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Di palo in frasca I. Inizi e pratiche d’iniziazione 1. Prospettive e retrospettive di un incontro Quel che si apre oggi fra noi è la possibilità di un incontro, se con questa parola vogliamo intendere non un fugace contatto in cui ciascuno si pone come un frettoloso turista rispetto al mondo dell’altro, ma come l’inizio di un processo che tutti i partecipanti dell’incontro, pur se in misura e con modalità diverse, alimentano, e da cui tutti hanno la possibilità, ciascuno a suo modo, di esserne trasformati. Ogni “vero” incontro è quel momento in cui per ciascuno si decide dei modi, più estesi o più circoscritti, della propria esistenza futura, è quel momento sospeso tra la tentazione nostalgica di persistere nel già-noto e la sfida lanciata dall’ignoto e raccolta dalla propria curiosità. Ognuno di noi si dispone quindi ora a un inizio, l’inizio di una esperienza complessa, nella presumibile fissità di questo spazio concreto del nostro Seminario e nella ricorsività degli incontri programmati da un calendario. Come ci si dispone? Quale pre-concezione di questa esperienza in fieri ci accomuna, o per quali pre-concezioni diverse possiamo fin d’ora differenziarci? Quali aspettative abbiamo gli uni degli altri e tutti insieme del nostro progettato dis-correre? È poi un dis-correre quello che si annuncia fra le pagine del bollettino che prefigura questo incontro, o vi si intravede un correre insieme verso una meta, verso un oggetto che comuni pulsioni designano - attraverso di noi - come loro 15 Diego Napolitani traguardo? O non si tratta di un pre-correre, forse per alcuni di noi, quelli più “visionari“ o “malati” di irriducibile speranza, tempi futuri in cui i balbettii che si incrociano oggi diventeranno parole rotonde di un nuovo linguaggio? Queste sono solo alcune delle domande che animano l’attesa che ci vede sospesi in questo inizio. Ma l’attitudine interrogativa che certamente ci accomuna pone il nostro incontro nella dimensione dell’incertezza: il possibile è davanti a noi, aperto, e in questo possibile si delinea il nostro esistere, partecipato e a un tempo solitario, l’esistere che si radica nella nostra storia istituita, e che attraverso gli incroci dell’agorà di questo Seminario si propone nel divenire della nostra identità culturale, e non solo quella specialisticamente professionale. Si tratta quindi di un inizio che non è ovviamente un’origine prima: pesanti come catene e impalpabili come tele di ragno ognuno di noi porta qui conoscenze istituite nei propri corpi, tanto che il nostro muoverci, gestire, parlare, pensare, è inscindibilmente connesso con Ia storia singolare che pervade ciascuno di noi. Eppure ci disponiamo a questo incontro come a un inizio, proprio perché assumiamo interrogativi e incertezze come momento di crisi (comunque sperimentato) delle nostre istituzioni culturali, perché, forse, avvertiamo tutti il rischio che Ia solidificazione dei nostri codici istituiti minaccia di irrigidire il nostro muoverci e il nostro stesso pensare, fino a trasformarci in marionette con i loro tipici movimenti segmentali. Ma forse non tutti tra noi, o forse nessuno di noi nella propria interezza, si dispone a cogliere le crepe delle proprie istituzioni interne come promessa di vita; forse, con intensità maggiore o minore, si affaccia fra queste crepe anche un oscuro presentimento di morte. Ciò che brevemente indicavo come istituzione interna, non è fatto di “cose”, gli «oggetti interni» del consumato gergo psicoanalitico, sedimentati in noi nei nostri successivi apprendimenti e agevolmente maneggiabili come si fa, a esempio, con gli «oggetti interni» che arredano, qualificano e tipicizzano le nostre abitazioni. «Quello lo conservo, quell’altro lo getto via, quello lo presto momentaneamente al mio vicino di casa (lo proietto), quell’altro ancora lo dispongo in un angolo diverso, e cosi via». Quanto ciascuno di noi ha appreso, specie nelle proprie più lontane e oscure esperienze relazionali, sono brani di 16 Di palo in frasca esistenze altrui che ci hanno riguardato, che hanno guardato verso o contro di noi: desideri, intenzioni, significazioni attive del nostro venire al mondo, appropriazioni, moti di tenerezza e moti di orrore, conservazioni, riempimenti, svuotamenti, rigetti e così via. Tutti questi brani di esistenza altrui hanno in-sistito su di noi, dentro di noi, tenuti insieme da una grammatica e da una sintassi, a volte coerente a volte incoerente, che man mano sono diventati il nostro linguaggio - la lingua madre - il rivelatore comunicazionale dell’esistenza altrui internalizzata. Voglio dire, cioè, che quel che nel linguaggio neurofisiologico chiamiamo tracce mnestiche, o nel linguaggio immaginario chiamiamo «oggetti interni», non sono, sin dal loro costituirsi in noi, engrammi inerti, fotogrammi o statuette che si accatastano nel nostro spazio interno e che governiamo secondo il nostro soggettivo piacere-dispiacere o secondo il nostro utile (io rimuovo, io proietto, io sublimo, ecc.), ma sono presenze vive che tendono a conservarsi in noi, in un loro esistere attraverso di noi, contro l’emergere di quanto in noi minaccia il loro sopravvivere. Queste presenze sono quei colonizzatori grazie ai quali abbiamo potuto inserirci nella storicità della nostra cultura, della nostra civiltà, ma che sin dall’inizio hanno visto insorgere - cioè nascere contro di loro - il soggetto nuovo e altro da loro, che da loro e grazie a loro o nonostante loro è andato crescendo. Questo soggetto si va verificando «sono vero, esisto» - proprio nell’attimo, nella successione infinita di attimi, nei quali egli riconosce un suo essere là, nato nelle ombre di un corpo altrui, e popolato ora da queste ombre che nel suo intimo si fanno voci, sguardi, ammonimenti, sollecitazioni desideranti; questo soggetto è ora capace, terribilmente capace di flettere su questa sua intima legione il suo sguardo curioso e stupito. Il suo ri-flettere è il trovarsi, e ciò che va riconoscendo come proprio, come sorgivamente suo, è ciò che, fino all’attimo prima di questa scoperta, era null’altro che l’attributo, la qualità, la proprietà del suo antico colonizzatore. 2. Processo di astrazione ed esperienze di castrazione Qui accade quello che i logici chiamano il processo di astrazione: sottrarre proprietà che rendono familiare un dato dell’esperienza, fino a rendere questo dato 17 Diego Napolitani estraneo, nuovo alla propria conoscenza, un luogo aperto al possibile, non come spazio vuoto da colmare, ma come struttura rappresentativa della propria capacità potenziale di trasformare il mondo, cioè il senso di quel dato e di tutti gli altri dati a esso correlati. Questo rendere estraneo ciò che è familiare è ciò che trasforma la datità, istituita dagli insegnamenti delle proprie matrici culturali, nell’esperienza originale di sé-in-rapporto-al-mondo: esperienza trasformatrice di senso, creativa a un tempo di parole proprie - l’antica carne delle matrici che diventa verbo - ed espropriativa nei confronti dei propri colonizzatori. In quel momento, e solo allora, certi brani delle esistenze altrui, inesistenti fino a quel momento nel proprio mondo interno con tutto il vigore originario, si svuotano di vita autonoma, diventano memoria, foto di famiglia, gruppi statuari. Qui è il lutto, l’oscuro sentimento di morte che si affaccia tra le crepe delle istituzioni interne, a cui ho accennato prima: ciò che si annuncia come promessa di vita per un germe di soggettualità emergente, è, a un tempo, evento mutilante, per parti più minute o più estese, del potere degli antichi colonizzatori. È in questo doppio versante esperienziale che si promuove la separazione, e non c’è festa di nascita che non contenga in sé, variamente occultato o esorcizzato, l’atto drammatico di una castrazione. Ma quale castrazione? Un figlio è proprietà del mondo che lo ha generato: “proprietà” nel senso giuridico-economico e nel senso di attribuzione sostanziale, e nel momento e per la parte in cui questa “proprietà” assume una sua propria auto-nomia, anche grazie alle componenti emancipative degli stessi genitori, sono le componenti conservative, assimilative di questi che ne vengono private. L’angoscia di castrazione che la psicoanalisi pone giustamente nel cuore di ogni crisi di crescita è primariamente l’angoscia del genitore che fa i conti con la riduzione della propria “proprietà” a ogni evento di distacco del figlio - dall’iniziale travaglio del parto ai successivi travagli per ogni suo ulteriore atto di nascita rispetto alle sue matrici culturali. Solo secondariamente questa angoscia è assunta dal figlio come colpa del proprio nascere, e quindi come presentimento di una minaccia di ritorsione su se stesso di quella mutilazione che il proprio nascere ha prodotto in modo più o meno vistoso nel genitore, nella sua componente “possessiva”. Questa angoscia, per la sua intensità o per il suo protrarsi nel tempo, può 18 Di palo in frasca produrre un atto radicalmente riparativo nei confronti del dominus che consiste in una mortificata rinuncia a portare a compimento la propria neo-natalità: ogni riflessione si sospende, il processo doloroso di astrazione viene rigettato, e in modo implorante viene invocata la dis-trazione. 3. L’area iniziatica Queste vicende, che si attivano originariamente nello scenario sociale della famiglia, si ri-attivano nell’esperienza intima di ciascuno nel gioco indefinitamente aperto tra istanze genitoriali internalizzate e originali necessità di un sapere e di un fare autonomi. È questo proprio intimo gioco che viene portato all’interno di ogni nuova relazione, e questa, ambiguamente, è richiesta di essere a un tempo luogo di conferma dei propri intimi dominii e occasione di trans-gressione o di trascendimento dei confini istituiti dalle proprie tradizioni. Se, e fintanto che, prevale in una solidale progettualità questo secondo senso nell’ambigua complessità di una determinata relazione, essa può essere collocata all’interno di quell’area esperienziale che indichiamo, per quanto approssimativamente, come area iniziatica. A quest’area appartengono relazioni fenomenicamente e sociologicamente del tutto diverse tra loro, ma che condividono il carattere essenziale di essere in una e per una ri-fondazione della fin lì abituale visione del mondo, di dare cioè inizio a un sapere emozionalmente nuovo. Ma un rapporto di iniziazione presuppone inoltre una sua specifica asimmetria: alla figura dell’iniziando corrisponde quella dell’iniziato, che è colui che garantisce che l’inizio si sviluppi come una svolta, un passaggio da antiche appartenenze a nuovi statuti di sé, colui che dà un nome alle capacità nascenti dell’iniziando di creare propri spazi e tempi e relazioni. L’iniziato è quindi un garante, crudele, nei confronti delle pretese di egemonia delle matrici originarie, soccorritore del nascente nel patire con lui il rischio di un vivere nuovo. Come possono, in questa prospettiva essere letti i riti iniziatici presenti nella cultura dell’uomo, riti che sembrano tutti coincidere con mutilazioni reali o allusive del corpo dell’iniziando? Quel corpo mutilato, a volte concretamente straziato, a volte esposto alla fame, alla sete e al freddo, quel corpo è un «corpo di 19 Diego Napolitani mamma». È, cioè, un corpo-proprietà. delle matrici generazionali, presidio di quelle, carne delle origini da cui deve nascere il soggetto e il suo diritto alla parola. L’iniziazione si muove quindi in un processo in cui il riflettere diventa esperienza radicale e totalizzante, dolore del corpo, paura dell’anima, accesso all’adultità o a qualsiasi livello più ampio di autonomia personale, in cui si delinea, nel nome e nel nuovo statuto sociale che l’iniziato garantisce, il proprio poter rigenerare il senso del mondo. Perché questa garanzia si compia, è necessario che il garante, l’iniziato, sia colui che abbia sperimentato già il rischio della separazione, le mutilazioni delle proprie matrici, la loro collocazione celebrativa nei templi della conservazione, e quindi abbia potuto patire il suo personale modo di emancipazione soggettiva. Se l’iniziato è, al contrario, il gestore burocratico di un rito che allude a un “passaggio” possibile ma che al tempo stesso lo nega, di un rito cioè che si propone come un guscio vuoto, o addirittura come una farsa proposta dalla tradizione nel senso più passivo e passivizzante, allora l’inizio è un inizio senza fine. Penso qui alla relazione psicoanalitica, in quanto pratica di iniziazione, e alla tragicommedia delle «analisi interminabili» dove la relazione proposta nei termini di un rito di passaggio (l’emergenza e il riconoscimento di un vero Sé a confronto con la folla dei falsi Sé) ristagna nella dimensione di un inizio che coattivamente si ripete senza fine, e dove il patimento di un processo di iniziazione viene accuratamente evitato. C’è un gran interrogarsi, a partire dallo stesso Freud, sulla natura della «resistenzialità» dell’analizzando, e indubbiamente si dà il caso di esseri umani che si arrestano a un certo punto, perché il dolore non è più sopportabile. Ma poco si discute sulle qualità dell’analista-iniziato. Potremmo chiederci: è lui stesso veramente in grado di sopportare la sequela di astrazione-castrazione-solitudine-incontro con l’Altro da sé? Che cosa ha fatto lui del confronto con le sue proprie matrici? È egli, in prima persona, autenticamente disposto a tollerare e condividere il rischio dell’esistenza che il suo analizzando gli propone? E quando l’analizzando, nel suo faticoso processo di separazione dalle sue matrici, sottopone a un vaglio critico le componenti matriciali del suo analista - che mille volte hanno modo di riproporsi: nel corso della relazione analitica, anche 20 Di palo in frasca se molto spesso lo stesso analista non ne è consapevole, perché troppo facili gli sono le razionalizzazioni teoretiche del suo comportamento - che cosa ne fa l’analista di questa preziosa falsificazione di questi suoi “agiti”? Se ne fa carico, assumendola come momento altamente significativo della capacità dell’analizzando di distinguere il vero dal falso Sé, proprio e altrui, o se ne disfa, connotandola come «resistenza» del paziente? Di falsi iniziati, o di iniziati burocratici, ne è pieno il mondo, ma diciamo pure che anche chi resse una volta alla sua prova iniziatica, anche chi trasforma la sua solitudine da quella di un guardiano di cimiteri in quella di scopritore di mondi mai esaurientemente noti, anche questi rivive in ogni nuova avventura di passaggio tentazioni profonde a indulgere ad antiche fascinazioni. In quei momenti le foto di famiglia, i gruppi statuari tornano ad animarsi della loro vita iniziale, tornano a sedurre, ad ammonire, a scrutare, a giudicare, ad avvolgere di tenerezza e di orrore antichi, e l’iniziato - per quanto già esperto di queste vicende - può finire con i1 mantenersi nella sua più autentica soggettualità, ai margini di un falso rapporto, quello fra le proprie matrici riattivate e un iniziando sgomento. Se questo fenomeno, così gravemente “perturbante”, prende uno spazio eccessivo, il rito di passaggio si sospende o può definitivamente fallire. Quali i modi, i registri relazionali di questi cedimenti al compito? Ritorniamo fra di noi, continuando a punteggiare questo nostro inizio di incontri, di riflessioni, come se si trattasse di cogliere in questa nostra avventura comune alcune componenti riferibili a un certo qual processo di passaggio, a una certa quale iniziazione possibile. I relatori ufficiali di questo Seminario sono coloro che, nel settore specifico dei loro interessi culturali, si presentano al pubblico dei partecipanti come chi ha fatto del confronto con le proprie matrici culturali la sua prevalente occupazione riflessiva. Si presume che questi relatori non siano qui solo come divulgatori delle loro conoscenze istituite, ma che essi abbiano aderito a questo particolare progetto in quanto ricercatori di verità, portatori, ciascuno nel proprio campo, di riattraversamenti critici, di proposte soggettuali, di testimonianze di separazioni compiute. Quel che i partecipanti del Seminario presumo si aspettano da queste persone - e non da questi personaggi - è qualcosa che non coincide semplicemente con i 21 Diego Napolitani loro specifici linguaggi istituzionali, ascoltabili o leggibili nei momenti espressamente divulgativi che ciascuno di loro si riserva nelle accademie o nei loro testi scritti. Quel che io ritengo che essi si aspettano da costoro è fondamentalmente che questi, attraverso il metodo del confronto dialogico, indichino una via possibile di sviluppo della crisi culturale che ciascun partecipante mostra di riconoscere, più o meno chiaramente, in sé, per il fatto stesso di aver compiuto la scelta, certamente onerosa, di partecipare a questo tipo di Seminario. Crisi culturale significa qui appunto un avvertire la necessità di ricercare un più elevato grado di autonomia riflessiva a partire dalle proprie specifiche matrici culturali, nel momento in cui queste vengono percepite come troppo anguste o troppo vincolanti per lo sviluppo del proprio pensiero creativo. Nello sperimentare questo stato di disagio ci si potrebbe, più facilmente, rivolgere proprio a chi, con maggiore autorevolezza, confermi ulteriormente l’egemonia delle proprie stesse matrici culturali: pensiamo a esempio al moltiplicarsi vertiginoso delle richieste di “supervisione” o di “controllo” della propria prassi professionale. In queste relazioni il disagio e la crisi culturale soggiacente vengono elusi attraverso il rafforzamento delle procedure di insegnamento-apprendimento, in una prospettiva strutturalmente conservativa, illusoriamente rassicurante, e molto spesso ulteriormente mortificante il pensiero soggettivo del “controllato”. Chi al contrario affronta il rischio di un ripensamento riflessivo del senso della propria crisi culturale richiede sostanzialmente un testimone che lo garantisca in questo percorso di ricerca, che gli prospetti un senso - nell’accezione di “significato” e in quella di “direzione” - dello sviluppo della crisi stessa, e richiede inoltre che gli venga confermata la sua capacità dialogica, specie con chi si ha ragione di presumere che della natura di questa crisi sa in prima persona. I1 processo di sviluppo della crisi diventa in questo tipo di relazione un vero e proprio processo di iniziazione, a condizione che gli “esperti” a cui gli iniziandi si rivolgono sappiano restare, nella relazione, semplicemente degli iniziati, e non presumano di essere degli “iniziatori” attivi e indottrinati. Si potrebbe a questo proposito dire che un’autentica relazione analitica, nel senso di processo di sviluppo della crisi dell’identità individuale, dovrebbe strutturarsi 22 Di palo in frasca tra un analizzando e un analizzato, e non un “analista”, lasciando che questo ultimo termine indichi solo uno statuto professionale e non una funzione direttiva e comunque manipolatoria all’interno della relazione analitica. 4. Sviluppi contro-iniziatici Ci chiedevamo prima quali fossero i modi possibili di cedimento della tensione iniziatica, quali le trasfigurazioni possibili del processo di astrazione nei miraggi della distrazione. Credo che la più vistosa tentazione da parte di tutti noi sia quella di intrattenerci nella dimensione dell’insegnamento-apprendimento, a cui già prima avevo accennato. Quando questa struttura relazionale non resta inscritta in una dimensione triadica, ancorata a un progetto fattuale, essa diventa il luogo privilegiato dell’immaginario, cioè il luogo dei rimandi circolari del «sono come tu mi vuoi». In questo registro relazionale la crisi culturale viene sperimentata nei termini di una propria immagine “mancante di qualcosa”, un’immagine monca a confronto con immagini a tutto tondo, sature, apollinee. In questa prospettiva viene “dimenticato” il senso della crisi in termini di necessità di ulteriore emancipazione del soggetto riflessivo rispetto alle proprie matrici, al claustrum dei propri insegnamenti perimetrali, e il disagio viene letto come rimediabile nel momento in cui il vuoto che lo sottende, la fenditura che minaccia di spaccare gli statuti culturali pietrificati, si immagina che possa essere riempita da altrui conoscenze altrettanto solidificate, appunto da nuovi insegnamenti. Ovviamente la componente immaginaria non è eliminabile da questo nostro rapporto, come forse da nessun rapporto umano, ed essa è anzi all’origine del necessario costituirsi di una certa quale “coscienzialità di gruppo”. I1 problema è dello spazio che questa componente può prendere nel nostro rapporto: se, cioè, lo spazio aperto tra di noi viene preponderatamente occupato dalla dimensione immaginaria, esso finisce con il perdere la qualità di luogo di emergenza di quanto è potenzialmente nascente in ciascuno di noi, come creatività di soggetti in un procedere simbolico intorno a un progetto comune. Questo spazio diventa allora lo spazio virtuale che si apre illusoriamente dietro la 23 Diego Napolitani superficie di specchi esattamente contrapposti: è la macchina desiderante che si rappresenta nella fuga all’infinito delle immagini speculari. Rispetto a questa fuga all’infinito il nostro desiderio di apprendere viene eccitato nei termini dell’avidità di un sapere saputo che annulla la qualità essenziale di un “sapere-assaggio”, di un “sapere-scoperta”. E sappiamo tutti come questa avidità sia fatalmente destinata a esaurirsi in sconsolate delusioni, e negli infiniti “dissapori” delle relazioni immaginarie. (È forse esattamente in questa dimensione che rischiano sempre di naufragare le relazioni fra soggetti all’interno delle istituzioni didattiche della psicoanalisi). L’altro registro relazionale in cui può dilagare una distrazione compiaciuta e reciprocamente compiacente fra di noi è quello in cui l’accomunamento si fa corpo. Un’esperienza di comunanza, di partecipazione, per cui il nostro essere insieme ci si presenta come appartenenza a un gruppo elitario, è momento non solo ineliminabile di “gruppità”, ma ne costituisce un aspetto emozionale fondamentale. Mi riferisco specificamente alla dimensione protomentale ipotizzata da Bion, quella dimensione in cui non si dà una differenza tra mente e corpo, tra Sé e non-Sé, e in cui il pensiero ha una qualità pre-concezionale, immediatamente intuitiva del mondo, e strutturata nei termini di «fantasmi comuni di gruppo». Questa compattezza dell’“essere-insieme” è quella che rimanda a un certo fondamento ontico del nostro apparire al mondo: in questo fondamento il NOI è il luogo germinativo di qualsiasi possibile IO e di qualsiasi possibile TU, ma è anche l’esperienza di un’attualità sconfinata, non scandita dal tempo dell’orologio né suddivisa da linee di confine tra spazi diversi. La presenza soffusa di questa dimensione è condizione imprescindibile perché un incontro si traduca in un’esperienza relazionale radicale, ma se questa dimensione tende a prevalere in modo continuativo essa finisce con il solidificarsi come “corpo-gruppo”, la cui espressione non è un linguaggio articolato, non è un accesso a un sapere distinto, ma è ideologia, qualsiasi possa essere il fantasma prevalente che la animi. Nella eventualità che questa dimensione si strutturi in modo stabile, l’iniziato perde la sua funzione di testimone e garante dell'emancipazione dell’iniziando per diventare il portatore di Rivelazioni, e tutto il processo di iniziazione va nel senso di una iniziazione misterica, dove l’atto di fede si 24 Di palo in frasca sostituisce a un sapere trasformativo, e lo scambio simbolico è sopraffatto dalla coazione liturgica. La mia intenzione era quella di aprire questi nostri incontri con una serie di riflessioni che predisponessero a cogliere nel vivo di questa nostra esperienza in fieri certi caratteri che qualificano il processo di iniziazione, nei termini di un processo di sviluppo dell’autonomia riflessiva personale. Non so quanto di questa mia intenzione sia riuscito a tradurre nelle parole che vi ho detto, ma sono convinto che l’esplicito o l’esplicitabile nella preparazione di un’esperienza di passaggio non può non essere se non, appena, un segnale di inizio e una generica indicazione di rotta. Ciò che ha da nascere non è inseribile in alcuna prefigurazione programmata, e la coniugazione predisposta in questo Seminario tra le discipline delle scene, dei segni e degli affetti dell’uomo (teatrologia, semiotica, e psicoanalisi) può essere il terreno di un’esperienza di passaggio, fecondo per ciascuno di noi di promesse; dipenderà però dalla capacità di risposta di ciascuno, dalla singolare e solitaria responsabilità, la possibilità che queste promesse si traducano in nuove occasioni di emancipazione nel nostro linguaggio, nella nostra prassi, nella nostra stessa identità culturale. 25