IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI PROTEZIONE E TRASGRESSIONE
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IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI PROTEZIONE E TRASGRESSIONE
Anno XXXVIII - n. 2 - marzo-aprile 2008 ISSN.: 0391-6154 In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Vicenza per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere la tassa di spedizione. Direzione: Via delle Grazie, 12 - 36100 Vicenza - tel. 0444 324394 - e-mail: [email protected] - Direttore responsabile: Giuseppe Dal Ferro Mensile registrato al Tribunale di Vicenza n. 253 in data 27-11-1969 - Reg. ROC 11423 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) - art. 1, comma 1 DCB Vicenza - Associato USPI - Stampa CTO/Vi - Abb. annuale 18,00 Euro; 2,60 Euro a copia IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI PROTEZIONE E TRASGRESSIONE Il risultato della ricerca 2008 sul costume, a cura delle Università adulti/anziani del Vicentino, e in particolare sull’abbigliamento. Il costume è ciò che caratterizza un popolo, in quanto raccoglie nei suoi ritmi quotidiani la totalità del comportamento. Non è la legge ma sono le espressioni simboliche della solidarietà e delle relazioni a costituire l’identità sociale, che poi diventa identità di ciascun membro. Nel costume rientra tutto, in quanto esso esprime la cultura e gli stili di vita, il modo di pensare e di relazionare, il cibo ed il vestito, la vita sociale e la vita religiosa. Il costume risente di tutti i fenomeni, che cambiano la vita, come il lavoro e l’istituzione, le condizioni economiche e i valori. Per questo le Università adulti/anziani del Vicentino, con le loro ventiquattro sedi e i 3.408 partecipanti, sono impegnate a raccogliere dalla memoria orale dei propri corsisti i cambiamenti avvenuti nel costume in questi anni tumultuosi, nei quali il progresso ha radicalmente cambiato la vita, offrendo beni un tempo impensati, ma anche ha sconvolto i ritmi della vita, il costume, i valori. Registrare il cambiamento è utile per fissare lo sviluppo storico ed anche per cogliere le radici di tale cambiamento, le quali non sono mai radicali, allo scopo di innestare l’oggi su alcune costanti del costume. In altre parole è individuare la linea della civiltà, che non viene meno con il cambiare degli stili di vita, ma si riesprime in forme nuove. La ricerca del 2008 si è concentrata su “Vestiti, abbigliamento e ornamenti”. Sono temi apparentemente frivoli, soggetti ai capricci della moda. Essi però, come osservano gli studiosi, spesso indicano i cambiamenti profondi della società e della storia. Il vestito è uno strumento di protezione, ma è anche il primo messaggio nella relazione, espressione di differenziazione sessuale e sociale, economica e di età. Nelle società del passato la distinzione rigida era fra aristocrazia e popolo; nelle società democratiche tali differenziazioni sembrano crollate, per dare spazio ad altre dettate dal mercato: le aristocrazie della ricchezza e della nobiltà perdono d’importanza e al loro posto si collocano i consumi, l’immagine, l’informazione e lo VESTITI E ORNAMENTI spettacolo. IERI E OGGI Dalla ricerca sul modo di ve- stire e di adornarsi di ieri e di oggi sono emersi i grandi mutamenti sociali avvenuti nelle ultime generazioni: da un sistema autoritario si è passati ad uno democratico; da un costume dai tratti omogenei si è giunti ad un pluralismo caratterizzato dalla soggettività; dal controllo sociale si è pervenuti alla piena emancipazione individuale. Il risultato è una maggiore libertà e responsabilizzazione di tutti, ma anche il diffondersi del senso di solitudine, di incomunicabilità, la perdita di identità. Le relazioni materiali si sono moltiplicate, ma sono aumentate le paure e le insicurezze, per cui nel rapporto con l’altro dominano la ricerca del potere sull’accoglienza, gli interessi personali su quelli collettivi, lo scontro sulla condivisione. I più però, che non sono aggressivi o non ricercano un protagonismo sociale, tentano di risolvere le loro incertezze attraverso l’omologazione, di cui si fa leader il mercato. I vestiti e gli ornamenti di oggi, rispetto a quelli di ieri, forse sono tutto ciò, anche se l’elemento più appariscente è il carattere trasgressivo rispetto al costume del passato. Vestito di lavoro e vestito “buono” Quando si parla di come ci si vestiva, si pensa subito agli abiti neri fino alle caviglie delle donne, protetti dai traverson e dai grembiuli a seconda delle attività svolte; si pensa al “vestito buono”, che trasformava in veri signori alla domenica e nelle feste anche le persone delle classi umili, con i colletti inamidati e l’immancabile gilet, caratterizzato dalla catena che fissava al vestito l’orologio a cipolla. Un certo rigore distingueva gli abiti quotidiani di lavoro da quelli di festa, che dovevano durare a lungo e che venivano riposti alla sera della domenica nell’armaron. Nei campi tutto andava bene. Il requisito principale dei vestiti era che durassero a lungo. Erano vecchi pantaloni prevalentemente di fustagno, velluto o feltro, con toppe vistose, frutto del paziente lavoro delle donne di casa, fatte a regola d’arte. Spesso erano legati in vita con un sogato, fatto attorcigliando fili di paglia. Le camice erano di canapa o di fustagno, a quadri, senza colletto. Gli uomini portavano solitamente al collo un fazzoletto a colori vivaci, il quale nel periodo estivo aveva la funzione di proteggere dalla polvere e di detergere il sudore. Per la domenica però e per il mercato c’era il “vestito buono”, perché a messa e all’osteria si incontravano gli amici. D’inverno non mancava il tabaro, il cappello di feltro nero di varie fogge e per i più ricchi la bagolina. Erano indumenti che dovevano durare a lungo e che venivano all’occorrenza abilmente rivoltati per nascondere la stoffa consumata. Le camice erano acquistate già con i ricambi del colletto e dei polsini. Le donne proteggevano spesso il loro unico vestito con grandi grembiuli senza maniche, che smettevano a lavoro ultimato. Le traverse poi erano molte ed erano ancora più varie a seconda dei lavori. Sulle spalle portavano all’inverno uno scialle di lana per difendersi dal freddo. Ai piedi avevano i sopei, specie di ciabatte di stoffa, confezionate in casa. Nei campi usavano un grande cappello di paglia e maniche rigorosamente lunghe per proteggersi da una abbronzatura non gradita. Anche in casa era di uso servirsi di un grande fazzoletto annodato dietro la nuca. Per la donna non c’erano vestiti per la festa se non un grembiule più bello, le ciabatte di cuoio, uno scialle ad uncinetto ed il velo da mettere in testa per entrare in chiesa. In questo quadro di povertà, non mancavano le differenze sociali. Gli operai portavano il toni per il lavoro; i benestanti vestiti di stoffa, camice bianche con colletti inamidati, pol- sini con gemelli d’oro e cravatta. A distinguersi maggiormente erano le signore per una minore lunghezza delle sottane, per l’uso del tailleur impreziosito da una elegante spilla. Le signore si distinguevano a volte per l’uso di una stola di raso, di pizzo, di organza o di pelliccia. Non mancava infine un elegante singolare cappellino, con un velo cadente sul volto. Le ragazze si distinguevano dalle donne per i colori più vivaci dei vestiti, per le camicette talvolta finte, cioè formate solo dal petto e dal collo, per le gonne più corte anche se rigidamente sotto il ginocchio. Indossavano un vestito più accurato nelle feste e anche quando andavano a portare il latte al caseificio, perché era facile incontrare qualche corteggiatore. Per i più giovani i vestiti passavano, con i necessari adattamenti, da fratello a fratello. La confezione dei vestiti era normalmente fatta in casa. La mamma aveva il dovere di tramandare alle figlie l’arte del cucito e del taglio delle stoffe. Nei grembiuloni delle donne c’era sempre in tasca una forbice, ago e filo per ogni evenienza. In alcuni casi si partiva dalla filatura, quando in casa c’erano pecore, conigli e bachi da seta. Allora il ciclo era completo: filatura, tessitura e confezione dei vestiti. A ciò si aggiungevano le maglie, risultato dei ferri da maglia usati nelle serate specialmente invernali. I più ricchi andavano invece nelle sartorie, oppure si affidavano alla sarta che periodicamente trascorreva qualche giorno nelle loro case. Dall’insieme della ricerca emerge come la povertà portasse a riservare alle feste, al mercato e alle domeniche il “vestito buono”, che rappresentava la vita di relazione e quindi obbediva alle esigenze sociali, mentre per il lavoro il vestito era protezione dal freddo, espressione della propria riservatezza, difesa del pudore. GIUSEPPE DAL FERRO Pag. 2 REZZARA NOTIZIE LA RIVOLUZIONE ANNI ’60 E ’70 LEGATA AD ESKIMO E BLUE-JEANS Negli anni ’60 e ’70 il benessere si diffonde, la donna va a lavorare in fabbrica, i giovani si differenziano dai loro padri con l’eskimo e i blue-jeans, le ragazze intraprendono quel percorso di emancipazione sessuale che porta all’uso della minigonna. Le mamme stesse abbandonano le traverse e i grembiuloni, accorciano i vestiti e scelgono stoffe di colori vivaci. Solo le nonne mantengono fedeltà al costume antico. Le calze diventano trasparenti dapprima e poi vengono dimesse in estate, le maniche si accorciano o scompaiono. Un certo rigore all’inizio è conservato per andare in chiesa. La moda incomincia a dettare i suoi canoni: diventa sempre meno classica, più pratica ed informale. Il cappotto è sostituito dal giaccone in materiale impermeabile, il tailleur lascia il posto a completi spezzati, a pantaloni, gonne, giacche di varia foggia. Per gli uomini spesso il completo tradizionale viene meno. La camice sono sfiancate, le cravatte con il nodo grosso e le giacche strettissime con dei colli enormi. L’emancipazione femminile è caratterizzata dalla maggior disponibilità economica e la moda, propagandata alla televisione, moltiplica negli armadi il numero degli abiti, utilizzati poche volte e poi abbandonati. Le gonne delle più giovani sono sopra il ginocchio, i colori vivaci, contrastanti e a volte provocatori. La figura di donna proposta è alta, magra, con le gambe lunghe e nude. Porta capelli alla maschietto e veste una tunichetta cortissima. Tra i maschi si diffondono i jeans senza tasche, così da richiedere il borsello. Anche l’uomo maturo comincia a frequentare i luoghi pubblici senza giacca o con giubbetti o giacconi. Le giovani negli anni ’70 adottano spesso pantaloni lunghi o corti, stivali alti, collant di nylon, camicette trasparenti e aderenti piuttosto scollate, golfini ridotti. Scompare il lavoro di sartoria domestica e professionale: tutto si trova già confezionato nei negozi dove si può scegliere, a prezzi vari; sono possibili acquisti anche per posta attraverso i cataloghi “Vestro” e “Postalmarket”. Scompaiono le tradizionali differenziazioni sociali, che si spostano sui capi firmati o non; si afferma fra i giovani la moda unisex e non si nota più la demarcazione città-campagna. Le ragazze non cercano abiti costosi preferendo cambiare spesso; la differenza tra giorni feriali e di festa scompare. Il vestito diventa sempre più espressione della sog- gettività e del gusto momentaneo, sempre meno strumento di comunicazione e di relazione. L’influenza televisiva è evidente se consideriamo il peso delle “veline” sulle giovanissime e la ricerca della trasgressione che si manifesta nei jeans strappati, nel farsi notare a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo: minigonne mozzafiato, tacchi altissimi, calze nere, top striminziti che aumentano l’esposizione della pelle. Dall’insieme della ricerca appare chiaramente come il vestito non esprima più la persona, ma costruisca un’immagine stereotipata di quello che la società vuole, nella quale uno vuole affermarsi, colpire, sedurre. Si delinea pertanto per le persone una mancanza di libertà dati i condizionamenti che finiscono per ripercuotersi sull’immagine fisica e sul mondo interiore dell’individuo stesso. Gli indumenti intimi, riservati Gli indumenti intimi erano qualche cosa di riservato, finalizzati all’igiene e alla protezione della persona dal caldo e dal freddo. Tutto l’intimo era comunque oggetto da occultare. Confezionati in casa, erano lavati frequentemente e non si potevano neppure stendere ad asciugare, perché non era decoroso; si cercavano allora luoghi riservati fra le viti nella piantà, affinché fossero nascosti agli occhi indiscreti. Oggi gran parte di essi sono scomparsi e i rimasti non raramente sono ostentati e integrati con il vestito. Per l’uomo questi indumenti erano pochi: canottiera e mutande di tela legate sotto il polpaccio, mutandoni lunghi di lana e maglia (flanea) o di bombasina con le maniche lunghe d’inverno. In alternativa alla maglia poteva esserci un panciotto, sempre di lana. Qualcuno ricorda le fasce di cotone ai piedi al posto delle calze. Era consuetudine, per chi poteva permetterselo, l’uso della maglietta della salute di lana grezza o di cotone. Dopo la guerra appare il “felpato”, che era un cotone rigenerato e riciclato. Si usò anche il fustagno per i pigiami e le camice da notte invernali, spesso a righe larghe in rilievo azzurro, grigio, marrone, nocciola o celestino. Il felpato più volte lavato si irrigidiva e diventava scomodo nell’uso. I capi essenziali erano pochi e dovevano durare a lungo ai molti lavaggi. Solo le stagioni alternavano i tipi diversi di vestiario intimo. Più complessi erano gli indumenti intimi delle donne: una camicia di lino o di canapa lunga fino al ginocchio e abbottonata sulla schiena, senza maniche o con le mezze maniche. Non c’era il reggipetto e, al suo posto, sopra la camicia si indossava la “bustina” che, nelle donne adulte, sostituiva la parte superiore della sottoveste, mentre la parte inferiore costituiva la sotocòtola. Le mutande, non sempre usate, giungevano fino al ginocchio, ricamate con il pizzo all’orlo e confezionate in casa. Erano cucite davanti alla vita e aperte nel mezzo. La sottoveste, indumento d’obbligo, poteva avere le spalline strette con due giri di lavoro ad uncinetto, eseguiti con filo da ricamo; oppure poteva avere le spalline larghe, la scollatura rotonda, con sul petto un prezioso ricamo punto Venezia. Le donne di campagna preparavano da sole la loro biancheria intima e quella degli uomini di casa, sia per l’estate che per l’inverno. Con la tela di cotone realizzavano mutande, bustini, sottovesti, camice da notte, e sferruzzando con la lana confezionavano gli indumenti a maglia. Si ricorda come nell’immediato dopoguerra alcuni siano riusciti a recuperare la tela di un paracadute inglese precipitato ed abbiano confezionato con la tela bellissimi indumenti. I ricchi ovviamente potevano disporre di altri indumenti. Le donne portavano corsetti o bustini, ELEGANZA SENZA SPRECHI L’eleganza appartiene al decoro della persona e alla relazione sociale. È quindi connaturale all’uomo ed in particolare alla donna. Anche nella vita semplice, con mezzi poveri, si possono notare alcuni segni di buon gusto, concentrati nelle domeniche, nei giorni di festa e al mercato. Le donne non avevano soldi per il proprio abbigliamento. Usavano noni in casa, sopei di vario tipo e le sgalmare o le sòcole, fatte con suole di legno, che venivano rinforzate con suole di gomma dei copertoni da bicicletta od anche con pezzi di lamiera della conserva Mutti con chiodi a testa larga per assicurarne la durata. Le scarpe di cuoio erano un lusso, ma non mancavano. Alcune ragazze ricordano che quando arrivavano vicino alla piazza per la messa festiva con gli zoccoli, li cambiavano velocemente con le scarpe da festa per andare a messa, li rimettevano per il ritorno a casa. Erano scarpe talvolta troppo abbondanti, talaltra troppo strette e corte perché la misura doveva essere quella media per durare nel tempo. Sgalmare e scarpe erano ripulite per bene dopo l’uso, mentre per ammorbidire il cuoio si usava la coessa del mascio. In una economia nella quale nulla era sprecato, se il vecchio cane moriva, si conciava la pelle per farne scarpe o sandali, e con la pelle dei conigli si realizzavano delle calde manopole da applicare al manubrio della bicicletta. L’eleganza si completava con uno scialle speciale lavorato a maglia a triangolo con frange di lana attorcigliata. In aggiunta qualcuna aveva el siarpòn avvolto intorno al collo o il foulard opportunamente accostato al vestito. A ciò si aggiungeva la borsetta da festa, talora in comproprietà, con la chiusura a borsellino, che sostituiva per un giorno la sporta in paglia di tutti i giorni. Le signore si distinguevano per il cappella dalla tesa larga, ornato di penne di pavone o fagiano e la veletta spiovente sul volto, per i guanti lunghi di filo traforati in estate e di pelle d’inverno. I loro cappotti erano guarniti con colli di pelliccia. A tale proposito si ricorda il collo di volpe, molto ambito dalle signore che potevano permetterselo, il quale conservava le zampette, la coda ed anche la testa assunta a fermaglio. Alcuni elementi distintivi erano le scarpe con il tacco, il ventaglio e la collezione di (continua a pag. 8) ventriere per avere un “vitino da vespa” e sottovesti pregiate di seta o di raso. Per le calze avevano reggicalze, mentre la gente del popolo si accontentava di un elastico a occhielli con un bottone. Per loro gli indumenti intimi erano confortevoli e raffinati, composti di tela finissima (pèle de òvo), ricamata a mano “da giorno”, perché indossata di giorno e cambiata con una più semplice alla notte. Era in uso da parte delle signore anche il reggiseno di tela, spesso fatto ad uncinetto. Non era infrequente per le persone abbienti l’uso di sottogonne rigide (anche fino a sette!) per meglio valorizzare il vestito e rendere più vaporosa la gonna. Il busto con le stecche di balena, i mutandoni e le giarrettiere, che segavano le gambe, erano elementi di guscio e di corazza; tutte queste legature strette, quei nodi e quei bottoni creavano schiavitù, impaccio, impossibilità a camminare speditamente. Alcuni ricordano di una contessa che portava sotto le sottane lunghe e larghe una sottogonna con il cerchio. C’era d’altra parte il detto: “Se la puta la vol comparire la ga da sofrire”. Gli uomini ricchi indossavano mutande e magliette di lana e cotone con filati pregiati, sempre di colore bianco e di forma più anatomica e confortevole. Giarrettiere particolari erano usate per sostenere i calzettoni che si prolungavano al polpaccio. Negli anni ’60 e ’70 si diffondono gli slip e le canottiere e nel giro di qualche anno scompaiono gradatamente tutti i capi descritti precedentemente, a cominciare dai giovani. Crolla la distinzione fra indumenti intimi e vestiti. Camicette, magliette non sono più inserite nei pantaloni ma lasciate pendere all’esterno. Scompare la sottoveste, la camicia è costituita dalla maglietta o dal semplice reggiseno, i mutandoni diventano microscopici slip. L’antica biancheria intima è fatta di cotone, seta, fibre sintetiche o vegetali. Le antiche camice da notte sono sostituite per l’uomo e per la donna dal pigiama. Grande influenza nel tramonto degli indumenti antichi ha avuto il diffondersi dei pantaloni fra le donne e l’emancipazione femminile che si è liberata da ogni ingombro precedente ed ha ridotto all’essenziale la biancheria intima. Gli indumenti antichi perdurano soltanto in alcune persone mature, più in funzione estetica che igienica. (GDF) REZZARA NOTIZIE Pag. 3 L’ABBRONZATURA DAI CAMPI TRASLOCA OGGI AL SOLARIUM Il desiderio di apparire, di essere ammirata, nella donna c’è sempre stato, fa parte della sua natura, è una connotazione femminile. In particolare sono da sempre stati i capelli oggetto particolare di cura. Tutti ricordiamo i bigodini in testa, con “messa in piega” fatta in casa, da se stesse o con l’aiuto di qualche abile amica. Succedeva che alcune donne di campagna, per cultura o forse per apparire più serie, cessavano di avere ambizione per la propria figura. I capelli, tenuti sempre lunghissimi, venivano pettinati all’indietro, se ne formava una treccia che poi veniva arrotolata sulla nuca e fissata con forcine di osso o tartaruga ricurve e piccoli pettini ricurvi. I capelli venivano lavati due volte all’anno e pettinati con la petenela ogni settimana, la quale raschiava lo sporco dei capelli e del cuoio capelluto. Le ragazze escogitavano diverse maniere per pettinarsi, pur non uscendo dalle regole generali delle trecce. Una corsista ricorda di essere stata picchiata dal padre per essersi tagliata i capelli a 18 anni. Per il lavaggio si usava l’acqua di filtraggio che veniva versata bollente sulla cenere e poi si risciacquavano con acqua e aceto, oppure con acqua e camomilla. Le tinture erano poco usate ed erano a base di erbe: si usavano le nogare per i capelli neri e l’ortigara per i biondi. Per coprire i primi fili bianchi si passava su di essi con un tappo di sughero bruciato oppure si utilizzava l’olio di noce. Negli anni ’30, dopo aver lavata la testa, si scaldava l’arricciacapelli con l’alcool e poi si facevano le onde in alto sulla testa, mentre sotto le orecchie, con carte speciali, si facevano i ricci, i boccoli. Il trucco e gli ori Il trucco si limitava a sbiancare il volto abbronzato dai lavori in campagna con la cipria o il borotalco. Prima degli anni ’60 le donne, per dare un po’ di tono a labbra e guance, usavano carta crespa rosata che inumidita perdeva il colore, mentre per le sopracciglia si usava il carbone della stufa o del focolare e per il fondotinta l’argilla fatta prima essiccare. La donna borghese si lavava invece con acqua e sapone Palmolive, raccoglieva i capelli con forcine di osso, li schiariva con l’henné, la camomilla o l’acqua ossigenata; usava olio d’oliva e creme per ammorbidire la pelle del viso, cipria di terra rossa, profumi, rossetto e smalto per le unghie. Gli ornamenti per le donne contadine andavano dagli oggetti di ausilio per la pettinatura alle collane di finte perle, alle bucole, a vistose collane d’oro variamente lavorato ricevute in eredità, alla collanina d’oro con medaglietta della Madonna ricevuta dalla madrina di battesimo, a qualche spilla. Gli “ori” posseduti venivano portati raramente, in quanto erano considerati un capitale da tramandare o da impegnare in caso di bisogno. Le ragazzine si accontentavano di portare alle dita anelli in filo metallico, con una sottile lastra centrale decorata. Le donne abbienti indossavano invece gioielli autentici e vistosi. Gli uomini si distinguevano per i baffi, i capelli corti all’umberta e le basette. Molti si arrangiavano in casa; c’erano anche barbieri ambulanti che offrivano servizi decentrati a cifre modiche. Ai capelli si univa la barba, tagliata non tutti i giorni con un rasoio affilato sulla curamella, striscia di cuoio appesa vicino allo specchio. Il sapone dopo la rasatura era depositato in carta di giornale. Una o due volte al mese si andava dal barbiere, che alla fine d’anno regalava il calendarietto profumato. I baffi da alcuni erano curati in forma maniacale. Altri elementi di prestigio erano la pipa, i portafogli piccoli per molti e a fisarmonica per i facoltosi, l’orologio di marca svizzera e francese di cui ci si divertiva di mostrare il meccanismo aprendolo sul retro. Qualcuno portava l’orecin nell’orecchio sinistro e la bagolina, bastoncino da passeggio. Chi usava il tabacco da naso lo offriva con cordialità e nella tasca aveva fazzolettini colorati gialli o rossi adatti allo scopo. Il portamonete (el “tacuin”) in cuoio, fatto in casa e cucito con lo spago, era custodito nelle tasche dei pantaloni. Con il benessere e con la contestazione giovanile cambiano tutti gli schemi di riferimento della cura e della valorizzazione della persona. La figura del barbiere e del parrucchiere diventano centrali e a queste si aggiungono centri di estetica, solarium, chirurgie estetiche. Sempre più persone (giovani e meno giovani) ricorrono a specialisti della pelle, dei capelli, delle labbra, del seno. Gli interventi estetici (lifting) per correg- gere alcune imperfezioni sono all’ordine del giorno. Un grande mercato coinvolge la gran parte delle persone, dato che l’apparire è diventato una meta da raggiungere a tutti i costi, una ricerca quasi maniacale. Si è passati da un’immagine genuina della donna ad una artefatta, spesso con conseguenze deleterie. I più giovani, uomini e donne, si tingono i capelli con qualsiasi colore e ricercano tagli stranissimi. Alla frequentazione delle palestre si Al posto del chirurgo estetico c’erano creme casalinghe ed olio d’oliva. La civiltà dell’essere e quella dell’apparire. aggiunge l’uso di anabolizzanti. La cosmesi si è molto sviluppata per la donna e per l’uomo: creme per la cura della pelle, ciprie, ombretti, fondotinta, creme coloranti, rossetti, matite per allungare le ciglia o per ciglia finte, unghie finte. L’abbronzatura è diventata d’obbligo per dimostrare di essere reduce sempre da vacanze. A tutto ciò si uniscono tatuaggi e piercing. Gli ornamenti pure obbediscono all’apparenza, per cui la bigiotteria di vetro, plastica, ceramica, legno, pietre, conchiglie o metallo spes- so è preferita ai gioielli veri. Il trucco è diffuso anche nei maschi che fanno la ceretta e curano il proprio corpo con maschere. Gli stessi occhiali da vista sono sostituiti dalle lenti a contatto, mentre si moltiplicano vistosi occhiali da sole griffati. Purtroppo, osserva qualcuno, il cervello è usato sempre meno. La cultura di massa è semplificata al massimo, solo la ricchezza e la voglia di apparire con i modelli proposti dai media fa presa e notizia tra i giovani. Al primo posto della scala dei valori troviamo il “successo, il piacere, il denaro”. I valori più apprezzati sono per molti la vanità e l’ostentazione, il culto della persona inteso come giovani in forma, il successo e la ricchezza, il piacere come misura. Essere o apparire? L’abbigliamento come mezzo per ottenere la considerazione degli altri, soprattutto di chi aveva autorità, è una abitudine antica: “Vestive ben, savìo, quando ve in comune, se no, noi ve bada gnanca, se i vede che si poareti”. I ragazzi, per farsi vedere emancipati dalle ragazze, anche una volta si facevano trovare con la sigaretta in mano e le ragazze si addobbavano con ornamenti costruiti con le loro mani per destare attenzione. La ricerca tuttavia di un certo prestigio sociale si accompagnava con la volontà di migliorare e di emergere dalla povertà che opprimeva. La borghesia e i ricchi cercavano prestigio e potere, mentre il popolo curava un abbigliamento essenziale, senza esibirlo troppo e così acquistavano più sicurezza in sé nelle relazioni con gli altri. Le ragazze si facevano belle per il moroso: da sposate poi diventavano mogli e madri, quindi semplici ed essenziali nel vestire e nell’apparire, come modello per i figli e per risparmiare. L’abbigliamento per i giovani era spesso ispirato al passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Oggi l’emancipazione, in sé positiva, è dominata dalla trasgressione, dall’esibizionismo. I modelli imitati sono i personaggi dello spettacolo, proprio perché incarnano un modello di vita disimpegnato, riversato sul successo a buon mercato. Fare carriera sembra ora possibile solo adeguandosi alla società che appare, vale a dire all’aspetto esteriore, curando l’immagine, la parlantina, la procacità. In primo piano emerge la fisicità, la corporeità, l’esibizione del corpo. Nell’attenzione dell’uomo e della donna assumono rilievo le palestre, i centri estetici, i centri benessere, i parrucchieri, i chirurghi estetici. Una certa tendenza alla seduzione c’è sempre stata. Ciò che oggi emerge prepotente è piuttosto l’invadenza e la tendenza ad esaltare il proprio io. Spesso le madri vestono come le proprie figlie pur di rimanere giovani, forse per la paura di invecchiare e per essere “alla moda”, per non essere escluse dal gruppo, per acquisire un certo prestigio e una certa accettazione da parte della società. L’eccessiva attenzione alla propria immagine è presente nei ragazzi e ragazze e li induce a seguire le proposte presentate del mercato della forma perfetta, al cui miraggio sacrificano tempo, energie, quattrini e a volte la salute (anoressia). Dalla ricerca emerge una forte preoccupazione oggi per l’apparire, la quale, anziché rafforzare la personalità e maturare l’individuo, diventa fonte di paura e di inquietudine per l’insicurezza di non riuscire nell’intento. In passato il vestito era invece espressione di quello che si era, strumento di relazione, capace di comunicare il meglio di sé. Diveniva strumento perciò di crescita personale. (GDF) Pag. 4 REZZARA NOTIZIE testimoni del cambiamento NELLA STALLA UN LABORATORIO PER LE MAGLIE E PER LA DOTE Bassano del Grappa - L’abbigliamento delle filandiere (donne, la cui età variava, generalmente, dai nove ai sessant’anni e che per quei tempi avevano “la fortuna” di lavorare in una filanda) era sicuramente grezzo e si completava con zoccoli e ciabatte. L’immagine che affiora maggiormente alla mia mente è quella di una bambina che spesso entrava in una stanza “magica”, dove il colore regnava sovrano: “stoffe colorate (a disegni, a quadri, a righe, in fantasia, a pois) di lana, di piquet, di tela,di organza, di seta, fodere, interni per i colli, canevine, bottoni di tutti i colori e di tutte le fogge, di pasta, di madreperla, di tessuto, a due o a quattro buchi, tondi, quadrati o gioiello…”. Ricorda che c’erano: “aghi a non finire, di varie grossezza, a seconda dei tessuti ed erano numerati, un manichino, utile alla zia per la ‘prima prova’, un mini spogliatoio munito di specchio a figura intera, dove venivano introdotte le clienti e dove era tutto un affannarsi ad accorciare, allungare e, operazione piuttosto difficile, ad imbastire le maniche. Le sembra ancora di sentire signore che dicevano: ‘ho l’idea che tiri sul dietro’ oppure ‘tira sul davanti’…”. Tutto era fatto rigorosamente a mano: dalle imbastiture agli occhielli con i fili di seta, ai sorafili ai sottopunti e, se la stoffa era pregiata, come seta, organza, chiffon o bisso i punti dovevano essere così piccoli da diventare invisibili e gli orli erano finiti in un modo speciale che la zia definiva a cordonsin. Importante era anche il ferro da stiro che serviva per dare forma al vestito e per la stiratura finale. Esso veniva alimentato, in un primo momento, a carbonella ed era molto pesante; aveva ai lati delle finestrelle per tenere vivo il fuoco, un manico di legno e la sua struttura era in ghisa con una piastra liscia. La stiratura nelle varie fasi, come l’aver preso le misure al cliente, erano prerogativa del titolare; egli, fino verso gli anni ’30 e fino a quando non si utilizzarono i sofisticati ferri elettrici, trascurava anche la salute a causa dell’anidride carbonica che la carbonella emanava. Particolare attenzione bisognava avere per le finiture, lasciate alle lavoranti più esperte, in particolare per le asole o gli occhielli; infatti era necessaria una certa abilità per un lavoro dalle cuciture fitte, di piccole dimensioni, avere buon occhio, velocità e pazienza, fin tanto che, subito dopo la seconda guerra mondiale, non fu inventata una macchina apposita che faceva le asole. Il lavoro principale consisteva nella confezione di vestiti da uomo con giacca, calzoni e gilè, anche se quest’ultimo capo veniva via via sempre meno richiesto e dagli anni a partire dal 1935 solo in casi speciali o per vestiti importanti. Per confezionare un vestito erano necessari, per taglie normali, circa tre metri lineari di tessuto alto cm. 130, più le fodere in satin, tessuto di cotone che serviva per gli interni e le tasche; inoltre un tessuto rigido (canevin) e due spalline di ovatta per dare forma alla giacca. Per confezionare un abito completo erano necessarie 30-35 ore di lavoro. Arzignano - Della travèrsa esistevano più versioni: quella usata quotidianamente, resistente, tessuta in canapa o in cotone, sempre scura e lunga quanto la còtola, di cui ricopriva tutta la parte anteriore; quella per “impastare”, che si usava solo per fare la pasta o i dolci, ed era di colore bianco; quella, infine, con semplice funzione ornamentale che oltre ad essere di colori vivaci e ricamà, era anche molto più piccola. Le grandi dimensioni che caratterizzavano la travèrsa erano prevalentemente di ordine pratico; infatti, impediva che la gonna si sporcasse durante il lavoro domestico o quello in campagna. Essa serviva anche da ciapìn (presina) per non scottarsi le mani quando si dovevano togliere le pentole dal fuoco ed, inoltre, alzandone i lembi, diventava un comodo recipiente per il becchime da distribuire ai polli o per portare a casa alcuni prodotti della terra, quali le pannocchie, la frutta o altro. Espressioni come “Na gaià de pisacàn” oppure “na gaià de pumi” fanno ben comprendere questa particolare funzione attribuita al grembiule. Queste, di solito, venivano decorate, in fondo, con cape ed erano di vario colore: bianche, rosse, verdi, turchine. Asiago - Prima degli anni ’60, la donna vestiva generalmente in maniera molto sobria, pur senza rinunciare ad una certa eleganza nelle occasioni e nelle circostanze più importanti. La sobrietà si evidenziava soprattutto nella lunghezza delle gonne, le quali arrivavano fin sotto al ginocchio o a metà polpaccio, ma anche nelle scollature, che erano a V e di dimensioni ridotte, e nel fatto che nelle camicie e negli abiti erano sempre presenti le maniche, che potevano essere lunghe e corte, a seconda della stagione. Il tipo di lavoro svolto si rifletteva sull’abbigliamento: i boscaioli indossavano pantaloni alla zuava, con calzettoni e scarponi, camicie di flanella, prevalentemente con disegni scozzesi, e maglioni fatti in casa; i contadini indossavano abiti vecchi, pantaloni di velluto spesso con toppe e strappi, “risparmiando” quelli nuovi, che venivano utilizzati per andare al mercato o nei giorni di festa; gli operai e gli artigiani indossavano delle tute da lavoro, prevalentemente di colore blu: in genere gli abiti da lavoro erano chiamati toni (non si sa bene per quale ragione), un termine che indicava prevalentemente dei pantaloni larghi, con pettorina e bretelle; gli impiegati erano riconoscibili perché portavano (per loro era un obbligo, quasi una divisa o un segno do riconoscimento) giacca e cravatta. Sempre nell’ambito del lavoro, qualcuno ricorda un particolare significativo: gli emigranti stagionali partivano con una valigia nella quale avevano riposto esclusivamente abiti da lavoro, quasi a sottolineare una prospettiva che non prevedeva giorni di festa. Il mercato rappresentava per gli uomini, in particolare per i contadini, un momento significativo durante il quale si concludevano affari importanti, spesso sulla parola e suggellati con una semplice stretta di mano: per andare al mercato gli uomini potevano indossare sia gli abiti della festa, sia quelli di tutti i giorni, ma lavati e stirati. Carmignano di Brenta C’erano i vestiti abituali da portare ogni giorno a lavoro e in fabbrica o nei campi e il cosiddetto vestito per la festa, la domenica o per le ricorrenze speciali. In casa le donne di solito indossavano gonne piuttosto lunghe a coprire le caviglie e con colori piuttosto scuri, nero, marrone, blu o grigio. Adoperavano grembiuli di cotone grezzo e delle sottovesti lunghe. D’inverno indossavano maglie di flanella spessa di lana. Tutti si coprivano molto perché il riscaldamento era poco. Le donne che lavoravano nelle stalle naturalmente dovevano indossare vestiti adatti, dismessi, che si toglievano a lavoro ultimato. Le fibre sintetiche non esistevano ancora ed il materiale dei vestiti invernali era quasi sempre in lana, bianca o nera che veniva mescolata per non far vedere lo sporco. Come guardaroba c’erano in uso le cassepanche dove si custodivano corredi ricamati dalle donne e dalle spose. Da ricordare anche che spesso i vestiti venivano colorati in modo naturale quando erano troppo consunti. Anche l’uomo durante le feste se ne aveva la possibilità indossava abiti più eleganti: camicia bianca per il matrimonio o per andare in chiesa. I più giovani borghesi usavano anche pantaloni alla zuava, larghi e corti fino al ginocchio. Poi calzettoni di lana in inverno e in cotone d’estate o “filo di scozia”, più pregiato in estate. Marostica - Meritano di essere ricordate le divise dei soldati di inizio secolo. Erano molto severe: una stretta e lunga giacca, di ruvido tessuto, di un particolare color verde, detto appunto “verde militare”, con un’abbottonatura che saliva fino a raggiungere il collo. Il colletto era costituito da una piccola fascia, su cui, di solito, spiccavano le stellette. I calzoni, abbastanza diritti, finivano infilati in un paio di solidi stivali allacciati sul davanti da cordoni trattenuti da una serie di asole. Breganze - I vestiti venivano confezionati in casa. Le stalle d’inverno diventavano un laboratorio: si lavorava a maglia, si confezionavano golfini, magliette, maglioni, berretti, guanti. Le donne più anziane ed esperte con la molinella filavano la lana, la canapa, il lino che poi sarebbero serviti per i capi di vestiario e la dote. Molte donne erano anche esperte di taglio e cucito e confezionavano in casa sia i vestiti da giorno da lavoro che per la festa. Per le novelle spose appena entrate in famiglia spesso la suocera usava preparare indumenti da rattoppare o confezionare, come prima prova di abilità domestica. Le donne di città vestivano in modo sobrio ma elegante, con vestiti in raso di seta, tutti più o meno ricamati, cappellino con veletta, guanti in rete per l’estate, in pelle per l’inverno, borse abbinate. Le donne di campagna avevano un vestito più povero ma sempre in ordine. Il tabarro è un po’ il simbolo degli indumenti contadini dell’epoca. Veniva tagliato a giro in stoffa pesante. Servivano due metri e mezzo di stoffa e chi ha fatto la sarta, ricorda che per tagliarlo metteva la stoffa per terra in cucina perché il giro del tabarro era molto grande. Thiene - Le donne più giovani indossavano abiti dai colori chiari, o a fantasia; il corpetto è di linea aderente, con abbottonatura nel davanti o nel dietro, con bottoni di osso o di stoffa, le maniche sono di varia lunghezza, si va dal giro manica al tre quarti che copriva appena il gomito, le gonne alte “due spanne” da terra, avevano la linea ampia, erano arricciate in vita, con faldoni, plissettate o con più pieghe, una cintura accentuava il punto vita e l’elegante sporgenza dei seni. Sotto tutti gli abiti si nota la presenza di “sottogonne”, che sostenevano la linea svasata del fondo. REZZARA NOTIZIE Pag. 5 testimoni del cambiamento LA VITTORIA DELLA COMODITÀ NASCONO IL CORTO E LA TUTA Arzignano - Il modo tradizionale di vestirsi non era molto apprezzato dalle più giovani. Per quanto riguarda il corpèto o blusa, infatti, esso subì considerevoli trasformazioni nel guardaroba delle più giovani. Faceva parte, prevalentemente, dell’abbigliamento estivo e si portava con la sottana corta, scampanata e trattenuta da una cintura.Poteva essere cucito in diverse fogge, a seconda dell’estro e del gusto di chi lo portava, ma, soprattutto, era molto colorato e con molteplici fantasie. Costabissara - Dopo la guerra, verso la fine degli anni Cinquanta, arrivarono le calze di nylon con la riga dietro, da indossare con i guanti per non romperle, e dovevano durare una stagione. tante per l’uomo, oltre al jeans, fu la tuta, il vestito sportivo, che poteva indossare sempre, in ogni circostanza, ma preferibilmente in casa o quando voleva mettersi in libertà. Caldogno - Oggi esistono ancora le classi sociali, ma non ci sono fratture profon- Creazzo - Gli anni del benessere economico sono dominati dalla moda, che pro- Vicenza - Lentamente si chiudono le varie sartorie e si aprono negozi che offrono alla clientela vestiti confezionati, il prêt-a-porter, che fanno conoscere la case di moda più prestigiose al di fuori delle grandi città assieme a riviste come “Grazia” e “Rakan” che propongono nuove idee e fantasie: le gonne si accorciano tanto che nasce la minigonna. Torri di Quartesolo - Per quanto riguarda le giovani, in questo periodo si afferma incontrastato il fenomeno Mery Quant che dominerà fino ai primi anni del 1970. Questa creatrice di moda rivoluzionò l’abbigliamento femminile imponendo (eccetto naturalmente per le anziane) gonne con la lunghezza sopra il ginocchio. I colori erano contrastanti e volutamente provocatori. L’abito maschile non denota grandi cambiamenti, continuando a prevalere il taglio classico. Compaiono le giacche sahariane, altre con il collo alla Mao. I pantaloni si stringono e la vita si abbassa. Compaiono anche i pantaloni a zampa di elefante. Si diffondono le cinture alte, le fibbie vistose. Il pantalone jeans è ormai entrato nell’uso quotidiano. Spariscono le tasche e nasce il borsetto da uomo che è rimasto fino ai giorni nostri, portato da persone di età matura. Camisano - L’uomo comincia a mostrarsi in pubblico (chiesa, mercato) anche senza giacca, soprattutto i giovani, nonostante la disapprovazione degli anziani così legati alle loro abitudini. I mantelli vengono sostituiti da cappotti, giubbetti e giacconi. La differenza tra città e campagna si attenua. ti, ricci e con la messa in piega. Valdagno - I colori diventano più chiari (pastello, neutri, fantasie tipo “principe di Galles”), le gonne si accorciano e si iniziano a indossare i pantaloni o le gonne-pantaloni, nonostante una forte disapprovazione sociale iniziale. Tipica è la combinazione con “gemelli” e gonna a tubo. La moda per i giovani comincia a differenziarsi da quella per adulti, sia nel taglio sia nei tessuti e nei colori. Svanisce pian piano la distinzione tra città e campagna. Malo - Si diffondono tessuti nuovi: nylon, terital, popeline, rayon (per le calze velate, talora con la riga che è il massimo della seduzione, tanto che, se non le si possiede, si disegna addirittura la riga sulla pelle), si accorciano le maniche o si osa farne senza; anche in chiesa non si va più col velo nero. La donna si veste meno, si veste per piacersi e per star meglio con se stessa; in questo è aiutata dalla diffusione del pret à porter, che ha costi accessibili. Schio - La pettinatura distingueva in maniera netta le generazioni: i giovani portavano le chiome lunghe e incolte, i loro padri perseveravano nel taglio corto. I primi erano i capelloni, i secondi i matusa. Le ragazze invece ricorrevano alla cotonatura con cui creavano ardite architetture tricologiche puntellate con lacca in dosi industriali. de, non ci sono segni visibili nel vestire, tenendo da parte i circoli esclusivi dei vip che sembrano appartenere ad un altro mondo e che si possono vedere solo sui rotocalchi e alla tv. Dueville - Anche nell’abbigliamento da notte irrompe una ventata di libertà e comodità: stufe delle vecchie camicie da notte le ragazze si adeguano al pigiama. L’armadio delle giovani donne si riempiva di nuovi capi mentre le madri e le nonne stentavano a staccarsi dalle tradizioni di parsimonia e modestia. Villaverla - Anche per l’uomo si notano molti cambiamenti. Ancora negli anni ’50 c’erano prevalentemente tinte unite o a quadretti e poi giacche, cravatte e doppio petto. La novità più impor- pone modelli, fogge, stili diversi quasi ogni anno, attraverso i giornali e la televisione. Longare - Sicuramente questi capi offrivano maggiore praticità nell’uso e notevole comodità, dando alle donne più sicurezza in se stesse e del proprio corpo. Anch’esse cominciano a sfruttare il proprio tempo libero e le vacanze al mare e in montagna: ecco nuovi capi per lo sport (pantaloncini corti, gonnelline, tute, polo, canottiere) e per il mare con il rivoluzionario bikini (per chi sapeva ostentarlo), copricostumi, occhiali da sole e cappelli di varie fogge. Con il movimento femminista scompare l’uso di busti, corsetti ed anche del reggiseno; si usano parrucche (esempio alla Caselli), i capelli vengono acconciati in vari modi,comunque più cor- Asiago - Gli anni ’60 e ’70 sono quelli del boom economico, che ad Asiago, come in tutte le località di montagna, si fa sentire più lentamente che in pianura, perché sopravvivono più a lungo le attività economiche tradizionali (ad esempio, l’agricoltura), che vengono gradualmente sostituite da quelle connesse allo sviluppo del turismo e della “seconda casa”. Proprio il turismo rappresenta spesso un veicolo che fa conoscere in tempi brevi, quasi in contemporanea, le novità della moda che si sono diffuse in città; più in generale, in questi anni le differenze tra le città, i piccoli centri e le zone rurali tendono a diminuire, fino a giungere alla quasi totale omologazione dei giorni nostri, quando ogni differenza per quanto riguarda la moda e il vestiario è quasi completa- mente scomparsa, anche se nel caso della montagna rimangono delle specificità legate alle condizioni meteorologiche e al clima. Sovizzo - La vita in campagna è diversa da quella di città. In casa si usavano vestagliette di tela grezza, sempre la traversa. Di domenica le donne usavano completi con soprabito e abitini di tinta pastello. Le anziane preferivano il nero e abiti con disegni a pois. L’uso degli scamiciati, lunghi e larghi, di panno o velluto caratterizzava l’abbigliamento. Sono poi venute le gonne a portafoglio lunghe fino al ginocchio. La domenica le ragazze usavano una fascia elastica in vita e vestiti con molti bottoni. L’abbigliamento prima degli anni ’60 era un po’ diverso da oggi. Nel ricordo in autunno e inverno si portava la gonna di lana, di gabardine, cotone, lino, seta d’estate lunga a metà gamba anche a pieghe. È stata di moda la gonna pantalone poi sparita. Primavera ed estate indumenti leggeri con maniche lunghe e corte, cotone, lino, seta e tessuti sintetici come novità. Colori tenui, beige con fiori e disegni vari. Più sobri per le altre stagioni. D’inverno maglioncini di lana fatti a mano, sovente con filati riutilizzati oppure nuovi dalla magliaia. I capi più nuovi erano per la domenica e le varie festività civili e religiose. Lonigo - Le ragazze non cercano abiti costosi, ma preferiscono cambiare abiti più spesso e la differenza del vestire tra giorni feriali e di festa non è molta. Noventa - La guerra aveva portato contatti con altre persone, d’altre nazioni e d’altri continenti. Ognuno si era reso conto che il mondo non era grande tanto quanto quello che si conosceva. Nacque la necessità d’indumenti pratici, di foggia diversa, anche con maggior capacità di proteggere dal freddo. In breve il paletot su sostituito dai giacconi. Fu pressoché abbandonato l’uso del cappello e ci si affidò ad altri tipi di copricapo, meno impegnativi e più pratici. Non fu quindi più tenuto in considerazione il detto che scarpe e capelo fa l’omo belo. I guanti persero la loro necessità d’essere usati. Pag. 6 REZZARA NOTIZIE testimoni del cambiamento CURARE LA PROPRIA IMMAGINE DAL PIACERE ALL’OSSESSIONE Creazzo - La divisione delle classi sociali è ancora ben presente nella nostra mentalità: se sappiamo che davanti a noi c’è un dottore o, in ogni caso, una persona facoltosa o importante, si ha deferenza e considerazione, mentre se c’è una persona vestita male il nostro atteggiamento cambia. In genere osserviamo che c’è più confusione nelle classi sociali, nella distinzione tra individui, ma anche nel modo di rapportarci con gli altri. Vicenza - Le donne soprattutto in città usavano la cipria e il rossetto ed eventualmente smalto sulle unghie. Come profumo era usata soprattutto l’acqua di Colonia. Un gioiello comune erano gli orecchini portati da bambine, ragazze e adulte. Oggi il trucco è molto appariscente e anche i giovani maschi fanno la ceretta e curano il proprio corpo con maschere, creme che fino a qualche anno fa erano ad appannaggio delle ragazze. Collanine, braccialetti, orecchini come i tatuaggi sono elementi bisex. L’eterna abbronzatura è oggi dimostrazione di viaggi in Paesi esotici o il risultato di “lampade”. Torri di Quartesolo - Con gli anni ’60 soprattutto i giovani, seguendo i cantanti alla moda, usavano il ciuffo alla Presley, il capello crespo alla Battisti. Il ragazzo di campagna, se andava a lavorare in città, si uniformava nell’abbigliamento con gli altri; se lavorava i campi con il padre seguiva poco la moda e il suo abbigliamento era piuttosto spartano e denotava la sua condizione sociale. Solo dopo gli anni ’70 anche in campagna c’è maggiore cura della persona e dell’abitazione. Certo oggi ci sono esagerazioni, tuttavia nella media uomini e donne hanno più coscienza dell’importanza della cura del fisico e della propria immagine in famiglia, nel lavoro e nelle relazioni interpersonali: per questo spendono di più e dedicano più tempo a se stessi. Questo è positivo ma bisogna evitare gli eccessi ed instaurare un sano tenore di vita individuale. Camisano Vicentino L’uso di grandi cappelli di paglia aveva lo scopo di mantenere la pelle bianca, sinonimo di nobiltà. Il bagno si faceva una volta alla settimana e il sapone profumato si usavo solo per il viso e per il corpo; gambe e piedi si dovevano accontentare di quello per il bucato. Ogni abbigliamento era determinato dalla classe sociale di appartenenza. Non bisogna dimenticare che una donna di 40 anni era già considerata vecchia. Uomo. Di norma la barba veniva fatta in casa e non tutti i giorni, soprattutto quando ci si preparava per andare dalla morosa; spesso per la pulizia degli strumenti si usavano fogli di vecchi giornali. Il sapone utilizzato era solido e profumato. Il taglio dei capelli era normalmente corto. Anche questo poteva essere fatto in casa con scodella e forbici; non di rado chi tagliava i capelli non era del mestiere. Comunque in campagna la cura della persona, per l’uomo, era ridotta al minimo. C’era anche chi la barba la lasciava crescere, di solito il farmacista, il medico condotto, il notaio. L’apparire sempre giovani è diventato una meta da raggiungere a tutti i costi, una sorta di ricerca maniacale; non si contano più i prodotti di bellezza studiati per ritardare il processo di invecchiamento; le spese sostenute da donne e uomini sono esorbitanti. I più giovani si tingono i capelli di qualsiasi colore e i tagli possono essere stranissimi. Costabissara - La barba si faceva con il pennello, il rasoio ed uno specchietto, con la schiuma di una saponetta piccola di colore verde che si vendeva ricoperta di carta. Era Palmolive. Era di forma cilindrica lunga come un dito. Per i tagli c’era una matita emostatica con l’ammoniaca che bruciava. Le prime borsette erano di rafia (paglia di riso) o di nylon, avanzi di nylon lavorato con l’uncinetto, a forma di secchiello o quadrate e rettangolare, con il manico. Oppure borse di paglia oppure di pelle quadrate piccole. Tanto c’era poco da mettere dentro: il fazzoletto, il velo, il rosario, il libro di messa, la carta d’identità, pettine e specchietto, anche burro e cacao o il rossetto, e il portamonete. Dueville - Quando la pelle delle mani era screpolata, specialmente d’inverno, le donne di campagna adoperavano il midollo osseo estratto dalla mandibola del maiale. In qualche casa, ma era raro, si poteva trovare qualche barattolo di vasellina oppure di Nivea o Leocrema. Il trucco degli occhi ha preso piede dopo gli anni ’60; le ragazze usavano matitone colorate, ombretto, rimmel. Uomo. Il bagno in campagna si faceva settimanalmente, nella tinozza, usando semplicemente il sapone. Per alcune donne la cura della propria immagine è diventata un’ossessione: bisogna essere asciutte come acciughe, abbronzate come mulatte, con labbra grosse, lunghe unghie e un grande seno al silicone. Anche parecchi uomini sono molto vanitosi: si fanno le tinture, si trapiantano i capelli, si depilano, vanno in palestra ed hanno una paura folle di invecchiare. Villaverla - Gli indumenti puliti si potevano scaldare sul dorso degli animali, altrimenti vi erano camini o stufe a legna. I capelli venivano lavati con la “lisciva”, sapone fatto con il grasso di maiale. Per colorare i vestiti si poteva comperare del colore oppure si poteva usare un metodo che consisteva nel far bollire delle foglie di noce in acqua e poi immergervi i capi da colorare. Inoltre per lucidare gli zoccoli o sgalmare vi era il calligine (dal caliero della polenta) con un po’ d’acqua. Per il bucato si usava la cenere immersa in acqua che rendeva i capi molto bianchi. Dagli anni ’60 iniziano a comparire shampoo, coloranti per capelli, collane, orecchini, braccialetti di vario genere, ombretto, rimmel, matite per gli occhi, cipria, ecc. Tutti potevano iniziare ad abbellirsi un po’ di più. Montecchio Maggiore Dopo la guerra comparvero nei paesi le prime parrucchiere, che si occupavano del taglio: dalle trecce e dal cocon si passò alla “zazzera”, cioè ai capelli tagliati corti a caschetto. Gli uomini andavano dal barbiere quando avevano i capelli troppo lunghi; di solito ci andavano al sabato pomeriggio o alla domenica mattina. Spesso ricorrono a cure e a trattamenti estetici con creme, massaggi, lampade abbronzanti. Notevole cura hanno della capigliatura, per cui frequentano spesso la parrucchiera e si tingono i capelli con facilità. Con la globalizzazione sono entrati elementi esotici: tatuaggi, pearcing, orecchini ad anello. Arzignano - I capelli dei bambini venivano tagliati, solitamente, dalla mamma, con la scodela, fino a quando, diventati più grandicelli, avvertivano essi stessi il bisogno di mani più esperte e sicure. L’importante è mostrare un corpo palestrato e abbronzato, d’inverno e d’estate. Maschi e femmine poi frequentano regolarmente il parrucchiere unisex, al quale si richiedono trattamenti praticamente simili, taglio, colore, acconciature “bizzarre”, magari bloccate dal gel, la brillantina dei nostri giorni. Valdagno - Le ragazzine trattenevano i capelli con fasce di filanca bianca o colorata o con il cerchietto; le ragazze un po’ più grandi raccoglievano i capelli e li decoravano con nastri di velluto o di raso. Uomo. Spesso i maschietti venivano pettinati con il pettine bagnato per fare la riga e tenere in ordine i capelli. Malo - Per i denti si ricorreva alle foglie di salvia, i capelli si lavavano una volta al mese e, se li si voleva ricci, venivano avvolti su cartocci di mais. Schio - Le donne abbienti di città invece attribuivano molta importanza anche agli oggetti di ornamento che erano considerati, al pari dell’abbi- gliamento, un segnale di appartenenza ad una certa classe sociale. Indossavano solo gioielli autentici, la bigiotteria era snobbata anche perché non aveva ancora raggiunto i livelli estetici attuali. Era importante, insomma, che la moglie del dottore si distinguesse a prima vista dalla moglie dell’operaio. Un fenomeno interessante e abbastanza diffuso soprattutto fra i giovani è il ricorso al tatuaggio. Mille sono le motivazioni che ragazze e ragazzi adducono per giustificare tale pratica: desiderio di marcare la propria individualità, bisogno di celebrare con un segno indelebile un evento di una certa rilevanza. Lonigo - Vi era chi portava lunghe trecce di capelli attorcigliati intorno alla testa: qualcuna era fatta così bene che sembrava un diadema e faceva apparire le donne molto più attraenti. Si faceva tutto in casa, anche la tintura, con la collaborazione della mamma e delle sorelle. Uomo. In tanta spartanità un vezzo c’era, soprattutto tra i giovani: la brillantina. Non si accetta addirittura l’avanzare dell’età e si cerca di scongiurarla ricorrendo a trattamenti per modificare le labbra o per togliere le rughe. Anche le giovani sentono sempre più questo bisogno di intervenire a modificare la propria immagine. REZZARA NOTIZIE Pag. 7 testimoni del cambiamento UN TABARRO CONTRO IL FREDDO UN BOCCHINO PER ESSERE SNOB Carmignano di Brenta Il cappello era usato solo da pochissime donne più agiate. Le benestanti usavano anche borsette piuttosto piccole da abbinare con il vestito o le scarpe. Gli uomini più anziani avevano solitamente scarpe in cuoio più o meno spesse. L’orologio era per i più abbienti visto che c’erano le campane che avvertivano l’orario del lavoro nei campi e la sirena della cartiera per il lavoro dei turni. Poi le cravatte usate solo per le feste, di seta per i benestanti. D’estate era in uso di paglia per proteggersi dal sole. Marostica - Durante l’autarchia i calzolai produssero molte calzature con la suola di sughero e non di cuoio (materiale che doveva essere importato). Breganze - La donna e l’uomo che vivevano in campagna avevano pochi e solo utili oggetti. La donna d’inverno si copriva con pesanti scialli neri, l’uomo con giacche di fustagno anche logore, il tabarro quando usciva di casa. Gli scialli delle donne, fatti a mano ad uncinetto o a ferri, erano spesso bellissimi perché la manualità delle donne sapeva creare con bellezza anche gli indumenti quotidiani. Bambini e ragazzi, maschi e femmine, andavano scalzi dalla primavera all’autunno inoltrato. Ai piedi la donna portava, d’estate e d’inverno, gli zoccoli di legno ricoperti di cuoio, i sopei; una variante più completa di essi, perché chiuse, erano le sgalmare, calzate da uomini e ragazzi. Le sgalmare sono rimaste, assieme al tabarro, un simbolo di quell’epoca contadina (ricordiamo a questo proposito il bellissimo film di Ermanno Olmi “L’albero degli zoccoli”). La borsa e le scarpe erano e sono per le donne i principali oggetti complementari al vestito o al cappotto. Fino a qualche anno fa, dovevano essere in tinta con il vestito o il cappotto. I gioielli erano esibiti con orgoglio, essi definivano la classe sociale di appartenenza ma anche le ragazze contadine indossavano il giorno del loro noviziato o del loro matrimonio, l’anello, catenine e spille in oro, oltre alle immancabili bucole. Gli orecchini, le bucole erano l’ornamento immancabile per ogni donna. Alle bambine venivano bucate le orecchie al- l’età di due, tre anni. Altri gioielli erano gli anelli, le spille, le clips, simili alle spille, le collane d’oro o di perle. Gli uomini benestanti esibivano l’orologio d’oro con la catenina che portavano nel taschino del gilet, altro indumento che non mancava mai in un completo da uomo. Malo - A partire dagli anni ’60 si diffonde un certo benessere economico, gli uomini lavorano nell’industria e abbandonano le contrade, le donne non sono più casalinghe ma anche lavoratrici; anche i mezzi di trasporto (prima la Vespa, poi l’auto) ora necessari, condizionano l’abbigliamento, che si fa più vistoso (si vedono abiti a fiori colorati), più disinvolto (le gonne sono più comode e più corte) fino alla nascita della gonna-pantalone. Le donne si confrontano tra loro sul posto di lavoro, si consigliano (alla Lanerossi di Schio sono in 7000), si copiano, si passano le riviste di moda (che sono “Burda”, “Mani di fata”, “La donna - La casa - Il bambino”);ora vanno tutte da una brava sarta, scelgono buone stoffe, i loro abiti sono ricalcati dai “cartamodelli”, a Schio o a Vicenza, dopo il lavoro, hanno agio di guardare le vetrine. Thiene - D’inverno portava anche il fassolèto da testa era un fazzoletto nero piegato a triangolo e annodato sotto il mento che metteva in testa per andare in chiesa o in piazza. El siarpòn era invece la sciarpa che portava avvolta intorno al collo. Vicenza - Gli accessori coordinati (scarpe, borsa, guanti) erano solo delle “ricche”, le altre erano decisamente più sobrie In campagna le donne portavano ai piedi i zopei o zoccoli e solo nei giorni festivi le scarpe. Torri di Quartesolo - I più ricchi vestivano con tessuti più raffinati, tipo il gessato o il grigio scuro: di moda il borsello per l’uomo. Particolare attenzione veniva data ai bottoni dei cappotti che potevano essere di osso, di madreperla e anche di legno (Montgomery). Longare - La donna non usciva di casa d’inverno senza un copricapo (cappello o foulard), guanti, scialle, cappotto o pelliccia (per le più abbienti). I cappelli venivano confezionati dalle modiste, erano di lana e di forma semplice in campagna, più ricercati in città. Gli scialli di lana, di solito scuri per le donne anziane, erano lavorati a ferri in casa. Si usavano cinture sul cappotto con fibbie spesso ricoperte, come i bottoni, con la stessa stoffa del vestito o del cappotto. Le borse erano piccole e pregiate per il passeggio, con chiusura a scatto; grandi e di tela grezza per le popolane che andavano a fare la spesa o che portavano i prodotti al mercato. Le donne agiate e di buon gusto intonavano il cappotto o il vestito con il cappello e le scarpe con la borsetta. Non c’era grande varietà di scarpe: in campagna si usa- Pochi oggetti e tutti utili nell’armadio. Il paletot è il segno del benessere, nel secondo dopoguerra. vano mocassini e scarpe a tacco basso, d’inverno a volte anche stivali. Alcune donne potevano permettersi scarpe nere di vernice (colorate per le giovani) anche con tacco a spillo. D’estate portavano sandali con la zeppa e lacci da legare alla caviglia per la festa e le uscite, mentre in campagna zoccoli con la suola in copertone di bici. Gli uomini portavano gilet, cravatta e papillon (solo pochi), cappello di panno e di paglia (in estate), la coppola e il baschetto d’inverno, il foulard al collo per lo più i liberi professionisti e i mediatori, come segno di distinzione sociale. In città portavano il cappotto doppiopetto (stile militare) mentre in campagna c’era il tabarro.Ai piedi calzavano scarpe di pelle, di solito nere, per la festa, per certe situazioni mettevano anche le ghette. Si notavano evidenti differenze tra campagna e città negli oggetti che completavano il vestiario, ma anche in campagna tra abbienti (i possidenti) e la massa dei contadini. Camisano - Per la notte, fino agli anni ’50, si usava una retina per tenere a posto i capelli. Il cappotto era lungo a volte con colletto in pelliccia; in alternativa si usava il boa, cioè due pelli di coniglio o volpe uniti tra loro testa e coda e portati di traverso. Prima degli anni ’60 in campagna le donne avevano un paio di scarpe “bello” per la domenica, negli altri giorni usavano zoccoli con calzini fatti a mano; il cappello era usato solo in città. Qualcuno ricorda come a San Giuseppe, già si facesse il cambio di stagione indossando calzettoni e scarpe aperte. Anche un detto sottolinea l’arrivo della primavera: “Da San Giuseppe se buta via le grepe”. Venivano messe da parte le sgalmare e si cominciava a camminare scalzi. Molto utilizzato anche l’impermeabile in watro (un particolare tessuto di cotone) studiato apposta per questo tipo di indumento. Dueville - In casa le donne indossavano ciabatte e d’inverno i noni per stare al caldo; quando uscivano si coprivano le spalle con una mantellina, realizzata all’uncinetto o a ferri, e annodavano sotto al mento un foulard per ripararsi dal freddo. Gli uomini indossavano sempre il cappello, di feltro più o meno leggero a seconda della stagione, oppure di paglia, per l’estate. Dal taschino della giacca di quelli più eleganti occhieggiava un fazzolettino, leggermente profumato e, chi voleva far notare una certa dimestichezza con la scrittura, ci teneva a far spuntare anche una penna. Qualcuno, più snob, fumava le sigarette con il bocchino. Montecchio Maggiore Per le cerimonie si usavano cappelli dalla tesa larga, ornati di penne di pavone o fagiano, d’estate invece con mazzolini di fiori o rose di stoffa. Le spose portavano sempre il velo bianco sorretto da fiori, ghirlande o piccolissimi cappellini detti tamburelli. Dopo gli anni ’60 anche le scarpe da donna e da uomo cambiarono stile: comparvero i tacchi a spillo, che erano molto eleganti. Per camminare più speditamente si portavano i mocassini o le scarpe a mezzo tacco. D’inverno si usavano molto gli stivaletti anche a gamba lunga, che tenevano caldo. Arzignano - Recandosi in chiesa, le donne si coprivano la testa con un bianco velo di trina detto tovàja. Nell’alta valle del Chiampo, le signore indossavano veli molto elaborati, lunghi anche tre metri, confezionati con filo di seta da casalinghe artigiane del posto, utilizzando con appositi telai. Una volta tes- suto, veniva riccamente lavorato, con figure religiose. La tabacchiera era un segno di distinzione e veniva tenuta nella tasca del gilè o in scarsèla, la tasca delle braghe. La scatola da tabaco era di forma varia; rotonda, ovale o quadrata. In genere, era d’osso e con bordi d’argento cesellato, ma poteva essere anche di legno. In una tasca dei pantaloni non mancava mai il cortèlo o messèr, un coltello quasi sempre a forma di roncola. Schio - Le scarpe abitualmente erano a mezzo tacco ma in occasioni di particolari eventi non si disdegnava il tacco a spillo. Indispensabile anche la borsetta che naturalmente doveva essere coordinata con le scarpe e possibilmente con i guanti. Il massimo della sciccheria era farsi confezionare le scarpe su misura che solo pochi eletti però potevano permettersi. In ufficio alcuni impiegati, per ritardare l’usura delle maniche che strusciavano di continuo sulla scrivania, adottavano dei manicotti fermati con gli elastici, da indossare sopra l’avambraccio. Per un certo periodo invece fu di moda applicare le toppe di pelle ai gomiti delle giacche ma più per motivi decorativi che funzionali. Lonigo - Mentre il sior poteva passare dal vestito in lana pesante a quello leggero, anche di lino, a seconda delle stagioni, il contadino aveva il vestito di meda stajon che valeva per tutto l’anno, fino a quando non era consumato. Noventa - Sussidio indispensabile per l’inverno era il tabarro, il mantello che consentiva di difendersi con un certo vantaggio dal freddo. I più ricchi erano a ruota intera per i quali occorrevano dai cinque ai sei metri di panno. Nei giorni di lavoro si usava la mantelina, un tabarro meno ricco e di tessuto più povero, un po’ più corto e ciò per ripararsi e nello stesso tempo essere in grado di compiere qualche lavoro. Il paletot come indumento d’uso comune farà la sua comparsa ben più tardi, nel dopoguerra. Costituiva allora in segno dell’arrivato. Per difendersi dal freddo durante l’inverno si faceva uso dello scialle e il scierpon. Quest’ultimo possiamo definirlo il Tabarro al femminile. Pag. 8 “5 PER MILLE” COME DESTINARLO Al momento della presentazione del modello Cud, 730 o Modello unico, il contribuente può decidere di destinare la quota del 5 per mille della propria imposta sul reddito delle persone fisiche, relativa al periodo d’imposta 2007, mettendo la propria firma in uno degli appositi quattro riquadri che figurano sui modelli di dichiarazione. A tale riguardo va evidenziato che è consentita una sola scelta di destinazione e che il contribuente non si trova a pagare più tasse, ma a decidere come destinare una somma che comunque deve pagare. Oltre alla firma il contribuente può indicare il codice fiscale del soggetto al quale intende destinare direttamente la quota del 5 per mille. Noi vi proponiamo di assegnarla al Rezzara. La tua FIRMA e il nostro codice fiscale 00591900246 dona il 5 per mille a ISTITUTO CULTURALE DI SCIENZE SOCIALI NICOLÒ REZZARA con noi ci sei anche tu ELEGANZA SENZA SPRECHI (continua da pag. 2) foulard. Soprattutto “nella donna elegante erano rigorosamente abbinate alla borsetta che era abbinata alla sciarpa, che era abbinata all’abito, che era abbinato a non si sa bene cosa; insomma la donna di classe era abbinata sempre; se poi non era abbinata (…) veniva chiamata sciatta”. Nell’uomo l’eleganza si concentrava nel gilet, con un taschino per l’orologio con la catena, talvolta d’oro scadente, con un altro riservato alla scatoletta di tabacco o ai toscani o la pipa, mentre nelle tasche dei pantaloni c’era spazio per un sacchettino di tabacco olandese o per le cartine ed il tabacco sciolto da sigaretta. Dal taschino della giacca occhieggiava un fazzolettino leggermente profumato e per i più esigenti una penna. A tutto ciò si univa la cravatta per i benestanti, il cappello Borsalino, le scarpe di cuoio con le ghette, che servivano da copriscarpe in caso di pioggia. Altro segno di distinzione era il paletot al posto del tabaro. Segno di distinzione erano i bottoni dei cappotti, che potevano essere di osso, di madreperla ed anche di legno (Montgomery). Per tutti un capo fondamentale erano le scarpe, alle quali provvedeva il calzolaio, che accuratamente prendeva la misura con un bacchetto. Qualcuna ricorda le scarpe di vernice con cinturino “alla bebè” e la prima borsetta per metterci il velo ed il libretto delle preghiere. È da ricordare che le scarpe di vernice erano dei ricchi. Una persona ricorda di aver dovuto riportare al negozio un paio di scarpe di vernice, per i rimproveri della madre che nell’acquisto vedeva un affronto alla contessa da cui dipendevano. Oggi l’eleganza di un tempo è scomparsa per la ricerca della comodità e dello stile casual. Tutti indossano gli stessi capi originali o contraffatti. Lo status symbol si configura in altro modo: il telefonino, lo zainetto, la griffe degli indumenti, i tatuaggi, i piercing ed altro. Sull’abbigliamento prevale l’esibizione. In questo appiattimento maschi e femmine si vestono allo stesso modo: la depersonalizzazione serve, probabilmente, per camuffare ansia ed insicurezza. REZZARA NOTIZIE 41° Convegno di studi internazionali promosso dall’Istituto Rezzara di Vicenza Crisi finanziarie: quali difese? Recoaro Terme, 12-14 settembre 2008 La dimensione mondiale dell’economia è costituita oggi prevalentemente dal commercio internazionale di beni e ancor più dal mercato finanziario. In tempo reale è possibile trasferire il denaro da un continente all’altro, da una produzione all’altra, da settori in surplus finanziario a settori in deficit. Pensiamo alla differenza di quando la transizione avveniva con la trasmissione delle firme ed oggi con una password digitata sulla tastiera. Ora tutto ciò non può che risultare benefico in quanto è possibile realizzare investimenti un tempo impossibili, atti a migliorare il tenore di vita. Il mercato da statico è divenuto dinamico e permette risposte puntuali e tempestive alla situazione di fatto. La domanda che sorge tuttavia è di sapere quali condizioni devono essere soddisfatte, affinché le istituzioni finanziarie possano svolgere i compiti per i quali sono adatte. Sotto gli occhi di tutti appaiono piccoli risparmiatori che si trovano all’improvviso privati dei loro risparmi o nella incapacità di soddisfare agli obblighi contratti con mutui; operatori finanziari che si arricchiscono rapidamente con traffici illeciti di armi, droga, materiale pornografico, organi umani; aziende produttive sane costrette a chiudere improvvisamente perché private dei necessari finanziamenti. A ciò si aggiungono fenomeni sociali quali i paradisi fiscali e finanziari, il riciclaggio del de- naro sporco, le speculazioni selvagge. Risuona con forza allora il monito di Giovanni Paolo II, che “mai le nuove realtà, che investono con forza il processo produttivo, quali la globalizzazione della finanza, dell’economia, dei commerci e del lavoro, devono violare la dignità e la centralità della persona umana né la libertà e la democrazia dei popoli”. Sull’argomento si propone di riflettere il 41° convegno sui problemi internazionali, organizzato dall’Istituto Rezzara di Vicenza a Recoaro Terme dal 12 al 14 settembre 2008 sul tema “Crisi finanziarie: quali difese?”. L’argomento, piuttosto complesso e problematico, richiede la ricerca di alcune regole etiche, l’individuazione di forme di corresponsabilità a tutti i livelli delle persone interessate ed infine alcune priorità alle quali il mercato finanziario deve guardare. I problemi indicati dell’attività finanziaria a livello internazionale sono gravi, non facilmente controllabili, stimolati dal facile guadagno. Discernere la grande utilità della nuova situazione economica e i rischi illeciti che presenta, è assai difficile. Forse si impone un’azione sulle coscienze per “umanizzare” la finanza, essendo ogni risparmiatore in essa coinvolto. Ancor più è indispensabile la promozione di una responsabilità collettiva, la quale sola può produrre qualche risultato. Venerdì 12 settembre - introduzione ai lavori - prolusione: Ricchezza e Vangelo - intervento: Etica e finanza programma Sabato 13 settembre - lezione: Ruolo della finanza nell’economia mondiale - lezione: Architettura e strumenti del mercato finanziario internazionale - relazione integrata: Problemi umani e sociali e mercato finanziario 1) Crisi finanziarie e tutela del risparmio 2) Criminalità finanziaria e sanzioni 3) Speculazioni borsistiche: quali regole? 4) Capitale finanziario e mondo produttivo Domenica 14 settembre 1° intervento: Mass media e mercato finanziario 2° intervento: Ripercussioni del mercato finanziario sui Paesi in via di sviluppo 3° intervento: Istituti bancari e diritti dei clienti NASCERE E MORIRE, IERI ED OGGI Rezzara, Vicenza, 2007, pp. 188, ISBN 88-86590-73-3, € 18,00 Oggi nascere e morire si sono sempre più privatizzati ed hanno perso, da un lato, la coralità della società circostante e, dall’altro, l’apertura fiduciosa che un tempo, nella dimensione religiosa, era carica di amore e di speranza. Di conseguenza, più acuta e distruttiva è divenuta l’esperienza del figlio anormale, di quello non atteso o non previsto. I servizi sociali si sono arricchiti, le cure sanitarie provvedono a molte situazioni un tempo lasciate alla magia o alla semplice fatalità, ma l’impotenza umana, l’angoscia, il distacco restano drammi personali, vissuti in solitudine, in un clima generale di indifferenza. Come è possibile valorizzare allora quanto il progresso offre senza rinunciare ai valori antichi e al senso del mistero? Questa è la sfida della civiltà, che emerge dal confronto fra presente e passato analizzato nella pubblicazione. QUOTA D’ABBONAMENTO La quota di abbonamento per il 2008, da versare sul c.c.p. 10256360 intestato a Istituto “Nicolò Rezzara”, contrà delle grazie 14, 36100 Vicenza è di € 19,00. A quanti invieranno una cifra significativa sarà inviata al più presto una pubblicazione delle nostre edizioni.