IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI PROTEZIONE E TRASGRESSIONE

Transcript

IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI PROTEZIONE E TRASGRESSIONE
Anno XXXVIII - n. 2 - marzo-aprile 2008
ISSN.: 0391-6154
In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Vicenza per la
restituzione al mittente che si impegna a corrispondere la tassa di spedizione.
Direzione: Via delle Grazie, 12 - 36100 Vicenza - tel. 0444 324394 - e-mail: [email protected] - Direttore responsabile: Giuseppe Dal Ferro Mensile registrato al Tribunale di Vicenza n. 253 in data 27-11-1969 - Reg. ROC 11423 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L.
353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) - art. 1, comma 1 DCB Vicenza - Associato USPI - Stampa CTO/Vi - Abb. annuale 18,00 Euro; 2,60 Euro a copia
IL LINGUAGGIO DEGLI ABITI
PROTEZIONE E TRASGRESSIONE
Il risultato della ricerca 2008 sul costume, a cura delle Università adulti/anziani del Vicentino, e in particolare sull’abbigliamento.
Il costume è ciò che caratterizza un popolo, in quanto
raccoglie nei suoi ritmi quotidiani la totalità del comportamento. Non è la legge ma sono le espressioni simboliche
della solidarietà e delle relazioni a costituire l’identità sociale, che poi diventa identità di ciascun membro.
Nel costume rientra tutto, in quanto esso esprime la
cultura e gli stili di vita, il modo di pensare e di relazionare,
il cibo ed il vestito, la vita sociale e la vita religiosa. Il costume
risente di tutti i fenomeni, che cambiano la vita, come il
lavoro e l’istituzione, le condizioni economiche e i valori.
Per questo le Università
adulti/anziani del Vicentino,
con le loro ventiquattro sedi e
i 3.408 partecipanti, sono impegnate a raccogliere dalla
memoria orale dei propri
corsisti i cambiamenti avvenuti nel costume in questi anni
tumultuosi, nei quali il progresso ha radicalmente cambiato la vita, offrendo beni un
tempo impensati, ma anche
ha sconvolto i ritmi della vita,
il costume, i valori. Registrare il cambiamento è utile per
fissare lo sviluppo storico ed
anche per cogliere le radici di
tale cambiamento, le quali non
sono mai radicali, allo scopo
di innestare l’oggi su alcune
costanti del costume. In altre
parole è individuare la linea
della civiltà, che non viene
meno con il cambiare degli
stili di vita, ma si riesprime in
forme nuove.
La ricerca del 2008 si è
concentrata su “Vestiti, abbigliamento e ornamenti”. Sono
temi apparentemente frivoli,
soggetti ai capricci della
moda. Essi però, come osservano gli studiosi, spesso indicano i cambiamenti profondi della società e
della storia. Il
vestito è uno
strumento di protezione, ma è anche il primo messaggio nella relazione, espressione di differenziazione sessuale e sociale, economica e di età.
Nelle società del
passato la distinzione rigida era
fra aristocrazia e
popolo; nelle società democratiche tali differenziazioni
sembrano crollate, per dare spazio ad altre dettate dal mercato:
le aristocrazie
della ricchezza e
della nobiltà perdono d’importanza e al loro
posto si collocano i consumi,
l’immagine, l’informazione e lo
VESTITI E ORNAMENTI
spettacolo.
IERI E OGGI
Dalla ricerca
sul modo di ve-
stire e di adornarsi di ieri e di
oggi sono emersi i grandi
mutamenti sociali avvenuti
nelle ultime generazioni: da
un sistema autoritario si è passati ad uno democratico; da un
costume dai tratti omogenei si
è giunti ad un pluralismo caratterizzato dalla soggettività;
dal controllo sociale si è pervenuti alla piena emancipazione individuale. Il risultato
è una maggiore libertà e
responsabilizzazione di tutti,
ma anche il diffondersi del
senso di solitudine, di incomunicabilità, la perdita di identità. Le relazioni materiali si
sono moltiplicate, ma sono
aumentate le paure e le
insicurezze, per cui nel rapporto con l’altro dominano la
ricerca del potere sull’accoglienza, gli interessi personali
su quelli collettivi, lo scontro
sulla condivisione. I più però,
che non sono aggressivi o non
ricercano un protagonismo sociale, tentano di risolvere le
loro incertezze attraverso
l’omologazione, di cui si fa
leader il mercato. I vestiti e gli
ornamenti di oggi, rispetto a
quelli di ieri, forse sono tutto
ciò, anche se l’elemento più
appariscente è il carattere trasgressivo rispetto al costume
del passato.
Vestito di lavoro e vestito
“buono”
Quando si parla di come ci
si vestiva, si pensa subito agli
abiti neri fino alle caviglie delle
donne, protetti dai traverson e
dai grembiuli a seconda delle
attività svolte; si pensa al “vestito buono”, che trasformava
in veri signori alla domenica e
nelle feste anche le persone
delle classi umili, con i colletti
inamidati e l’immancabile
gilet, caratterizzato dalla catena che fissava al vestito
l’orologio a cipolla. Un certo
rigore distingueva gli abiti
quotidiani di lavoro da quelli
di festa, che dovevano durare
a lungo e che venivano riposti
alla sera della domenica
nell’armaron.
Nei campi tutto andava
bene. Il requisito principale
dei vestiti era che durassero a
lungo. Erano vecchi pantaloni
prevalentemente di fustagno,
velluto o feltro, con toppe vistose, frutto del paziente lavoro delle donne di casa, fatte a
regola d’arte. Spesso erano
legati in vita con un sogato,
fatto attorcigliando fili di paglia. Le camice erano di canapa o di fustagno, a quadri,
senza colletto. Gli uomini portavano solitamente al collo un
fazzoletto a colori vivaci, il
quale nel periodo estivo aveva la funzione di proteggere
dalla polvere e di detergere il
sudore. Per la domenica però
e per il mercato c’era il “vestito buono”, perché a messa e
all’osteria si incontravano gli
amici. D’inverno non mancava il tabaro, il cappello di feltro nero di varie fogge e per i
più ricchi la bagolina. Erano
indumenti che dovevano durare a lungo e che venivano
all’occorrenza abilmente rivoltati per nascondere la stoffa consumata. Le camice erano acquistate già con i ricambi
del colletto e dei polsini.
Le donne proteggevano
spesso il loro unico vestito
con grandi grembiuli senza
maniche, che smettevano a
lavoro ultimato. Le traverse
poi erano molte ed erano ancora più varie a seconda dei
lavori. Sulle spalle portavano
all’inverno uno scialle di lana
per difendersi dal freddo. Ai
piedi avevano i sopei, specie
di ciabatte di stoffa, confezionate in casa. Nei campi usavano un grande cappello di paglia e maniche rigorosamente
lunghe per proteggersi da una
abbronzatura non gradita.
Anche in casa era di uso servirsi di un grande fazzoletto
annodato dietro la nuca. Per la
donna non c’erano vestiti per
la festa se non un grembiule
più bello, le ciabatte di cuoio,
uno scialle ad uncinetto ed il
velo da mettere in testa per
entrare in chiesa.
In questo quadro di povertà,
non mancavano le differenze
sociali. Gli operai portavano il
toni per il lavoro; i benestanti
vestiti di stoffa, camice bianche con colletti inamidati, pol-
sini con gemelli d’oro e cravatta. A distinguersi maggiormente erano le signore per una minore lunghezza delle sottane,
per l’uso del tailleur impreziosito da una elegante spilla. Le signore si distinguevano
a volte per l’uso di una stola di
raso, di pizzo, di organza o di
pelliccia. Non mancava infine
un elegante singolare cappellino, con un velo cadente sul
volto. Le ragazze si distinguevano dalle donne per i colori
più vivaci dei vestiti, per le
camicette talvolta finte, cioè
formate solo dal petto e dal
collo, per le gonne più corte
anche se rigidamente sotto il
ginocchio. Indossavano un
vestito più accurato nelle feste
e anche quando andavano a
portare il latte al caseificio,
perché era facile incontrare
qualche corteggiatore. Per i più
giovani i vestiti passavano, con
i necessari adattamenti, da fratello a fratello.
La confezione dei vestiti
era normalmente fatta in casa.
La mamma aveva il dovere di
tramandare alle figlie l’arte
del cucito e del taglio delle
stoffe. Nei grembiuloni delle
donne c’era sempre in tasca
una forbice, ago e filo per
ogni evenienza. In alcuni casi
si partiva dalla filatura, quando in casa c’erano pecore,
conigli e bachi da seta. Allora
il ciclo era completo: filatura, tessitura e confezione dei
vestiti. A ciò si aggiungevano le maglie, risultato dei ferri da maglia usati nelle serate
specialmente invernali. I più
ricchi andavano invece nelle
sartorie, oppure si affidavano
alla sarta che periodicamente
trascorreva qualche giorno
nelle loro case.
Dall’insieme della ricerca
emerge come la povertà portasse a riservare alle feste, al
mercato e alle domeniche il
“vestito buono”, che rappresentava la vita di relazione e
quindi obbediva alle esigenze sociali, mentre per il lavoro il vestito era protezione
dal freddo, espressione della
propria riservatezza, difesa
del pudore.
GIUSEPPE DAL FERRO
Pag. 2
REZZARA NOTIZIE
LA RIVOLUZIONE ANNI ’60 E ’70
LEGATA AD ESKIMO E BLUE-JEANS
Negli anni ’60 e ’70 il benessere si diffonde, la donna va a
lavorare in fabbrica, i giovani
si differenziano dai loro padri
con l’eskimo e i blue-jeans, le
ragazze intraprendono quel
percorso di emancipazione sessuale che porta all’uso della
minigonna. Le mamme stesse
abbandonano le traverse e i
grembiuloni, accorciano i vestiti e scelgono stoffe di colori
vivaci. Solo le nonne mantengono fedeltà al costume antico. Le calze diventano trasparenti dapprima e poi vengono
dimesse in estate, le maniche si
accorciano o scompaiono. Un
certo rigore all’inizio è conservato per andare in chiesa. La
moda incomincia a dettare i
suoi canoni: diventa sempre
meno classica, più pratica ed
informale. Il cappotto è sostituito dal giaccone in materiale
impermeabile, il tailleur lascia
il posto a completi spezzati, a
pantaloni, gonne, giacche di
varia foggia. Per gli uomini
spesso il completo tradizionale viene meno. La camice sono
sfiancate, le cravatte con il nodo
grosso e le giacche strettissime
con dei colli enormi.
L’emancipazione femminile è caratterizzata dalla maggior disponibilità economica
e la moda, propagandata alla
televisione, moltiplica negli
armadi il numero degli abiti,
utilizzati poche volte e poi
abbandonati. Le gonne delle
più giovani sono sopra il ginocchio, i colori vivaci, contrastanti e a volte provocatori.
La figura di donna proposta è
alta, magra, con le gambe lunghe e nude. Porta capelli alla
maschietto e veste una
tunichetta cortissima. Tra i
maschi si diffondono i jeans
senza tasche, così da richiedere il borsello. Anche l’uomo maturo comincia a frequentare i luoghi pubblici senza giacca o con giubbetti o
giacconi. Le giovani negli
anni ’70 adottano spesso pantaloni lunghi o corti, stivali
alti, collant di nylon, camicette trasparenti e aderenti piuttosto scollate, golfini ridotti.
Scompare il lavoro di sartoria
domestica e professionale:
tutto si trova già confezionato
nei negozi dove si può scegliere, a prezzi vari; sono possibili acquisti anche per posta
attraverso i cataloghi “Vestro”
e “Postalmarket”. Scompaiono le tradizionali differenziazioni sociali, che si spostano sui capi firmati o non; si
afferma fra i giovani la moda
unisex e non si nota più la
demarcazione città-campagna. Le ragazze non cercano
abiti costosi preferendo cambiare spesso; la differenza tra
giorni feriali e di festa scompare. Il vestito diventa sempre più espressione della sog-
gettività e del gusto momentaneo, sempre meno strumento di comunicazione e di relazione. L’influenza televisiva
è evidente se consideriamo il
peso delle “veline” sulle giovanissime e la ricerca della
trasgressione che si manifesta nei jeans strappati, nel farsi notare a qualsiasi costo e
con qualsiasi mezzo: minigonne mozzafiato, tacchi altissimi, calze nere, top striminziti che aumentano l’esposizione della pelle. Dall’insieme della ricerca appare
chiaramente come il vestito
non esprima più la persona,
ma costruisca un’immagine
stereotipata di quello che la
società vuole, nella quale uno
vuole affermarsi, colpire, sedurre. Si delinea pertanto per
le persone una mancanza di
libertà dati i condizionamenti
che finiscono per ripercuotersi sull’immagine fisica e sul
mondo interiore dell’individuo stesso.
Gli indumenti intimi, riservati
Gli indumenti intimi erano
qualche cosa di riservato, finalizzati all’igiene e alla protezione della persona dal caldo e dal freddo. Tutto l’intimo era comunque oggetto da
occultare. Confezionati in
casa, erano lavati frequentemente e non si potevano neppure stendere ad asciugare,
perché non era decoroso; si
cercavano allora luoghi riservati fra le viti nella piantà,
affinché fossero nascosti agli
occhi indiscreti. Oggi gran
parte di essi sono scomparsi e
i rimasti non raramente sono
ostentati e integrati con il
vestito. Per l’uomo questi indumenti erano pochi: canottiera e mutande di tela legate
sotto il polpaccio, mutandoni
lunghi di lana e maglia
(flanea) o di bombasina con
le maniche lunghe d’inverno.
In alternativa alla maglia poteva esserci un panciotto,
sempre di lana. Qualcuno ricorda le fasce di cotone ai
piedi al posto delle calze. Era
consuetudine, per chi poteva
permetterselo, l’uso della maglietta della salute di lana
grezza o di cotone. Dopo la
guerra appare il “felpato”, che
era un cotone rigenerato e
riciclato. Si usò anche il fustagno per i pigiami e le camice da notte invernali, spesso a righe larghe in rilievo
azzurro, grigio, marrone, nocciola o celestino. Il felpato
più volte lavato si irrigidiva e
diventava scomodo nell’uso.
I capi essenziali erano pochi
e dovevano durare a lungo ai
molti lavaggi. Solo le stagioni alternavano i tipi diversi di
vestiario intimo.
Più complessi erano gli indumenti intimi delle donne:
una camicia di lino o di canapa lunga fino al ginocchio e
abbottonata sulla schiena,
senza maniche o con le mezze maniche. Non c’era il reggipetto e, al suo posto, sopra
la camicia si indossava la
“bustina” che, nelle donne
adulte, sostituiva la parte superiore della sottoveste, mentre la parte inferiore costituiva la sotocòtola. Le mutande,
non sempre usate, giungevano fino al ginocchio, ricamate con il pizzo all’orlo e confezionate in casa. Erano cucite davanti alla vita e aperte
nel mezzo. La sottoveste, indumento d’obbligo, poteva
avere le spalline strette con
due giri di lavoro ad uncinetto, eseguiti con filo da ricamo; oppure poteva avere le
spalline larghe, la scollatura
rotonda, con sul petto un prezioso ricamo punto Venezia.
Le donne di campagna preparavano da sole la loro biancheria intima e quella degli
uomini di casa, sia per l’estate che per l’inverno. Con la
tela di cotone realizzavano
mutande, bustini, sottovesti,
camice da notte, e sferruzzando con la lana confezionavano gli indumenti a maglia. Si ricorda come nell’immediato dopoguerra alcuni
siano riusciti a recuperare la
tela di un paracadute inglese
precipitato ed abbiano confezionato con la tela bellissimi
indumenti. I ricchi ovviamente potevano disporre di altri
indumenti. Le donne portavano corsetti o bustini,
ELEGANZA SENZA SPRECHI
L’eleganza
appartiene al
decoro della
persona e alla
relazione sociale. È quindi connaturale all’uomo ed in particolare alla
donna. Anche nella vita
semplice,
con mezzi
poveri, si possono notare alcuni segni di
buon gusto, concentrati nelle domeniche,
nei giorni di festa e al mercato. Le donne
non avevano soldi per il proprio abbigliamento. Usavano noni in casa, sopei di vario
tipo e le sgalmare o le sòcole, fatte con suole
di legno, che venivano rinforzate con suole
di gomma dei copertoni da bicicletta od
anche con pezzi di lamiera della conserva
Mutti con chiodi a testa larga per assicurarne la durata. Le scarpe di cuoio erano un
lusso, ma non mancavano. Alcune ragazze
ricordano che quando arrivavano vicino
alla piazza per la messa festiva con gli
zoccoli, li cambiavano velocemente con le
scarpe da festa per andare a messa, li rimettevano per il ritorno a casa. Erano scarpe
talvolta troppo abbondanti, talaltra troppo
strette e corte perché la misura doveva essere quella media per durare nel tempo.
Sgalmare e scarpe erano ripulite per bene
dopo l’uso, mentre per ammorbidire il cuoio si usava la coessa del mascio. In una
economia nella quale nulla era sprecato, se
il vecchio cane moriva, si conciava la pelle
per farne scarpe o sandali, e con la pelle dei
conigli si realizzavano delle calde manopole da applicare al manubrio della bicicletta.
L’eleganza si completava con uno scialle
speciale lavorato a maglia a triangolo con
frange di lana attorcigliata. In aggiunta
qualcuna aveva el siarpòn avvolto intorno
al collo o il foulard opportunamente accostato al vestito. A ciò si aggiungeva la
borsetta da festa, talora in comproprietà,
con la chiusura a borsellino, che sostituiva
per un giorno la sporta in paglia di tutti i
giorni. Le signore si distinguevano per il
cappella dalla tesa larga, ornato di penne di
pavone o fagiano e la veletta spiovente sul
volto, per i guanti lunghi di filo traforati in
estate e di pelle d’inverno. I loro cappotti
erano guarniti con colli di pelliccia. A tale
proposito si ricorda il collo di volpe, molto
ambito dalle signore che potevano permetterselo, il quale conservava le zampette, la
coda ed anche la testa assunta a fermaglio.
Alcuni elementi distintivi erano le scarpe
con il tacco, il ventaglio e la collezione di
(continua a pag. 8)
ventriere per avere un “vitino
da vespa” e sottovesti pregiate
di seta o di raso. Per le calze
avevano reggicalze, mentre
la gente del popolo si accontentava di un elastico a occhielli con un bottone. Per
loro gli indumenti intimi erano confortevoli e raffinati,
composti di tela finissima
(pèle de òvo), ricamata a mano
“da giorno”, perché indossata di giorno e cambiata con
una più semplice alla notte.
Era in uso da parte delle signore anche il reggiseno di
tela, spesso fatto ad uncinetto. Non era infrequente per le
persone abbienti l’uso di
sottogonne rigide (anche fino
a sette!) per meglio valorizzare il vestito e rendere più
vaporosa la gonna. Il busto
con le stecche di balena, i
mutandoni e le giarrettiere,
che segavano le gambe, erano elementi di guscio e di
corazza; tutte queste legature
strette, quei nodi e quei bottoni creavano schiavitù, impaccio, impossibilità a camminare speditamente. Alcuni
ricordano di una contessa che
portava sotto le sottane lunghe e larghe una sottogonna
con il cerchio. C’era d’altra
parte il detto: “Se la puta la
vol comparire la ga da
sofrire”. Gli uomini ricchi
indossavano mutande e magliette di lana e cotone con
filati pregiati, sempre di colore bianco e di forma più
anatomica e confortevole.
Giarrettiere particolari erano
usate per sostenere i calzettoni che si prolungavano al polpaccio.
Negli anni ’60 e ’70 si diffondono gli slip e le canottiere e nel giro di qualche anno
scompaiono gradatamente
tutti i capi descritti precedentemente, a cominciare dai giovani. Crolla la distinzione fra
indumenti intimi e vestiti.
Camicette, magliette non
sono più inserite nei pantaloni ma lasciate pendere all’esterno. Scompare la sottoveste, la camicia è costituita
dalla maglietta o dal semplice reggiseno, i mutandoni
diventano microscopici slip.
L’antica biancheria intima è
fatta di cotone, seta, fibre sintetiche o vegetali. Le antiche
camice da notte sono sostituite per l’uomo e per la donna
dal pigiama. Grande influenza nel tramonto degli indumenti antichi ha avuto il diffondersi dei pantaloni fra le
donne e l’emancipazione
femminile che si è liberata da
ogni ingombro precedente ed
ha ridotto all’essenziale la
biancheria intima. Gli indumenti antichi perdurano soltanto in alcune persone mature, più in funzione estetica
che igienica.
(GDF)
REZZARA NOTIZIE
Pag. 3
L’ABBRONZATURA DAI CAMPI
TRASLOCA OGGI AL SOLARIUM
Il desiderio di apparire, di
essere ammirata, nella donna c’è sempre stato, fa parte
della sua natura, è una connotazione femminile. In particolare sono da sempre stati i capelli oggetto particolare di cura. Tutti ricordiamo i bigodini in testa, con
“messa in piega” fatta in
casa, da se stesse o con l’aiuto di qualche abile amica.
Succedeva che alcune donne di campagna, per cultura
o forse per apparire più serie, cessavano di avere ambizione per la propria figura. I capelli, tenuti sempre
lunghissimi, venivano pettinati all’indietro, se ne formava una treccia che poi
veniva arrotolata sulla nuca
e fissata con forcine di osso
o tartaruga ricurve e piccoli
pettini ricurvi. I capelli venivano lavati due volte all’anno e pettinati con la
petenela ogni settimana, la
quale raschiava lo sporco
dei capelli e del cuoio capelluto. Le ragazze escogitavano diverse maniere per
pettinarsi, pur non uscendo
dalle regole generali delle
trecce. Una corsista ricorda
di essere stata picchiata dal
padre per essersi tagliata i
capelli a 18 anni.
Per il lavaggio si usava
l’acqua di filtraggio che veniva versata bollente sulla
cenere e poi si risciacquavano con acqua e aceto, oppure
con acqua e camomilla. Le
tinture erano poco usate ed
erano a base di erbe: si usavano le nogare per i capelli
neri e l’ortigara per i biondi.
Per coprire i primi fili bianchi si passava su di essi con
un tappo di sughero bruciato
oppure si utilizzava l’olio di
noce. Negli anni ’30, dopo
aver lavata la testa, si scaldava l’arricciacapelli con
l’alcool e poi si facevano le
onde in alto sulla testa, mentre sotto le orecchie, con carte speciali, si facevano i ricci, i boccoli.
Il trucco e gli ori
Il trucco si limitava a sbiancare il volto abbronzato dai
lavori in campagna con la
cipria o il borotalco. Prima
degli anni ’60 le donne, per
dare un po’ di tono a labbra e
guance, usavano carta crespa rosata che inumidita perdeva il colore, mentre per le
sopracciglia si usava il carbone della stufa o del focolare e per il fondotinta l’argilla
fatta prima essiccare. La donna borghese si lavava invece
con acqua e sapone Palmolive, raccoglieva i capelli con
forcine di osso, li schiariva
con l’henné, la camomilla o
l’acqua ossigenata; usava
olio d’oliva e creme per ammorbidire la pelle del viso,
cipria di terra rossa, profumi, rossetto e smalto per le
unghie. Gli ornamenti per le
donne contadine andavano
dagli oggetti di ausilio per la
pettinatura alle collane di finte perle, alle bucole, a vistose collane d’oro variamente
lavorato ricevute in eredità,
alla collanina d’oro con medaglietta della Madonna ricevuta dalla madrina di battesimo, a qualche spilla. Gli
“ori” posseduti venivano
portati raramente, in quanto
erano considerati un capitale da tramandare o da impegnare in caso di bisogno. Le
ragazzine si accontentavano
di portare alle dita anelli in
filo metallico, con una sottile lastra centrale decorata.
Le donne abbienti indossavano invece gioielli autentici e vistosi.
Gli uomini si distinguevano per i baffi, i capelli corti
all’umberta e le basette. Molti
si arrangiavano in casa; c’erano anche barbieri ambulanti
che offrivano servizi decentrati a cifre modiche. Ai
capelli si univa la barba, tagliata non tutti i giorni con
un rasoio affilato sulla curamella, striscia di cuoio appesa vicino allo specchio. Il
sapone dopo la rasatura era
depositato in carta di giornale. Una o due volte al mese si
andava dal barbiere, che alla
fine d’anno regalava il
calendarietto profumato. I
baffi da alcuni erano curati in
forma maniacale. Altri elementi di prestigio erano la
pipa, i portafogli piccoli per
molti e a fisarmonica per i
facoltosi, l’orologio di marca svizzera e francese di cui
ci si divertiva di mostrare il
meccanismo aprendolo sul
retro. Qualcuno portava
l’orecin nell’orecchio sinistro e la bagolina, bastoncino da passeggio. Chi usava il
tabacco da naso lo offriva
con cordialità e nella tasca
aveva fazzolettini colorati
gialli o rossi adatti allo scopo. Il portamonete (el
“tacuin”) in cuoio, fatto in
casa e cucito con lo spago,
era custodito nelle tasche dei
pantaloni. Con il benessere e
con la contestazione giovanile cambiano tutti gli schemi di riferimento della cura e
della valorizzazione della
persona. La figura del barbiere e del parrucchiere diventano centrali e a queste si
aggiungono centri di estetica, solarium, chirurgie estetiche. Sempre più persone
(giovani e meno giovani) ricorrono a specialisti della
pelle, dei capelli, delle labbra, del seno. Gli interventi
estetici (lifting) per correg-
gere alcune imperfezioni
sono all’ordine del giorno.
Un grande mercato coinvolge
la gran parte delle persone,
dato che l’apparire è diventato una meta da raggiungere
a tutti i costi, una ricerca quasi maniacale. Si è passati da
un’immagine genuina della
donna ad una artefatta, spesso con conseguenze deleterie.
I più giovani, uomini e donne, si tingono i capelli con
qualsiasi colore e ricercano
tagli stranissimi. Alla frequentazione delle palestre si
Al posto del chirurgo estetico c’erano
creme casalinghe
ed olio d’oliva. La civiltà dell’essere e
quella dell’apparire.
aggiunge l’uso di anabolizzanti. La cosmesi si è molto
sviluppata per la donna e per
l’uomo: creme per la cura
della pelle, ciprie, ombretti,
fondotinta, creme coloranti,
rossetti, matite per allungare
le ciglia o per ciglia finte,
unghie finte. L’abbronzatura è diventata d’obbligo per
dimostrare di essere reduce
sempre da vacanze. A tutto
ciò si uniscono tatuaggi e
piercing. Gli ornamenti pure
obbediscono all’apparenza,
per cui la bigiotteria di vetro,
plastica, ceramica, legno, pietre, conchiglie o metallo spes-
so è preferita ai gioielli veri.
Il trucco è diffuso anche nei
maschi che fanno la ceretta e
curano il proprio corpo con
maschere. Gli stessi occhiali
da vista sono sostituiti dalle
lenti a contatto, mentre si
moltiplicano vistosi occhiali
da sole griffati. Purtroppo,
osserva qualcuno, il cervello
è usato sempre meno. La cultura di massa è semplificata
al massimo, solo la ricchezza
e la voglia di apparire con i
modelli proposti dai media
fa presa e notizia tra i giovani. Al primo posto della scala
dei valori troviamo il “successo, il piacere, il denaro”. I
valori più apprezzati sono per
molti la vanità e l’ostentazione, il culto della persona
inteso come giovani in forma, il successo e la ricchezza, il piacere come misura.
Essere o apparire?
L’abbigliamento come
mezzo per ottenere la considerazione degli altri, soprattutto di chi aveva autorità, è
una abitudine antica: “Vestive
ben, savìo, quando ve in comune, se no, noi ve bada
gnanca, se i vede che si
poareti”. I ragazzi, per farsi
vedere emancipati dalle ragazze, anche una volta si facevano trovare con la sigaretta in mano e le ragazze si
addobbavano con ornamenti
costruiti con le loro mani per
destare attenzione. La ricerca
tuttavia di un certo prestigio
sociale si accompagnava con
la volontà di migliorare e di
emergere dalla povertà che
opprimeva. La borghesia e i
ricchi cercavano prestigio e
potere, mentre il popolo curava un abbigliamento essenziale, senza esibirlo troppo e
così acquistavano più sicurezza in sé nelle relazioni con
gli altri. Le ragazze si facevano belle per il moroso: da
sposate poi diventavano mogli e madri, quindi semplici
ed essenziali nel vestire e
nell’apparire, come modello
per i figli e per risparmiare.
L’abbigliamento per i giovani era spesso ispirato al passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Oggi l’emancipazione, in
sé positiva, è dominata dalla
trasgressione, dall’esibizionismo. I modelli imitati sono
i personaggi dello spettacolo, proprio perché incarnano
un modello di vita disimpegnato, riversato sul successo
a buon mercato. Fare carriera sembra ora possibile solo
adeguandosi alla società che
appare, vale a dire all’aspetto esteriore, curando l’immagine, la parlantina, la
procacità. In primo piano
emerge la fisicità, la
corporeità, l’esibizione del
corpo. Nell’attenzione dell’uomo e della donna assumono rilievo le palestre, i
centri estetici, i centri benessere, i parrucchieri, i chirurghi estetici. Una certa tendenza alla seduzione c’è
sempre stata. Ciò che oggi
emerge prepotente è piuttosto l’invadenza e la tendenza
ad esaltare il proprio io. Spesso le madri vestono come le
proprie figlie pur di rimanere giovani, forse per la paura
di invecchiare e per essere
“alla moda”, per non essere
escluse dal gruppo, per acquisire un certo prestigio e
una certa accettazione da
parte della società. L’eccessiva attenzione alla propria
immagine è presente nei ragazzi e ragazze e li induce a
seguire le proposte presentate del mercato della forma
perfetta, al cui miraggio sacrificano tempo, energie,
quattrini e a volte la salute
(anoressia). Dalla ricerca
emerge una forte preoccupazione oggi per l’apparire,
la quale, anziché rafforzare
la personalità e maturare l’individuo, diventa fonte di paura e di inquietudine per l’insicurezza di non riuscire nell’intento. In passato il vestito era invece espressione di
quello che si era, strumento
di relazione, capace di comunicare il meglio di sé. Diveniva strumento perciò di
crescita personale. (GDF)
Pag. 4
REZZARA NOTIZIE
testimoni del cambiamento
NELLA STALLA UN LABORATORIO
PER LE MAGLIE E PER LA DOTE
Bassano del Grappa - L’abbigliamento delle filandiere
(donne, la cui età variava, generalmente, dai nove ai sessant’anni e che per quei tempi
avevano “la fortuna” di lavorare in una filanda) era sicuramente grezzo e si completava
con zoccoli e ciabatte. L’immagine che affiora maggiormente alla mia mente è quella
di una bambina che spesso entrava in una stanza “magica”,
dove il colore regnava sovrano: “stoffe colorate (a disegni,
a quadri, a righe, in fantasia, a
pois) di lana, di piquet, di tela,di
organza, di seta, fodere, interni
per i colli, canevine, bottoni di
tutti i colori e di tutte le fogge,
di pasta, di madreperla, di tessuto, a due o a quattro buchi,
tondi, quadrati o gioiello…”.
Ricorda che c’erano: “aghi a
non finire, di varie grossezza, a
seconda dei tessuti ed erano
numerati, un manichino, utile
alla zia per la ‘prima prova’, un
mini spogliatoio munito di
specchio a figura intera, dove
venivano introdotte le clienti e
dove era tutto un affannarsi ad
accorciare, allungare e, operazione piuttosto difficile, ad imbastire le maniche. Le sembra
ancora di sentire signore che
dicevano: ‘ho l’idea che tiri sul
dietro’ oppure ‘tira sul davanti’…”. Tutto era fatto rigorosamente a mano: dalle imbastiture agli occhielli con i fili di
seta, ai sorafili ai sottopunti e,
se la stoffa era pregiata, come
seta, organza, chiffon o bisso i
punti dovevano essere così piccoli da diventare invisibili e gli
orli erano finiti in un modo
speciale che la zia definiva a
cordonsin. Importante era anche il ferro da stiro che serviva
per dare forma al vestito e per
la stiratura finale. Esso veniva
alimentato, in un primo momento, a carbonella ed era
molto pesante; aveva ai lati
delle finestrelle per tenere vivo
il fuoco, un manico di legno e
la sua struttura era in ghisa con
una piastra liscia. La stiratura
nelle varie fasi, come l’aver
preso le misure al cliente, erano prerogativa del titolare; egli,
fino verso gli anni ’30 e fino a
quando non si utilizzarono i
sofisticati ferri elettrici, trascurava anche la salute a causa
dell’anidride carbonica che la
carbonella emanava. Particolare attenzione bisognava avere per le finiture, lasciate alle
lavoranti più esperte, in particolare per le asole o gli occhielli; infatti era necessaria
una certa abilità per un lavoro
dalle cuciture fitte, di piccole
dimensioni, avere buon occhio,
velocità e pazienza, fin tanto
che, subito dopo la seconda
guerra mondiale, non fu inventata una macchina apposita che faceva le asole. Il lavoro
principale consisteva nella confezione di vestiti da uomo con
giacca, calzoni e gilè, anche se
quest’ultimo capo veniva via
via sempre meno richiesto e
dagli anni a partire dal 1935
solo in casi speciali o per vestiti importanti. Per confezionare
un vestito erano necessari, per
taglie normali, circa tre metri
lineari di tessuto alto cm. 130,
più le fodere in satin, tessuto di
cotone che serviva per gli interni e le tasche; inoltre un
tessuto rigido (canevin) e due
spalline di ovatta per dare forma alla giacca. Per confezionare un abito completo erano
necessarie 30-35 ore di lavoro.
Arzignano - Della travèrsa
esistevano più versioni: quella usata quotidianamente, resistente, tessuta in canapa o
in cotone, sempre scura e lunga quanto la còtola, di cui
ricopriva tutta la parte anteriore; quella per “impastare”,
che si usava solo per fare la
pasta o i dolci, ed era di colore bianco; quella, infine, con
semplice funzione ornamentale che oltre ad essere di colori vivaci e ricamà, era anche molto più piccola.
Le grandi dimensioni che
caratterizzavano la travèrsa
erano prevalentemente di ordine pratico; infatti, impediva
che la gonna si sporcasse durante il lavoro domestico o
quello in campagna. Essa serviva anche da ciapìn (presina)
per non scottarsi le mani quando si dovevano togliere le pentole dal fuoco ed, inoltre, alzandone i lembi, diventava un
comodo recipiente per il
becchime da distribuire ai polli
o per portare a casa alcuni
prodotti della terra, quali le
pannocchie, la frutta o altro.
Espressioni come “Na gaià
de pisacàn” oppure “na gaià
de pumi” fanno ben comprendere questa particolare funzione attribuita al grembiule.
Queste, di solito, venivano
decorate, in fondo, con cape
ed erano di vario colore: bianche, rosse, verdi, turchine.
Asiago - Prima degli anni
’60, la donna vestiva generalmente in maniera molto
sobria, pur senza rinunciare
ad una certa eleganza nelle
occasioni e nelle circostanze
più importanti. La sobrietà
si evidenziava soprattutto
nella lunghezza delle gonne,
le quali arrivavano fin sotto
al ginocchio o a metà polpaccio, ma anche nelle scollature, che erano a V e di
dimensioni ridotte, e nel fatto che nelle camicie e negli
abiti erano sempre presenti
le maniche, che potevano
essere lunghe e corte, a seconda della stagione. Il tipo
di lavoro svolto si rifletteva
sull’abbigliamento: i boscaioli indossavano pantaloni
alla zuava, con calzettoni e
scarponi, camicie di flanella, prevalentemente con disegni scozzesi, e maglioni
fatti in casa; i contadini indossavano abiti vecchi, pantaloni di velluto spesso con
toppe e strappi, “risparmiando” quelli nuovi, che venivano utilizzati per andare al
mercato o nei giorni di festa;
gli operai e gli artigiani indossavano delle tute da lavoro, prevalentemente di colore blu: in genere gli abiti
da lavoro erano chiamati toni
(non si sa bene per quale
ragione), un termine che indicava prevalentemente dei
pantaloni larghi, con
pettorina e bretelle; gli impiegati erano riconoscibili
perché portavano (per loro
era un obbligo, quasi una
divisa o un segno do riconoscimento) giacca e cravatta.
Sempre nell’ambito del lavoro, qualcuno ricorda un
particolare significativo: gli
emigranti stagionali partivano con una valigia nella quale avevano riposto esclusivamente abiti da lavoro, quasi a sottolineare una prospettiva che non prevedeva giorni di festa. Il mercato rappresentava per gli uomini, in
particolare per i contadini,
un momento significativo
durante il quale si concludevano affari importanti, spesso sulla parola e suggellati
con una semplice stretta di
mano: per andare al mercato
gli uomini potevano indossare sia gli abiti della festa,
sia quelli di tutti i giorni, ma
lavati e stirati.
Carmignano di Brenta C’erano i vestiti abituali da
portare ogni giorno a lavoro e
in fabbrica o nei campi e il
cosiddetto vestito per la festa,
la domenica o per le ricorrenze speciali. In casa le donne di
solito indossavano gonne piuttosto lunghe a coprire le caviglie e con colori piuttosto scuri, nero, marrone, blu o grigio.
Adoperavano grembiuli di
cotone grezzo e delle sottovesti lunghe. D’inverno indossavano maglie di flanella spessa di lana. Tutti si coprivano
molto perché il riscaldamento
era poco. Le donne che lavoravano nelle stalle naturalmente dovevano indossare vestiti
adatti, dismessi, che si toglievano a lavoro ultimato. Le fibre sintetiche non esistevano
ancora ed il materiale dei vestiti invernali era quasi sempre in lana, bianca o nera che
veniva mescolata per non far
vedere lo sporco. Come guardaroba c’erano in uso le cassepanche dove si custodivano
corredi ricamati dalle donne e
dalle spose. Da ricordare anche che spesso i vestiti venivano colorati in modo naturale quando erano troppo consunti. Anche l’uomo durante
le feste se ne aveva la possibilità indossava abiti più eleganti: camicia bianca per il
matrimonio o per andare in
chiesa. I più giovani borghesi
usavano anche pantaloni alla
zuava, larghi e corti fino al
ginocchio. Poi calzettoni di
lana in inverno e in cotone
d’estate o “filo di scozia”, più
pregiato in estate.
Marostica - Meritano di
essere ricordate le divise dei
soldati di inizio secolo. Erano molto severe: una stretta
e lunga giacca, di ruvido tessuto, di un particolare color
verde, detto appunto “verde
militare”, con un’abbottonatura che saliva fino a raggiungere il collo. Il colletto
era costituito da una piccola
fascia, su cui, di solito, spiccavano le stellette. I calzoni,
abbastanza diritti, finivano
infilati in un paio di solidi
stivali allacciati sul davanti
da cordoni trattenuti da una
serie di asole.
Breganze - I vestiti venivano confezionati in casa. Le
stalle d’inverno diventavano un laboratorio: si lavorava a maglia, si confezionavano golfini, magliette, maglioni, berretti, guanti. Le
donne più anziane ed esperte
con la molinella filavano la
lana, la canapa, il lino che
poi sarebbero serviti per i
capi di vestiario e la dote.
Molte donne erano anche
esperte di taglio e cucito e
confezionavano in casa sia i
vestiti da giorno da lavoro
che per la festa. Per le novelle spose appena entrate in
famiglia spesso la suocera
usava preparare indumenti da
rattoppare o confezionare,
come prima prova di abilità
domestica. Le donne di città
vestivano in modo sobrio ma
elegante, con vestiti in raso
di seta, tutti più o meno ricamati, cappellino con veletta,
guanti in rete per l’estate, in
pelle per l’inverno, borse abbinate. Le donne di campagna avevano un vestito più
povero ma sempre in ordine.
Il tabarro è un po’ il simbolo
degli indumenti contadini
dell’epoca. Veniva tagliato
a giro in stoffa pesante. Servivano due metri e mezzo di
stoffa e chi ha fatto la sarta,
ricorda che per tagliarlo metteva la stoffa per terra in cucina perché il giro del tabarro
era molto grande.
Thiene - Le donne più giovani indossavano abiti dai colori chiari, o a fantasia; il
corpetto è di linea aderente,
con abbottonatura nel davanti
o nel dietro, con bottoni di
osso o di stoffa, le maniche
sono di varia lunghezza, si va
dal giro manica al tre quarti
che copriva appena il gomito,
le gonne alte “due spanne” da
terra, avevano la linea ampia,
erano arricciate in vita, con
faldoni, plissettate o con più
pieghe, una cintura accentuava il punto vita e l’elegante
sporgenza dei seni. Sotto tutti
gli abiti si nota la presenza di
“sottogonne”, che sostenevano la linea svasata del fondo.
REZZARA NOTIZIE
Pag. 5
testimoni del cambiamento
LA VITTORIA DELLA COMODITÀ
NASCONO IL CORTO E LA TUTA
Arzignano - Il modo tradizionale di vestirsi non era
molto apprezzato dalle più
giovani. Per quanto riguarda
il corpèto o blusa, infatti,
esso subì considerevoli trasformazioni nel guardaroba
delle più giovani. Faceva
parte, prevalentemente, dell’abbigliamento estivo e si
portava con la sottana corta,
scampanata e trattenuta da
una cintura.Poteva essere
cucito in diverse fogge, a seconda dell’estro e del gusto
di chi lo portava, ma, soprattutto, era molto colorato e
con molteplici fantasie.
Costabissara - Dopo la
guerra, verso la fine degli anni
Cinquanta, arrivarono le calze di nylon con la riga dietro,
da indossare con i guanti per
non romperle, e dovevano
durare una stagione.
tante per l’uomo, oltre al
jeans, fu la tuta, il vestito
sportivo, che poteva indossare sempre, in ogni circostanza, ma preferibilmente in casa
o quando voleva mettersi in
libertà.
Caldogno - Oggi esistono
ancora le classi sociali, ma
non ci sono fratture profon-
Creazzo - Gli anni del benessere economico sono dominati dalla moda, che pro-
Vicenza - Lentamente si
chiudono le varie sartorie e si
aprono negozi che offrono
alla clientela vestiti confezionati, il prêt-a-porter, che fanno conoscere la case di moda
più prestigiose al di fuori delle grandi città assieme a riviste come “Grazia” e “Rakan”
che propongono nuove idee e
fantasie: le gonne si accorciano tanto che nasce la
minigonna.
Torri di Quartesolo - Per
quanto riguarda le giovani,
in questo periodo si afferma
incontrastato il fenomeno
Mery Quant che dominerà
fino ai primi anni del 1970.
Questa creatrice di moda rivoluzionò l’abbigliamento
femminile imponendo (eccetto naturalmente per le
anziane) gonne con la lunghezza sopra il ginocchio. I
colori erano contrastanti e
volutamente provocatori.
L’abito maschile non denota grandi cambiamenti, continuando a prevalere il taglio classico. Compaiono le
giacche sahariane, altre con
il collo alla Mao. I pantaloni
si stringono e la vita si abbassa. Compaiono anche i
pantaloni a zampa di elefante. Si diffondono le cinture alte, le fibbie vistose. Il
pantalone jeans è ormai entrato nell’uso quotidiano.
Spariscono le tasche e nasce il borsetto da uomo che
è rimasto fino ai giorni nostri, portato da persone di
età matura.
Camisano - L’uomo comincia a mostrarsi in pubblico (chiesa, mercato) anche senza giacca, soprattutto i giovani, nonostante la
disapprovazione degli anziani così legati alle loro
abitudini. I mantelli vengono sostituiti da cappotti,
giubbetti e giacconi. La differenza tra città e campagna
si attenua.
ti, ricci e con la messa in
piega.
Valdagno - I colori diventano più chiari (pastello, neutri, fantasie tipo “principe di
Galles”), le gonne si accorciano e si iniziano a indossare
i pantaloni o le gonne-pantaloni, nonostante una forte disapprovazione sociale iniziale. Tipica è la combinazione
con “gemelli” e gonna a tubo.
La moda per i giovani comincia a differenziarsi da quella
per adulti, sia nel taglio sia
nei tessuti e nei colori. Svanisce pian piano la distinzione
tra città e campagna.
Malo - Si diffondono tessuti nuovi: nylon, terital, popeline, rayon (per le calze velate, talora con la riga che è il
massimo della seduzione, tanto che, se non le si possiede, si
disegna addirittura la riga sulla pelle), si accorciano le maniche o si osa farne senza;
anche in chiesa non si va più
col velo nero. La donna si
veste meno, si veste per piacersi e per star meglio con se
stessa; in questo è aiutata dalla diffusione del pret à porter,
che ha costi accessibili.
Schio - La pettinatura distingueva in maniera netta le
generazioni: i giovani portavano le chiome lunghe e incolte, i loro padri perseveravano nel taglio corto. I primi
erano i capelloni, i secondi i
matusa. Le ragazze invece
ricorrevano alla cotonatura
con cui creavano ardite architetture tricologiche puntellate con lacca in dosi industriali.
de, non ci sono segni visibili
nel vestire, tenendo da parte i
circoli esclusivi dei vip che
sembrano appartenere ad un
altro mondo e che si possono
vedere solo sui rotocalchi e
alla tv.
Dueville - Anche nell’abbigliamento da notte irrompe una ventata di libertà e
comodità: stufe delle vecchie camicie da notte le ragazze si adeguano al pigiama. L’armadio delle giovani
donne si riempiva di nuovi
capi mentre le madri e le
nonne stentavano a staccarsi
dalle tradizioni di parsimonia e modestia.
Villaverla - Anche per
l’uomo si notano molti cambiamenti. Ancora negli anni
’50 c’erano prevalentemente
tinte unite o a quadretti e poi
giacche, cravatte e doppio
petto. La novità più impor-
pone modelli, fogge, stili diversi quasi ogni anno, attraverso i giornali e la televisione.
Longare - Sicuramente
questi capi offrivano maggiore praticità nell’uso e notevole comodità, dando alle donne più sicurezza in se stesse e
del proprio corpo. Anch’esse
cominciano a sfruttare il proprio tempo libero e le vacanze al mare e in montagna:
ecco nuovi capi per lo sport
(pantaloncini corti, gonnelline, tute, polo, canottiere) e
per il mare con il rivoluzionario bikini (per chi sapeva
ostentarlo), copricostumi,
occhiali da sole e cappelli di
varie fogge. Con il movimento femminista scompare l’uso
di busti, corsetti ed anche del
reggiseno; si usano parrucche (esempio alla Caselli), i
capelli vengono acconciati in
vari modi,comunque più cor-
Asiago - Gli anni ’60 e ’70
sono quelli del boom economico, che ad Asiago, come in
tutte le località di montagna,
si fa sentire più lentamente
che in pianura, perché sopravvivono più a lungo le attività
economiche tradizionali (ad
esempio, l’agricoltura), che
vengono gradualmente sostituite da quelle connesse allo
sviluppo del turismo e della
“seconda casa”. Proprio il
turismo rappresenta spesso un
veicolo che fa conoscere in
tempi brevi, quasi in contemporanea, le novità della moda
che si sono diffuse in città;
più in generale, in questi anni
le differenze tra le città, i piccoli centri e le zone rurali
tendono a diminuire, fino a
giungere alla quasi totale
omologazione dei giorni nostri, quando ogni differenza
per quanto riguarda la moda e
il vestiario è quasi completa-
mente scomparsa, anche se
nel caso della montagna rimangono delle specificità legate alle condizioni meteorologiche e al clima.
Sovizzo - La vita in campagna è diversa da quella di
città. In casa si usavano
vestagliette di tela grezza,
sempre la traversa. Di domenica le donne usavano completi con soprabito e abitini
di tinta pastello. Le anziane
preferivano il nero e abiti con
disegni a pois. L’uso degli
scamiciati, lunghi e larghi, di
panno o velluto caratterizzava l’abbigliamento. Sono poi
venute le gonne a portafoglio
lunghe fino al ginocchio. La
domenica le ragazze usavano
una fascia elastica in vita e
vestiti con molti bottoni.
L’abbigliamento prima degli anni ’60 era un po’ diverso
da oggi. Nel ricordo in autunno e inverno si portava la gonna di lana, di gabardine, cotone, lino, seta d’estate lunga a
metà gamba anche a pieghe.
È stata di moda la gonna pantalone poi sparita. Primavera
ed estate indumenti leggeri
con maniche lunghe e corte,
cotone, lino, seta e tessuti sintetici come novità. Colori tenui, beige con fiori e disegni
vari. Più sobri per le altre stagioni. D’inverno maglioncini
di lana fatti a mano, sovente
con filati riutilizzati oppure
nuovi dalla magliaia. I capi
più nuovi erano per la domenica e le varie festività civili e
religiose.
Lonigo - Le ragazze non
cercano abiti costosi, ma preferiscono cambiare abiti più
spesso e la differenza del vestire tra giorni feriali e di festa non è molta.
Noventa - La guerra aveva portato contatti con altre
persone, d’altre nazioni e
d’altri continenti. Ognuno
si era reso conto che il mondo non era grande tanto
quanto quello che si conosceva. Nacque la necessità
d’indumenti pratici, di foggia diversa, anche con maggior capacità di proteggere
dal freddo. In breve il paletot
su sostituito dai giacconi.
Fu pressoché abbandonato
l’uso del cappello e ci si
affidò ad altri tipi di copricapo, meno impegnativi
e più pratici. Non fu quindi
più tenuto in considerazione il detto che scarpe e
capelo fa l’omo belo. I guanti persero la loro necessità
d’essere usati.
Pag. 6
REZZARA NOTIZIE
testimoni del cambiamento
CURARE LA PROPRIA IMMAGINE
DAL PIACERE ALL’OSSESSIONE
Creazzo - La divisione
delle classi sociali è ancora
ben presente nella nostra
mentalità: se sappiamo che
davanti a noi c’è un dottore o,
in ogni caso, una persona
facoltosa o importante, si ha
deferenza e considerazione,
mentre se c’è una persona
vestita male il nostro atteggiamento cambia. In genere
osserviamo che c’è più confusione nelle classi sociali,
nella distinzione tra individui, ma anche nel modo di
rapportarci con gli altri.
Vicenza - Le donne soprattutto in città usavano la cipria
e il rossetto ed eventualmente smalto sulle unghie. Come
profumo era usata soprattutto l’acqua di Colonia. Un gioiello comune erano gli orecchini portati da bambine, ragazze e adulte. Oggi il trucco
è molto appariscente e anche
i giovani maschi fanno la
ceretta e curano il proprio
corpo con maschere, creme
che fino a qualche anno fa
erano ad appannaggio delle
ragazze. Collanine, braccialetti, orecchini come i tatuaggi sono elementi bisex. L’eterna abbronzatura è oggi dimostrazione di viaggi in Paesi
esotici o il risultato di “lampade”.
Torri di Quartesolo - Con
gli anni ’60 soprattutto i giovani, seguendo i cantanti alla
moda, usavano il ciuffo alla
Presley, il capello crespo alla
Battisti. Il ragazzo di campagna, se andava a lavorare
in città, si uniformava nell’abbigliamento con gli altri; se lavorava i campi con il
padre seguiva poco la moda
e il suo abbigliamento era
piuttosto spartano e denotava la sua condizione sociale.
Solo dopo gli anni ’70 anche
in campagna c’è maggiore
cura della persona e dell’abitazione. Certo oggi ci sono
esagerazioni, tuttavia nella
media uomini e donne hanno più coscienza dell’importanza della cura del fisico e
della propria immagine in
famiglia, nel lavoro e nelle
relazioni interpersonali: per
questo spendono di più e
dedicano più tempo a se stessi. Questo è positivo ma bisogna evitare gli eccessi ed
instaurare un sano tenore di
vita individuale.
Camisano Vicentino L’uso di grandi cappelli di
paglia aveva lo scopo di mantenere la pelle bianca, sinonimo di nobiltà. Il bagno si faceva una volta alla settimana
e il sapone profumato si usavo solo per il viso e per il
corpo; gambe e piedi si dovevano accontentare di quello
per il bucato. Ogni abbigliamento era determinato dalla
classe sociale di appartenenza. Non bisogna dimenticare
che una donna di 40 anni era
già considerata vecchia.
Uomo. Di norma la barba
veniva fatta in casa e non
tutti i giorni, soprattutto
quando ci si preparava per
andare dalla morosa; spesso
per la pulizia degli strumenti
si usavano fogli di vecchi
giornali. Il sapone utilizzato
era solido e profumato. Il
taglio dei capelli era normalmente corto. Anche questo
poteva essere fatto in casa
con scodella e forbici; non di
rado chi tagliava i capelli
non era del mestiere. Comunque in campagna la cura della persona, per l’uomo, era
ridotta al minimo. C’era anche chi la barba la lasciava
crescere, di solito il farmacista, il medico condotto, il
notaio. L’apparire sempre
giovani è diventato una meta
da raggiungere a tutti i costi,
una sorta di ricerca maniacale; non si contano più i prodotti di bellezza studiati per
ritardare il processo di invecchiamento; le spese sostenute da donne e uomini
sono esorbitanti. I più giovani si tingono i capelli di qualsiasi colore e i tagli possono
essere stranissimi.
Costabissara - La barba si
faceva con il pennello, il rasoio ed uno specchietto, con
la schiuma di una saponetta
piccola di colore verde che si
vendeva ricoperta di carta.
Era Palmolive. Era di forma
cilindrica lunga come un dito.
Per i tagli c’era una matita
emostatica con l’ammoniaca
che bruciava.
Le prime borsette erano di
rafia (paglia di riso) o di nylon,
avanzi di nylon lavorato con
l’uncinetto, a forma di secchiello o quadrate e rettangolare, con il manico. Oppure
borse di paglia oppure di pelle quadrate piccole. Tanto
c’era poco da mettere dentro:
il fazzoletto, il velo, il rosario, il libro di messa, la carta
d’identità, pettine e specchietto, anche burro e cacao o il
rossetto, e il portamonete.
Dueville - Quando la pelle
delle mani era screpolata,
specialmente d’inverno, le
donne di campagna adoperavano il midollo osseo estratto
dalla mandibola del maiale.
In qualche casa, ma era raro,
si poteva trovare qualche barattolo di vasellina oppure di
Nivea o Leocrema. Il trucco
degli occhi ha preso piede
dopo gli anni ’60; le ragazze
usavano matitone colorate,
ombretto, rimmel.
Uomo. Il bagno in campagna si faceva settimanalmente, nella tinozza, usando semplicemente il sapone. Per alcune donne la cura della propria immagine è diventata
un’ossessione: bisogna essere asciutte come acciughe,
abbronzate come mulatte, con
labbra grosse, lunghe unghie
e un grande seno al silicone.
Anche parecchi uomini sono
molto vanitosi: si fanno le
tinture, si trapiantano i capelli, si depilano, vanno in palestra ed hanno una paura folle
di invecchiare.
Villaverla - Gli indumenti
puliti si potevano scaldare sul
dorso degli animali, altrimenti
vi erano camini o stufe a legna. I capelli venivano lavati
con la “lisciva”, sapone fatto
con il grasso di maiale. Per
colorare i vestiti si poteva
comperare del colore oppure
si poteva usare un metodo
che consisteva nel far bollire
delle foglie di noce in acqua e
poi immergervi i capi da colorare. Inoltre per lucidare gli
zoccoli o sgalmare vi era il
calligine (dal caliero della
polenta) con un po’ d’acqua.
Per il bucato si usava la cenere immersa in acqua che rendeva i capi molto bianchi.
Dagli anni ’60 iniziano a comparire shampoo, coloranti per
capelli, collane, orecchini,
braccialetti di vario genere,
ombretto, rimmel, matite per
gli occhi, cipria, ecc. Tutti
potevano iniziare ad abbellirsi un po’ di più.
Montecchio Maggiore Dopo la guerra comparvero
nei paesi le prime parrucchiere, che si occupavano del taglio: dalle trecce e dal cocon
si passò alla “zazzera”, cioè
ai capelli tagliati corti a
caschetto. Gli uomini andavano dal barbiere quando
avevano i capelli troppo lunghi; di solito ci andavano al
sabato pomeriggio o alla domenica mattina. Spesso ricorrono a cure e a trattamenti
estetici con creme, massaggi, lampade abbronzanti.
Notevole cura hanno della
capigliatura, per cui frequentano spesso la parrucchiera e
si tingono i capelli con facilità. Con la globalizzazione
sono entrati elementi esotici:
tatuaggi, pearcing, orecchini ad anello.
Arzignano - I capelli dei
bambini venivano tagliati, solitamente, dalla mamma, con
la scodela, fino a quando, diventati più grandicelli, avvertivano essi stessi il bisogno di
mani più esperte e sicure.
L’importante è mostrare un
corpo palestrato e abbronzato, d’inverno e d’estate. Maschi e femmine poi frequentano regolarmente il parrucchiere unisex, al quale si richiedono trattamenti praticamente simili, taglio, colore,
acconciature “bizzarre”, magari bloccate dal gel, la brillantina dei nostri giorni.
Valdagno - Le ragazzine
trattenevano i capelli con fasce di filanca bianca o colorata o con il cerchietto; le ragazze un po’ più grandi raccoglievano i capelli e li decoravano con nastri di velluto o
di raso.
Uomo. Spesso i maschietti
venivano pettinati con il pettine bagnato per fare la riga e
tenere in ordine i capelli.
Malo - Per i denti si ricorreva alle foglie di salvia, i
capelli si lavavano una volta
al mese e, se li si voleva ricci,
venivano avvolti su cartocci
di mais.
Schio - Le donne abbienti di
città invece attribuivano molta importanza anche agli oggetti di ornamento che erano
considerati, al pari dell’abbi-
gliamento, un segnale di appartenenza ad una certa classe
sociale. Indossavano solo gioielli autentici, la bigiotteria era
snobbata anche perché non
aveva ancora raggiunto i livelli estetici attuali. Era importante, insomma, che la moglie
del dottore si distinguesse a
prima vista dalla moglie dell’operaio. Un fenomeno interessante e abbastanza diffuso
soprattutto fra i giovani è il
ricorso al tatuaggio. Mille sono
le motivazioni che ragazze e
ragazzi adducono per giustificare tale pratica: desiderio di
marcare la propria individualità, bisogno di celebrare con
un segno indelebile un evento
di una certa rilevanza.
Lonigo - Vi era chi portava
lunghe trecce di capelli attorcigliati intorno alla testa:
qualcuna era fatta così bene
che sembrava un diadema e
faceva apparire le donne molto più attraenti. Si faceva tutto in casa, anche la tintura,
con la collaborazione della
mamma e delle sorelle.
Uomo. In tanta spartanità
un vezzo c’era, soprattutto
tra i giovani: la brillantina.
Non si accetta addirittura
l’avanzare dell’età e si cerca
di scongiurarla ricorrendo a
trattamenti per modificare le
labbra o per togliere le rughe.
Anche le giovani sentono
sempre più questo bisogno di
intervenire a modificare la
propria immagine.
REZZARA NOTIZIE
Pag. 7
testimoni del cambiamento
UN TABARRO CONTRO IL FREDDO
UN BOCCHINO PER ESSERE SNOB
Carmignano di Brenta Il cappello era usato solo da
pochissime donne più agiate.
Le benestanti usavano anche
borsette piuttosto piccole da
abbinare con il vestito o le
scarpe. Gli uomini più anziani avevano solitamente scarpe in cuoio più o meno spesse. L’orologio era per i più
abbienti visto che c’erano le
campane che avvertivano
l’orario del lavoro nei campi
e la sirena della cartiera per il
lavoro dei turni. Poi le cravatte usate solo per le feste, di
seta per i benestanti. D’estate
era in uso di paglia per proteggersi dal sole.
Marostica - Durante l’autarchia i calzolai produssero
molte calzature con la suola
di sughero e non di cuoio
(materiale che doveva essere
importato).
Breganze - La donna e
l’uomo che vivevano in campagna avevano pochi e solo
utili oggetti. La donna d’inverno si copriva con pesanti
scialli neri, l’uomo con giacche di fustagno anche logore, il tabarro quando usciva
di casa. Gli scialli delle donne, fatti a mano ad uncinetto
o a ferri, erano spesso bellissimi perché la manualità delle donne sapeva creare con
bellezza anche gli indumenti
quotidiani. Bambini e ragazzi, maschi e femmine, andavano scalzi dalla primavera
all’autunno inoltrato. Ai piedi la donna portava, d’estate
e d’inverno, gli zoccoli di
legno ricoperti di cuoio, i
sopei; una variante più completa di essi, perché chiuse,
erano le sgalmare, calzate da
uomini e ragazzi. Le
sgalmare sono rimaste, assieme al tabarro, un simbolo
di quell’epoca contadina (ricordiamo a questo proposito
il bellissimo film di Ermanno
Olmi “L’albero degli zoccoli”). La borsa e le scarpe erano e sono per le donne i principali oggetti complementari al vestito o al cappotto.
Fino a qualche anno fa, dovevano essere in tinta con il
vestito o il cappotto. I gioielli erano esibiti con orgoglio,
essi definivano la classe sociale di appartenenza ma anche le ragazze contadine indossavano il giorno del loro
noviziato o del loro matrimonio, l’anello, catenine e
spille in oro, oltre alle immancabili bucole. Gli orecchini, le bucole erano l’ornamento immancabile per ogni
donna. Alle bambine venivano bucate le orecchie al-
l’età di due, tre anni. Altri
gioielli erano gli anelli, le
spille, le clips, simili alle spille, le collane d’oro o di perle.
Gli uomini benestanti esibivano l’orologio d’oro con la
catenina che portavano nel
taschino del gilet, altro indumento che non mancava mai
in un completo da uomo.
Malo - A partire dagli anni
’60 si diffonde un certo benessere economico, gli uomini lavorano nell’industria
e abbandonano le contrade,
le donne non sono più casalinghe ma anche lavoratrici;
anche i mezzi di trasporto
(prima la Vespa, poi l’auto)
ora necessari, condizionano
l’abbigliamento, che si fa più
vistoso (si vedono abiti a fiori colorati), più disinvolto (le
gonne sono più comode e più
corte) fino alla nascita della
gonna-pantalone. Le donne
si confrontano tra loro sul
posto di lavoro, si consigliano (alla Lanerossi di Schio
sono in 7000), si copiano, si
passano le riviste di moda
(che sono “Burda”, “Mani di
fata”, “La donna - La casa - Il
bambino”);ora vanno tutte da
una brava sarta, scelgono
buone stoffe, i loro abiti sono
ricalcati dai “cartamodelli”,
a Schio o a Vicenza, dopo il
lavoro, hanno agio di guardare le vetrine.
Thiene - D’inverno portava anche il fassolèto da testa
era un fazzoletto nero piegato a triangolo e annodato sotto il mento che metteva in
testa per andare in chiesa o in
piazza. El siarpòn era invece
la sciarpa che portava avvolta intorno al collo.
Vicenza - Gli accessori
coordinati (scarpe, borsa,
guanti) erano solo delle “ricche”, le altre erano decisamente più sobrie In campagna le donne portavano ai piedi i zopei o zoccoli e solo nei
giorni festivi le scarpe.
Torri di Quartesolo - I più
ricchi vestivano con tessuti
più raffinati, tipo il gessato o
il grigio scuro: di moda il
borsello per l’uomo. Particolare attenzione veniva data ai
bottoni dei cappotti che potevano essere di osso, di madreperla e anche di legno
(Montgomery).
Longare - La donna non
usciva di casa d’inverno senza un copricapo (cappello o
foulard), guanti, scialle, cappotto o pelliccia (per le più
abbienti). I cappelli venivano
confezionati dalle modiste,
erano di lana e di forma semplice in campagna, più ricercati in città. Gli scialli di lana,
di solito scuri per le donne
anziane, erano lavorati a ferri
in casa. Si usavano cinture
sul cappotto con fibbie spesso ricoperte, come i bottoni,
con la stessa stoffa del vestito
o del cappotto. Le borse erano piccole e pregiate per il
passeggio, con chiusura a
scatto; grandi e di tela grezza
per le popolane che andavano a fare la spesa o che portavano i prodotti al mercato. Le
donne agiate e di buon gusto
intonavano il cappotto o il
vestito con il cappello e le
scarpe con la borsetta.
Non c’era grande varietà di
scarpe: in campagna si usa-
Pochi oggetti e tutti
utili nell’armadio. Il
paletot è il segno del
benessere, nel secondo dopoguerra.
vano mocassini e scarpe a
tacco basso, d’inverno a volte anche stivali. Alcune donne potevano permettersi scarpe nere di vernice (colorate
per le giovani) anche con tacco a spillo. D’estate portavano sandali con la zeppa e lacci da legare alla caviglia per
la festa e le uscite, mentre in
campagna zoccoli con la suola in copertone di bici.
Gli uomini portavano gilet,
cravatta e papillon (solo pochi), cappello di panno e di
paglia (in estate), la coppola
e il baschetto d’inverno, il
foulard al collo per lo più i
liberi professionisti e i mediatori, come segno di distinzione sociale. In città portavano il cappotto doppiopetto
(stile militare) mentre in campagna c’era il tabarro.Ai piedi calzavano scarpe di pelle,
di solito nere, per la festa, per
certe situazioni mettevano
anche le ghette. Si notavano
evidenti differenze tra campagna e città negli oggetti che
completavano il vestiario, ma
anche in campagna tra abbienti (i possidenti) e la massa dei contadini.
Camisano - Per la notte,
fino agli anni ’50, si usava
una retina per tenere a posto i
capelli. Il cappotto era lungo
a volte con colletto in pelliccia; in alternativa si usava il
boa, cioè due pelli di coniglio
o volpe uniti tra loro testa e
coda e portati di traverso. Prima degli anni ’60 in campagna le donne avevano un paio
di scarpe “bello” per la domenica, negli altri giorni usavano zoccoli con calzini fatti
a mano; il cappello era usato
solo in città. Qualcuno ricorda come a San Giuseppe, già
si facesse il cambio di stagione indossando calzettoni e
scarpe aperte. Anche un detto sottolinea l’arrivo della
primavera: “Da San Giuseppe se buta via le grepe”. Venivano messe da parte le
sgalmare e si cominciava a
camminare scalzi. Molto utilizzato anche l’impermeabile in watro (un particolare
tessuto di cotone) studiato
apposta per questo tipo di indumento.
Dueville - In casa le donne
indossavano ciabatte e d’inverno i noni per stare al caldo; quando uscivano si coprivano le spalle con una
mantellina, realizzata all’uncinetto o a ferri, e annodavano sotto al mento un foulard
per ripararsi dal freddo. Gli
uomini indossavano sempre
il cappello, di feltro più o
meno leggero a seconda della
stagione, oppure di paglia, per
l’estate. Dal taschino della
giacca di quelli più eleganti
occhieggiava un fazzolettino,
leggermente profumato e, chi
voleva far notare una certa
dimestichezza con la scrittura, ci teneva a far spuntare
anche una penna. Qualcuno,
più snob, fumava le sigarette
con il bocchino.
Montecchio Maggiore Per le cerimonie si usavano
cappelli dalla tesa larga, ornati di penne di pavone o fagiano, d’estate invece con
mazzolini di fiori o rose di
stoffa. Le spose portavano
sempre il velo bianco sorretto da fiori, ghirlande o piccolissimi cappellini detti tamburelli. Dopo gli anni ’60
anche le scarpe da donna e da
uomo cambiarono stile: comparvero i tacchi a spillo, che
erano molto eleganti. Per
camminare più speditamente
si portavano i mocassini o le
scarpe a mezzo tacco. D’inverno si usavano molto gli
stivaletti anche a gamba lunga, che tenevano caldo.
Arzignano - Recandosi in
chiesa, le donne si coprivano
la testa con un bianco velo di
trina detto tovàja. Nell’alta
valle del Chiampo, le signore
indossavano veli molto elaborati, lunghi anche tre metri, confezionati con filo di
seta da casalinghe artigiane
del posto, utilizzando con
appositi telai. Una volta tes-
suto, veniva riccamente lavorato, con figure religiose.
La tabacchiera era un segno
di distinzione e veniva tenuta
nella tasca del gilè o in
scarsèla, la tasca delle
braghe. La scatola da tabaco
era di forma varia; rotonda,
ovale o quadrata. In genere,
era d’osso e con bordi d’argento cesellato, ma poteva
essere anche di legno. In una
tasca dei pantaloni non mancava mai il cortèlo o messèr,
un coltello quasi sempre a
forma di roncola.
Schio - Le scarpe abitualmente erano a mezzo tacco
ma in occasioni di particolari
eventi non si disdegnava il
tacco a spillo. Indispensabile
anche la borsetta che naturalmente doveva essere coordinata con le scarpe e possibilmente con i guanti. Il massimo della sciccheria era farsi
confezionare le scarpe su
misura che solo pochi eletti
però potevano permettersi. In
ufficio alcuni impiegati, per
ritardare l’usura delle maniche che strusciavano di continuo sulla scrivania, adottavano dei manicotti fermati
con gli elastici, da indossare
sopra l’avambraccio. Per un
certo periodo invece fu di
moda applicare le toppe di
pelle ai gomiti delle giacche
ma più per motivi decorativi
che funzionali.
Lonigo - Mentre il sior
poteva passare dal vestito in
lana pesante a quello leggero, anche di lino, a seconda
delle stagioni, il contadino
aveva il vestito di meda stajon
che valeva per tutto l’anno,
fino a quando non era consumato.
Noventa - Sussidio indispensabile per l’inverno era
il tabarro, il mantello che
consentiva di difendersi con
un certo vantaggio dal freddo. I più ricchi erano a ruota
intera per i quali occorrevano
dai cinque ai sei metri di panno. Nei giorni di lavoro si
usava la mantelina, un tabarro
meno ricco e di tessuto più
povero, un po’ più corto e ciò
per ripararsi e nello stesso
tempo essere in grado di compiere qualche lavoro. Il
paletot come indumento
d’uso comune farà la sua comparsa ben più tardi, nel dopoguerra. Costituiva allora in
segno dell’arrivato. Per difendersi dal freddo durante
l’inverno si faceva uso dello
scialle e il scierpon. Quest’ultimo possiamo definirlo il
Tabarro al femminile.
Pag. 8
“5 PER MILLE” COME DESTINARLO
Al momento della presentazione del modello Cud, 730 o Modello unico, il contribuente può decidere di destinare la quota del
5 per mille della propria imposta sul reddito
delle persone fisiche, relativa al periodo d’imposta 2007, mettendo la propria firma in uno
degli appositi quattro riquadri che figurano
sui modelli di dichiarazione. A tale riguardo
va evidenziato che è consentita una sola
scelta di destinazione e che il contribuente
non si trova a pagare più tasse, ma a decidere
come destinare una somma che comunque
deve pagare. Oltre alla firma il contribuente
può indicare il codice fiscale del soggetto al
quale intende destinare direttamente la quota del 5 per mille. Noi vi proponiamo di
assegnarla al Rezzara.
La tua FIRMA e il nostro codice fiscale 00591900246
dona il 5 per mille a
ISTITUTO CULTURALE DI SCIENZE SOCIALI NICOLÒ REZZARA
con noi ci sei anche tu
ELEGANZA SENZA SPRECHI
(continua da pag. 2)
foulard. Soprattutto “nella donna elegante erano rigorosamente abbinate alla borsetta che era
abbinata alla sciarpa, che era abbinata all’abito, che era abbinato a non si sa bene cosa;
insomma la donna di classe era abbinata sempre; se poi non era abbinata (…) veniva chiamata sciatta”.
Nell’uomo l’eleganza si concentrava nel
gilet, con un taschino per l’orologio con la
catena, talvolta d’oro scadente, con un altro
riservato alla scatoletta di tabacco o ai toscani
o la pipa, mentre nelle tasche dei pantaloni
c’era spazio per un sacchettino di tabacco
olandese o per le cartine ed il tabacco sciolto
da sigaretta. Dal taschino della giacca occhieggiava un fazzolettino leggermente profumato e per i più esigenti una penna. A tutto
ciò si univa la cravatta per i benestanti, il
cappello Borsalino, le scarpe di cuoio con le
ghette, che servivano da copriscarpe in caso di
pioggia. Altro segno di distinzione era il paletot
al posto del tabaro. Segno di distinzione erano
i bottoni dei cappotti, che potevano essere di
osso, di madreperla ed anche di legno
(Montgomery). Per tutti un capo fondamentale erano le scarpe, alle quali provvedeva il
calzolaio, che accuratamente prendeva la misura con un bacchetto. Qualcuna ricorda le
scarpe di vernice con cinturino “alla bebè” e la
prima borsetta per metterci il velo ed il libretto
delle preghiere. È da ricordare che le scarpe di
vernice erano dei ricchi. Una persona ricorda
di aver dovuto riportare al negozio un paio di
scarpe di vernice, per i rimproveri della madre
che nell’acquisto vedeva un affronto alla contessa da cui dipendevano.
Oggi l’eleganza di un tempo è scomparsa per
la ricerca della comodità e dello stile casual.
Tutti indossano gli stessi capi originali o contraffatti. Lo status symbol si configura in altro
modo: il telefonino, lo zainetto, la griffe degli
indumenti, i tatuaggi, i piercing ed altro. Sull’abbigliamento prevale l’esibizione. In questo appiattimento maschi e femmine si vestono allo
stesso modo: la depersonalizzazione serve, probabilmente, per camuffare ansia ed insicurezza.
REZZARA NOTIZIE
41° Convegno di studi internazionali promosso dall’Istituto Rezzara di Vicenza
Crisi finanziarie: quali difese?
Recoaro Terme, 12-14 settembre 2008
La dimensione mondiale dell’economia è costituita oggi prevalentemente dal commercio
internazionale di beni e ancor più dal mercato
finanziario. In tempo reale è possibile trasferire
il denaro da un continente all’altro, da una produzione all’altra, da settori in surplus finanziario a settori in deficit. Pensiamo alla differenza
di quando la transizione avveniva con la trasmissione delle firme ed oggi con una password
digitata sulla tastiera. Ora tutto ciò non può che
risultare benefico in quanto è possibile realizzare investimenti un tempo impossibili, atti a migliorare il tenore di vita. Il mercato da statico è
divenuto dinamico e permette risposte puntuali
e tempestive alla situazione di fatto.
La domanda che sorge tuttavia è di sapere quali
condizioni devono essere soddisfatte, affinché le
istituzioni finanziarie possano svolgere i compiti
per i quali sono adatte. Sotto gli occhi di tutti
appaiono piccoli risparmiatori che si trovano
all’improvviso privati dei loro risparmi o nella
incapacità di soddisfare agli obblighi contratti
con mutui; operatori finanziari che si arricchiscono rapidamente con traffici illeciti di armi, droga,
materiale pornografico, organi umani; aziende
produttive sane costrette a chiudere improvvisamente perché private dei necessari finanziamenti.
A ciò si aggiungono fenomeni sociali quali i
paradisi fiscali e finanziari, il riciclaggio del de-
naro sporco, le speculazioni selvagge. Risuona
con forza allora il monito di Giovanni Paolo II,
che “mai le nuove realtà, che investono con forza
il processo produttivo, quali la globalizzazione
della finanza, dell’economia, dei commerci e del
lavoro, devono violare la dignità e la centralità
della persona umana né la libertà e la democrazia
dei popoli”. Sull’argomento si propone di riflettere il 41° convegno sui problemi internazionali,
organizzato dall’Istituto Rezzara di Vicenza a
Recoaro Terme dal 12 al 14 settembre 2008 sul
tema “Crisi finanziarie: quali difese?”.
L’argomento, piuttosto complesso e problematico, richiede la ricerca di alcune regole etiche, l’individuazione di forme di corresponsabilità a tutti i livelli delle persone interessate
ed infine alcune priorità alle quali il mercato
finanziario deve guardare.
I problemi indicati dell’attività finanziaria a
livello internazionale sono gravi, non facilmente controllabili, stimolati dal facile guadagno.
Discernere la grande utilità della nuova situazione economica e i rischi illeciti che presenta, è
assai difficile. Forse si impone un’azione sulle
coscienze per “umanizzare” la finanza, essendo
ogni risparmiatore in essa coinvolto. Ancor più
è indispensabile la promozione di una responsabilità collettiva, la quale sola può produrre qualche risultato.
Venerdì 12 settembre
- introduzione ai lavori
- prolusione: Ricchezza e Vangelo
- intervento: Etica e finanza
programma
Sabato 13 settembre
- lezione: Ruolo della finanza nell’economia mondiale
- lezione: Architettura e strumenti del mercato finanziario internazionale
- relazione integrata: Problemi umani e sociali e mercato finanziario
1) Crisi finanziarie e tutela del risparmio
2) Criminalità finanziaria e sanzioni
3) Speculazioni borsistiche: quali regole?
4) Capitale finanziario e mondo produttivo
Domenica 14 settembre
1° intervento: Mass media e mercato finanziario
2° intervento: Ripercussioni del mercato finanziario sui Paesi in via di sviluppo
3° intervento: Istituti bancari e diritti dei clienti
NASCERE E MORIRE, IERI ED OGGI
Rezzara, Vicenza, 2007, pp. 188, ISBN 88-86590-73-3, € 18,00
Oggi nascere e morire si sono sempre più privatizzati ed hanno
perso, da un lato, la coralità della società circostante e, dall’altro, l’apertura fiduciosa che un tempo, nella dimensione religiosa, era carica di amore e di speranza. Di conseguenza, più
acuta e distruttiva è divenuta l’esperienza del figlio anormale,
di quello non atteso o non previsto. I servizi sociali si sono
arricchiti, le cure sanitarie provvedono a molte situazioni un
tempo lasciate alla magia o alla semplice fatalità, ma l’impotenza umana, l’angoscia, il distacco restano drammi personali, vissuti in solitudine, in un clima generale di indifferenza.
Come è possibile valorizzare allora quanto il progresso offre
senza rinunciare ai valori antichi e al senso del mistero?
Questa è la sfida della civiltà, che emerge dal confronto fra
presente e passato analizzato nella pubblicazione.
QUOTA D’ABBONAMENTO
La quota di abbonamento per il 2008, da versare sul c.c.p. 10256360 intestato a Istituto
“Nicolò Rezzara”, contrà delle grazie 14, 36100 Vicenza è di € 19,00. A quanti invieranno
una cifra significativa sarà inviata al più presto una pubblicazione delle nostre edizioni.