3 - Case e città nel Ventennio Fascista

Transcript

3 - Case e città nel Ventennio Fascista
3 - Case e città nel Ventennio Fascista
Case e città nel Ventennio Fascista
Al termine della guerra nel 1918 e all’indomani di un periodo di stasi nella
produzione di case di circa 4 anni, il problema dell’abitazione si ripresentava minaccioso e inestricabile. La crisi era aggravata dall’elevato costo delle
materie prime di difficile reperimento (mattoni, legno, ferro) e dalla disorganizzazione delle industrie edilizie provocata dalla guerra. A livello nazionale
il fabbisogno urgente di abitazioni fu calcolato1 in 30.000 vani all’anno, per
cinque anni, nelle città di Roma, Milano, Napoli, Venezia, Bari, Torino, Bologna e Genova.
Per superare la crisi postbellica lo Stato intervenne su un triplice fronte: dapprima agevolò la costruzione di case pubbliche convogliando ingenti fondi
(si parla di 1 miliardo di lire) nelle casse degli Enti pubblici preposti e delle
cooperative, poi, nel 1917, stabilì con un decreto legge il blocco temporaneo
dei fitti, in ultimo agevolò il settore privato con l’introduzione dell’esenzione
fiscale per 25 anni su tutte le nuove costruzioni. Il quotidiano La Stampa di
Torino nel numero del 19 Gennaio 1921 pubblicò un articolo all’interno del
quale venivano esposte alcune considerazioni circa il finanziamento dell’industria edilizia: a proposito della condizione di blocco degli affitti precedentemente trattata si dice “ Nessun uomo di governo, che abbia la testa sul
collo, potrà ristabilire di colpo la libertà dei fitti finché perduri l’attuale enorme sproporzione tra domanda e offerta di abitazioni. Prima bisogna ridurre
questa sproporzione, ossia fare case, aumentare la disponibilità di appartamenti alla portata non soltanto delle borse popolari, ma anche di quelle
medie, per le famiglie della borghesia lavoratrice; e solo quando sul mercato
sia riattivata una qualche offerta di alloggi, cioè una certa concorrenza –che
oggi è nulla- si potrà procedere a più spediti passi verso l’abolizione dei calmieri sulle pigioni senza correre il rischio di mettere a soqquadro il paese.”
L’aumento dei fondi destinati all’edilizia pubblica va letto, in senso più generale, all’interno della politica del governo Nitti. Nel 1919 venne infatti
presentato un Testo Unico che confermava un intendimento, peraltro già
dichiarato in passato, di favorire un afflusso di capitali privati nel mercato
delle abitazioni popolari1 al fine di ampliare l’intervento statale e condurre il
paese fuori dalla grave crisi abitativa conseguente alla guerra. Questo testo
di legge ribadiva quali erano gli enti preposti alla costruzioni di case popolari: Unione edilizia nazionale, Istituto cooperativo per le case degli impiegati
dello Stato, le società cooperative per gli impiegati, i salariati, i pensionati
dello Stato, i mutilati e gli invalidi di guerra, i Comuni, gli Istituti Autonomi
per le Case popolari, le Società di beneficenza, gli enti pubblici e morali, le
società cooperative in genere, le società cooperative di credito e mutuo soccorso. Si dichiarava inoltre che “caratteristica essenziale delle case popolari
è che queste restino in proprietà inalienabile e indivisa degli Enti costruttori:
siano cioè costruite esclusivamente per darle a pigione e non per venderle
sotto qualsiasi forma”2; ogni alloggio doveva avere i seguenti requisiti: accesso diretto dal piano della scala, avere latrina propria, essere fornito di presa
d’acqua al suo interno, avere non più di sei vani abitabili (la distinzione tra
casa popolare e casa economica è che la prima ha al massimo 6 locali oltre i
servizi, mentre la seconda può arrivare a un massimo di 7 locali più servizi),
la casa popolare doveva infine soddisfare a tutte le condizioni di igiene e
1
V. Castronovo, Soggetti pubblici della crescita urbana: gli enti per l’edilizia popolare, 1900- 1950, in
Archivio di Studi Urbani e Regionali, Torino 1975, pp.144-154
2
Indicazioni del Testo Unico 1919, riportate in La Casa, Gen-Feb 1920
2
Case e città nel Ventennio Fascista
salubrità richieste dai regolamenti comunali.3
Parallelamente a questi indirizzi normativi vennero avviate nuove iniziative
per la pianificazione dell’edilizia popolare e l’organizzazione del suolo urbano. Nel comune di Milano, ad esempio, Castronovo ricorda i primi tentativi
urbanistici di “azzonamento” per la realizzazione, nel 1920, dei cosiddetti
“villaggi industriali” di Greco Milanese e Sesto San Giovanni e con il varo,
nel 1922, del progetto di un grande “villaggio giardino” a San Siro con una
superficie di 200.000 metri quadrati. Per alcuni di questi insediamenti venne
inaugurata anche una nuova formula di finanziamento congiunta tra ente
pubblico e imprese industriali private, in particolare si ricordano gli interventi attuati dall’Istituto milanese e dalle ditte Pirelli e Breda (1/3 impresa +
2/3 Istituto Case Popolari)4.
Tuttavia, alla luce della pochezza, in quantità e qualità, di tutta la legislazione urbanistico-edilizia italiana fino alla seconda guerra mondiale, si può dire
che i limiti delle norme scritte sosterranno il persistente dominio della borghesia e del potere politico al suo servizio, impedendo che in Italia si giungesse ad una attuazione significativa di qualsivoglia disposizione legislativa
di interesse per la collettività. Di fatto per i primi ¾ del XX secolo l’esproprio
non è mai diventato uno strumento realmente destinato al fine sociale; forse
solo con l’introduzione, negli anni ’60, della Legge 167 e la connessa legge
865, l’esproprio verrà utilizzato in maniera non del tutto aleatoria nell’edilizia sociale5 (per contro esistono posizioni contrastanti anche in questo caso
e soprattutto nell’ambito delle grandi città, che rivendicano il sostanziale
fallimento dell’operazione politica).
Per comprendere poi il ruolo urbano dell’edilizia residenziale pubblica, e
dunque la pianificazione vera e propria di questo patrimonio, si deve far
riferimento, fino al 1942, anno dell’entrata in vigore della nuova legge urbanistica, a quella ben più anziana del 1865. Essa continuava a prevedere la
redazione obbligatoria di PRG (sotto forma anche di piani d’ampliamento e
risanamento) solo per le città con più di 10.000 abitanti residenti in un unico centro (erano dunque esclusi i comuni che comunque raggiungevano la
quota minima di abitanti, ma che erano formati da più nuclei), e dava come
uniche basi solide per la loro redazione i principi di allineamento e decoro
urbano, igienicità e salubrità del tessuto edilizio. Questa concezione della
progettazione urbanistica, legata a canoni ormai sorpassati dalla disciplina
urbanistica e architettonica in tutta Europa, porterà oltre che al protrarsi
degli sventramenti urbani, basati su nuovi allineamenti viari e schemi di disegno piuttosto astratti, anche a favorire gli speculatori e la rendita fondiaria
e a danneggiare la popolazione più povera6.
Secondo i dati riportati in Melano, Pesati Le abitazioni in Torino attraverso
i censimenti7, contenuto in “Annuario statistico della Città di Torino”, negli
anni tra le due guerre si verificò un continuo spostamento di quote di abitazioni dalla condizione di affollamento a quella di non affollamento, ma parallelamente aumentò anche il numero delle persone viventi in condizioni di
3
La Casa, Gen-Feb 1920, cit.
4
Vedi articolo e immagini in La Casa, Gen-Feb 1920, pp. 72-76
5
L. Meneghetti, Leggi urbanistiche, cultura urbanistica. Appunti didattici di storia fino alla seconda
guerra mondiale, CLUP, Milano 1977, p. 29
6
L. Meneghetti, cit, pp. 30-31
7
F. Melano, Le abitazioni in Torino attraverso i censimenti , in Annuario statistico della Città di Torino,
dati riportati in Storia di Torino, p. 330-338.
3
Case e città nel Ventennio Fascista
sovraffollamento. Crebbe in sostanza, anche a causa della politica abitativa
attuata dal fascismo, la disuguaglianza delle condizioni residenziali fra i ceti
sociali. La linea politica governativa sosteneva infatti, con un decreto legge
del 1926, contributi a fondo perduto per la costruzione di alloggi da destinare a futura vendita, mentre paradossalmente finanziava le costruzioni da
destinare all’affitto solo con mutui a tasso agevolato.
Se la ripresa economica fu dunque immediata per il settore pubblico, che
a Torino riprese l’attività nel 1920 con la costruzione del Quartiere di Via
Arquata, altrettanto non si può dire per l’edilizia privata che subì ancora per
alcuni anni ritardi e scompensi dovuti a quella che fu definita “l’artificiosa
ripresa delle costruzioni” del settore pubblico. Gli imprenditori accusavano
infatti gli enti pubblici di aver svolto un’azione anticongiunturale, duplicando il costo delle costruzioni, sia per quanto riguarda la manodopera che per
i materiali da costruzione8.
La nuova fase di sviluppo toccò il suo culmine su scala nazionale nel 1925,
con una produzione complessiva valutabile intorno ai 520.000 vani d’abitazione, pari in valore a circa un settimo degli investimenti totali. In Torino la
ripresa raggiunse il livello più alto nel 1930 con una consistenza di 37.485
vani. L’aumento fino al 1930 del ritmo costruttivo verificatosi tanto sul piano
nazionale che su quello locale sarebbe stato determinato oltre che da una
nuova richiesta di alloggi (incremento della popolazione nelle grandi città)
anche dall’andamento speculativo del settore edilizio9. Geisser rivelava infatti come l’espansione edilizia intorno all’anno ‘30 coincidesse con la prossima scadenza dell’esenzione dell’imposta concessa per i fabbricati di nuova
costruzione nonché con la sensibile diminuzione, a partire dal ’29, dei costi
di costruzione.
In contrasto con il notevole ritmo costruttivo di questo periodo è la continua discesa, a partire dal 1927, dell’indice del prezzo medio delle aree fabbricabili, dovuta alla tendenza a realizzare dei proprietari di terreni periferici
per il rapido estendersi della città.
A partire dall’anno 1931 si registrano a Torino i primi segni di caduta del
settore per la crisi internazionale. Alla netta rarefazione della richiesta di
alloggi si affianca una flessione dell’incremento demografico dovuto alle difficoltà delle più importanti industrie cittadine, per cui l’immigrazione dalle
regioni e dalle campagne è pressoché nulla. L’andamento della popolazione
nella città segna in questo periodo notevoli oscillazioni, si passa da 17.000
abitanti nel 1927 a 27.000 nel 1928, a 15.000 nel 1929, ma è sostanzialmente
in graduale costante decremento tra il 1928 e il 1932. Solo a partire dal 1934
il settore edilizio torinese si riprese per toccare la punta massima nei due
anni successivi. L’espansione economica che accompagnò quest’ultimo sviluppo dell’edilizia per abitazioni, continuò per qualche anno ancora, fino al
1939, quando gli investimenti in edilizia raggiunsero il 10% del totale.
Le attività dello IACP e del Comune di Torino negli anni del Ventennio
privilegiarono, con un carattere di maggior continuità degli interventi, il
sostegno a favore della piccola borghesia e di strati proletari in corsa per
l’elevazione della propria condizione sociale; la condizione abitativa del proletariato restava sotto tutti gli aspetti estremamente svantaggiata.
Tra il 1920 e il 1940 lo IACP produsse una quantità di abitazioni superiore di
8
G. Grassi, La conferenza sulla crisi delle abitazioni, cit.
9
A. Geisser, La proprietà edilizia nella città di Torino, in Torino, XIV (1934), n.5
4
Case e città nel Ventennio Fascista
circa tre volte quello del suo primo periodo di attività (1907-1918); alla fine
del ventennio fascista si contavano infatti dodici nuovi quartieri e una serie
di acquisizioni da altri enti e ampliamenti.
Come precedentemente già accennato questi nuovi insediamenti si localizzarono in territorio periferico:
• 2 quartieri in zona San Paolo edificati nel 1927 e uno acquistato dalla
STAP (Società Torinese per le Abitazioni Popolari) nel 1931;
• 1 quartiere edificato nel 1929 a Madonna di Campagna su progetto di
Cuzzi;
• 2 quartieri alla Crocetta nel 1920 e nel 1926;
• 2 quartieri a Mirafiori nel 1930 e nel 1939;
• 1 quartiere in zona Nizza costruito nel 1938 (le case popolarissime di via
Biglieri) e l’acquisizione di un complesso municipale (Q21);
• 1 quartiere in Borgata Montebianco nel 1920;
• 1 quartiere in Borgata Parella nel 1924;
• 1 quartiere in Borgata Regio Parco nel 1940;
• 1 quartiere acquisito a Lucento nel 1935 e 1 a Vanchiglia nel 1938;
• ampliamento di 1 quartiere iniziato nel 1910 in Borgata Cenisia.
Alberto Abriani10 rileva che l’Istituto torna a costruire nelle zone in cui aveva edificato nei suoi primi anni di attività come la Crocetta, San Paolo, Vanchiglia, Regio Parco, Lucento e Cenisia; con una seconda classe di interventi
invece si allontana verso nuove zone periferiche, ma sempre lungo direttrici
già individuate in passato. “La disseminazione di questi interventi non rivela
una logica pianificatoria generale, se si eccettua la loro manifestata funzione
di traino nell’urbanizzazione delle periferie, con adduzioni di infrastrutture
primarie e secondarie”11. Rispetto alle realizzazioni d’anteguerra, che trovarono localizzazione in aree demaniali in via di regolamentazione urbana, i
quartieri del periodo fascista svolsero una vera e propria azione pilota nei
confronti dell’iniziativa privata favorendo la lievitazione della rendita delle
aree circostanti. Come emerge della analisi svolte dall’ISPES12 alcuni interventi puntuali come il 12° quartiere, in zona Montebianco, il 13° quartiere,
in Borgata Parella, il 14° quartiere in Borgo San Paolo, il 16° a Madonna
di Campagna divennero parte funzionale dell’urbanizzazione di intere zone
della città da parte dell’iniziativa privata che completò il tessuto edilizio circostante negli anni immediatamente successivi alla costruzione dei quartieri pubblici.
Lo sviluppo urbano della città di Torino non rispecchierà le intenzioni generali né in campo urbanistico-architettonico né in campo amministrativo.
Relativamente agli ideati ampliamenti periferici, la città non procederà alla
razionalizzazione del nuovo tessuto attraverso la realizzazione di città satelliti e città giardino; rispetto al programma di zonizzazione del suolo urbano
possiamo poi inoltre sostenere che la città rifiuterà questo tipo di politica
in nome di un più naturale inserimento delle diverse classi sociali secondo
dinamiche urbane consolidate, in modo che case popolari, case operaie e
villini signorili siano distinguibili, pur frammischiate genericamente nella
10
A. Abriani, Edilizia ed edilizia popolare nello sviluppo urbano di Torino 1919-1941, in Torino tra le due
guerre, Città di Torino, Assessorato per la Cultura, 1978.
11
A. Abriani, Edilizia ed edilizia popolare nello sviluppo urbano di Torino 1919-1941, cit. p. 130.
12
ISPES, Il ruolo dell’intervento pubblico nell’edilizia. Analisi di alcuni aspetti dell’intervento nel periodo
1908-1970 a Torino, Torino 1971.
5
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.1
fig.2
fig.3
stessa zona, solo per la loro posizione rispetto ai corsi, ai servizi e per i loro
caratteri tipologici e decorativi, ma non, in linea di principio, per la loro
collocazione in zone urbane specificamente destinate.
Dalle statistiche relative alla popolazione residente nelle diverse aree urbane
(sezioni di censimento), dedotte dall’Annuario Statistico della Città di Torino del 1942, si desume che la città si sia espansa in maniera abbastanza uniforme nelle tre direzioni libere (nord, ovest e sud, si tralascia l’ambito collinare). Alcuni quartieri come San Paolo, Borgata Monterosa e la Barriera di
Milano, furono ampliati in questo periodo in proporzioni circa confrontabili
con le dinamiche degli anni precedenti (ampliamenti di poco superiori alla
metà del tessuto edilizio esistente), rivelando dal punto di vista dell’analisi
urbanistico-edilizia una condizione piuttosto equilibrata. Altre zone invece,
come il Lingotto e Mirafiori, la zona Parella, Campidoglio e Cenisia, la zona
di Corso Sebastopoli e in ultimo Pozzo Strada, subirono un incremento notevole nel periodo del ventennio.
Parallelamente all’andamento edilizio e urbanistico risulta interessante considerare, al fine di comprendere appieno la condizione sociale legata all’abitare della popolazione di più basso livello economico, che nel 1931 il 50%
della popolazione occupava il 34% dei vani esistenti in città, ma questo 34%
di camere costituiva più della metà, per l’esattezza il 58%, delle abitazioni totali esistenti. Se ne deduce dunque che più della metà delle abitazioni
della città faceva capo a quella tipologia edilizia “povera”, a volte “misera”,
composta da una o due camere; questa consistente percentuale era collocata prevalentemente nel centro storico e nelle zone periferiche, in particolar modo a nord della Dora. Le conclusioni scontate di quanto detto sono
che lo sviluppo intenso delle zone periferiche abbia programmato si direbbe
sistematicamente “un’edilizia della discriminazione, dell’affollamento e del
sovraffollamento”13.
I verbali dei consigli comunali esaminati da Abriani non danno riscontro di
una continuità nel dibattito sulla casa popolare perdendo, probabilmente
con volontà precisa, la possibilità di far seguire alla valutazione fatte delle
conseguenti realizzazioni. La rinuncia a una vera e propria programmazione urbanistica da parte dell’ente, in correlazione anche con la municipalità,
è lontana dalla politica internazionale dei grands ensambles e dal ruolo urbanistico delle Siedlungen capaci di disegnare il territorio urbano. Unico
fattore riscontrabile con ricorrenza negli interventi di questo periodo è la
ricerca di riconoscibilità del quartiere popolare, inserito nella periferia nascente come modello residenziale da seguire sia nell’impostazione morfologica che nella dignità decorativa.
Il carattere edilizio, in prima istanza, e il prezzo d’affitto poi, che non poteva
essere sostenuto da una famiglia monoreddito, destinarono questi interventi espressamente al ceto medio e all’aristocrazia operaia. Il quartiere di via
Arquata può essere preso ad esempio della filosofia descritta: si trattava di
41 palazzine a tre piani con 15 alloggi ciascuna, organizzate su isolati ad
angoli smussati con blocchi edilizi perimetrali ma non occludenti l’interno
dei cortili organizzati ad aiuole e giardini.
Tra il 1922 e il 1927 anche il Comune diede avvio alla costruzione di case
economiche municipali di dimensioni addirittura superiori a quelle già ampie dello IACP, composte da quattro o cinque vani più servizi igienici, che
13
A. Abriani, cit. pp. 127-128.
6
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.4
fig.5
fig.6
fig.7
per il tasso d’affitto furono inevitabilmente destinati a impiegati (statali, municipali e privati), a guardie municipali e daziarie, ecc…; solo un terzo scarso
degli alloggi poté essere affittato alla classe operaia.
È solo negli anni trenta che si diede avvio alla costruzione di complessi d’abitazione cosi detti “popolarissimi”, situati in zone di scarso pregio urbano
prevalentemente periferiche e sostanzialmente ancora inedificate. Per una
più completa bibliografia sulle direttive date dal regime fascista agli Istituti
Autonomi per le Case Popolari si veda l’articolo del ministro Gigli “Edilizia
popolare in Regime Fascista” pubblicato su Il Popolo d’Italia del 14 Agosto
1936, all’interno del quale è riportata una esauriente trattazione circa i criteri da seguire per le nuove costruzioni. Una bibliografia dettagliata sul tema
delle case “popolarissime” viene poi redatta anche dal Ministero per i Lavori Pubblici. Questi contributi alla nobile campagna per la casa del popolo,
incentivava tipologie di case che si differenziassero da quelle prettamente
popolari in quanto destinate alle classi maggiormente sprovviste di mezzi e
perciò aventi, si dice, una “spiccata caratteristica di ruralità, che contribuendo largamente al disurbanamento dei grandi centri serviranno a portare la
vita all’aperto in case chiare, soleggiate e circondate da verde […] tali case
pur essendo modeste nei particolari dovranno essere decorose e costruite
secondo i più moderni criteri tecnici e igienici”14. Poiché si evidenziava che
moltissime case del genere esistevano già, sorte in genere ai margini delle città per iniziative individuali, l’azione pubblica era volta a regolarizzare
questa “innata tendenza del popolo”, dandone una “razionale applicazione in
quartieri organicamente costituiti”15.
Parallelamente alle iniziative dell’Ente, a quelle statali e municipali, vanno
poi aggiunti, analogamente a quanto verificatosi precedentemente alla nascita dello IACP, una serie di interventi privati o di cooperativa come le case
per i dipendenti della provincia, delle ferrovie e dell’Azienda tranviaria e non
ultimo le case costruite per i propri dipendenti da grandi aziende come la
Fiat, la Snia (fig. 1, 2, 3) e la Michelin.
In questo clima va ricordata l’azione di industriali come Luigi Grassi (fig. 4,
5, 6,7) che costruì alloggi popolari, prevalentemente composti da due stanze
e distribuiti a ballatoio con latrine comuni, in posizioni urbane medio centrali e con sistemi edilizi prefabbricati in cemento armato dai costi relativamente contenuti.
La situazione abitativa nazionale degli anni Trenta peggiorò progressivamente sia a causa della crisi economica nazionale, sia per l’alto numero di
sfratti dato per avviare gli interventi di risanamento dei centri storici. Proprio questo secondo aspetto va di fatto letto come una colossale operazione
forzata di sfollamento in massa del ceto più povero lontano dai centri urbani
che dovevano diventare, attraverso i nuovi interventi edilizi e urbanistici, il
luogo rappresentativo del potere fascista.
La politica del regime puntava da un lato alla “ruralizzazione” del paese,
spostando verso le campagne ampi strati della popolazione di ceto più basso, e dall’altro a contenere l’inurbamento nelle grandi città in modo da poter
considerare come veri abitanti urbani solo il cosiddetto “popolo del consenso”; la nuova politica vedeva infatti con estrema ostilità il continuo afflusso nelle città di manodopera industriale, considerata insofferente e filo-
14
La Casa, Gennaio 1938 pp. 8-15.
15
La Casa, cit. pp. 8-15.
7
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.8
fig.9
fig.10
fig.11
socialista. Negli immediati dintorni dei confini comunali dunque il governo
fascista si mosse per “trasferire” in costruzioni d’emergenza temporanea16 le
presenze sociali più sgradevoli, intervenendo al di fuori dei confini dei centri
storici e della prima periferia delle città italiane. Al fine di garantire quella
stasi sociale che venne soprannominata “L’Italia ferma” venne emanata nel
1930 una legge che faceva divieto ai lavoratori di lasciare la propria residenza senza autorizzazione del prefetto”17; era poi necessario, al fine di avere
un lavoro legalizzato e riconosciuto, presentare un certificato di residenza,
ma paradossalmente per avere la residenza bisognava avere un contratto di
lavoro! Questa legge, che sarà attiva ancora fino agli anni cinquanta e sarà la
causa di tanto “mal vivere” per gli immigrati del sud Italia nelle città industriali del nord come Torino e Milano18, costretti alla condizione di latitanza
circa il proprio luogo di residenza e lavoro, fu obiettivamente un fallimento
legislativo, incapace di contenere i movimenti migratori operai. Gli indici
migratori calcolati rilevano che negli anni trenta cambiarono residenza in
media 1.200.000 persone ogni anno, rispetto alle 800.000 del quadriennio
precedente, e le ondate migratorie proseguirono anche dopo la legge introdotta.
Il flusso legalizzato delle masse operaie impiegate negli stabilimenti cittadini
veniva convogliato all’interno di quei villaggi rurali che dovevano funzionare da serbatoi; questi erano organizzati con casette di pochi alloggi, per
famiglie numerose, dotate di appezzamenti di terreno da destinare a orti,
in modo da permettere l’auto-produzione di alcuni beni primari. La gran
massa di popolazione immigrata per così dire al buio dai censimenti ufficiali,
trovava invece ricovero come sempre nelle soffitte malsane dei centri storici,
quelle non demolite dai risanamenti edilizi, nelle vecchie case di barriera
sovraffollate o nelle baracche autocostruite in periferia.
Lo IACP torinese però, contrariamente a quanto avvenne in tante altre località italiane, non rispose pienamente alle direttive della ruralizzazione del
regime a causa degli alti costi delle realizzazioni, sia per quanto riguarda il
reperimento delle aree che per la tipologia edilizia. Furono infatti realizzati
solo tre interventi: una prima città giardino in regione Mirafiori composta
da 19 villette, un secondo intervento a Testona di Moncalieri (fig. 8, 9,10,11)
ad opera dell’Arch. Perona, mentre il terzo, Il Villaggio Rurale al Regio Parco,
forse l’immagine più compiuta dell’idea fascista di “case italiche antiurbane”
fu di fatto messo in cantiere solo nel 1945, ad armistizio avvenuto, con la costruzione di nove casette ora non più esistenti, e poi notevolmente ampliato
dal piano Fanfani nel 1955.
A fronte di questa categoria di interventi, notevolmente ridotta almeno sotto il profilo quantitativo, l’Ente cercò al contrario di arginare le necessità del
momento costruendo blocchi intensivi a carattere “popolarissimo” o “minimo” nelle vicinanze dei nuovi poli industriali (Mirafiori, Lingotto, Regio
Parco), si prendano a esempio gli interventi del quartiere di via Sospello e
via Biglieri.
Questa politica può anche essere letta in parallelo alla tendenza europea,
postulata a partire dagli anni ’30 con il Congresso di Bruxelles, di privilegia16
Baraccopoli che di fatto rimasero tutt’altro che temporanee fino a tutto il secondo dopoguerra, efficacemente descritte in tanti filmati dell’Istituto Luce.
17
D. M. Smith, Storia d’Italia 1861-1951, Laterza, Bari 1964, XI,2.
18
Dal punto di vista legislativo non è cambiato poi molto nella condizione delle attuali classi immigrate,
quelle degli extracomunitari.
8
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.12 Milano: quartiere G. D’Annunzio
fig.13 Milano: quartiere E.Ponti
fig.14 Milano: quartiere F.Filzi
fig.15 Milano: quartiere S.Siro
re la casa collettiva a medio numero di piani piuttosto che la casa individuale
fondata sul principio della città giardino, in quanto una sperimentazione
ulteriore di questa tipologia avrebbe potuto condurre a una possibile soluzione del problema relativo dell’abitazione minima. Samonà a tal proposito
evidenzia come negli anni tra il 1924 e il 1931 “l’opinione degli studiosi internazionali in merito al tipo di casa popolare si sia radicalmente capovolta:
prima l’opinione concorde si orientava a favorire lo sviluppo della città giardino e di sistemi popolari radi con casette a schiera; dopo è la casa collettiva
a imporsi, e non solo la casa a limitato numero di piani, ma anche la casa alta
con un numero di piani superiore a sette”19.
A livello tipologico si dibatteva poi sulla soluzione della casa a blocco e su
quella in linea; in ambito europeo la tipologia in linea incontrava sempre
maggior favore e sperimentazioni pratiche.
I vantaggi dimostrati sul campo erano l’uniforme orientamento di tutte le
file di case, una insolazione uniforme degli alloggi, ma anche la semplificazione delle forme planimetriche e la possibilità di produrre elementi in serie
per migliorare l’economia di cantiere.
Nonostante queste provate migliorie la tipologia della casa a blocco continuava a essere preferita, e non solo in Italia, in quanto si adattava meglio
all’urbanistica tradizionale della città storica permettendo l’allineamento dei
fronti sul filo stradale, la formazione di cortili interni chiusi o semichiusi, e
quindi la formazione di prospettive varie molto apprezzate dai regolamenti
edilizi. Inoltre il tipo a blocco permetteva uno sfruttamento migliore delle
aree disponibili, una economia nelle urbanizzazioni delle nuove aree sia per
quanto riguarda la realizzazione delle strade, dei viottoli interni che dei servizi generali.
Come si vedrà in seguito esiste tutta una casistica sperimentale di nuove
tipologie in linea, portata avanti in Italia a partire dagli anni ’40, principalmente a Milano (in sede di studio per il nuovo piano regolatore municipale)
e rimasta purtroppo sulla carta; sperimentazione che aveva una elevatissima
valenza non solo dal punto di vista edilizio, ma anche da quello urbanistico
e di regime del suolo urbano.
Dall’analisi fatta da Samonà sulla tipologia a blocco adottata in Italia nel
periodo tra le due guerre mondiali, le realizzazioni torinesi si allineano perfettamente alla tendenza nazionale. Si tratta di “fabbricati costruiti lungo
il perimetro delle strade che recingono il lotto, a corpi di fabbrica preferibilmente unici, suddivisi in tratti simmetrici rispetto a un certo asse da
spazi aperti verso l’interno, che interrompono la continuità dei cortili con
intervalli liberi non troppo ampi ma sufficienti per una buona circolazione
dell’aria. Di solito la sistemazione dei lotti è creata dalla rete di strade interne, che suddivide il lotto in partizioni minori con elementi il più possibile
simmetrici. Gli spazi interni di risulta tra i fabbricati sono di solito alberati
o sistemati ad aiuole fiorite o ad orto; essi non hanno grande larghezza (non
si superano di solito i 20 metri), ma sufficiente a mantenere una discreta
insolazione dei vari fabbricati che non sono troppo alti: non superano quasi
mai i cinque piani. […] Queste sistemazioni offrono varie possibilità di ben
giocate prospettive, di variati aspetti architettonici, di pittoreschi aggiustamenti spaziali; ma non sono certo le più felici ed encomiabili perché non
19
G. Samonà, La casa popolare degli anni ’30, a cura di M. Manieri Elia, Marsilio Editori, Padova 1973, p.
27.
9
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.16 Milano: progetto delle città satelliti,
quartiere I.Balbo
fig.17 Milano: progetto delle città satelliti, quartiere
A.Mussolini
permettono un buon orientamento di tutti gli alloggi, non possono evitare
larghe zone d’ombra, non si prestano a suddividere le abitazioni in elementi
costanti da ripetere in serie, non avendo i fabbricati forme e dimensioni costanti, ma legate alla natura geometrica della planimetria, e perciò variabili
caso per caso senza determinate regole.”20
Gli interventi realizzati a partire dal 1924, anno in cui si può far iniziare
l’attività dello IACP torinese sotto il regime, si dibattono tra impianti volti
all’autosufficienza anche formale, e pertanto essenzialmente orientati verso
lo spazio centripeto interno al lotto, o all’apertura verso l’intorno, con volumi semi aperti lungo il perimetro; queste diverse tendenze morfologiche
danno origine, le prime maggiormente, le seconde meno, a forme di disagio
abitativo che l’utenza sempre più allontanata dalla propria privacy domestica e sempre più richiamata al dovere-culto della collettività fascista, subiva.
Lo status sociale che la politica fascista vuole far emergere dai caratteri del
tessuto residenziale urbano è quello dell’affermazione piccolo borghese. Ma
la finalità di questa politica va ben oltre e l’attività degli Enti per l’abitazione
fu spesso solidale con essa.
Se in alcuni ambienti, principalmente quello milanese, ad opera dell’architetto Pagano, si discuteva sugli indirizzi di gestione pubblica dell’edilizia
popolare e sulle possibilità che una “nazionalizzazione” di una quota del
suolo urbano avrebbe potuto garantire all’azione pianificatoria in direzione
“collettiva” della città, l’orientamento politico generale era in realtà del tutto
opposto. Stava per paventarsi la prima richiesta di modifica della legislazione vigente volta a far cadere il vincolo di conservazione dei complessi abitativi in proprietà pubblica, attraverso l’alienazione del patrimonio e il riscatto degli stabili. È inutile sottolineare che la situazione storica e sociale non
avrebbe in alcun modo aiutato la popolazione operaia ad entrare in possesso
di una abitazione dignitosa, ma che il patrimonio residenziale fino a quel
momento costruito sarebbe passato in proprietà alle classi della piccola e
media borghesia. Con l’avvento pieno del Fascismo una linea politica molto
diversa finì col prevalere sulle soluzioni proposte da alcune figure di spicco
della cultura architettonica nazionale, rivolte appunto alla municipalizzazione e alla gestione collettiva dell’edilizia popolare, dirottando gran parte
degli investimenti verso il mercato delle abitazioni a riscatto. Castronovo
mette in evidenza che altri punti del programma politico erano “la graduale
abrogazione del blocco dei fitti e l’estensione ai privati costruttori di case popolari di quelle stesse agevolazioni già concesse nel primo dopoguerra agli
enti pubblici.”21 La rendita urbana e la speculazione privata riprendevano
così il sopravvento, anche alla luce di un accrescimento dei propri margini
d’azione dovuti all’inserimento nei direttivi degli Istituti per le Case Popolari di rappresentanti degli enti erogatori di prestiti e mutui. Contemporaneamente nel 1926 venivano bloccati i capitali per l’edilizia destinata alle
classi più umili, in favore di 100 milioni di lire di finanziamento statale per
l’attività costruttiva in favore delle classi sociali benestanti. I dati allarmanti
conseguenti a questo indirizzo normativo rivelano che nella città di Torino
su 1450 alloggi costruiti nel 1928, un numero di 33 era di tipo operaio, ben
1365 di tipo “civile” poi assegnati alla piccola e media borghesia e 43 di tipo
20
G. Samonà, La casa popolare degli anni ’30, cit. pp. 32-34.
21
V. Castronovo, Soggetti pubblici della crescita urbana: gli enti per l’edilizia popolare, 1900-1950, in
Archivio di Studi Urbani e Regionali, Torino 1975, p.159
10
Case e città nel Ventennio Fascista
signorile. A Milano su 22 nuovi quartieri costruiti, ben 13 erano destinati,
integralmente o in parte, al riscatto.22
Il quartiere urbano. Sperimentazioni e nuovi principi disciplinari
fig.18 Milano: progetto delle città satelliti, quartiere
G.Oberdan
L’Italia degli inizi del secolo scorso segue il dibattito culturale europeo un
po’ a distanza, e in alcuni casi anche in maniera non contestuale; tutta una
serie di congiunture, tra le quali il ventennio fascista e i due conflitti bellici,
fanno sì che il nostro paese rimanga in una posizione marginale rispetto allo
scenario europeo, dando poi avvio in maniera più ampia, con la fine della
guerra e l’inizio della ricostruzione edilizia, alla sperimentazione di processi
territoriali altrove già consolidati.
Al fine di tracciare un quadro maggiormente corretto anche dal punto di
vista storico è però il caso di analizzare quali siano state da un alto le conquiste della moderna disciplina urbanistica e architettonica e dall’altro le
sperimentazioni, in alcuni casi rimaste poi sulla carta, che le avanguardie
proposero e tentarono di mettere in atto.
I riferimenti principali degli esponenti italiani furono, senza ombra di dubbio, le realizzazioni di nuovi quartieri urbani avviati, in città grandi e piccole, dai paesi del centro e nord Europa (Scandinavia, Inghilterra, Belgio,
Olanda, Germania, Francia e Austria), esperienze che si concretizzarono
a seguito delle nuove teorie urbanistiche scaturite dai CIAM, i Congressi
Internazionali di Architettura Moderna.
Gli schemi proposti dall’urbanistica moderna mettono in luce l’importanza rivolta alla progettazione dello spazio aperto e alle sue relazioni con il
costruito. Come sostiene P. Di Biagi, all’interno di questi importanti avvenimenti che sono i congressi, non esiste, contrariamente a quanto si crede,
una predominanza della tematica dell’alloggio (minimo e razionale), perché
“si avvia in realtà un processo intellettuale e disciplinare a tappe, che lega
strettamente interno ed esterno, costruito e spazio aperto, domestico e urbano, individuale e collettivo, come elementi di una stessa unità: il principio
insediativo”23. Le proposte di miglioramento dello spazio abitabile avvengono con la formulazione di principi insediativi diversi rispetto a quelli della
città ottocentesca per arterie e isolati; la quantità, l’ampiezza e i diversi tipi di
spazio aperto sono il mezzo per frantumare la compattezza della città storica
e per dare forma alla città moderna, alle sue parti, ai suoi principi insediativi
e ai suoi tipi edilizi. I quartieri residenziali, in quanto unità di espansione e
decentramento, sono gli ambiti che forse meglio rappresentano l’intenzione
di attribuire una nuova forma alla città, complessificando, attraverso l’uso di
diversi tipi di spazi, costruiti e non, la composizione urbana.24
Per meglio comprendere questo processo si può far riferimento a uno dei
CIAM in particolare, quello tenutosi a Bruxelles nel 1930. In questa occasione viene sancito il principio che la città non può espandersi edificio dopo
edificio, ma deve crescere per raggruppamenti, per parti unitarie e omoge-
22
V. Castronovo, Soggetti pubblici della crescita urbana, cit.
23
P. Di Biagi, Lo spazio abitabile nei Congressi internazionali di architettura moderna, in Urbanistica n.
106, 1996.
24
P. Di Biagi, Lo spazio abitabile, cit.
11
Case e città nel Ventennio Fascista
fig.19 progetto Milano Verde
fig.20 progetto Milano Verde
nee, autonome e concluse, i quartieri appunto.
Se vogliamo trovare l’origine del concetto di quartiere quale parte urbana
autonoma dotata di omogeneità formale atta all’accrescimento della struttura della città, dobbiamo partire proprio dagli esperimenti tedeschi: la Berlino di Martin Wagner, la Francoforte di Ernest May, l’esempio di Grophius a
Karlsrhue25. Il caso di Berlino, fa notare Aldo Rossi, evidenzia proprio come
si partorisca un sistema insediativo esclusivamente residenziale in grado di
risolvere in forma coerente il problema della crescita della città. Wagner
contrappone dichiaratamente alla ideologia del decentramento di unità urbane distaccate e autosufficienti (le città satelliti) quella di una razionalizzazione e di una precisa caratterizzazione delle nuove parti della struttura urbana, da concepire come interventi unitari di grandi dimensioni fortemente
caratterizzati dalla presenza del verde26.
Dove si collochi il limite tra la città satellite e il quartiere non è di facile
identificazione, tutto si gioca sul fattore dell’autosufficienza. In altri termini
la città satellite si configura come una vera e propria città di nuova fondazione, morfologicamente e socialmente definita come unità urbana autonoma.
Essa deve consentire una vita sociale e lavorativa completa ai suoi abitanti;
una delle condizioni essenziali affinché ciò avvenga è il suo completo isolamento in termini fisici, ovvero l’esistenza di una fascia di campagna di dimensioni considerevoli al contorno che funga da elemento di vera e propria
separazione nei confronti della struttura urbana principale. Si deve quindi
in un certo qual senso far riferimento al più consolidato concetto di città
giardino.
Al contrario, il quartiere trova la sua ragion d’essere nel ruolo che assume
all’interno dell’organismo urbano, nel suo esserne una parte costitutiva essenziale e nel suo instaurare con essa legami funzionali e territoriali molto
stretti.
La cultura italiana, negli anni tardivi del suo apporto alle argomentazioni
europee, tende a precisare, e mi rifaccio in particolar modo alla figura di
Piero Bottoni, che questa idea di quartiere non è poi tanto lontana da quello
che è sempre stato il suo significato storico e il suo ruolo all’interno della città. Etimologicamente il termine quartiere viene fatto risalire al schema per
insulae del castrum romano, generato dall’incrocio di due assi ortogonali tra
loro e dunque alla suddivisione della città in quattro parti; il modello, che
deriva a sua volta dalla tradizione greca di lottizzazione della città, passa in
periodo romano anche negli schemi militari d’impianto dell’accampamento,
per poi ritornare all’uso corrente in ambito civile. Il termine del razionalismo tedesco più vicino a quello italiano di quartiere è siedlung, il cui aspetto
più interessante, come fa notare la docente napoletana Lilia Pagano27, è il
suo porsi non tanto come alternativa alla città, ma come soluzione radicalmente innovativa interna ai suoi stessi processi di crescita e in tal senso esso
si distacca profondamente dall’esperienza inglese della città giardino. Come
si diceva in precedenza dunque, le sperimentazioni di Berlino e Francoforte
sono i risultati tangibili di questa riflessione profonda e complessa che non
solo investe i problemi di espansione di alcune città specifiche ma, più in
generale, punta su una loro riformulazione globale. È all’interno di questa
25
P. Di Biagi, Lo spazio abitabile, cit
26
P. Di Biagi, Lo spazio abitabile, cit.
27
L. Pagano, Periferie di Napoli. La geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica, Electa, Napoli 2001
12
Case e città nel Ventennio Fascista
logica unitaria che la siedlung, ovvero l’accrescimento della struttura urbana
per parti autonome dotate di omogeneità formale, si afferma come principio
anche sociologico, costantemente presente nelle scelte progettuali tendenti
a fornire una risposta risolutiva alle necessità di ampliamento della città;
una sorta di schema generale che di volta in volta, secondo quanto previsto
dal disegno globale di piano, si esplicita in realizzazioni del tutto diverse tra
loro e in diverso rapporto con l’organizzazione urbana.
Le prime esperienze italiane in merito a queste argomentazioni vanno forse
ricercate, ancora in tempi totalitari, in ambito milanese; per l’ampliamento
della città di Milano vennero infatti proposti, secondo un ensamble organico
piuttosto consistente, schemi di nuovi quartieri di stampo razionalista progettati da gruppi numerosi di architetti fra cui spiccano i nomi di Albini, Gardella, Pagano, Bottoni, Griffino, ecc…. Ricordiamo in particolare i quartieri
Filzi, Ponti, D’Annunzio. In queste realizzazioni, parallelamente alla messa a
punto delle moderne organizzazioni dell’alloggio minimo, così come erano
andate configurandosi nei CIAM, è proprio la morfologia dell’aggregazione
edilizia l’aspetto più interessante. “L’organizzazione dei volumi sui lotti segue criteri rigidi e semplici: i singoli interventi sono composti interamente
di un unico tipo edilizio con piccole variazioni nell’altezza, nelle testate, nei
servizi comuni. L’orientamento nord-sud dell’asse maggiore delle fabbriche
e la loro equidistanza affermano un ordine solare, igienico e visivo, esaltato dalla costanza degli allineamenti, dai rifiuto dei cortili chiusi e quindi
dell’uniforme trattamento delle facciate”.28
Dalla visione attuale di questi insediamenti residenzialie degli schemi di progetto dell’epoca emergono criteri compositivi estremamente rigidi che sembrano imporre “un atteggiamento pedagogico molto esigente, pretendendo
dall’osservatore e dal fruitore dell’architettura non la distratta disponibilità
all’abbandono, ma uno sforzo intellettuale intenso. […] L’impatto di questi
piccoli insediamenti nella città è così forte da porla in crisi, proponendo
non tanto un nuovo modello per la città stessa, quanto piuttosto un nuovo
modello di organizzazione”29
Alcuni anni dopo, nel 1941, in seguito al continuo aumento della popolazione milanese, vengono messi in progetto altri quattro grossi insediamenti ai
quattro punti cardinali della città. Per la prima volta si parla di questi quartieri come le quattro città satelliti; progettate e dimensionate con il più rigoroso metodo razionalista, prevedono una densità massima di 250 abitanti
per ettaro e sono composte da tipologie edilizie differenti. La lottizzazione
di questi quartieri avrebbe dovuto in tal senso accompagnare la naturale
diminuizione di densità abitativa tra la città e la campagna con costruzioni
più o meno intensive. Nella parte del quartiere che confina con la città erano infatti posizionate le tipologie architettoniche maggiormente intensive,
case alte in linea, nella porzione di quartiere che invece si affaccia verso la
campagna (che si prevedeva rimanesse vincolata a verde dal PRG anche in
futuro) erano localizzate le costruzioni dal carattere semirurale, case basse
isolate o accorpate con orti e giardini; al centro del nucleo erano poi previste
tutte le attrezzature necessarie alla vita della comunità.
I principi insediativi di queste nuove oasi operaie diventano metodo nel pro-
28
B. Garzena, G. Salvestrini, Franco Albini e l’edilizia popolare: le prime esperienze, in La casa popolare
in Lombardia 1903-2003, a cura di R. Pugliese, Unicopli, Milano 2005, p.81.
29
B. Garzena, G. Salvestrini, Franco Albini e l’edilizia popolare, cit.
13
Case e città nel Ventennio Fascista
getto Milano verde redatto da Giuseppe Pagano; nella visione globale della
città collettiva la nuova periferia milanese doveva essere una corona di tanti
nuclei in cui regnassero equità sociale, ordine e rigore urbanistico, da cui
trasparisse che il destino della città era anche il destino della casa popolare.
Ma il metodo, potremmo anche dire l’utopia, si spinge oltre e arriva a ipotizzare la sostituzione dei quartieri malsani all’interno del centro storico. A tale
scopo Marescotti, Diatollevi e Pagano propongono il tessuto edilizio della
loro Città orizzontale per andare a sostituire quello estremamente denso,
affollato, carente di luce, aria e spazio libero del quartiere Garibaldi. Questa
proposta progettuale non vedeva la creazione di un tessuto edilizio progettato ad hoc, ma la sovrapposizione sulla area in oggetto, ritenuta libera da
ingombri a seguito di opportune demolizioni, di un tessuto edilizio modello,
ottenuto dall’accorpamento in microisolati di case a patio ad un solo piano
fuori terra e separate da viottoli pedonali e strade carrabili. Nell’ottica generale dei progettisti questo modello avrebbe potuto espandersi all’infinito,
sostituendo tutto il tessuto storico degradato e invivibile, indifferentemente
sia in ambito periferico sia in quello maggiormente centrale. Nulla di tutto
ciò venne mai realizzato nel centro storico di Milano, e a posteriori possiamo forse dire per nostra fortuna, non fosse altro che per lo stravolgimento
sociale, materiale e storico documentario che ne sarebbe derivato, ma è comunque indubbio che ne sia scaturito uno studio di portata storica, attento
e razionale, delle tipologie edilizie, delle densità insediative e infine delle
condizioni minime al di sotto delle quali non è materialmente possibile vivere in condizioni di salute e umana decenza30.
30
Si faccia riferimento al manuale di F.Marescotti, I problemi sociali, costruttivi ed economici dell’abitazione, Poligono, Milano 1948. In particolar modo agli studi di igiene e problemi sociali contenuti nello
stesso.
14