Logos filosofico e Logos rivelato

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Logos filosofico e Logos rivelato
Logos filosofico e
Logos rivelato
Alcune domande ad
Alessandro Ghisalberti
a cura di Alessandro Carta
Rivolgiamo alcune domande ad Alessandro Ghisalberti, che si è soffermato
in questi ultimi anni sul rapporto tra filosofia e Rivelazione nell’ambito
della dottrina del Verbum cristiano. A partire dal Prologo al Vangelo di
S. Giovanni e da alcune indicazioni ancora precedenti nelle Lettere di S.
Paolo, il nesso tra la Ragione filosofica e la Parola rivelata si è posto al centro
della storia del pensiero occidentale: strutturale alla tradizione filosofica del
cristianesimo da Giustino ad Agostino a Tommaso, tale nesso non cessa di
impegnare la speculazione dei moderni ancora fino a Spinoza, Kant ed Hegel.
Nel volume Logos filosofico e logos rivelato (Edizioni Cusl, Milano 2009)
Ghisalberti ne fa emergere le ricche implicazioni ancora oggi spendibili nei
vari ambiti della riflessione filosofica, soprattutto attraverso il riferimento ad
autori come Agostino, Scoto Eriugena e Tommaso d’Aquino: alle indicazioni
relative all’analisi noetica e psicologica circa le condizioni del comprendere
del soggetto umano e del suo e auto-comprendersi, si aggiungono gli apporti
speculativi al tema metafisico del rapporto tra l’Uno e i molti nel contesto
della creazione e infine quelli a livello teologico nella determinazione delle
relazioni che animano la vita del “Deus Trinitas”.
D: Professor Ghisalberti, mi permetta di iniziare la nostra conversazione
con una domanda sulle implicazioni tra la tematica del Verbum e il problema
della conoscenza. Nel tentativo di penetrare il mistero cristiano delle tre
relazioni in un’unica sostanza, Agostino (De Trinitate, IX) si volge all’uomo
interiore e vi trova impressa un’immagine indelebile di quella divina Trinità,
che esprime nella triade di “mens”, “notitia” e “amor”: la “mens” è, sa di
essere e ama e vuole il proprio essere. La verità di questa autocoscienza
appare indefettibile e inattaccabile dal dubbio e questo permette al filosofo di
sviluppare la sua caratteristica noetica dell’illuminazione divina. Nella lettura
che Lei offre di questi passaggi Agostiniani risalta il ruolo prevalentemente
regolativo delle “ragioni eterne”, la necessità di un legame tra l’intelletto finito
e il piano della verità immutabile, il Verbum divino, “secondo cui” avviene la
generazione del “verbo umano” che è la conoscenza vera o “conoscenza unita
all’amore”. Con Agostino, la domanda fondamentale che Lei sembra porre è
da dove venga la verità di un giudizio. La mente può produrla da sola o deve
invece riceverla da qualcos’altro?
R: la domanda è molto articolata e richiede una distinzione nei passaggi,
che riguarda anzitutto il livello in rapporto al quale si pone Agostino. Nel De
Trinitate, in modo particolare, viene sviluppata una topologia della mente
modellata sugli aspetti che egli stesso aveva individuato nella riflessione
intorno al dogma cristiano della Trinità. Il discorso non è mai unidirezionale
perché Agostino è un autore “magmatico”, lo diciamo in senso positivo, e
questa è la sua forza ma è allo stesso tempo un problema per il lettore.
Agostino richiede al lettore un’ermeneutica sempre molto coinvolgente ma
anche molto responsabile, cioè richiede la consapevolezza che si sta attivando
un tipo di ermeneutica rispetto ad altri tipi di ermeneutica possibili. Non
per nulla è stato un autore sia della grande ortodossia che della Riforma e
quindi della divergenza rispetto all’ortodossia, perché i suoi testi delimitano
un ambito di ampie interpretazioni.
Quando divenne vescovo, Agostino si trovò di fronte all’obiezione
sollevata dai suoi avversari (anche da avversari che stavano a metà strada tra
la fede cattolica e il mondo intellettuale con cui Agostino voleva mantenere i
legami) che il cristianesimo fosse una dottrina basata su un errore, un errore
macroscopico o addirittura indice di profonda ignoranza, quello di usare il
criterio della quantità, il tre, il numero tre che è quantitativo in rapporto
al mondo spirituale che le filosofie neoplatoniche avevano ampiamente
sviluppato in un’ottica in cui il Vero, al suo massimo grado, non può che
essere Uno. Addirittura, parlavano di Dio come dell’Unità al di là dell’Essere
o al di là dell’essenza (“epekeina tes ousias”), dell’Uno come unità totalmente
innominabile, totalmente indefinibile. Perciò introdurre il tre, come nel
dogma cristiano, il numero tre, il numero che indica quantità nell’ordine
del divino significava retrocedere rispetto ai grandi passi che aveva fatto la
filosofia greca ed ellenistica. Era un’obiezione di non facile conto per il suo
tempo, con cui Agostino dovette confrontarsi a lungo. I filosofi dicevano:
“voi siete ridicoli sostenendo questa tesi e non siete degni di essere presi in
considerazione dal punto di vista intellettuale”, e questo era un problema
serio, anteriore al problema della trinità psicologica. Agostino ebbe allora
l’intuizione (per sottolineare che non è l’introduzione della quantità come
tale che interessa nel dogma della Trinità) che l’Unità propugnata dal
cristianesimo e applicata alla divinità sia talmente grande e talmente forte
da poter assorbire in sé il Tre. L’intuizione di Agostino è stata di pensare
l’unità di Dio, l’unità della sostanza divina, come talmente una e talmente
forte da compatire in se la trinità. Questa diventa quindi la chiave teoretica
della lettura che egli fa nel De Trinitate e motiva il passaggio alla trinità
psicologica. Contrariamente a ciò che a volte si scrive nei manuali, Agostino
non è arrivato a spiegare la Trinità di Dio studiando la trinità dell’uomo ma è
invece interpretando con acume lo sviluppo di questa inviolabile unità nella
dimensione divina trinitaria che è arrivato a riconoscerne un esempio non
totalmente identico ma simile, quindi analogico, nell’uomo. Anche l’uomo
che resta uno, in quanto soggetto, ha queste movenze di “mens”, “notitia”
e “amor”, ha un movimento triadico che non infrange l’unità. Oppure è
“memoria”, “intellectus”, “amor” o “voluntas” e anche queste sono proprietà
in progressione che si muovono con valenza trinitaria senza infrangere
l’unità.
Dunque Agostino non procede al modo degli scolastici di formazione
aristotelica, che partono dal mondo sensibile per arrivare all’intellegibile,
ma al contrario arriva a spiegare il mondo sensibile a partire dal mondo
intelligibile, da buon seguace della filosofia neoplatonica. Allora anche
il rapporto tra il Verbo divino e il verbo umano segue questa cadenza.
Cioè, il verbo umano risulta nella sua movenza originato da una scansione
psicologica di tipo trinitario, esattamente come avviene nella produzione del
Verbo inteso come seconda Persona della Trinità. Poiché il Padre genera il
Verbo conoscendo se stesso, essendo il Padre “auto-logos” o perfetta autoconoscenza, e questa perfetta auto-conoscenza si ipostatizza in un Figlio,
Logos, Sofia del Padre, e tra il Padre e la sua Sofia o Sapienza si instaura un
rapporto di perfetta corrispondenza che è lo Spirito Santo o Amore.
Le analisi di Agostino trovavano dei precedenti in autori neoplatonici
che avevano già fatto questo tipo di percorso andando a vedere come il
rapporto tra “mens”, “notitia” e “amor” nel soggetto conoscente umano
obbedisse a uno schema trinitario, che non infrangeva il principio dell’unità
in senso neoplatonico ma che stabiliva in qualche modo una dialettica
trinitaria connessa con l’espansione dell’Uno. Schema che ritroviamo in
Plotino: l’Uno, il Nous e l’Anima del mondo, appunto “mens”, “notitia” e
“amor”. Queste applicazioni erano quindi già state fatte da diversi scolari di
Plotino (convergenti o divergenti da Plotino) e c’era stata l’elaborazione di
una trinità psicologica puramente filosofica e non cristiana, di cui Agostino
poi probabilmente venne a conoscenza, non sappiamo se attraverso testi o
attraverso colloqui con persone. Perché Agostino era sicuramente di quei
personaggi capaci di una molteplicità di relazioni, di cui non sappiamo
ancora tutto. Il paragone è con Dante. Se ci domandiamo quali sono le fonti
di Dante, non riusciamo mai individuarle con certezza ma sappiamo che ha
avuto miriadi di fonti conosciute in modo dettagliato e spesso diretto, fonti
comunque veritiere perché quello che egli scrive vi corrisponde.
Veniamo all’altro aspetto: da dove venga la verità di un giudizio. E’
la tradizionale questione dell’illuminazione della mente, l’illuminazione
dell’anima che secondo Agostino è matrice della conoscenza. La parola
“illuminazione” non è presente in Agostino, ma è presente l’equivalente
di idee che hanno contenuto di rilevanza non riconducibile ai concetti
che ci formiamo attraverso la conoscenza sensibile. Il problema è da
dove vengano i contenuti che noi riteniamo di conoscere con certezza e
che non possiamo, dal punto di vista della sua epistemologia, ricavare dal
mondo sensibile. Tra questi contenuti vi è anzitutto l’esistenza di una realtà
spirituale cioè totalmente immateriale, su cui Agostino aveva un campo di
esperienza personale. Nelle Confessioni ricorda infatti che finché non arrivò
alla conversione, cioè dopo il 386 e fin oltre i trent’anni, e finché non lesse
i testi neoplatonici o persino ancora un poco dopo averli letti (in realtà li
lesse tardi rispetto a quell’età, quand’era già a Milano, perché essendosi
formato retoricamente non aveva la conoscenza dei testi platonici filosofici)
ritenne ancora che lo spirituale fosse qualcosa di immateriale rarefatto. Noi
diremmo oggi di natura corpuscolare come la luce, che è trasparente e che
(come si diceva allora dell’aria e della luce e del diafano) non ha colore e
non ha peso (ma noi sappiamo oggi che neanche questo è vero), una sorta di
materia rarefatta la cui idea veniva dall’etere o quinta essenza di Aristotele,
una materia insomma che non è materia quantificabile o quantitativa.
Leggendo i neoplatonici riuscì a capire che doveva pensare allo spirituale
come qualcosa che fosse ancora aldilà di questo, quindi qualcosa che non
possedesse nulla di materiale né per quanto riguarda l’estensione né per
quanto riguarda la possibilità di occupare spazio. Fatto questo guadagno, gli
venne allora da chiedersi: se io conosco solo cose materiali e lo spirituale è
altra cosa ed è il genere “altro” rispetto al materiale, come è possibile che io
abbia questo concetto?
C’è poi un altro aspetto che secondo Agostino aiuta comprendere
come si arrivi alla verità di un giudizio. L’uomo innatamente, noi diremmo in
modo costitutivo, fin da quando comincia a ragionare è capace di esprimere
dei giudizi estetici di valore. “Estetici” non nel senso dell’estetica nostra,
ma nel senso di giudizi che sono comparativi rispetto alle cose e ai valori
che noi incontriamo anche nell’orizzonte sensibile (ecco perché “estetici”).
Nell’esempio più classico che si può fare, noi riteniamo che l’albero sia
migliore e più perfetto del sasso e che il cavallo, vivente animale, sia più
perfetto dell’albero e riteniamo ancora che l’uomo sia più perfetto del
cavallo. Si tratta di giudizi estetici di valore che noi pronunciamo con
estrema sicurezza, sentendoci garantiti da un’evidenza interiore che ci
abilita a dire che è che è così e siamo certi che non può non essere così.
Allora Agostino si chiede: come possiamo formularli? nei due esempi
dati, da dove viene all’uomo la possibilità di emettere giudizi di valore in
una dimensione e in un’area che non è rapportabile a ciò che conosciamo
attraverso i sensi? La risposta, dal suo punto di vista, è che ci deve essere
un lume o una luce interiore depositata nell’anima da Colui che ha forgiato
l’uomo. Agostino segue l’antropologia biblica dell’uomo dotato di un’anima,
che andava bene anche ai neoplatonici, un’anima che è in qualche modo
completa in se stessa e che tuttavia, per un destino che la Bibbia spiega, è
temporaneamente nella condizione di dover coesistere ad un corpo. Questa
coesistenza è iniziata in un certo punto del tempo e finirà ad un certo punto
col finire del tempo. Dunque l’anima, osserva Agostino, che è stata messa
nella condizione di coesistere col corpo umano, è stata anche originata nella
condizione di disporre di queste conoscenze elementari, basilari, che non
avrebbe mai potuto ricavare per altra via. Questo è il fondamento della
dottrina dell’illuminazione, che è una forma di innatismo ma come vede un
innatismo molto stemperato, non un innatismo violento. Non è l’innatismo
di certe letture dell’età cartesiana, che semplificavano le cose. Non ci sono
delle idee chiare e distinte immesse, come sembra dire Cartesio: “io ho l’idea
di triangolo”, Agostino non lo avrebbe mai detto. Per Agostino si hanno
soltanto le idee innate dello spirituale e della verità rapportata all’evidenza.
Per chiudere la sua domanda, l’ultimo aspetto è allora da dove venga
la verità di un giudizio. Agostino risponde che la verità viene dalla capacità
che l’uomo ha di pronunciare giudizi di valore, in base alla sua dotazione
strutturale di soggetto conoscente e al rapporto tra questo soggetto
conoscente e il mondo della conoscenza che incontra. Il termine esatto è:
l’uomo nel giudizio non crea la verità, non produce la verità, ma la scopre.
Quindi il giudizio di verità è una scoperta, una “inventio” della verità. Come
scrive ancora Agostino nel De magistro: non si manda un figlio a scuola
perché impari a conoscere quello che pensa il maestro ma perché impari
dal maestro a conoscere quello è depositato in lui, le conoscenze che sono
presenti dentro di lui. L’uomo si comporta da scopritore della verità, non da
creatore o produttore.
D: Tommaso d’Aquino fa convergere la noetica agostiniana e la teoria
aristotelica dell’astrazione, le sue analisi intorno alla generazione del concetto
offrono uno stimolo per uno sviluppo ulteriore del rapporto tra il concetto,
definito da Tommaso “verbo della mente”, e la dottrina agostiniana del Verbo.
Anche per Tommaso il verbo umano interiore corrisponde principalmente alla
definizione o “quiddità” e viene generato dall’intelletto possibile informato
dalla specie intellegibile. Come Lei fa notare in riferimento al Prologo alla
Lectura super Ioanniis Evangelium dell’Aquinate, l’intelletto non solo
genera il concetto ma lo conosce e conosce per suo tramite la cosa stessa che
ha originato il processo conoscitivo. Per questo il concetto (verbo) sembra
distinguersi dalla specie e dall’idea eterna e per questo Tommaso parla di
una illuminazione del Verbo divino (la “luce vera che illumina ogni uomo”
del Prologo giovanneo) anche nel significato di luce naturale della ragione.
Nell’ambito di questa gnoseologia, che cosa significa che la conoscenza è una
partecipazione alla “luce vera” del Verbo?
R: la domanda richiama un primo aspetto, relativo al nesso tra la noetica
aristotelica e la noetica agostiniana di cui parlavamo prima. L’intenzione
principale di Tommaso d’Aquino è di trovare una via che permetta di far
convergere la teoria agostiniana, che abbiamo chiamato dell’illuminazione
nei termini precisati, con la dottrina dell’intelletto agente e possibile di cui
parla Aristotele nel De anima e di cui era piena la tradizione peripatetica,
greca e araba. Anche i primi autori della scolastica latina anteriori e maestri
stessi di Tommaso, come Alberto Magno, erano allineati ormai su una
dottrina della conoscenza umana fondamentalmente fedele all’aristotelismo.
L’aristotelismo usa il termine verbo, logos, nel senso prevalente di “sermo”
ma anche nel senso di concetto, e quindi ancora oltre c’è l’altro senso che
è quello di “ratio”, ragione. Il logos è la ragione, è il “sermo” o il discorso
articolato, non la parola soltanto ma la parola articolata che diventa più
pregnante, verbo significativo. In questa direzione Tommaso riteneva,
penso in totale buona fede teoretica, che la posizione di Agostino non
riguardasse la presenza di idee innate dentro il soggetto umano e che il
punto di vista agostiniano si potesse tradurre esattamente nei termini in
cui Tommaso stesso intendeva parlare del lume dell’intelletto agente. In
altri termini, l’intelletto ha per Aristotele i due momenti attivo e passivo,
agente e possibile. Nel processo che porta all’atto di conoscenza, l’aspetto di
agente rappresenta quell’elemento attivo che si riscontra in ogni processo di
generazione nel mondo sublunare, generazione non solo nel senso animale
ma anche di produzione e di “poiesis”, per cui c’è sempre l’incontro tra
un elemento attivo e uno passivo. Anche nella produzione relativa all’atto
di conoscenza c’è un incontro tra un “nous poietikos” (intelletto attivo) e
un “nous pathetikos” (che riceve), quindi è rispettata la metodologia, la
teorica del rapporto potenza-atto come principio costitutivo di tutto ciò che
si opera e si produce nell’universo sensibile, cioè nel mondo dell’esperienza
sensibile nel quale noi siamo calati anche a livello di conoscenza. La nostra
conoscenza fa parte dei fenomeni che si danno all’interno di un vivente
sensibilmente controllato. Se il vivente non è vivente secondo le regole della
biologia, dunque dell’empiria, non produce attività di pensiero. Tommaso
riteneva allora che la dottrina di Agostino, debitrice di letture fortemente
neoplatoniche e di scarse letture di Aristotele, potesse essere piegata nella
direzione prevalente del testo aristotelico dal punto di vista della gnoseologia,
della noetica e dell’epistemologia, testo che era molto più ricco delle fonti
neoplatoniche di cui Agostino aveva avuto possibilità di servirsi.
L’altro aspetto è che cosa significhi che la conoscenza è una
partecipazione alla luce vera del Verbo. Acclarato il rapporto con Agostino,
anche Tommaso conserva il principio secondo cui c’è nel processo noetico un
elemento che non dipende immediatamente dai sensi. Interviene qui tutta
una teoria antropologica e sopratutto una lettura del De anima di Aristotele
che Tommaso compie in diverse opere (Summa theologiae, Summa contra
gentiles, De unitate intellectus etc.), in cui fa vedere che l’anima è forma del
corpo secondo la definizione aristotelica ma è forma del corpo le cui potenze,
nella parte dell’anima con cui l’uomo intende e vuole, non comunicano
con organi di senso. E’ questo una specie di equilibrismo del pensiero di
Tommaso. Con Aristotele, l’anima del soggetto umano è pienamente forma
del corpo, nel senso che non ci sono altre forme che fanno sì che l’individuo
umano sia quel determinato individuo, ed quindi è pienamente responsabile
di tutto ciò che si dà anche dal punto di vista biologico, vegetativo e sensitivo.
C’è però questa peculiarità, rispetto alle altre forme che noi conosciamo
anche degli organismi più evoluti: che l’anima dell’uomo in una parte delle
sue facoltà, ossia l’intelletto e la volontà, non comunica con il corpo e non
entra in comunicazione con organi di corpo sensibili. Perciò, in rapporto
alla sua attività intellettiva e nella sua costituzione ontologica di facoltà
intellettiva e volitiva, l’anima è forma del corpo senza essere condizionata
dagli organi materiali del corpo. E’ per questo che l’anima può conoscere
delle realtà totalmente immateriali e può quindi prescindere, se non dalla
fantasia (non può infatti prescindere dall’elaborazione dei fantasmi), almeno
dal verificare la corrispondenza nel mondo empirico di ciò che elabora
speculativamente e teoreticamente nell’ordine delle realtà spirituali o
immateriali. Ma soprattutto, se per quella parte per cui pensa e vuole l’anima
non comunica col corpo, quando il composto o il sinolo di materia e forma
si dissolve con la morte dell’uomo e la materia corporea si dissocia dalla
forma o anima, l’anima può non soggiacere a questo destino di corruzione.
Pur essendo forma del corpo, la parte superiore dell’anima ne è sottratta. E
siccome la parte superiore sviluppa per Tommaso unitariamente anche le
funzioni dell’anima vegetativa e dell’anima sensitiva, allora l’intera anima
del soggetto umano è immortale.
Detto questo, alla domanda dove si manifesti per Tommaso la
partecipazione alla luce del Verbo, si può rispondere che essa si manifesta
nel fatto che l’anima intellettiva muove, secondo la lettura di Aristotele,
nella duplice tensione di intelletto agente e intelletto possibile. L’intelletto
agente ha la funzione di essere illuminante nei confronti dei fantasmi
conosciuti tramite i sensi ed elaborati attraverso la memoria e la fantasia,
e cioè interviene smaterializzando la specie sensibile e facendola diventare
intellegibile. Ma oltre a questo, l’intelletto agente è anche depositario dell’
“habitus principiorum”, parola che è tecnica nel vocabolario di Tommaso
ma viene da Aristotele e su di essa ci sono state diverse dispute nella vecchia
tradizione neoscolastica. Ma al di là della discussione, semplificando ma non
alterando la sostanza, l’ “habitus principiorum” rappresenta lo stato costitutivo
(nel senso in cui dicevamo costitutiva la presenza di certe nozioni basilari
allo stato elementare in Agostino) dei primi principi del conoscere, che sono
i primi principi della noetica e dell’epistemologia aristotelica: identità, non
contraddizione e terzo escluso. Che non sono presenti attivamente, cioè
astrattamente, nel senso che l’intelletto agente conterrebbe la formulazione
del principio di non contraddizione di Aristotele o del principio d’identità
di Hegel etc. Tommaso dice soltanto che è presente, in forma latente, la
capacità della nostra struttura intellettiva di operare sempre passando
all’atto e facendo emergere nel passare all’atto la capacità veritativa che
deriva dalla piena partecipazione di quei principi. La partecipazione alla
luce o conoscenza luminosa dei primi principi è la presenza della luce del
Verbo dentro il singolo soggetto conoscente. Infatti per Tommaso, ogni
singolo uomo è depositario dell’intelletto agente e possibile.
D: Se è d’accordo, passerei ora ad una questione più propriamente
metafisica. La generazione del verbo umano può essere posta in rapporto
di analogia con la generazione del Verbo divino, con alcune importanti
differenze. Soprattutto, in un unico Verbo sempre in atto Dio dice se stesso e
insieme tutte le cose che sono, poiché non è soltanto piena autocoscienza ma
anche Parola rivelata e creatrice (nella pericope di S. Giovanni commentata
dall’Aquinate: “tutto è stato fatto per mezzo del Verbo”). Il riferimento
alla causalità creatrice e conservatrice del Verbo permette a Tommaso di
estendere lo schema delle partecipazioni oltre l’intelligenza, verso l’essere
e la vita delle creature. Tuttavia, gli equilibri di questa relazione non sono
facili da determinare. Da un lato, come Tommaso annota nella questione 4
De veritate (De verbo, riportato con traduzione italiana nel Suo volume),
poiché le creature dipendono da Dio ma non viceversa, “nelle creature vi
sono relazioni reali mediante le quali si rapportano a Dio mentre la relazione
opposta è in Dio solo secondo la ragione”: infatti, le uniche relazioni reali
in Dio sono quelle tra le persone divine e rispetto al fondato Dio deve
rappresentare l’irrelato, l’indipendente, l’assoluto. Dall’altro lato, “l’agire
creando” è a tal punto proprio del Verbo divino che se le cose cessassero di
esistere il Verbo stesso cesserebbe di essere Verbo. Nel Suo volume, Lei si
sofferma a lungo su questi passaggi e sulla natura “operante” e “influente”
del Verbum. In riferimento al pensiero di Tommaso e degli altri autori di
cui si tratta, come dobbiamo intendere la relazione tra il Verbo divino e la
creatura (“Egli era nel mondo”), tra l’eternità del Principio e la temporalità
del mondo?
R: siamo al quesito centrale, dal punto di vista dell’architettura
metafisica nel senso più ampio del discorso di Tommaso. Lei ha toccato
dapprima i tre grandi attributi trascendentali, l’essere, il vivere e l’intelligere
che in molti testi di Tommaso risultano essere i veri trascendentali. Sono
infatti quelli che si possono predicare propriamente anche di Dio, mentre
nell’architettura dei trascendentali dei manuali noi abbiamo in genere
dei trascendentali che permettono di espandere, di creare un’espansione
conoscitiva a livello trascendentale che trascende quindi l’ordine categoriale.
Qui invece siamo al trascendentale nel senso metafisico, perché con questa
triade di essere, vita e intelligenza Tommaso intende dire che tutto ciò
che si assomma di perfezioni relativamente all’intero, quindi Dio e mondo
insieme, è costitutivamente essere, vivere e intelligere. Cioè la somma delle
perfezioni, che poi è riconducibile anche alla trinità teologica in senso stretto,
si condensa in questi trascendentali. Invece i manuali, in genere, partono
dal trascendentale Unum che viene definito come ciò che è indiviso in sé e
diviso da qualsiasi altro. Quindi da una definizione puramente tautologica
che non ha espansione, una definizione descrittiva che serve a ramificare
il rapporto tra il categoriale e il trans-categoriale ma non dice nulla sulla
costituzione ontologico-metafisica dell’originario, sulla struttura originaria
del pensiero e dell’essere e di tutto ciò che noi mettiamo dentro l’intero,
essere e pensiero nella formula originaria.
In secondo luogo, lei ha accennato alla relazione tra creatura e creatore.
Sicuramente, nella tradizione scolastica e nel pensiero cristiano in genere,
cioè già nei Padri della Chiesa e in Agostino e nell’alto medioevo prima ancora
che ci sia la scolastica vera e propria, la categoria con cui si pensa la realtà è
questa, cioè creatore e creatura. Tanto è vero che si parla del “creato” anche
nel linguaggio non metafisico, degli intellettuali in genere o anche degli
uomini politici del tempo. La parola “creato” viene assunta per significare la
realtà del mondo, dell’esperienza. In realtà, questa distinzione tra creatore
e creatura è a tal punto propria dell’Occidente che si può farla risalire non
soltanto a Mosè e alla Bibbia ma anche per certi versi a Platone, e secondo
certe letture anche ad Aristotele, alla differenza tra il motore immobile o
l’Uno in sé, totalmente immateriale e totalmente in atto, e il mondo dove l’atto
è invece misto alla potenza. Quindi, il cosiddetto “principio di creazione”,
in senso dilatato, crea un’area che accomuna il pensiero occidentale. È vero
che poi ci sono state le dispute dell’Illuminismo, per cui se si parlava di
creazione in un senso legato alla Rivelazione si trattava di un oggetto di fede,
mentre si doveva invece parlare delle cose positivamente. Ma fino a tutto
il 1400, diciamo, è questa la prospettiva. E questa prospettiva permette a
Tommaso d’Aquino di sviluppare una metafisica che non è dipendente dal
dogma come tale, ma è legata a un pensare che è quello per cui ciò che
vediamo intorno a noi (e lo vediamo come noi siamo fatti, quindi lo vediamo
anche in relazione a noi) e noi stessi siamo in una situazione di dipendenza.
Una situazione macroscopica di dipendenza è che non siamo sempre
esistiti e non esisteremo sempre, e questa è l’esperienza originaria. Ciò che,
nonostante le dispute dei positivisti scientifici, ormai anche la scienza applica
a tutti gli oggetti che noi conosciamo del mondo. Persino nella spiegazione
della formazione del cosmo e della vita del cosmo si parla dell’accendersi di
una stella e poi del suo spegnersi, e si dice che tutte le galassie hanno avuto
un’accensione o un avvio. E quello che col termine di creazione intendiamo
è proprio qualcosa in cui c’è una partenza e una fine, una destinazione che
l’uomo esperisce su se stesso ed è trasferibile nell’analogia anche macro
scientifica. Ed ha un senso quindi non legato alla “pietas” della vetula, che
prega Dio come suo creatore perché lo ha imparato dal catechismo. C’è
qui una grande espansione del pensiero occidentale che ha accolto, come
guadagno della riflessione sapienziale di tutte le civiltà mediorientali e poi
della filosofia occidentale, questa dimensione dell’universo come qualcosa
che è dipendente. Anche per Hegel il mondo è dipendente, e lo è anche
per Schelling. Varia la modalità di configurare la dipendenza ma questa
relazione è costitutiva dell’Occidente. Non so se dico delle cose che esulano,
oltre che sicuramente dalla mia competenza, anche dall’ambito del dicibile,
ma per quello che si sa nelle filosofie e nei pensieri dell’oriente questo senso
di creaturalità non c’è. C’è invece un senso olistico, il senso di appartenere
da sempre a un tutto.
Invece tutta la filosofia dell’occidente, persino l’errore di Parmenide
secondo cui il divenire non è reale, configura una zona di dislivello: c’è un
livello di pienezza e c’è un livello di non pienezza, c’è un essere o costituzione
ontologica che è il mondo diveniente e che non è nel possesso attuale pieno
di sé, ma è nella dipendenza. In questo senso, Tommaso fa un discorso che va
oltre la lettura del testo biblico, perché non è un esegeta ma uno speculativo
e tutta la grande metafisica deve fare i conti con questo tema.
Allora quale può essere la relazione tra il Verbo creatore e il mondo
diveniente e creato, secondo la dottrina della creazione della Rivelazione
cristiana? E’ una relazione di dipendenza, ma è anche chiaro che nel Verbo
creatore tale relazione non comporta alcuna variazione nel suo essere Verbo
creatore. Il suo essere Verbo creatore è al di fuori del tempo, è al di sopra
del tempo, è oltre il tempo. Il primo, l’originario, l’archè è per definizione
ciò che sta al di fuori di ogni vincolo e in filosofia lo chiamiamo l’Assoluto.
L’agire creando, nell’ipostatizzazione della seconda persona della trinità,
è l’attribuzione dell’agire del Padre alla personificazione o alla persona
ipostatica del Verbo, che è quindi il Pensiero del Padre, il Logos del Padre,
il Verbum del Padre. Quindi il Verbo crea perché il Padre pensa il Verbo,
diciamo così introducendo una successione che in Dio non c’è ma che è
solo discorsiva, esplicativa, esegetica. In questo livello, come dice Tommaso
nel testo citato, l’agire creando è ciò che consente alla realtà creata e
derivata di consistere, cioè di essere conservata nell’essere, perché se è stata
originata ha bisogno di essere conservata da chi l’ha originata, mentre da
sé non potrebbe fare nulla. Non c’è un principio d’inerzia, come la legge
di Newton, che possa valere in metafisica. E se anche ci fosse, varrebbe
in rapporto al fatto che permane l’istituzione, cioè il principio istitutivo di
questa legge d’inerzia in campo metafisico, che è la dipendenza dal Verbo.
Ora, lei chiede: se le cose cessassero di esistere, il Verbo stesso cesserebbe
di esistere? Questa formula è presente in Tommaso e io la uso sempre,
amplificandola, contro quegli autori contemporanei viventi che accusano il
cristianesimo e la dottrina della creazione di nichilismo. Il cristianesimo, con
la dottrina della creazione, sarebbe nichilista per due aspetti: in primo luogo,
sostenendo che la creazione avviene dal nulla, il cristianesimo penserebbe il
nulla come esistente, quindi nel cristianesimo sarebbe già inoculato questo
pensiero contraddittorio (che è la matrice del nichilismo) che il nulla possa
essere e che dal nulla possa essere nato qualcosa. L’idea che ci possa essere
un passaggio dal nulla all’essere pare, facciamo un nome a caso, a Emanuele
Severino che sia l’espressione massima del nichilismo, perché pensare che ci
sia un momento in cui il tutto è nulla, l’essere è nulla, e il nulla sia produttivo
costituisce la massima contraddizione. La seconda contraddizione, nella
dottrina cristiana della creazione dal nulla, consisterebbe poi nel pensare
che Dio possa “redigere omnia in nihil”, che possa cioè far tornare tutte
le cose nel nulla in virtù della sua onnipotenza. Ora, è vero che questa
espressione si trova in tanti autori a cominciare dai Padri della Chiesa. La
si trova del resto anche nelle filosofie ellenistiche e nell’orizzonte teologico
dello stoicismo, che era molto religioso, nel pensiero che il potere degli dei
potrebbe sovvertire l’ordine e modificare il destino e le sorti, se non del
mondo complessivamente, almeno del singolo.
In realtà, in relazione al primo aspetto della creazione dal nulla, la
dottrina cristiana fa riferimento all’assoluta trascendenza che emerge dalla
posizione creazionista della Bibbia. Dicendo che Dio crea tutto dal nulla,
si intende dire che Dio crea tutto non avendo bisogno di niente ed questo
il senso dell’espressione “dal nulla”, cioè che Dio crea non presupponendo
niente. Non si intende dunque ipostatizzare il nulla, bensì affermare che
c’è Lui come pieno e basta. Quindi, non c’è nessun nulla ipostatizzato. E
questo potere di Dio creatore in rapporto alle cose create resta totalmente
distinto, cioè l’universo creato da Dio si mantiene nella condizione di non
poter esercitare nessuna influenza nei confronti del Dio creatore, né di
incremento né di decremento, perché Dio creatore è l’assoluto ed è il tutto,
è la totalità.
Allora, il mondo creato è creato da Dio ed esiste nella misura in cui
Dio l’ha disposto. Perciò, in relazione al secondo aspetto, non si può dire
che se Lui non lo sostenesse, per un capriccio, il mondo potrebbe ritornare
nel nulla. Non è pensabile un capriccio di Dio perché Dio, dal punto di
vista della struttura metafisica dell’essere Dio, è fuori del tempo ed fuori del
cambiamento di umori, non ha capricci, non cambia pensiero, non cambia
rotta. L’assoluta trascendenza di Dio non è influenzata dal mondo, e allora
dire che Dio potrebbe ridurre lo stesso mondo nel nulla è un modo per dire
che Dio resta totalmente sovrano, superiore a questo mondo che Lui stesso
ha creato. Poiché ha creato, non è pensabile attribuire a Dio una volontà
distruttrice. Attribuirgliela sarebbe nichilismo. Anche Tommaso scrive che
Dio non ridurrebbe mai il mondo al nulla, benché la Sua onnipotenza,
spiegata col linguaggio umano, ci possa portare a dire che se volesse potrebbe
farlo. Ma Dio non può volerlo, per la ragione che cesserebbe di essere Dio
creatore e il Verbo cesserebbe di essere Verbo. E soprattutto, siccome il
Verbo nella rivelazione cristiana si è incarnato e si è manifestato all’uomo,
non potrebbe esistere tutta una storia che è documentata, la rivelazione
positiva. Cioè, dire che Dio può distruggere il mondo dove si è manifestata
l’incarnazione del Verbo è una cosa assolutamente improponibile.
Restano da chiarire le ultime due espressioni che lei ha usato nella sua
domanda: il rapporto tra l’eternità del principio e la temporalità del mondo,
quindi il rapporto tra eternità e tempo. L’eternità noi sappiamo che cos’è ma
non la possediamo, e secondo Tommaso (ma se ne trovano tracce anche in
Agostino) arriviamo a pensare l’eternità conoscendo il tempo, a differenza dei
platonici che dicevano che il tempo è un immagine dell’eternità. Noi vediamo
che il tempo è questa successione di prima e di poi, questa successione di
passato, di presente e di futuro, e quindi immaginiamo un momento di
eterna presenza in cui questa successione si arresti. Allora immaginiamo
l’immagine del tempo che si fissa nell’istante: è l’ “aion”, è l’eterno. Dal
punto di vista del percorso, noi non conosciamo dunque il tempo a partire
dall’eternità ma è vero il contrario, e questo è chiaro sopratutto in Tommaso,
contro quanto si scrive spesso nei manuali di filosofia e di storia della filosofia.
Il tempo che ci appartiene ci costruisce e ci istituisce. Noi ci costituiamo
come “io” nella misura in cui questo io si riconosce come quello stesso che
era ieri o dieci anni fa o, come nel mio caso, anche diversi anni fa. C’è questa
continuità del permanere che però non ha mai un arresto in un presente
stabile. E io avverto, teoreticamente e anche psicologicamente, che quello
che darebbe felicità al mio pensiero e al mio desiderio è che io potessi stare
in un presente stabile e pieno, dove non sentissi il bisogno, la necessità, la
privazione. Cioè comprendo che in questa successione non trovo quello a
cui aspiro, e a cui aspiro non per mia scelta ma perché dentro di me desidero
stare in un momento in cui questo fluire si fermi in un possesso stabile,
permanente e felicitante. Poiché il tempo è erosione, la mia identità rischia
di essere proiettata in un vuoto assoluto, un vuoto da “aerumna” (Agostino,
Conf., III, 2,4; Salmo 31)), da erosione, da distruzione. Metafisicamente, la
domanda è come può accadere che io sia un essere creato, proiettato in una
direzione che va verso la distruzione, pur possedendo questo desiderio di
non andare, di non essere distrutto, di restare in un punto di appoggio fisso
e in un ancoraggio fisso. Come può accadere questo? O rinuncio a trovare
qualsiasi spiegazione, come hanno fatto molte filosofie, oppure devo dire che,
siccome tutto ciò che accade nel tempo è cominciato da un’origine, questa
origine si fa carico di riprendersi il tempo, il mondo, il divenire. Quindi, la
risposta alla domanda sulla relazione tra l’eternità del principio e l’eternità
del mondo è che l’eternità del principio è istitutrice all’origine del mondo,
del tempo, del divenire, della storia, e in quanto origine non può permettere
che quello che ha originato vada distrutto. La conclusione è che io porto
dentro di me l’aspirazione che l’origine mi ha posto affinché io colga il senso
del mio strutturarmi nella direzione del tempo, della temporalità e della
storia. Fondandomi su un’istanza di senso che ottiene soddisfazione solo
se l’origine è vista come capace di ricomprendere in sé quello che voleva
manifestare ponendo il tempo e il divenire. Altrimenti si deve rinunciare a
dare un senso alla storia, all’uomo, all’ io.
D: Un’ultima domanda. Nell’importante pericope 18 del Prologo di
S. Giovanni si legge: “Nessuno ha mai veduto Dio”, e Tommaso commenta
rilevando il carattere enigmatico delle diverse modalità del “vedere” Dio: la
riflessione dei filosofi appare insufficiente, gli stessi concetti trascendentali
(essere, unità, bontà, verità) si riferiscono a Dio con forti limitazioni nel
“modus significandi” e senza dare una conoscenza propria della sua
essenza. L’inaccessibilità di Dio suscita allora l’atteggiamento apofatico,
che ridimensiona la pretesa di determinare con categorie umane la radicale
diversità dell’essere divino, ma la stessa negazione appare insufficiente
perché svuota il pensiero e si risolve in un’affermazione rovesciata, a cui
ugualmente sfugge il proprio oggetto.
Il Prologo di Giovanni tuttavia prosegue: “l’Unigenito ce lo ha rivelato” e
Tommaso evidenzia, di fronte all’insufficienza delle tradizionali vie filosofiche
(affermativa e negativa), la necessità del percorso offerto dalla manifestazione
del Figlio Unigenito, Sapienza di Dio, che rivela all’intelletto sostenuto dalla
fede il mistero di tre Persone sussistenti in un’unica natura divina. Quali
sono gli apporti di questa rivelazione del Verbum al discorso intorno a Dio e
in che modo il dischiudersi della relazione trinitaria modificata i termini del
“vedere Dio”, rispetto alle tradizionali vie del Logos filosofico?
R: questa domanda apre ad una fondamentale questione che
ancora non ho tematizzato fino in fondo, quella del rapporto tra filosofia e
rivelazione a cui lavoro da anni, ma che purtroppo non sono ancora arrivato
a compiere e ad esprimere in modo pienamente articolato. Da un lato, in
un discorso più generale, la filosofia è rivelazione: la filosofia è sofia e la
sofia è una forma di conoscenza nella quale l’uomo singolo (oggi e in ogni
tempo) si immette, come nell’aria che è già presente o nell’ambiente che già
circonda. La sapienza come ciò che già circonda, il luogo o il “topos” dove va
a collocarsi l’individuo umano pensante capace di sofia, è allora ogni forma
di manifestazione della verità, della luce, di cui non è autore il singolo uomo.
Non è autore nel senso che, come dico spesso ai miei studenti, noi non siamo
i primi a filosofare né tanto meno saremo gli ultimi. Questa presenza, questo
dato, questo apporto che la fenomenologia chiamerebbe la “Gegebenheit”,
l’offerta o il dono che è dato lo chiamiamo pensiero o lo chiamiamo essere,
orizzonte insomma che trascende il mero dato materiale di quei corpi che
non possono accedere alla sapienza. Allora l’accesso alla sapienza configura
un orizzonte di svelamento, diciamo anche nel significato heideggeriano,
cioè uno svelamento del senso dell’essere. C’è un orizzonte che ci precede e
che prosegue dopo di noi, all’interno del quale ogni percorso di conoscenza
si inserisce. E tutto questo è, in senso lato, rivelazione. La filosofia in questo
senso è una rivelazione.
La Rivelazione biblica è una rivelazione di tipo particolare rispetto
alla rivelazione del sapere delle filosofie, delle mitologie, delle discipline
scientifiche. La rivelazione ebraico - cristiana positiva ha la pretesa di
configurarsi come una parola detta in base ad un’autorità che ritiene, nel
rivelarsi, di dare testimonianza della sua autorevolezza. Allora, questa è la
parola di Jahavé: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori
di me e di questo sono garante perché con quello che faccio autentico
la veridicità di quello che dico. Questa rivelazione è autenticata dalla
manifestazione che può fare nell’orizzonte di chi è capace di captarla,
quindi sempre in un soggetto dotato di conoscenza e di volontà. In questo
senso, la rivelazione ebraico-cristiana ha un costrutto che riduce il sintagma
“rivelazione” ad un percorso molto definito e molto precisato, che è quello
di una manifestazione della verità da parte di un’autorità assoluta, di un
Assoluto che la proclama con la forza del dichiararsi l’origine, l’assoluto di
questa rivelazione garantita dalla stessa origine, e la manifesta all’uomo prima
a parole e poi nella storia con la carne e l’incarnazione del Verbo. Inoltre
per i medievali, nell’interpretazione letterale della Bibbia, anche lo Spirito
Santo si è incarnato prima in una colomba e poi nel fuoco, quindi anche
la terza persona della Trinità ha assunto forma visibile e sensibile. Quindi
c’è un percorso di rivelazione che è andato costituendosi dalla forma della
incompletezza nella forma della pienezza: la forma della rivelazione ultima
del verbo morente sulla croce, che si dichiara Figlio di Dio e Dio lo riconosce
come suo figlio nel momento in cui muore sulla croce, e lo riconosce come
suo figlio perché, in quanto suo figlio, è portatore di un’umanità in cui aveva
assunto pienezza di struttura e immagine, vera persona umana, vero corpo e
vero io umano. In quel momento lo riconosce come Figlio dotato di questa
assunzione della umanità con sé, e la morte del Figlio, riconosciuta dal
Padre, diventa salvatrice per l’umanità. Questa è la forma della pienezza di
una rivelazione che si compie poi anche dottrinalmente.
Dottrinalmente, nell’antico testamento non era rivelato a tutti che
Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo, ma la pienezza della rivelazione
trinitaria si è manifestata soltanto col Nuovo Testamento, col compimento
della rivelazione neotestamentaria. Dove per altro non c’è la parola trinità.
Nella lettura del Nuovo Testamento, dal monoteismo si passa ad una Trinità
perché la Trinità, diciamo così, è rivelazione del monoteismo nella storia.
Nella storia il monoteismo passa attraverso la rivelazione trinitaria. Perché
questo avvenga non è dato a noi discettarne, è una domanda che si può
fare ed è legittima, ma è una domanda che non rispecchia le regole con cui
abbiamo delimitato la rivelazione in senso stretto ebraico-cristiana, come
parola di Dio che si manifesta e poi s’incarna prima nelle parole e poi nel
Dio fatto uomo. La spiegazione che gli autori hanno trovato, una spiegazione
di comodo e di convenienza, è che l’uomo doveva essere preparato
gradualmente a recepire questa rivelazione. In altri termini, perché Dio
non ha detto subito ad Adamo, quando lo ha cacciato dal Paradiso terrestre,
di essere Padre e Figlio e Spirito Santo e che lo avrebbe poi redento dalla
colpa? Questa è una lettura che esula dalla nostra capacità di giudizio, perché
questo tipo di rivelazione è una rivelazione che ci è offerta. Non l’abbiamo
chiesta noi, c’è stata offerta in questa forma. Allora storicamente è risultato
che il monoteismo, nella forma originaria della Legge mosaica, non è stato
sufficientemente aperto e chiaro e convincente, cioè non è stato salvatore.
Paolo dice che la Legge non ci ha salvato, la Legge non ci salva e c’è bisogno
di una nuova Legge, di un Nuovo Testamento. Allora, in questo senso, la
Trinità è apparsa perché anche la storia è trinitaria. Questa è anche l’idea di
Agostino, in fondo. La storia dell’Occidente che cresce sulla impostazione
del pensiero ebraico-cristiano, che diventa quindi cristiano, è trinitaria.
E l’Occidente stesso, tutto l’Occidente che è cristiano, è trinitario perché
riconosce che nella propria storia e nella storia dell’uomo la rivelazione della
Trinità è stata quella che ha segnato il suo cammino.
C’è un secondo elemento. Nel concetto di rivelazione è incluso un
concetto di storia perché vediamo che la storia va verso un incremento,
evolve in una direzione di positiva crescita per l’umanità. Quando parlo di
storia, nel contesto della metafisica cristiana, non faccio nessun riferimento
alla storia accademica fatta di documenti, epigrafi, dati materiali, che è la
storia del positivismo. Un concetto di storia coniato su basi positiviste non
ha a che fare con il concetto della rivelazione. Il concetto di storia che la
Rivelazione porta è quello della crescita dell’uomo. L’uomo sa di stare in
una storia che sta crescendo, perché vede che tutto ciò che trascorre con lui
nel tempo è sempre apportatore di una novità positiva che lo fa crescere.
Fino a al momento in cui, con la rivelazione di Gesù Cristo, la crescita è
proiettata su un “éschaton” definitivo, su un compimento della storia che
per ora sappiamo con certezza che ci sarà, non sappiamo configurarne i
tempi e i modi ma sappiamo con certezza che ci sarà perché il compimento
della salvezza è già dato ed già avvenuto con Gesù Cristo. Il percorso che
resta è un percorso esplicativo, applicativo della pienezza dei tempi, in cui si
inserisce la possibilità per tutti noi di partecipare a questa salvezza data nella
pienezza del tempo. Naturalmente, anche se i discorsi sembrano astratti da
un punto di vista filosofico, teologico e anche metafisico, questi tempi non
sono tempi astratti perché non dobbiamo aspettare il compimento definitivo
della salvezza, perché è già stato tutto compiuto.
Noi siamo inseriti individualmente in uno spazio esiguo di questo
percorso, tra la morte e risurrezione e glorificazione del Cristo e il suo
ritorno ultimo (éschaton), in un segmento minimo che è il “kairos”, il tempo
opportuno. Il senso del tempo opportuno della storia è quello commisurato
all’individuo, e l’individuo recepisce il suo stare dentro questo alveo di
rivelazione grande e recepisce lo spazio che gli è dato e in cui coglie quella
salvezza, che è già stata compiuta ma che sarà manifestata solo nel definitivo.
Quindi non siamo in una storia di tipo hegeliano, ma siamo protagonisti con
il “kairos” individuale che entra in quest’alveo di storia salvifica o, come si
diceva con termine latino, “salutare” cioè portatrice di salvezza nel senso
della dimensione piena della ricchezza, della crescita del desiderio spirituale.
Noi vogliamo veramente essere per sempre e allora, in questo senso, anche
l’espressione “nessuno ha mai visto Dio” consente all’uomo nel “kairos” di
stare nella situazione in cui vede Lui solo attraverso la rivelazione che gli viene
fatta dall’Unigenito che si è manifestato nella carne, come dice Giovanni:
“Nessuno ha mai visto Dio; solo il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre
ce lo ha rivelato”. Nell’adesione a questa rivelazione che chiamiamo fede,
sappiamo che la salvezza per noi è data, anche se non abbiamo la pretesa
di vedere Dio finché siamo in questa condizione in cui nessuno ha mai
visto Dio e “rimane vivo”, in riferimento a quanto diceva Mosè nell’Esodo
e anche al Vangelo stesso di Giovanni. Quindi il “vedere Dio” è riservato al
momento definitivo, abbiamo però la certezza che questo sarà dato. Questo
è un monito alla filosofia, che non pretenda di dire che vede Dio o che
ha visto Dio. Ma è anche la garanzia che questo Dio comunque si è fatto
vedere individualmente e si farà vedere. Noi non c’eravamo, noi siamo tra
quelli che non l’hanno visto di persona, e però crediamo senza aver visto e
sappiamo che vedremo.