Giuseppe Jovine - Gruppo Cultura Italia

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Giuseppe Jovine - Gruppo Cultura Italia
Giugno 1988
COLUMNA
Il mito di Roma
nei poeti e negli scrittori
Il mito di Roma! Mitos! Nell’accezione greca è favola, racconto; potremmo dunque proporre un
discorso su Roma come favola narrata, come essere biologico vivente o “energia di scrittura”, come
dice Mario Lunetta.
Roma in fondo è il fantasma che ognuno si costruisce con la propria fantasia.
Roma è la città dei martiri cristiani e non cristiani, dei Cesari in formato naturale e in
quarantottesimo, del Diritto e delle efferatezze del Basso Impero e del nostro tempo, di San filippo
Neri e di Suor Pagliuca.
Il giuoco delle sue antitesi, delle sue commistioni architettoniche è la testimonianza visibile e
sensibile e impressionante delle sue drammatiche antitesi storiche e sociali, e voi finite per amarla
questa città, anche se vi sorprenderete a maledirla. “Il suo richiamo è campana che batte / e si
allontana con inganno”, scrive splendidamente Biagia Marniti in “Città creatura viva”, e le fa eco
Francesco Vagni col suo properziano amore per “Roma carissima”, tale anche per Bajron che
dall’alto del Palatino esclamava: “Dinanzi a quest’altare che sono i dolori umani?”.
Voi dunque l’amate e la maledite questa Roma, perché in essa, nella verità contraddittoria dei suoi
aspetti e risvolti riconoscete voi stessi, la complessità e la tortuosità della natura umana, la faccia
sacra e quella profana del vostro essere e del vostro vivere; e vi viene fatto di chiedervi: sono le
cupole, con la loro grassoccia, pallida, monachesca bonomia, un po’ tronfia e indisponente a ridere
delle satire del Belli e del Trilussa, di Ferrara o Trombadori o è l’orgia del secolo nuovo a ridere
delle cupole per quello che rappresentano o presumono di rappresentare? Non è certo facile
individuare il discrimine, il punto di cesura, di sutura o integrazione delle diverse civiltà che ancora
convivono e ribollono nel cratere dei sette colli.
Nel “foro interno” di ognuno di noi non riusciamo ancora a comporre il rapporto tra Stato e Chiesa,
autorità religiosa e politica, potere e rappresentatività, governo e popolo e si discute ancora
bizantinamente sull’attribuzione dei concetti di materialismo e spiritualismo a questa o a quella
confessione teologica o ideologica.
Non c’è mai stata pace tra gli ulivi o i pini di Roma, la cui sacralità ha sfaccettature, motivazioni e
significati diversi e opinabili.
Nel 40 dopo Cristo, Marziale si lamentava della invivibilità di Roma e dei privilegi di cui godeva il
“generone” di allora, che poteva tranquillamente dormire negli intimi recessi dei palazzi gentilizi;
Mario Dell’Arco che ha arromanescato Marziale, abbandonando l’estrema tenerezza del poeta
domestico e raffinato, approda alla violenza verbale belliana e alla lamentazione di Marziale quando
si pone in termini classisti il problema dell’umana convivenza nell’urbe: “Abbiti er piano nobbile? /
Smonti dall’automobile? / Ed io te sputo in testa”. Dell’Arco è deluso dallo spettacolo di una Roma
immiserita più che dal “Dandismo” stendhaliano o dannunziano, dalla “sbracataggine” moraviana e
pasoliniana che ha sommerso, a suo dire, la “strapaesana” Roma di Roesler- Franz e la
“bozzettistica” seppure discutibile, Roma trilussiana.
Certamente alla Roma progettata come luogo di comunicazione culturale e di umana misura, hanno
inferto duri colpi prima il Fascismo con gli sventolamenti e la retorica della funzionalità estetica
dell’isolamento dei monumenti classici, poi le classi dirigenti del secondo dopoguerra, fautrici del
gonfiamento della città, perseguito con uno sviluppo urbanistico distorto che ha prodotto una città
medio-orientale, come dice Argan, più vicina a Teheran e al Cairo che a Parigi e a Londra.
La città non ha così potuto adempiere la sua funzione di elemento aggregativo del paese,, di
mediazione e raccordo tra le culture differenziate del Nord industriale e del Mezzogiorno contadino.
Sul piano del comportamento delle classi Moravia opina che i nobili o residui nobili o sedicenti tali,
che formano il cosiddetto “generone”, e i tartufeschi galoppini che si strofinano ai fianchi della
nobiltà nei salotti del jet-set o sui trampolini di lancio televisivi o nei felpati uffici di rappresentanze
parlamentari, imprenditoriali, editoriali o commerciali, pensano che il colmo dell’intellettualità sia
far collezione “di porcellane di Sassonia e bronzi indiani”; hanno per lo più le stesse idee sull’arte,
la politica, la morale: il “generone” è quello che non applica le leggi del sistema che lo nutre, froda
il fisco, esporta capitali o innalza palazzi deturpando il paesaggio storico e artistico, così come
facevano i palazzinari dell’Ottocento che costruivano abitazioni sui ruderi e contro i quali Carducci
invocava la Dea Febbre.
C’è poi il popolo piccolo-borghese, la classe operaia e il popolo minuto, le cui composizioni interne
sono quanto mai differenziate, articolate e complesse, per cui è difficile scoprire dove cessi il
borghese e cominci, nella sfera psico-emotiva oltre che in quella economica, il proletario: i
borgatari non sono immuni dalla malattia consumistica dei borghesi e giustamente Pasolini parlava
di omologazione socio-culturale. La “plebe” di oggi non è certo la rumorosa, fatalistica “plebe
orfana” del Belli, allevatrice di Anticristi, anche se gli esemplari di trasteverini belliani e
stendhaliani grassi, bollenti, flemmatici, ma iracondi, non sono del tutto scomparsi. La plebe di oggi
è vigilante, duttile, prudente e lotta, secondo Maurizio Ferrara, per instaurare un metodo di condotta
civile e politica, che non si rifaccia alle formule del machiavellismo trasformista caro ad Andreotti,
una specie di Messer Messerino del ducentesco Rustico Di Filippo, “l’uomo de ricotta che ‘nze sa si
la vò cruda o la vò cotta”, né si ispiri al progetto dell’aristocratico filantropismo illuministicocristiano di “fratello Agnelli”, che lo stesso Cristo, per non fargli torto, siguarda bene dal toccare:
“Sto Cristo è bbono assai” – scrive Ferrara ne “Er Communismo de la libbertà” – “m’aspetta morto
/ pe famme tale e quale uguale a Agnelli /, ma prima nò je s’a da fare un torto”.
In questa criticaccia apparentemente manichea, “ a taja e cucio”, vive l’esigenza del superamento
dell’immobilismo reazionario di certa filosofia cattolica e laica che, per eludere i problemi reali,
equivoca sulla trascendenza e l’immanenza, lo spirito e la materia.
La “romaccia” da raddrizzare di Antonello Trombadori è meno sanguigna di quella di Ferrara.
Trombadori arriva persino afare l’occhiolino a Papa Montini, in cui vede l’uomo “arrotato in der
tormento”, e perdona le debolezze del Belli, che si firmava “Peppe er tosto”, ma si piegava ad
accettare i soccorsi di quegli aristocratici prevaricanti e soverchiatori, di quel clero ozioso che con
ingratitudine il poeta chiamava “scacarcione”.
Trombadori ha inoltre un senso lirico dell’esistenza quasi decadente e crepuscolare, che gli fa
rimpiangere il “panonto” (pane unto) che gli preparava la madre al tempo in cui dava la caccia “A
li gatti fra ffanga e mmonnezza”, che abbondava anche nella Roma pre-mussoliniana.
La Roma di oggi è reazionaria, cattolica, popolaresca, dialettale, rivoluzionaria, contestatrice ? E il
cattolicesimo romano è tollerante, ragionato o soltanto miracolistico e manicheo come ai tempi in
cui Stendhal scriveva: “Le peuple est tallement imbu de Catholicisme qu’a ses jeux rien dans la
nature se fait sans miracles”? E a Roma aggiungeva Stendhal, tutto è decadenza e morte tranne le
logge di Raffaello e i canti degli uccelli tra i ruderi del Colosseo.
San Pietro è ancor oggi, come lo era per Taine e Stendhal, il Palazzo del Sovrano, guastato
dall’esecrabile rococò del Bernini, dove la preghiera diventa cerimonia rituale, non slancio del
cuore?
I poeti più recenti che si sono interessati di Roma sotto la guida e lo stimolo di Mario Lunetta, che
ne ha raccolto i testi in “Roma in versi”, fermi al concetto dell’indeterminatezza dell’esistere e del
conoscere, della relatività e dell’ambiguità del conoscere logico poetico, girano intorno al fantasma
di Roma con circospezione: alcuni risucchiati nel vortice del caos linguistico, come Stefano
Docimo, vedono Roma “corcata nel bulbo sfiancato / di dietralla e drentalla alluppiata / in duccio di
lasterna e quaserna…”; altri, come Malfaiera, disorientata dal caos docimiano, attende qualcosa che
risulti, come Marè che attende anche lei invano una parola che “in panza alle cose / vada…”.
Per Renato Minore l’essere romanesco è un essere polisemico e polisintetico, che frantuma i
“fermenta cognitionis”; per Gabriella Sobrino la folla romana è a tal punto nevrotizzata che di notte
vede Roma del tutto impeciata senza nemmeno uno spicchio di luna, quello spicchio di luna che la
politica dell’“effimero” di Nicolini tendeva a restituire ai romani.
La Roma di Cavallo scorre senza senso come sansa, quella di Cattaneo ha la bocca del lupo che
ringhia; per Cacciatore ogni romano è selvaggina; per Capasso dietro porta c’è la Siberia, per
Rendina Roma è troppo versificata dai romanisti che le fanno la manfrina; per Elio Filippo
Accrocca è “fiato di transito” che sulle strisce attende che la cultura della vita vinca la cultura della
morte. Per la Bettarini che si è rifugiata a Firenze, Roma stilla orine da cenciosi camminamenti:
certamente Roma è anche questa “tranche de vie” neonaturalistica, quale appare in quei cortili
muffosi che sembrano trapiantati da un romanzo naturalistico francese, con le pareti arabescate di
rugginose scolature bettariniane e gremite di loggette di ferro cariche di fiori e piante selvatiche e
gabbie di canarini.
Per Utrillo Parigi può sintetizzarsi in un vicolo di Saint Germain de Près o Montmartre e quel vicolo
può essere la versione popolare della civiltà classica.
Biagia Marniti vorrebbe che la città si fermasse sulla piazza del suo quartiere con l’urlo dei suoi
uccelli; Maria Racioppi vagheggia una romanità più corposa, neoclassicheggiante,
wilchelmanniana.
Di solito il poeta romanizzato opera un giuoco di sovrapposizione del suo paese d’origine e della
città, nella ricerca di un luogo ideale che ricostituisca l’unità stessa dell’essere restituendolo al suo
poetico sentire della realtà: la milanese venditrice di dalie a San Babila di Sinisgalli o la stessa
sinisgalliana fioraia romana che “grida” le eclantine a Trinità dei Monti hanno la stessa magica
rilevanza della bambina lucana che “grida” i pomodori nella valle dell’Agri.
Si contano sulle dita di una mano i poeti che insieme alla Marniti e alla Racioppi riescono a
“dirigere” Roma: Spera e Reale, tra questi, pur col tanfo di sentina nel naso, riescono a sognare “le
porticine di ferro tra le rose” e le passeggiate delle coppie ai lungoteveri; la Canducci, pur vedendo
la sua città di elezione “ricca d’ansie doppiate e di raggiri”, non lesina la sua attenzione ai tramonti
rosa, pur dubitosi in un’urbe senile.
E qui vorrei dire di Vivaldi, Weiss, Vitiello, Villa, Vasio, Valesio, Serrao, Scalise,Sacripante, Porta,
Pignotti, Paniccia, Nicolai, Guzzi, Giuliani, Giorgi, Frezza, Falasca, Di Marco, Delogu, Dego,
Capasso, Bertozzi, Borra e infine Socrate, che confermando la mia ipotesi dell’identificazione
dell’uomo con la città, così scrive: “finirò per assomigliare a te / o mio Tevere di un tempo e d’oggi
/ invariato fiume / prima che di noi due / uno vada di qua / e l’altro di là”.
Qualcuno potrebbe chiedere: ma Roma dov’è? Dov’è la classicità? Dov’è la vigorosa sensualità di
Ovidio e di Marziale, il senso religioso non teologizzato e il senso dell’amicizia di Orazio, il senso
della giustizia di Giustiniano, la razionalità di Lucrezio, lo stoicismo di Seneca, l’amore panico di
Virgilio per l’uomo e le cose?
Roma, la civiltà romana, potrei rispondere, è un vento che ha percorso i secoli: dove il seme è
fiorito si è diffuso un costume civile; la fioritura dipende dal fruitore che raccoglie il seme. Non
esiste una civiltà in senso assoluto. Tocca ad ognuno di noi assorbire, assimilare e attualizzare una
civiltà nella vita di ogni giorno. Una civiltà che non diventa costume è una astrazione. Roma siamo
noi, Roma sarà quel che vorremo che sia, se è vero che i governi, delegati a procedere nel solco
delle tradizioni culturali che dovrebbero vivificare l’attualità, vanno dove noi li portiamo.
“Il governo” – scriveva Stendhal – “est un ètre puissant et mèchant avec le quel il est indispensable
d’avoir certains rapports”.
La gente comune, con capacità d’intendere e volere, dagli artisti si attende che quei rapporti non
siano legami di prevaricante complicità, ma di reciproco stimolo sulla via della nascita di una Roma
che sostituisca l’attuale città controriformista, nemica di ogni sano illuminismo, una Roma laica, per
intenderci, che viva col calore di tutte le fedi, nessuna esclusa, legate tra loro da rapporti di
razionale complementarità, e col calore infine di tutte le coscienze democratiche.
Giuseppe Jovine