva fatto quella volta. Gli aveva dato una carezza, quindi era sceso a mangiare. La cucina era una
strana e ampia stanza, divisa in due da una vetrata
con tanto di porta. I “servi” di suo nonno, cioè la
moglie, il figlio, la figlia e la nuora con la prole
occupavano la prima metà di un tavolo; la seconda
era per il “padrone” e per il suo cane prediletto, un
setter, di nome Diana. Giovanni, così si chiamava
il non ancora vecchio ma venerando padreterno,
intervallava a ogni pietanza una sigaretta infilata
nel suo prezioso bocchino d’oro. Il fumo, però, non
gli impediva di alzare la voce, di bestemmiare in
lingua croata come un turco, ogniqualvolta notava
qualcosa (per lui) di storto. Il figlio – padre di colui
che era inginocchiato in assoluta astrazione dalla
realtà circostante, nullatenente – era in suo potere.
Rappresentante unico in Italia di una fabbrica svizzera di sigarette, girava, per ordine e conto del genitore, come una trottola in varie città italiane, in
Vaticano e a Zurigo. Così guadagnava il pane per
la consorte e per i ragazzi. La sorella era nel fiore
degli anni, una bellissima giovane, bella di fuori
quanto tarata di dentro. Il suo carattere era odioso
come quello del padre. La madre, invece, vantava
un’origine nobile, abituata a ubbidire e a non di22
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scutere. Alla presenza del marito, accettava tutto,
corna comprese. Quando lui era assente, sfogava
la rabbia repressa urlando e piangendo. Soltanto
la nuora le era solidale, forse per timore di non
fare l’identica fine. Non passava giorno che non si
pregasse per la morte del “mostro”. D’estate “el
paròn” andava in Iugoslavia (allora la Repubblica di Croazia non esisteva) a sperperare soldi con
donne e cacciando con i vecchi amici. Chissà...
un incidente... L’uomo riconobbe la sua castità
per natura. Pensava, come i Padri della Chiesa,
che una donna merita spesso il disprezzo, sempre
la diffidenza, qualora non ispiri venerazione. Chi
lo aveva scritto? Ah, sì! Claude Aveline. Il nonno
sbraitava, la nonna taceva, il padre sopportava, la
madre si umiliava, la zia rendeva sempre più folle
la sua sensualità. Mai un po’ di pace in famiglia.
Lui e il fratello avevano tutto e niente. Poco amore.
Lasciati alla sera per essere lasciati ancora al mattino. Intanto infuriavano furibondi litigi in villa. A
scuola impararono poi l’arte del rifiuto, perché ricchi. A casa l’arte dell’abbandono, perché scomodi.
Crebbe in loro la rivolta. Più nel fratello maggiore.
Una volta scappò di casa dall’alba alla sera tardi e
nessuno se ne accorse.
Su queste cose rifletteva l’uomo inginocchiato. Appoggiò le mani sui fianchi e guardò San Giovanni
l’Elemosiniere.
Due fulmini consecutivi si abbatterono nelle vicinanze e l’ultimo di essi illuminò i sette pannel23
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li regolari dei sedili, due pilastri quadrangolari,
il frontone dell’urna con l’immagine a rilievo del
Santo, collocato sulla parete sinistra della cappella
e la maschera della Morte Rossa. Una candela si
spense. Poi seguirono i forti tuoni.
L’uomo aveva ottenuto il consenso di continuare
nel suo disegno.
Deus vu...
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Capitolo 4
Bussarono alla porta. Annibale non si mosse dalla
sua poltroncina. Era ora di lezione e lo sapeva.
Tartini andò ad aprire.
“Buon giorno, professore!”
“Entra”.
E fece passare il suo allievo prediletto. Si chiamava
Aldo, aveva diciassette anni, era vispo e determinato. Vestiva come i ragazzi della sua età, non si
dava arie, era cordiale e molto educato. Suo padre,
di origine vicentina, aveva un’oreficeria in calle
Larga XII Marzo, vicino al palazzo della Camera
di Commercio.
“Hai studiato?”, gli domandò Giangiorgio.
Lui fece cenno di sì con la testa.
“Bene. Cominciamo con gli esercizi”.
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