Gazzetta Forense n. 4 del 2013
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Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 7 – Luglio‑Agosto 2013 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d’ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Mario de Bellis redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo editore Denaro Libri Srl, presso la Mostra d'Oltremare, viale Kennedy, 54 – 80125 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Giuseppe amarelli Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Raffaele Cantone Flora Caputo Sergio Carlino Matteo D’Auria Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Clelia iasevoli Rita Lombardi Raffaele Manfrellotti Catello MARESCA Giuseppina MAROTTA Daniele Marrama Raffaele MICILLO Maria Pia Nastri Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Gaetano scuotto Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Antonio Buonajuto Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 finito di stampare da 360o ‑ Roma – nel XXXX del 2013 SOMMARIO Editoriale [ A cura di Roberto Dante Cogliandro ] Diritto e procedura civile Alla prova dei fatti la nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali in cui è parte la pubblica amministrazione Raffaele Picaro La mediazione familiare: un istituto da decifrare e incentivare Antonio Bova 9 27 Trascrizione e conflitto tra l’acquirente “a domino” e l’acquirente “a non domino” Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II, 09 maggio 2013, n.10989 Daria Valletta 38 Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 46 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 48 In evidenza Corte di Cassazione, sezione III Civile, sentenza 22 marzo 2013, n. 7273 In evidenza Tribunale di Napoli, Sezione X Civile, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114 In evidenza Tribunale di Nola, sezione Ii Civile, sentenza 1 luglio 2013 50 53 56 Diritto e procedura penale Il sistematico impiego di minori nella pratica dell'accattonaggio: la (ir)rilevanza penale del fattore culturale 61 Claudia Santoro Sulla individuazione dell’organo dell’accusa nella fase della esecuzione Nota a Cassazione penale, sez. I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324 69 Fabiana Falato La Corte Costituzionale e la Corte Edu sul ricongiungimento familiare del reo 79 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali A cura di Angelo Pignatelli 82 Rassegna di legittimità [ Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 88 90 Diritto amministrativo I diritti edificatori nella gestione pianificatoria del territorio 97 Gaetana Marena Accessibilità degli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013, n. 5021 102 Alessandro Barbieri Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.) 109 A cura di Almerina Bove Diritto tributario La detassazione dei premi di produttività prorogata anche per il 2013 115 Enza Sonetti Diritto internazionale Rassegna di diritto internazionale 125 Francesco Romanelli Questioni [ A cura di Mariano Valente ] È sempre possibile, in attuazione degli artt. 3 e 32 Cost., trovare tutela ex art. 700 c.p.c.? Profili processuali e costituzionali scaturenti dalle recenti richieste d’urgenza di accesso alla speri‑ mentazione e trattamenti con cellule staminali, secondo il metodo Stamina. Analisi di quattro 131 ordinanze in materia. / Domenico Spena Nesso di causalità e colpa: un percorso argomentativo tra profili logico‑scientifici ed emozio‑ 135 nali. / Elisa Asprone Un Istituto scolastico statale può impugnare un provvedimento emanato da un’Amministrazio‑ ne non statale, (nella specie la Regione), avvalendosi del patrocinio di un avvocato del libero 142 Foro? / Elia Scafuri Recensioni Il capitale sociale e le operazioni straordinarie, di Michele Nastri, Paolo Divizia, Luca Olivieri, Milano, 2012 A cura di Sara Frizzoni 149 Gazzetta F O R E N S E ● Quando i poteri dello stato non si parlano ● Roberto Dante Cogliandro Notaio L U G L I O • A G O S T O 2 0 1 3 5 Quanto sta accadendo in questi giorni sul fronte della ri‑ strutturazione delle sedi giudiziarie sull’intero territorio nazio‑ nale è l’emblema di come nel nostro amato Paese le riforme radicali se partono incontrano poi sulla loro strada mille diffi‑ coltà, naturali e cercate a mò di pretesto per non fare o frenare. Come infatti tutti sappiamo sul finire dell’estate e l’arrivo dell’autunno molti tribunali saranno eliminati, moltissime sedi distaccate accorpate e un alto numero di uffici di Giudici di Pace soppressi. Insomma assisteremo ad una vera rivoluzione geografica delle sedi giudiziarie con una redistribuzione sul territorio di nuovi uffici con la creazione di nuovi Tribunali. La ratiodella riforma avviata dal governo Berlusconi, proseguita con il governo Monti e oggi che vede la luce con il governo Letta è volta alla razionalizzazione degli uffici giudiziari spar‑ si sul territorio che spesso sono cresciuti a dismisura e creati per mere convenienze campanilistiche degli enti locali. Inutile dirci che girando per i vari borghi d’Italia ciascuno di noi si sarà imbattuto in curiose ed inaspettate sedi dei Giudici di Pace o in incredibili sezioni distaccate di Tribunali. Cosa impensabile oggi dove la pubblica amministrazione e lo Stato tutto ha av‑ viato una forte cura dimagrante con il cercare di eliminare rami secchi e quanto di inutile o superfluo per la sua organizzazione. Pertanto, nonostante le mille resistenze riscontrate, ormai la tanto cercata riforma delle strutture giudiziarie si avvia al com‑ pimento con tutte le lentezze che possiamo immaginare per le partenze e le novità. Ma la cosa più sconvolgente riguarda il riempimento di queste nuove sedi di Tribunali. Se infatti il personale tecnico‑amministrativo è di stretta competenza dei ministri di Giustizia e della Pubblica Amministrazione e si spera che i ministeri relativi si siano attivati per le dotazioni di nuovi cancellieri e tecnici da reclutarsi per le sedi giudiziarie, le nuove piante organiche dei magistrati con la creazione dei ri‑ spettivi presidenti e procuratori generali sono di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura, la quale si trova ad arrancare rispetto alle procedure volte a riempire i posti vacan‑ ti. Solo a fine agosto il Csm ha fatto sapere che potrebbero es‑ serci seri problemi per reclutare circa 700 giudici da assegnare alla nuova geografia giudiziaria italiana. Motivo i tempi per espletare i bandi e le incompatibilità che potrebbero esserci tra i diversi giudici già applicati a strutture. Insomma siamo al paradosso che poteri dello stato (quello esecutivo e quello legi‑ slativo da un lato, e quello giudiziario dall’altro) non organiz‑ zandosi preventivamente creano riforme monche o che necessi‑ tano di rettifiche in corso d’opera. Come è possibile che solo ora il Csm sollevi una serie di problemi di organico quando la riforma è partita oltre due anni fa? Forse come tutte le cose Italiane si credeva che il riassetto geografico‑giudiziario non venisse mai alla luce? In altri casi, cito per tutti l’istituzione sulla carta del Tribunale di Giugliano in Campania che vide anche una cerimonia pubblica per la posa della prima pietra ma poi è rimasto l’unico mattone, il Consiglio Superiore della Ma‑ gistratura si attivò da subito a nominare tutti gli organismi dirigenti (presidente e procuratore) ma poi dovette ad un certo punto liberarli visto che le pietre del tribunale non decollavano. Ed allora dobbiamo pensare che stavolta il Csm per evitare il tempismo del passato abbia preferito giocare di rimessa ed aspettare che le strutture venissero trovate o costruite prima di iniziare a vedere l’organico di dotazione. In questo modo però i tempi delle riforme si allungano ed i cittadini per tutti paghe‑ ranno l’ennesimo caso di mala giustizia. Diritto e procedura civile Alla prova dei fatti la nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali in cui è parte la pubblica amministrazione Raffaele Picaro La mediazione familiare: un istituto da decifrare e incentivare Antonio Bova 9 27 Trascrizione e conflitto tra l’acquirente “a domino” e l’acquirente “a non domino” Daria Valletta 38 Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 46 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 48 In evidenza Corte di Cassazione, sezione III Civile, sentenza 22 marzo 2013, n. 7273 In evidenza Tribunale di Napoli, Sezione X Civile, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114 In evidenza Tribunale di Nola, sezione Ii Civile, sentenza 1 luglio 2013 50 53 56 civile Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II, 09 maggio 2013, n.10989 Gazzetta 9 F O R E N S E Alla prova dei fatti la nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali in cui è parte la pubblica amministrazione ● Raffaele Picaro Professore aggregato di diritto privato Sommario: 1. La genesi dell’intervento normativo sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: quando il diritto sovranazionale orienta gli ordinamenti interni. – 2. L’appli‑ cazione del d.lgs. n. 231 del 2002 in rapporto alla deadline per la stipula dei contratti commerciali, fissata dal d.lgs. n. 192 del 2012. Quid iuris? – 3. La nuova disciplina. Ambi‑ to soggettivo ed oggettivo di operatività. – 4. Gli interessi moratori ed il risarcimento del danno. – 5. I limiti posti all’au‑ tonomia negoziale nelle transazioni commerciali. – 6. Gli ostacoli all’operatività delle previsioni normative. 1. La genesi dell’intervento normativo sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: quando il diritto sovranazionale orienta gli ordinamenti interni. Il problema dei ritardi delle pp.aa. nel pagamento delle somme dovute ai propri “fornitori” – intendendo questo ter‑ mine in un’accezione lata, come meglio si dirà in prosie‑ guo – ha progressivamente acquisito il carattere dell’insoste‑ nibilità, tanto da costringere l’attuale Governo ad adottare, appena qualche mese fa, l’ennesimo provvedimento in mate‑ ria1. Tale correttivo è stato concepito al dichiarato fine di immettere liquidità nel sistema economico ‑sebbene attraverso procedure estremamente complesse e farraginose‑ e di consen‑ tire, per tale via, una ripresa dei consumi, nel tentativo di matrice keynesiana di un parziale superamento della spirale recessiva che ormai da anni prostra il nostro Paese. Invero, la materia è destinataria di una disciplina partico‑ larmente giovane e, perciò, oggetto di quei rimaneggiamenti imposti dalle difficoltà emerse dal suo concreto atteggiarsi nel quotidiano confronto con i meccanismi di funzionamento delle relazioni contrattuali e, dunque, del mercato nel suo complesso. Si potrebbe dire che ogni mercato genera i propri contratti, influenzando la disciplina del loro concreto operare, ma anche che il complesso dei singoli contratti genera il pro‑ prio mercato, dando vita a quelle relazioni, a quegli scambi, che ne tessono l’esistenza e ne condizionano il divenire. Dun‑ que il mercato è, al contempo, regola e struttura 2. Al riguardo, non può revocarsi in dubbio la particolare solerzia mostrata durante la XVI legislatura, attraverso l’adozione di una serie di interventi normativi e regolamentari3, sia pure per adempie‑ 1 D.l. n. 35 dell’8 aprile 2013, (c.d. decreto “sblocca debiti”), recante “Disposiz‑ ioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della p.a., per il riequilibrio fi‑ nanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali. Disposizioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria”, pubblicato in G.U. n. 82 dell’8 aprile 2013 e convertito, con modi‑ ficazioni, con l. n. 64 del 6 giugno 2013, pubblicata in G.U. n. 132 del 7 giugno 2013. Per uno sguardo alla novità legislativa si rinvia infra § 6. 2 Quanto alla stretta correlazione tra mercato e contratti, e alla necessaria con‑ divisione della regola iuris ad essa sottesa, cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, in Atti di Convegno del II Colloquio biennale dei giovani comparatisti “Privato, Pubblico, Globale nelle prospettive del Diritto Comparato”, Catania‑Enna, 28‑29 maggio 2010, p. 2 ss., laddove si evidenzia come ogni novità che involge i singoli contratti, neces‑ sariamente si riverbera sul mercato nel suo insieme; Rossi Carleo, recensione a La tutela del consumatore, a cura di Musio – P. Stanzione, in Trattato dir. priv., diretto da Bessone, XXX, Torino, 2009, in www.comparazionedirittocivile.it; De Cristofaro, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni com‑ merciali, in Nuove leggi civ. comm., 2004, p. 461 ss.; Sacco – De Nova, Il contratto, in Trattato dir. civ., diretto da Sacco, I, Torino, 2004, p. 14. 3 Cfr. d.l. 29 novembre 2008, n. 185; d.l. 31 maggio 2010, n. 78; d.lgs. 6 settem‑ bre 2011, n. 149; art. 13, l. 12 novembre 2011, n. 183, cd. Legge di Stabilità 2012; art. 39, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, cd. Salva Italia; d.l. 7 maggio 2012, n. 52; art. 12, d.l. 2 marzo 2012, n. 16; dd.mm. economia 22 maggio 2012, 25 giugno 2012 e 19 ottobre 2012; d.m. sviluppo economico 26 giugno 2012. civile ● 10 D i r itto e p r o c e du r a re a precisi obblighi comunitari. Due, infatti, le normative europee sul tema: dapprima la direttiva 2000/35/CE del Par‑ lamento Europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000 4, e poi la recente direttiva 2011/7/UE del 16 febbraio 2011, sostitu‑ tiva della prima. Quest’ultimo provvedimento ha dato alla luce, in Italia, il d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, peraltro approvato in anticipo rispetto alla scadenza prevista dalla direttiva stessa per il proprio recepimento (16 marzo 2013)5, e destinato a disincentivare ‑attraverso una disciplina ancor più stringente‑ la deprecabile prassi dei ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali, benché solo per i contratti conclusi a far data dal gennaio 2013. Nondimeno, il problema resta aperto e di difficile risoluzione, attesa la particolare congiuntura politico‑economica nazionale, europea e mon‑ diale, che costringe le imprese in una condizione di partico‑ lare sofferenza, amplificata in maniera esponenziale dall’in‑ capacità di rendersi competitive per carenza di liquidità, pa‑ radossalmente connessa ad una situazione creditoria, rimasta però insoluta a causa della lentezza della p.a. Per non parlare poi degli aggravi di costi conseguenti all’avvio delle procedu‑ re per recuperare coattivamente i propri crediti; disponibilità, questa, ulteriormente sottratta all’attività di investimento, con chiari risvolti anticoncorrenziali rispetto a quelle imprese che operano in Stati UE dove i pagamenti vengono effettuati con regolarità6. 4 Direttiva 2000/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, pubblicata in GUCE n. L 200/35 dell’8 agosto 2000. Tra i primi commenti alla direttiva e a come questa abbia inciso sugli istituti civilistici dell’ordinamento italiano, si veda Conti, La direttiva 2000/35/ CE sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la sua attuazione, in Corr. giur., 2002, 6, p. 802 ss.; Costantino, Lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Atti di convegno della Giornata di studio: La direttiva UE 35/2000 sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali ed il d.lgs. n. 231, Cons. sup. magistratura, Pa‑ lermo, 23 novembre 2002, p. 3; De Marzo, Ritardi di pagamento nelle tran‑ sazioni commerciali, in Contratti, 2002, p. 628 ss.; Id., I ritardi nei pagamenti degli appalti pubblici, in Urb. appalti, 2002, pp. 631 ss.; Fauceglia, Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2001, 3, p. 311 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/ CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Eur. dir. priv., 2001, p. 74 ss.; Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Stud. jur., 2001, p. 259. Sull’argomento cfr. anche Frignani – Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p. 308 ss.; Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, profili sostanziali e processuali, a cura di Benedetti, Torino, 2003, p. 1 ss. Più di recente cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 1 ss. 5 Differentemente da quanto era avvenuto con la direttiva del 29 giugno 2000 che aveva assegnato agli Stati membri il termine dell’8 agosto 2002 per confor‑ marvisi e dare, per tale via, effettività all’ambizioso progetto del legislatore europeo, pena l’instaurazione di una procedura d’infrazione; Termine, questa volta, non pienamente rispettato dall’Italia. 6 Un esaustivo excursus dell’attività legislativa in materia di ritardi di pagamen‑ to da parte dello Stato e degli enti locali nelle transazioni commerciali, è offer‑ to dal dettagliato documento di inizio legislatura (XVII) della Camera dei De‑ putati, reperibile sul sito internet www.camera.it. Per un approfondimento della consistenza, a dir poco impressionante, dei crediti commerciali comples‑ sivamente vantati dalle imprese nei confronti di amministrazioni pubbliche, si rinvia alla nota dell’EUROSTAT, Note on stock of liabilities of trade credits and avances, in www.ec.europa.eu/eurostat, dalla quale emerge che la stima dei debiti, per la sola Italia e fino al 2011, ammonterebbe provvisoriamente a € 67,3 miliardi. Perplessità sulla ricostruzione di tali stime, specie per la difficoltà oggettiva di estrapolare i dati utili all’individuazione dello stock dei debiti commerciali dai bilanci degli enti locali, sono state avanzate dalla Corte dei Conti, nella persona del suo Presidente, Luigi Gianpaolino, in occasione dell’au‑ dizione del 13 marzo 2012 presso la V Commissione Bilancio, Tesoro e Pro‑ grammazione. Per un maggiore dettaglio si rimanda al resoconto stenografico c i v il e Gazzetta F O R E N S E Il primo provvedimento normativo con il quale l’ordina‑ mento giuridico italiano ha dettato previsioni specifiche per contrastare la deprecabile prassi dell’eccessiva dilatazione dei tempi di adempimento delle obbligazioni pecuniarie7 assunte dalle pp.aa. nei confronti di soggetti terzi (ed in modo parti‑ colare dei fornitori di beni e servizi, ivi compresi quelli di natura professionale)8, è rappresentato dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transa‑ zioni commerciali”, entrato in vigore il 7 novembre 20029. dell’audizione, Analisi annuale della crescita per il 2012 (COM 2011) 815 def., reperibile sul sito www.camera.it. 7 In tema di obbligazioni pecuniarie della p.a., si segnala ex plurimis, De Cri‑ stofaro, Obbligazioni pecuniarie e contratti di impresa: i nuovi strumenti di “lotta” contro i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Stud. jur., 2003, p. 3 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora deben‑ di nelle obbligazioni pecuniarie, cit., p. 74 ss.; Di Geronimo, La disciplina delle obbligazioni pecuniarie dello Stato fra normativa contabile pubblica e comuni regole di diritto civile, in Riv. amm., II, 1993, p. 1227; Scarnecchia, In tema di responsabilità per ritardo nell’adempimento di debiti pecuniari della Pubblica Amministrazione, in Riv. not., 1984, p. 33 ss; Lo Torto, Le obbligazioni pecnuniarie della p.a.: pagamento degli interessi moratori in caso di ritardo ingiustificato, in Nuova rass., 1981, p. 2069; Segré, Obbligazioni pecuniarie dello Stato e pagamento degli interessi, in Arbitrati e appalti, 1968, pp. 329 ss. In generale cfr. E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, IX, Torino, 1999, p. 563 ss.; Inzitari, voce Obbligazioni pecuniarie, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 471 ss.; Breccia, Le obbligazioni, in Trattato dir. priv., a cura di Iudica – Zatti, Milano, 1991, p. 286 ss.; Mastropaolo, voce Obbligazione, V, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, p. 10 ss.; Inzitari, La moneta, in Moneta e valuta, in Trattato dir. comm. pubbl. econ., diretto da Galgano, VI, Padova, 1983, p. 119 ss.; Di Majo, voce Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 261 ss.; Distaso, voce Somma di denaro (debiti di), in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1970, p. 867 ss.; Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, in Comm. c.c., a cura di Scialoja – Branca, Bologna‑Roma, 1959, p. 170 ss. e p. 441 ss. 8 Per un’accurata ricostruzione delle reali dimensioni del fenomeno in esame e delle ragioni che lo hanno determinato e progressivamente acutizzato, si veda il contributo di Degni – Ferro, I tempi e le procedure di pagamento delle pubbliche amministrazioni, in www.camera.it. 9 Pubblicato in G.U. n. 249 del 23 ottobre 2002. Tra i primi commenti, si segna‑ la Bastion, Direttive comunitarie e tutela del creditore in caso di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali: prime osservazioni a proposito del d.lgs. n. 231/2002, in Dir. un. eur., 2003, 2‑3, p. 395 ss.; Roppo, Prefazione, in I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, profili sostanziali e pro‑ cessuali, a cura di Benedetti, Torino, 2003, IX, passim; Caringella, La nuova frontiera del controllo giurisdizionale sull’abuso negoziale nel d.lg. 231/2002, in Dir. form., 2003, I, p. 7 ss.; Id., I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Urb. appalti, 2003, 2, p. 57 ss.; Conti, Il d.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle obbligazioni commer‑ ciali, in Corr. giur., 1, 2003, p. 99 ss.; G. De Nova – S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratti commerciali, Milano, 2003, passim; Scotti, Aspetti di diritto sostanziale del d.lgs.vo 9 ottobre 2002, n. 231, “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, in Giur. merito, 2003, IV, p. 603 ss.; Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, cit., p. 1 ss.; Frignani – Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di paga‑ mento nelle transazioni commerciali, cit., p. 308 ss.; Maffeis, Abuso di dipen‑ denza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, in Contratti, 2003, p. 623 ss.; Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Milano, 2003, passim; Atelli, Contratti della Pubblica Amministrazione e normativa in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs. 231/2002): brevi note su tre aspetti sensibili nella prospettiva amministrativo‑contabile, 2002, in www. amcorteconti.it, il quale, nel sottolineare che il decreto in commento si applica anche ai contratti di appalto di forniture o servizi di cui sia parte una P.A., se‑ gnala che “gli interessi di mora dovuti dalle amministrazioni sulle somme non tempestivamente corrisposte ai fornitori di beni o servizi” presentano risvolti di interesse della Corte dei Conti in termini di debito erariale; De Marzo, Ri‑ tardi di pagamento nei contratti tra imprese: l’attuazione della disciplina comu‑ nitaria, in Contratti, 2002, p. 1155 ss; Gentile, Commento al D.Lgs.vo 231/2002, in Guida dir., 2002, 43, p. 24 ss. Su posizioni opposte, quanto alla portata innovativa del d.lgs. n. 231 del 2002, Clarizia, Il decreto legislativo sui ritardati pagamenti e l’impatto sul sistema, in Nuova giur. civ. comm., 2003, 1, II, p. 57 ss., che esorta a minimizzarne la forza sovversiva, evitando fretto‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O Tale decreto – che ancora oggi detta la disciplina generale in materia – apparentemente innocuo e dall’impatto, per ta‑ luni10, tutt’altro che dirompente ed innovativo, in realtà, ha costretto l’interprete ad una revisione o, quanto meno, ad una rilettura sistematica della complessiva disciplina di quegli istituti civilistici, di natura sostanziale o processuale, su cui ha dispiegato i suoi effetti. Non manca, però, chi giudica il nostro impianto codicistico incapace di reggere il passo ac‑ celerato della vita mercatorum, risultando obsoleto ed ana‑ cronistico di fronte al fermento di quest’ultima ed al progres‑ sivo delinearsi del cd. nuovo diritto dei contratti, perifrasi con cui si è soliti inquadrare quelle regole scaturenti dalle antino‑ mie tra fonti di derivazione eterogenea (comunitaria in pri‑ mis), spesso inconciliabili attraverso il ricorso ai tradizionali principi civilistici11. Il d.lgs. n. 231 del 2002 è stato di recente oggetto di rima‑ neggiamenti, su impulso delle istituzioni comunitarie, inter‑ venute a riformare la materia con l’adozione della menziona‑ ta direttiva 2011/7/UE in sostituzione della direttiva 2000/35/ CE. Stante l’obbligo, anche dal punto di vista costituzionale ex art. 117, co. 1, della Carta Fondamentale, di assicurare la conformazione dell’ordinamento interno alla richiamata fon‑ te comunitaria, si è pervenuti, sebbene in modo estremamen‑ te difficoltoso e farraginoso12 , all’emanazione del d.lgs. n. 192 del 201213, che ha introdotto previsioni innovative destinate losi proclami. In senso critico rispetto alle scelte del legislatore italiano nel dare esecuzione alla direttiva 2000/35/CE, cfr. Bregoli, La legge sui ritardi di pa‑ gamento nei contratti commerciali: prove maldestre di neodirigismo?, in Riv. dir. priv., 2003, p. 715; Perrone, L’accordo gravemente iniquo nella nuova disciplina sul ritardato adempimento delle obbligazioni pecuniarie, in Banca borsa e tit. cred., 2004, p. 65; E. Russo, La nuova disciplina dei ritardati pa‑ gamenti nelle transazioni commerciali, in Contr. e impr., 2003, p. 446; Id., Le transazioni commerciali, Padova, 2005, passim. Più di recente, si segnala la ricostruzione, anche in una dimensione comparatistica, di Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 2 ss. Si sono occupati del tema anche De Cristofaro, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 461 ss.; Cuffaro, La disci‑ plina dei pagamenti commerciali, Milano, 2004, passim; Zaccaria, Il coordi‑ namento fra la recente disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e la precedente disciplina in materia, in Stud. jur., 2004, 3, p. 305. 10 Nel dibattito intorno alla portata rivoluzionaria o meno della disciplina in questione, appaiono degne di attenzione le posizioni degli autori richiamati nella nota precedente, cui si rimanda per un’accurata analisi. 11 In tal senso Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 3 ss.; D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento: i principi e i rimedi, in Eur. dir. priv., 2008, p. 599 ss.; Aa.Vv., Il nuovo diritto dei contratti. Problemi e prospettive, a cura di F. Di Marzio, Milano, 2004, p. 179, ove l’a. osserva che la riconduzione ad equilibrio delle posizioni contrattuali, nella logica del nuovo diritto dei contratti, passa attra‑ verso diversi strumenti di tutela della parte debole che si snodano lungo tutta la vita del rapporto negoziale e che “hanno indotto alla rivisitazione di conso‑ lidati capisaldi della disciplina tradizionale del contratto”; Aa.Vv., Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, passim. 12 Per un approfondimento di tali questioni si rinvia a Gnes, La nuova disciplina sui ritardi dei pagamenti, in Giorn. dir. amm., 2013, pp. 117‑119. 13 D.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, recante “Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180”, pubblicato in G.U. n. 267 del 15 novembre 2012 ed entrato in vigore il 30 novembre 2012. Per un primo commento sul decreto in esame, si vedano Vi‑ sconti, Le norme sul contrasto ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in www.fiscoetasse.com e Rossi, Ritardati pagamenti: conto sa‑ lato per gli enti se si superano i 30 giorni, in www.diritto24.ilsole24ore.com. Di recente, v. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commercia‑ li dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, Torino, 2013, passim; Id., Le modifiche alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Commen‑ to al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, in Corr. merito, 4, 2013, p. 387. 2 0 1 3 11 ad incidere significativamente sul d.lgs. n. 231 del 2002. Le principali linee di azione di tale provvedimento normativo, valevoli per i contratti conclusi a decorrere dal gennaio 2013, sono in sintesi rappresentate dalla previsione che il termine ordinario per i pagamenti sia di trenta giorni, derogabile nell’ambito delle transazioni tra imprese con propria pattui‑ zione; che il prolungamento del termine di pagamento oltre i trenta giorni, nel caso il debitore sia una p.a., risulti sempre espressamente e, in ogni caso, non superi i sessanta giorni; che gli interessi moratori, che decorrono automaticamente alla scadenza del termine –fino ad allora stabiliti al 7 per cento in più rispetto al tasso fissato dalla BCE per le opera‑ zioni di rifinanziamento‑ aumentino all’8 per cento. Giova, al riguardo, sottolineare come tanto l’emanazione del d.lgs. n. 231 del 2002, quanto l’adozione del d.lgs. n. 192 del 2012, non siano state frutto di una libera scelta di politi‑ ca economica del legislatore nazionale, rappresentando piut‑ tosto una soluzione, per certi versi, imposta dalla necessità di assicurare l’assolvimento di obblighi europei. Appare oggi incontrovertibile, anche per gli spunti offerti in subiecta ma‑ teria, come l’influsso delle fonti comunitarie integri un poten‑ te fattore evolutivo dell’ordinamento giuridico italiano, dal momento che pone l’interprete nella significativa difficoltà di scontrarsi con logiche spesso estranee al patrimonio del nostro codice civile e delle leggi ad esso collegate, imponendo l’ado‑ zione di soluzioni talvolta lapalissianamente stridenti con il complessivo impianto normativo interno. Ma è anche questo il prezzo che i singoli Paesi membri dell’Unione Europea, e quindi l’Italia, hanno accettato di pagare per effetto della partecipazione alla costruzione ed al progressivo rafforzamen‑ to di un’entità giuridica sovranazionale. La rinunzia a parte della propria sovranità nazionale e la correlativa cessione di potere statale, da ritenersi autorizzate ai sensi dell’art. 11 Cost., recano con sé lo sforzo ultroneo, per l’operatore del diritto, di misurarsi costantemente con nuovi scenari, nuove dimensioni normative e nuove (almeno parzialmente) catego‑ rie giuridiche che, nel perseguimento di una sempre maggiore omogeneizzazione ‑auspicabilmente feconda‑ dei singoli siste‑ mi giuridici nazionali, determinano una trasformazione so‑ stanziale, quando non addirittura il sovvertimento, del qua‑ dro ordinamentale vigente14. Risulta significativo, al riguardo, il considerando n. 10 della direttiva 2000/35/CE – poi raffor‑ zato dalle premesse della successiva direttiva 2011/7/UE – poi‑ ché consente di cogliere agevolmente come il ridimensiona‑ mento del primato dei Governi nazionali abbia il più alto fine di consentire l’integrazione tra nazioni. La sensibilità per il problema dei ritardi di pagamento nelle transazioni commer‑ ciali ha, infatti, scaturigine nelle sedi comunitarie, allorché la 14 Sui rapporti fra ordinamento comunitario e nazionale si vedano Angelini, Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I principi fondamenta‑ li nelle relazioni interordinamentali, Padova, 2007, passim; P. Perlingieri, Il diritto civile 3 nella legalità costituzionale secondo il sistema italo‑comunitario delle fonti , I, Napoli, 2006, passim; Celotto, L’efficacia delle fonti comuni‑ tarie nell’ordinamento italiano, Torino, 2003, passim; Albino, Il sistema delle fonti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 2, p. 923 ss. Con specifico riferimento alle relazioni intercorrenti fra attività provvedimentale interna e fonti normative europee si rinvia, ex plurimis, a G. Pepe, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, passim; Laudante, Fonti comunitarie ed attività amministrativa statale tra separazione e integrazione degli ordinamenti, in Rass. dir. pubbl. eur., 2005, 1, p. 229 ss. civile Gazzetta 12 D i r itto e p r o c e du r a Commissione U.E., esortata dal Parlamento Europeo ad of‑ frire soluzioni adeguate, ha dapprima adottato la Raccoman‑ dazione del 12 maggio 1995 sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali15 e, in un secondo momento, tenuto conto dei risultati infruttuosi della stessa, così come emersi da apposita Relazione della Commissione pubblicata il 17 luglio 199716, è giunta a formulare una vera e propria propo‑ sta di direttiva del Consiglio17: di qui, la direttiva 2000/35/ CE. Diversamente dagli altri provvedimenti comunitari di analoga portata giuridica, la direttiva de qua, attraverso una lunga serie di considerazioni introduttive, esplicita con estre‑ ma chiarezza e precisione non solo le ragioni che ne hanno determinato la genesi, ma altresì le finalità che con essa si intendono perseguire18. Ciò che ha a cuore il legislatore comu‑ nitario, qui più che altrove, è il corretto svolgersi di quelle interrelazioni sociali che si tessono attraverso gli scambi e che danno luogo al libero mercato aperto. Ma questo significa, in altre parole, garantire il mantenimento di un equilibrato e leale dispiegarsi della concorrenza tra operatori economici19. Tanto, sul presupposto che il fenomeno dei ritardati pagamen‑ ti è suscettibile di ripercuotersi in misura consistente sulla crescita e sullo sviluppo delle imprese – in particolare, di di‑ mensioni medio/piccole – e, conseguentemente, sul corretto funzionamento delle regole concorrenziali e sullo sviluppo ordinato del mercato unico, alterando le condizioni di opera‑ tività delle imprese europee, a seconda dei diversi termini contrattuali di pagamento cui sono tenute a sottostare nei vari Stati UE, che talvolta differiscono notevolmente20. La divaricazione tra norma e prassi, che troppo frequentemente viene a realizzarsi, compromette l’armonico andamento del mercato interno con evidenti distorsioni della concorrenza. È appena il caso di rammentare che la direttiva in esame rap‑ presenta, come è stato acutamente osservato, il primo atto comunitario che si preoccupa di disciplinare l’ambito delle obbligazioni senza lambire forme di tutela del consumatore21. 15 Pubblicata in GUCE n. L/127 del 10 giugno 1995. 16 Si tratta della Comunicazione della Commissione dell’Unione Europea, intito‑ lata “Relazione sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali” del 17 luglio 1997, pubblicata in GUCE n. C/216 del 17 luglio 1997. 17 Pubblicata in GUCE n. C/168 del 3 giugno 1998 e in GUCE n. C/374 del 3 dicembre 1998. 18 Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, cit., p. 5 ss.; Costantino, Lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 3. 19 Il rilievo giuridico del concetto di concorrenza è tutto condensato nei riflessi che la stessa riverbera sul diritto dei contratti avuto particolare riguardo alla situazione di dipendenza economica di un contraente rispetto all’altro ed al potenziale abuso che può scaturire dalla correlata posizione di supremazia della parte dominante in quel precipuo rapporto obbligatorio. In proposito cfr. De Benedetto, Il principio di concorrenza nell’ordinamento italiano, in Riv. scuola sup. ec. fin., VII, 2, 2010, in www.rivista.ssef.it; Monfreda, Il regime comunitario della concorrenza e la compatibilità delle agevolazioni fiscali per le fondazioni bancarie, nota a Corte di Giustizia CE, 10 gennaio 2006, C‑222/04, in Riv. scuola sup. ec. fin., VII, 2, 2010, in www.rivista.ssef.it; Gian‑ nantonio Guglielmetti – Giovanni Guglielmetti, voce Concorrenza, in Dig. disc. priv. sez. comm., III, Torino, 2007, p. 301 ss.; Vincenti – Venturi‑ ni, La nuova disciplina comunitaria in materia di concorrenza, in Nuove leggi civ. comm., 2003, p. 537; N. Irti, Iniziativa privata e concorrenza (verso la nuova Costituzione economica), in Giur. it., IV, 1997, c. 226. 20 Al riguardo interessante è il Piano d’azione per il mercato unico del 4 giugno 1997 disposto dalla Commissione dell’Unione Europea, e peraltro richiamato nelle premesse della direttiva recepita, in www.ec.europa.eu. 21 Roppo, Introduzione, in Trattato resp. contr., diretto da Visintini, Padova, 2009, II, p. 15 ss.; Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 259. c i v il e Gazzetta F O R E N S E Dalle predette motivazioni causali è discesa la necessità di assicurare la repressione di potenziali degenerazioni del mec‑ canismo concorrenziale, determinate dalla situazione di di‑ sparità contrattuale tra soggetto creditore e soggetto debitore e dal conseguente vantaggio che le imprese (ed, in particolare, le pp.aa.) possono acquisire imponendo ‑in virtù della propria forza economica e/o negoziale, benché in posizione debitoria‑ termini di pagamento eccessivamente dilazionati nel tempo ovvero prolungati differimenti dell’adempimento delle proprie obbligazioni 22. La direttiva in questione, infatti, era manife‑ stamente diretta a “proibire l’abuso della libertà contrattuale 23 in danno del creditore” . Abuso rinvenibile nelle ipotesi ‑dettagliatamente indicate dal medesimo provvedimento co‑ munitario‑ di un contratto avente ad oggetto essenzialmente l’arricchimento della parte debitoria in danno del creditore (sub specie di liquidità aggiuntiva lasciata nelle sue casse), così come, nell’ambito degli appalti, del contratto con cui il fornitore principale, in assenza di una ragionevole giustifica‑ zione, imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di pagamento dilazionati rispetto a quelli concessigli. Nondime‑ no, il legislatore della direttiva 2000/35/CE era ben consape‑ vole che per dissuadere concretamente il debitore dal tardivo adempimento ‑da considerarsi alla stregua di una vera e pro‑ pria “violazione contrattuale”‑ bisognava far sì che questo apparisse poco appetibile e, dunque, economicamente pregiu‑ dizievole per il debitore, al contrario di quanto registrato fino a quel momento. Ed è esattamente questo l’ambizioso obiet‑ tivo prefissato con la richiamata direttiva e condiviso dai successivi provvedimenti modificativi o sostitutivi: per un 22 Sul rapporto obbligatorio in generale e, in particolare, in tema di adempimen‑ to dell’obbligazione cfr. C. M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. c.c., a cura di Scialoja‑Branca, sub artt. 1218‑1229, Bologna‑Roma, 1970, p. 129 ss; Carnelutti, Appunti sulle obbligazioni, in Riv. dir. comm., 1915, I, pp. 515‑517; Id., Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 244 ss.; Barassi, La teoria generale delle obbligazioni. L’attuazione, III, Milano, 1946, p. 863; Di Blasi, Il libro delle obbligazioni, Parte generale, Milano, 1950, p. 11 ss. Riguardo alla definizione di rapporto obbligatorio si rinvia all’analisi di Pugliatti, Gli istituti di diritto civile, Milano, 1943, p. 253 ss.; Id., Il rappor‑ to giuridico unisoggettivo, in Id., Diritto civile. Metodo, teoria, pratica (Saggi), Milano, 1951, p. 396 ss.; Butera, Il codice civile italiano, Libro delle obbliga‑ zioni, I, Torino, 1943, passim; Longo, Diritto delle obbligazioni, Torino, 1950, p. 13 ss., dove afferma che «nella nozione di obbligazione, momento essenzia‑ le e preminente è il diritto di esigere l’adempimento del dovere giuridico di prestazione, che scolpisce l’elemento personale nella nozione»; Messineo, 9 Manuale di diritto civile e commerciale , III, Milano, 1959, p. 41; Giorgian‑ ni, voce Obbligazione (diritto privato), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, p. 581 ss.; Id., Inadempimento, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 861 ss.; Distaso, Le obbligazioni in generale, in Giur. sist. civ. comm., Torino, 1970, p. 6 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbliga‑ torio, Milano, 1968, p. 97 ss.; Di Majo, Obbligazioni e contratti. L’adempi‑ mento dell’obbligazione, Bologna, 1993, p. 2; Cannata, Le obbligazioni in generale, in Tratt. dir. priv. Rescigno, 9, 1, Torino, 1999, p. 35 ss.; Galgano, 3 Diritto civile e commerciale , II, Le obbligazioni e i contratti, I, Obbligazioni in generale, Contratti in generale, Padova, 1999, p. 7 ss.; Chianale, voce Obbligazione, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 338 ss.; P. Per‑ lingieri – Ferroni, Situazioni di credito e di debito, in P. Perlingieri, Ma‑ 6 nuale di diritto civile , Napoli, 2007, p. 211. In una prospettiva storica cfr. Cannata, voce Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 407 ss. Per alcuna dottrina dei primi del novecento, cfr. Lomonaco, Delle obbligazioni e dei contratti in genere, I, in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, diretto da Fiore e continuato da Brugi, 10, Delle obbligazioni, Napoli‑Torino, 1924, passim; Id., Delle obbligazioni e dei contratti in genere, II, ivi, Napoli‑Torino, 1925, passim; De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, II, Messina, 1939, 8 pp. 1‑48; De Ruggiero e Maroi, Istituzioni di diritto privato , II, Milano‑Mes‑ sina, 1954, p. 60 ss. 23 Così il considerando n. 19 della direttiva 2000/35/CE. F O R E N S E luglio • A G O S T O verso, aumentando i tassi di interesse della mora debendi 24 e, per altro, snellendo, e quindi rendendo più celeri, le procedu‑ re finalizzate al recupero coattivo del credito25. E infine pre‑ vedendo, a corollario della corresponsione degli interessi moratori dovuti, una forma di risarcimento del danno per il ritardo nell’adempimento26. In maniera non dissimile, come anticipato, l’intervento correttivo del d.lgs. n. 192 del 2012 non trova certo la sua origine nella consapevolezza del legislatore nazionale dell’ac‑ clarata inadeguatezza dell’impianto del d.lgs. n. 231 del 2002 a fronteggiare il fenomeno dei ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali (specie con riferimento ai contratti di cui è parte la.a.) ‑che pure avrebbe dovuto indurlo in tale direzione ben prima dello sprone comunitario sopraggiunto dopo un decennio di operatività della legislazione in questio‑ ne‑ bensì nella necessità di assicurare il recepimento di un’ulteriore direttiva comunitaria intervenuta in subiecta materia 27. L’intento di questa breve indagine è scoprire che discipline speciali come questa siano utili, non già a sconfessare la re‑ gola iuris, bensì a confermarla ed avvalorarla, se si è in grado 24 Sulla mora del debitore, cfr. Riccio, La mora non imputabile in materia di obbligazioni pecuniarie, in Contr. e impr., 2002, 3, p. 1037; Valacca, La nuova disciplina degli interessi di mora, in Corr. trib., 2004, 11, p. 815; Va‑ scellari, Interessi di mora e usura: la normativa attuale anche alla luce della nuova disciplina contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Stud. jur., 2004, 2, p. 166 ss. Il ritardo, per taluna dottrina minoritaria, rappresenterebbe una species del più ampio genus dell’inadempimento. In tal senso, si v. amplius Mazzarese, voce Mora del debitore, in Dig. disc. priv. sez. civ., XI, Torino, 1994, p. 443 ss.; Natoli – Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e mora debendi, Milano, 1975, p. 245. Su posizioni opposte, reputando il ri‑ tardo alla stregua di fatto oggettivo, e perciò non riconducibile alla sfera di imputabilità del debitore, Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Comm. c. c., diretto da Schlesinger, Milano, 1987, p. 309; Id., L’inadempimen‑ to delle obbligazioni, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, IX, Torino, 1984, p. 237. Sia consentito rinviare a Picaro, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto del creditore, Napoli, 2012, passim. 25 Cfr. Sandulli, La posizione dei creditori penuiari dello Stato, in Riv. trim. dir. pubb., 1952, p. 543 ss.; Zeno, Crediti pecuniari e azione verso la p.a., Dir. e giur., 1979, p. 648 ss. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. un., 8 giugno 1985, n. 3451, con nota di Memmo, Locazione di immobili alla p.a. Obbligazioni pecuniarie delle p.a., in Nuova giur. civ. comm., 1986, I, p. 63 ss. 26 In tema di risarcimento del danno per il ritardo nell’adempimento e responsa‑ bilità per inadempimento, si rinvia a F. Bocchini, Estinzione del rapporto 4 obbligatorio. Adempimento, in F. Bocchini – E. Quadri, Diritto privato , Torino, 2011, p. 557; Di Majo, voce Obbligazione, in Enc. giur., XXI, Milano, 2 1990, p. 3; Id., La tutela civile dei diritti , Milano, 1993, p. 155 ss.; Id., voce Pagamento (diritto privato), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 548 ss.; Id., Obbligazioni e contratti. L’adempimento dell’obbligazione, Bologna, 1993, p. 12 ss.; Prosperetti, voce Pagamento (diritto civile), in Enc. giur., XXII, Roma, 1990, p. 1 ss.; Cian, voce Pagamento, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII, Torino, 1995, p. 234 ss.; G. Romano, Interessi del debitore e adempimento, Napoli, 1995, p. 188 ss.; Chessa, L’adempimento, Milano, 1996, p. 7 ss.; Cannata, L’adempimento delle obbligazioni, in Cannata – Prosperetti – Vi‑ 2 sintini, Obbligazioni e contratti , in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 9, 1, Torino, 1999, p. 61 ss.; Cannata, Le obbligazioni in generale, ivi, p. 34 ss.; 2 Visintini, Inadempimento e mora del debitore , in Comm. c. c., diretto da Schlesinger, Milano, 2006, passim; Castronovo, La responsabilità per ina‑ dempimento da Osti a Mengoni, in Eur. dir. priv., I, 2008, p. 1 ss; Garri, Adempimento delle obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione, rilevanza della procura contabile di spesa e decorrenza degli interessi corrispet‑ tivi e moratori, in Enti pubblici, 1998, p. 455 ss. Sul tema cfr. Cass., 5 maggio 1983, n. 3071, in Giust. civ., 1983, I, p. 2977, con nota di Costanza, Sugli interessi spettanti ai creditori della p.a. 27 Su cui si vedano Gnes, La disciplina europea sui ritardi dei pagamenti, cit., p. 821 ss.; Ambrosi, Direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Con‑ siglio, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni com‑ merciali del 16/02/2011, in Fam. pers. succ., 2011, 6, p. 477 ss.; Canavesio, La nuova direttiva 2011/7 in tema di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: prospettive di recepimento, in Contr. e impr. Europa, 2011, p. 449. 2 0 1 3 13 di non smarrire le direttrici civilistiche da cui l’interprete sa che possono dipanarsi statuizioni derogatorie, e dunque spe‑ ciali, che proprio nel loro essere tali, e quindi ontologicamen‑ te diverse dalla disciplina generale, trovano la propria ragione giustificatrice, in un quadro d’insieme capace di ricondurre ad unità la complessiva ed apparentemente caotica ramifica‑ zione del sistema giuridico, in quella stessa mappa rappresen‑ tata dal codice civile e dai principi giuridici su cui si fonda, tracciata dal legislatore e vivificata dall’interprete. 2. L’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2002 in rapporto alla deadline per la stipula dei contratti commerciali, fissata dal d.lgs. n. 192 del 2012. Quid iuris? La formulazione originaria del d.lgs. n. 231 del 2002, come già anticipato, è rimasta fondamentalmente invariata, al di là di talune modifiche di dettaglio28, sino all’emanazione del d.lgs. n. 192 del 2012 le cui disposizioni trovano applica‑ zione limitatamente ai contratti conclusi a decorrere dal gennaio 201329. Invero, la previsione di un’applicazione ex nunc delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 192 del 2012, finisce per sterilizzarne gli effetti favorevoli alle imprese e ai professio‑ nisti creditori, e dunque al mercato, circoscrivendo eccessiva‑ mente la sfera dei beneficiari del provvedimento stesso. Ma risponde all’evidente intento di prevenire possibili conseguen‑ ze negative, in termini di esborso, a carico delle pp.aa., posto che se del nuovo modello si fosse fatta applicazione retroatti‑ va, ciò avrebbe determinato un sensibile aggravio dei costi indiretti sopportati dai soggetti pubblici per assicurarsi for‑ niture di beni e servizi nonché l’esecuzione di lavori30. Per altro verso, l’irretroattività di tale atto normativo, anzi la sua validità futura (applicandosi alle ipotesi di ritardo connesse ai contratti conclusi dal 2013 in poi, ben oltre dunque la data della sua entrava in vigore, fissata al 30 novembre 2012), ha finito per realizzare una circostanza anomala, quella dell’at‑ tuale contemporanea vigenza di due formulazioni, succedute‑ si nel tempo, del medesimo provvedimento, id est il d.lgs. n. 231 del 2002. Se la versione originaria, così come concepi‑ ta dal legislatore del 2002, continua ad applicarsi ‑sempre che ovviamente ne ricorrano i presupposti‑ a tutti i pagamenti connessi alle transazioni commerciali sorte entro il 31 dicem‑ bre 2012 (fungendo pertanto da disciplina transitoria limita‑ tamente alle previsioni oggetto di riforma), del pari esplicano i loro effetti le singole previsioni del medesimo decreto, così come riformulate dalle innovazioni del 2012, con esclusivo riguardo a quei contratti stipulati a partire dal 2013. Nella sostanza, nell’ambito del novellato d.lgs. n. 231 del 2002, talune previsioni operano indipendentemente dal discrimine temporale, mentre per altre occorre avere come riferimento il 28 Apportate, a titolo esemplificativo, dalla l. n. 27 del 2012 di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 1 del 2012. 29 Cfr. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, cit., passim. 30 La Relazione illustrativa al d.lgs. n. 192 del 2012 chiarisce che la scelta del differimento nell’effettiva entrata in vigore delle nuove disposizioni è dovuto alla necessità di permettere a tutti gli interessati (e, in particolare, alla p.a.) di adeguarsi alle nuove previsioni, soprattutto per quanto concerne la modulistica contrattuale da adottare e le procedure interne di pagamento. Al riguardo, si vedano le riflessioni di Mazzini, Un’applicazione non retroattiva della disci‑ plina riduce l'impatto positivo sulle imprese creditrici, in www.ilsole24ore. comm. civile Gazzetta 14 D i r itto e p r o c e du r a 31 dicembre 2012. In conclusione, l’interprete cui è deman‑ data la ricognizione, nella fattispecie concreta, della ricorren‑ za dei requisiti di validità della normativa in questione, dovrà preliminarmente verificare se il pagamento di cui si contesta il tardivo adempimento sia relativo ad un contratto concluso entro od oltre la deadline rappresentata dal 31 dicembre 2012. Solo a quel punto sarà infatti in grado di stabilire la discipli‑ na da applicare (il regime ante o post riforma del 2012) ma anche i presupposti di operatività della stessa, potendo il caso de quo collocarsi all’esterno di essa. Fino a che dunque non vengano smaltite tutte le pendenze contrattuali collegate a transazioni commerciali realizzatesi entro la fine del mese di dicembre del 2012, e quindi non vada a regime la disciplina dei ritardi nei pagamenti introdotta con il d.lgs. n. 192 del 2012, non potrà non darsi conto di ambedue le formulazioni delle norme del d.lgs. n. 231 del 2002 sottoposte a revisione, attesa la loro attuale convivenza nell’ordinamento giuridico interno. 3. La nuova disciplina. Ambito soggettivo ed oggettivo di opera‑ tività. Operata tale sintetica, eppure doverosa, premessa, si ritie‑ ne opportuno svolgere alcune essenziali considerazioni circa la portata precettiva delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 231 del 2002 nella formulazione originaria, comparata con le innovazioni apportate in sede di modifica, nell’obiettivo di afferrare le logiche sottese ai successivi provvedimenti corret‑ tivi in sede comunitaria e, conseguentemente, in ambito na‑ zionale. Dalla semplice e piana lettura delle statuizioni ivi conte‑ nute è agevole cogliere come il raggio d’azione del d.lgs. n. 231 del 2002 risultasse estremamente esteso, posto che, nella prima versione, esso disciplinava ‑e ancora disciplina, lo si ribadisce, con riguardo ai contratti stipulati entro il 31 dicem‑ bre 2012‑ la quasi totalità dei rapporti intercorrenti fra im‑ prese ovvero fra imprese e pp.aa. 31, considerando, peraltro, sia le une che le altre nel senso più ampio possibile. In via preliminare, per quel che concerne il profilo sogget‑ tivo dell’ambito di applicazione della normativa in commento, corre l’obbligo di evidenziare come emergano, da subito, due questioni principali: da un lato, quella del ricorso ad un’acce‑ zione di imprenditore talmente dilatata da concedere dimora anche al libero professionista; dall’altro, con riguardo al ver‑ sante pubblicistico, quella del riferimento ad una altrettanto nutrita e variegata famiglia, comprensiva persino del “nipote eclettico” di origini comunitarie noto come organismo di diritto pubblico. Quanto al primo profilo, vale a dire al sog‑ getto “impresa”, giova considerare che quella nozione che rinviene i propri natali nella Francia napoleonica per appro‑ dare nei codici italiani postunitari (del commercio prima e civile poi), ha da tempo lasciato spazio ad un’idea più confa‑ cente alle esigenze del nuovo mercato globalizzato ed al mo‑ dello contemporaneo di organizzazione d’impresa32. Muoven‑ 31 Cfr. art. 2, d.lgs. n. 231 del 2002, ante modifiche del 2012. 32 Si v. Grossi, Itinerari dell’impresa, in Quad. fiorentini, Per la storia del pen‑ siero giuridico moderno, XXVIII, Tomo I, Milano, 1999, p. 1003 ss., il quale riteneva già allora superato l’“individualismo giuridico”, avendo acquisito importanza per il mondo contemporaneo “l’organizzazione”, “cioè non i sin‑ goli rapporti slegati ma piuttosto i loro collegamenti in intreccio di connessioni c i v il e Gazzetta F O R E N S E do dalla constatazione che c’è impresa ogni volta che si è di‑ nanzi ad un’attività potenzialmente capace di produrre un profitto, e considerando che i liberi professionisti non solo sono in grado di generare ricchezza, ma oggi sono sempre più supportati nella loro attività da una struttura complessa di uomini e mezzi al pari ‑quando non addirittura al di sopra‑ delle imprese medio/piccole, appare oramai destituita di ogni significato la loro sottrazione al rischio d’impresa, se non per quel retaggio culturale, di medievale reminiscenza, che rico‑ nosceva privilegi alle corporazioni. Il comun denominatore dell’idoneità a creare profitto ha così persuaso ad includere nell’alveo della nozione di imprenditore ‑benché sotto spinte comunitarie e solo per singoli settori, come nel caso della disciplina che qui interessa‑ la figura del libero professionista, storicamente sottratto al rischio d’impresa, secondo un’impo‑ stazione più pragmatica ed attenta a dare risposte ai problemi piuttosto che dilettarsi in questione teoretiche33. Non pare, pertanto, congruo dilungarsi sulle riflessioni che hanno ani‑ mato, e tuttora vivacizzano, il dibattito sulla vexata quaestio della differenza tra obbligazioni di mezzo ed obbligazioni di risultato, dai tratti oggi estremamente sfumati34, benché fre‑ quentemente invocata in sede giurisdizionale35. Se tale era il contesto per quanto attiene all’ambito sog‑ gettivo di applicazione, con l’emanazione del successivo d.lgs. n. 192 del 2012 si è riconosciuto inoltre ai liberi professionisti il diritto di compensare i crediti con la.a., per cui dal gennaio 2013 anche le parcelle professionali dovranno essere pagate puntualmente, essendo la riscossione di queste assistita da regole più severe. Prendendo in prestito il linguaggio scienti‑ fico della matematica è possibile affermare che l’equazione libero professionista=imprenditore nel nostro ordinamento non può essere considerata un’identità, giacché non è sempre spesso complicatissimo”. 33 Si v. amplius, Timellini, voce Liberi professionisti, in Dig. disc. priv. sez. comm., Agg., Torino, 2008, p. 535; Spada, voce Impresa, in Dig. disc. priv. sez. comm., VII, Torino, 2007, p. 53 ss.; Gabrielli, Il consumatore ed il professio‑ nista, in Gabrielli – E. Minervini, I contratti dei consumatori, Torino, 2005, p. 13 ss.; G.F. Campobasso, Le società fra professionisti, in Diritto privato comunitario – Lavoro, impresa e società, a cura di Rizzo, II, Napoli, 1997, passim; Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1991, p. 18 ss.; F. Bocchini, Tutela del consumatore e mercato, in Commentario al capo XIV‑bis del codice civile: dei contratti del consumatore, a cura di C. M. Bianca e Busnelli, in Nuove leggi civ. comm., Padova, 1997, passim; Id., Nozione di consumatore e modelli economici, in Aa.Vv., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura di F. Bocchini, I, Torino, 2003, passim. 34 Sul tema si veda l’articolata ricostruzione di Mengoni, Obbligazioni di risul‑ tato e obbligazioni di mezzi. La funzione della colpa nella responsabilità con‑ trattuale, II, in Riv. dir. comm., 1954, p. 280 ss.; Id., Il limite di responsabilità nelle due categorie di rapporti, III, ivi, p. 306 ss. il quale ricostruisce la teoria a partire da Bernhöft e Fischer; Id., Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, L’onere della prova, IV, ivi, p. 367 ss.; De Lorenzi, voce Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Dig. disc. priv. sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 398 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. c. c, a cura di Scialoja – Branca, Bologna‑Roma, 1967, p. 30 ss., secondo cui «la distinzione tende soprattutto a spiegare una certa ripartizione dell’onere pro‑ batorio dell’inadempimento e l’applicazione di una diversa misura di respon‑ sabilità debitoria». In senso conforme, un interessante e recente arresto della Suprema Corte, reso in tema di responsabilità contrattuale delle strutture sani‑ tarie: Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 612, con nota di De Matteis, La responsabilità delle strutture sanitarie; in Resp. civ. prev, 2008, p. 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria. 35 Cfr. De Lorenzi, voce Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato, cit., p. 403; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 206. F O R E N S E luglio • A G O S T O verificata ‑né esiste un obbligo in tal senso da parte del legi‑ slatore europeo36‑ ma senz’altro risulta vera ogni qual volta l’incognita di cui ricercare il valore opera sul piano della concorrenza37. Ragioni di completezza impongono di precisa‑ re, in proposito, che il Parlamento italiano sembra convergere con le prospettive europee, nel segno della demolizione del dogma dell’intangibilità delle prerogative dei liberi professio‑ nisti38. D’altra parte, l’atecnicismo che caratterizzava la diret‑ tiva 35/2000/CE ha creato non poche difficoltà agli ordina‑ menti di quei Paesi membri abituati ad una disciplina diffe‑ renziata dell’attività libero‑professionale, come ad esempio la Germania (oltreché l’Italia). Il legislatore tedesco ha dovuto, infatti, coniare ‑come opportunamente segnalato in dottrina‑ il neologismo (almeno in ambito giuridico) unternehmer, per poter ricomprendere in una categoria unitaria libero‑profes‑ sionista ed imprenditore in senso classico39. Sotto altro profilo, il d.lgs. n. 231 del 2002 accedeva, nella prima versione, come sopra accennato, ad un significato ampio della stessa nozione di.a. che, a prescindere da una considerazione esclusiva del profilo soggettivo, finiva per accogliere, coerentemente con una tendenza chiaramente percepibile nell’ordinamento giuridico italiano (ed anch’essa, in buona sostanza, di derivazione comunitaria), un’accezione sostanziale di ente pubblico imperniata, in disparte la veste giuridica, sul rilievo preminente attribuito al perseguimento di finalità d’interesse generale e sull’utilizzo prevalente di ri‑ sorse pubblicistiche lato sensu intese, ovvero sulla sussistenza di un rapporto di controllo fra.a. e soggetto giuridico formal‑ mente agente in regime di diritto privato40. 36 Il libero professionista è (considerato) imprenditore quando è creditore di pagamenti a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale e solo per le finalità perseguite dai relativi provvedimenti comunitari. Inutile dire dell’ef‑ fetto dirompente che avrebbe avuto la diversa previsione dell’obbligo genera‑ lizzato di considerare il libero professionista alla stregua di un imprenditore. Resta il fatto che nella definizione di imprenditore di cui all’art. 2, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 231 del 2002 rientrano non solo tutte le persone, fisiche e giuridiche, che esercitino in forma organizzata un’attività economica ma anche i lavorato‑ ri autonomi e gli esercenti una libera professione (sia o meno l’esercizio di quest’ultima subordinato all’iscrizione in albi od elenchi, e indipendentemente dalla presenza del requisito della “organizzazione” di beni, capitale o lavoro), nonché le associazioni e fondazioni, le quali esercitino in via esclusiva un’atti‑ vità commerciale, e gli enti no profit, ai quali l’ordinamento giuridico riconosce la possibilità, sebbene con talune limitazioni, di svolgere attività economiche di natura commerciale, artigianale o agricola. Resta, in ogni caso, una definizione di più ampio respiro rispetto a quella offerta dall’art. 2082 c.c. 37 Si v. al riguardo il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30. Copiosa è la giurisprudenza comunitaria in materia. Tra tutte, cfr. Corte giust., 19 febbraio 2002, in cause C‑309/99 e C‑35/99; Corte giust., 12 settembre 2000, in cause C‑180/98 e C‑184/98; Corte giust., 18 giugno 1998, in causa C‑35/96; Corte giust., 23 aprile 1991, in causa C‑41/90, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1992, p. 1322. In dottrina, invece, si segnala, ex plurimis, Timellini, voce Liberi professioni‑ sti, cit., p. 535; Ticozzi, Avviamento degli studi professionali, in Contr. e impr., 2007, 3, p. 647 ss.; Spada, voce Impresa, cit., p. 53 ss.; Gabrielli, Il consu‑ matore ed il professionista, in Gabrielli – E. Minervini, I contratti dei con‑ sumatori, cit., p. 13 e ss.; Di Via, L’impresa, in Diritto privato Europeo, a cura di Lipari, Padova, 1997, I, p. 252 e ss. 38 Cfr. Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 13, il quale ricorda come la regolamentazione della professione forense abbia, da ultimo, proseguito proprio in tale direzione, laddove ha introdotto il cd. patto di quota lite, con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), come modificato dalla l. 4 agosto 2006, n. 248. 39 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑ ratistici, cit., p. 11. 40 Il d.lgs. n. 231 del 2002 accoglie, in buona sostanza, il concetto di organismo di diritto pubblico su cui si v. Caringella, Corso di diritto amministrativo, 2. Enti pubblici e pubblico impiego, Roma, 2013, p. 10 e p. 18 ss.; Di Giulio, Ancora sulla nozione di organismo di diritto pubblico, in Rass. giur. quadrim. pubb. serv., 2001, p. 168; Santoro, Soggetti pubblici e privati nella nozione 2 0 1 3 15 Tra le novità di maggiore rilievo introdotte con il d.lgs. n. 192 del 2012, si ritiene opportuno segnalare la nuova de‑ finizione di.a. di cui al novellato art. 2, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2002, che fa propria quella offerta dal Codice dei contrat‑ ti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, includendovi ogni altro soggetto tenuto al rispetto della disciplina sugli appalti pubblici, e solo entro i limiti in cui esso svolge tale attività; negli altri casi, invece, smette le vesti di.a.41. A ben vedere, la definizione è pressoché omnicomprensiva e finisce con il ri‑ condurre ‑ai fini che qui vengono in rilievo‑ entro il perimetro pubblicistico, anche soggetti totalmente estranei all’apparato organizzativo della p.a., quali, a titolo esemplificativo, i con‑ cessionari di pubbliche funzioni42. In altri e più semplici termini, dunque, il d.lgs. n. 231 del 2002 si applica a tutti i contratti stipulati fra imprese, tra le stesse e la.a., nell’accezione lata del concetto precedentemen‑ te espresso, fra professionisti intellettuali ed imprese, fra professionisti intellettuali e la.a., fra due o più professionisti intellettuali, con esclusione, per contro, dei contratti dei qua‑ li sia parte un consumatore. Sicché, anche la.a. resta soggio‑ gata ‑sin dal 2002‑ dal meccanismo della mora debendi, a cui fino ad allora si sarebbe, secondo alcuni43, sottratta, in nome di una non imputabilità del soggetto pubblico. Il processo di sovvertimento dei privilegia 44 della p.a., avviato nel 2002 e confermato dieci anni dopo, prefigura, in realtà, un mutamento di prospettiva più ampio nel diritto comunitario che, in qualche modo, influenzando gli Stati UE e, quindi, l’Italia, pone in difficoltà il nostro ordinamento ed i suoi interpreti nel lavoro di contemperamento di tali norme che esaltano il favor per il creditore rispetto a quelle civilisti‑ comunitaria di organismo di diritto pubblico,in Riv. Corte conti, 2001, p. 292; Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in Riv. it. dir. pubb. com., 2000, p. 839; Sandulli, La giurisdizione sugli atti dell’organismo di diritto pubblico, in Giorn. dir. amm., 2000, p. 1195. Nella giurisprudenza comunitaria si segnalano due sentenze storiche, la “sentenza Mannesmann” della Corte giust., 15 gennaio 1998, C‑44/96 e la “sentenza Taitotalo”, 22 maggio 2003, C‑18/01, in http://eur‑lex.europa.eu. 41 Cfr. Trebastoni, Identificazione degli enti pubblici e relativa disciplina, in www. giustizia‑amministrativa.it. 42 Pur dovendosi evidenziare che “l’ordinamento impone ai concessionari di opere pubbliche obblighi di diverso ambito, quanto all'affidamento a terzi di lavori, servizi e forniture, a seconda che il concessionario sia amministrazione aggiudicatrice (nel cui ambito rientra anche la categoria dell'organismo di di‑ ritto pubblico, sia ai sensi del vigente art. 3, co. 25 e 26, d. lgs. n. 163 del 2006, sia ai sensi della previgente disciplina) o non lo sia. Infatti il concessionario, che sia amministrazione aggiudicatrice/organismo di diritto pubblico, è tenuto al rispetto delle procedure di evidenza pubblica per qualsivoglia appalto, invece il concessionario che non sia amministrazione aggiudicatrice è tenuto al rispet‑ to delle procedure di evidenza pubblica solo per l'affidamento di appalti di la‑ vori nei limiti della quota (40% o 30%) in cui è tenuto ad esternalizzare lavori, con affidamento a terzi”, così Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2011, n. 3892. 43 Venturelli, Specialità della costituzione in mora nelle obbligazioni pecuniarie della p.a., in Obbl. e contr., 2009, p. 891 ss., nota a Cass., 15 gennaio 2009, n. 806; Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa speciale e giurisdizione esclusiva, in Contr. e impr., 2004, 1, p. 118 ss.; Di Geronimo, La disciplina delle obbligazioni pecuniarie dello Stato fra normativa contabile pubblica e comuni regole di diritto civile, cit., p. 1226 ss.; Reggio D’Aci, La mora della Pubblica Amministrazione, in Studi per il Centocinquantenario del Consiglio di Stato, II, Roma, 1981, p. 1209 ss. Ricostruzione che ha talvolta trovato conferma anche in sede giurisdizionale, cfr. Cass., 3 dicembre 2009, n. 25402, in Giust. civ. mass., 2009, p. 1663; Id., 3 ottobre 2005, n. 19320, ivi, 2005, p. 921; Id., 7 novembre 1981, n. 5893, in Mass. giur. it., 1981; Id., 26 marzo 1964, n. 686, in Giur. it., 1965, I, 1, c. 638. 44 Si v. amplius, Maiello, La mora debendi della Pubblica Amministrazione e la disciplina degli interessi da ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pubbliche, in Il diritto privato della Pubblica Amministrazione, a cura di P. Stanzione – Saturno, Padova, 2006, p. 930. civile Gazzetta 16 D i r itto e p r o c e du r a che improntate al favor debitoris. È lecito dunque domandar‑ si: muta semplicemente la prospettiva in direzione di un rie‑ quilibrio delle posizioni del rapporto obbligatorio o è in atto una vera metamorfosi kafkiana dello stesso in cui privilegia‑ to è il creditore? E, in quest’ultima ipotesi, la trasformazione può spingersi fino a far riaffermare la necessità di una doppia disciplina, di un doppio codice (civile e del commercio) di ottocentesca memoria, per il tramite del cd. terzo contratto, figlio della prospettiva comunitaria, amante dell’operatore economico (homo aeconomicus) e non dell’uomo, dell’indivi‑ duo? Forse questo rappresenta il passaggio più sovversivo della complessiva disciplina in esame, imponendo un diverso riassetto delle modalità operative della p.a. nei rapporti con imprese e professionisti, vale a dire quando agisce iure priva‑ torum all’interno di rapporti negoziali col privato. Sono indi‑ rettamente richiesti comportamenti virtuosi di tutto l’appa‑ rato pubblicistico perché l’applicazione della normativa sui ritardi di pagamento non conduca al default degli enti pub‑ blici, centrali e locali, a causa di un evidente e non program‑ mato aggravio delle uscite. E ciò è tanto più vero, se si consi‑ dera l’automatismo del sistema di decorrenza degli effetti della mora. Novità questa, come si vedrà tra breve, ultronea e dal forte impatto, che ha contribuito a scardinare l’assetto di deroghe che da sempre circondano i pubblici poteri consa‑ crandoli in una posizione di supremazia, arroccata in questo caso dietro la necessità di un’intimazione formale di paga‑ mento da parte del privato 45. Pare opportuno segnalare come, per alcuna dottrina46, attraverso quest’opera di assimilazione pubblico‑privato, si stia assistendo ad un processo di conver‑ genza dei sistemi giuridici dell’Europa continentale con quel‑ li di common law, più attenti al dato effettuale e, dunque, più aderenti agli attuali mutamenti giuridico‑economici47. Sotto altro aspetto, il d.lgs. n. 231 del 2002, nel delimitare il proprio ambito oggettivo di operatività, prevede, ancora oggi, all’art. 1 (non essendo stata tale norma oggetto di revi‑ sione), un’applicazione generalizzata delle disposizioni in esso contenute “ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispet‑ tivo in una transazione commerciale”, offrendo poi, all’art. 2, lett. a), una definizione, peraltro atecnica, particolarmente dilatata di “transazioni commerciali”, ricomprendendovi qual‑ siasi tipo di contratto, comunque denominato, tra imprese ovvero tra imprese e pp.aa., che avesse ad oggetto, anche solo in misura prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi dietro corrispettivo. Dunque, sotto il profilo oggettivo, il d.lgs. n. 231 del 2002, per effetto del combinato disposto degli artt. 1; 2, co. 1, lett. a); e 2, co. 2, regola a tutt’oggi le 45 Il d.lgs. n. 231 del 2002 è stato tra i primi atti normativi a mettere in discus‑ sione l’idea che la p.a. fosse destinataria di una disciplina derogatoria (più che speciale, giacché costituita da un fascio di privilegi inerenti singoli aspetti dei rapporti) derivante dall’operatività delle regole di contabilità pubblica. In proposito, cfr. Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa specia‑ le e giurisdizione esclusiva, cit., p.107 ss. 46 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑ ratistici, cit., p. 16 ss.; Giannini, Il diritto amministrativo, Milano, 1970, I, p. 519. 47 Interessante al riguardo è constatare la contestualità della prima proposta di direttiva del 1998, pubblicata in GUCE n. C/168 del 03 giugno 1998,e l’appro‑ vazione nel Regno Unito del Late Payment of Commercial Debt (Interest) Act del 1998, occorsa appena pochi giorni più tardi. La riflessione, in una dimen‑ sione comparatistica, è di Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili comparatistici, cit., p. 16 ss., il quale osserva come i due testi abbiano risentito della reciproca influenza. c i v il e Gazzetta F O R E N S E obbligazioni pecuniarie originate da un qualsivoglia contratto commerciale, con esclusione soltanto dei “debiti oggetto di procedure concorsuali a carico del debitore”, delle “richieste di interessi inferiori a 5 euro” e dei “pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, ivi compresi i pagamenti effettuati a tale titolo da un assicuratore”, per espressa previsione del legislatore. Il provvedimento normativo, in altri termini, si applica a tutti i pagamenti relativi alle transazioni commercia‑ li, salvo ovviamente i contratti dei consumatori. Non è possibile, in questa sede, procedere ad una ricogni‑ zione, anche sub specie di mera elencazione, dei contratti tipi‑ ci ed atipici rientranti o meno nel raggio di azione del provve‑ dimento in esame. Ci si limita ad evidenziare, tuttavia, con riferimento specifico ai contratti stipulati dalle pp.aa., che certamente erano soggetti alla disciplina del d.lgs. n. 231 del 2002, già nella prima versione, i contratti relativi ai servizi ed alle forniture; mentre in sede di prima applicazione, si ritene‑ va, non senza esitazioni ‑peraltro non fugate dall’intervento riformatore del 2012‑, che lo stesso non trovasse applicazione con riguardo ai lavori pubblici. Tale conclusione, autorevol‑ mente avallata dall’allora Autorità per la Vigilanza sui lavori pubblici, con apposita determinazione adottata proprio in tema di applicabilità della direttiva 2000/35/CE agli appalti di lavori delle pp.aa.48, affondava il proprio substrato in argo‑ menti eminentemente testuali e letterali. Nondimeno suscitava ‑come già anticipato‑ talune perplessità, stante il conseguente effetto discriminatorio prodotto, per violazione della par condicio creditorum tra i creditori delle pp.aa. a seconda dell’oggetto del contratto con le stesse concluso49. Il creditore appaltatore di lavori pubblici veniva a trovarsi, dunque, in una posizione oggettivamente deteriore, specie con riguardo al saggio degli interessi moratori ed alla decorrenza degli stessi, 48 Ci si riferisce alla determinazione n. 5 del 27 marzo 2002 dell’attuale Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, sul “Fenom‑ eno dei ritardati pagamenti negli appalti di lavori pubblici”, pubblicata in G.U. n. 95 del 23 aprile 2002, reperibile su www.autoritalavoripubblici.it. Cfr. Memmo, I ritardi di pagamento della p.a. tra normativa speciale e giurisdizione esclusiva, cit., p. 119 ss., la quale riferisce del dibattito dottrinale sollevatosi in merito, specie a seguito della presa di posizione della citata Autorità di vigi‑ lanza, circa l’impossibilità di un’applicazione estensiva od analogica della direttiva 2000/35/CE alla materia dei lavori pubblici, stante la vigenza di ap‑ posita disciplina speciale, rappresentata dal d.m. lavori pubblici n. 145 del 19 aprile 2000, recante “Nuovo capitolato generale di appalto dei lavori pubblici”, pubblicato in G.U. n. 131 del 07 giugno 2000. Contra Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 21 ss.; E. Russo, La nuova disciplina dei ritardati pagamenti nelle transazioni com‑ merciali, cit., p. 459 ss. In proposito, si veda anche la determinazione n. 4 del 7 luglio 2010 dell’AVCP, relativa alla “Disciplina dei pagamenti nei contratti pubblici di forniture e servizi”, pubblicata in G.U., Serie Generale, n. 174 del 28 luglio 2010 e anch’essa disponibile sul sito dell’AVCP www.autoritalavori‑ pubblici.it, emanata per fare il punto sulle segnalazioni pervenute proprio in ordine all’applicazione della normativa sui ritardati pagamenti ai contratti pubblici di forniture e servizi. In giurisprudenza si segnala l’ord. Trib. Asti, 16 agosto 2011, disponibile sul sito internet www.ilcaso.it, secondo cui “l’ambito di applicazione del d.lgs. 231/2002 è limitato alle transazioni commerciali da intendersi ai sensi dell’art. 1 lett. a) del d.lgs. 231/2002, come i contratti […] che comportano in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazi‑ one di servizi contro il pagamento di un prezzo”, con la conseguenza che da tale ambito fuoriescono i contratti che hanno ad oggetto la prestazione di un’opera (ipotesi per la quale, peraltro, l’ordinamento ha approntato disciplina ad hoc “contenuta nella l. n. 109/1994, recepita nel d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e nel d.m. 145/2000 (art. 29 e 30), ora in gran parte confluite nel d.P.R. 207/2010, recante il nuovo Regolamento di Attuazione del codice dei Con‑ tratti Pubblici». 49 Per maggiori approfondimenti su questi aspetti si veda Conti, Il d. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle tran‑ sazioni commerciali, cit., pp. 101‑107. F O R E N S E luglio • A G O S T O rispetto a quella del creditore fornitore di beni o di servizi, senza che questa discriminazione avesse una giustificazione razionale, perlomeno immediatamente percepibile50. In realtà, continuano a permanere, anche dopo l’emana‑ zione del d.lgs. n. 192 del 2012, significativi dubbi circa l’ambito di applicazione oggettivo del d.lgs. n. 231 del 2002, poiché, sebbene il considerando n. 11 della direttiva 2011/7/ UE faccia riferimento alla necessità di applicare la stessa anche alla progettazione ed all’esecuzione di opere ed edifici pubbli‑ ci, nonché ai lavori di ingegneria civile, esso è redatto in ter‑ mini tali ‑mediante l’utilizzo del condizionale “dovrebbero”‑ da far ritenere sussistente un margine di discrezionalità in parte qua in sede di recepimento da parte dei singoli Stati. Al riguardo, si rileva che nulla è mutato dal punto di vista so‑ stanziale quanto all’individuazione dei presupposti di appli‑ cazione del decreto in esame (cfr. art 2, co. 1, lett.a), d.lgs. n. 231 del 2002); di talché si condivide l’opinione di chi ritie‑ ne auspicabile un intervento chiarificatore da parte del legi‑ slatore, che provveda all’inequivoca definizione della latitu‑ dine operativa del decreto de quo51. Sul punto deve richiamar‑ si, tuttavia, l’orientamento interpretativo espresso dal Mini‑ stero dello sviluppo economico con la circolare prot. n. 1293 del 23 gennaio 2013, che, proprio valorizzando la portata precettiva del citato considerando n. 11 della direttiva 2011/7/ UE ed argomentando che nell’accezione comunitaria i lavori rientrano in senso lato nel concetto di servizi, perviene alla conclusione dell’applicabilità delle norme del novellato d.lgs. n. 231 del 2002 anche agli appalti di lavori. Da ciò discende, secondo la richiamata circolare ministeriale, che nel contrasto fra le previsioni del d.lgs. n. 231 del 2002 e quelle dettate dal codice degli appalti (d. lgs. n. 163 del 2006) e dal relativo Regolamento d’Attuazione (DPR n. 207 del 2010) in materia di lavori pubblici, debba essere assicurata, tendenzialmente, la prevalenza delle disposizioni generali in tema di ritardati pagamenti di matrice sovranazionale (ossia quelle poste dal d.lgs. n. 231 del 2002) su quelle regolamentazioni nazionali di settore con essa eventualmente confliggenti, fatta salva l’ipotesi che queste ultime prevedano, in riferimento ai termi‑ ni di pagamento ed alla misura degli interessi moratori, un trattamento di maggior favore per il creditore. Ciò anche alla luce di quanto statuito dal novellato art. 11, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2002, che fa espressamente “salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una di‑ sciplina più favorevole per il creditore”52. 50 Cfr. Atelli, Contratti della Pubblica Amministrazione e normativa in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs. 231/2002): brevi note su tre aspetti sensibili nella prospettiva amministrativo‑contabile, cit., ove si afferma che in base al principio della prevalenza economica, fatto proprio da Cons. Stato, sez. VI, n. 3847/2002 sulla scorta del dato legislativo, siano appli‑ cabili ai contratti di appalto di natura mista o che includano lavori accessori, in cui il rilievo economico dei lavori superi il 50%, le norme della cd. legge Merloni (l. n. 109 del 1994 e ss.mm.), legge quadro in materia di lavori pub‑ blici. Tuttavia l’a. segnala come il d.lgs. n. 231 del 2002 non sia sic et simplici‑ ter applicabile in queste ipotesi, poiché il parametro della prevalenza economi‑ ca dei lavori va contemperato con l’altro della esclusività o quanto meno pre‑ valenza della consegna di merci o prestazione di servizi quale oggetto del con‑ tratto commerciale. 51 Così Gnes, op. cit., p. 121. 52 La previsione che fissa il tasso di interesse legale, stabilito dal d.lgs. n. 231 del 2002 e ss.mm., è norma imperativa avuto riguardo alle transazioni commer‑ ciali in cui è parte la p.a., attesa l’impossibilità di modificare tale saggio in senso peggiorativo per il creditore, con automatica sostituzione dei tassi infe‑ 2 0 1 3 17 4. Gli interessi moratori ed il risarcimento del danno. Il principale strumento, di dissuasione prima ancora che di repressione, attraverso cui il d.lgs. n. 231 del 2002 ha cer‑ cato, e cerca, di sostanziare la propria volontà di contrasto al ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, è la previsione di interessi moratori, il cui tasso è fissato ex lege, salvo diverso accordo fra le parti, in misura sensibilmente più alta rispetto a quella prevista dall’art. 1284 c.c. Gli interessi moratori, inoltre, decorrono automatica‑ mente, senza necessità di costituzione in mora, alla scadenza dei termini normativamente o contrattualmente previsti, con finalità evidentemente sanzionatorie e, per certi versi, deter‑ renti, volendo persuadere ad astenersi dal tenere comporta‑ menti dilatori. Altrettanto afflittiva, tanto da sembrar tra‑ valicare la tipica funzione compensativa della mora deben‑ di 53, è la misura degli interessi moratori prevista già dalla prima direttiva comunitaria 2000/35/CE e recepita dal d.lgs. n. 231 del 2002, sì da far parlare, sin da subito, taluna dot‑ trina, soprattutto tedesca 54, di una presumibile migrazione nel nostro ordinamento dei punitive damages angloamerica‑ ni. Pur nelle innovazioni di misura introdotte dal d.lgs. n. 192 del 2012, la determinazione concreta del tasso d’in‑ teresse risulta, ex art. 5, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002, dalla combinazione di elementi fissi e variabili55. In effetti, le di‑ riori eventualmente previsti dalle discipline di settore previgenti, ivi incluso quello ex art. 144, d.P.R. n. 207 del 2010 relativo agli appalti di lavori pubbli‑ ci. Sul tema, cfr. Pandolfini, Le modifiche alla disciplina sui ritardi di paga‑ mento nelle transazioni commerciali. Commento al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, cit., p. 387. 53 Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Aa.Vv., Diritto civile, III, 1, Il rapporto obbligatorio, diretto da Lipari e Rescigno e coordinato da Zop‑ 2 pini, Milano, 2009, p. 645 ss.; Id., Inadempimento e mora del debitore , in Comm. c. c., diretto Schlesinger, Milano, 2006, passim; Cian, voce Pagamento, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII, Torino, 1995, p. 234 ss.; G. Romano, Interes‑ si del debitore e adempimento, cit., p. 188 ss.; Mengoni, La direttiva 2000/35/ CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, cit., p. 74 ss. 54 Lanzara, Ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali. Profili compa‑ ratistici, cit., p. 25 ss. Sul tema in generale delle pene private, si v. amplius Be‑ natti, Correggere e punire dalla law of torts all’inadempimento del contratto, Milano, 2008, passim; Baratella, Le pene private, Milano, 2006, p. 2011 ss.; Patti, voce Pena privata, in Dig. disc. priv. sez. civ., XIII, Torino, 2006, p. 351; D’Acri, I danni punitivi. Dal caso Philip Morris alle sentenze italiane: i risar‑ cimenti concessi dai tribunali contro le aziende ed i soggetti che adottano comportamenti illeciti, Roma, 2005, p. 47 ss.; Pardolesi, Rimedi all’inadem‑ pimento contrattuale: Un ruolo per il disgorgement?, in Riv. dir. civ., 2003, I, p. 717; Urso, I punitive damages fra regole, standards e principi: una inedita vocazione pubblica di un antico strumento privatistico?, in Dir. pubb. comp. eu., 2001, p. 2011 e ss.; Ponzanelli, I punitive damages nell’esperienza nordame‑ ricana, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 436; Id, I punitive damages, il caso Texano e il diritto italiano, ivi, 1983, I, p. 435. Id., Responsabilità da prodotto da fumo: il “grande freddo” dei danni punitivi, in Riv. dir. civ., 2000, IV, p. 450; M.S. Romano, Danni punitivi ed eccesso di deterrenza: gli incerti argini costituzio‑ nali, in Foro it., 1990, IV, c. 174; Zeno Zencovich, Il problema della pena privata nell’ordinamento italiano: un approccio comparatistico ai “punitive damages” di “common law”, in Giur. it.,1985, IV, c. 12. 55 La parte variabile si determina assumendo come riferimento il tasso pari a quello del principale strumento di finanziamento della Banca centrale europea, applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettua‑ ta il primo giorno del semestre di riferimento; mentre la parte fissa consiste nell’applicazione, rispetto al tasso base, di una maggiorazione (pari a sette punti percentuali nella prima versione del d.lgs. n. 231 del 2002 applicabile ai contratti stipulati entro il 31 dicembre 2012, poi aumentata ad otto punti percentuali per i contratti sorti successivamente). Il decreto in esame prevede inoltre che il saggio di interesse legale sopra individuato, al netto della maggio‑ razione dei punti percentuali, venga comunicato dal Ministero dell’economia e delle finanze e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre. Al riguardo cfr. Pandolfini, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Giur. it., 2003, 1.2, c. 2414 ss. Si ritiene opportuno precisare, peraltro, onde evitare l’ingene‑ rarsi di fastidiose confusioni, che in ogni caso l’applicazione degli interessi civile Gazzetta 18 D i r itto e p r o c e du r a rettive europee che si sono succedute in materia non celano la volontà persecutoria con finalità disincentivanti della ri‑ cordata previsione. Atteso che, se il debitore (imprenditore o P.A.), attraverso un semplice calcolo aritmetico, scopre essere più conveniente temporeggiare nell’esecuzione della propria prestazione, trattenere e quindi sfruttare la liquidità così a disposizione reinvestendola in altra attività più reddi‑ tizia e tale da consentirgli di coprire anche i costi degli inte‑ ressi moratori intanto maturati sul suo debito, riuscendo a ricavarne anche un utile, opterà giocoforza per questa solu‑ zione. Difatti, l’alternativa sarebbe perdere un po’ meno in termini di interessi da corrispondere ma enormemente di più in termini di perdita di chances, rinunciando all’opportuni‑ tà dei guadagni derivanti dall’impiego dell’intera somma dovuta (e non ancora corrisposta) in altra operazione più remunerativa. Una tale concezione degli interessi moratori è certamen‑ te estranea al nostro bagaglio culturale, lontana dalla fina‑ lità compensativa ad essi attribuita dal codice civile italia‑ no, pur tuttavia è esattamente questa manovra che il legi‑ slatore, calandosi nelle logiche del mercato, ha voluto scongiurare e disincentivare mercé la previsione di tassi elevati 56. Nondimeno, la previsione di un ruolo deterrente, che si affiancherebbe a quello remunerativo della misura del saggio di interesse, rispetto a comportamenti contra legem, non può spingere fino ad assimilare la soluzione di cui all’art. 5, d.lgs. n. 231 del 2002 a quella sorta di stru‑ mento di giustizia sociale rappresentato dalla condanna al pagamento di danni esemplari dei sistemi di common law57; il cui valore punitivo emerge con ancor maggiore chiarezza moratori era, ed è, subordinata, ex art. 3, d.lgs. n. 231 del 2002, alla mancata dimostrazione da parte del debitore che il ritardo nel pagamento del prezzo sia stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Al riguardo, cfr. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, cit., p. 49 ss., per il quale la norma richiamata farebbe riferimento ad una impossibilità di tipo oggettivo e non soggettivo, da intendersi dunque riferita all’intera categoria debitoria e non al singolo debitore. 56 Né può negarsi che il mondo stia andando nella direzione di una dimensione più fattuale del diritto, più aderente alla realtà dei traffici globali. D’altro canto, come ci spiega la macroeconomia neoclassica, proprio questo calcolo di convenienza guida lo spirito imprenditoriale sì da orientarlo, tra più investi‑ menti possibili, verso quegli affari che si mostrano più appetibili, presentando un valore di efficienza marginale del capitale più alto rispetto al livello del tasso d’interesse corrente (in parole semplici, da cui si attendono rendimenti futuri più elevati dei costi sostenuti per l’investimento iniziale). Per contro, sa‑ ranno indotti a rinunciare a quei progetti di investimento che, proprio in ragione di un elevato tasso di interesse, prospettano un’attività infruttuosa se non ad‑ dirittura in perdita (dal momento che i costi supererebbero i profitti realiz‑ zabili). Un diverso impiego del danaro, rispetto al puntuale adempimento della propria obbligazione, sarà dunque la scelta che tutti i debitori‑investitori sara‑ nno portati a fare se il rendimento della nuova operazione risulterà superiore al costo da sopportare per il tardivo adempimento. Ecco perché il legislatore comunitario prima, e nazionale poi, hanno inteso aumentare tale costo, preve‑ dendo un tasso degli interessi moratori particolarmente alto per non rendere allettante la descritta opzione. Cfr. D’acunto, Lezioni di Macroeconomia, Torino, 2010, p. 27 ss. 57 Ad alzare un muro al tentativo insistente di sdoganare in Italia i punitive da‑ mages ci ha pensato la Suprema Corte di Cassazione, ricordando come la re‑ sponsabilità civile, da noi, non rappresenta una misura afflittiva, ma è diretta esclusivamente al ristoro del danno arrecato, con ripristino dello status quo ante, e pertanto non può superare il valore di questo, se non passando per la violazione dell’ordine pubblico. Cfr. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Corr. giur., 2007, p. 498, con nota di Fava, Punitive Damages e ordine pubblico: la Cassazione blocca lo sbarco; in Danno e resp., 2007, p. 1125 ss. con nota di Pardolesi, Danni punitivi all’indice?; in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 981, con nota di Oliari, I danni punitivi bussano alla porta: la Cassazione non apre. c i v il e Gazzetta F O R E N S E e dirompenza, allorché la condotta da censurare sarebbe andata incontro, seguendo la via tradizionale, ad una san‑ zione irrisoria 58. In ordine alla decorrenza degli interessi moratori, si evidenzia come l’art. 4, d.lgs. n. 231 del 2002, nella formu‑ lazione originaria, prevedesse ‑e prevede ancora, è bene ri‑ cordare, per i contratti stipulati fino al 31 dicembre 2012‑ la possibilità per le parti contrattuali di stabilire liberamente (con i limiti, tuttavia, posti dall’art. 7, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002, di cui si dirà in appresso) un termine per l’adem‑ pimento, disponendo poi che decorso tale termine, maturas‑ sero automaticamente ‑senza, lo si ribadisce, necessità di costituzione in mora‑ gli interessi moratori nella misura di legge 59. In via residuale, qualora le parti non avessero prov‑ veduto ad una autonoma determinazione del termine per l’adempimento, l’art. 4, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2002 indivi‑ duava tre distinti momenti iniziali per la decorrenza (sempre automatica) del termine legale di trenta giorni, tra loro al‑ ternativi, a seconda di quello più favorevole al debitore (e, quindi, più in là nel tempo) tra la data di prestazione del servizio o la consegna del bene, l’epoca di ricevimento della fattura o di analogo documento e, infine, se previsti e suc‑ cessivi ai primi due, il tempo dell’accettazione o della veri‑ fica di conformità, sempre che ciascuno di questi momenti fosse databile con certezza. Sebbene il d.lgs. n. 192 del 2012 abbia provveduto alla sostanziale riscrittura dell’art. 4, il co. 2 qui in rilievo, che disciplina il dies a quo del termine di trenta giorni, a partire dal quale decorrono gli interessi moratori (fatto salvo il disposto dell’art. 3), sopravvive in‑ variato, con qualche precisazione di merito (come l’irrile‑ vanza delle richieste di integrazione o modifica formali della fattura, ai fini della decorrenza del termine di 30 gior‑ ni per gli interessi di mora). Elemento di assoluta novità, che deriva dalla disciplina comunitaria qui in rilievo, rispetto all’impostazione che con‑ notava l’ordinamento interno prima di tali interventi60, come già anticipato, è l’inutilità di costituire formalmente in mora la p.a., da sempre sottoposta ad un regime derogatorio quan‑ to al luogo dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie (pur trattandosi di obbligazioni portabili per definizione), rispetto alle regole dettate dall’art. 1182 c.c., che ne prescrive il pagamento al domicilio del creditore. Dalle richiamate co‑ ordinate di pensiero, prassi giurisprudenziale consolidata aveva tratto la conclusione che la responsabilità da ritardo della p.a. sorgesse solo in seguito all’attivazione, mediante intimazione scritta, del meccanismo ex art. 1219, co.1, c.c., 58 Cfr. Patti, voce Pena privata, cit., p. 351. 59 La richiamata previsione presentava caratteri di innovatività, non già con riferimento ai contratti tra parti private, per i quali da tempo trovava applica‑ zione una statuizione sostanzialmente identica, quella di cui all’art. 1219, co. 2, n. 3, c.c., bensì per i contratti con la p.a., relativamente ai quali occorreva, in precedenza, un atto scritto di costituzione in mora. Come è stato opportu‑ namente osservato, l’applicazione di tale previsione alle transazioni commer‑ ciali in cui è parte la p.a., configurando la responsabilità dell’amministrazione allo scadere del termine di adempimento delle proprie obbligazioni pecuniarie, risolve il problema della imputabilità del ritardo contabile. Cfr. Pandolfini, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali dopo il D.Lgs. 9 novembre 2012, cit., p. 54; Id., La disciplina degli interessi pecuniari, Padova, 2004, passim; Memmo, op. cit., p. 118. 60 Cfr. Cass., 21 febbraio 2001, n. 2478, in Giust. civ. mass., 2001, p. 283; in Mass. giur. it., 2001; Id., 15 febbraio 2000, n. 1692, ivi, 2000; Id., sez. un., 28 ottobre 1995, n. 11312, ivi, 1995. F O R E N S E luglio • A G O S T O chiedendosi, proprio per la natura peculiare del soggetto de‑ bitore, che il creditore si adoperasse per l’adempimento, ap‑ punto domandandolo al debitore61. Senza indugiare sul punto ‑anche perché la brevità delle presenti riflessioni non lo consentirebbe‑ risulta evidente che la citata previsione, quasi come una sorta di contrappeso ri‑ spetto all’atteggiamento fortemente repressivo del fenomeno dell’ingiustificato ritardo nei pagamenti, finisca con l’addos‑ sare un onere di diligenza al creditore, posto che questi dovrà preoccuparsi di assicurare, ad esempio, l’inoltro della fattura o della richiesta equivalente di pagamento, con modalità atte a comprovarne in modo certo la data di ricezione da parte del debitore, poiché è solo da tale momento che inizia a decorre‑ re il termine per l’applicazione degli interessi moratori (ana‑ logo discorso, mutatis mutandis, potrebbe svilupparsi per la consegna delle merci o per la prestazione dei servizi). Nella versione valida per i contratti stipulati prima del 2013, restava, in ogni caso, salvo il diritto del creditore a ri‑ cevere il risarcimento ‑che si configura, dunque, come aggiun‑ tivo‑ del maggior danno eventualmente subito, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1224, co. 2, c.c. nonché, conformemente ai principi generali, il rimborso delle spese sostenute per il recu‑ pero del proprio credito, secondo il preciso dettato normativo dell’art. 6, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002. In realtà, rispetto alla formulazione del provvedimento comunitario di riferi‑ mento, il d.lgs. n. 231 del 2002 appariva più favorevole al debitore. Infatti, il provvedimento nazionale faceva rientrare la sopportazione dei costi di recupero sostenuti dal creditore nell’area di imputabilità del ritardo al debitore, sicché con la prova contraria questi poteva liberarsene; laddove, al contra‑ rio, dalla lettura dell’art. 3, co. 1, lett. d), direttiva 2000/35/ CE, risulta chiaramente che il rimborso delle spese affrontate per recuperare il proprio credito, dovessero essere, in ogni caso, a carico del debitore ritardatario, indipendentemente dalla sua condotta. Ciò è tanto vero che, in sede di recepimen‑ to della direttiva 2011/7/UE, si è pensato di apportare un emendamento anche alla norma in questione, sancendo il diritto del creditore ad ottenere in ogni caso i costi sopporta‑ ti per il recupero, benché da essi esorbiti la parte più consi‑ stente delle spese, cioè quelle di assistenza per il recupero del credito, che al contrario ritornano sotto il mantello dell’im‑ putabilità, sicché saranno accollate al debitore solo se respon‑ sabile del ritardo62. Evitando di ripercorrere in questa sede le tappe della tor‑ mentata esistenza del danno non patrimoniale nel sistema civilistico interno, vale la pena rammentare come l’art. 2059 61 La previsione della possibilità per il debitore di sottrarsi alla corresponsione degli interessi moratori attraverso la prova dell’assenza di propria colpa nel ritardo, ha riproposto il tradizionale dibattito circa la natura oggettiva o sog‑ gettiva della responsabilità, per il quale si rinvia, ex plurimis, a Mazzarese, voce Mora del debitore, cit., p. 443 ss.; Natoli – Bigliazzi Geri, Mora acci‑ piendi e mora debendi, cit., p. 245. 62 Appare oltremodo utile mettere a confronto le rispettive formulazioni. Mentre, infatti, l’art.6, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2002, nell’originaria formulazione, rubri‑ cata “Risarcimento dei costi di recupero”, sancisce il diritto del creditore “al risarcimento dei costi sostenuti…” “…ove il debitore non dimostri che il ritar‑ do non sia a lui imputabile.”; il dettato dell’art. 3, co. 1, lett. e), direttiva 2000/35/CE, aveva tutt’altro tenore, volendo salvaguardare solo il diritto al maggior danno attraverso l’incidentale “a meno che il debitore non sia respon‑ sabile del ritardo”, fermo restando il diritto al risarcimento di tutti i costi di recupero sostenuti. 2 0 1 3 19 c.c., che del suo lungo peregrinare ne rappresenta il faro, sia significativamente collocato, da un punto di vista sistematico, nell’ambito del fatto illecito; ed anzi, sia norma di chiusura del IX del libro IV del Codice civile, rubricato “Dei fatti ille‑ citi”. ’altro canto, del suo incedere sicuro nell’ambito delle violazioni contrattuali c’è altrettanta certezza, ovviamente nel solco tracciato dall’interpretazione giurisdizionale e sempre entro i limiti posti dall’art. 2059 c.c.63. Ma si è ben lontani dal modello anglosassone ‑cui pure sotto quest’aspetto sembra voler sospingere il diritto comunitario64‑ che accorda integra‑ le ristoro all’inadempimento contrattuale, anche sul versante del danno non patrimoniale 65. Né l’apertura delle Sezioni Unite giunge a tanto, allorché aggancia la riparazione del danno non patrimoniale alla lesione di un diritto costituzio‑ nalmente garantito66, direttamente o per il tramite della clau‑ sola d’apertura di cui all’art. 2 Cost. Unico dato evidente, se ci si allontana dall’hortus conclu‑ sus casa propria, è che le imprese ed i liberi professionisti che oggi si trovano ad operare in uno spazio, reale o virtuale che sia, ben più ampio del perimetro dello Stivale, intanto vedono assicurata realmente la concorrenza, potendo così essere competitivi sul mercato, se vengono rimossi tutti gli ostacoli, anche normativi, che impediscono alle imprese di operare alle stesse condizioni, imponendo oneri ulteriori solo ad alcu‑ ne. L’imprenditore o professionista italiano, che operi in Italia ed abbia intenzione di continuare a mantenere ivi la propria attività, non può subire oltre alle incognite legate al rischio d’impresa, anche il fardello di una non totale riparazione del danno rispetto ai colleghi che invece hanno sede ed attività altrove. Senza considerare poi l’ulteriore discriminazione connessa ai tempi della giustizia per ottenere ristoro. Tutto ciò crea problemi di liquidità alle imprese europee, che po‑ 63 Sul danno non patrimoniale e sul suo riconoscimento in ambito contrattuale, ex multis, si v. Patti, Le Sezioni Unite e la parabola del danno esistenziale, in Corr. giur., 2009, p. 415 ss.; Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità della categoria dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. prev., 2009, p. 76 ss.; Ponzanelli, Riparazione integrale del danno senza il danno esisten‑ ziale, in Aa.Vv., Danno non patrimoniale, Milano, 2009, p. 331 ss.; Savorani, Il danno non patrimoniale da inadempimento, in Trattato resp. contr., diretto da Visintini, III, Padova, 2009, p. 261 ss.; Tomarchio, Il danno non patrimo‑ niale da inadempimento, Napoli, 2009, p. 113; Scognamiglio, Il sistema del danno non patrimoniale dopo le decisioni delle Sezioni Unite, in Resp. civ. prev., 2009, p. 270 ss.; Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso, in Resp. civ. prev., 2009, p. 94 ss.; Tescione, Il danno non patrimoniale da con‑ tratto, Napoli, 2008, passim. 64 Per vero anche il diritto internazionale. Basti pensare all’art. 7.4.2 dei Principi per i contratti commerciali internazionali dell’Unidroit, per il cui approfondi‑ mento cfr. Marrella, La nuova lex mercatoria. Princípi Unidroit ed usi dei contratti del commercio internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubb. econ., diretto da Galgano, XXX, Padova, 2003, passim; Alpa, Prime note di raffron‑ to tra i princípi dell’Unidroit e il sistema contrattuale italiano, in Contr. e impr. Eur., 1996, p. 327. 65 Anche ordinamenti dell’Europa continentale, e dunque di tradizione civil law, lo ammettono, essendo previsto ad esempio anche in Francia. 66 Cfr. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975, in Corr. giur., 2009, p. 48 ss., con commento di Franzoni, Il danno non patri‑ moniale del diritto vivente; in Giur. it., 2009, cc. 61‑72, con commento di Cassano, Danno non patrimoniale ed esistenziale: primissime note critiche a Cassazione civile, Sezioni unite, 11 novembre 2008, n. 26972, ivi, pp. 259‑261, con commento di Tomarchio, L’unitarietà del danno non patrimoniale nella prospettiva delle Sezioni Unite, ivi, pp. 318‑325; in Foro it., 2009, I, p. 120 ss. con commento di Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali e di Palmieri, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà, e di Pardolesi‑ Simone, Danno esistenziale (e sistema fragile): “die hard”, e di Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo statuto” del danno non patrimoniale. civile Gazzetta 20 D i r itto e p r o c e du r a tranno assistere ad una discrepanza considerevole nel quan‑ tumdella liquidazione del danno, sempre ammesso che venga loro riconosciuto l’andel risarcimento, a seconda che siano soggette al diritto italiano o tedesco o, piuttosto, a quello anglosassone o francese, con conseguente e grave nocumento anche per l’immagine del Paese che, in un circolo vizioso, fi‑ nisce così per perdere d’attrazione per gli investitori. 5. I limiti posti all’autonomia negoziale nelle transazioni com‑ merciali. In relazione a quanto sopra esposto, giova evidenziare come il d.lgs. n. 231 del 2002, nella formulazione iniziale, prevedesse, come già accennato, ai sensi del combinato dispo‑ sto degli artt. 5, co. 1, e 7, co. 1, la possibilità per le parti contraenti di derogare alla disciplina legale, sia per quel che concerne la misura degli interessi moratori, sia per quel che riguarda il termine per l’adempimento. Risulta del tutto evi‑ dente che tale possibilità fosse soggetta, e non poteva essere diversamente, a penetranti limiti esterni, posto che altrimen‑ ti sarebbe venuta meno la stessa ratio sottesa all’emanazione del decreto legislativo in commento. Difatti, qualora si fosse accolto un modello che pur prevedendo limiti di legge avesse consentito alle parti di derogarvi ad libitum, si sarebbe inevi‑ tabilmente assistito al perpetuarsi di relazioni contrattuali connotate da oggettivo squilibrio, giacché condizionate, oltre la misura fisiologicamente accettabile, dai reciproci rapporti di forza67. Per i contratti commerciali stipulati a far data dal genna‑ io 2013 sopravvive, nella nuova formulazione, la possibilità di stabilire, convenzionalmente, termini di pagamento diver‑ si e più lunghi rispetto a quelli normativamente previsti, operandosi tuttavia una differenziazione fra i contratti stipu‑ lati fra soggetti privati e quelli di cui è parte una.a. Nel primo caso, infatti, trova applicazione il co. 3 del citato art. 4, d.lgs. n. 231 del 2002, a tenore del quale le parti sono libere di ac‑ cordarsi per tempi di adempimento superiori ai trenta giorni legalmente statuiti e, finanche, con le dovute cautele, superio‑ ri a sessanta giorni; possibilità, quest’ultima, del tutto esclusa nel caso di contratti conclusi con la.a., dalla cui disponibilità è sottratta una così ampia sfera di autonomia negoziale. Di‑ fatti, ai sensi del successivo co. 4, la facoltà di stabilire, per iscritto ed in modo espresso, un termine di pagamento supe‑ riore ai trenta giorni è condizionata alla sussistenza di pre‑ supposti giustificativi individuati nella natura e nell’oggetto del contratto o nelle circostanze esistenti al momento della sua conclusione, fermo restando, in ogni caso, il limite dei sessanta giorni, termine che non può essere oltrepassato 68. Peraltro, l’art. 4, co. 5, d.lgs. n. 231 del 2002, disciplina due ipotesi in cui i termini di cui al co. 2 sono raddoppiati e, dun‑ que, risultano fissati ex lege in sessanta giorni. Appare, orbe‑ ne, evidente, il trattamento deteriore riservato, sul punto, alle pp.aa., che costituisce una chiara reazione a comporta‑ 67 Sui limiti all’autonomia negoziale, si rinvia a F. Bocchini, Limitazioni conven‑ zionali del potere di disposizione, Napoli, 1977, passim. 68 Peraltro il co. 5 dell’art. 4, d.lgs. n. 231 del 2002, disciplina due ipotesi relative alle pp.aa. in cui i termini previsti al co. 2 sono raddoppiati, e dunque risultano fissati ex lege in sessanta giorni. Si precisa, inoltre, che parrebbe potersi appli‑ care anche ai contratti stipulati dalle pp.aa. la disposizione di cui al successivo co. 6. c i v il e Gazzetta F O R E N S E menti non coerenti rispetto alla lettera ed allo spirito del d. lgs. n. 231 del 2002, che si erano tradotti in una sorta di abuso di posizione dominante da parte dei pubblici poteri69. L’atteggiamento limitativo verso le pp.aa.70 trova ulteriore corollario nell’impossibilità per le stesse di concordare inte‑ ressi moratori in misura differente rispetto a quella normati‑ vamente determinata che, peraltro – lo si rileva per inciso – è stata anche incrementata mediante la maggiorazione, ex art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 231 del 2002 (come novellato dal d.lgs. n. 192 del 2012) da sette ad otto punti percentuali71. Nondimeno, l’incremento di un punto percentuale della par‑ te fissa del tasso di interesse se, per un verso, dà conto della funzione deterrente che si è voluto attribuire alla previsione dell’irrogazione degli interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, per altro verso, però, è sintomatico della volontà di non esacerbare la condizione già critica delle pp.aa. con one‑ ri finanziari eccessivi. Il legislatore ha, difatti, optato per il rialzo minore che potesse apportare in sede di recepimento della direttiva 2011/7/UE72. Nella prospettiva considerata, particolarmente significa‑ 69 Sul punto, cfr. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica, Torino, 2004, passim; Natoli, L’abuso di dipendenza economica, Napoli, 2004, passim; Maffeis, Abuso di dipendenza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, cit., p. 623 ss. Giova evidenziare, inoltre, come la nuova formulazione dell’art. 4 presenti riflessi significativi su quegli orientamenti, anche della magistratura contabile, cfr. Corte conti, sez. riun. controllo, 12 aprile 2010, n. 9, che addirittura, nell’esercizio della funzione consultiva, arri‑ vavano a suggerire alle pp.aa., con riferimento alle procedure di evidenza pubblica da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 83, d.lgs. n. 163 del 2006, di attribuire, stante la natura meramente esemplificativa dei parametri individuati nella richiamata disposi‑ zione, un maggior punteggio all’aspirante aggiudicatario che “offrisse” termini di pagamento più dilatati e tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli previsti dal d.lgs. n. 231 del 2002. In tal modo, infatti, “le suddette condizioni non sarebbero imposte unilateralmente ma negoziate con l’impresa aggiudicataria”, e dunque non sarebbero censurabili, riuscendo le amministrazioni committen‑ ti, “attraverso tali accorgimenti”, ad evitare i termini di pagamento particolar‑ mente brevi previsti per legge. In relazione a quel che precede non può non ri‑ levarsi la differente posizione assunta dal massimo rango della giustizia ammi‑ nistrativa che, con sent. 10 febbraio 2010, n. 469, resa dalla Sez. IV, sottoline‑ ando la natura imperativa delle disposizioni del d.lgs. n. 231 del 2002, ha rite‑ nuto con essa inconciliabile la prescrizione, all’interno di un bando di gara, di clausole in contrasto con tali previsioni. Sulla ricordata pronuncia, che persegue il chiaro intento di addivenire ad un riequilibrio delle posizioni dei soggetti stipulanti nell’ambito dei contratti pubblici, si veda Lombardi, Nulle le clau‑ sole della lex specialis derogatorie del D.Lgs. 231/2002 – Il commento, in Urb. appalti, 6, 2010. In senso parzialmente difforme si veda TAR Piemonte, Torino, sez. I, sent. n. 2346 del 5 maggio 2010, con nota di Baldanza, Legittima, se equa, la negoziazione su termini di pagamento e interessi, in Dir. e prat. amm., 2010, 7‑8, p. 58. 70 Come rileva Viriglio, La direttiva europea contro i ritardi nei pagamenti: un’attuazione al minimo, in www.centroeinaudi.it, “In tal modo si rafforza l’idea di un’imperatività delle norme sui pagamenti per le p.a. (già ricono‑ sciuta dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. V, 1 aprile 2010, n. 1885), si esclude definitivamente la deroga consensuale (pure ammessa da quella stessa giurisprudenza, che vietava unicamente la deroga «unilaterale e auto‑ ritativa» da parte della p.a.), infine si limita – forse escludendola – la possi‑ bilità “intermedia” di prevedere nei bandi di gara l’eventuale contrattazione e i relativi criteri (anch’essa riconosciuta dal giudice amministrativo, ma non si sa quanto praticata: Cons. Stato, sez. V, 21 marzo 2011, n. 1728)”. 71 Relativamente agli interessi moratori quale strumento per il risarcimento del danno cfr. Inzitari, voce Interessi, in Dig. disc. priv. sez. civ., IX, Torino, 1995, p. 569; Grondona, Introduzione: dalla direttiva n. 2000/35/Ce al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, cit., p. 55, per il quale il tasso contemplato dalla direttiva avrebbe una evidente funzione “compulsiva‑sanzionatoria”; Conti, Il d. lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle tran‑ sazioni commerciali, cit., p. 211, ad opinione del quale la funzione del tasso di interessi non è esclusivamente ripristinatoria ma anche punitiva. 72 Cfr. Pandolfini, Le modifiche alla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Commento al d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, cit., p. 386. F O R E N S E luglio • A G O S T O tiva appare la riscrittura dell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, previsione apparsa, sin da subito, di peculiare rilievo. Difatti la norma sanziona con la nullità l’accordo sulla data del pa‑ gamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento qualo‑ ra, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla na‑ tura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla con‑ dizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i mede‑ simi, nonché ad ogni altra circostanza, esso risulti gravemen‑ te iniquo in danno del creditore73. Nella prima stesura ‑valida ancora per i contratti antecedenti il 2013‑ ai sensi dell’art. 7, co. 3, della disciplina in esame, il giudice, una volta accertata la grave iniquità dell’accordo, aveva la facoltà, in alternativa alla sostituzione della clausola nulla con le previsioni legali fissate dal decreto in questione, di “ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo”, tenendo in considerazione, tra l’altro, l’interesse creditorio e la prassi commerciale74. Risulta del tutto evidente come ci si trovi di fronte ad una previsione normativa di derivazione comunitaria che, in nome della salvaguardia di interessi di rilievo sopranazionale (ossia il buon funzionamento del mercato interno), consente al giudi‑ ce ordinario di operare un significativo controllo sull’esplica‑ zione dell’autonomia negoziale delle parti, attingendo ai cri‑ teri di equità e di proporzionalità, che può tradursi finanche in una dichiarazione di invalidità della clausola pattizia, re‑ lativamente ai contratti conclusi entro il 201275. Il legislatore, con ogni evidenza, accedeva ad una nozione di grave iniquità di tale ampiezza da sfociare quasi nell’inde‑ terminatezza, di talché risultava necessario circoscrivere la concreta portata applicativa, mediante il riferimento ad ele‑ menti testuali, onde evitare di rimettere l’accertamento dell’iniquità o meno della clausola derogatoria alla valutazio‑ ne, più che discrezionale, addirittura arbitraria (stante l’asso‑ luta libertà del suo operare e l’assenza di qualsivoglia vincolo), 73 Sulla opportunità del rimedio della nullità e sul confronto dottrinale intorno alla natura assoluta o relativa della nullità di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, v. amplius Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto, Padova, 2004, passim; Grasso, La disciplina dell’invalidità nei principi di di‑ ritto europeo dei contratti, Napoli, 2005, p. 239; P. Stanzione, Manuale di diritto privato, Torino, 2006, p. 273 ss.; Pandolfini, La nullità degli accordi “gravemente iniqui” nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, 5, p. 501 ss. Con specifico riguardo alle previsioni della disciplina in esame, propende per la nullità assoluta E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo sulla data del pagamento o sulla conseguenza del ritardato pagamento, in Studi in onore di C.M. Bianca, Milano, 2006, p. 198 e Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 57 ss.; contra La Spina, La nullità relativa degli accordi in tema di ritardi di paga‑ mento nelle transazioni commerciali, in Rass. dir. civ., 2003, 1‑2, p. 117 ss. Si v. anche Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 270; Conti, La direttiva 2000/35 sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al gov‑ erno per la sua attuazione, cit., p. 811; Moliterni, op. cit., p. 58; Fauceglia, Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, cit., p. 312; Gentile, Rimosso finalmente un divieto anacronistico: procedimento monitorio anche fuori dai confini, in Guida dir., 2002, 43, p. 28. 74 Sul concetto di equità cfr. P. Perlingieri, Equità ed ordinamento giuridico, in Rass. dir. civ., 2004, p. 1149 ss.; G. Panzarini, Giudizi ed arbitrati d’equità: l’emersione nel diritto e nell’economia di consolidati elementi di concreta per‑ cezione e di specifica utilizzazione dell’equità, in Contratto e impr., 2007, 3, p. 798 ss.; Di Gregorio, La valutazione equitativa del danno, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, diretta da Galgano, Padova, 1999, p. 6; Bucci, Il principio d’equità nella storia del diritto, Napoli, 2000, p. 45 ss.; Rescigno, Giudizio “necessario” di equità e “principi regola‑ tori della materia”, in Riv. dir. comm., 1989, I, p. 5. 75 Sul punto si rinvia, ex plurimis, a Pandolfini, La nullità degli accordi “gra‑ vemente iniqui” nelle transazioni commerciali, cit., p. 502 ss. 2 0 1 3 21 del giudice76. In particolare, si è rilevato77 come il legislatore abbia voluto relativizzare la nozione di iniquità attraverso il ricorso all’aggettivo “gravemente” ‑con ciò lasciando inten‑ dere che situazioni di iniquità “non grave”, in quanto consi‑ derate normali nella pratica degli affari, sono tollerate, sì da essere sanzionate solo ove raggiungano un livello ritenuto eccessivo‑ e specificato altresì che l’iniquità deve risultare “in danno del creditore”. La punizione dell’iniquità è posta a protezione del soggetto debole, che nella specie è paradossal‑ mente il creditore. Da tale ultimo rilievo può desumersi che oggetto di sanzione è soltanto l’iniquità che si traduce in una compromissione concreta degli interessi creditori. Si è sotto‑ lineato, inoltre, come l’accertamento dell’iniquità debba esse‑ re effettuato sulla base di alcune circostanze di fatto, espres‑ samente indicate nel corpo dell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, costituite dalla “corretta prassi commerciale”, dalla “natura della merce o dei servizi oggetto del contratto”, dalla “condi‑ zione dei contraenti” e dai “rapporti commerciali” tra gli stessi. Il legislatore del 2002 individuava in talune fattispecie, testualmente previste, una presunzione di iniquità, di segno relativo (con ammissione, dunque, della prova contraria), costituite dagli accordi che, senza essere giustificati da ragio‑ ni apprezzabili, abbiano “come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del credito‑ re” ovvero mediante i quali “l’appaltatore o il subfornitore principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai ter‑ mini di pagamento ad esso concessi”78. Appare del tutto evi‑ dente, peraltro, che nonostante gli sforzi compiuti dalla dot‑ trina, il concetto di grave iniquità non era preventivamente determinabile (sulla base del dato testuale del 2002, valido per i contratti stipulati entro il 2012), con la conseguenza che l’accertamento della stessa risultava, in ultima analisi, rimes‑ so al lavoro ermeneutico dell’interprete, che avrebbe dovuto 76 A differenza di quanto previsto dalla disciplina generale di cui all’art. 1419, co. 2, c.c., infatti, la norma de qua non prevede un meccanismo automatico di sostituzione della clausola nulla con quella legale, ma rimette al giudice una valutazione di equità che potrà dunque avere anche altri esiti. Sul concetto di grave iniquità, ex multis, cfr. Pandolfini, ult. op. cit., p. 64; Benedetti, L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, in I ritardi di paga‑ mento nelle transazioni commerciali, profili sostanziali e processuali, a cura di Benedetti, cit., p. 134; E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo sulla data del pagamento o sulla conseguenza del ritardato pagamento, cit., p.186; P. Perlingieri – Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali del diritto civile, Napoli, 2004, p. 30 ss.; Salvi, “Accordo gravemente iniquo” e “riconduzione ad equità” nell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, in Contr. e impr., 2006, 1, p. 169; Volpe, voce Contratto giusto, in Dig. disc. priv. sez. civ., Agg., Torino, 2007, p. 412. Un’ipotesi testuale di nullità per grave iniquità della clausola che prevede una dilazione di pagamento o un tasso di interessi mora‑ tori particolarmente esiguo è prevista in materia di subfornitura, allorché l’as‑ senza di una giustificazione razionale della clausola, lascia intendere l’ultroneo ed iniquo scopo di procacciare liquidità al debitore. In tema di subfornitura, cfr. Berti – Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive. Commento alla legge 18 giugno 1998 n. 192 come modificata dalla legge 5 marzo 2001, n. 57 e dal decreto legislativo 9 ottobre 2002 n. 231, Milano, 2005, passim. 77 Cfr. Pandolfini, I ritardi sui pagamenti nelle transazioni commerciali (D.lgs. n. 231/2002), in www.assistenza‑legale‑imprese.it. 78 Sulla subfornitura, cfr. Doria, Note in tema di subfornitura, in Giur. it., 2007, c. 2899; Berti – Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività pro‑ duttive. Commento alla legge 18 giugno 1998 n. 192 come modificata dalla legge 5 marzo 2001, n. 57 e dal decreto legislativo 9 ottobre 2002 n. 231, cit., passim; Suppa, voce Subfornitura (contratto di), in Enc. giur., XXX, Roma, 2001, p. 1; Leccese, voce Subfornitura, in Dig. disc. priv. sez. comm., Agg., Torino, 2000, p. 744; E. Minervini, Le regole di trasparenza nel contratto di subfornitura, in Giur. comm., 2000, I, p. 216. civile Gazzetta 22 D i r itto e p r o c e du r a valutare, nella concretezza della fattispecie esaminata e muo‑ vendo dal preliminare rilievo della differente forza negoziale delle parti e delle specifiche condizioni di mercato, se fossero ricorsi o meno i presupposti per la declaratoria di nullità della clausola derogatoria. Dalla mera lettura della novellata formulazione dell’art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, risulta evidente il tentativo del legisla‑ tore di precisare con maggiore dettaglio le condizioni che determinano la grave iniquità delle clausole derogatorie ri‑ spetto alle condizioni normativamente previste, ad ulteriore conferma della tendenza ordinamentale a limitare l’abuso della libertà contrattuale in danno del contraente debole (qui individuabile nel creditore). Lo sforzo si sostanzia nella tipiz‑ zazione di una fattispecie ‑quella prevista dal co. 3‑ che inte‑ gra una presunzione assoluta, iuris et de iure, di nullità di quelle clausole che escludano, ab imis, l’applicazione degli interessi di mora, e nell’affermazione, ex co. 5, della nullità della pattuizione, inserita in contratti di cui sia parte la.a., che predetermini la data di ricevimento della fattura da parte del debitore avente natura latamente pubblicistica. Si prevede, inoltre, ai sensi del co. 4, una presunzione relativa (che am‑ mette, dunque, la prova contraria) con riguardo all’esclusione del risarcimento per i costi di recupero del credito non tem‑ pestivamente saldato, ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 231 del 2002, anch’esso oggetto di revisione79. Non sarà sfuggito che, con la novella legislativa, è stata eliminata la possibilità, pre‑ cedentemente riconosciuta al giudice di ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo stipulato inter partes, statuendosi, infatti, l’obbligatorietà dell’applicazione del combinato dispo‑ sto degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c., in ipotesi di avvenuto accertamento dell’iniquità della clausola, con configurazione, dunque, dell’evenienza di nullità parziale o relativa che non mette in discussione la restante parte del contratto. Su tale innovazione si esprime una valutazione sostanzial‑ mente positiva, poiché essa appare coerente rispetto alla fina‑ lità sottesa allo ius superveniens, che si risolve nella volontà di limitare nella misura massima possibile ‑e tendenzialmen‑ te di escludere per le pp.aa. – le deviazioni rispetto all’assetto ed al componimento degli interessi (inevitabilmente e fisiolo‑ gicamente contrapposti) individuati direttamente dal legisla‑ tore e non più demandati al giudice. Nella prospettiva consi‑ derata, pertanto, sembra comprensibile ed accettabile anche la scelta di ridurre la discrezionalità del giudice in subiecta materia obbligandolo, per contro, alla mera applicazione della disciplina normativa. 6. Gli ostacoli all’operatività delle previsioni normative Alla luce di quanto precedentemente esposto risulta evi‑ dente che, con l’emanazione del d.lgs. n. 231 del 2002, si è avviato un percorso finalizzato ad operare una progressiva ed 79 Per completezza d’esposizione si segnala che anche l’art. 6 risulta profonda‑ mente modificato poiché al co. 1 è stato eliminato il riferimento alla possibilità per il debitore di sottrarsi all’obbligo risarcitorio dei costi sostenuti per il recu‑ pero del credito mediante la dimostrazione della non imputabilità del ritardo nel pagamento. Dunque il ritardo nel pagamento è oggettivamente imputato al debitore, come già si era anticipato e in coerenza con il dettato comunitario. Il co. 2, inoltre, è stato sostanzialmente riscritto mediante il riconoscimento al creditore di un importo forfetario di € 40,00, senza necessità di costituzione in mora, fatta salva la prova del maggior danno che può ricomprendere i costi sostenuti per l’assistenza nel recupero del credito. c i v il e Gazzetta F O R E N S E integrale parificazione fra soggetti privati e.a., per quel che concerne il rispetto dei termini di pagamento nelle transazio‑ ni commerciali e, dunque, con specifico riferimento alle ob‑ bligazioni pecuniarie della P.A. derivanti da un contratto da essa liberamente stipulato80. Anzi, si ribadisce che il recente intervento correttivo dell’impianto originario del decreto de quo ha finito col prevedere per le pp.aa., in relazione a taluni aspetti, un trattamento disomogeneo e deteriore rispetto a quello riservato alle parti private. Un primo significativo passo verso l’obiettivo sopra esplicitato è consistito nell’aver sostanzialmente esteso alle pp.aa., la disciplina dettata dall’ar‑ ticolo 1219, co. 2 e 3, c.c., con conseguente definitivo supera‑ mento dell’orientamento giurisprudenziale81 che riteneva tali disposizioni non applicabili ai rapporti obbligatori in cui il debitore avesse natura pubblicistica. Attraverso l’eliminazione della costituzione in mora quale condicio sine qua non per la decorrenza di interessi moratori a carico della p.a. inadem‑ piente agli obblighi di pagamento, dunque, l’ordinamento ha tentato di realizzare un riequilibrio dei rapporti di forza fra ente pubblico e privato contraente, mediante la costruzione di un modello di relazioni imperniato sul principio della ten‑ denziale pari rilevanza dei contrapposti interessi. Ciò appare coerente, d’altro canto, con la considerazione di ordine gene‑ rale che, allorquando una p.a. addiviene alla stipula di un contratto non esercita, per definizione, poteri autoritativi, ma si pone ontologicamente su di un piano di parità, sebbene temperato, con l’altro contraente, agendo essa, in altri termi‑ ni, iure privatorum. E che l’affermazione di tale principio, e del conseguente rafforzamento della posizione dell’imprendi‑ tore che si trovi nella condizione di controparte contrattuale di una p.a., costituisca uno degli obiettivi primari sottesi all’emanazione del d.lgs. n. 231 del 2002 risulta, icasticamen‑ te, confermato dalla tecnica legislativa utilizzata e dallo “stesso uso reiterato dell’avverbio automaticamente”, che “denota la precisa volontà di non condizionare il decorso degli interessi all’attivazione delle macchinose procedure amministrative”82. Ciò nonostante, non può non rilevarsi come l’ordinamen‑ to giuridico, al di là di orientamenti giurisprudenziali tesi a limitare l’applicabilità di alcune disposizioni codicistiche ai rapporti contrattuali che vedono come parte un ente pubbli‑ 80 Il discorso diventa alquanto più complesso, infatti, e per evidenti ragioni di opportunità non è possibile in questa sede operare i necessari approfondi‑ menti, allorquando l’obbligazione pecuniaria della p.a. derivi direttamente dalla legge o da un provvedimento amministrativo da essa adottato (a titolo esemplificativo: l’atto di concessione di un contributo) ovvero, infine, nell’ipo‑ tesi che vi siano atti giuridici esterni all’Ente che determinino un’obbligazione di pagamento. Tale ultima ipotesi tipicamente ricorre negli Enti Locali qualora sia pronunciata contro l’ amministrazione una sentenza esecutiva, anche prov‑ visoriamente, di condanna al pagamento di una somma di denaro, con conse‑ guente obbligo di attivazione, ex art. 194, d.lgs. n. 267 del 2000, della proce‑ dura di riconoscimento del debito fuori bilancio. 81 La Suprema Corte ha reiteratamente affermato, infatti, che “per i debiti pecu‑ niari della p.a., in deroga al principio di cui all'art. 1182, comma terzo, c.c., i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell'amministrazione debi‑ trice, giacché la natura querable dell'obbligazione rimane ferma”; da ciò deriva “che il ritardo nel pagamento non determina automaticamente gli effetti della costituzione in mora ex re ai sensi dell'art. 1219, comma secondo, c.c. in man‑ canza della richiesta fatta per iscritto ai sensi dell’art. 1219, comma primo” (cfr. Cass., 25 luglio 2001, n. 10135; ma anche Id., 17 luglio 2007, n. 6554; Id., 03 ottobre 2005, n. 19320; Id., 28 marzo 1997, n. 2804). 82 Così Trebastoni, Pagamenti delle pubbliche amministrazioni e rispetto dei termini, in www.diritto.it. F O R E N S E luglio • A G O S T O co83, detti previsioni ‑animate da finalità di autoprotezione‑ volte a delineare una posizione di privilegio per le pp.aa., al‑ lorquando le stesse si trovino a recitare il ruolo di creditore e, soprattutto, quello di debitore84. Sopravvive una posizione di favor per la p.a., malgrado gli sforzi del legislatore comunita‑ rio! Senza pretesa di esaustività, con riferimento a tale ultimo profilo, appare doveroso il richiamo alla disciplina dettata dall’art. 159, d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL), per le esecu‑ zioni nei confronti degli enti territoriali. La menzionata pre‑ visione dispone, infatti, che non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri, e che gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa. Ai sensi del combinato disposto dei co. 2 e 3 della norma in esame, inoltre, non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio dal giudice, le som‑ me di competenza degli enti locali caratterizzate da specifici vincoli di destinazione, vale a dire al pagamento delle retri‑ buzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri pre‑ videnziali per i tre mesi successivi; al pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso; all’espletamento dei servizi locali indispensabili. La concreta operatività dei predetti limiti alle procedure esecuti‑ ve è normativamente subordinata ad una deliberazione ad hoc (c.d. delibera di impignorabilità), di competenza dell’organo esecutivo, da adottarsi con cadenza semestrale, con successi‑ va notifica al tesoriere, affinché provveda alla quantificazione ex ante degli importi delle somme, in concreto, destinate alle predette finalità, con conseguente applicazione del co. 4 dell’art. 159 TUEL, che statuisce che “Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del co. 2 non determi‑ nano vincoli sulle somme né limitazioni all’attività del teso‑ riere” 85. Sempre con riferimento specifico agli enti locali, viene poi in rilievo un’ulteriore previsione del TUEL, ossia l’art. 248, che disciplina le conseguenze della deliberazione di dissesto. 83 Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 1181 e 1194 c.c. In particolare, Treba‑ stoni, Pagamenti delle pubbliche amministrazioni, cit., “ritiene inapplicabile alle pubbliche amministrazioni l’art. 1181 c.c., cosicché il creditore privato non può rifiutare un adempimento parziale di una di esse, il che può avvenire quando in bilancio non sia stanziata una somma sufficiente a pagare l’intero debito. Come debitore, infatti, si afferma ancora che “il principio espresso dall'art. 1194, c.c., secondo il quale i pagamenti parziali si imputano prima agli interessi e poi al capitale, è di dubbia applicazione nei confronti della p.a., at‑ tesa la particolarità del suo procedimento contabile, e, comunque, si applica solo per i pagamenti spontanei e non per quelli coattivi, come quelli imposti da un giudicato”. 84 Sul tema si veda Gnes, I privilegi dello Stato debitore, Milano, 2012, p. 239 ss. 85 Si rammenta, peraltro, che la Corte cost., 4‑18 giugno 2003, n. 211, (in G.U. n. 25 del 25 giugno 2003) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, co. 2, 3 e 4, “nella parte in cui non prevede che la impignorabilità delle somme destinate ai fini indicati alle lettere a), b) e c) del comma 2 non operi qualora, dopo la adozione da parte dell'organo esecutivo della deliberazione semestrale di preventiva quantificazione degli importi delle somme destinate alle suddette finalità e la notificazione di essa al soggetto tesoriere dell'ente locale, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine crono‑ logico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente stesso”. Si veda, al riguardo, G. Stanzione, Il patrimonio degli enti locali reso più vulnerabile dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 211/2003, in www.cla‑ aicampania.it 2 0 1 3 23 Dalla data della dichiarazione di dissesto, infatti, e sino all’approvazione del rendiconto di cui all’art. 256 TUEL, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrino nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione86. Inoltre, le proce‑ dure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dis‑ sesto, per le quali siano scaduti i termini per l’opposizione giudiziale, ovvero nell’ipotesi in cui la stessa, sebbene propo‑ sta, sia stata rigettata, sono dichiarate estinte d’ufficio dal giudice, con inserimento nella massa passiva dell’importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese. I pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di dissesto sono improduttivi di effetti e non vincolano l’ente ed il tesoriere e, infine, ai sensi del co. 4 dell’articolo in esame, dalla data della deliberazione di dissesto e sino all’approva‑ zione del rendiconto di cui all’art. 256 TUEL, i debiti insolu‑ ti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi, né sono soggetti a riva‑ lutazione monetaria, con conseguente configurazione di un’ipotesi di inesigibilità temporanea di tali elementi acces‑ sori del credito87. In termini più generali, da ultimo, pare opportuno ricor‑ dare come l’ordinamento frapponga degli ostacoli, mediante la previsione di un trattamento differenziato ed oggettivamen‑ te più favorevole per le pp.aa., anche alla possibilità di recu‑ perare coattivamente le somme dovute dagli enti pubblici e non tempestivamente erogate. È tuttora vigente, infatti, l’art. 14, d.l. n. 669 del 1996, convertito con modificazioni con l. n. 30 del 1997, rubricato “Esecuzione forzata nei con‑ fronti delle pubbliche amministrazioni”. Il co. 1 della menzio‑ nata disposizione statuisce che “Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le proce‑ dure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di cento‑ venti giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”. Non v’è chi non veda, dunque, come la previsione del decorso del richiamato termine dilatorio costituisca una peculiare garanzia posta a tutela della p.a. che, peraltro, sebbene ponga delle regole oggettivamente derogatorie rispetto a quelle previste per la generalità dei consociati, ha più volte superato il controllo di legittimità costituzionale operato dalla Consulta88. A ciò si 86 Il divieto di un’azione esecutiva individuale nei confronti dell’ente locale che abbia deliberato lo stato di dissesto deve essere esteso a tutte le azioni aventi un medesimo contenuto, tra le quali, indubbiamente, anche il giudizio di ottempe‑ ranza qualora esso sia rivolto alla mera esecuzione di una sentenza del giudice ordinario di condanna al pagamento di una somma di denaro. Ciò in conside‑ razione che la procedura di liquidazione dei debiti degli enti locali dissestati è essenzialmente dominata dal principio della par condicio dei creditori, sicché la tutela della concorsualità comporta l'inibitoria anche del ricorso di ottempe‑ ranza in quanto misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore. In tal senso Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 226. 87 La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, chiarito che la previsione in commento, secondo cui i debiti insoluti alla data di dichiarazione del dissesto finanziario dell’ente locale non producono né interessi né rivalutazione mone‑ taria, ha carattere meramente sospensivo e non preclude all'interessato – una volta esaurita la gestione straordinaria con la cessazione della fase di disse‑ sto – di proseguire nella di corresponsione delle poste stesse nei confronti dell'ente risanato (così Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3261). 88 Si vedano Corte cost., 23 aprile 1998, n. 142; Id., ord., 16 dicembre 1998, civile Gazzetta 24 D i r itto e p r o c e du r a aggiunga l’ulteriore considerazione che il termine dilatorio previsto in favore della p.a. è, in realtà, più lungo, per effetto di quanto previsto dall’art. 480, co. 1, c.p.c.89, e del tempo occorrente per la notificazione del precetto 90. Senza voler nemmeno considerare in questa sede la pro‑ blematica della compatibilità fra la stringente disciplina det‑ tata dalla normativa di derivazione comunitaria oggetto di queste brevi notazioni ed i limiti, sempre più pervasivi, alla capacità di spesa (in particolare degli enti locali) imposti dal c.d. patto di stabilità interno91, si consideri, inoltre, quanto riportato in prosieguo. Ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall’art. 48 bis, DPR n. 602 del 1972 92 , nella formulazione introdotta dall’art. 2, co. 9, d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, nella l. 24 novembre 2006, n. 286, le pp.aa., prima di effettuare un qualsiasi pagamento di importo supe‑ riore ad euro 10.000,00, devono verificare, presso il conces‑ sionario dei servizi di riscossione competente per territorio, se il beneficiario sia “inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a detto importo” e, in caso affermativo, non procedere al pagamento e segna‑ lare “la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Per tutti i contratti pubblici, siano essi di lavori, forniture o servizi, ed a prescindere dall’importo più o meno rilevante degli stessi, le pp.aa. devo‑ no verificare, preventivamente rispetto al pagamento del corrispettivo, ovvero di parte di esso, che la controparte ver‑ si in una condizione di regolarità per quel che concerne gli adempimenti INPS, INAIL e Cassa Edile per i lavori, deter‑ minati sulla scorta della rispettiva normativa di riferimento. In buona sostanza, la p.a., prima di assolvere la propria ob‑ bligazione pecuniaria, dovrà acquisire il DURC (ossia il Do‑ cumento Unico di Regolarità Contributiva) che, con specifico riferimento ai rapporti contrattuali intrattenuti con un sog‑ getto pubblico, ha fatto la sua prima apparizione nell’ordina‑ mento giuridico con l’articolo 2 della l. n. 266 del 2002 di conversione, con modificazioni, del decreto l. n. 210 del 2002. n. 463; Id., 23 ottobre 2006, n. 343. Della questione si è occupata, inoltre, la Corte giust., 11 settembre 2008, resa in C‑265/07. 89 Che così recita: “Il precetto consiste nell'intimazione di adempiere l'obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni, salva l'autorizzazione di cui all'articolo 482, con l'avvertimento che, in mancanza, si procederà a esecuzione forzata”; da ciò discende che l’esecuzione non può concretamente avviarsi prima del decorso di 130 giorni dalla notifica del titolo esecutivo. 90 La giurisprudenza ha precisato, peraltro, che “la sopravvenuta inefficacia del precetto per mancato inizio dell'esecuzione nel termine di novanta giorni dalla sua notificazione comporta che le spese del precetto ormai perento restano a carico dell'intimante, essendo applicabile, anche in questa ipotesi, il princi‑ pio – stabilito dall'ultimo comma dell'art. 310 c.p.c. e richiamato, per il caso di estinzione del processo esecutivo, dall'art. 632 u.c. del codice di rito – che le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate. Né la spesa sopportata per intimare il precetto divenuto inefficace può essere assimilata a un costo sostenuto per il recupero delle somme non corrisposte alla scadenza, ripetibile dal debitore ai sensi dell’art. 6, d.lgs. 231 del 2002 (così Cass., sez. III, 09 maggio 2007, n. 10572). 91 Che pure rappresenta, in ultima analisi, un precipitato della partecipazione dell’Italia all’entità sopranazionale del tutto sui generis che è l’Unione Europea. Per ulteriori spunti di riflessione sul tema si rinvia a Gnes, La nuova disciplina, cit., p. 121 ss. 92 Le relative modalità di attuazione sono state individuate con d.m. 18 gennaio 2008, n. 40, del Ministero dell’economia e delle finanze. c i v il e Gazzetta F O R E N S E Per quanto qui d’interesse, vengono in rilievo, in particolare, gli artt. 4, 5 e 6, dPR n. 207 del 2010 ‑che individua le norme d’attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006 (c.d. Codice degli Ap‑ palti)‑ prevedenti l’intervento sostitutivo della stazione appal‑ tante in ipotesi di inadempienza contributiva e retributiva dell’esecutore e del subappaltatore. Con ogni evidenza non è possibile, in questo contesto, procedere ad un dettagliato esame delle rilevanti problematiche applicative dell’istituto del DURC, limitandoci ad evidenziare come esso abbia determinato conseguenze per certi versi para‑ dossali93, specie in una prima fase, e, tuttavia, per completezza d’esposizione, pare opportuno segnalare che sulla G.U. n. 165 del 16 luglio 2013 è stato pubblicato il decreto del 13 marzo 2013 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, emanato in attuazione di quanto disposto dall’art. 13, co. 5, d.l. n. 52 del 2012 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 94 del 2012). Il richiamato decreto ministeriale ha statuito, infatti, che il DURC può essere rilasciato anche in presenza di pendenze verso gli enti pubblici di previdenza, nell’ipotesi in cui il sog‑ getto richiedente sia, al contempo, titolare di un credito certo, liquido ed esigibile, debitamente certificato, nei confronti delle pp.aa., ed a condizione che detto credito sia di importo almeno corrispondente agli oneri contributivi accertati a cari‑ co e non ancora versati, del medesimo soggetto richiedente 94. Al riguardo, da ultimo, l’art. 31, d.l. n. 69 del 2013, cd. Decre‑ to del Fare, (conv. con l. n. 98 del 2013)95, ha apportato talune modifiche alla disciplina in materia di DURC nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 e al d.P.R. n. 207 del 2010, al fine di rendere più celere lo svolgimento dei rapporti contrattuali tra i privati e la P.A. Tra le altre novità, ha infatti esteso la possibilità sopra de‑ scritta a tutte le tipologie di DURC, mediante l’espunzione del riferimento alla concessione di “benefici normativi e contribu‑ tivi” dalla previsione di cui all’art. 13, co. 5, d.l. n. 52 del 2012 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 94 del 2012). Occorre, infine, rammentare che, ai sensi di quanto pre‑ visto dall’art. 26, d.lgs. n. 33 del 2013, di attuazione della legge cd. anticorruzione n. 190 del 2012, recante “riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, tras‑ parenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, che ha determinato l’abrogazione del pre‑ vigente articolo 18 del decreto legge n. 83 del 2012 (conver‑ tito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 2012), le pp.aa. pubblicano, sul proprio sito internet, gli atti di concessione 93 Si pensi alla posizione dell’operatore economico che, a causa dei patologici ritardi da parte della p.a. nell’assolvimento delle proprie obbligazioni pecunia‑ rie, non era in grado di fare fronte agli obblighi retributivi e contributivi e che per l’effetto si trovava, e si trovava, esposto ad una molteplicità di conseguenze negative (che vanno dalla possibile revoca dell’appalto, all’impossibilità di sti‑ pulare nuovi contratti d’appalto, all’impossibilità di ottenere, in misura piena, il pagamento dei SAL e delle liquidazioni finali); non v’è chi non veda come la descritta situazione abbia determinato, per numerose aziende che intratteneva‑ no rapporti con soggetti pubblici, l’attivazione di una sorta di circolo vizioso che, in numerosi casi, ne ha provocato il fallimento. 94 Per ulteriori approfondimenti sui contenuti del decreto e per un primissimo commento si rinvia a Sacrestano, Crediti verso la PA cedibili in assenza di debiti previdenziali, in IlSole24Ore,17 luglio 2013, p. 16. 95Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con circolare n. 36 del 06 set‑ tembre 2013, reperibile sul sito istituzionale www.lavoro.gov.it, ha fornito i primi chiarimenti interpretativi della disciplina definita in sede di conversione del cd. Decreto del Fare dalla l. n. 98 del 2013, relativi in particolare alle fasi in cui il DURC deve essere acquisito e alla sua validità temporale. F O R E N S E luglio • A G O S T O delle sovvenzioni, dei contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e, comunque, dei vantaggi economici di qua‑ lunque genere a persone ed enti pubblici e privati, per im‑ porti superiori a mille euro. La predetta pubblicazione costi‑ tuisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti in discorso e la sua eventuale omissione od incompletezza è ril‑ evata d’ufficio dagli organi dirigenziali, sotto la propria re‑ sponsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l’indebita concessione od attribuzione del beneficio econom‑ ico. In altri e più semplici termini, dunque, il lodevole intento del legislatore di inverare nella misura massima possibile il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, che ha un diretto fondamento nelle previsioni costituzionali, mediante la progressiva attuazione dell’obiettivo costituito dalla tras‑ formazione della.a. in una casa di vetro, con conseguente attivazione di forme di controllo democratico diffuse sull’operato dei soggetti pubblici e sul concreto utilizzo delle risorse ad essi affidate, si traduce ‑a causa dell’inadeguatezza (anche tecnologica) che in linea tendenziale caratterizza gli apparati organizzativi delle pp.aa. (e, in particolare, degli enti locali)‑ in un ulteriore ostacolo al sollecito adempimento delle obbligazioni da parte del debitore pubblico. Alla luce delle considerazioni esposte e delle palesi con‑ traddizioni che caratterizzano l’ordinamento giuridico interno (da ascrivere a spinte e controspinte di provenienza eteroge‑ nea) e che mettono a dura prova l’intima razionalità ed uni‑ tarietà che pure, per definizione, dovrebbero connotarlo, pare possibile nutrire delle perplessità circa le effettive chances di successo del novellato d.lgs. n. 231 del 2002, con partico‑ lare riferimento ai contratti stipulati dalle pp.aa., posto che le stesse, anche per ragioni culturali legate alla forma mentis dei propri dipendenti, oltre che per le motivazioni oggettive sopra esplicitate, avranno serie difficoltà a garantire il rispet‑ to dei termini di pagamento per esse previste; d’altro canto, il soggetto creditore sarà inevitabilmente tentato di accettare soluzioni, anche di natura transattiva, al ribasso rispetto agli standard legislativi, pur di evitare il defatigante, e per certi versi angosciante, calvario giudiziario, che è chiamato ad affrontare chi intenda, nel nostro Paese, recuperare un proprio credito (specie nei confronti delle pp.aa. che, come sopra rife‑ rito, permangono in una posizione di singolare primazia nei confronti degli altri debitori). Se, dunque, con il d.lgs. n. 192 del 2012 si sono significa‑ tivamente attenuate, per non dire del tutto azzerate, le possi‑ bilità per le pp.aa. di prevedere convenzionalmente termini di pagamento superiori ai limiti normativamente predefiniti (si rammenti, 30 o 60 giorni a seconda delle varie fattispecie), con evidente volontà del decisore politico ‑a tacere di ogni altra considerazione‑ di indurre gli enti pubblici ad accelerare quanto più possibile l’adempimento delle proprie obbligazio‑ ni pecuniarie, non può non rilevarsi, per contro, come si rinvengano nell’ordinamento norme, anche di recente adozio‑ ne, che nel perseguimento di finalità ed obiettivi differenti, rendono la procedura di pagamento alquanto contorta e mac‑ chinosa, con conseguente compromissione dell’effettivo ri‑ spetto dei termini imposti per legge96. Con la conseguenza che, 96 Per ulteriori spunti di riflessione si rinvia a Atelli, Contratti della pubblica amministrazione e normativa in materia di ritardi di pagamento nelle transazi‑ 2 0 1 3 25 decorsi i termini di pagamento stabiliti dal novellato d.lgs. n. 231 del 2002, dovranno essere riconosciuti al soggetto creditore gli interessi moratori nella misura di legge, con l’evidente implicazione oggettiva di un indebito incremento dell’esborso di risorse finanziarie pubbliche e possibile confi‑ gurazione di una fattispecie di danno erariale. Appare alquan‑ to agevole prevedere che le Procure Regionali della Corte dei Conti presto concentreranno la propria attenzione su tali profili al fine di accertare, nella concretezza delle situazioni considerate, la sussistenza, nella condotta dei funzionari del‑ le pp.aa., degli elementi psicologici minimi richiesti dall’ordi‑ namento per la responsabilità amministrativa. In altri termini, al di là delle proclamazioni astratte ope‑ rate dal legislatore, la tutela concreta dei diritti del creditore delle pp.aa., nella prassi applicativa, incontra tanti e tali osta‑ coli da ingenerare il significativo rischio di un mancato rag‑ giungimento degli obiettivi sottesi alle disposizioni normative in commento, con evidente compromissione del principio della concorrenza, id est delle pari opportunità per gli opera‑ tori del mercato aperto. La conseguenza necessitata delle affermazioni che prece‑ dono è che, con ogni evidenza, pur riconoscendo la meritorie‑ tà dei segnali incoraggianti lanciati, nella prospettiva consi‑ derata, dal d.lgs. n. 231 del 2002 e ss.mm.ii., l’ordinamento giuridico italiano sia ancora ben lungi, anche a causa di una certa schizofrenia ma, anche, ipertrofia legislativa, dall’aver raggiunto un effettivo equilibrio fra le esigenze contrapposte delle pp.aa. e dei loro funzionari e quelle degli imprenditori ‑nell’accezione che qui viene in rilievo‑ che forniscono ad esse beni e servizi. Del resto, le difficoltà concrete nel raccordare la disciplina di derivazione comunitaria qui esaminata con tutte le altre regole di operatività cui soggiacciono le pp.aa., ivi incluse quelle di origine comunitaria ‑come ad esempio il ricordato Patto di Stabilità interno di cui da tempo si sottoli‑ nea l’eccessiva rigidità‑ sono tante e tali da aver fatto avverti‑ re la necessità ordinamentale di adottare ulteriori provvedi‑ menti nell’ambito considerato (il riferimento, come è ovvio, è al già richiamato d.l. 08 aprile 2013, n. 35, ed alla relativa legge di conversione97). Il legislatore, consapevole degli osta‑ coli frapposti all’effettivo perseguimento degli ambiziosi obiettivi europei in materia di pagamenti dei debiti delle pp. aa., ha inteso delineare con l’atto normativo in questione, cd. “sblocca debiti”, una disciplina organica, basata su una plu‑ ralità di strumenti tra loro coordinati, che consenta di supe‑ rare definitivamente le problematiche connesse al mancato pagamento dei debiti soggettivamente pubblici scaduti al 31 dicembre 2012, provvedendo, altresì, a dettare una disciplina quanto più possibile autoapplicativa. Ci si è resi, in qualche modo, conto, infatti, della sterilità di quelle prescrizioni nor‑ mative, pur meritorie nelle intenzioni, volte ad una accelera‑ zione dei pagamenti della p.a. per favorire la ripresa del mercato, che non si preoccupavano, tuttavia, di individuare le risorse da cui attingere, né di segnalare criteri e procedure per accelerare tali pagamenti ed agevolare l’immissione di li‑ oni commerciali (d.lgs. n. 231/2002): brevi note su tre aspetti ‘sensibili’ nella prospettiva della responsabilità amministrativo‑contabile, in www.amcortecon‑ ti.it. 97 L. 6 giugno 2013, n. 64 (pubblicata in G.U. n. 132 del 7 giugno 2013), in www. funzionepubblica.gov.it/. civile Gazzetta 26 D i r itto e p r o c e du r a quidità nel sistema economico. Il decreto legge de quo ‑peral‑ tro incorso anch’esso in numerosi ostacoli di tipo applicativo98‑ introduce, per l’appunto, due distinte procedure relativamen‑ te ai debiti delle amministrazioni centrali, dirette per un verso al soddisfacimento e, per altro, alla ricognizione e cer‑ tificazione di quei debiti non soddisfatti per incapienza delle risorse stanziate. E, tra l’altro, rimuove almeno in parte pro‑ prio uno degli impedimenti avvertiti come maggiormente ostici, vale a dire il Patto di Stabilità interno, di cui è stato attenuato il rigore sanzionatorio per gli enti locali virtuosi99. Nondimeno, il legislatore italiano deve avere, ancora una volta, utilizzato un linguaggio poco chiaro od offerto soluzio‑ ni, come in precedenza accennato, di non semplice applica‑ zione, se a distanza di appena quattro mesi dalla sua entrata in vigore, il d.l. n. 35 del 2013 ha necessitato di una circolare ricognitiva a firma del Ministro per la.a. e per la Semplifica‑ zione. Si tratta della circolare n. 4 del 09 agosto 2013, con cui il Ministro, nel ripercorrere gli adempimenti posti dal decreto in questione a carico delle amministrazioni centrali, ricorda come il quadro si completi con le disposizioni sui tempi mas‑ simi di pagamento recentemente introdotte dal d.lgs. n. 192 del 2012. Ciò è tanto più vero, se si considera che il Ministro conclude raccomandando alle amministrazioni centrali debi‑ trici di porre in essere tempestivamente tutte le attività neces‑ sarie e funzionali al corretto espletamento delle procedure introdotte dal d.l. n. 35 del 2013 e dalla successiva legge di conversione, rammentando, inoltre, la gravità delle sanzioni derivanti dal mancato o tardivo adempimento delle stesse, sotto il profilo della responsabilità erariale, dirigenziale e/o disciplinare100. 98 Cfr. Barbero, Ritardi p.a., il danno e la beffa, in ItaliaOggi, 17 settembre 2013, p. 22. 99 Anche su questo punto ci sarebbe da riflettere, atteso che la virtuosità è, para‑ dossalmente, riscontrata nell’aver disatteso proprio i vincoli comunitari. Difat‑ ti, sono considerati virtuosi quegli enti locali che, sforando nel 2012 il Patto di Stabilità, hanno pagato i loro debiti. Per costoro, le penalizzazioni saranno li‑ mitate all’importo “non imputabile ai predetti pagamenti”. 100 Per ragioni di completezza, va segnalato che il Ministero dell’economia e delle finanze ha avviato il monitoraggio dell’avanzamento dell’intera procedura at‑ tivata per una rapida attuazione del d.lgs. n. 35 del 2013, al fine di garantire sia una corretta allocazione delle risorse finanziarie che il rispetto degli im‑ pegni degli enti debitori a impiegare queste risorse per saldare rapidamente i debiti scaduti. Nello svolgimento di tale compito di monitoraggio, con comu‑ nicato stampa n. 146 del 04 settembre 2013, ha dato conto del trend positivo dei pagamenti effettuati ai creditori, avendo registrato un incremento di € 2,2 miliardi rispetto al precedente aggiornamento del 6 agosto. In termini assoluti, “al 4 settembre risulta che siano stati messi a disposizione degli enti pubblici debitori 17,9 miliardi di euro (il 90% dei 20 miliardi stanziati dal D.L. 35/2013), e che questi abbiano provveduto a pagare ai propri creditori debiti scaduti per un importo pari a 7,2 miliardi (36% dell’importo stanziato)”. c i v il e Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E luglio • A G O S T O ● La mediazione familiare: un istituto da decifrare e incentivare ● Antonio Bova Dottore di ricerca 2 0 1 3 27 Sommario: 1. Introduzione – 2. Le origini della mediazione familiare – 3. La mediazione familiare nelle “maglie” dell’art. 155 sexies c.c. – 4. Tipologie di mediazione familia‑ re – 5. Il mediatore familiare: uno “statuto” da definire – 6. Considerazioni conclusive. 1. Introduzione Le vicende della giustizia1 sono spesso artificiosamente accantonate, ma non definitivamente seppellite: inevitabil‑ mente continuano ad agitarsi e si ripropongono con analoga emotività e forza propulsiva nelle varie fasi storiche. Così anche il problema dell’enorme carico di lavoro dei nostri Tribunali e la conseguente “irragionevole durata dei processi”, soprattutto civili, non possono essere riposti nell’oblio e ancor meno possono essere risolti con soluzioni che non tengano conto della struttura socio‑economica e del pe‑ riodo storico in cui maturano e si sviluppano. La giustizia, infatti, incarna un’esperienza umana che si svolge in più forme e modalità e deve quindi necessariamente fare i conti con le dimensioni culturali, storiche, politiche ed economiche della società. Se diamo anche solo un rapido sguardo all’Italia di oggi, ci accorgiamo che il tema della giustizia, quale fattore prima‑ rio che rende una società accettabile, vivibile, sana, è da tanti anni un problema di fondo sostanzialmente irrisolto. Anzi, nella visuale della storia delle istituzioni, è il punto nodale attorno a cui ruotano le scelte della politica e le reazioni di chi è governato, e su cui si sono accesi grandi dibattiti di natura politica, culturale, sociale. Dalla stessa dipende in larga misura anche la stabilità del sistema politico. È evidente, infatti, l’incidenza della difficile situazione della giustizia nel rapporto tra le garanzie offerte dallo Stato e la possibilità di uno sviluppo più ampio e più sicuro degli individui e della collettività. La lentezza della nostra macchina giudiziaria non può essere disconosciuta o calata nell’oblio. La possibilità di otte‑ nere giustizia in tempi accettabili corrisponde ancora, nell’im‑ maginario e nelle esperienze concrete dei cittadini, ad una . “tragica utopia” Da qui la necessità di concentrarsi con metodo nella defi‑ nizione di strumenti idonei capaci di garantire, fermo il ruolo primario della magistratura, una giustizia efficiente. Appare ormai indifferibile una definizione chiara e coe‑ rente dei problemi all’interno di un quadro di certezze e di garanzie per il cittadino. Si tratta di un aspetto di fondamentale importanza, ancor più rilevante quando la lentezza della giustizia vada ad impat‑ tare sui delicati e complessi rapporti familiari. I rimedi sug‑ geriti sono diversi ma è evidente che la loro efficacia, soprat‑ tutto nel delicato ambito dei rapporti familiari e dei relativi aspetti processuali, presuppone un attento coordinamento. Tra questi vi sono sicuramente: l’aumento dei finanziamenti, 1Per un approfondimento cfr. F.A. Genovese, La mediazione come strumento deflativo del contenzioso civile, in Corr. trib., 2011, 10, p. 739; M. Gerardo, A. Mutarelli, Sulle cause della irragionevole durata del processo civile e possibili misure di reductio a ragione‑ volezza, in www.judicium.it. civile Gazzetta 28 D i r itto e p r o c e du r a il completamento dell’organico dei magistrati, la riorganiz‑ zazione dei circondari, un’attenta riforma della professione forense, importanti interventi riformatori del processo, ma soprattutto un impegno vero e concreto nell’incentivare l’istituto della mediazione familiare 2 , quale strumento essen‑ ziale nella soluzione delle crisi relazionali della famiglia. 2. Le origini della mediazione familiare “La difficoltà non sta nel credere nelle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie”: questa celebre frase di John Maynard Keynes palesa il senso immediato delle difficoltà e degli osta‑ coli, che si pongono lungo il “cammino” della mediazione familiare. Da qui l’importanza di un’indagine anche storica della genesi di tale fenomeno culturale. La mediazione familiare, come ricostruito da attenta dottrina3, nasce negli anni Settanta negli Stati Uniti sulla base di una riflessione, condotta in ambito legale, sull’inade‑ guatezza dei consueti strumenti contenziosi a gestire i conflit‑ ti interpersonali tipici della crisi coniugale4. Dagli Stati Uniti, la sperimentazione delle nuove tecniche di mediazione fami‑ liare si diffonde rapidamente in tutto il mondo occidentale. Approda in Europa negli anni Ottanta, quando anche in Italia nascono le prime esperienze. È però soprattutto negli 2Sul punto in generale E. Allegri, P. Defilippi, Mediazione familiare, Armando, 2004; A. Ansaldo, La mediazione familiare nel divorzio, in Nuova giur. civ., 2008, 7‑8, p. 209 ss.; R. Ardone, M. Lucardi, La mediazione familiare. Svi‑ luppi, prospettive, applicazioni, Kappa, 2005; E. Barone, Figli condivisi. 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Spadaro, La mediazione familiare nel rito della separazione e del divorzio, in Famiglia e diritto, 2008, 2, p. 209; F. Tommaseo, Mediazione familiare e processo civile, in Famiglia e diritto, 2012, 8,9, p. 831; C.Troisi, La mediazione familiare nell’applicazione della recente legge sull’affidamento condiviso, in Famiglia e diritto, 2008, 3, p. 264. 3Sul punto cfr. Dainesi, op. cit., pp. 89 ss. In tali termini Spadaro, op. cit., pp. 209 ss. 4In particolare, si osservò che, soprattutto in presenza di figli, i rapporti tra i coniugi separati o addirittura divorziati non si interrompono definitivamente, ma sono inevitabilmente destinati a proseguire. In questa prospettiva, qualun‑ que assetto dei rapporti familiari che non sia accettato in maniera spontanea e responsabile da ciascuna parte, ma sia imposto autoritariamente dal giudice, corre il rischio di essere tutt'altro che risolutivo e di costituire solo la base di nuove incomprensioni e di reciproche tensioni. Ne conseguì una sempre mag‑ giore attenzione verso quegli strumenti in grado di consentire ai coniugi in crisi di riappropriarsi della capacità di gestire in modo autonomo e responsa‑ bile il conflitto, sì da giungere a una regola del rapporto negoziata e condivi‑ sa. c i v il e Gazzetta F O R E N S E anni Novanta che la mediazione cresce come fenomeno cul‑ turale e acquisisce sia in Europa, sia in Italia, una precisa fi‑ sionomia. Infatti, nel 1992 viene siglata a Parigi la Charte eu‑ ropéenne de formation des médiateurs familiauxdans les si‑ tuation de divorce et separation e in Italia fioriscono un po’ dappertutto associazioni fra mediatori familiari. Il primo ri‑ conoscimento ufficiale a livello europeo si ha nel 1996, quan‑ do a Strasburgo viene siglata la Convenzione europea sull’eser‑ cizio dei diritti del fanciullo, il cui art. 13 (rubricato “Media‑ zione e altri metodi di soluzione dei conflitti”) impegna espressamente le parti a incoraggiare “il ricorso alla media‑ zione e a qualunque altro metodo di soluzione dei conflitti atto a concludere un accordo, nei casi in cui le Parti lo riter‑ ranno opportuno”. Si tratta di un primo, timido invito ai Paesi aderenti alla Convenzione a favorire pratiche di media‑ zione familiare nei conflitti coinvolgenti i minori, ma che tuttavia focalizza la finalità della mediazione nella “soluzione dei conflitti”, contribuendo a collocare a pieno titolo la me‑ diazione tra le ADR. La mediazione, tuttavia, non entra an‑ cora formalmente nell’ordinamento giuridico italiano, poiché la Convenzione sarà ratificata solo dalla l. 20 marzo 2003, n. 77. Bisogna attendere quattro anni per un nuovo riferimen‑ to normativo alla mediazione familiare. La l. 5 aprile 2001, , n. 154 nell’introdurre “Misure contro la violenza nelle rela‑ zioni familiari”, prevede nell’art. 342‑ter c.c. che il giudice, adìto per l’emanazione di un ordine di protezione (anche nei giudizi di separazione e divorzio, ai sensi dell’art. 8 della stessa l. 154/2001), possa “altresì” disporre l’intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare. Si giun‑ ge così alla l. n. 54 del 2006, che, nel dettare la più ampia riforma del diritto di famiglia dopo quella del 19755, ha non solo introdotto un istituto assai noto, l’affidamento condiviso, ma anche creato un nuovo spazio per la mediazione famil‑ iare”. Sebbene, quindi, i riferimenti alla mediazione familiare siano oggi rari, la sua previsione in diversi disegni di legge e l’inidoneità degli strumenti imperativi della giurisdizione nella risoluzione dei conflitti familiari (incapaci di rimuovere le ragioni profonde che li hanno causati), fanno sperare, come evidenziato in dottrina6, in una sua più ampia applicazione. Nella cornice normativa descritta, particolare rilevanza assume la citata l. n. 54 del 2006. Il nuovo art. 155‑sexies c.c., sotto la rubrica “Poteri del giudice e ascolto del minore” pre‑ vede nel comma 2 che “qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e acquisito il loro consenso, può rinvia‑ re l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c. per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare rife‑ rimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”. Pur avendo il merito di avere per la prima volta posto in relazione diretta mediazione familiare e processo civile, la norma solleva non poche e non lievi perplessità, di seguito specificamente analizzate7. Con ogni probabilità, tali perplessità si spiegano col fatto che è latente nell’art. 155‑sexies c.c. una certa qual confusio‑ 5 Letteralmente Impagnatiello, op. cit., p. 525. 6 Così, Tommaseo, op cit., pp. 839 ss. 7 Tommaseo, op cit., pp. 839 ss. F O R E N S E luglio • A G O S T O ne tra mediazione familiare e conciliazione 8. La conciliazione, infatti, rappresenta un istituto ben noto al diritto processua‑ le civile, ma molto distante dalla mediazione familiare, con la quale non può e non deve essere confuso, essenzialmente per una ragione: nella conciliazione il terzo è, di regola, un’auto‑ rità che si trova in posizione di superiorità rispetto alle parti, proponendo una o più soluzioni che le parti stesse possono al massimo discutere, ma che alla fine possono solo accettare o rifiutare. Nella mediazione familiare, invece, il terzo mediatore dialoga con i contendenti in posizione di parità ed esaurisce il suo compito nell’aiutare le parti a riappropriarsi della capa‑ cità di dialogare e di dirimere da soli il conflitto (self‑empo‑ werment). Anzi, al di là delle variabili legate alle diverse im‑ postazioni teoriche, la specificità del fenomeno mediativo è proprio nella riappropriazione da parte dei coniugi della ca‑ pacità di essere protagonisti della soluzione del conflitto; ri‑ appropriazione che il mediatore può guidare, ma non può mai imporre né coartare. Sembra, peraltro, che il legislatore, più che favorire la mediazione quale nuova e più evoluta forma di gestione del conflitto, abbia voluto incrementare i poteri del giudice, fa‑ cendo ruotare la mediazione intorno a lui, come in un “siste‑ ma eliocentrico” reso palese dalla stessa rubrica dell’art. 155‑se‑ xies c.c. D’altra parte, la Corte costituzionale, nella più volte cita‑ ta sentenza 131/2010, ha osservato che l’art. 155‑sexies ha solo accennato all’attività di mediazione familiare, senza definirne contenuti, limiti e ambito oggettivo e, soprattutto, senza prevedere alcuno specifico profilo professionale dei soggetti chiamati a svolgerla, lacune rispetto alle quali, si tenterà di formulare delle proposte, in attesa di un auspicabi‑ le intervento chiarificatore del legislatore. Lacune, sia pure rilevanti, che non possono tuttavia ridur‑ re la portata di un dato: la mediazione familiare, quale feno‑ meno culturale, esprime certamente un percorso storico e un’evoluzione giuridica del nostro Paese, il quale, purtroppo, ha attraversato epoche e stagioni culturali in cui gli interessi ed i rapporti privati, almeno tendenzialmente, venivano affi‑ dati alla regolamentazione dello Stato, nella quale l’interesse pubblico era così dominante da operare il trasferimento del diritto matrimoniale e familiare dalla tradizionale apparte‑ nenza al diritto privato alla sfera del diritto pubblico. Una “dolorosa esperienza”, rispetto alla quale l’istituto della mediazione familiare si configura come il tentativo rea‑ le di restituire il diritto di famiglia al diritto privato, rivitaliz‑ zando l’autonomia dei singoli nel costante rispetto dei prin‑ cipi fondamentali dell’eguaglianza dei coniugi, della libertà dei singoli e del rispetto della personalità dei figli, principi rivestiti di dignità costituzionale e che rappresentano il limite all’esercizio della libertà dei privati. Gli sporadici riferimentialla mediazione familiareeviden‑ 8 Dal tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro privato e pubblico in funzione di prevenzione della lite (art. 410 c.p.c.; art. 65 d.Lgs.165/2001), a quello preventivo extraprocessuale affidato al giudice di pace (art. 322 c.p.c.), fino ai molteplici tentativi facoltativi di conciliazione endoprocessuali affidati al giudice (artt. 185, 350 e 420 c.p.c.) o a un suo ausiliario (art. 198 c.p.c.). La conciliazione è tuttavia un istituto. 2 0 1 3 29 ziati trovano spazio, quindi, nelle sole norme regolano la se‑ parazione giudizialee i delicati procedimenti repressivi degli . abusi familiari Pertanto, ad oggi, la mediazione familiare “cristallizzata” nel diritto è soltanto di tipo endoprocessuale, come attenta‑ mente sottolineato in dottrina. Del resto non vi è chi non veda come i risultati della me‑ diazione abbiano quasi sempre uno sbocco processuale, dando corpo, nel caso di esito positivo, agli accordi da fare oggetto di omologazione nella separazione consensuale o da far valere con la domanda congiunta di divorzio. Ancora, tali accordi possono essere dedotti anche nel corso della se‑ parazione giudiziale. Quindi, una mera mediazione disposta dal giudice sia pure con il consenso delle parti, in pendenza d’un giudizio di crisi coniugale, che si risolve in uno strumen‑ to di gestione giudiziale di crisi coniugali già approdate nelle aule di giustizia. 3. La mediazione familiare nelle “maglie” dell’art. 155 sexies c.c Quanto ai presupposti applicativi 9, il giudice può rimet‑ tere le parti dinnanzi ai mediatori quando: ne ravvisa l’opportunità; le parti sono state sentite; le parti hanno pr‑ estato il loro consenso. Il primo presupposto, è rappresentato dalla discreziona‑ lità valutativa – insindacabile – del giudice che, previa valu‑ tazione sommaria, reputa “opportuna” la mediazione. Op‑ portunità che non è il frutto di un’analisi delle possibili sorti della mediazione, ma dell’osservazione attenta del grado di conflittualità tra le parti. L’opportunità va quindi riferita al tentativo e alla sua incidenza positiva, e non all’accordo e alla sua possibilità di riuscita. Quanto al secondo presupposto, esso ha una duplice va‑ lenza. Solo mediante l’ascolto diretto delle parti il giudice può realmente operare quel giudizio di opportunità nei termini prospettati. Inoltre solo in questo modo la rimessione agli esperti è avvertita dalle parti stesse come frutto di una scelta in funzione della “famiglia” e non dei singoli coniugi. L’ultimo presupposto, ossia il consenso delle parti, invece, giustifica e rende produttivo il rinvio10. Può inviare alla me‑ diazione anche il g.i. Da qui una serie di condivisibili rilievi critici sollevati dalla dottrina: “La legge subordina l’avvio della mediazione a una valutazione di opportunità affidata al giudice, una valutazione che può essere compiuta sia dal presidente nella fase prodromica dei giudizi di separazione e di divorzio sia dal giudice istruttore senza incontrare preclusioni in ogni fase del processo di primo grado, ma anche per la prima vol‑ ta dal giudice d’appello. Una valutazione d’opportunità che non può prescindere da una valutazione sulla concreta utilità del tentativo, per evitare che l’iniziativa del giudice si risolva in un inutile aggravio dei costi e dei tempi del procedimento se non anche in un aumento del tasso di conflittualità tra le parti del confronto giudiziale. Il giudice può disporre la me‑ diazione solo quando le parti vi consentano, ma questo non significa che le parti abbiano il potere di influire sullo svolgi‑ mento del processo chiedendo, d’accordo, l’accesso alla me‑ 9In tali termini Spadaro, op. cit., p. 209. 10Sul punto cfr. anche Tommaseo, op. cit., pp. 831 ss. civile Gazzetta 30 D i r itto e p r o c e du r a diazione. Insomma il consenso è necessario, ma non sufficien‑ te in mancanza di una valutazione positiva da parte del giu‑ dice. Ne deriva, come ha statuito anche la giurisprudenza di legittimità, che il giudice può respingere la richiesta congiun‑ ta dei coniugi di accedere alla mediazione quando il processo subirebbe una inopportuna stasi: il che avverrebbe, ad esem‑ pio, quando vi sia urgenza a provvedere nell’interesse del minore. È opportuno ribadire quanto osservato da attenta dottrina: ‹‹il far dipendere l’accesso alla mediazione familiare dal consenso delle parti è una scelta già compiuta anche da importanti documenti internazionali. Così la Raccomanda‑ zione del Consiglio d’Europa, risalente al 1998, ribadisce che, in linea di principio, la mediazione non dovrebbe mai essere obbligatoria, ma conviene notare che subordinare l’intervento dei mediatori al consenso delle parti è una scelta giustificata da ragioni di opportunità e non anche da un’inderogabile necessità. Resta fermo, come ovvio, che i coniugi sono liberi d’intraprendere per conto proprio un percorso mediativo stragiudiziale salvo poi, se intendono coltivare il processo pendente, far valere in tale àmbito gli eventuali accordi o farli recepire in sede di revisione della sentenza di separazione o di divorzio››. Quanto all’ambito di applicazione deve ritenersi che il giudice abbia la possibilità d’invitare le parti ad accedere alla mediazione quando si tratta di decidere sull’affidamento dei figli minori non soltanto nei procedimenti di separazione giudiziale, ma anche nei procedimenti nei quali trovano ap‑ plicazione le norme in materia di separazione e questo non solo per l’esigenza di applicare quanto dispone l’art. 4, com‑ ma 2, l. n. 54/2006 , ma anche per effetto di un’interpretazio‑ ne “costituzionalmente orientata delle norme di legge”. L’art. 4 citato stabilisce che le nuove disposizioni introdotte dalla medesima legge in materia di separazione giudiziale «si applicano anche in caso di scioglimento o di nullità del ma‑ trimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati». È evidente pertanto il riferimento anche ai giudizi di divorzio. Superabile, inoltre, alla luce di un’inter‑ pretazione sistematica, l’apparente ostacolo legato al manca‑ to riferimento nell’art. 4 alla separazione consensuale. In entrambe le forme della separazione personale dei coniugi, infatti, gli obiettivi dell’intervento giudiziale sono sicuramen‑ te gli stessi, almeno per quanto riguarda la tutela del superio‑ re interesse dei minori: lo dice testualmente l’art. 155 c.c. Da qui la possibilità per il giudice, anche nel quadro della sepa‑ razione consensuale, di invitare le parti a rivedere le proprie determinazioni. Se c’è spazio per il tentativo di conciliazione positivamente previsto, perché dovrebbero esserci ostacoli ad un invito delle parti ad avvalersi degli strumenti di mediazio‑ ne? Si pensi soprattutto ai casi nei quali il giudice ritenga che non vi siano i presupposti per omologare gli accordi intercor‑ si fra i coniugi. Il tutto nonostante l’art. 158, comma 2, c.c., il quale si limita a prevedere che, in tal caso, i coniugi siano riconvocati affinché modifichino i loro accordi seguendo le indicazioni formulate dal giudice nell’interesse dei figli. Impensabile, alla luce di una interpretazione capace di giungere al “cuore” della norma senza soffermarsi solo sul suo “abito”, sarebbe ritenere che il giudice non possa anche invitare i coniugi ad avvalersi di esperti mediatori, al fine di indurli a regolare i propri rapporti in modo da garantire al minore il diritto riconosciutogli dall’art. 155 c.c., ossia di c i v il e Gazzetta F O R E N S E mantenere con i propri genitori un rapporto equilibrato e continuativo11. 4. Tipologie di mediazione familiare I rilievi espressi in ordine ai presupposti applicativi sono altresì il sintomo dell’assenza di una disciplina, capace di re‑ golare in modo sistematico la mediazione familiare e la figu‑ ra del mediatore familiare. Già si è accennato al fatto che in astratto vi sono differen‑ ti modelli di mediazione familiare, i quali si rifanno ad altret‑ tante scuole di pensiero. Si accennerà12 a due principali modelli: quello strutturato 11 Così l’attenta analisi di Tommaseo, op. cit., pp. 831 ss. 12 “Le variegate esperienze in tema di divorzio e di separazione hanno portato alla diffusione in materia di mediazione familiare di vari tipi di modelli quali: ‑ il modello "strutturato", ideato da Jim Coogler [fondatore della Family Me‑ diation Association, a metà anni '70 negli USA, e poi riformulato da La Grebe (1989)], considerato anche il pioniere della mediazione familiare nella sepa‑ razione e nel divorzio; questi, partendo da alcuni importanti presupposti – i) dalla considerazione per cui separazione e divorzio devono considerarsi una evoluzione "naturale" della vita matrimoniale essendo comuni ad un nu‑ mero sempre più elevato di persone, ii) dal fatto che le persone che affron‑ tano un'esperienza di separazione e divorzio non sono negoziatori esperti, iii) che anche in situazioni di forte sofferenza e tempesta emotiva le persone sono in grado di prendere decisioni razionali, iv) che individui e famiglie possono trarre vantaggio da soluzioni concordate piuttosto che da compro‑ messi raggiunti dopo un procedimento contenzioso – propone di definire tutte le aree di possibile disaccordo (affidamento dei figli, diritto di visita, assegno di mantenimento) stabilendo in modo specifico il percorso da com‑ piere. In tal modo si cerca di attuare una mediazione "globale" in quanto estesa a tutte le questioni derivanti dalla dissoluzione della famiglia. In questo modello è condizione basilare però la neutralità del mediatore, come anche la parità dei clienti; sono le parti a proporre le opzioni e le soluzioni e non il professionista. Il modello di mediazione strutturata prevede quattro fasi: i) la definizione del problema: ogni questione oggetto di disaccordo deve essere esplicitata e definita; ii) raccolta delle informazioni: il mediatore aiuta le parti a raccogliere ed estrinsecare tutte le informazioni relative ad uno speci‑ fico problema, inclusi sentimenti e preoccupazioni; iii) formulazione delle opzioni: le parti dovranno esplicitare varie opzioni, di cui verranno esaminate le varie conseguenze; iv) i coniugi dovranno scegliere la soluzione che sem‑ brerà la migliore possibile. Il mediatore, al termine di tale percorso, dovrà, quindi, predisporre un memorandum dell'accordo raggiunto, il quale ha carattere puramente informale, indicandone le motivazioni, e che rappre‑ senterà poi la base dell'accordo di separazione steso dal legale (preferibil‑ mente unico per entrambe le parti). ‑ Il modello di mediazione familiare di tipo "terapeutico", ideato nel 1978 da Irving (psicoterapeuta) e Benjamin (sociologo), focalizza l'attenzione sulla soluzione degli aspetti emotivo‑affettivi connessi alla vicenda separa‑ tiva; lavorando, inoltre, sulla preventiva ristrutturazione dei processi relazi‑ onali e sulla crisi del gruppo familiare. ‑ Il modello "negoziale" di John Haynes (psicologo – 1978), più diffuso negli Stati Uniti ed introdotto nei servizi sociali, utilizza le tecniche della negoziazione ragionata dove il mediatore ha il compito di restituire la capac‑ ità di contrattazione alle persone: si parla di processo di self‑empowerment che crea autocontrollo rispetto alla gestione di tutti gli aspetti connessi alla vicenda separativa. Il mediatore utilizza il problem solving per aiutare le parti ad individuare i loro veri interessi su cui basare la contrattazione, e il brainstorming per sviluppare la creatività e creare un clima di accettazione. ‑ Il modello basato sui bisogni evolutivi (Canevelli‑Lucardi) si caratterizza per la ricerca di un equilibrio tra aspetti pragmatici ed emotivi‑relazionali: superamento dell'evento critico e ridefinizione personale. Compresenza di obiettivi pragmatici (ricerca di accordi legati alla dimensione genitoriale o altri aspetti della separazione) e di obiettivi relazionali relativi all'evoluzione del rapporto tra gli ex partner. Vi è, quindi, una parzialità degli obiettivi rispetto alla gestione della separazione (mediazione parziale), con esclusione, per esempio, degli aspetti patrimoniali. ‑ Il modello "interdisciplinare" di mediazione familiare in cui collaborano insieme il clinico ed il giurista, cooperando al superamento delle differenti motivazioni di conflitto presentate dalla coppia (co‑mediazione). ‑ Il modello di mediazione "puro", sostenuto dalla studiosa francese Mi‑ chéle Guillaume‑Hoftung (presidente del Centre National de mediation), pone al centro della mediazione non le negoziazioni, ma la funzione maieu‑ tica del mediatore che deve portare le parti a scoprire la verità, gli errori, la soluzione che portano dentro di sé. F O R E N S E luglio • A G O S T O e quello definito di tipo terapeutico. Secondo il modello strut‑ turato l’ottica con cui si deve guardare alla separazione e al divorzio deve essere sostanzialmente positiva: essi costituis‑ cono un fenomeno sociale da collocare nel contesto della “normalità” della evoluzione della vita familiare, e sono con‑ cepiti come una fase o stadio del ciclo di vita di un numero sempre più rilevante di persone. È del resto un dato di comune esperienza il rilievo che le concezioni sociali e culturali della separazione e del divorzio hanno subìto una costante evoluz‑ ione nel tempo. Questo modello attua una mediazione definita di tipo “globale”, ossia estesa a tutte le questioni derivanti dalla dis‑ soluzione della famiglia e si differenzia da altri modelli che praticano una mediazione definita di tipo “parziale”, nell’ambito della quale si opera per ridurre l’antagonismo tra le parti esclusivamente in merito all’affidamento dei figli e alla disciplina del diritto di visita del genitore non affida‑ tario. Il mediatore, al fine di favorire l’instaurarsi di quel clima di fiducia reciproca che caratterizza l’intero processo di me‑ diazione familiare, chiarisce ai coniugi, fin dal primo incon‑ tro, di non rappresentare nessuno dei due dal punto di vista legale, né di poter offrire loro una consulenza legale, alla quale peraltro essi possono liberamente accedere in qualsiasi mo‑ mento. Nel clima di fiducia che si è instaurato, ognuno dei coni‑ ugi si assume l’impegno, sia di palesare apertamente e comple‑ tamente tutte le entrate e le uscite economiche familiari e personali, sia di mantenere confidenziali i contenuti delle discussioni avvenute nell’ambito del processo di mediazione familiare. Quando il processo di mediazione familiare – la cui du‑ rata è legata alle peculiarità del caso concreto – ha raggiunto lo scopo di aiutare i coniugi a negoziare le disposizioni da essi liberamente raggiunte e scelte, il mediatore predispone un memorandum dell’accordo, di carattere informale, conte‑ nente tutti i dettagli dell’intesa ed esplicitante le motivazioni al riguardo. L’accordo verrà poi sottoposto alla verifica di un legale, che si occuperà di dare una veste giuridica e di avviare l’iter giudiziario. Il modello di mediazione familiare di tipo terapeutico è adottato, invece, dagli specialisti con formazione clinica, e punta sulla preventiva ristrutturazione dei processi relaziona‑ li e sulla crisi del gruppo familiare. Alle persone che non hanno ancora elaborato adeguatamente la separazione ed il divorzio, a motivo della presenza di forti sentimenti di falli‑ mento e disistima di sé, questo modello offre prima di tutto un sostegno individualizzato che consente loro di attuare un cambiamento del modello di comportamento. Il negoziato vero e proprio viene così preceduto, come osservato da attenta dottrina, da una valutazione dello stato psicologico dei coniu‑ gi e da una fase di pre‑mediazione, nella quale si analizzano gli influssi negativi interni ed esterni al sistema coniugale e familiare, per ridurli al minimo e, se possibile, neutralizzarli. ‑ Il modello "pragmatico", proposto dall'inglese Lisa Parkinson, che intende la mediazione come una prassi operativa per rendere praticabili negoziazi‑ oni tra le parti, in cui le comunicazioni sono di bilanciamento tra quelle tecnico‑giuridiche e quelle di sostegno emotivo e consiglio”. In tali termini Capilli, Laselva, op. cit., pp. 85 ss. 2 0 1 3 31 Il conseguimento di questo primo obiettivo consente alla coppia di intraprendere con fiducia il negoziato vero e proprio, durante lo svolgimento del quale l’accento verrà comunque sempre posto sui risvolti emotivi, piuttosto che sul contenuto dell’accordo vero e proprio, come invece nel modello strut‑ turato. È inoltre previsto un periodo cosiddetto di “fol‑ low‑up” , della durata di circa sei mesi, durante il quale i coniugi valutano la praticabilità e la reale rispondenza ai propri bisogni dell’accordo raggiunto. Nella mediazione terapeutica inoltre, a differenza del modello strutturato, non vengono redatti accordi scritti, né al momento di intraprendere la mediazione, né al termine di essa. Dall’analisi dei principali modelli in astratto realizzabili emerge un dato comune a tutti: la richiesta che, durante il lavoro di mediazione familiare, sia sospeso il tempo giuridico, ovvero sia sospeso il procedimento giudiziario, ove già in‑ trapreso, così da consentire ai coniugi di partecipare alla mediazione nella consapevolezza di provare non solo ad azzer‑ are il passato, ma soprattutto a visualizzare spiragli per il tempo futuro. Altra classificazione distingue tra mediazione familiare obbligatoria e facoltativa. A riguardo non si può tralasciare di rilevare che in alcune esperienze straniere il ricorso alla mediazione familiare viene imposto obbligatoriamente ai coniugi in presenza di figli, soprattutto minori (così avviene ad es. nello stato della Cali‑ fornia ed in Australia)13. Sul punto, un’indagine comparatistica dimostra un dato, a nostro avviso, di grande rilevanza: la soluzione adottata nei vari Paesi è notevolmente influenzata dal tipo di strumenti di risoluzione dei conflitti e, soprattutto, dal tipo di processo negli stessi presente, tant’è che vi sono alcuni ordinamenti in cui la mediazione è utilizzata come strumento atto a favorire il dialogo tra i coniugi, per cui si caratterizza per la necessaria volontarietà delle parti (Francia), ed altri ordinamenti in cui, invece, risulta strettamente collegata al procedimento di se‑ parazione o divorzio, diventando obbligatoria ed assumendo quasi il carattere di condizione di procedibilità (Stati Uniti). In Inghilterra, poi, a seguito dell’istituzionalizzazione della mediazione familiare con il Chindren Law Act 1989, il Family Law Act del 1996 e l’Access to Justice Act del 1999, è stata incoraggiato il ricorso alla mediazione in via anticipata ri‑ spetto ai procedimenti giudiziari (si pensi anche alla previsio‑ ne dell’obbligo per ogni avvocato di informare i suoi clienti dell’esistenza e della fruibilità della mediazione diventando . così a far parte integrante del procedimento di divorzio) La mediazione può, quindi, essere in astratto: ‑ volontaria o facoltativa (per scelta delle parti o per invi‑ to del giudice); ‑ o obbligatoria (imposta dalla legge) Parte della dottrina parla, invece, di tre tipi di mediazio‑ ne: mediazione spontanea o mediazione per scelta delle parti; mediazione per decisione del giudice (dove per “decisione” non si intende un obbligo, ma un invito non vincolante); e mediazione per previsione di legge. Nella scelta di modelli di gestione e conduzione della 13 Così testualmente Dainesi, op. cit., p. 89. civile Gazzetta 32 D i r itto e p r o c e du r a mediazione familiare analizzati, fermi i pochi riferimenti normativi ad oggi esistenti, in Italia il dibattito è ancora aperto. Sul piano del metodo, preferibile appare, a nostro avviso, alla luce di una serie di condivisibili argomentazioni eviden‑ ziate da attenta dottrina, un modello di co‑mediazione inter‑ disciplinare di tipo globale. Già molto diffusa all’estero (Francia, Inghilterra, ecc.), è un modello che si applica alla mediazione di tipo globale, che pertanto tratta sia le questioni educativa e relazionali, sia la parte economica‑patrimoniale oltre agli aspetti emotivo‑af‑ fettivi e simbolici. La coppia che si avvale della co‑mediazione familiare, troverà i seguenti vantaggi: a) possibilità di usufruire di com‑ petenze professionali diverse, specifiche e differenziate; b) opportunità di ricevere più informazioni in modo oggettivo e non di parte; c) possibilità di considerare le interconnessioni tra i diversi aspetti della separazione nel medesimo contesto; d) possibilità di beneficiare di più tecniche e strategie di intervento;e) contemporaneità di due stili di conduzione: le‑ gale (più direttivo, pragmatico, sintetico), e psicologico (più facilitativo, di ascolto e accogliente);f) assenza di rischio di negoziare fuori dalla cornice normativa (assenza di schiera‑ mento); g) maggior completezza del memorandum d’intesa; h) maggior opportunità di rendere più disteso un clima di forte tensione; i) nuove modalità di comunicazione osservan‑ do il modo in cui i due mediatori si consultano (atteggiamen‑ to orientato al confronto, all’alternanza, al rispetto). Requisiti idonei ad offrire alla coppia un servizio comple‑ to e di qualità, che permette di vedere integrati ed accolti, nell’ambito del medesimo processo di mediazione, i differen‑ ti bisogni di tipo emotivo/relazionale, economico‑patrimonia‑ le ed educativo14. Altri argomenti giocano, a nostro avviso, a sostegno della tesi della volontarietà o facoltatività della mediazione e cor‑ rispondono a quelli già prospettati in altra sede per la media‑ zione civile e commerciale. Ininfluente, a nostro avviso, sul punto la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 6 di‑ cembre 2012, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1 del Dlgs. n. 28 del 2010 (Disciplina della mediazione per la risoluzione delle contro‑ versie civili e commerciali) nonché, in via consequenziale, dei periodi e dei comma delle altre disposizioni del decreto, che esplicitamente richiamano o presuppongono quanto disposto dal suddetto comma 1. La decisione ha sancito la illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., del carattere di obbliga‑ torietà della mediazione (per le materie elencate) nonché della funzione di condizione di procedibilità del preventivo esperimento della procedura (di mediazione) per la definizio‑ ne giudiziale delle relative controversie, rilevando un vizio formale consistente nell’eccesso di delega, in relazione a quan‑ to disposto nell’art. 60 (Delega al Governo in materia di mediazione e di conciliazione nelle controversie civili e com‑ merciali) della l. n. 69 del 2009 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in 14 Così letteralmente Capilli, Laselva, Mediazione familiare e progetti di riforma, in Famiglia e diritto, 2006, 1, p. 85. c i v il e Gazzetta F O R E N S E materia di processo civile). Tale sentenza giunge all’esito di un unico giudizio che riunisce, in considerazione della identi‑ cità delle questioni prospettate e della stretta connessione delle stesse, i giudizi relativi a ben sette questioni di legittimi‑ tà, sollevate nell’arco temporale di nove mesi (aprile 2011/ gennaio 2012) ed insistenti tutte sul profilo della obbligato‑ rietà della procedura di mediazione e sui criteri di selezione degli organismi demandati allo svolgimento della stessa. La Corte Costituzionale giunge a qualificare la normativa dell’Unione come una disciplina neutrale , che non si pone in contrasto con eventuali modalità di mediazione obbligatoria, ma al contempo non indica né suggerisce tali modalità, rimet‑ tendo agli Stati membri la scelta che, in ogni caso, non deve costituire una limitazione del diritto di accesso alla giustizia da parte dei singoli: “dai richiamati atti dell’Unione europea non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fer‑ mo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenu‑ to idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale convenien‑ te e rapida nelle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato (“può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizio‑ nale o prescritto dal diritto di uno Stato membro”, ai sensi della lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008) ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impre‑ giudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5 comma 2 della direttiva cita‑ ta)”. Dal testo della sentenza emerge chiaramente come le cen‑ sure di illegittimità costituzionale insistano sul profilo del vizio formale (l’eccesso di delega), senza addentrarsi in valu‑ tazioni sull’istituto o sull’articolazione data dal d.lgs. n. 28 del 2010: ne deriva che un nuovo intervento legislativo ben potrebbe proporre una nuova modalità di mediazione obbli‑ gatoria nei confronti della quale la normativa comunitaria, interpretata come “neutrale”, non potrebbe porsi come fonte, ma di certo neanche come ostacolo. Il problema vero della obbligatorietà è, a nostro avviso, rappresentato dai costi della mediazione e dal fatto che gli stessi finiscano per pesare sul comune cittadino, costituendo un ulteriore aggravio per lo stesso e inducendolo a desistere dalla legittima ricerca di tutela dei propri diritti. Un vulnus evidente se confrontato con la ratio dell’istituto. Allo stesso modo bisogna prendere atto delle perplessità cristallizzate nel seguenti domande: in quanti, oggi, nell’attuale contesto so‑ ciale ed economico, usufruirebbero volontariamente della mediazione, sia essa civile o familiare? Come convincere i cittadini in tempi rapidi, alla luce dei tanti problemi che af‑ fliggono il sistema giudiziario, a sposare i valori della “cultu‑ ra della mediazione”, sopportando nel contempo i relativi costi? La società italiana è pronta ed in grado di scegliere da sola, per maturità e condizioni economiche, la strada della mediazione familiare o civile? Il facoltatività e la obbligatorietà della mediazione non devono essere intese, come purtroppo è stato fatto, come simboli rappresentativi di fazioni in contrapposizione, am‑ mantati in veli giuridici che nascondono meri interessi di parte. Solo squarciando questo “velo” è possibile, infatti, F O R E N S E luglio • A G O S T O immaginare di costruire un sistema di mediazione capace di fotografare le reali esigenze dei cittadini e gli enormi problemi che gravano sul nostro sistema giudiziario, individuando un modello capace di cristallizzare, mediante un mix di obbliga‑ torietà non generalizzata ed incentivi economici per la media‑ zione facoltativa, un “giusto bilanciamento di tali interessi”. Quali incentivi vi sono oggi per la mediazione familia‑ re? I costi della mediazione familiare sono prevalentemente posti a carico delle parti secondo le regole ordinarie che di‑ sciplinano la liquidazione dei compensi agli ausiliari. Diverso sarebbe se la mediazione fosse sempre offerta da un servizio pubblico affidato ad appositi “sportelli di media‑ zione” aperti presso enti pubblici territoriali o anche all’inter‑ no dei palazzi di giustizia grazie a protocolli elaborati d’inte‑ sa fra gli ordini professionali, gli enti locali e i capi degli uf‑ fici giudiziari. Tale soluzione non solo coinvolgerebbe i principali prota‑ gonisti della vicenda processuale creando le condizioni per una maggiore condivisione dei valori della mediazione, ma permetterebbe a tutte le parti, al di là degli steccati sociali, perché “libere dal bisogno”, di scegliere consapevolmente la strada della mediazione. Un incentivo da cristallizzare neces‑ sariamente in una disciplina che regoli finalmente, in modo sistematico e chiaro, e non mediante sporadici riferimenti, la mediazione familiare, chiarendone contenuti, forme e scopi. 2 0 1 3 33 5. Il mediatore familiare: uno “statuto” da definire L’assenza di una disciplina sistematica della mediazione familiare si riflette negativamente anche nella possibilità concreta di ricostruire in modo unitario la figura del media‑ tore familiare. 15 È dibattuta , sin dall’entrata in vigore della riforma, la natura giuridica dei “mediatori”, tradizionalmente intesi e considerati, dagli operatori del settore, alla stregua di profes‑ sionisti aventi una funzione compositiva della lite (e non va‑ lutativa). Le associazioni di settore, al riguardo, hanno sollecitato gli operatori giuridici verso una interpretazione che li quali‑ fichi in termini di nuova figura processuale, extraprocessuale, recisa dalla veste tipica del consulente tecnico ovvero dell’au‑ siliario al fine di garantire la loro naturale fisiologia, caratte‑ rizzata da complementarietà ed autonomia del percorso di mediazione. Le ragioni addotte a sostegno della tesi – da parte delle associazioni citate – non sono certo censurabili e muovono dal presupposto che vada garantita una corretta funzione nell’ambito della mediazione. Ciò nonostante, il giudice giammai potrebbe allontanarsi in via di interpretazione dal dato normativo fino a “rompere” la tenuta della disposizione essendo, questi, soggetto alla legge a garanzia del principio di legalità. Ciò vuol dire che l’interpretazione da adottare non può prescindere dall’art. 155‑sexies c.c. che, come è stato pur autorevolmente affermato, non è stato talmente “audace” da recepire – in toto – l’istituto della mediazione quale nuovo ed autonomo sistema di A.D.R. Orbene la disposizione succitata prevede che “qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c. per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accor‑ do, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse mo‑ rale e materiale dei figli”. Il dato normativo è chiaro. In primo luogo il codice parla di esperti e non di media‑ tori così avendo voluto ricondurre la figura a quelle già esi‑ stenti senza creazione ex novo di una nuova professionalità (ovviamente ai fini processuali e limitatamente al processo). Ed infatti la mediazione non emerge come “soggetto” (i me‑ diatori tentano una composizione) ma come oggetto (gli esperti tentano una mediazione). Inoltre, la mediazione è configurata come strumento per raggiungere un accordo che non può non essere che quello di separazione o divorzio ovvero di ripresa della convivenza, che rappresenta (pur alla presenza della mediazione) un negozio di diritto familiare. La dottrina, peraltro, ha rilevato tutte le difficoltà interpretative del nuovo istituto non disdegnando l’orientamento che qualifica i “mediatori” (gli esperti) come ausiliari del Giudice. E, infatti, dal dato normativo – invero alquanto scar‑ no – emerge che la figura deputata a “mediare” tra i coniugi è dotata di particolari competenze professionali ed assume, di fatto, la qualità di ausiliario del giudice. Diversi i referenti ermeneutici di siffatta conclusione. 1) La disposizione ex art. 155‑sexies c.c. è rubricata “poteri del giudice ed ascolto del minore”: la scelta discrezionale di far ricorso alla mediazione va inscritta, pertanto, nel novero dei “nuovi poteri” del giudicante e un simile inqua‑ dramento sistematico richiama immediatamente la facol‑ tà (rectius: potere) di ricorrere all’assistenza di organi d’ausilio. Si tratta, cioè, di uno di quei “casi previsti dalla legge” in cui “il giudice … si può fare assistere da esperti in una determinata arte o professione e, in generale, da persona idonea al compimento di atti che non è in grado di compiere da sé solo” (art. 68 c.p.c., rubricato, per l’ap‑ punto, “altri ausiliari”). 2)Il dato letterale depone nel senso di uno stretto rapporto tra esperti e giudice, potendosi reputare che i primi agi‑ scano come una vera e propria longa manus del giudi‑ cante: ed, infatti, la disposizione adotta il verbo “avva‑ lendosi”. Ed, invero, siffatta interpretazione consente l’applicabilità dell’art. 52 delle disposizioni di attuazione del c.p.c., ai fini della giusta copertura finanziaria dell’eventuale mediazione svolta, se non altrimenti stabilito (il compenso agli ausiliari di cui all’art. 68 del codice è liquidato con decreto dal giudice che li ha nominati o dal capo dell’ufficio giudiziario al quale appartiene il cancelliere o l’ufficiale giudiziario che li ha chia‑ mati, tenuto conto dell’attività svolta). Peraltro, le paure esternate da chi critica16 siffatto orien‑ tamento non sono condivisibili. Si eccepisce, cioè, che così facendo, il destinatario dell’at‑ tività dell’ausiliario sarebbe il giudice e non le parti; si teme, anche, una lesione del principio di autonomia del mediatore. 15 Così Spadaro, op. cit., p. 209. 16In particolare le principali associazioni di mediatori familiari. civile Gazzetta 34 D i r itto e p r o c e du r a Quanto al primo profilo, in verità, si trascura di conside‑ rare che i coniugi sono i beneficiari dell’attività, al di là di colui dinnanzi al quale si debba rispondere per la stessa; quando al secondo profilo, si trascurano le concrete modalità operative di mediazione che – al di là del nomen juris ‑ sono quelle scelte dagli esperti in piena autonomia. La legge prescrive che la mediazione familiare deve essere affidata a “esperti” e quindi a professionisti individuati dal giudice a norma dell’art. 68 c.p.c. e che, con tale designazio‑ ne, divengono tecnicamente degli “ausiliari” la cui funzione è di compiere quelle attività che il giudice “non è in grado di compiere da sé solo” . In questo contesto normativo, il giudice non può deman‑ dare alle parti di scegliersi liberamente il mediatore ma è lui stesso che lo designa con una decisione che la prassi consente sia sostanzialmente influenzata dalle proposte provenienti delle parti per l’assorbente ragione che l’efficacia dell’attività del mediatore potrebbe essere compromessa dalla mancanza di un rapporto fiduciario con le parti in conflitto e dalla sua dipendenza dal giudice. Conviene peraltro notare che la fun‑ zione indubbiamente atipica di questo ausiliario ne attenua sensibilmente la dipendenza dal giudice: infatti l’attività del mediatore non è strumentale alla formazione del convinci‑ mento del giudice poiché egli ha soltanto il còmpito, da svol‑ gere in modo neutrale e in autonomia rispetto al giudicante, di influire sulla volontà dei coniugi per indurli a ripristinare un livello di comunicazione che consenta di dare all’assetto dei loro rapporti endofamiliari un fondamento negoziale. Infatti il mediatore, quale ausiliare designato a norma dell’art. 68, ha soltanto l’obbligo di riferire al giudice l’esau‑ rimento del proprio compito e di informarlo se la mediazione è riuscita o no. Per il rimanente, è pacifico che debba osserva‑ re scrupolosamente un dovere di riservatezza che gli impedisce di portare a conoscenza del giudice quanto è avvenuto nel corso della mediazione per evitare che il giudice possa desu‑ mere dal comportamento delle parti davanti al mediatore argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c. Non vi è traccia nella legge dell’esistenza di questo dovere di riservatezza, ma si tratta di un dovere coerente con la na‑ tura delle funzioni attribuite al mediatore: ne è riprova, la specifica disciplina del dovere di riservatezza che grava sul mediatore delle controversie civili e commerciali dov’è espres‑ samente specificato che «le dichiarazioni e le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non pos‑ sono essere dal giudice salvo il consenso della parte interes‑ sata» (art. 10 DLgs. n. 28 del 2010). 6. Considerazioni conclusive. In attesa di un intervento del legislatore che cristallizzi gli orientamenti espressi dalla dottrina e dalla giurisprudenza, dobbiamo necessariamente attenerci alla scarna disciplina riferibile alla mediazione familiare pervenendo alle seguenti conclusioni. a)Non esiste alcuna disposizione di legge che in modo espresso incoraggi né tanto meno imponga la mediazione familiare preventiva. Pertanto la sola forma di mediazione familiare degna di considerazione positiva risulta quella endoprocessuale, anch’essa peraltro affidata alla buona volontà dei Presidenti di Tribunale e dei giudici istruttori. In entrambi i casi (mediazione stragiudiziale ed endopro‑ c i v il e Gazzetta F O R E N S E cessuale), ferma la mera natura volontaria della mediazio‑ ne, regna purtroppo la prassi, laddove le esigenze prospet‑ tate richiederebbero un’univoca soluzione normativa. Preferibile, come già evidenziato, sarebbe l’adozione del modello di mediazione interdisciplinare sia nel quadro della mediazione stragiudiziale sia in quello della media‑ zione endoprocessuale di cui all’art. 155 sexies c.c., appli‑ cabile a nostro avviso, come già ampiamente sottolineato: a tutte le problematiche inerenti i conflitti tra coniugi; nella separazione giudiziale, ma anche nel giudizio di di‑ vorzio e laddove non vi sono figli. Non significa forzare il testo normativo, come corretta‑ mente osservato in dottrina, ritenere che il giudice ben possa utilizzare gli strumenti della mediazione per con‑ sentire alle parti di avvalersi, anche sul terreno del con‑ fronto giudiziale, di tutte le funzioni che la mediazione familiare è chiamata ad assolvere in sede stragiudiziale senza limitarla esclusivamente a risolvere le controversie in materia di affidamento”. Si tratta quindi di tentare la via della mediazione non tanto per raggiungere il difficile obiettivo della riconciliazione dei coniugi ma soprattutto per favorire il transito a forme consensuali di gestione della crisi coniugale anche allo scopo d’addivenire alla separazione consensuale o a un divorzio su domanda congiunta. In questo modo, la mediazione può investire tutti i fattori che concorrono a creare il conflitto della coppia e quindi non soltanto le questioni riguardanti l’affidamento dei figli ma anche quelle riguardanti i rapporti economici: a questo proposito, è significativo notare come il testo del progettato art. 706 bis, attualmente all’esame del Senato, preveda espressamente che «gli aspetti economici della separazione possono far parte degli accordi raggiunti fra i coniugi concordati in un centro pubblico o privato di mediazione familiare». La mediazione familiare ha lo scopo d’attuare forme consensuali di gestione di tutti gli aspetti della crisi coniu‑ gale ed è opportuno ricordare come la legge faccia espres‑ so, per quanto occasionale, riferimento al transito dalla separazione giudiziale a quella consensuale: si tratta d’un transito che certamente può essere incoraggiato dal presi‑ dente del tribunale nella fase prodromica ma anche, e con maggior efficacia, favorito dagli accordi raggiunti dai coniugi all’esito di una mediazione positivamente conclu‑ sasi”. b) La professione di mediatore familiare è ancora in un limbo, a differenza di quanto avviene per i mediatori ci‑ vili e commerciali grazie a quanto dispone la disciplina del DLgs. n. 28 del 2010, come modificata dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69convertito con L. 9 agosto 2013, n. 98. La professionalità degli esperti mediatori familiari non trova ancora una specifica disciplina legislativa e, in par‑ ticolare, trattandosi di “professioni” occorre attendere l’esercizio della potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni. Come vuole l’art. 117 Cost. le Regioni non possono legiferare in via esclusiva su tale materia, e a ra‑ gione la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato l’illegittimità di una legge della Regione Lazio che dettava una rigorosa disciplina dell’esercizio della professione di F O R E N S E luglio • A G O S T O mediatore familiare con il prevedere anche l’istituzione di un apposito albo. Una decisione questa fondata su ragioni tecniche difficil‑ mente contestabili ma, come giustamente è stato notato in dottrina, una decisione che ha contribuito a mantenere nel limbo della marginalità una figura professionale a cui la leg‑ ge attribuisce, sia pure in modo parsimonioso, funzioni assai delicate: una figura opaca e maldefinita quella del mediatore familiare e questa situazione di precaria incertezza è tanto più evidente se la si confronta con quella del mediatore civile e commerciale. Ad oggi, sul piano della formazione17, un ruolo impor‑ tante è svolto di fatto dalle sole principali associazioni di mediatori familiari. Non mancano, tuttavia, iniziative simili anche presso Università ed enti di ricerca. Il tutto è lasciato però alla discrezionalità di tali soggetti, che tentano di tras‑ mettere ai mediatori familiari tutte quelle nozioni di psicolo‑ gia, sociologia e diritto necessarie nelle mediazioni familiari che saranno chiamati a guidare. Discrezionalità, i cui risvolti negativi sono già stati ampiamente analizzati, che non con‑ tribuiscono di certo alla diffusione, nell’opinione pubblica, di quel senso di fiducia nei mediatori necessario per affrontare con serietà e collaborazione un percorso di mediazione. Lo stesso dicasi per i doveri imparzialità, riservatezza e terzietà, affidati, almeno nel quadro della mediazione preven‑ tiva‑stragiudiaziale a meri codici deontologici adottati dalle principali associazioni di mediatori familiari18. Diverso discorso nell’ambito della mediazione familiare endoprocessuale, laddove la qualifica, sostenuta dalla dottri‑ na e dalla giurisprudenza prevalente, dei mediatori quali au‑ siliari del giudice, sia pure atipici, impone loro una serie di doveri. “Infatti il mediatore, quale ausiliare designato a norma dell’art. 68, ha l’obbligo di riferire al giudice l’esaurimento del proprio compito e di informarlo se la mediazione è riuscita o no. Per il rimanente, è pacifico che debba osservare scrupolo‑ 17Sul punto Impagnatiello, op. cit., pp 525 s.s. osserva quanto segue: ‹‹Come si è visto, l'art. art. 1 del Dlgs. n. 28 del 2010 definisce non solo la mediazione, ma anche la figura del mediatore. Il successivo d.m. n. 180 del 2011, nel dare attuazione al decreto legislativo, ha previsto i requisiti dei quali il mediatore deve essere in possesso ai fini dell'accreditamento presso il Ministero della Giustizia. In particolare, l'art. 4, comma 3, del d.m. stabilisce che il mediatore deve possedere, oltre ai consueti requisiti di onorabilità (non avere riportato condanne definitive per delitti non colposi o a pena detentiva non sospesa, non essere incorso nell'interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici etc.): a) un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, l'iscrizione a un ordine o collegio professionale; b) una specifica formazione e uno specifico aggiornamento almeno biennale. Orbene, non si può fare a meno di constatare che i percorsi formativi testé descritti sono diversi e, si licet, meno rigorosi rispetto a quelli che le associazioni di settore reputano necessari per l'acquisizione della qualifica di mediatore familiare. Per esempio, l'art. 12 del Regolamento interno dell'A.I.Me.F. stabilisce, fra l'altro, che i corsi devono avere una durata non inferiore a dodici mesi e un numero di ore complessivo non inferiore a duecentoventi; il numero delle ore sulla medi‑ azione familiare, fra teoria ed esercitazioni, non deve essere inferiore a cen‑ toventi e il numero delle ore di stage a quaranta; il direttore didattico del corso deve essere un mediatore familiare A.I.Me.F. o appartenente ad altre associazi‑ oni di mediatori familiari riconosciute; l'esame finale, al quale possono accedere solo gli iscritti al corso accreditato e con almeno l'80% della frequenza effet‑ tiva delle lezioni e degli stages, deve svolgersi alla presenza di un osservatore A.I.Me.F. ed essere articolato in una tesi e in un esame scritto e pratico con attribuze di un giudizio complessivo››. 18Tutte le principali associazioni tra mediatori, come l'A.I.Me.F., la S.I.Me.F. o l'A.I.M.S., si sono dotati di codici deontologici al cui rispetto è riconnessa grande importanza. 2 0 1 3 35 samente un dovere di riservatezza che gli impedisce di porta‑ re a conoscenza del giudice quanto è avvenuto nel corso della mediazione per evitare che il giudice possa desumere dal comportamento delle parti davanti al mediatore argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c. Non vi è traccia nella legge dell’esistenza di questo dovere di riservatezza, ma si tratta di un dovere coerente con la na‑ tura delle funzioni attribuite al mediatore: ne è riprova, la specifica disciplina del dovere di riservatezza che grava sul mediatore delle controversie civili e commerciali (. 10, d.lgs. n. 28/2010)”. Naturalmente i “metodi e le modalità di inter‑ vento dei centri ovviamente dovranno rimanere del tutto au‑ tonomi, ed incondizionati, espressione della professionalità dei singoli operatori e di tutta l’equipe. È indubbio, che, se‑ condo i casi, un intervento propositivo (e non solo limitato a rimediare il contrasto tra le parti) potrebbe rivelarsi assai utile. Si è detto della disputa tra privato e pubblico anche nella mediazione familiare. Tuttavia, ai centri e alle istituzioni private, convenzionate o meno, cui si devono i primi interven‑ ti di mediazione familiare nel nostro paese, potrebbero, in prospettiva, affiancarsi non i servizi dell’ente locale, ma spe‑ ciali uffici nell’ambito dei servizi, di elevata professionalità, con personale stabile e non itinerante, con strutture agili e non burocratizzate, e con compiti limitati agli interventi so‑ praindicati. Del resto la l. 29 luglio 1975, n. 405 sui consul‑ tori familiari aveva come scopo precipuo proprio “l’assistenza psicologica e sociale per i problemi della coppia e della fami‑ glia, anche in ordine alle problematiche minorili. Stante la delicatezza delle funzioni da assolvere, è proprio sull’elevata professionalità, nel settore privato come di quello pubblico, che si dovrebbe insistere: equipe socio‑sanitaria composta da medici, psicologi, assistenti sociali, integrata, in taluni casi, da un esperto di diritto o da un commercialista. È interesse di tutti (e in ciò il consenso dovrebbe essere unanime) che i coniugi riprendano un colloquio, ricostituiscano un rapporto, soprattutto quando vi siano figli minori e che comunque giungano all’udienza presidenziale privi di quell’animosità che troppo spesso caratterizza il processo o comunque possano superare e comporre le fasi di più acuta conflittualità in corso di causa. Tale auspicio è la più evidente riprova della profon‑ da utilità dell’intervento del mediatore familiare19”. c) In mancanza di specifici indici interpretativi di segno contrario, dobbiamo ritenere irrilevante, ai fini della valuta‑ zione del grado di vincolatività ed efficacia degli accordi tra coniugi, il fatto che gli stessi siano stipulati al termine di un percorso di mediazione, in presenza del mediatore, piuttosto che a seguito di una più usuale negoziazione tra le parti e i loro avvocati, od ancora per mero accordo dei coniugi, privi di assistenza ed ausilio di sorta. Ne consegue che l’espressione «accordi di mediazione» non potrà che intendersi, nel caso di specie, come «accordi di separazione», posto che il richiamo alla mediazione costitui‑ sce un mero riferimento spazio‑temporale che non influisce sul grado di efficacia degli accordi: efficacia che, evidente‑ mente, deriva dalla natura negoziale degli accordi, e non di‑ pende dal luogo e dalle modalità di stipulazione degli stessi. 19 Così Dogliotti, op. cit., p. 76. civile Gazzetta 36 D i r itto e p r o c e du r a Accordo, secondo i casi, di separazione consensuale, di divor‑ zio congiunto, di modifica consensuale delle condizioni di separazione o di divorzio, ma anche accordo fra conviventi, accordo di separazione di fatto, e magari anche accordo pre‑ matrimoniale. A tal fine, al di là delle diverse modalità di conduzione e dei temi trattati, è importante, come sottolineato da attenta dottrina “che venga compresa la differenza tra un accordo temporaneo (che fa parte del processo di negoziazione e che permette la verifica della fattibilità della scelta e della soddi‑ sfazione dei bisogni), il progetto d’intesa (che rappresenta la volontà condivisa dalla coppia durante il processo di media‑ zione) e i veri e propri accordi di separazione consensuale. Le parti sono incoraggiate a discutere con i loro avvocati le so‑ luzioni riportate nel progetto d’intesa: esso riporta gli accordi raggiunti in mediazione, sui quali può essere necessaria una consulenza legale prima di stipulare gli accordi che saranno oggetto del ricorso di separazione consensuale e, successiva‑ mente, verranno sottoscritti nel verbale di separazione sotto‑ posto all’omologazione del Tribunale competente. Si consideri, peraltro, che anche una mediazione dalla quale scaturisca solo un accordo parziale, o addirittura dalla quale non emerga alcun accordo, non è affatto una mediazio‑ ne fallita, in quanto il tempo dedicato al processo di media‑ zione costituisce un vero e proprio «investimento» in termini relazionali. Abbiamo già visto che uno dei principali obiettivi del percorso di mediazione familiare è, oltre alla ricerca di solu‑ zioni condivise, quello di tentare di ritrovare una modalità relazionale e comunicativa costruttiva. Anche nel caso in cui non si raggiunga l’accordo, il mediatore e la coppia possono rilevare un nuovo stile di comunicazione verbale e non ver‑ bale, anche nel litigare Gli accordi assunti ad esito del percorso di mediazione non sono frutto di un compromesso, ovvero di una transazione, che vede entrambi rinunciare a parte delle proprie pretese, ma il risultato di un cambiamento relazionale dei due protagoni‑ sti, che può avvenire solo grazie ai tempi, agli strumenti e alle tecniche della mediazione familiare. Se prescindiamo dai problemi di prova (attesa anche la probabile incapacità a testimoniare del mediatore), anche i patti stipulati verbalmente saranno in linea di principio mu‑ niti della medesima efficacia, posto che gli accordi di separa‑ zione non si devono ritenere soggetti ad alcun obbligo di forma. Piuttosto, conviene ricordare che gli accordi di separazio‑ ne raggiunti ad esito del percorso di mediazione, alla stregua di quelli stipulati in altro contesto, hanno un’efficacia comun‑ que limitata ai rapporti fra le parti, e non li vincolano più di un accordo di separazione di fatto: infatti, a norma de‑ gli artt. 158 c.c. e 711 c.p.c., gli accordi di separazione pos‑ sono produrre gli effetti tipici della separazione legale solo a seguito dell’omologazione20. 20Più specificamente, si considerino le seguenti ipotesi: a) l'accordo di separazione non viene trasfuso in alcun ricorso di separazione consensuale; b) l'accordo di separazione viene trasfuso in un ricorso di separazione consensuale ma – prima dell'udienza – uno dei coniugi revoca il consenso prestato, o co‑ munque non si presenta all'udienza, oppure, all'udienza stessa, si rifiuta di c i v il e Gazzetta F O R E N S E Dall’analisi compiuta emergono le “luci” e con esse le “ombre” della mediazione familiare, ad oggi “agganciata” ad una normativa chiaramente scarna e bisognosa, a nostro av‑ viso, di una interpretazione capace di “sciogliere”, in attesa di un più ampio intervento del legislatore, i diversi “nodi” di carattere sostanziale e procedurale. Sebbene l’esigenza che ne è alla base appaia ormai intuiti‑ vamente condivisa dalla generalità dei cittadini, lo stesso significato dell’espressione “mediazione familiare” appare avvolta in una “nebbiosa” incertezza. Le cause appaiono riconducibili alla eterogeneità degli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza emersi in ordine ad aspetti chiave della mediazione familiare: l’oggetto; le sue peculiarità rispetto ad altri tipi di intervento; la profes‑ sionalità richiesta al mediatore; i percorsi formativi necessari; il rapporto con il processo; la possibile qualifica come ausil‑ iario del giudice; la garanzia di tutela della riservatezza. Problemi “tecnici” risolvibili con un intervento del legis‑ latore, capace di incidere con coerenza, regolando in modo uniforme: la mediazione, sia essa stragiudiziale o endoproces‑ suale; la figura del mediatore familiare, prevedendo requisiti di professionalità, terzietà e imparzialità; le modalità di ac‑ cesso; le categorie di professionisti ammessi. Sui versanti del procedimento, dei doveri del mediatore familiare, nonché della formazione e delle modalità di ac‑ cesso, di grande aiuto, quale modello, potrebbe risultare la disciplina dettata per i mediatori civili e commerciali, natu‑ ralmente con i necessari accorgimenti legati alle peculiarità della mediazione familiare. Quanto all’individuazione delle categorie ammesse, invece, preferibile sarebbe prevedere l’accesso non solo per psicologi, ma anche per professionisti di diversa estrazione culturale, a cominciare dai cultori delle discipline giuridiche ed economiche, in modo da rispondere a pieno alle complesse esigenze sottese ad un modello di me‑ diazione familiare interdisciplinare, l’unico, a nostro avviso, capace di dare risposte articolate e complete, sia nel quadro delle mediazioni stragiudiziali sia in quelle endoprocessuali, alle diverse problematiche celate nella eterogeneità delle cause dei conflitti familiari. Tale intervento è evidentemente ineludibile, ma risulta nel contempo insufficiente nella misura in cui la novella non costituisca espressione di una nuova forma mentis, ma solo l’ “espediente tecnico” per risolvere problemi pratici. L’affermazione piena della mediazione familiare passa neces‑ sariamente anche attraverso riforme strutturali del nostro sistema processuale, costruite alla luce di una “nuova idea di giurisdizione”, nella cui cornice ridisegnare i ruoli e i profili di magistrati e avvocati. In passato 21 piuttosto che incoraggiare una separazione senza conflitti, il legislatore guardava con profonda diffi‑ sottoscrivere il verbale di separazione; c) l'accordo di separazione viene trasfuso in un ricorso di separazione consensuale e all'udienza i coniugi sottoscrivono il verbale di separazione ma – prima dell'omologazione – uno dei coniugi revoca il consenso prestato; d) l'accordo di separazione, trasfuso nel ricorso di separazione consensuale, non viene omologato perché il Tribunale rifiuta di provvedervi (cfr. art. 158, co., c.c.). 21Sul punto cfr. Impagnatiello, op. cit., 525 ss. “In primo luogo, esiste un problema culturale, che scaturisce dal fatto che il nostro processo civile è in‑ trinsecamente contenzioso”. Gazzetta F O R E N S E luglio • A G O S T O 2 0 1 3 37 civile denza alla separazione tout court; e la funzione del tentativo di conciliazione era esclusivamente quella di scongiurare la rottura della convivenza tra i coniugi. Se proprio ci si doveva separare, meglio era – secondo la logica del tempo – una separazione giudiziale (allora soltanto per colpa) dove sarebbe stato precisamente individuato il responsabile del fallimento matrimoniale. Oggi il tentativo di ricostituire un rapporto tra i coniugi non dovrebbe tendere unicamente ad una ripresa della convi‑ venza, ma piuttosto a pervenire ad una separazione concor‑ data, capace di garantire tempi più brevi, costi economici meno elevati, con l’ulteriore e significativo vantaggio di una tenuta del rapporto personale dei coniugi, diversamente strut‑ turato, specie a vantaggio dei figli minori. Insomma, oggi è possibile credere, prevedendo incentivi concreti, nella mediazione familiare: la vera difficoltà sta nel “fuggire” dalle “vecchie idee” e dagli interessi ad essa sotte‑ si. Vale quanto detto all’inizio. La mediazione familiare va incentivata, non solo e non tanto in ragione di deflazione giudiziaria, quanto in funzione di una ristrutturazione con‑ divisa delle relazioni personali all’interno della famiglia 22 22 Cfr. F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013, pp. 33‑34. 38 D i r itto ● e p r o c e du r a c i v il e Gazzetta F O R E N S E CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. CIV. II sentenza 09 maggio 2013, n.10989 Pres. Piccialli; Est. Matera Trascrizione e conflitto tra l’acquirente “a domino” e l’acquirente “a non domino” Nota a Corte di Cassazione, sezione civile II, 09 maggio 2013, n.10989 ● Daria Valletta Magistrato presso il Tribunale di Napoli Trascrizione – effetti Nell’ipotesi di conflitto tra un acquisto “a domino” e un acquisto “a non domino” dello stesso bene, non opera l’isti‑ tuto della trascrizione, la cui funzione legale – esclusa ogni efficacia sanante i vizi da cui fosse eventualmente affetto l’atto negoziale trascritto – è solo quella di risolvere il con‑ flitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo titolare. (Omissis) Motivi della decisione 1) Preliminarmente deve dichiararsi l’inammissibilità del controricorso, notificato alla ricorrente ben oltre il matura‑ re del termine perentorio previsto dall’art. 370 c.p.c.. Siffatta inammissibilità comporta che non può tenersi conto del controricorso, ma non incide sulla validità ed ef‑ ficacia della procura speciale alle liti rilasciata dalla resisten‑ te al difensore, il quale, pertanto, ha legittimamente parte‑ cipato alla discussione orale in udienza. 2) Con il primo motivo, articolato in due censure (“A” e “B”), la ricorrente denuncia l’omessa ed insufficiente moti‑ vazione, nonché la violazione dell’art. 1362 c.c., e segg.. Deduce che la Corte di Appello, ai fini della descrizione dell’immobile e dell’oggetto della compravendita B*** – L*** del 14‑3‑1986 per notaio Lebano, ha tenuto conto solo delle piantine allegate a tale atto e colorate in “rosa”, omettendo di valutare gli atti negoziali di provenienza precedenti a tale vendita, e in particolare l’atto di compravendita del 24‑10‑1985 per notaio Grimaldi, con il quale il C*** aveva trasferito al B*** la proprietà dell’immobile di via (OMISSIS) (indicato come porzione A, costituito da un “pianerottolo comune, locale (OMISSIS)”), nonché il contenuto della procura a vendere del 16‑9‑1985 conferita dalla Finartgest al C*** (nel quale si parla di “appartamento sito al piano quinto… por‑ zione per variazione dell’unità immobiliare contraddistinta in catasto alla partita 29593… mapp. 233, sub da 43 a 54 compresi”.). Sostiene che le indicazioni catastali e le coeren‑ ze contenute nei predetti atti depongono in senso favorevole alla tesi dell’attrice. Rileva, inoltre, che il giudice del gravame non ha tenuto conto del tenore letterale della procura, nella quale si parla di “appartamento” in riferimento allo stabile di via (OMISSIS) e di “intero sottotetto” per lo stabile di (OMISSIS) corpo “B” e “C”; dal che si desume chiaramente che l’oggetto della procura non poteva consistere nell’intero sottotetto, che diversamente sarebbe stato indicato in tal modo. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’omessa e insufficiente motivazione, non avendo la Corte di Appello dato adeguato conto delle ragioni per le quali si è discostata dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, dalle quali risulta che l’acquisto della convenuta è avvenuto “a non do‑ mino”, tranne che per la porzione “A” indicata nella procura, non essendo il dante causa B.L. proprietario degli immobili a lei venduti, ma al massimo della sola porzione “A”, che il C.T.U. ha chiarito essere di estensione di mq. 10‑15 circa. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazio‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O ne dell’art. 1723 c.c., in relazione alla ritenuta irrilevanza della revoca, intervenuta il 17‑9‑1985, della procura rila‑ sciata il 16‑9‑1985 dalla Finartgest al C***, in forza della quale quest’ultimo ha venduto al B*** i beni successiva‑ mente alienati da quest’ultimo alla L*** in data 14‑3‑1986. Deduce che la Corte di Appello, nel ritenere che, trattan‑ dosi di procura “irrevocabile” ai sensi dell’art. 1723 c.c., la successiva revoca non poteva avere alcun effetto, non ha considerato che tale norma disciplina esclusivamente l’ipo‑ tesi di “mandato irrevocabile”, senza estendersi alla pro‑ cura, che costituisce un atto unilaterale sempre revocabile. Nella specie, pertanto, la revoca della procura ha determi‑ nato l’estinzione del potere di rappresentanza ex art. 1396 c.c.; con la conseguenza che il contratto concluso dal C***, rappresentante senza poteri, deve considerarsi privo di validità. Con il quarto motivo, infine, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2643 e 2644 c.c.. Sostiene che la Corte di Appello ha errato nel risolvere la causa facendo riferimento al principio della priorità della trascrizione dei diversi atti di acquisto. Il giudice di merito, al contrario, avrebbe dovuto verificare, attraverso l’analisi degli atti di provenienza della convenuta, quale dei due acquisti fosse stato “a non domino”. Nell’ipotesi di conflitto tra acquisto a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene, infatti, non opera l’istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale intesa soltanto a risolvere il conflitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso di‑ ritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l’atto negoziale. 3) I primi due motivi appaiono meritevoli di accogli‑ mento, alla luce del giudicato formatosi in altro procedi‑ mento, conclusosi con sentenza della Corte di Appello di Milano n. 2207/2007, confermata dalla Corte di Cassazio‑ ne con sentenza 19044/2010, nel quale erano parti proces‑ suali la stessa S***C***V***D***C*** e B*** L***, dante causa di L***M***B***. Giova rammentare che, nel giudizio di cassazione, l’esi‑ stenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudica‑ to interno, rilevabile di ufficio anche quando il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata; e, nel caso in cui consegua ad una sentenza della Corte di Cassazione, la cognizione di quest’ultima può avvenire pure mediante quell’attività di istituto (rela‑ zioni, massime ufficiali) che costituisce corredo della ricer‑ ca del collegio giudicante, in tal senso deponendo il dupli‑ ce dovere incombente sulla Corte di prevenire il contrasto tra giudicati, in coerenza con il divieto del “ne bis in idem”, e di conoscere i propri precedenti, nell’adempimento del dovere istituzionale derivante dall’esercizio della funzione nomofilattica di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (Cass. 30‑12‑2011 n. 30780; Cass. Sez. Un. 17‑12‑2007 n. 26482). Nella specie, di conseguenza, nessuna preclusione all’in‑ dagine sull’esistenza del giudicato può derivare dal fatto che la relativa questione sia stata prospettata dalla ricor‑ rente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., e che il giudicato si sia formato in un momento successivo 2 0 1 3 39 alla pronuncia della sentenza di appello impugnata nel presente giudizio. Tanto premesso, si osserva che, come emerge dalla let‑ tura della menzionata sentenza della Corte di Cassazione n. 19044/2010, anche nel predetto procedimento si contro‑ verteva in ordine alla interpretazione ed alla portata della procura rilasciata dalla Finastgest al C*** il 16‑9‑1985 e del conseguente atto di compravendita stipulato tra quest’ul‑ timo (in rappresentanza della Finastgest) e B***L*** in data 24‑10‑1985; atto a seguito del quale il B*** ha vendu‑ to gli immobili acquistati alla L. per quanto interessa nel presente giudizio e ad altri soggetti per quanto ha costitui‑ to oggetto dell’altro giudizio. Orbene, nel citato procedimento è stato accertato che sia la procura irrevocabile in data 16‑9‑1985 rilasciata dalla Fi‑ nartgest s.r.l. al C***, sia l’atto di compravendita del 24‑10‑1985, intercorso tra il C***, quale procuratore della Finartgest s.r.l., e il B***, avevano ad oggetto non già l’intero piano sottotetto dell’immobile sito in (OMISSIS), ma solo una limitata porzione di esso (corrispondente, secondo le indica‑ zioni del C.T.U., a circa 10‑11 mq.) e, precisamente, quella che nei predetti atti era stata indicata con la lettera A; porzione che costituiva una conseguenza della variazione dell’unità immobiliare contraddistinta in catasto alla partita 25593, foglio 380, mappale 233, sub. 43‑44‑45‑46‑47‑48‑4950‑51‑52‑53‑54, e che nell’atto di compravendita del 24‑10‑1985 veniva descritta con la indicazione delle seguenti coerenze: “pianerottolo comune, locale interno (OMISSIS)”. È pacifico, in giurisprudenza, che gli aventi causa nei cui confronti, a norma dell’art. 2909 c.c., fa stato l’accertamen‑ to contenuto nella sentenza passata in giudicato, sono quei soggetti che, dopo la formazione del giudicato, sono suben‑ trati nella titolarità delle correlative situazioni giuridiche, attive e passive, dedotte in giudizio e sulle quali incide il comando giurisdizionale passato in giudicato (Cass. 16‑ 4 ‑2012 n. 5972; Cass. 22‑5‑1979 n. 2959; Cass. 24‑2‑1981 n. 1131; Cass. 23‑10‑1985 n. 5194). Nella specie, al contrario, l’odierna resistente ha acqui‑ stato a titolo derivativo dal B*** l’immobile per cui si con‑ troverte in un momento anteriore alla formazione dell’invo‑ cato giudicato. Come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza, tuttavia, il giudicato, oltre ad avere, ai sensi del citato art. 2909 c.c., una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, degli eredi ed aventi causa, è dotato anche di una efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come afferma‑ zione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un dirit‑ to dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione (tra le tante v. Cass. 11‑3‑2005 n. 5381; 24‑1‑ 1995 n. 792; Cass. 14 ‑7‑1988 n. 4605; Cass. 21‑3‑1990 n. 2344; Cass. 10‑10‑1991 n. 10654). In particolare, l’operatività di tale efficacia riflessa è stata riconosciuta nel caso dell’acquiren‑ te di un diritto di proprietà esclusiva su di un bene, rispetto al giudicato formatosi tra il suo dante causa e coloro che hanno rivendicato il diritto di comproprietà sul medesimo bene, indipendentemente dalla trascrizione della domanda di rivendica anteriormente a quella dell’atto di acquisto civile Gazzetta 40 D i r itto e p r o c e du r a intervenuto tra il terzo e il convenuto nel giudizio di revin‑ dica (art. 2653 c.c., n. 1) essendo inoperanti i relativi prin‑ cipi (Cass. 12‑11‑1997 n. 11153). Alla luce degli enunciati principi, ai fini della decisione della presente controversia si deve tener conto dell’efficacia riflessa dell’invocato giudicato nei confronti della odierna resistente, il cui titolo di acquisto dell’immobile proveniva proprio da B. L., il quale, secondo quanto accertato nel precedente giudizio, non poteva disporre della proprietà dell’intero sottotetto, ma solo della porzione contraddistin‑ ta dalla lett. A), da lui acquistata con atto del 24‑10‑1985. L’accertamento della legittimità dell’atto di compravendita intercorso tra il B*** e la L., infatti, presuppone la neces‑ saria verifica della sussistenza, nell’alienante, della titolari‑ tà dei beni venduti. L’accoglimento dei motivi in esame comporta l’assorbi‑ mento del quarto, essendo la questione dell’operatività del criterio della trascrizione strettamente connessa a quella dell’accertamento della provenienza del bene acquistato dalla convenuta dal legittimo proprietario. Come è noto, infatti, nell’ipotesi di conflitto tra un acquisto “a domino” ed un acquisto “a non domino” dello stesso bene, non ope‑ ra l’istituto della trascrizione, la cui funzione legale – esclu‑ sa ogni efficacia sanante i vizi da cui fosse eventualmente affetto l’atto negoziale trascritto – è solo quella di risolvere il conflitto tra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo titolare (cfr. Cass. 27‑3‑2007 n. 7523). 4) Il terzo motivo deve essere disatteso. La Corte di Appello, nel rigettare il motivo di gravame non cui si sosteneva che la procura rilasciata dalla Finart‑ gest al C*** in data 16‑9‑1985 era stata revocata, non si è limitata ad affermare che, trattandosi di procura irrevoca‑ bile, la successiva revoca non poteva avere alcun effetto, ma ha altresì osservato, richiamando il disposto dell’art. 1398 c.c., che il contratto concluso dal falsus procurator doveva comunque ritenersi pienamente valido nei confronti del terzo contraente in buona fede. Con il motivo in esame la ricorrente ha censurato solo la prima argomentazione, mentre nulla ha detto in ordine all’altra, di per sé idonea a sorreggere la decisione. Ciò posto, va rammentato che, secondo il costante orien‑ tamento di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le rationes decidendi rende inammis‑ sibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singo‑ le ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stes‑ sa (v. per tutte Cass. S.U. 8‑8‑ 2005 n. 16602). 5) La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano, la quale provvederà anche sulle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. (Omissis) c i v il e Gazzetta F O R E N S E La fattispecie in esame La decisione in commento, che pure non si segnala per particolare diffusività nello sviluppo delle argomentazioni giuridiche poste a suo fondamento, appare interessante nella misura in cui offre spunto per l’esame e l’approfondi‑ mento del tema della doppia alienazione immobiliare in relazione all’istituto della trascrizione, implicando la trat‑ tazione di questioni di grande rilievo pratico e di non sem‑ plicissimo accesso. Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte un soggetto, acquirente dell’intero piano sottotetto di un im‑ mobile, aveva convenuto in giudizio un altro soggetto il quale, a sua volta, con atto anteriormente trascritto, si era reso acquirente di una porzione del medesimo bene. In particolare, l’attrice in primo grado aveva chiesto al giudice adito di dichiarare la nullità e l’inefficacia dell’atto anterior‑ mente trascritto – opposto dalla convenuta – in quanto colui che figurava quale venditore in tale atto non aveva mai acquistato la proprietà del bene: e difatti, si assumeva, l’alienante aveva, a sua volta, acquistato l’immobile da un soggetto che non era munito di procura a vendere. All’esito dei giudizi di primo e di secondo grado l’attrice/ appellante era risultata soccombente, di talché aveva pro‑ posto ricorso per Cassazione articolando diverse censure avverso la sentenza d’appello. La Suprema Corte nel decidere il gravame ha osservato che la questione relativa all’estensione della procura a ven‑ dere era stata già esaminata dalla Corte in altro giudizio, all’esito del quale era stato accertato che la procura a ven‑ dere l’immobile (a fondamento dell’acquisto della resistente nel procedimento di Cassazione in esame) non aveva ad oggetto l’intero piano sottotetto, ma solo una limitatissima parte dello stesso (pari a poche decine di metri quadrati). Benché la resistente avesse acquistato il bene prima di tale pronuncia (sicché restava preclusa la possibilità di ritenere che il giudicato esplicasse efficacia diretta nei suoi confron‑ ti), la Corte ha ritenuto che fosse comunque possibile rite‑ nere operante l’efficacia riflessa della decisione richiamata rispetto al caso sottoposto al suo esame: la Cassazione si è riferita all’orientamento, più volte già espresso in preceden‑ ti arresti, a mente del quale la sentenza, contenendo “un’af‑ fermazione oggettiva di verità” è idonea a produrre conse‑ guenze giuridiche anche nei confronti dei soggetti rimasti estranei al giudizio ma titolari di situazioni dipendenti da quella definita nel processo, ovvero di diritti subordinati a tale situazione1. Partendo da queste premesse, la Corte ha stabilito che il difetto della procura a vendere aveva impedito il legittimo 1 La Corte richiama sul punto alcune decisioni, tra le quali si riporta, in quanto di particolare interesse rispetto alla fattispecie in esame: “Il giudicato, pur non potendo pregiudicare i terzi titolari di un diritto incompatibile con quello ac‑ certato dalla sentenza, se rimasti estranei al relativo giudizio, come affermazione imperativa di verità esplica però effetti riflessi anche nei confronti di coloro che, pur estranei al processo, sono titolari di un diritto dipendente da quello in esso accertato, come nel caso dell'acquirente di un diritto di proprietà esclusiva su di un bene, rispetto al giudicato formatosi tra il suo dante causa e coloro che hanno rivendicato il diritto di comproprietà sul medesimo bene, indipendent‑ emente dalla trascrizione della domanda di rivendica anteriormente a quella dell'atto di acquisto intervenuto tra il terzo e il convenuto nel giudizio di re‑ vindica (art. 2653, n. 1, cod. civ.), essendo inoperanti i relativi principi” Cass., sez. II, 11 dicembre 1997, n.11153. F O R E N S E luglio • A G O S T O trasferimento della proprietà dell’immobile al dante causa della resistente (convenuta nel primo grado del giudizio in esame), cosicché quest’ultima non aveva acquistato dall’ef‑ fettivo titolare del bene. La Corte ha poi concluso afferman‑ do che, avendo la resistente acquistato a non domino, l’avvenuta trascrizione del titolo, ancorché posta in essere anteriormente alla trascrizione del titolo di acquisto della ricorrente, non poteva valere a consolidare l’acquisto effet‑ tuato dalla resistente, attesa la funzione dell’istituto della trascrizione, che non è quella di sanare i vizi di un titolo invalido, ma solo di precostituire una forma di pubblicità idonea a consentire la soluzione del conflitto tra più sogget‑ ti che abbiano acquistato dal medesimo dante causa. La doppia alienazione e la funzione della trascrizione nell’ordi‑ namento Come osservato in premessa, la decisione in commento richiama il tema della funzione dell’istituto della trascrizio‑ ne nel nostro ordinamento e impone di distinguere tra le ipotesi nelle quali la trascrizione consente di risolvere il conflitto tra titoli vantati da diversi soggetti in ordine al medesimo bene e quelle in cui il contrasto deve trovare so‑ luzione sulla base di diversi principi. Allo scopo di comprendere gli esatti termini della que‑ stione in esame, si impone una breve ricostruzione del quadro normativo di riferimento. Appare opportuno, in primo luogo, ricordare che la trascrizione è un sistema di pubblicità degli atti elencati dagli artt. 2643 c.c.e ss 2 . che, assolvendo a diverse funzioni (principalmente, appunto, quella di fornire uno strumento di risoluzione del conflitto tra più acquirenti dallo stesso dante causa) ha, normalmente, un’efficacia meramente di‑ chiarativa e non anche costitutiva: si intende dire con ciò che l’atto trascrivibile è in sé perfetto ed efficace, e la sua trascrizione corrisponde all’assolvimento di un onere che consente alla parte di non vedere vanificato il proprio ac‑ quisto a causa della prioritaria trascrizione di altro titolo ad iniziativa del secondo avente causa dal medesimo auto‑ re. È proprio la natura dichiarativa della trascrizione che svela, per così dire, la complessità esegetica del tema in esame, e cioè quello della doppia alienazione immobiliare, ponendo agli interpreti l’arduo compito di conciliare il principio consensualistico posto dall’art. 1376 c.c. con il disposto dell’art. 2644 c.c. Come noto, infatti, in virtù del principio del consenso traslativo posto dalla prima delle due disposizioni citate, la proprietà si trasferisce in virtù del solo consenso delle par‑ 2 Si rammenta che in epoca relativamente recente il catalogo degli atti soggetti a trascrizione è stato ampliato dalla nuova previsione del comma 2 bis dell’art. 2643 c.c., inserito dall'art. 5 D.L. 13 maggio 2011, n. 70 come mod‑ ificato dall'allegato alla legge di conversione, L.12 luglio 2011, n.106 (G.U. 12.07.2011, n.160), con decorrenza dal 13 luglio 2011, che prevede la trascriz‑ ione de: “i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti ed‑ ificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”. La norma ha acceso un vi‑ vace dibattito dottrinale, tuttora aperto, volto a risolvere le diverse questioni che la disposizione pone, quali l’individuazione dei tipi e della natura giuridica dei diritti edificatori, la determinazione dell’oggetto della trascrizione e l’identificazione dei riflessi di tale adempimento sull’azione discrezionale della PA. 2 0 1 3 41 ti legittimamente manifestato3. In materia di trasferimento di diritti reali è dunque sufficiente il semplice accordo delle parti per produrre l’effetto voluto: facendo applicazione di tale principio alla fattispecie della doppia alienazione im‑ mobiliare, ne discende, a rigore, che con la prima alienazio‑ ne il dante causa si spoglia del diritto alienato, con la con‑ seguenza che, ove ponesse in essere un secondo atto di trasferimento, l’avente causa di tale seconda negoziazione si troverebbe ad avere acquistato da chi non era più in gra‑ do di disporre del diritto ceduto (si dovrebbe dunque fare applicazione del brocardo “nemo plus iuris ad alium tran‑ sferre potest quam ipse habet”): si realizzerebbe quindi un acquisto a non domino. Non a caso si è finora usato il condizionale. Vi è infatti, come noto, che il legislatore ha dettato con la previsione dell’art. 2644 c.c. una disposizione che si pone (almeno apparentemente) in disarmonia con il quadro appena deli‑ neato, rimandando dunque all’interprete il delicato compito di ricondurre a sistema la norma: l’art. 2644 c.c. fa infatti salvo l’acquisto del secondo acquirente il quale abbia tra‑ scritto il proprio titolo anteriormente alla trascrizione del titolo del primo acquirente 4. Ora, se la ratio a fondamento della disposizione in esame appare chiara, e si ricollega in‑ dubbiamente all’esigenza di assicurare certezza nei traffici giuridici, cionondimeno resta da spiegare la vicenda trasla‑ tiva appena descritta e la sua “devianza” rispetto al principio di cui all’art. 1376 c.c. Le sfumature della questione si ar‑ ricchiscono ove si consideri che, come evidenziato poc’anzi, la trascrizione che è istituto al quale si ricollega normalmen‑ te un’efficacia meramente dichiarativa, sembrerebbe in questo caso esplicare un’efficacia costitutiva (consentendo il consolidamento dell’acquisto del secondo avente causa) ovvero sanante dell’invalidità del secondo acquisto. La dottrina e la giurisprudenza si sono lungamente im‑ pegnate nell’elaborazione di diverse teorie volte a ricondur‑ re a sistema l’anomalia posta dall’art. 2644 c.c.: in epoca più risalente si è ricondotto alla trascrizione un effetto conservativo, tale da consentire il consolidamento di un acquisto per sua natura instabile (sul modello della conva‑ lida dell’atto annullabile)5; per la teoria della condicio iuris, invece, la trascrizione del secondo acquisto opererebbe come condizione risolutiva del primo acquisto, il quale verrebbe quindi a essere caducato 6; vi è poi da segnalare la posizione di chi ha fatto riferimento ad una fattispecie acquisitiva “complessa” destinata a perfezionarsi solo con la trascrizio‑ ne7. Senza voler in questa sede approfondire le diverse tesi che si sono andate affermando nel tempo – non essendo 3 4 5 6 7 Art. 1376 c.c.: “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un di‑ ritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”. Art. 2644, comma I, c.c.:“Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi”. Coviello, Della trascrizione immobiliare, Napoli, 1897, p.288 e ss. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, Milano, 1998, p.475 e ss. Niccolò, La trascrizione, Milano, 1973, p.119. civile Gazzetta 42 D i r itto e p r o c e du r a questo l’obiettivo che con la presente nota ci si propone ‑, e limitandosi a osservare che probabilmente la soluzione più soddisfacente è quella (in un certo senso più ovvia) che si riferisce ad una fictio iuris che consente di ritenere acqui‑ rente a domino chi avrebbe a rigore acquistato a non domi‑ no, appare interessante osservare che conseguenze di non trascurabile peso discendono dalla configurazione dell’ac‑ quisto del secondo avente causa primo trascrivente quale acquisto a titolo originario o a titolo derivativo (ci si riferi‑ sce, ad esempio, all’esclusione nella prima ipotesi dell’azio‑ ne revocatoria: la ripetuta affermazione giurisprudenziale dell’ammissibilità di tale azione a tutela del credito risarci‑ torio che nasce in capo al primo acquirente a seguito della trascrizione del titolo del secondo avente causa, porta a ri‑ tenere oramai acquisita l’idea della derivatività dell’acquisto del secondo compratore, peraltro coerente con il principio di continuità delle trascrizioni; sull’utilizzabilità di tale strumento di tutela ad iniziativa del primo acquirente si veda più diffusamente infra). Il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 9 maggio 2013 n.10989 In tal modo delineati i principi che disegnano il quadro normativo nel quale si inserisce la pronuncia in commento, può passarsi alla disamina di quest’ultima. Il caso all’esame della Corte è già stato sinteticamente riportato: allo scopo di stabilire se l’acquisto del primo trascrivente dovesse es‑ sere ritenuto prevalente, la Corte ha richiamato, in primo luogo, la teoria dell’efficacia riflessa del giudicato, già da lungo tempo presente nelle decisioni della Suprema Corte, in virtù della quale, oltre ad un’efficacia diretta, prevista dall’art. 2909 c.c. 8 e operante nei confronti delle parti, dei rispettivi eredi e degli aventi causa, la pronuncia divenuta definitiva esplica altresì degli effetti indiretti, idonei a “tra‑ valicare” i confini soggettivi indicati, così da incidere anche sulla controversia nata tra soggetti rimasti estranei al primo giudizio, allorché la situazione della quale si controverta nel giudizio tra detti terzi dipenda, ovvero sia subordinata alla situazione oggetto di giudicato9. Poiché una precedente 8 Art. 2909 c.c.: “L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. 9 Tra i numerosi arresti che hanno riguardato il tema dell’efficacia riflessa del giudicato, se ne riportano alcuni tra i più recenti: “Il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un'efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come afferma‑ zione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel proces‑ so o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza reciproca che l'efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sen‑ tenza. (Nella specie la S.C., in un giudizio di opposizione all'esecuzione pro‑ posto dal datore di lavoro avverso il precetto notificatogli dal lavoratore, ha escluso l'efficacia riflessa della sentenza passata, in giudicato, con la quale era stata accolta analoga opposizione all'esecuzione, proposta dal datore di lavo‑ ro e per identici motivi avverso un precetto notificatogli in forza del medesimo titolo esecutivo, ma da altro lavoratore)”. Cass., sez. L., 19 marzo 2013, n. 6788; ed ancora: “La sentenza passata in giudicato, anche quando non possa avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 cod. civ., può avere comun‑ que l'efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudi‑ ziale e tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interes‑ se, spettando al giudice di merito esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e valutarne liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri elementi di c i v il e Gazzetta F O R E N S E decisione della Corte aveva statuito che il soggetto dal qua‑ le il dante causa della resistente aveva apparentemente ac‑ quistato la proprietà del sottotetto non era in realtà munito di idonea procura a vendere, la Cassazione ha affermato che l’acquisto della resistente era da qualificarsi acquisto a non domino: di conseguenza, il conflitto tra i titoli sui quali le parti del giudizio fondavano il proprio acquisto non poteva trovare soluzione richiamando l’istituto della trascrizione, in quanto l’art. 2644 c.c. può trovare attuazione solo allor‑ ché venga in rilievo il conflitto tra più aventi causa con di‑ stinti titoli dallo stesso autore. Ora, a ben vedere, quanto affermato dalla Corte conse‑ gue logicamente alla corretta applicazione dei principi in precedenza richiamati in materia di doppia alienazione e trascrizione: pure, appare interessante approfondire il dic‑ tum della Corte in quanto nella prassi non è infrequente (si sarebbe tentati di dire che è, anzi, frequente) riscontrare casi in cui la priorità della trascrizione del titolo viene in‑ vocata in giudizio quale “panacea” idonea, di per sé consi‑ derata, ad assicurare la prevalenza del trascrittore rispetto a tutti gli altri soggetti che vantino titoli non trascritti o trascritti solo posteriormente, e ciò a prescindere dalla considerazione della validità e dell’efficacia del titolo invo‑ cato e dalla provenienza dei titoli da un comune autore. La corretta comprensione del tema trattato passa, in primo luogo, per la considerazione della generale inidonei‑ tà della trascrizione a esplicare un effetto sanante di un atto che sia affetto da un vizio invalidante10; in secondo luogo, occorre pure rimarcare che la trascrizione è istituto destinato alla risoluzione dei soli conflitti tra soggetti ac‑ quirenti da un comune autore11. giudizio rinvenibili negli atti di causa” Cass., sez. III, 20 febbraio 2013, n. 4241; ed ancora, in tema di efficacia riflessa del giudicato formatosi nei confronti dell’assicurato nell’ambito del giudizio che vede come parte l’assi‑ curatore: “Il principio secondo cui – proposta contro l'assicurato danneggian‑ te l'azione di cui all'art. 2054 cod. civ. separatamente da quella diretta, espe‑ rita successivamente nei confronti del suo assicuratore ai sensi dell'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (applicabile "ratione temporis") – il giudicato maturato all'esito del primo giudizio, del quale l'assicuratore non era parte, può spiegare nei suoi confronti efficacia riflessa (rendendo non più controverso quel rapporto giuridico rispetto al quale l'assicuratore medesimo si trovi in una situazione di giuridica dipendenza), presuppone la condanna del danneggiante assicurato al risarcimento del danno, e non semplicemente l'affermazione della responsabilità del predetto quanto al fatto illecito, giacché solo in questo caso è dato ravvisare, tra le obbligazioni risarcitorie dei due soggetti, quel collegamento di pregiudizialità‑dipendenza in senso giuridico che legittima l'efficacia riflessa del giudicato” Cass., sez. III, 20 febbraio 2013, n. 4241. 10 Un caso specifico, nel quale si parla di “pubblicità sanante” è previsto dall’art. 2652 n.6: la norma stabilisce che se la trascrizione della domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità ovvero l’annullamento di un atto soggetto a trascrizione, è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato, l’eventuale accoglimento della domanda non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi in buona fede in base ad atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda; si tratta di una norma a carattere eccezionale che ha l’unico scopo di regolamentare i conflitti tra i terzi, rimanendo quindi esclusa la possibilità che inter partes il contratto invalido possa risultare sanato in virtù della sola trascrizione. 11 Si veda: “La norma dell'art. 2644 cod. civ.,che disciplina gli effetti della trascrizione degli atti indicati nell'art. 2643 dello stesso codice, riguarda tutte le ipotesi di una pluralità di alienazioni immobiliari eseguite dal mede‑ simo dante causa, e, quindi, si riferisce sia all'ipotesi del duplice trasferimen‑ to del diritto di proprietà, in tempi successivi, a distinti acquirenti, sia a quella della cessione, in tempi successivi, in favore di distinti soggetti, della proprietà e della costituzione di un diritto reale limitato, come l'usufrutto o la servitù. Quanto più in particolare, all'ipotesi di un contratto di compra‑ vendita del diritto di proprietà di un immobile, nel quale sia inserita una F O R E N S E luglio • A G O S T O Abbiamo in premessa osservato che nel caso classico di doppia alienazione di un bene da parte dello stesso soggetto, benché l’acquisto del secondo avente causa primo trascriven‑ te dovrebbe a rigore considerarsi acquisto a non domino in quanto effettuato nei confronti di un soggetto che si era già spogliato della titolarità del bene alienato, pure, per una fictio iuris implicata dall’art. 2644 c.c., esso prevale, in virtù dell’anteriorità della trascrizione del titolo. Diversa‑ mente a dirsi allorché, come nel caso esaminato dalla Supre‑ ma Corte nella sentenza in considerazione, il conflitto esiste tra acquisti che non sono stati effettuati dal medesimo au‑ tore: in tal caso occorrerà risalire sino al comune autore e farsi riferimento alla priorità della trascrizione degli acqui‑ sti originatisi via via da questi, avuto però riguardo alla necessità che i titoli trascritti siano di per sé validi. Nel caso all’esame della Corte le parti avevano acquistato da sogget‑ ti diversi: mentre l’acquisto della ricorrente era stato effet‑ tuato da un soggetto legittimato a disporre dal bene – per averne questi regolarmente acquistato la proprietà con atto anteriore ‑, l’acquisto della resistente proveniva da un sog‑ getto che non aveva mai acquistato la titolarità del diritto di proprietà sull’immobile, in quanto il rispettivo dante causa non aveva la legittimazione a disporne. Dunque, nel conflitto tra un acquisto a domino e un acquisto a non do‑ mino, non poteva che affermarsi (come la Corte corretta‑ mente afferma) la prevalenza del primo acquisto, rimanendo irrilevante la circostanza della priorità della trascrizione di un titolo rispetto all’altro12 . I mezzi di tutela del primo acquirente pregiudicato Per completezza espositiva, appare opportuno affronta‑ re il tema degli strumenti di tutela del soggetto che, avendo acquistato per primo, si sia visto “sottrarre” l’acquisto in ragione della trascrizione anteriore di un titolo formatosi successivamente al suo acquisto. Sebbene questo tema non sia stato esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, non avendo il caso concreto affrontato offerto‑ ne lo spunto, la questione appare di notevole interesse es‑ sendo stata al centro di un vivace dibattito dottrinale e clausola costitutiva del diritto di servitù a vantaggio di tale bene e a carico di altro immobile dell'alienante, la servitù potrà essere opposta ai successivi acquirenti dallo stesso dante causa, del fondo servente, soltanto se costoro siano stati messi in condizione di conoscere che l'immobile era gravato dal diritto reale. E questa situazione si verifica sia nell'ipotesi in cui, nell'atto di acquisto del diritto di proprietà, la servitù venga menzionata specificamente, sia nella diversa ipotesi in cui, pur mancando tale menzione, risulti priorita‑ riamente trascritta la clausola costitutiva della servitù sul bene” Cass., sez. II, 16 luglio 1997, n. 6485. 12 Il medesimo principio era già stato affermato dalla Suprema Corte nella precedente pronuncia di cui di seguito si riporta la massima: “Nell'ipotesi di conflitto fra acquisto a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene non opera l'istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale intesa soltanto a risolvere il conflitto fra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna ef‑ ficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l'atto negoziale, sicché l'avvenuta trascrizione di un atto è inidonea ad attribuire la validità di cui esso sia naturalmente privo. (Nella specie, è stato ritenuto che l'avvenuta trascrizione dell'acquisto a non domino di un imbarcazione non spiegava alcuna influ‑ enza sulla validità del titolo di acquisto a domino, che invece non era stato trascritto)” Cass., sez. II, del 3 febbraio 2005, n. 2162; ancora, si veda anche: “L'attore che agisce in rivendicazione assumendo essergli inopponibile il ti‑ tolo di acquisto (derivativo) del convenuto, in quanto trascritto posterior‑ mente al proprio, ha l'onere di dimostrare la provenienza di entrambi i ti‑ toli dal medesimo dante causa” Cass., sez.II, 18 marzo 1999, n. 2485. 2 0 1 3 43 fatta oggetto di numerosi arresti giurisprudenziali. Il tema è, come ovvio, strettamente intrecciato a quello della natu‑ ra della responsabilità dei soggetti coinvolti nella vicenda traslativa: il venditore e il secondo acquirente primo trascri‑ vente. Quanto alla posizione del venditore che proceda ad alienare due volte il medesimo bene a due distinti soggetti, il quale ha, evidentemente, piena consapevolezza di stare mettendo a rischio con il proprio comportamento l’acquisto del primo avente causa, si è a lungo discusso circa la natura contrattuale o extracontrattuale della relativa responsabi‑ lità. È chiaro che l’adesione all’una ovvero all’altra impo‑ stazione implica conseguenze di non poco momento sotto diversi profili, e cioè quello dell’individuazione del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, quello dell’operatività della presunzione di colpa e quello relativo alla quantificazione del danno risarcibile. In un passato per vero non molto recente era prevalsa in giurisprudenza l’idea della natura aquiliana della responsabilità del venditore13, con le correlate conseguenze in punto di prescrizione e altro, secondo quanto si è appena osservato. Tale orientamento, tacciato di ridurre entro limiti troppo angusti l’ambito del‑ la tutela offerta al compratore, è stato in prosieguo supera‑ to e si è andata affermando in giurisprudenza la tesi della natura contrattuale della responsabilità del venditore, fon‑ data sulla violazione dell’obbligazione assunta nei confron‑ ti del compratore di trasferirgli i poteri di disposizione del diritto venduto, nonché di astenersi da ogni comportamen‑ to diretto a frustare il pattuito trasferimento14. Più articolato è stato, e in parte è a tuttora (in partico‑ lare in dottrina), il dibattito relativo alla posizione del se‑ condo acquirente primo trascrivente: la problematicità collegata alla ricostruzione della natura della responsabi‑ 13 In proposito: “La responsabilità del venditore verso l'acquirente, per aver successivamente alienato a terzi la medesima cosa, in forza di atto prevalente per priorità della trascrizione (art 2644 cod civ), non ha natura contrattuale, né, in particolare, é inquadrabile nell’ambito della garanzia per evizione, la quale postula che il terzo faccia valere diritti preesistenti alla vendita, ma configura una responsabilità per illecito extracontrattuale. pertanto, il di‑ ritto del compratore al risarcimento del danno, per effetto di detta respons‑ abilità, e soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall'art 2947 primo comma cod civ.” Cass., sez. II, 29 ottobre 1977, n. 4669. 14 Si segnalano pronunce in tal senso sin a partire dagli anni ’80: “La respon‑ sabilità in cui incorre il venditore per avere alienato ad un secondo acquiren‑ te, che trascriva per primo l'immobile in precedenza alienato ad altro com‑ pratore, ha natura contrattuale, in quanto fondata sulla violazione dell'ob‑ bligazione assunta con il contratto nei confronti del compratore di trasferir‑ gli i poteri di disposizione del diritto venduto nonché di astenersi da ogni comportamento diretto a frustrare il pattuito trasferimento e così di non frapporre impedimenti all'acquisto della proprietà del bene da parte del compratore, in applicazione del principio della esecuzione del contratto se‑ condo buona fede, con la conseguenza che l'azione per far valere detta re‑ sponsabilità è soggetta alla prescrizione decennale. Per converso, ha natura extracontrattuale la responsabilità del secondo acquirente, il quale, pur co‑ noscendo l'avvenuta vendita del medesimo bene attuata dal proprio alienan‑ te, nonché la mancata trascrizione del primo contratto da parte del prece‑ dente compratore, abbia trascritto il proprio titolo di acquisto. Tuttavia, la domanda di risarcimento del danno che sia proposta dal primo compratore nei soli confronti del venditore comporta l'interruzione della prescrizione con riguardo al diritto al risarcimento anche nei confronti del secondo com‑ pratore stante la responsabilità solidale degli stessi per avere concorso nella produzione del danno. (v 76/82, mass n 417767; (v 759/82, mass n 418581; (v 518/65, mass n 310943; (conf 6006/84, mass n 437673; (conf 76/82, mass n 417767; (contra 4669/77, mass n 388270; (contra 1983/76, mass n 380800; (contra 526/76, mass n 379190).” Cass., sez. II, 15 giugno 1988 n. 4090. civile Gazzetta 44 D i r itto e p r o c e du r a lità di tale soggetto veniva fatta discendere dall’estraneità di quest’ultimo alla contrattazione tra l’alienante e il primo acquirente, la cui posizione era stata lesa dalla seconda negoziazione. Ritenere il secondo acquirente responsabile nei confronti del primo, avrebbe, secondo un’opinione, implicato una lesione del principio della vincolatività del contratto tra le sole parti posto dall’art. 1372 c.c. Da qui la necessità di ricostruire la responsabilità del secondo acquirente, secondo l’orientamento che è di fatto prevalso, in termini di responsabilità aquiliana15, discendente dalla compartecipazione consapevole all’inadempimento dell’alie‑ nante. Si trova infatti ripetutamente affermato in giurispru‑ denza il principio del concorso, nella fattispecie in esame, della responsabilità contrattuale del venditore e della re‑ sponsabilità extracontrattuale del secondo acquirente: la tutela giudiziaria del primo acquirente nei confronti del secondo avente causa riposa sulla prova dell’esistenza tra i protagonisti della seconda negoziazione di una dolosa preordinazione rivolta al fine di frodare le ragioni del pri‑ mo acquirente, o, quantomeno, della consapevolezza in capo al secondo acquirente di cooperare nell’inadempimen‑ to del primo alienante16 (sembrerebbe dunque richiedersi, sul piano dell’elemento psicologico, qualcosa in più della mera consapevolezza dell’esistenza di una precedente ne‑ goziazione). Ciò posto, e venendo alla disamina degli strumenti di tutela esperibili dal primo acquirente, nessun dubbio sussi‑ stendo circa la possibilità di agire per ottenere il risarcimen‑ to del danno da inadempimento contrattuale nei confronti 15 La prima pronuncia della Suprema Corte in tal senso, che non affronta ancora compiutamente il tema dell’elemento psicologico che deve assistere la condotta del secondo alienante è la sentenza della sezione III n. 76 del 8 gennaio 1982: “L'acquirente di un immobile, il quale, pur conoscendo l'avvenuta vendita dello stesso bene effettuata dal proprio alienante, nonché la mancata trascrizione del relativo contratto da parte del com‑ pratore, determini, mediante la trascrizione del suo titolo, la inopponibil‑ ità a sé del pregresso trasferimento, risponde dei danni subiti dal primo acquirente, a norma dell'art. 2043 cod. civ., in quanto pone in essere, in violazione delle norme di correttezza, una condotta di cosciente cooper‑ azione nell'inadempimento dello alienante verso tale primo acquirente, implicante la definitiva perdita dei diritti allo stesso derivanti dal prece‑ dente contratto. (contra 1983/76, mass n 380800; (contra 942/60; (con‑ tra 1293/52)”. 16 In termini: “La responsabilità contrattuale può concorrere con quella extra‑ contrattuale allorquando il fatto dannoso sia imputabile all'azione o all'omis‑ sione di più persone tutte obbligate al risarcimento del danno correlato al loro comportamento, sicché in ipotesi di vendita a terzi di un immobile in violazione dell'obbligo contrattualmente assunto dal venditore nei confron‑ ti del precedente acquirente, si determina la responsabilità contrattuale dell'alienante, mentre la responsabilità del successivo acquirente rimasto estraneo al primo rapporto contrattuale, può configurarsi soltanto sul piano extracontrattuale quando trovi fondamento non in una mera consapevolez‑ za della precedente vendita, ma in una dolosa preordinazione volta a froda‑ re il precedente acquirente o almeno nella compartecipazione all'inadempi‑ mento dell'alienante in virtù dell'apporto dato nel violare gli obblighi assun‑ ti nei confronti del primo acquirente al quale incombe l'onere della relativa prova” Cass., sez. II, 25 maggio 2001, n. 7127; “La responsabilità contrat‑ tuale può concorrere con quella extracontrattuale allorquando il fatto dan‑ noso sia imputabile all'azione o all'omissione di più persone tutte obbligate al risarcimento del danno correlato al loro comportamento, sicché in ipote‑ si di vendita a terzi di un immobile in violazione dell'obbligo contrattual‑ mente assunto dal venditore nei confronti del precedente acquirente, la re‑ sponsabilità contrattuale dell'alienante può concorrere con quella extracon‑ trattuale del successivo acquirente quanto il danneggiato provi o la dolosa preordinazione volta a frodarlo o comunque la compartecipazione all'ina‑ dempimento dell'alienante in virtù dell'apporto dato nella violazione degli obblighi assunti nei confronti del primo acquirente” Cass., sez. III, 10 otto‑ bre 2008, n. 25016. c i v il e Gazzetta F O R E N S E dell’alienante e per ottenere il risarcimento del danno extra‑ contrattuale dal secondo acquirente, deve osservarsi che la giurisprudenza ammette anche l’esercizio dell’azione revo‑ catoria ordinaria ex art. 2901 c.c.: e difatti, il primo acqui‑ rente, allo scopo di non vedere pregiudicate le proprie ragio‑ ni risarcitorie in ragione dell’“uscita” dell’immobile oggetto di doppia negoziazione dal patrimonio dell’alienante, può chiedere che l’alienazione sia dichiarata inefficace nei suoi confronti17 (in sostanza, rimane comunque esclusa la possi‑ bilità per il primo acquirente di rientrare nella titolarità del bene: del resto, è stato in proposito condivisibilmente osser‑ vato che si è in presenza di un soggetto che, non provveden‑ do alla trascrizione del proprio acquisto – trascrizione che come si è in precedenza osservato è un onere ‑, ha comunque violato il principio di autoresponsabilità, di talché il risar‑ cimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. appare una so‑ luzione incompatibile con il sistema18). Il rimedio di cui all’art. 2901 c.c. suppone tuttavia, come noto, la ricorrenza di determinati presupposti sul piano soggettivo: in particolare, la norma richiede che il creditore, ove si tratti di atto a titolo oneroso, fornisca la prova del fatto che il terzo forse consapevole del pregiudizio arrecato nel porlo in essere, e, allorché il credito che si in‑ tende tutelare tramite l’esperimento dell’azione sia sorto posteriormente alla negoziazione della quale si vuole otte‑ nere la declaratoria di inefficacia, che si sia in presenza di una dolosa preordinazione fraudolenta. Ora, a ben vedere, nel caso di doppia alienazione immobiliare poiché il credito risarcitorio sorge allorché la seconda negoziazione viene trascritta, e dunque posteriormente alla negoziazione che si vuole revocare, compete al primo acquirente fornire la non semplice prova del dolo specifico (non essendo quindi in questo caso sufficiente la mera consapevolezza in capo al secondo acquirente di stare cooperando all’inadempimento dell’alienante). Da ultimo, si vuole segnalare che l’orientamento giuri‑ sprudenziale in punto di revocatoria ordinaria in caso di doppia alienazione immobiliare, è stato successivamente esteso anche alla diversa ipotesi della doppia donazione immobiliare19, nonché al caso della violazione da parte del 17 “Nell'ipotesi in cui un immobile venga alienato in tempi successivi a due diversi soggetti dei quali solo il secondo trascriva il proprio acquisto renden‑ dolo così opponibile al primo, quest'ultimo ha diritto al risarcimento del danno e, per conservare la garanzia relativa al proprio credito, può esercitare l'azione revocatoria della seconda alienazione; tuttavia, poiché la seconda alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascriz‑ ione), ai fini dell'accoglimento della revocatoria non è sufficiente la mera consapevolezza della precedente vendita da parte del secondo acquirente, ma è necessaria la prova della partecipazione di quest'ultimo alla dolosa preor‑ dinazione dell'alienante, consistente nella specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito” Cass., sez. II, 2 febbraio 2000, n. 1131. 18 Caringella, Studi di diritto civile, Milano, 2005. 19 Si fa riferimento alla sentenza della Suprema Corte, sez. II, 25 ottobre 2004 n. 20721, con la quale, nel confermare la decisione adottata in sede di ap‑ pello, la Corte ha affermato: “I giudici di secondo grado ritenevano che dalle prove acquisite risultava che effettivamente le appellate avevano agito al fine di pregiudicare i diritti della precedente donataria, per cui le conseguenze giuridiche dovevano essere quelle indicate dalla sentenza di questa S.C. in data 8 gennaio 1982 n. 76 (poi confermata dalla giurisprudenza successiva), secondo la quale l'acquirente di un immobile, il quale, pur conoscendo l'avvenuta vendita dello stesso bene effettuata dal proprio alienante, nonché la mancanza di trascrizione del relativo contratto da parte del compratore, determini, mediante la trascrizione del suo titolo, la inopponibilità a sé del pregresso trasferimento, risponde dei danni subiti dal primo acquirente, a Gazzetta F O R E N S E luglio • A G O S T O 2 0 1 3 45 norma dell'art. 2043 c.c., in quanto pone in essere, in violazione delle norme di correttezza, una condotta di cosciente cooperazione nell'inadempimento dell'alienante verso tale primo acquirente, implicando la perdita definitiva perdita dei diritti allo stesso derivanti dal precedente contratto. La Corte di appello di Brescia precisava che tale affermazione, formulata con riferi‑ mento all'ipotesi di due vendite successive, era valida anche nel caso di due donazioni successive, quando, come nella specie, la callida condotta del suc‑ cessivo donatario impedisce il perfezionarsi in capo al primo beneficiario degli effetti della donazione stipulata in suo favore, determinando così la definitiva perdita, per lo stesso, dei diritti derivanti dal primo contratto”. 20 In proposito: “Il promissario acquirente di un bene immobile può proporre l'azione revocatoria nei confronti del promittente venditore, ove quest'ulti‑ mo, prima della stipula del contratto definitivo, si spogli della proprietà dell'immobile promesso in vendita, con atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica dell'ob‑ bligo di contrarre. In tal caso, tuttavia, l'azione revocatoria non può avere per effetto di far acquistare all'attore la proprietà dell'immobile, come una sorta di risarcimento in forma specifica, ma solo la più limitata finalità di garantirgli il risarcimento del danno patito in conseguenza dell'inadempi‑ mento del promittente venditore” Cass., sez. II, febbraio 2011, n. 2426, nonché Cass., sez. III, del 10 ottobre 2008, n.25016; e ancora: “In tema di azione revocatoria ordinaria (art. 2901 cod. civ.), proposta dal promitten‑ te‑acquirente in riferimento al contratto di compravendita con il quale il promittente‑venditore ha alienato il bene oggetto del preliminare ad un di‑ verso soggetto e sul presupposto che detto contratto sia pregiudizievole della garanzia per il credito da risarcimento del danno per inadempimento del preliminare, la prova che l'acquirente dell'immobile era a conoscenza dell'avvenuta stipula del precedente contratto preliminare, da sola, non permette di ritenere dimostrata la sussistenza del "consilium fraudis"”. Cass., sez. III, 22 marzo 2007, n. 6962. civile promittente venditore degli obblighi scaturenti dal contrat‑ to preliminare mediante alienazione ad un terzo del mede‑ simo bene già promesso in vendita 20. 46 D i r itto ● Rassegna di legittimità ● A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli e p r o c e du r a c i v il e Gazzetta F O R E N S E Assicurazione – Assicurazione obbligatoria r.c.a. – Assicurato tra‑ sportato – Danno alla persona – risarcimento a carico del proprio assicuratore – Spettanza Alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 1o dicembre 2011, Churchill Insurance/Wilkinson), si afferma che, sulla base del principio solidaristico “vulnera‑ tus ante omnia reficiendus”, il proprietario trasportato ha diritto, nei confronti del suo assicuratore r.c.a., al risarcimen‑ to del danno alla persona causato dalla circolazione non ille‑ gale del mezzo, essendo irrilevante ogni vicenda normativa interna e nullo ogni patto che condizioni la copertura del trasportato all’identità del conducente (“clausola di guida esclusiva”). Cass. civ., sez. III, 30 agosto 2013, n. 19963 Pres. Berruti, Est. Petti Contratto in generale – Risoluzione del contratto per inadempi‑ mento – Domanda proposta nel giudizio iniziato per l’adempimen‑ to – Estensione al risarcimento del danno – (In)Ammissibilità La Seconda Sezione Civile ha rimesso al Primo Presiden‑ te, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ricorso concernente la questione, oggetto di contrasto, se la parte che chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento possa domandare anche il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1453, primo comma, cod. civ., o se ne sia impedita dal divieto di “mutatio libelli”. Cass. civ., sez. II, ord. interlocutoria 09 agosto 2013, n. 19148 Pres. Est. Mazzacane Diritto alla riservatezza – Accesso a siti pornografici sul luogo di lavoro – Dati personali sensibili – Inclusione Costituiscono dati personali sensibili, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 196 del 2003, in quanto idonei a rivelare la vita sessuale dell’interessato, quelli relativi alla navigazione in internet con accesso a siti pornografici (nella specie, oggetto di contestazione in sede disciplinare ad un dipendente da parte del datore di lavoro). Cass. civ., sez. I, sentenza 1 agosto 2013, n. 18443 Pres. Salmè, Est. Didone Equa riparazione – Domanda di mediazione – Effetto interruttivo del termine di prescrizione ex Legge Pinto – Sussistenza Alle controversie relative alla domanda di equa riparazio‑ ne, in quanto vertenti su diritti patrimoniali e disponibili ai sensi dell’art. 2, primo comma, del d.lgs. n. 28 del 2010, può applicarsi la disciplina della mediazione. L’istanza di media‑ zione nei sei mesi di proponibilità della domanda impedisce per una sola volta la decadenza dal diritto di agire e, se il tentativo di conciliazione fallisce, consente che la domanda sia proposta entro il medesimo termine di decadenza, decor‑ rente dal deposito del verbale negativo di conciliazione presso la segreteria dell’organismo. Cass. civ., sez. Un., 22 luglio 2013, n. 17781 Pres. Trifone, Est. Forte Giudizio di cassazione – Ricorso – Vizio di omessa pronuncia – In‑ dicazione di un motivo erroneo ex art. 360, comma 1, c.p.c. – Inammissibilità del ricorso – Limiti F O R E N S E luglio • A G O S T O Il ricorso per cassazione va dichiarato inammissibile, allorché il ricorrente, nel lamentare l’omessa pronuncia in ordine ad una delle domande od eccezioni formulate, non solo menzioni un motivo non pertinente ed ometta di men‑ zionare quello di cui all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., in relazione all’art. 112 cod. proc. civ., ma sosten‑ ga altresì che la motivazione sia stata omessa o sia insuffi‑ ciente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge; mentre il ricorso resta ammissibile, qualora comunque il motivo, pur senza richiamare il n. 4, faccia inequivocabil‑ mente riferimento alla nullità della decisione derivante dall’omissione. Cass. civ., sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931 Pres. Miani Canevari, Est. L. Piccialli Procedimento prefallimentare – Cancellazione dal registro delle imprese del creditore istante – Conseguenze – Preclusione dell’av‑ vio del procedimento – Fondamento. Deve essere precluso l’avvio del procedimento prefalli‑ mentare dalla carenza ab origine dello stesso soggetto istan‑ te, allorché la società creditrice si sia già estinta in conseguen‑ za della sua cancellazione dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003, situazione rilevabile in via officiosa anche in sede di reclamo, in quanto attinente alla sussistenza dell’indispensabile iniziativa di parte per la di‑ chiarazione di fallimento. Cass. civ., sez. I, 04 luglio 2013, n. 16751 Pres. Rordorf, Est. Di Virgilio Risarcibilità del danno parentale – Attinenza all’ordine pubblico internazionale – Fondamento – Conseguenze. Il principio di risarcibilità del danno morale da uccisione del congiunto, attenendo alla tutela dei diritti fondamentali della persona, appartiene all’ordine pubblico internazionale, sicché non può trovare applicazione nell’ordinamento italia‑ no la norma straniera – quale l’art. 1327 c.c. austriaco – che tale risarcibilità escluda. Cass. civ., sez. III, sentenza 22 agosto 2013, n. 19405 Pres. Berruti, Est. Vincenti 2 0 1 3 47 Società – Aumento di capitale – Conferimento – Simulazio‑ ne – Configurabilità – Esclusione La Prima Sezione Civile della Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata in applicazione dei seguenti principi di diritto: a) il conferimento in una società capitali‑ stica già costituita è un atto con il quale il socio o il terzo, sul presupposto di una deliberazione di aumento del capitale sociale, approvata dall’organo competente della società, re‑ alizza la sua volontà di partecipare o, se già socio, di aumen‑ tare il valore della sua partecipazione alla medesima società e trova nel collegamento essenziale con quella deliberazione la sua causa negoziale, sicché le condizioni di validità del conferimento sotto il profilo della sussistenza della volontà non possono essere esaminate indipendentemente da quelle della deliberazione medesima; b) in tema di aumento di ca‑ pitale deliberato dall’assemblea di una società capitalistica, non è configurabile la simulazione del conferimento in forza di un accordo simulatorio concluso tra il conferente e l’am‑ ministratore della società, che, anche qualora sia delegato al compimento delle operazioni necessarie all’esecuzione della deliberazione, non avendo poteri legali di rappresentanza della società medesima negli atti di gestione attinenti all’or‑ ganizzazione della società, non è legittimato a rappresentar‑ la nella stipulazione di accordi diretti a simulare i conferi‑ menti. Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2013, n. 17467 Pres. Rordorf, Est. Ceccherini Tributi – Statuto del contribuente – Avviso di accertamento – Ter‑ mine dilatorio – Inosservanza – Conseguenze L’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’eman azione dell’avviso di accertamento, previsto dall’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, decorrente dal rilascio al contribuente della copia del proces‑ so verbale di chiusura delle operazioni, comporta l’illegitti‑ mità dell’atto impositivo emesso ante tempus, salvo che ri‑ corrano specifiche ragioni di urgenza. Cass. civ., sez. Un., 29 luglio 2013, n.18184 Pres. Luccioli, Est. Virgilio civile Gazzetta 48 D i r itto ● Rassegna di merito ● A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa Avvocati e p r o c e du r a c i v il e Gazzetta F O R E N S E Delibera di revoca e nomina del nuovo amministratore – Iscrizione nel Registro delle Imprese – Illegittimità del diniego – Contenuti e limiti del controllo formale Il Conservatore è tenuto all’iscrizione della deliberazione di revoca e nomina di amministratore ai sensi degli artt. 2463, 2329 e 2330 c.c. previo esercizio del solo controllo di regola‑ rità formale. Il controllo di regolarità sostanziale è demanda‑ to alla valutazione degli arbitri e/o dell’autorità giudiziaria, laddove le parti non compongano altrimenti la lite. Per rego‑ larità formale si deve intendere il controllo sui soli requisiti formali dell’atto (competenza dell’ufficio, provenienza e cer‑ tezza giuridica della sottoscrizione, riconducibilità dell’atto iscrivendo al tipo legale, legittimazione alla presentazione dell’istanza di iscrizione, etc.), salvo che l’illiceità dell’atto comprometta la riconducibilità al “tipo” giuridico di atto iscrivibile. Trib. Napoli, sentenza 27 giugno 2013 Giud. U. Macrì Finanziamento pubblico a sostegno dell’occupazione – Esecuzione del contratto di concessione – Natura del contratto di concessio‑ ne – Dimissioni volontarie del terzo beneficiario – Inadempimen‑ to parziale incolpevole. a) I contratti di concessione […] prevedono, altresì, in capo al soggetto attuatore – finanziato una ulteriore obbliga‑ zione quella del mantenimento dei livelli occupazionali degli allievi formati ed assunti. Oggetto del finanziamento è un fare: l’attuatore – finanziato è obbligato, per attuare il fine, a costituire un rapporto di lavoro […]. b) Lo schema contrattuale utilizzato può essere ricondot‑ to allo schema del contratto a favore del terzo ex art. 1411 c.c. dove lo stipulante (Ente pubblico) ha affidato al promit‑ tente (società privata) la realizzazione di un corso di forma‑ zione professionale a favore di soggetti disoccupai, obbligan‑ do nel contempo il soggetto attuatore a stipulare con i sogget‑ ti formati un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ne consegue che lo stipulante, dal momento che gli allievi (terzi beneficiari) hanno approfittato dell’attività formativa realiz‑ zata dal promittente, non può revocare (rectius recedere) il contratto stipulato in quanto ex art. 1411, II comma, secon‑ da parte, c.c., la stipulazione […] può essere revocata o mo‑ dificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente, di volerne profittare. c) Se il terzo – lavoratore non volesse essere assunto o se assunto rassegnasse volontariamente le proprie dimissioni, non potrà certo ritenersi che l’attuatore – finanziatore sia inadempiente. Se il fatto del terzo potesse assurgere a causa di risoluzione colpevole del contratto, lo stesso, diverrebbe, non un contratto sinallagmatico, ma un contratto aleatorio estremamente rischioso. Trib. Napoli, sez. X, sentenza 22 maggio 2013 Giud. C. d’Ambrosio Impugnazione del licenziamento illegittimo – Competenza terri‑ toriale – Prestazione lavorativa del dipendente presso la propria abitazione – Configurabilità della “dipendenza aziendale” – Pre‑ minenza dell’elemento soggettivo a) Il concetto di dipendenza aziendale, cui fa riferimento l’art. 413 c.p.c., alla quale è addetto il lavoratore deve essere interpretato in senso estensivo come articolazione della or‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O ganizzazione aziendale (dipendenza) nella quale il dipenden‑ te lavora (addetto), che può anche coincidere con la sua abitazione se dotata di strumenti di supporto dell’attività lavorativa. Tuttavia l’interpretazione estensiva non può spingersi sino ad identificare la dipendenza con un luogo in ragione del fatto che al lavoratore siano stati assegnati un’au‑ tovettura aziendale, un cellulare, ed un fax. Tali beni pre‑ scindono dal collegamento con un dato luogo, mentre il fax, da solo, è dotazione veramente troppo esigua, per identifi‑ care nella abitazione del lavoratore una dipendenza azien‑ dale. b) Il punto essenziale e discriminante è costituito dalla circostanza che sia stato l’imprenditore a procedere alla de‑ stinazione aziendale, nel senso che egli, per sua consapevole scelta abbia indirizzato un pur modesto complesso di beni di sua o di altrui proprietà all’esercizio dell’attività imprendito‑ riale, ivi collocando il lavoratore per lo svolgimento dell’at‑ tività concordata. Per definizione, infatti, la caratterizzazio‑ ne di “bene aziendale” è estensibile solo a quei beni che siano stati individuati come tali dall’imprenditore. Trib. Napoli, Sez. II Lav., ordinanza 04 luglio 2013 Giud. U. Lauro Opposizione ad esecuzione – Scissione parziale – Responsabilità solidale sussidiaria della società beneficiaria – Mancata opposi‑ zione del creditore ex art. 2503 c.c. – Effetti – Inopponibilità del titolo esecutivo al debitore solidale a) In caso di scissione parziale degli elementi del passivo, la cui destinazione non è desumibile dal progetto, rispondo‑ no in solido la società scissa e le società beneficiarie. La re‑ sponsabilità solidale è limitata al valore effettivo del patri‑ monio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria; le altre società, diverse dalla scissa, rispondono comunque solo in via sussidiaria, ove la società preventivamente escussa non abbia adempiuto. b) L’opposizione di cui all’art. 2503 c.c. non comporta, normalmente, profili di invalidità (annullamento‑nullità) dell’atto impugnato (perché non vengono dedotte ragioni di un suo contrasto con norme di legge o di statuto), quanto profili di mera inefficacia dell’atto stesso, sul presupposto che esso possa pregiudicare le garanzie di soddisfacimento del creditore medesimo: per questa ragione le applicabili disposizioni di legge (artt. 2303, comma 1, e 2445, u.c., c.c.) prevedono che l’opposizione del creditore possa rilevare non alla stregua del‑ la validità dell’atto impugnato, bensì solo sotto il profilo della 2 0 1 3 49 sua attuabilità. Pertanto in caso di mancata proposizione del creditore ci si trova di fronte ad una scissione parziale dell’ori‑ ginaria debitrice di segno definitivo ed efficace. c) L’art. 1306, primo comma, c.c. stabilisce che la senten‑ za pronunciata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori, costituendo in realtà una applicazione del principio generale stabilito dall’art. 2909 c.c. secondo cui il giudicato ha effetto solo tra le parti, i loro eredi e aventi causa, con la conseguenza che i condebitori che non hanno partecipato al giudizio avrebbero di fronte al giudicato veste di terzi, sia nei confronti del credi‑ tore sia nei confronti del coobbligato che agisca in regresso. Trib. Napoli, sez. dist. Portici, ordinanza 12 giugno 2013 Giud. E. Quaranta Società cooperativa – Licenziamento collettivo – Inconvertibilità in licenziamento individuale – Inosservanza procedura ammini‑ strativa ex art. 4 legge n. 223/1991 – Inapplicabilità dell’art. 18 legge 300/1970 a) Dopo l’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al control‑ lo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione impren‑ ditoriale di ridimensionamento dell’azienda. Ne deriva che, qualora il datore di lavoro il quale occupi più di 15 dipen‑ denti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro, almeno 5 licenziamen‑ ti nell’arco di 120 giorni, (il predetto) è tenuto all’osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irri‑ levante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione delle procedure medesime sia eventualmente inferiore, così com’è inammissibile la “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale. b) L’omissione della procedura amministrativa comporta l’inefficacia del recesso collettivo intimato. A tale inefficacia, non consegue, tuttavia, l’applicazione dell’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, nel caso in cui il lavoratore contestual‑ mente al licenziamento perda anche la qualità di socio. Trib. Napoli, Sez. II Lav., ordinanza 04 luglio 2013 Giud. U. Lauro civile Gazzetta 50 D i r itto e p r o c e du r a In evidenza CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III CIVILE, sentenza 22 marzo 2013, n. 7273 Pres. Finocchiaro, Rel. Vivaldi Contratto di assicurazione e clausola “claims made” – Atipicità ex art. 1322 c.c. – Carattere vessatorio o meno della clausola “claims made” ex art. 1341 c.c. – Validità ed efficacia della stessa – Deroga all’art. 1917 c.c. I comma – Clausole “claims made” e “loss occur‑ rence”: rischio assicurato (oggetto del contratto) – Clausola “claims made” “pura” e “mista”. La clausola cosiddetta “a richiesta fatta” (“Claims ma‑ de”) inserita in un contratto di assicurazione della responsa‑ bilità civile (in virtù della quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula, se per essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata stipulata l’assicurazione) è valida ed efficace, mentre spetta al giudice stabilire, caso per caso, con valutazione di merito, se quella clausola abbia n atura vessatoria ai sensi dell’art. 1341 cod. civ. Il contratto di assicurazione della responsabilità civile con clausola “claims made” non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917 c.c. ma costi‑ tuisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322 c.c. (1) Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7273. (Omissis) Svolgimento del processo S.M.C. convenne, davanti al tribunale di Crotone, l’avv. R.F. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per Gazzetta F O R E N S E responsabilità professionale, con riferimento ad una procedu‑ ra esecutiva immobiliare dichiarata estinta a causa dell’inter‑ venuta prescrizione del diritto di credito vantato dall’attrice nei confronti degli eredi di F.F.. Il convenuto, costituitosi, contestò il fondamento della domanda ed estese il contraddittorio nei confronti della Ita‑ liana Assicurazioni spa al fine di essere garantito in forza di polizza per la responsabilità civile professionale. Quest’ultima, costituitasi, eccepì l’inoperatività della ga‑ ranzia assicurativa. Il tribunale, con sentenza del 18.5.2005, condannò il con‑ venuto al risarcimento dei danni, e la Italiana Assicurazioni spa a tenere indenne lo stesso per gli importi cui era stato condannato. Proposero appelli, principale S.M.C. ed incidentale la Compagnia di assicurazioni. Si costituì, ma tardivamente, anche il R. che contestò la propria responsabilità. La Corte d’Appello, con sentenza del 24.1.2011, in parzia‑ le riforma della sentenza impugnata, condannò l’appellato alla corresponsione di maggiori somme in favore della S. e rigettò la domanda di manleva nei confronti della Italiana Assicurazioni spa. L’avv. R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Resistono con controricorsi la S. e la società Italiana As‑ sicurazioni spa. Il R. e l’Italiana Assicurazioni spa hanno anche presentato memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1917 c.c. e omessa motivazione Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto (Avvocato) (1) La sentenza in commento si inserisce nel dibattito giurisprudenziale e dottrina‑ le che si protrae da lungo tempo circa la valutazione delle clausole c.d. “Claims made” (“a richiesta fatta”) – molto diffuse nei contratti di matrice america‑ na – le quali, inserendosi nell’ambito dei contratti di assicurazione della respon‑ sabilità civile, hanno gradualmente preso il posto delle precedenti, tradizionali clausole c.d. “Loss occurrence” (“insorgenza del danno”), fondate sul disposto dell’art. 1917 primo comma c.c. In primo luogo bisogna rilevare che la differenza sostanziale fra le clausole fa‑ centi parte del sistema del “Losses occurring” e quello del “Claims made” ri‑ guarda il rischio assicurato, ossia l’oggetto del contratto di assicurazione della responsabilità civile, in quanto, le clausole afferenti al primo sistema, basando‑ si sul disposto dell’art. 1917 primo comma c.c., prevedono che l’assicuratore sia obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare ad un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto, mentre, in virtù delle clausole “claims made”, l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula del contratto di assicurazione, se per essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata stipulata l’assicurazione. A tal proposito la giurisprudenza si è dibattuta circa la atipicità o meno ex art. 1322 c.c. dei contratti di assicurazione conte‑ nenti la clausola “claims made” – vista l’evidente deroga che gli stessi pongono in essere rispetto all’art. 1917 primo comma c.c. – giungendo nel tempo a dif‑ ferenti valutazioni. Infatti, un primo orientamento giurisprudenziale ha ritenu‑ to che la clausola in questione fosse oltre che valida anche tipica, in quanto oggetto del trasferimento del rischio resta sempre e comunque la condotta non dolosa dell’assicurato, pur rimborsabile solo se la richiesta di risarcimento pervenga per la prima volta durante la vigenza della polizza (ex plurimis: Tri‑ bunale di Milano, 18.03.2010 n. 3527), mentre un secondo, maggioritario orientamento, cui aderisce anche la sentenza da noi esaminata, ritiene che la clausola “claims made” non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322 c.c., giacché, del suddetto art. 1917 c.c., l’art. 1932 c.c. prevede l’inderogabilità – se non in senso più favorevole all’assicurato – del terzo e del quarto comma, ma c i v il e non anche del primo (principio affermato da: Cass. Civ. Sez. III, 15.03.2005, n. 5624). Con la clausola “claims made”, pertanto, assicuratore e assicurato pervengono a una definizione convenzionale della nozione di sinistro rilevante ai fini dell’art. 1917 primo comma c.c., che coincide con la richiesta di risarci‑ mento del danno avanzata dal terzo e non più quindi – come previsto dal tra‑ dizionale sistema del “losses occurring” – col comportamento del danneggian‑ te‑assicurato generativo della responsabilità (in tal senso. App. Roma Sez. III, 22.03.2011 – Tribunale di Novara, 13.06.2011). La sentenza esaminata si pone poi dinanzi alla questione riguardante la vessa‑ torietà o meno della clausola “claims made”, in merito alla quale, anche in tal caso, la giurisprudenza si è evoluta. È necessario a tal proposito evidenziare preliminarmente che vi è una differenza tra clausola “claims made” “pura” e “mista”, in quanto, la clausola claims made “pura” consiste nell’assunzione da parte dell’assicuratore dell’obbligo di tenere indenne l’assicurato dalle ri‑ chieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il contratto, prescindendo dal periodo in cui si è verificato il fatto da cui trae origine la richiesta di risarcimento del danneggiato, mentre la clausola claims made “mista”, prevede che l’assicuratore è tenuto a manlevare i sinistri denun‑ ciati dall’assicurato durante il periodo di efficacia della polizza, sebbene pos‑ sano essersi verificati anteriormente alla sua stipulazione, ma comunque, non oltre un certo periodo di tempo espressamente indicato nello stesso contratto di assicurazione per la responsabilità civile professionale. Proprio quest’ultima fattispecie, in base alla quale la copertura assicurativa viene estesa a ritroso nel tempo, anche per i sinistri verificatisi prima della stipulazione della polizza, con riferimento però ad un determinato periodo temporale di accadimento del fatto, viene considerata da gran parte della giurisprudenza una clausola vessa‑ toria ai sensi dell’art. 1341 c.c., in quanto la stessa determina una limitazione per l’assicuratore dell’area di responsabilità del rischio assicurato, senza una adeguata contropartita per l’assicurato; la stessa sarà valida ed efficace solo ove specificamente approvata per iscritto (ex plurimis: Tribunale di Bari, 12.07.2012 – Tribunale di Milano, 18.03.2010 n. 3527 – Cass. Civ. Sez. III, 15.03.2005 n. 5624). La sentenza in commento, aderendo al suddetto, mag‑ gioritario orientamento giurisprudenziale, statuisce inoltre che spetta al giudi‑ ce di merito accertare, caso per caso, se la clausola “a richiesta fatta”, riducen‑ do l’ambito oggettivo della responsabilità dell’assicuratore, fissato dall’art. 1917 c.c., configuri o meno una clausola vessatoria ai sensi dell’art. 1314 c.c. F O R E N S E luglio • A G O S T O sull’appello incidentale proposto dalla Italiana Assicura‑ zioni spa nella parte in cui è stata contestata la responsa‑ bilità professionale del convenuto (art. 360 c.p.c., com‑ ma 1, nn. 3 e 5). Il motivo non è fondato. In materia di procedimento civile, si ha garanzia propria quando la domanda principale e quella di garanzia hanno lo stesso titolo, o quando si verifica una connessione obiettiva tra i titoli delle due domande, o quando sia unico il fatto ge‑ neratore della responsabilità prospettata con l’azione princi‑ pale e con quella di regresso. Si ha, invece, garanzia impropria quando il convenuto tende a riversare sul terzo le conseguenze del proprio inadem‑ pimento o, comunque, della lite in cui è coinvolto, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principa‑ le (Cass. 29.7.2009 n. 17688; Cass. ord. 24.1.2007 n. 1515; Cass. 30.9.2005 n. 19208). Ora, nel caso in esame, è evidente che il titolo delle do‑ mande proposte sia diverso. La prima, quella di risarcimento dei danni proposta dalla S. nei confronti del R., attiene alla responsabilità professio‑ nale del legale, mentre quella in base alla quale quest’ultimo ha convenuto in giudizio la sua compagnia di assicurazione è fondata sul contratto di assicurazione. Peraltro, a questa conclusione, che comporterebbe l’infon‑ datezza del motivo, se ne deve anteporre un’altra di per sè logicamente pregiudiziale. L’Italiana Assicurazioni, infatti, – che ha proposto appel‑ lo incidentale in ordine alla contestata operatività della ga‑ ranzia assicurativa, – non ha contestato l’accertamento della responsabilità effettuata dal primo giudice chiedendo, nella conclusioni rassegnate nel giudizio di appello, “confermare parzialmente la sentenza del Tribunale di Crotone nella parte in cui afferma la responsabilità dell’Avv. R. e lo condanna al risarcimento dei danni a favore di S.M.”. Ora, l’appello incidentale sul punto della responsabilità proposto dal R., è stato dichiarato inammissibile, perché tardivo, dalla Corte di merito; ed una tale statuizione non è stata oggetto di impugnazione da parte dell’attuale ricorren‑ te. Ne deriva che si è formato il giudicato sul rapporto prin‑ cipale e sulla responsabilità, riconosciuta, del professionista; ragion per cui è ininfluente – pur avendo visto ricorrere un’ipotesi di garanzia impropria ù discutere della natura della garanzia. Con il secondo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione rivolta alla decisione di primo grado in merito al criterio di valutazione del danno risarcibi‑ le (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e in‑ sufficiente e contraddittoria motivazione nella valutazione del danno risarcibile (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). I due motivi, per l’evidente connessione delle censure con gli stessi proposte, sono esaminati congiuntamente. Essi non sono fondati. L’inadempimento dell’odierno ricorrente – come ricono‑ sciuto correttamente dalla sentenza impugnata – riguarda, non solo l’estinzione della procedura esecutiva promossa, ma anche la perdita del diritto riconosciuto dalla sentenza – per la sua prescrizione – e quindi l’actio iudicati. 2 0 1 3 51 Con accurata motivazione, la Corte di merito ha sottoli‑ neato che “il diritto della S., accertato con una sentenza passata in giudicato, qualora non fosse stato soddisfatto com‑ pletamente nell’esecuzione dichiarata estinta, avrebbe comun‑ que continuato ad esistere per il residuo. Infatti, l’eventuale esecuzione non completamente satisfattiva costituisce, a sua volta, un’ipotesi di estinzione parziale del diritto stesso, che, per la parte restante, continua così ad esistere fino al paga‑ mento integrale, qualora non si estingua per altre cause. Nel caso di specie, la condotta del professionista ha determinato la totale estinzione del diritto della S.; ed il danno che ne deriva come conseguenza immediata e diretta corrisponde ad una somma pari all’entità del credito estinto. Ciò che si è estinto è il diritto riconosciuto dalla sentenza e la conseguente actio judicati”. E, su tale base, ha provveduto alla liquidazione. Trattasi di motivazione ineccepibile. Non sussiste alcun vizio motivazionale. Piuttosto, con la censura proposta, il ricorrente auspica una diversa – e non consentita – valutazione e liquidazione del danno in questa sede. Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge ed errata determinazione degli interessi e della rivalutazione monetaria in contrasto con il costante orientamento della Suprema Corte (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, art. 361 bis c.p.c. (rectius art. 360 bis c.p.c.)). Il motivo non è fondato. A seguito dell’intervenuta prescrizione del diritto, produt‑ tivo in tale momento, di un danno risarcibile, il credito di valuta della S. nei confronti dei F. si è estinto ed, al suo posto, è intervenuto il diritto al risarcimento del danno nei confron‑ ti dell’avv. R.; debito questo di valore (v. anche Cass. 3.8.2010 n. 18028; Cass. 3.3.2009 n. 5054); Cass. 10.3.2006 n. 5234). Corretta, quindi, la liquidazione di interessi e rivalutazio‑ ne della somma, come effettuata dalla Corte di merito. Con il quinto motivo si denuncia violazione di legge ed insufficien‑ te e contraddittoria motivazione nella parte in cui è stato escluso l’obbligo di manleva della Compagnia Italiana di Assicurazioni spa (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Il ricorrente sottolinea che la polizza assicurativa dell’Ita‑ liana Assicurazioni prevedeva un regime di operatività c.d. claims made, in forza della quale ha rilevanza la data della richiesta risarcitoria indipendentemente dalla data dell’errore o della negligenza. Il motivo non è fondato. Sono principii affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di contratto di assicurazione della re‑ sponsabilità civile con clausola cosiddetto a richiesta fatta (claims made) – puntualmente riportati nella sentenza impu‑ gnata – i seguenti. Tale contratto non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, gene‑ ralmente lecito ex art. 1322 c.c., poiché, del suindicato art. 1917, l’art. 1932 c.c. prevede l’inderogabilità – se non in senso più favorevole all’assicurato – del terzo e del quarto comma, ma non anche del primo, in base al quale l’assicura‑ tore assume l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare ad un terzo in conseguenza di tutti i fatti (o sinistri) accaduti durante il tempo dell’assicurazione, di cui civile Gazzetta 52 D i r itto e p r o c e du r a il medesimo deve rispondere civilmente, per i quali la connes‑ sa richiesta di risarcimento del danno, da parte del danneg‑ giato, sia fatta in un momento anche successivo al tempo di efficacia del contratto, e non solo nel periodo di efficacia cronologica del medesimo. Ciò che si desume da un’interpre‑ tazione sistematica che tenga conto anche del tenore degli artt. 1917, 1913 e 1914 c.c., i quali individuano l’insorgenza della responsabilità civile nel fatto accaduto. Nè, al riguardo, assume rilievo l’art. 2952 c.c., relativo alla richiesta di risarcimento fatta dal danneggiato all’assicu‑ rato o alla circostanza che sia stata promossa l’azione, trat‑ tandosi di norma con differente oggetto e diversa ratio, volta solamente a stabilire la decorrenza del termine di prescrizione dei diritti dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore. Infine, spetta al giudice di merito accertare, caso per caso, se la clausola “a richiesta fatta”, riducendo l’ambito oggettivo della responsabilità dell’assicuratore, fissato dall’art. 1917 c.c., configuri una clausola vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c. (così Cass. 15.3.2005 n. 5624). Questi principii, però, relativi al regime di operatività della clausola c.d. claims made inserita nella polizza assicura‑ tiva, non rilevano, nel caso in esame, per le seguenti ragioni. Tale clausola contrattuale (art. 4 delle condizioni genera‑ li di polizza) – come ha correttamente rilevato la Corte di merito – attiene ad un profilo diverso da quello per il quale è stata eccepita l’inoperatività della polizza e relativo, quest’ul‑ timo, alle clausole contenute negli artt. 3 e 11 che pongono a carico dell’assicurato l’obbligo di rendere dichiarazioni com‑ plete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazio‑ ne del rischio al momento della sottoscrizione della polizza assicurativa. Queste clausole (artt. 3 e 11) sono state ritenute, dal giu‑ dice del merito, compatibili con quella c.d. a richiesta fatta (pag. 17 della sentenza), ma l’inoperatività della garanzia è stata affermata per la violazione proprio di dette clausole, e non sulla base di una non corretta valutazione di quella claims made. Ciò che conduce a ritenere ininfluenti le censure, sotto questo profilo, avanzate dal ricorrente. Peraltro, la Corte di merito ha chiaramente affermato le ragioni per le quali, nello specifico, ha ritenuto l’inoperatività Gazzetta c i v il e F O R E N S E della polizza assicurativa e ne ha dato ampia e precisa moti‑ vazione. Ha, infatti, affermato al riguardo che la polizza assicura‑ tiva stipulata dall’avv. R….. decorreva dal 1 giugno 1995 mentre i fatti e le circostanze che hanno cagionato un danno all’appellante si collocano temporaneamente alla data nella quale è stato stipulato il contratto. La procedura esecutiva promossa dalla S. era già stata dichiarata estinta il 27 settem‑ bre 1992 e risulta in atti che la S. aveva richiesto più volte all’assicurato avv. R. informazioni su tale procedura….; risul‑ ta, in particolare, che, nella nota 28.2.1994, la S. scriveva. Spero che nel frattempo il credito di cui sopra non sia caduto in prescrizione”. Concludendo “Ciò prova che lo stipulante Avv. R. quando sottoscrisse la polizza con l’Italiana Assicurazioni e, cioè in data 1.6.1995, era ben conscio che i danni per cui oggi si di‑ scute si erano già verificati e che, con notevole probabilità, sarebbe stato chiamato a risponderne”. Si tratta di accurata motivazione, totalmente condivisibile. Non senza evidenziare, ulteriormente, che in tema di contratto di assicurazione, la reticenza dell’assicurato è causa di annullamento negoziale quando si verifichino cumulativa‑ mente tre condizioni: a) che la dichiarazione sia inesatta o reticente; b) che la dichiarazione sia stata resa con dolo o colpa grave; c) che la reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore. Ed il giudizio sulla rilevanza delle dichiarazioni inesatte o sulla reticenza del contraente, implicando un apprezzamen‑ to di fatto, è riservato al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto se non sia sorretto da una motiva‑ zione logica, coerente e completa (v. anche Cass. 30.11.2011 n. 25582);motivazione, invece, per le ragioni già dette, cor‑ retta e puntuale. Conclusivamente, il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo in favore di ciascuna delle resistenti, sono poste a carico del ricorrente. PQM (Omissis) F O R E N S E luglio • A G O S T O In evidenza TRIBUNALE DI NAPOLI, SEZIONE X CIVILE, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114 Danno da “nascita indesiderata” – “Wrongful birth” e “wrongful life” – Mancata corretta diagnosi ecografica – Risarcimento del danno in capo al padre ed ai fratelli/sorelle del bambino nato malformato – Liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimo‑ niali in base a “criterio equitativo”– Onere della prova – Diritto all’informazione ed all’autodeterminazione – Profili comparati‑ stici e “biodiritto” La nascita indesiderata di un bambino malformato, con‑ seguente ad imperizia del medico per mancata corretta dia‑ gnosi ecografica, incide sul diritto alla autodeterminazione della donna, ovvero sul diritto della gestante di esercitare pratiche interruttive della gravidanza nei termini legislativa‑ mente previsti nonché sul diritto all’informazione dei geni‑ tori. Il verificarsi dell’evento suddetto, in quanto determi‑ nante una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, determina la risarcibilità di un danno che va ben oltre quello alla salute in senso stretto della gestante. (1) Tribunale di Napoli, sez. X, sentenza 13 maggio 2013, n. 6114. (Omissis) Motivi della decisione In primis va esaminata l’eccezione di difetto di legittima‑ 53 zione della convenuta R. s.p.a., in quanto il sinistro de quo deve ritenersi non coperto dalla garanzia prestata dalla me‑ desima compagnia di assicurazione, ai sensi dell’art. 2 dell’ap‑ pendice di variazione (omissis) alla richiamata polizza n. (omissis) Ed invero, la prima richiesta di risarcimento danni veniva inoltrata dagli attori nei confronti della A. e del P.O. S.G.B. di Napoli soltanto in data (omissis) e, quindi, ben oltre i 24 mesi dalla scadenza della vigenza della garanzia assicurativa prestata dalla S.p.a. R. Ne discende ipso iure l’inoperatività, nel caso di specie, della garanzia assicurativa della R. s.p.a., che postula impre‑ scindibilmente il rigetto della domanda di manleva formulata dall’A. nei confronti della stessa. Nel merito, la domanda è fondata e va, pertanto, accolta. Ed infatti, il consulente tecnico d’ufficio ha riconosciuto la mancata rilevazione della patologia malformativa a carico dei ventricoli cerebrali a seguito dell’indagine ecografia effet‑ tuata dall’attrice in data (omissis) Il Prof. A. osserva: “…sono elevate le possibilità di diagno‑ sticare alcune delle malformazioni che fanno parte del firma‑ mento dell’oloprosencefalia, in particolare l’unicità dei ventri‑ coli cerebrali, la conseguente valutazione dell’agenesia del corpo calloso, l’assenza della scissura interemisferica anterio‑ re. Ove si fossero ricercate queste anomalie sarebbero state visibili già alla 21o settimana di gravidanza. L’ecografia mor‑ fologica classica, effettuata sulla gravidanza a basso rischio, avrebbe permesso, in quell’epoca di gravidanza, di sospettare queste anomalie. L’implementazione conseguente, con diffe‑ Nota redazionale a cura di Fabrizia Sabbatini (Dottoressa in Giurisprudenza) (1) La Sig.ra M. T., coniugata con il Sig. G. D.O., dava alla luce la piccola G. D.O., la quale, all’atto della nascita, risultava affetta da una gravissima forma di microcefalia misconosciuta durante tutta la gestazione e successivamente diagnosticata come “oloprosencefalia semibolare”. Alla ventunesima settima‑ na di gestazione la Sig.ra M.T. era stata sottoposta, presso il P.O. S.G.B., ad indagine ecografica, a seguito della quale, a detta degli specialisti della strut‑ tura ospedaliera, non emergevano anomalie nel decorso della gravidanza. L’omessa rilevazione della patologia malformativa a carico del feto ed il difetto di una diagnosi ecografica corretta avevano pertanto precluso alla Sig.ra M.T. di poter esercitare il diritto di aderire all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (I.V.G.) nei tempi previsti ex articolo 6 lett. b) della Legge n. 194/1978. Tale sentenza si inserisce nell’ampio dibattito esistente in materia fra gli ope‑ ratori – nazionali ed internazionali – del diritto, in quanto le problematiche inerenti alla materia del risarcimento del danno da “nascita indesiderata” non si arrestano al limite del puro tecnicismo giuridico ma si insinuano nell’ambi‑ to dell’etica, della morale, e con queste si fondono, sino ad arrivare a potersi inquadrare in quella nuova branca del diritto stesso che è il “biodiritto”. Numerose pertanto le domande che in questi anni si sono poste dottrina e giurisprudenza, nel tentativo di dirimere questioni che toccano simultaneamen‑ te le più alte sfere del diritto civile e le più alte sfere della morale umana. Quando scatta il risarcimento del danno da “wrongful birth” e quando quel‑ lo da “wrongful life”? Quali i soggetti che il nostro ordinamento ritiene in tal senso meritevoli di tutela? Quali tipi di danni possono essere accertati e rico‑ nosciuti mediante tale azione risarcitoria? Alla stregua di quale criterio devono essere liquidati? Quali i diritti che vengono lesi? E su quali soggetti grava l’onere probatorio? Altrettanto numerose le risposte della giurisprudenza più recente ed in parti‑ colare della sentenza che ci si accinge a commentare. In primis è possibile rilevare che tale sentenza, ritenendo la domanda attorea meritevole di accoglimento, riconosce il pieno diritto degli istanti al risarci‑ mento del danno da “nascita indesiderata” (c.d. wrongful birth), e pertanto, non solo alla madre del neonato nato malformato, ma anche al padre dello stesso, aderendo così al più recente orientamento giurisprudenziale che ha esteso anche a quest’ultimo tale tutela risarcitoria, al contrario di quanto av‑ venuto in passato, allorquando il padre risultava meritevole di un risarcimen‑ to del danno in maniera meramente “indiretta”, “riflessa”, a causa delle sof‑ ferenze patite dalla madre. In tal senso si è infatti ultimamente espressa la Suprema Corte affermando che: “La responsabilità sanitaria per omessa dia‑ 2 0 1 3 gnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre e ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la presta‑ zione è dovuta” (Cass. Civ. Sez. III, 02.10.2012, n. 16754); ed anche che “Fra l’ente ospedaliero e la gestante presso il quale questa si reca per svolgere ac‑ certamenti clinici concernenti la salute del feto s’instaura, in virtù del contatto sociale, un rapporto contrattuale che ha effetti protettivi sia verso la persona della madre che verso il padre del nascituro: pertanto, se dall’errore diagnosti‑ co commesso dal personale della struttura sanitaria deriva eziologicamente l’impossibilità per la madre di praticare un aborto terapeutico, entrambi i genitori potranno contrattualmente agire contro l’ospedale stesso per la refu‑ sione del danno da nascita indesiderata di un bambino malformato” (Cass. Civ. Sez. III, 30.11.2011, n. 25559); ed ancora che “In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente na‑ scita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo all’obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione…” (Cass. Civ. Sez. III, 04.01.2010, n. 13). Quest’ultima sentenza è difatti richiamata da quella del Tribunale di Napoli che qui si esamina e che ne abbraccia totalmente le motivazioni. È inoltre interessante rilevare come la S.C. abbia, sempre con recenti pronun‑ ce, esteso la platea dei soggetti meritevoli di tale tutela risarcitoria, oltre che ai genitori del nascituro, anche ai fratelli ed alle sorelle dello stesso, in ragione della futura, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, a causa del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché della diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi. In tal senso, ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III, 02.10.2012, n. 16754. La sentenza in esame, inoltre, condannando parte convenuta al risarcimento di tutti i danni patiti dagli istanti, liquida gli stessi secondo un “criterio equi‑ tativo puro”, aderendo anche in tal senso al più recente e diffuso orientamen‑ to della Suprema Corte e discostandosi così dai criteri tabellari (Tabelle del Tribunale di Milano) generalmente utilizzati ai fini della liquidazione di un risarcimento del danno non patrimoniale in materia di “responsabilità medica” in senso ampio. Quanto invece ai tipi di danni risarcibili è ormai pacifico che possano essere liquidati in tali casi tutti i danni patrimoniali – consistenti nei costi di manteni‑ mento del figlio non voluto e non solo del “differenziale” tra la spesa necessaria civile Gazzetta 54 D i r itto e p r o c e du r a c i v il e Gazzetta F O R E N S E renti approcci ecografici, utilizzando diverse sezioni dell’ence‑ falo ed anche un approccio trans vaginale, avrebbero permes‑ so di effettuare la diagnosi di malformazioni multiple”. Sulla base di quanto dedotto dal consulente tecnico d’uf‑ ficio, è evidente che alla 21o settimana di gestazione la dia‑ gnosi poteva essere correttamente effettuata, tramite indagine ecografia o transvaginale. La Sig.ra T. avrebbe potuto esercitare il diritto di sceglie‑ re se effettuare una I.V.G. nei tempi previsti dalla legge. Con specifico riferimento all’indagine ecografica effettua‑ ta dall’attrice in data (omissis) presso l’Ospedale S.G.B., va considerata la mancata rilevazione dei parametri, legata al diametro fronto‑occipitale della testa fetale e la conseguente mancata rilevazione della patologia malformativa a carico dei ventricoli cerebrali. Il consulente rileva che alla 21o settimana di gestazione la diagnosi poteva essere correttamente effettuata, ed in base ad essa, le gravissime patologie di cui è affetta la piccola G. puntualmente rilevate. A quella data di gestazione (21 settimana) sussistevano integralmente le condizioni giuridiche, affinché T.M., ove tempestivamente edotta delle malformazioni fetali, avrebbe davvero esercitato il diritto d’interrompere la gravidanza. La convenuta non ha fatto fronte all’onere probatorio sulla stessa gravante relativo ad elementi (nel caso degli atto‑ ri in ogni caso insussistenti) ambientali, culturali o di storia personale, idonei a corroborare l’ipotesi contraria all’interru‑ zione volontaria di gravidanza. Il dott. M. ha espresso nell’elaborato peritale le proprie considerazioni medico‑legali relative agli attori, T.M. e D.O.G. In entrambi i soggetti ha rilevato una sindrome di adattamento di grado moderato con note ansioso‑depressive, dichiarando: “Sono da configurare, per la presenza del quadro psichico testè considerato, postumi di carattere permanente, incidenti sull’integrità psicofisica (c.d. danno biologico), da valutare nella misura percentuale del 3% – 4% (tre – quattro per cento)”. Alla luce di quanto precede, gli attori hanno pieno diritto al risarcimento dei danni patrimoniali per lucro cessante e di tutti i danni non patrimoniali, ivi compreso il danno biologi‑ co, esistenziale e morale soggettivo, a causa della mancata corretta diagnosi ecografica ai danni della Sig.ra T. Il medico, non rilevando la microcefalia da cui era affetto il feto alla 21o settimana di gravidanza, determinava in capo alla gestante una perdita di chance, impedendo alla stessa di aderire alla I.V.G. nei tempi previsti dalla legge. La giurisprudenza del Supremo collegio ha ormai chiarito che: “La nascita indesiderata di un bambino malformato, conseguente ad imperizia del medico per tardiva o omessa esecuzione dei dovuti accertamenti clinici, incide sul diritto alla autodeterminazione della donna, ovvero sul diritto della gestante di esercitare pratiche interruttive della gravidanza nei termini legislativamente previsti. Il verificarsi dell’evento suddetto, in quanto determinante una radicale trasformazio‑ ne delle prospettive di vita dei genitori – innegabilmente esposti a dover misurare la loro vita quotidiana e la loro esi‑ per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da malformazione, così come statuito da precedenti orientamen‑ ti – e non patrimoniali (c.d. danno da “rovesciamento forzato dell’agenda”), ivi comprese la lesione del diritto all’autodeterminazione, ovvero del diritto della gestante di esercitare pratiche interruttive della gravidanza nei termini legislati‑ vamente previsti (ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III, 04.01.2013, n. 13) e la lesione del diritto dei genitori all’informazione, indipendentemente dall’eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, onde potersi preparare psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all’arrivo di un figlio menomato (ex plurimis: Cass. Civ. Sez. III, 22.03.2013, n. 7269). La recente sentenza della S.C. n. 7269/13 considera poi quest’ultimo tipo di danno già insito in quello c.d. biologico, che è sempre ri‑ sarcibile, in tali casi, in tutte le sue forme, ivi compreso quello morale. Interessanti particolarità rileviamo ancora con riguardo alla materia affronta‑ ta anche quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, difatti, nella sentenza che qui commentiamo, il G.U. statuisce che, una volta provato dall’attrice che la stessa avrebbe aderito ad una IVG nei tempi previsti dalla legge, laddove tempestivamente edotta delle malformazioni fetali, grava sulla parte convenu‑ ta l’onere di dimostrare il contrario, ipotesi che nel caso di specie non è verifi‑ cata. Con tale statuizione la nostra sentenza del Tribunale di Napoli abbraccia l’orientamento più recente della S.C., il quale, ha subito una recente evoluzio‑ ne. Lo stesso, infatti, partendo dalla considerazione che risulta quale dato imprescindibile, desunto dall’osservazione dei fenomeni sociali, che è bassissi‑ ma la frequenza di esito negativo dell’accertamento sul pericolo per la salute della donna in casi di gravi malformazioni del feto e reciprocamente altissima quella delle interruzioni terapeutiche della gravidanza che per tali ragioni siano domandate, finisce per far scattare, a fronte della sola allegazione della donna, che, se informata, si sarebbe avvalsa del diritto di interrompere una gravidanza, una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che quella interruzione avrebbero legittimato ed il medico si troverà a tal punto a dover affrontare una probatio quasi “diabolica”, dovendo provare che, per una qualche ragione, la donna, benché informata delle malformazioni fetali, non avrebbe potuto o voluto abortire. Per tali motivi la Corte è di recente tornata sulla questione, con la nota sentenza del 02.10.2012, n. 16754, sta‑ tuendo che spetti comunque alla parte attrice di integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori, di qualsiasi genere, da sottoporre all’esame del decidente per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione, ipotesi che si è effet‑ tivamente verificata nel caso che qui esaminiamo. La sentenza in commento si discosta però – incomprensibilmente – dalla re‑ centissima apertura giurisprudenziale avvenuta in materia grazie alla nota sentenza n. 16754 del 02.10.2012, Cass. Civ. Sez. III (v. M. Palagano, Il di‑ ritto del minore al risarcimento del danno da nascita con malformazione congenita. Nota a Cassazione civile, III sez., sentenza 2 ottobre 2012 n. 16754, in Gazzetta Forense, n. 3, 2013, pag. 35), la quale, anche sulla scorta della giurisprudenza d’oltralpe – si ricorderà il famoso arrêt francese, noto come “affaire Perruche” (Cour de Cassation, Assemblée plénière, du 17 novembre 2000, 99‑1370) – riconosce al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente ca‑ pace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento del danno dal momento in cui è nato, domanda risarcitoria che trova il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost. Il vulnus lamentato da parte del bambino malformato non è la malformazione in sé considerata, bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata, vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto portatore di tale disagio il dovuto importo risarcitorio. È pertanto il caso di notare, affacciandoci al di là dei confini italiani, che, non a caso, il risarcimento del danno da “nascita indesiderata”, è molto conosciu‑ to nei paesi di Common Law – c.d. danno da “wrongful birth” (Wrongful birth: a malpractice claim brought by the parents of a child born with a birth defect against a physician or health‑care provider whose alleged negligence (as in diagnosis) effectively deprived the parents of the opportunity to make an informed decision whether to avoid or terminate the pregnancy; also : the birth or injury at issue in such a claim (Based on Merriam‑Webster's Dictionary of Law 2013))– e meno affrontato nei paesi di Civil Law, in quanto in contrasto non solo con i principi morali, ma anche con il diritto alla vita. L’esperienza in materia è infatti maturata soprattutto nel mondo anglosassone, con le cosid‑ dette “action in torts” (azione per illeciti civili), e con il tempo si è affermata la risarcibilità non solo per la wrongful birth (nascita indesiderata) ma anche per la wrongful life (vita indesiderata) (Wrongful Life: an event in which legal action may be taken on behalf of a baby suffering from a hereditary or con‑ genital defect, e.g., Down syndrome, or other disease, e.g., rubella, who would not have been born had the parents had the knowledge to opt for an abor‑ tion. (Based on Segen's Medical Dictionary 2012 Farlex, Inc.)). E che proprio il danno da wrongful life è riconosciuto, a livello di diritto comparato, in termini decisamente più ridotti rispetto a quello da wrongful birth. Può, in‑ vero, osservarsi come l'apertura progressivamente mostrata dalla giurispru‑ denza alle pretese risarcitorie per wrongful birth e wrongful life sia stata più precoce in quegli ordinamenti in cui il ricorso alle pratiche contraccettive ed abortive è ammesso con maggiore ampiezza. La giurisprudenza italiana ci appare ancora abbastanza prudente. F O R E N S E luglio • A G O S T O stenza concreta con le prevalenti esigenze del bambino – de‑ termina, per quanto innanzi, la risarcibilità di un danno che va oltre quello alla salute in senso stretto della gestante. Trat‑ tasi invero, di un accadimento incidente sulla lesione di un interesse (omissis) che impone al danneggiato di condurre giorno per giorno una vita diversa e peggiore di quella che altrimenti avrebbe condotto” (ex multiis, Cass. Civ. Sez. III Sent., 04.01.2010, n. 13). In ordine alla liquidazione dei danni, va evidenziato che dall’evidenza disponibile risulta la sussistenza dei seguenti danni, patrimoniali e non, conseguenti all’evento lesivo de quo. In ordine al danno esistenziale, alla luce della recentissima sentenza a SS.UU. della Corte di Cassazione n. 26972 dell’11.11.2008, va evidenziato che si sono racchiuse in tale denominazione tutte le altre lesioni di interessi non patrimo‑ niali costituzionalmente protetti (artt. 2, 3, 4, 13, etc.), diver‑ si dalla salute e dalla sofferenza morale soggettiva, ma meri‑ tevoli di adeguato ristoro. In particolare, sussistendo nella specie un accertato grave danno biologico subito dagli attori, tale danno diviene il fatto noto obiettivo, inconfutabile ed incontrovertibile, da cui partire anche per valutare, su base prognostica e presuntiva e alla luce dell’id quod plerumque accidit, quanto all’esistenza degli attori è stato pregiudicato, da un punto di vista c.d. dinamico ed oggettivo. In altri termini, la dimostrazione della lesione biologica comporta la presunzione di sussistenza dello specifico pregiu‑ dizio esistenziale subito. E la liquidazione monetaria di tali danni non va fatta in quota percentuale di quanto liquidato a titolo di danno bio‑ logico, ma secondo un criterio equitativo puro, circostanziato non solo alla sofferenza subita e alla sussistenza di un’ipotesi di reato, ma anche alla gravità, tipo e durata dell’offesa, all’entità, natura e sede della lesione, alla durata e intensità delle cure riabilitative, all’età, sesso e sensibilità del danneg‑ giato, al comportamento processuale di controparte, ed a tutte le altre circostanze del caso concreto in esame. Alla luce di quanto precede, il tribunale, pertanto, ritiene di accogliere la domanda e, per l’effetto, dichiara la responsa‑ bilità dell’A., in persona del legale rappresentante pro‑tempo‑ re, del P.O. S.G.B., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, e della U.A. S.P.A., in persona del legale rappre‑ sentante pro‑tempore e condanna gli stessi al risarcimento di tutti i danni patiti dagli attori (danno biologico, ITT, ITP) 2 0 1 3 55 quantificati in euro 300.000,00 oltre interessi e svalutazione monetaria dal giorno della domanda all’effettivo soddisfo. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo P.Q.M. Il Tribunale di Napoli – X Sezione – definitivamente pro‑ nunziando sulla domanda proposta da M.T. e G.D.O., nella qualità di genitori esercenti la patria potestà sulla minore G.D.O., nei confronti dell’A., in persona del legale rappresen‑ tante pro‑tempore, del P.O. S.G.B., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, della U.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, e della R. S.P.A., in per‑ sona del legale rappresentante pro‑tempore, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede: – rigetta la domanda proposta dall’A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, nei confronti della R. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore; – dichiara la responsabilità dell’A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, del P.O. S.G.B., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, della U.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, nella causazione dell’evento relativo a T.M. e D.O.G, nella qualità di genitori di G.D.O.; – condanna l’A, in persona del legale rappresentante pro‑tempore, il P.O. S.G.B., in persona del legale rappre‑ sentante pro‑tempore, e la U.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, al risarcimento di tutti i danni patiti dagli attori (danno biologico, ITT, ITP) quantificati in euro 300.000,00 oltre interessi e svaluta‑ zione monetaria dal giorno della domanda all’effettivo soddisfo; – condanna l’A, in persona del legale rappresentante pro‑tempore, al pagamento, in favore della R. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, delle spe‑ se processuali, che liquida in complessivi euro 3.000,00, di cui euro 1.000,00 per spese ed il residuo per onorari, oltre Iva e Cpa; – condanna l’A, in persona del legale rappresentante pro‑tempore, il P.O. S.G.B., in persona del legale rappre‑ sentante pro‑tempore, e la U.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro‑tempore, al pagamento, in fa‑ vore degli attori, delle spese processuali, che liquida in complessivi euro 30.000,00, di cui euro 3.000,00, ivi compresa la c.t.u., ed il residuo per onorari, oltre Iva e Cpa. civile Gazzetta 56 D i r itto e p r o c e du r a In evidenza TRIBUNALE DI NOLA, SEZIONE II CIVILE, sentenza 01 luglio 2013 Giud. R. De Luca Estraneità al giudizio della C.C.I.A.A. – Ruolo della C.C.I.A.A in tema di tenuta del registro dei protesti – Nesso di strumentalità tra l’azione cautelare ed il futuro giudizio a cognizione piena. 1. In tema ricorso ex art. 700 cpc deve ritenersi la ammis‑ sibilità dello stesso in ipotesi di illegittima levata di protesti di assegno bancario, in quanto la speciale tutela di cui all’art, 4 della l. 77/1955 è applicabile solo per i protesti cambiari. 2. Alla C.C.I.A.A. è demandata solo la attività dovuta e materiale di sospensione del procedimento o di cancellazione del protesto conseguente all’ordine del Giudice, dovendosi escludere la legittimazione passiva della C.C.I.A.A. nel giu‑ dizio ex art. 700 cpc.(1). 3. La mancata evocazione in giudizio del soggetto che avrebbe dato inizio alla illegittima elevazione del processo fa venir meno il nesso di strumentalità fra lazione cautelare intentata ed il futuro giudizio a cognizione piena.(2) Trib. Nola, sez. II, 01 luglio 2013, Giud. R. De Luca (Omissis) Con ricorso depositato il 13.05.2013 i ricorrenti M.M. di G.S. & C. S.a.s. e G.A.S. hanno chiesto che venisse ordinato alla CCIIAA di Napoli di precedere alla cancellazione del proprio nomitativo dall’elenco dei protesti sul presupposto di aver rilasciato assegna bancario tratto sulla Banca *** n. *** dell’importo di € 2.044,90, sul quale in data 13.12.2012 era stato lavato un protesto per difetto di provvista, e di aver pagato in data 28.01.2013 l’importo facciale del titolo, oltre spese di protesto, interessi legali e spese di insoluto, ai sensi dell’art. 8 della legge 386/1990. Parte ricorrente ha notificato il ricorso introduttivo, uni‑ tamente al decreto di fissazione udienza, in esclusiva alla Nota redazionale a cura di Ermanno Restucci (Avvocato) (1)Il Tribunale ha ritenuto ammissibile la possibilità del ricorso alla tutela di cui all’art. 700 cpc in ipotesi di presunto illegittimo protesto di assegno bancario, non essendo applicabile la normativa che prevede il ricorso in via amministra‑ tiva al Presidente del C.C.I.A.A., dettata solo per i protesti cambiari e prevista dall’art. 4 della L. n. 77/1955 e successive modificazioni e integrazioni. La legge 19 agosto 2000, n. 235 ha sostituito gli artt. 3 e 4 della legge 77/55, di modo che l’art. 4 nel testo attuale prevede la facoltà per il debitore, il quale abbia provveduto al pagamento della cambiale o del vaglia cambiario protestati entro dodici mesi dalla levata del protesto, di ottenere la cancella‑ zione del proprio nome dal registro informatico di cui all’art. 3‑bis, D.L. 18 settembre 1995, n. 382, ovvero, se abbia provveduto al pagamento oltre il termine indicato, di ottenere la relativa annotazione sul registro informatico, in entrambi i casi, mediante apposita istanza al Presidente della C.C.I.A.A. competente per territorio (art.4, co.1). Analoga istanza può essere presentata da chiunque dimostri di aver subito la levata di un protesto in maniera illegittima od erronea, nonché dai pubblici uf‑ ficiali incaricati della levata del protesto dalle aziende di credito, qualora si sia illegittimamente o per errore proceduto alla levata (art. 4, co. 2). Il Presidente della C.C.I.A.A. provvede sull’istanza non oltre il termine di venti giorni dalla proposizione della stessa e, sulla base dell’accertamento della regolarità del pa‑ gamento o della sussistenza della illegittimità o dell’errore, accoglie l’istanza e dispone la cancellazione del protesto dal registro informatico attraverso il quale si provvede alla pubblicazione ufficiale dei protesti cambiari; in caso contrario, c i v il e Gazzetta F O R E N S E Camera di Commercio di Napoli, e in veste di sue procuratrice speciale, si è costituita nel corso della odierna udienza la R.C. srl. In via preliminare deve essere rilevato che è ammissibile il ricorso in via d’urgenza al fine di ottenere la cancellazione dal registro dei protesti in ipotesi di illegittima levata di protesto di assegno bancario, nonché che tale tutela è invocabile anche in via preventiva, mediante richiesta di inibitoria della pub‑ blicazione di un protesto illegittimo di un assegno bancario, in quanto l’art. 4 l.n. 77/1955, come modificato dall’art. 2 l. 235/2000 – il quale disciplina una procedura speciale di can‑ cellazione del protesto mediante istanza inviata al Presidente della Camera di Commercio, Industria ed Artiginato con eventuale ricorso, in caso di diniego, al Giudice di Pace – non è applicabile in materia di assegni bancari, essendo dettato esclusivamente per i protesti cambiari (cfr. Trib. Genova, sent. del 22.07.2002 e Trib. Roma sent. del 06.12.2005 in Rep. Foro it. 05 voci provvedimenti di urgenza nn. 83 ed 82). Deve ritenersi, pertanto, ammissibile la tutela cautelare azionata, sul presupposto che l’illegittima elvazione e pub‑ blicazione del protesto possa essere potenzialmente lesiva all’esercizio dell’attività, anche commerciale, dei ricorrenti, stante l’impossibilità di emettere ulteriori titoli di credito fino alla data di cancellazione del nominativo dall’elenco dei pro‑ testi e date le restrizioni nell’accesso al credito che la perdura‑ nte annotazione del nominativo della società ricorrente nel registro dei protesti comporta. Va, quindi, osservato quanto alla legittimazione passiva del soggetto evocato in giudizio, che il procedimento cautelare ex art. 700 cpc azionato – con il quale è stato richiesto che venga ordinata la cancellazione del protesto stesso dall’apposito albo custodito presso la Camera di Commercio – verte esclu‑ sivamente tra il creditore ed il debitore del credito cartolare o tra questo e chi ha dato luogo all’ingiusta negoziazione del titolo, per cui tale processo non riguarda, come parte, la Cam‑ era di Commercio, alla quale è demandata solo l’attività do‑ vuta e materiale di sospensione del procedimento o di cancel‑ lazione del protesto, conseguente all’ordine del Giudice. Il procedimento cautelare, pertanto, si modella in maniera respinge l’istanza (art. 4, co. 3). Solo in caso di reiezione dell’istanza o di man‑ cata decisione sulla stessa, è espressamente prevista la possibilità per l’interessa‑ to di fare ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria, e la competenza è attribuita al Giudice di Pace del luogo di residenza del debitore protestato (art. 4, co. 4). Le novità più salienti della nuova disciplina sono costituite da un lato dall’estensione al debitore protestato della facoltà di ricorrere avverso il pro‑ testo illegittimo o erroneo; dall’altro, dalla eliminazione del procedimento camerale di competenza del Presidente del Tribunale, sostituito da un proce‑ dimento amministrativo davanti al Presidente della Camera di Commercio, con facoltà di adire il Giudice ordinario nell’evenienza di rigetto o mancata pronuncia nel termine di venti giorni. Sul punto la giurisprudenza di merito ha avuto modo di chiarire che: “la reiezione dell’istanza di cancellazione al Presidente della Camera di Commercio, ovvero la mancata decisione della stessa di cui al comma 4 dell’art. 4 della legge 77/55 come modificato dall’art. 2 della legge 1.8.2000 a 235, costituiscono presupposto per ricorrere al giudice per ottenere tutela cautelare…Rilevato che la fase amministrativa non può che avere carattere prodromico e che la stessa ha finalità chiaramente deflative dell’attività giurisdizionale e che l’art 4 assegna al Presidente della C. C.I.A.A. un termine estremamente ridotto entro cui provvedere sull’istanza di cancel‑ lazione, deve pertanto ritenersi non irragionevole la precisa necessità di un preventivo ricorso all’autorità amministrativa, atteso l’assoggettamento dell’azione giudiziaria all’onere del preventivo esperimento del rimedio ammi‑ nistrativo” (Trib. di Napoli, XI sez. civ., dott. Scrima, ord. 21/7/2003). Ed ancora (Tribunale di Napoli sez. III, ord. 8 aprile 2010 giungendo ad identiche conclusioni ma sulla scorta di un diverso iter argomentativo): “parte della dot‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O 2 0 1 3 57 tale che il destinatario dell’ordine (Camera di Commercio) sia soggetto diverso rispetto a quello (cui deve aggiungersi, ma non sostituirsi come parte del procedimento) che dovrà essere convenuto nel giudizio di merito quale soggetto nei confronti è richiesta la tutela giurisdizionale di accertamento dell’illecito e risarcitoria (cfr. Cass. civ., sent. n. 17415 del 30.08.2004). Alcu provvedimento, quindi, può essere adottato nella presente sede, dato che l’unico soggetto evocato non ha qual‑ ità di parte in senso sostanziale. Va, inoltre, sottolineato che ogni misura cautelare è carat‑ terizzata dal requisito della strumentalità, il quale comporta che la misura cautelare non sia mai fine a stessa ma che, anche nei procedimenti cautelari ex art. 700 cpc, caratterizzati da strumentalità attenuata, ovvero non necessariamente preor‑ dinati alla emanazione di un ulteriore provvedimento defini‑ tivo, comunque occorre che sia esattamente individuato il diritto da tutelare affinché, in caso di futura instaurazione del giudizio di merito, possa apprezzarsi la finalità anticipatoria propria del procedimento cautelare, nonché possa stabilirsi se l’introduzione del giudizio di merito sia stata, o meno, tem‑ pestiva. Il provvedimento disciplinato dall’art. 700 cpc, quindi, essendo rimedio d’urgenza di natura atipica cui si ricorrere nelle ipotesi in cui l’ordinamento non preveda uno specifico strumento cautelare, continua a svolgere, pur dopo la riforma introdotta dalla legge 80/2005 – che prevede come meramente facoltativa la futura instaurazione del giudizio di merito e sancisce che l’estinzione del giudizio di merito non determini l’inefficacia dei provvedimenti cautelari a carattere anticipa‑ torio – una funzione sussidiaria ed anticipatoria del giudizio di merito, mirando ad assicurare a quel diritto adeguata tutela per il periodo di tempo che intercorre fra la proposizione della domanda e l’esito del giudizio a cognizione piena (cfr. Trib. Va rese, ord. 19.07. 2010 ; Trib. Tori no, ord. 07.05.2007). L’art. 669 octies, IV comma, cpc, del resto, prevede che “”ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito” e, dunque, anche la parte resistente, con la conseguenza che, per preser‑ vare il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa di tale parte, si rende necessaria, sin dall’instaurazione del pro‑ cedimento d’urgenza, la precisa indicazione della domanda di merito che sarà proposta. Diversamente, la parte resistente si troverebbe ad incardinare una causa di merito nella quale è convenuto in senso sostanziale (e attore in senso formale), senza essere a conoscenza della domanda che portà essere successivamente proposta nei suoi confronti. Nel caso in esame parte ricorrente ha prospettato l’oggetto del futuro giudizio a cognizione piena da attivare ma, non aveno evocato in giudizio il soggetto il quale ha dato inizio alla procedura di illegittima elevazione del protesto e che non ha provveduto a richiedere la rettifica dei dati dopo il paga‑ mento effettuato ai sensi della legge 386/1990, difetta il nesso di strumentalità fra l’azione cautelare intentata ed il futro giudizio a cognizione piena, il cui destinatario passivo dovrebbe essere un soggetto differente rispetto all’unico sog‑ getto evocato nel presente giudizio e destinatario della richi‑ esta cautelare. Lo spiegato ricorso deve essere, per tali ragioni rigettato. Ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, non potendo es‑ cludersi che, in caso di evocazione della banca trattaria, il avrebbe potuto essere accolto – avendo parte ricorrente di‑ ritto alla rettifica dei dati inseriti nel registro dei protesti ai sensi dell’art. 7 n.3, lettera a) del d.lgs. 196/2003, come evi‑ denziato nel ricorso cautelare, e potendo la domanda di ret‑ tifica dai dati ritenersi ricompresa un quella di cancellazione del protesto –, per compensare le spese di procedura. PQM (Omissis) trina e un settore della stessa giurisprudenza di merito (Trib. Udine 13 febbraio 2002; in termini, sia pure implicitamente Trib. Napoli; 13 febbraio 2001, in Giur. Merito, 2001, I, 626) ritengono che non possa proporsi immediatamente dinan‑ zi al giudice ordinario, ai sensi dell’ad. 700 c.p.c., in sede cautelare, l’istanza di cancellazione della pubblicazione di un protesto illegittimo, giacché la cancella‑ zione va preventivamente richiesta al Presidente (rectius: dirigente responsabile dell’ufficio protesti) della Camera di commercio, organo investito in tema di pubblicazione degli elenchi dei protesti di potestà amministrativa ad esso riser‑ vata e non più riconducibile a mera operazione materiale. Tali indirizzi lascereb‑ bero propendere per il carattere necessariamente prodromico della fase ammini‑ strativa e la circostanza che un provvedimento cautelare adottato prima della presentazione dell’istanza al suddetto dirigente responsabile della Camera di commercio non risulterebbe strumentale ad un giudizio di merito, assolutamen‑ te eventuale, bensì alla decisione adottata dall’organo amministrativo (Trib. Vallo della Lucania, 17 maggio 2004; Tribunale Napoli 30/11/2012)”. È noto che l’attività delle Camere di Commercio in materia di pubblicazione degli elenchi dei protesti cambiari consiste in una mera operazione materiale che, senza alcun potere discrezionale, ha come risultato la divulgazione di notizie e che segue automaticamente la levata del protesto e che anche nelle ipotesi di protesto illegittimo o erroneo deve escludersi che possa pretendersi direttamente dall’ente di inibire la pubblicazione o di procedere alla cancellazione del protesto, in mancanza di alcuna potestà decisionale in capo all’Ente qui comparente che si limita a recepire l’ordine di pubblicazione da parte del pubblico ufficiale. L’attività dell’Ente non ha natura discrezionale, atteso che la stessa si esplica in atti materiali, nella specie registrazioni e divulgazioni secondo parametri predeterminati dalla disciplina vigente e secondo le indicazioni dei pubblici ufficiali abilitati alla levata del protesto. In sintesi (come rileva anche la più recente Giurisprudenza: cfr Tribunale di Nola 02/07/2012), alla Camera di Commercio è demandata solo l’attività, dovuta e materiale, di sospensione del procedimento o di cancellazione del protesto, conseguente all’ordine del Giudice. Alla Camera di Commercio il pubblico ufficiale elevatore dei protesti trasmet‑ te ogni mese l’elenco dei soggetti protestati (ai sensi della legge 235/2000, modificativa della legge 77/1995) redatto su supporto cartaceo o informatico contenente l’elenco dei protesti levati dal primo giorno al giorno quindici e dal giorno 16 all’ultimo giorno di ciascun mese; elenco che né pubblicato dalla Camera di Commercio, alla quale è preclusa ogni altra attività. ll principio è pacifico anche secondo l’insegnamento della Suprema Corte (Cass. 30/08/2004 n. 17415), secondo il quale, in caso di accoglimento della doman‑ da cautelare la Camera di Commercio – che neppure acquista la qualità di parte in senso tecnico – non può essere condannata alle spese, essendo estranea allo svolgimento dei fatti che hanno determinato la levata del protesto. (2)Il Tribunale di Nola, nella decisione in esame ed avente ad oggetto la richiesta di ordine di cancellazione di (illegittimo) protesto, ha correttamente affermato che nell’ambito di un procedimento ex art. 700 cpc vi è la necessità della evocazione in giudizio di tutte le parti nei cui confronti dovrà essere instaurato il giudizio di merito; in mancanza, infatti, si verificherebbe che il destinatario passivo del giudizio sarebbe un soggetto diverso da quello evocato nell’ambito del cautelare ai soli fini della attività materiale. civile Gazzetta Diritto e procedura penale Il sistematico impiego di minori nella pratica dell'accattonaggio: la (ir)rilevanza penale del fattore culturale 61 Claudia Santoro Sulla individuazione dell’organo dell’accusa nella fase della esecuzione Nota a Cassazione penale, sez. I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324 69 Fabiana Falato La Corte Costituzionale e la Corte Edu sul ricongiungimento familiare del reo 79 Vittorio Sabato Ambrosio I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 82 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 88 90 penale Rassegna di legittimità [ F O R E N S E ● Il sistematico impiego di minori nella pratica dell'accattonaggio: la (ir)rilevanza penale del fattore culturale ● Claudia Santoro Dottoranda in Sistema Penale Integrato e Processo Università di Napoli “Federico II” luglio • A G O S T O 2 0 1 3 61 SOMMARIO: Premessa – 1. Il caso e il percorso argomenta‑ tivo della Suprema Corte – 2. Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), impiego di minori nell’accattonaggio (art. 600‑ocites): tre fattispecie a confronto – 3. Il fattore culturale nel sistema penale italiano – 4. Rilievi conclusivi Premessa Il sistematico impiego di minori nell’accattonaggio è un triste fenomeno che investe la nostra società già da molti anni. Si tratta di una pratica largamente diffusa in diversi gruppi di cittadini extracomunitari, soprattutto di etnia rom, stabilmen‑ te stanziati nel nostro Paese, per i quali la ’questua’ costituisce un “sistema di vita”, frutto e retaggio di antiche e consolidate tradizioni culturali. In nome di una discutibile, ma ben radicata consuetudine, gli adulti di queste popolazioni costringono figli, nipoti o altri bambini del ’campo’ all’umiliante pratica dell’elemosina e, conseguentemente, a vivere in un perenne stato di abbandono, sofferenza e degrado, negando loro alcuni diritti che la nostra Costituzione considera fondamentali ed inviolabili. Ci riferia‑ mo, in generale, al diritto alla dignità e all’autodeterminazio‑ ne, nello specifico, al diritto all’educazione e all’istruzione che l’art. 30, comma 1 Cost. espressamente riconosce e garantisce a tutti i fanciulli, senza alcuna limitazione in base allo status di cittadino italiano, comunitario, straniero o apolide1. In materia di sfruttamento minorile ai fini dell’accattonag‑ gio, la giurisprudenza ha seguito un percorso evolutivo ben preciso: passando dalla contravvenzione di cui all’art. 671 c.p.2 (impiego di minori nell’accattonaggio), attraversando la fatti‑ specie dei maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., è approdata alla figura criminosa contemplata dall’art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù)3. Proviamo, quindi, a delineare l’oggetto della nostra inda‑ gine. In primo luogo, analizzeremo le fattispecie di cui agli artt. 572, 600 e 600‑octies c.p. per coglierne le assonanze e i tratti differenziali. In secondo luogo, cercheremo di capire se il fattore cultura‑ le – invocato dalla difesa dell’imputato per ottenere la derubri‑ cazione del delitto di cui all’art. 600 c.p. in quello meno grave previsto dall’art. 572 c.p. e considerato assolutamente irrilevan‑ te dalla giurisprudenza di legittimità – può esplicare una sua valenza in ambito penale e se sì, entro quali limiti. In relazione 1Sul contenuto e le funzioni del diritto all’educazione v. IASEVOLI, Diritto all’educazione e processo penale minorile, Napoli 2012. 2 Articolo abrogato dall’art. 3 comma 19 lett. d) l. 15 giugno 2009, n. 94. Il testo originario dell’articolo era il seguente: «Chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici, o, comunque, non imputabile, la quale sia sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o alla sua vigilanza, o permette che tale persona mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con l’arresto da tre mesi a un anno. Qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, la condanna importa la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori o dall’ufficio di tutore». La figura di reato è stata sostanzialmente riprodotta nel nuovo articolo 600‑octies: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici, o comunque, non imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con la reclusione fino a tre anni» 3 F. CARCANO, L’accattonaggio dei minori: tra delitto e contravvenzione, in Cass. Pen. 2005, 4596 penale Gazzetta 62 D i r itto e p r o c e du r a a quest’ultimo punto, dunque, affronteremo brevemente la delicata problematica dei c.d. reati culturalmente motivati, cioè influenzati dal contesto sociale di appartenenza. 1. Il caso e il percorso argomentativo della Suprema Corte Il punto di partenza è un caso4. La Corte di Assise di Cosen‑ za condannava Tizio alla pena di otto anni e sei mesi di reclu‑ sione per il reato di cui all’ art. 600 c.p. aggravato ai sensi del comma 2 dell’art. 600‑sexies (capo a); e per il reato di cui all’art. 572 aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p.; entrambi realizzati in concorso con la sua convivente ex art. 110 c.p. e unificati sotto il vincolo della continuazione, perché con minac‑ cia ed uso materiale della violenza costringeva la figlia della compagna a dedicarsi all’accattonaggio dalla mattina alla sera, abusando della sua autorità e approfittando della condizione di evidente inferiorità fisica e psichica della bambina che, all’epo‑ ca dei fatti, aveva appena dieci anni. All’imputato venivano applicate le pene accessorie di cui agli artt. 600‑septies e art. 32, comma 3 c.p. e concesse le attenuanti generiche. La Corte di Assise d’Appello di Catanzaro riformava par‑ zialmente la sentenza del giudice di primo grado: da un lato, riteneva il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. assorbito nel delitto di riduzione o mantenimento in schia‑ vitù o servitù di cui all’art. 600 c.p. e, dall’altro, valutando le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla circostanza aggravante di cui all’art. 600‑sexies, comma 2 c.p., riduceva ulteriormente l’entità del trattamento sanzionatorio, ridetermi‑ nando la pena inflitta a Tizio in sei anni di reclusione. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputa‑ to eccependo l’erronea applicazione della legge penale, in quan‑ to i risultati cui è pervenuta l’istruttoria dibattimentale non consentirebbero di ricondurre la condotta posta in essere da Tizio al paradigma normativo descritto dall’art. 600 c.p., di cui difetterebbero gli elementi costitutivi. Ciò in quanto la minore, unica rilevante fonte d’accusa a carico dell’imputato, deve rite‑ nersi inattendibile, avendo più volte ritrattato le sue originarie accuse. La Suprema Corte giudica il ricorso inammissibile per vio‑ lazione del comma 3 dell’art. 606 c.p.p., in quanto basato su elementi di fatto già presi in esame nel corso del giudizio di merito, ma non manca di esporre alcune considerazioni in or‑ dine ai reati contestati. La Corte di Cassazione ha reputato pienamente condivisi‑ bile il percorso logico‑giuridico seguito dalla Corte di Assise d’Appello nel ricondurre la condotta di Tizio alla fattispecie di cui all’art. 600 c.p., avendo i giudici di secondo grado «corret‑ tamente evidenziato come la bambina sia stata ridotta ad una condizione del tutto assimilabile alla servitù e sottoposta a do‑ veri di obbedienza mediante l’impiego di maltrattamenti, l’abu‑ so di autorità e l’approfittamento di una situazione di inferiori‑ tà fisica e psichica». Infatti, la previsione dell’art. 600 c.p. (ridu‑ zione o mantenimento in schiavitù o servitù) spiega la Suprema Corte, «configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative 4 Cass. pen., sez. V, 15 giugno‑28 settembre 2012, n. 37638, inedita. p e n al e Gazzetta F O R E N S E o sessuali o all’accattonaggio, o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento». Si tratta di un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di sog‑ gezione continuativa5 finalizzata a costringere la vittima a svolgere determinate prestazioni, può essere ottenuto dall’agen‑ te alternativamente o congiuntamente, mediante violenza, mi‑ naccia, inganno, abuso di autorità, oppure attraverso l’appro‑ fittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica – co‑ me nel caso in esame – o di una situazione di necessità o ancora mediante dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. Secondo il Collegio non appare fondato il rilievo difensivo in base al quale, in considerazione dell’appartenenza del ricor‑ rente ad una popolazione di etnia rom, per la quale la “questua” rappresenta un modus vivendi, il comportamento del ricorren‑ te andrebbe ricondotto alla meno grave fattispecie di maltrat‑ tamenti in famiglia. Infatti, in relazione a questo delicato tema, la giurisprudenza di legittimità da tempo ha escluso ogni rile‑ vanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accat‑ tonaggio; la mozione culturale o di costume non esclude neanche l’elemento psicologico del reato. «In tema di riduzione e mantenimento in servitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambini in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuati‑ va e costretti all’accattonaggio, non è invocabile da parte degli autori di tali condotte la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto per richiamo alle consuetudini delle popolazioni zingare di impiegare i bambini nell’accattonaggio, poiché la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 delle preleggi6». Quindi, in ordine alla prospettazione difensiva di qualificare la condotta dell’im‑ putato ai sensi dell’art. 572 c.p., la Corte si è espressa negativa‑ mente. In verità, i rilievi della Cassazione non appaiono del tutto calzanti, in quanto la difesa non ha invocato il fattore culturale come esimente, bensì come elemento da valutare per l’applica‑ zione di una diversa e meno grave fattispecie: i maltrattamenti in famiglia. Aliascome criterio da valutare per ottenere un’atte‑ nuazione della sanzione; la punibilità del comportamento rea‑ lizzato dal reo non è mai stata messa in discussione. Secondo l’elaborazione giurisprudenziale «il reato di mal‑ trattamenti può ritenersi sussistente solo in caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed utilizzazione esclu‑ siva del minore ai fini di sfruttamento economico» – circostan‑ za, invece, che la Corte ha ritenuto ricorresse nel caso in esa‑ me – e quando, ovviamente, «la condotta illecita sia continua‑ tiva e cagioni al minore sofferenze morali e materiali». 2. Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), impiego di minori nell’accattonaggio (art. 600‑ocites): tre fattispecie a confronto Già il codice Zanardelli conteneva un’apposita disposizio‑ ne sulla «mendicità infantile», che puniva l’impiego di «per‑ 5 Così la Cassazione nella sentenza in commento, ma parte della dottrina ravvi‑ sa l’evento del reato nello sfruttamento del soggetto passivo. Per tutti: FIAN‑ DACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, I delitti contro la persona, Bo‑ logna, 2009, p. 122. 6In senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 2841/2006. F O R E N S E luglio • A G O S T O sona minore degli anni quattordici». Successivamente, il co‑ dice Rocco ha collocato la mendicità tra le contravvenzioni poste a tutela del decoro e della tranquillità pubblica, mante‑ nendo una fattispecie ad hoc per l’impiego di minori nell’ac‑ cattonaggio (art. 671 c.p.). La norma, però, era volta alla tutela in via prioritaria della morale e della tranquillità pub‑ blica e soltanto sullo sfondo si intravedeva la protezione degli interessi dei minori7. La possibilità di una sua lettura in chiave personalistica, tuttavia, ha permesso alla disposizione di sopravvivere alla fattispecie “base” disciplinata dall’art. 670 c.p.8, dichiarata dapprima parzialmente incostituzionale in relazione alla c.d. mendicità non invasiva prevista al primo comma9 e, poi, de‑ finitivamente abrogata dall’art. 18 l. n.205/1999, in materia di depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario. Ciò è comprovato anche dall’ordinanza n. 408/1997 della Corte Costituzionale che, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costitu‑ zionale dell’art. 671 c.p. in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. per la contrarietà della pena minima prevista ai criteri di ragio‑ nevolezza e proporzionalità10, ha riconosciuto a fondamento di detta disposizione l’interesse costituzionale alla tutela dei minori11. La lettura personalistica si è nel tempo gradualmente ac‑ centuata12. La giurisprudenza, infatti, è più volte intervenuta a rimediare all’inopportuna collocazione sistematica della fattispecie attraverso la sostanziale disapplicazione della stessa, ritenendo i delitti di maltrattamenti in famiglia e di riduzione in schiavitù più adatti a regolare il fenomeno del sistematico impiego di minori nell’accattonaggio, anche a costo di notevoli forzature interpretative. A ben vedere, quel‑ lo che risulta dalle recenti pronunce della Cassazione in ma‑ teria, è il delinearsi di una sorta di percorso evolutivo che, disapplicando l’art. 671 c.p. in favore del più grave delitto di cui all’art. 572, è approdato, poi, alla figura criminosa previ‑ sta dall’art. 600 c.p. Un iter complesso che, però, non può essere condivisibile. L’art. 600 c.p. punisce con la reclusione da otto a venti anni “chiunque esercita su una persona poteri corrisponden‑ ti al diritto di proprietà o chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringen‑ dola a prestazioni lavorative o sessuali o all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione 7 La giurisprudenza riteneva che la ratio dell’incriminazione andasse ravvisata nell’esigenza di «impedire l’impiego dei minori in un’attività che li sottraesse all’istruzione e all’educazione, avviandoli all’ozio ed esponendoli al pericolo di cadere nel vizio e nella delinquenza». In tal senso Cass. Pen.,sez. I, n. 6379/1997 e Cass. pen., sez. I, n. 11376/1992. 8 La norma così disponeva: “Chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi. La pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simu‑ lando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”. 9 Corte Cost. 28/12/1995, n. 519. 10Secondo il giudice a quo l’irragionevolezza della disposizione emergeva dal raffronto con l’ipotesi di reato di cui all’art. 726 c.p. 11In tal senso SCALIA, Le modifiche in materia di tutela penale dei minori, in Dir. pen. proc., 2009, 1208. 12Infatti il legislatore ha avvertito il bisogno di abrogare la contravvenzione di cui all’art. 671 c.p. e contestualmente introdurre l’art. 600‑ocites, con formu‑ lazione pressoché identica. 2 0 1 3 63 ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situa‑ zione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” […]. La norma è stata così modificata dalla l. 11 agosto 2003, n. 228, che ha riformato in maniera assai incisiva l’originaria disciplina del codice in tema di delitti contro la personalità individuale. Sono stati riscritti i reati di riduzione in schiavitù (art. 600), di tratta e commercio di schiavi (art. 601), di alie‑ nazione e acquisto di schiavi (art. 602)13. Le ragioni della riforma sono state molteplici: innanzitut‑ to, la presa di coscienza, anche a livello di opinione pubblica, della dimensione assunta dal fenomeno della tratta di persone, soprattutto a causa della presenza della criminalità organiz‑ zata transnazionale nella gestione del traffico degli esseri umani più deboli, quali donne e bambini. In secondo luogo, l’inefficacia degli strumenti normativi vigenti a contrastare e cogliere i caratteri del fenomeno; in particolare, la vecchia formulazione dell’art. 600 aveva suscitato numerose incertez‑ ze interpretative in ordine alla nozione di “condizione analo‑ ga alla schiavitù” e alla conseguente difficoltà di provare uno stato di assoggettamento assimilabile alla schiavitù quando alla persona residuasse un certo margine di autodetermina‑ zione. Neanche la Legge Merlin – unico atto normativo in cui era prevista la punizione di chi esercitava un’attività in asso‑ ciazioni o in organizzazioni nazionali o estere dedite al reclu‑ tamento di persone da destinare alla prostituzione o al suo sfruttamento – appariva più adeguata alla gravità del reato. In terzo luogo, il legislatore nazionale doveva recepire le indicazioni contenute nel Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, lotta e repressione della tratta di persone, di cui alla Conferenza di Palermo del 12 dicembre del 2000, che gli imponevano di prevedere la condotta diretta all’organizzazio‑ ne e all’attuazione del traffico degli essere umani come figura autonoma di reato. Nel testo del nuovo art. 600 c.p. il legislatore descrive la schiavitù come la condizione in cui viene a trovarsi una per‑ sona quando diventa oggetto di poteri corrispondenti al di‑ ritto di proprietà. L’impiego della formula “poteri corrispondenti al diritto di proprietà” ha risolto la controversia dottrinale, apertasi sotto la vigenza del vecchio testo, che vedeva contrapposte due tesi: l’una che considerava la schiavitù come condizione di diritto, l’altra che vi ricomprendeva anche situazioni di mero fatto. La locuzione attuale sembra non lasciare più spazio a dubbi interpretativi, apparendo idonea a inglobare sia le situazioni di fatto, sia quelle di diritto. Accanto alla fattispecie di riduzione in schiavitù è stata prevista anche la figura delittuosa della riduzione in servi‑ tù – una totale novità rispetto al passato – definita come la condotta che, posta in essere con violenza, minaccia o abuso di autorità, riduce la vittima del reato in una condizione di 13In argomento: PAESANO, Il reato di «riduzione in schiavitù» tra vecchia e nuova disciplina, in Cass. Pen. 2005, 791; PECCIOLI, Commento alla legge 11 agosto 2003 n. 228, in Dir. pen. proc. 2004, 35. penale Gazzetta 64 D i r itto e p r o c e du r a continuativa soggezione fisica o psicologica allo scopo di indurla all’accattonaggio o a rendere prestazioni sessuali o lavorative. Tra i mezzi con i quali si realizza la condotta di riduzione in servitù, è stato previsto anche l’abuso di autorità, allo sco‑ po di ricomprendere anche le ipotesi in cui vittime del reato siano minori o incapaci, nei confronti dei quali, proprio in considerazione della minorata condizione psicologica, può non rendersi necessario l’uso della violenza o della minaccia. Inoltre, l’art. 600 c.p. non punisce soltanto la condotta di “riduzione”, ma anche quella di “mantenimento” in schiavitù o servitù: esse si distinguono in funzione del momento in cui avviene l’esercizio dei poteri corrispondenti: iniziale nel primo caso, con passaggio diretto alla situazione di schiavitù; indi‑ retto e successivo nel secondo caso, in cui un individuo è già stato sottoposto in schiavitù14. Possono sollevarsi delle perplessità in ordine alla possibi‑ lità che la condizione di assoggettamento venga realizzata attraverso la creazione di uno stato di soggezione psichica (l’art. 600 prevede fra le condotte rilevanti quella di approfit‑ tamento di una situazione di inferiorità psichica), dato che l’introduzione di una formula così indeterminata potrebbe essere interpretata come il tentativo di reinserire nel codice penale la norma incriminatrice del plagio15, dichiarata inco‑ stituzionale16 per violazione del principio di determinatezza exart. 25, comma 2. Nei rapporti genitori‑figli – che pure sono presi in considerazioni dalla disposizione – lo stato di sudditanza psicologica dei secondi rispetto ai primi è una condizione naturale, per cui lo stato di “schiavitù” o “servitù” sarà sempre configurabile17. La nuova fattispecie ha ampliato notevolmente il campo di applicazione del reato. Il dettato normativo è vastissimo, finendo per ricomprendere condotte assai diverse tra loro. Ad esempio chi costringe il proprio figlio a mendicare è puni‑ to – almeno quanto al nomen juris – alla stesso modo di chi ha acquisito, mediante cessione o rapimenti, la padronanza su dei bambini, tenendoli in stato di soggezione e costringen‑ doli a rubare per portare a casa giornalmente e obbligatoria‑ mente la refurtiva18. Probabilmente le menzionate incertezze in ordine all’ac‑ certamento dello stato di soggezione cui fa riferimento la norma, oppure l’elevato trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 600 c.p., o la ratio della disposizione – sicuramente non precipuamente volta al contrasto del fenomeno dell’ac‑ cattonaggio minorile – hanno per diverso tempo frenato i 14 Così FIANDACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, cit., p. 120. 15Sul punto v. ALFANO, La nuova riformulazione dell’art. 600 c.p.: reintrodu‑ zione del reato di plagio?, in Giust. Pen., 2004, 673. 16 Corte Cost. n. 96/1981. 17 Appare calzante l’osservazione di MANZINI quando, in riferimento al bene giuridico tutelato dall’art.600, nell’individuarlo nello status libertatis della vittima, l’illustre Autore inserisce tra i possibili oggetti di tutela anche l’esigen‑ za di prevenire e reprimere la costituzione o il mantenimento di rapporti di padronanza, per effetto dei quali un uomo, trovandosi sotto l’ illegittima pote‑ stàdi altri, sia privato delle capacità relative alla personalità individuale. Orbe‑ ne, nel caso in cui tra soggetto attivo e soggetto passivo intercorrano rapporti familiari, come nell’ipotesi genitore‑figlio, a noi non sembra possa parlarsi di potestà illegittima, bensì di una potestà legittima esercitata in modo discutibile. V. MANZINI, Trattato di diritto penale, VIII, 662 18 Cass. pen., sez. V, n. 4852/1990; In senso conforme: Cass. pen. n. 35479/2010, Cass. pen., n. 24269/2010, Cass. pen., n. 18072/2010; Cass. pen., n. 13734/2009. p e n al e Gazzetta F O R E N S E giudici dall’applicazione della fattispecie alle ipotesi di siste‑ matico impiego dei minori nella pratica della “questua” ad opera di genitori e parenti, inducendoli a preferire la contigua fattispecie dei maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. Il reato di cui all’art. 572 c.p. punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’eser‑ cizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusio‑ ne da uno a cinque anni”. “Maltrattare” è sinonimo di “mortificare”, di “far soffri‑ re”, ossia provocare nel soggetto passivo una continua situa‑ zione di sofferenza fisica o morale19, con effetti di prostrazio‑ ne e avvilimento. Si tratta di un reato abituale, richiedendosi ai fini della sua configurazione, la reiterazione nel tempo di una serie di comportamenti 20. Il delitto di maltrattamenti in famiglia – che astrattamen‑ te pure appare idoneo a regolare il fenomeno dell’impiego di un minore nell’accattonaggio – è collocato, però, nel Titolo IX dedicato ai delitti contro la famiglia – nello specifico all’interno della Sezione intitolata ai delitti contro l’assistenza familiare – offrendo, così, una tutela soltanto indiretta alla personalità individuale del minore e alla sua dignità. Il bene giuridico tutelato dalla disposizione, infatti, viene comune‑ mente individuato nell’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti violenti o vessatori, anche se la prevalente dottrina giustamente ritiene che oggetto di tutela sia anche l’incolumità fisica o psichica dei soggetti indicati nella norma 21, o ancora nell’interesse di un soggetto al rispet‑ to della sua personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari o sull’autorità o su specifiche ra‑ gioni di affidamento che lo legano ad una persona in posizio‑ ne di preminenza 22. Come già riferito, la rilettura del bene giuridico tutelato dalla vecchia contravvenzione di cui all’art. 671 c.p., a van‑ taggio di una concezione personalistica volta a rendere pri‑ mario l’interesse del minore ad un corretto sviluppo della sua personalità, ha portato la giurisprudenza ad allargare le ma‑ glie della fattispecie di maltrattamenti per ricomprendervi anche le condotte di impiego dei minori nell’accattonaggio che, invece, prima venivano pacificamente ricondotte nella contravvenzione23. La Cassazione ha ravvisato il reato di maltrattamenti in famiglia nel comportamento del genitore che consenta o fa‑ vorisca attività del minore lesive della sua integrità fisica e psichica 24, oppure nella condotta di chi, avuto in consegna il minore allo scopo di accudirlo, educarlo e avviarlo all’istru‑ 19 Così FIANDACA‑MUSCO, Diritto penale parte speciale, cit. p. 347. Per la giurisprudenza: Cass. Pen., sez. VI, n. 8396/1996, in Cass. Pen. 1997, 1733; Cass. Pen., sez. VI, n. 3570/1999; Cass. Pen., sez. VI, n. 3965/1994 20Per tutti: PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 524. 21 COLACCI, Maltrattamenti in famiglia o verso in fanciulli, Napoli, 1963. 22 COPPI, Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli, in Enc. dir., 1975, 223. 23Per tutte Cass. pen., 7 ottobre 1992, in Riv. Pen. 1993, 925. 24 Cass. pen., sez. V, n. 44516. Nella specie si trattava di una madre che impiega‑ va il proprio bambino di quattro anni per chiedere l’elemosina ai passanti ogni giorno, nelle ore del mattino, costringendolo così a stare in piedi per oltre quattro ore consecutive in periodo invernale. F O R E N S E luglio • A G O S T O zione, permette che viva in stato di abbandono in strada per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina 25, specificando che in ipotesi di tale genere non è possibile ravvisare il diver‑ so e più grave reato di riduzione in schiavitù perché manca un totale asservimento del bambino alla autorità del genitore ed una sua esclusiva utilizzazione a fini di sfruttamento econo‑ mico26. La Corte in queste occasioni ha anche aggiunto che la contravvenzione di cui all’art. 671 c.p. è – era‑ ravvisabile solo nel caso di un isolato episodio di mendicità con utilizzo di minori, mentre quando la condotta è continuativa e arreca sofferenze al minore non potrà che ritenersi configurabile il delitto di cui all’art. 572 c.p. Allorquando l’accattonaggio risulti l’espressione di una più complessa condizione riservata al minore e caratterizzata da mancanza di affettività familia‑ re, da sofferenze fisiche o psicologiche, da mortificazioni di ogni genere, ad applicarsi è l’art. 572 c.p. 27 In realtà, questi orientamenti nascondono il pericolo, sottolineato dalla dottrina 28 di dilatare a dismisura la nozione di maltrattamenti; da ciò consegue anche l’esigenza di accer‑ tare in concreto la sofferenza morale e materiale tipica della suddetta fattispecie. Quest’accertamento diventa a maggior ragione indispensabile con riguardo a quei contesti socio‑cul‑ turali in cui la mendicità rappresenta una normale fonte di sostentamento e potrebbe essere percepita dai minori tutt’al‑ tro che come una sofferenza o una sopraffazione. Dall’analisi delle fattispecie di maltrattamenti in famiglia e riduzione in schiavitù emerge un dato poco rassicurante: entrambe fanno riferimento a stati psicologici – sofferenze morali nella prima ipotesi di reato, soggezione psichica nella seconda – difficilmente dimostrabili empiricamente e che, quindi, mal si conciliano con l’oggettività e la determinatezza proprie di una norma di legge. Come spesso accade quando l’impatto offensivo delle condotte incriminate si traduce in danni di natura psichica, i confini tra una fattispecie e l’altra sono fluidi ed indefiniti29. Probabilmente, proprio per evitare le incertezze legate al 25 Cass. pen., sez. VI, n. 3419/2007. 26 Cass. pen., sez. V, n. 44516/2008. 27 Cass. pen., sez. VI, n. 3419/2006. 28Per tutti: BERTOLINO, Il minore vittima di reato, Torino 2010, p. 62. 29Il principio di tassatività e determinatezza è una delle acquisizioni fondamen‑ tali della cultura dello stato di diritto:laprima caratteristica di un sistema pena‑ le codificato, infatti, deve essere data dal rispetto della legalità e, quindi, dalla precisione delle sue disposizioni. Il principio in esame contribuisce al raggiungimento di un duplice ordine di scopi, strettamente connessi l’uno all’altro:certezzadelle norme e limitazione dell’arbitrio giudiziale. Ciò implica, da un lato, il dovere della formulazione chiara e precisa delle fattispecie all’atto della produzione della norma da parte del legislatore; dall’altro, l’impegno a porre le condizioni perché siano evitate eccessive oscillazioni interpretative da parte del giudice. Stando a quanto affer‑ mato dalla Corte Costituzionale nella notissima sentenza che ha dichiarato incostituzionale il delitto di plagio, una fattispecie risulta determinata solo al‑ lorquando sia concettualmente precisa “sotto il profilo semantico della chia‑ rezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati”, comprenda la descrizione dell’offesa, in termini di danno o di concreto pericolo, di un bene giuridico, dotato di un verificabile substrato empirico, descriva una condotta esteriormen‑ te riconoscibile e suscettibile di accertamento giurisprudenziale. L’ipotesi di reato descritta deve “essere verificabile nella sua effettuazione e nel suo risulta‑ to” (Cort. Cost., n.96 del 1981, in Giur cost. 1981, p. 806 ss.). Sul principio di determinatezza v. S. MOCCIA, La ’promessa non mantenuta’, ruolo del prin‑ cipio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001, p.11; PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, p. 51 ss.; VASSALLI, Nullum crimen, nulla pena sine lege, in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 307 ss. 2 0 1 3 65 doveroso accertamento della sofferenza morale cagionata al minore dal genitore che se ne serva per mendicare, il legisla‑ tore ha ritenuto opportuno introdurre l’art. 600‑octies che, anche se quasi identico nella formulazione all’art. 671 c.p., è stato costruito come reato di pericolo astratto e inserito nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà individuale, elevan‑ do il corretto e sano sviluppo della personalità del minore a unico oggetto di tutela. La ricollocazione sistematica della fattispecie con conse‑ guente modifica della cornice edittale esprime l’esigenza di una tutela più incisiva dell’inviolabilità dell’infanzia. Tuttavia, non può non osservarsi come il legislatore abbia scelto la strada più semplice, rispetto alla alternativa, forse più effica‑ ce nel lungo periodo, di rafforzare gli apparati sociali di protezione e di integrazione dei minori sfruttati dalle loro famiglie30. L’inserimento del reato di impiego dei minori nell’accatto‑ naggio tra i delitti contro la personalità individuale reca una chiara scelta di valore che implica una nuova visione del mi‑ nore: non più oggetto di tutela ma soggetto di diritti. La pratica dell’accattonaggio, infatti, rischia di sottrarlo ad una serie di attività formative, quali l’istruzione scolastica, l’atti‑ vità ricreativa, l’esercizio di uno sport, attività tutte funzio‑ nali ad un armonioso sviluppo della sua personalità e tutte incluse nel più ampio diritto all’educazione di cui il minore è titolare. Istruire ed educare i figli è un dovere inderogabile dei genitori, ma in caso di incapacità di questi ultimi, è la legge a provvedere che siano assolti i loro compiti (art. 30 Cost.). Qui entra in gioco lo stato sociale: l’adempimento del dovere si sposta dai genitori ai pubblici poteri alla collettività31. In questa sede non si vuole, quindi, dubitare della rilevan‑ za penale di quei comportamenti che, anche se in nome di una millenaria tradizione culturale, violano il diritto del minore all’educazione. Anche la scelta del legislatore di criminalizza‑ re tout court l’impiego di minori nell’accattonaggio va in questa direzione: è palesemente diretta ad escludere qualsivo‑ glia efficacia scriminante o scusante a pratiche riconosciute come tradizionalmente appartenenti alle culture di talune minoranze etniche come quella rom. La nostra intenzione è piuttosto quella di sottolineare come l’art. 600‑octies c.p. ap‑ paia più idoneo ad arginare il fenomeno dell’impiego dei mi‑ nori nell’accattonaggio, senza la necessità di ricorrere alla più grave figura criminosa della riduzione in schiavitù o servitù, preposta alla repressione di fenomeni criminali ben più gravi e di diverso disvalore. Sarebbe stato forse preferibile, onde evitare la repressione di condotte sporadiche e isolate sicura‑ mente non lesive del bene giuridico di riferimento, che il legi‑ slatore avesse costruito il reato come reato abituale. L’art. 600‑octies si apre con una clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato” che non compariva nell’art. 671 c.p. La clausola spiega i suoi effetti essenzialmen‑ te in relazione alle due fattispecie criminologicamente conti‑ gue: l’art. 600 e l’art. 572 c.p. Per quanto riguarda il delitto 30In questo senso SCOLETTA, Nuovo delitto di impiego di minori nell’accatto‑ naggio, in AA. VV., Sistema Penale e «sicurezza pubblica». Le riforme del 2009, a cura di CORBETTA‑DELLA BELLA‑GATTA, Milano 2009, 123. 31IASEVOLI, Diritto all’educazione e processo penale minorile, cit. p. 41. penale Gazzetta 66 D i r itto e p r o c e du r a di riduzione in schiavitù, ci limitiamo a precisare quanto già evidenziato. La norma menziona tra le condotte punibili anche la co‑ strizione all’accattonaggio. Tuttavia, la previsione trae fonda‑ mento dalla diffusa prassi criminale di “importare” persone provenienti essenzialmente dall’est europeo (o comunque da altre zone sottosviluppate del mondo), da ridurre in schiavitù o servitù e da impiegare in prestazioni lavorative che ne com‑ portano, in qualunque modo, lo sfruttamento. Si tratta di un’ipotesi di reato ben più grave rispetto a quella contempla‑ ta dall’art. 600‑octies, che sarà destinata a trovare applica‑ zione quando il soggetto sia costretto a mendicare mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, o approfitta‑ mentodi una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità o mediante la promessa di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona” e sia ridotto in uno stato di soggezione continua, con tutte le difficoltà connesse all’accertamento probatorio dello stato di soggezione di cui si è detto. A nostro avviso, la fattispecie di cui all’art. 600 c.p., per i motivi che hanno ispirato la sua riformulazione, è adatta a regolare un fenomeno criminale ben diverso da quello dell’uti‑ lizzo di un minore nella pratica dell’elemosina. Con la riforma dei reati concernenti la tratta di persone, il legislatore ha in‑ teso punire comportamenti criminali di tutt’altro spessore. Si aggiunga anche che in sede di accertamento giudiziale del fatto di cui all’art. 600 c.p. non può non prendersi in considerazione – come pure è stato sostenuto – la percezione dello stato di soggezione da parte del soggetto passivo. Quel‑ li che per noi possono essere considerati orrendi maltratta‑ menti – lo stesso discorso è valido, ovviamente, anche in rife‑ rimento al reato di cui all’art. 572 c.p. – in altri contesti cul‑ turali possono essere avvertiti come naturali32. Per queste ragioni dovrebbe trovare più facile applicazione l’art. 600‑octies, la cui formulazione in termini di reato di pericolo astratto consente da un lato di prescindere dall’ac‑ certamento in concreto della sofferenza psichica o fisica arre‑ cata al minore e del suo stato di soggezione, dall’altro potreb‑ be risultare più efficace sia in termini di prevenzione generale che di prevenzione speciale. 3. Il fattore culturale nel sistema penale italiano La giurisprudenza di legittimità da tempo ha escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accattonaggio, stabilendo che la mozione culturale o di costume non esclude mai l’elemento psicologico del reato. «In tema di riduzione e mantenimento in servitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambi‑ ni in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuativa e costretti all’accattonaggio, non è invocabile da parte degli autori di tali condotte la causa di giustifica‑ zione dell’esercizio del diritto per richiamo alle consuetudi‑ ni delle popolazioni zingare di impiegare i bambini nell’ac‑ cattonaggio, poiché la consuetudine può avere efficacia 32Sul punto: DELOGU, Commentario al diritto della famiglia, in Diritto penale: Codice Penale: delitti contro il matrimonio, delitti contro la morale familiare, delitti contro lo stato di famiglia, delitti contro l’assistenza familiare, a cura di CIAN‑OPPO‑TRABUCCHI, vol. VII, 1995, p. 659. p e n al e Gazzetta F O R E N S E scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 delle preleggi». Il diritto penale italiano è da sempre restio a giustificare, o anche a valutare solo con una certa indulgenza, la commis‑ sione di fatti penalmente rilevanti quando siano il frutto di un c.d. conflitto normativo, cioè quando risultano approvati, accettati, oppure in tutto o in parte giustificati in base alle norme culturali del gruppo minoritario cui l’autore del fatto appartiene. Nessuna norma sembra attualmente pensata per attenua‑ re le conseguenze penali applicabili all’autore dei reati c.d. “culturali” o “culturalmente orientati”33. La cronaca giudiziaria offre un catalogo assai vasto di illeciti penali culturali: reati contro la libertà sessuale, contro la famiglia, o reati contro la persona commessi effettuando mutilazioni o deformazioni rituali di vario tipo. La Corte di Cassazione, nella maggioranza dei casi, si è dimostrata refrat‑ taria a giustificare l’illecito commesso per motivi culturali, ritenendo prevalente il principio di obbligatorietà e territoria‑ lità della legge penale italiana ex art. 3 c.p. Il codice Rocco «reca una fotografia della società italiana quale società chiusa in se stessa e caratterizzata da una ma‑ trice culturale omogenea che non corrisponde più agli assetti attuali34». Sulla scorta, però, di ingenti flussi migratori che vedono persone del Nord‑Africa o dei Balcani giungere nel nostro Paese, questa tendenziale omogeneità culturale sta progressi‑ vamente svanendo. È doveroso perciò chiedersi se il nostro sistema penale debba continuare ad essere completamente insensibile alla “differenza culturale”. La risposta penale ai reati culturalmente orientati varia a seconda della politica che ciascun Paese coinvolto dal feno‑ meno dell’immigrazione sceglie di adottare per far fronte alla diffusione progressiva nel proprio Stato di tradizioni culturali diverse da quella della maggioranza. La scelta è sostanzialmente limitata a due alternative: optare per una politica multiculturalista (volta alla salvaguardia delle diffe‑ renze culturali) o assimilazionista (volta, all’opposto, all’uni‑ formazione delle culture minoritarie a quella maggioritaria). Ambedue le opzioni presentano aspetti negativi e aspetti positivi. Alcuni studiosi hanno sottolineato che la valorizzazione delle differenze insite in una politica di stampo multicultura‑ le, lungi dal favorire un interscambio tra i diversi soggetti presenti in un determinato Paese, può agevolmente condurre ad una reciproca chiusura tra le rispettive culture, con il ri‑ schio di provocare un fenomeno di “sfaldamento sociale”35. I detrattori più fermi dell’approccio culturale paventano addi‑ rittura il sorgere di enclavi, di ghetti o di tribù in lotta fra 33Per una compiuta analisi sui reati “culturali”: BASILE, Premesse per uno studio sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giuri‑ sprudenza europea sui c.d. reati culturalmente motivati, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2008, 149; dello stesso Autore, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminali), in Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 1256. 34 A. GENTILE, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il prudente approccio della Cassazione ai c.d. “reati culturali”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 424 35 COLOMBO, Le società multiculturali, Roma, 2002, p. 68 F O R E N S E luglio • A G O S T O loro, in un generale contesto caratterizzato dall’intolleranza verso il diverso. L’accettazione incondizionata di un modello multicultu‑ ralista potrebbe addirittura rivelarsi un male per i soggetti afferenti a ciascun gruppo minoritario che magari potrebbe‑ ro voler sfuggire alle loro origini culturali e integrarsi nella società maggioritaria. Inoltre, la creazione di esimenti cultu‑ rali può avere ripercussioni sul piano della prevenzione gene‑ rale36. La consapevolezza della possibilità di sfuggire ai rigori della legge penale nazionale in ragione della propria apparte‑ nenza ad una minoranza culturale, finirebbe per pregiudicare tanto la funzione deterrente di talune norme incriminatrici, quanto la funzione di orientamento culturale che queste ulti‑ me esercitano sulla maggioranza. Il riconoscimento in sede penale del fattore culturale tenderebbe a sacrificare, poi, in nome di indefiniti diritti collettivi culturali beni giuridici in‑ dividuali meritevoli di tutela, come la vita, la salute, l’autode‑ terminazione sessuale, la libertà, la dignità ecc. Ancora, il punire meno severamente o addirittura il rite‑ nere esenti da pena taluni reati se commessi sotto l’influsso del fattore culturale implicherebbe irragionevoli disparità di trattamento fra i consociati, in palese violazione del principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, comma 1 della Costituzione37, in base al quale “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza, lingua, di reli‑ gione”… Ovviamente anche l’adozione di politiche di stampo assi‑ milazionista non è priva di aspetti negativi. Una politica ispirata all’ideologia assimilazionista, incentrata sulla rigida applicazione del principio di uguaglianza formale, rischia di risolversi in una violazione del principio di uguaglianza so‑ stanziale e vanificare qualsiasi funzione della pena. Pensiamo alla prevenzione generale positiva che potrebbe rischiare di essere delegittimata qualora il suo effetto di consenso intorno ai valori tutelati implichi la negazione di tradizioni e compor‑ tamenti diversi da quelli condivisi dalla maggioranza. In sintesi, rispetto alle minoranze, la pena non svolgerebbe più la sua funzione di orientamento culturale. Sotto il profilo special‑preventivo, una politica insensibile alle istanze pluraliste verrebbe a vanificare anche la funzione rieducativa‑risocializzante della pena nei confronti di sogget‑ ti culturalmente diversi. Qualora venissero sottoposti a sanzione penale fatti non lesivi di beni giuridici fondamentali, ma soltanto secondari o espressivi di un costume, in deroga al principio di extrema ratio, la pena finirebbe col pretendere di modificare le abitu‑ dini culturali dell’autore, imponendogli di convertirsi a rego‑ le non indispensabili e non avvertite come proprie. L’adozione di un modello incondizionatamente assimila‑ zionista finirebbe, dunque, per risolversi in una lesione del principio di uguaglianza sostanziale, costituzionalmente sancito all’art. 3, comma 2 della Costituzione. Posto che tanto politiche criminali a carattere multicultu‑ 36Sulle funzioni della pena: MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, fun‑ zione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992. 37 A. GENTILE, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il prudente approccio della Cassazione ai c.d. “reati culturali”, cit., p. 430 2 0 1 3 67 rale quanto a carattere assimilazionistapresentano numerose controindicazioni, ciò che varia da uno Stato all’altro è il peso specifico attribuito a ciascuna delle conseguenze negati‑ ve appena citate. Peso che può mutare anche all’interno di ogni Paese col susseguirsi di governi di diverso indirizzo politi‑ co‑ideologico o sull’onda di situazioni o fatti capaci di modi‑ ficare, al contempo, l’opinione dei cittadini e dei loro rappre‑ sentanti. In Italia, in particolare, si adottano atteggiamenti caratte‑ rizzati da una scarsa coerenza: all’assenza di un progetto di integrazione delle minoranze, fa da contraltare la pretesa di un pieno ed incondizionato rispetto delle regole che devono essere accettate da tutti i residenti dello Stato, in nome di un concet‑ to di uguaglianza che consente il mantenimento di particolari‑ smi culturali solo all’interno della sfera privata, a condizione, ovviamente, che non ledano diritti fondamentali38. Tuttavia, accanto a sentenze che mostrano una totale chiusura nei confronti del fattore culturale, ve ne sono altre in cui la Cassazione considera il fattore culturale come rile‑ vante ai fini della commisurazione della pena, oppure come errore sul divieto dettato da ignoranza inevitabile. Tale giuri‑ sprudenza ondivaga mette in crisi, chiaramente, i principi di uguaglianza e di certezza giuridica. 4. Rilievi conclusivi Da qui la domanda: come deve reagire l’ordinamento penale rispetto al fenomeno dei reati c.d. culturali, ai quali sembra appartenere il delitto di impiego di minori nell’accat‑ tonaggio? Le soluzioni astrattamente prospettabili sono due: intro‑ durre apposite figure di reato fondate sul fattore culturale oppure riplasmare alcune categorie dommatiche. In merito alla prima soluzione, va chiarito che tale inter‑ vento ha senso solo laddove abbia ad oggetto specifiche pra‑ tiche culturalmente motivate (si pensi alle mutilazioni genita‑ li oppure alle deformazioni corporee a carattere ornamentale), non già generiche condotte di matrice culturale come abusi o maltrattamenti. La seconda soluzione appare più complessa. Le categorie o gli istituti “manipolabili” possono essere l’antigiuridicità, l’inesigibilità, o la colpevolezza. Per quanto riguarda l’antigiuridicità, la soluzione sarebbe quella di attribuire specifici effetti giuridici alle “situazioni quasi scriminanti39” nelle quali rientrano ipotesi in cui gli estremi delle cause di giustificazione sussistono in maniera “incompleta”. Si pensi al marito musulmano che agisce con estrema violenza nei confronti di un altro uomo che sollevi il velo dal capo della moglie per difendere l’onore di costei. In questo caso mancherebbe uno degli elementi oggettivi della legittima difesa, cioè la proporzione tra offesa e difesa, ma sarebbero al contrario presenti gli elementi soggettivi40, in quanto il soggetto si sarebbe rappresentato la situazione scri‑ 38 A. GENTILE, cit., 432 39Per tutti, SCHIAFFO, Le situazioni quasi scriminanti nella sistematica teleolo‑ gica del reato: contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti della giustificazione, Napoli, 1998 40Sugli elementi soggettivi nelle cause di giustificazione, MOCCIA, Il diritto pe‑ nale tra essere e valore, funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p. 193 ss. penale Gazzetta 68 D i r itto e p r o c e du r a minante e tale rappresentazione ha influito sul suo agire esterno. Quindi, si potrebbe ipotizzare un trattamento san‑ zionatorio attenuato, in quanto il fatto sarebbe giustificato soltanto parzialmente; il che, però, comporterebbe una totale rinuncia al criterio della proporzione, che nel nostro ordina‑ mento è uno dei presupposti fondamentali per il riconosci‑ mento di una causa di giustificazione. In ordine alla previsione di una clausola di inesigibilità41, applicabile a tutti i reati culturalmente orientati, va rilevato che essa condurrebbe all’attribuzione al giudice, in via esclu‑ siva, della facoltà di valutare il processo motivazionale dell’au‑ tore del reato, in palese violazione del principio di legalità formale, in quanto si tratterebbe di una valutazione effettua‑ ta su criteri troppo discrezionali. Probabilmente la soluzione più praticabile è quella di utilizzare la categoria della colpevolezza; in alcuni casi può essere tranquillamente invocata l’ignoranza inevitabile dell’il‑ liceità del fatto in chiave di esclusione della colpevolezza. Un’alternativa sarebbe considerare il fattore culturale come elemento da valutare in sede di commisurazione giudiziale della pena. Questa opzione è aderente a quelle situazioni in cui in nome di una discutibile tradizione culturale siano stati lesi dei beni giuridici che la nostra Costituzione considera fondamentali. Nelle ipotesi di impiego di minori nell’accattonaggio il fattore culturale è generalmente ritenuto irrilevante. A nostro avviso, quando ad essere violato è un diritto costituzionale, come quello all’educazione, è chiaro che il si‑ stema penale non può non intervenire. Tuttavia la risposta sanzionatoria deve essere proporzionata rispetto alla respon‑ sabilità del soggetto in ordine al fatto. Il fattore culturale potrebbe quindi fungere da elemento in grado di graduare la responsabilità, ma non tale da escludere la punibilità. Riteniamo che questa sia la soluzione più praticabile in caso di violazione di diritti fondamentali motivata dall’ade‑ sione alla cultura minoritaria di appartenenza. In relazione al caso di specie che ha offerto l’occasione per le nostre riflessioni, c’è da chiedersi se la finalità rieducativa della sanzione spiegherà la sua efficacia anche nei confronti dell’imputato che, pur sottostando alle regole dell’ordinamen‑ to penale italiano, vede quelle che per la Cassazione sono inaccettabili violenze fisiche o psicologiche finalizzate allo sfruttamento economico, come pratiche normali e naturali. 41Sul principio di inesigibilità v. tra gli altri, FORNASARI,Il principio di inesigi‑ bilità nel diritto penale, Padova, 1990 p e n al e Gazzetta F O R E N S E Gazzetta F O R E N S E luglio • A G O S T O ● 69 CASSAZIONE PENALE SEZIONE I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324 Pres. Chieffi, Rel. La Posta, P.M. Cedrangolo; Ric. PG pres‑ so la Corte di Appello di Bari Nota a Cassazione penale, sez. I sentenza 11 gennaio 2013, n. 6324 ● Fabiana Falato Ricercatore di Procedura penale e Professore aggregato di Cooperazione giudiziaria penale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Pubblico ministero – Impugnazione dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione – procura Generale presso la Corte di Appello – Le‑ gittimazione ad impugnare decisioni emesse dal tribunale – Esclu‑ sione – (Cod. proc. pen. artt. 672, 667 comma 4, 666; Reg; comma 1, 665 comma 1, 665 comma 2, 655 comma 2, 656 comma 1, 658, 659; ord. giud. artt. 73 comma 1, 78 comma 1) La legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione spetta, in via esclusiva, per espres‑ sa designazione del legislatore, al pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento, non potendosi riconoscere al procuratore generale presso la Corte d’appello un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli dall’art. 570 c.p.p. nel giudizio di cognizione. ••• Nota a sentenza SOMMARIO: 1. Premesse di metodo – 2. Ancora sulla natu‑ ra della fase esecutiva – 3. I parametri della legittimazione del pubblico ministero nella fase della esecuzione della pe‑ na – 4. La soluzione prospettata 1. Premesse di metodo La Corte di cassazione, ritenendo che il procuratore gene‑ rale della Corte di appello non ha titolo per impugnare i provvedimenti emessi dal Tribunale in veste di giudice della esecuzione e stabilendo la legittimazione alla impugnazione esclusivamente in capo al pubblico ministero che ha avuto il ruolo di parte nel procedimento esecutivo, pone una serie di problemi di natura sistematica e, ancor prima, di teoria gene‑ rale del processo. Specificamente, i primi riguardano la legittimazione del pubblico ministero a proporre il ricorso per Cassazione avver‑ so i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione, in gene‑ rale, e nel caso particolare, dell’ordinanza applicativa dell’in‑ dulto, i quali, a loro volta, nel caso che ci occupa, presuppon‑ gono la individuazione del giudice funzionalmente competen‑ te a ricevere la istanza di concessione del beneficio dell’indulto; i secondi impongono di chiarire se la competenza del pubblico ministero nel procedimento di esecuzione segue percorsi spe‑ ciali, dunque, alternativi a quelli previsti dall’ordinamento. La Corte ha dato una risposta fondata sul precedente giurisprudenziale che basata sul sistema, che non può condi‑ vidersi; non perché non si riconosca la dimensione innovativa di quella forma di creazione del diritto, quanto perché – come in questo caso – sempre più spesso i giudici superano i limiti che definiscono (devono definire) le relazioni tra legalità ed ermeneutica. Certo, non si negano la vocazione giurisprudenziale nostro ordinamento né la funzione giurisprudenza che «quale luogo di mediazione tra legge e diritto, contiene in sé il connotato penale Sulla individuazione dell’organo dell’accusa nella fase della esecuzione 2 0 1 3 70 D i r itto e p r o c e du r a creativo indispensabile nel raccordo tra comando astratto e caso concreto»; né si ignora che «il momento giurisprudenzia‑ le rappresenta un fattore endemico nella dinamicità del dirit‑ to positivo, nel suo progredire storico, nel suo adeguarsi alla situazione contingente»1, tuttavia, non si può condividere che i prodotti della giurisprudenza finiscano per sostituire le fonti legali nella interpretazione del dato sistematico, soprat‑ tutto quando queste ultime trovano collocazione nella Costi‑ tuzione ed il prodotto promana dalla Corte di cassazione. È vero che sono previste eccezioni, ma esse riguardano le pronunce additive della Corte costituzionale2. E poi, qui si discute di legalità costituzionale che conferisce alla (sola) Corte costituzionale la possibilità di creare anche al di fuori delle regole (processuali) dello specifico settore, mentre «la Cassazione può creare nell’ambito della legalità processuale e, quindi, senza alterare principi e regole di sistema»3. Perciò non può trovare ingresso nel sistema un diritto giurisprudenziale opera della Corte di cassazione che crea– e non solo orienta (65 ord. giud.; 610 comma 2; 618 comma 1 c.p.p.; 172 disp. att.) – la fonte ignorando l’esistenza di prin‑ cipi sistematici costituzionali ed ordinamentali; per questo, quel diritto giammai può prescindere dal sistema, dovendo, viceversa, essere ricavato da esso. Infatti, a renderlo legittimoè soltanto la coerenza col sistema, soprattutto con quello che si evince dai principi enunciati nel Preambolo penalistico della Costituzione costituisce la sintesi ragionata e razionale della filosofia costituzionale nella materia penale. Ragionare diversamente, e cioè, affidare i dirittialla giuri‑ sprudenza costituisce attentato al principio di legalità costitu‑ zionale, in quanto significherebbe alterare l’assetto complessi‑ vo del sistema dei diritti procedurali dell’individuo4; e se la giurisprudenza è quella della Corte di cassazione, allora ca‑ drebbe in crisi la stessa (sua) funzione di «nomofilachia» (= νομοφύλαξ, composto da νόμος, legge, e φύλαξ, custode)5. Dunque: se lo scopo della Cassazione «è uno scopo costi‑ tuzionale di coordinamento tra funzione legislativa e funzio‑ ne giudiziaria»6, l’eccessivo ampliamento del suo diritto finisce per mortificare, s’è detto, il principio di legalità che in proce‑ dura penale non corrisponde soltanto al principio di riserva di legge, rimandando ai principi di tutela delle posizioni sog‑ gettive protette nel processo. In questo senso occorre ritrovare l’uniformità sistematica, attuando senza indugio la legalità processuale, utilizzando, cioè, tutte le potenzialità insite nel sistema, nel sostanziale 1 Le osservazioni sono di G. Riccio, La Procedura Penale. Tra storia e politica, Napoli, 2010, pp. 87‑88. 2Tuttavia, la recente giurisprduenza della Corte costituzionale sembra rinoscere rilievo al diritto vivente specialmente se cristallizzato a seguito di interventi delle Sezioni Unite, al punto da reputare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ordinanze che lo trascurano. Da ultima, Corte cost., 12 ottobre 2012, n. 230, inedita. 3 Letteralmente, G. Riccio, La Procedura Penale, cit., pp. 87‑88. 4 Ancora G. Riccio, La Procedura Penale, cit., p. 96. 5 … vocabolo con cui nell'antica Grecia si designava il magistrato al quale, in alcune città, era affidato il compito di custodire in un archivio il testo ufficiale delle leggi, e quindi di assicurare la stabilità della legislazione. 6P. Calamandrei‑C. Furno, voce Cassazione civile, in Noviss. dig. it.,, II, To‑ rino, 1958, p. 1055. Di recente, sul ruolo della Cassazione, da ultimi, tra gli altri, F. M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2013, p. 1 ss.; E. Lupo, Il ruolo della cassazione: tradizioni e mutamenti, in Arch. pen., 2012, n. 1, p. 1 ss. p e n al e Gazzetta F O R E N S E rispetto dello stesso ed in un rinnovato positivismo, che non significa mero ossequio dei codici, quanto un auspicabile punto di confluenza metodologico. Questa è l’unica via praticabile per ovviare al rischio del‑ le degenerazioni del diritto giurisprudenziale. E poi, non bisogna trascurare che una giurisprudenza, sia pure consolidata, non cristallizza la norma in quella interpre‑ tazione, limitandosi ad esprimere un momento di relativa stabilità di dati ermeneutici, non certo irreversibile, proprio perché la vivenza norma è vicenda per definizione aperta. Nella pronuncia in esame il rischio di caduta del sistema è reale: la Corte, dichiarando inammissibile il ricorso presen‑ tato dal procuratore generale presso la Corte di appello per difetto di legittimazione, nega l’applicabilità nella fase della esecuzione della disposizione generale dell’art. 570 c.p.p., alla quale non riconosce (in quella fase) il ruolo di norma attributiva di potere, nonostante dal combinato disposto degli artt. 570 comma 1; 568 comma 3 (comma 4) c.p.p. non si evinca alcuna preclusione. Così facendo, confutando l’esistenza della fonte legislativa, la stessa Corte risolve il problema della legittimazione ad impugnare i provvedimenti del giudice della esecuzione at‑ traverso il rinvio al precedente giurisprudenziale in questo caso diventa fonte giurisprudenziale del diritto si sostituisce alla fonte legislativa del diritto. Le ricadute sono di facile intelligibilità: il tema coinvolge non tanto la legittimità del diritto vivente, quanto, soprat‑ tutto, il prevalere di scelte ermeneutiche sul tecnicismo giu‑ ridico, nonché la specificità dei contenuti della legalità proces‑ suale (= legalità del procedere come primato della legge nel momento del procedere7). Lo è anche il rischio che si corre: la perdita di identità delle connotazioni legali di quel segmento di sistema. Nel caso che ci occupa, riportandosi ad un orientamento costante sul punto8, la cassazione, premettendo che «l’auto‑ nomia funzionale conferita dall’ordinamento processuale ai singoli rappresentati del pubblico ministero rispetto a tutte quelle attività per le quali non è diversamente stabilito indu‑ ce a ritenere che, anche in tema di impugnazione, non è consentita, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, la sostituzione dell’organo di grado superiore a quello presso il giudice che ha deliberato il provvedimento e che è natural‑ mente legittimato a contestarlo», e che nel concetto di parte utilizzato nell’art. 570 comma 1 non può comprendersi la procura generale rimasta estranea al procedimento di esecu‑ zione9, conclude affermando che «nel caso di specie il procu‑ 7N. Galantini, Considerazioni sul principio di legalità, in Cass. pen., 1999, 6, p. 1989: «nell’art. 101 secondo comma della Costituzione la soggezione del giudice soltanto alla legge sta a significare non solo l’indipendenza interna o funzionale nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, ovvero l’indipendenza esterna o istituzionale rispetto agli altri poteri, ma in particolare la subordinazi‑ one della funzione del giudicare e del procedere all’impero della legge». Precedentemente, in tal senso, S. Fois, voce Legalità (principio di), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, p. 662. 8 Cass., sez. I, 24 novembre 2010, n. 1375, in CED Cass., n. 249203; Id., I, 27 ottobre 2006, n. 38846, ivi, n. 235981; Id., I, 2 febbraio 1999, n. 943, ivi, n. 212743; Id., I, 8 febbraio 1999, n. 1119, ivi, n. 213287; Id., 29 gennaio 1996, Lucci, in Cass. pen., 1997, p. 106. 9 La riferita ulteriore premessa, sebbene non sia stata riportata nella parte mo‑ tiva della sentenza in commento, si deduce dal riferimento contenuto nella decisione de qua alla sentenza della I sezione della Corte di cassazione, n. 943 del 2 febbraio 1999, cit., della quale costituisce l’oggetto. F O R E N S E luglio • A G O S T O ratore generale presso la Corte di appello di Bari non è stato parte nel procedimento di esecuzione nel quale è stato emes‑ so il provvedimento impugnato; pertanto, non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso detto provvedi‑ mento in quanto soggetto diverso dai protagonisti della dialettica processuale del procedimento specifico, rimasto estraneo a quella fase processuale». È evidente che la Cassazione, così ragionando, individua percorsi atipici rispetto a quelli fissati dal legislatore, alteran‑ do le regole di sistema in punto di ruolo pubblico ministero nel procedimento di esecuzione, nonché di legittimazione ad impugnare, in particolare. Si ammette – giova ripeterlo – la possibilità di correttivi esegetici – è, però, quelli non compromettano il rispetto dei parametri dell’ordinamento costituzionale e processuale. Il pericolo, invece, che qui si corre è di mettere in crisi l’intima connessione tra il riconoscimento dei diritti procedu‑ rali dell’indagato/imputato e l’organizzazione dei poteri pub‑ blici del processo penale; la quale fonda sulla indiscussa, strumentale, reciprocità tra assetto costituzionale del pubblico ministero ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge10. 2. Ancora sulla natura della fase esecutiva Altro punto da chiarire, ulteriore, necessaria premessa delle soluzioni adottate in contrasto con il dictum cassazione, riguarda la natura della fase della esecuzione. Sul punto il dibattito resta aperto11 ma privo di spunti di originalità. Gli orientamenti dottrinali, infatti, finiscono per ripetere teorie elaborate nei codici precedenti12 , che appaiono superate anche alla luce delle spinte europeiste e comunitarie che interessano i profili del processo penale in generale e della fase dell’esecuzione, in particolare13. È evidente che la causa principale della incertezza circa la 10G. Riccio, Sulla riforma dello statuto del pubblico ministero, Napoli, 2011, pp. 34‑35. 11 … nonostante dottrina recente ritenga che appartengano «oramai alla memoria storica le annose dispute sulla sua [fase esecutiva] natura giuridica»: S. Lo‑ russo, Giudice, pubblico ministero e difesa nella fase esecutiva, Milano, 2002, p. 73. La ricostruzione degli orientamenti dottrinali operata, in sintesi, nel testo di‑ mostrano, tuttavia, il contrario. 12 La natura della fase esecutiva ha dato luogo a numerose discussioni nel vigore dei codici precedenti. Nonostante la letteratura formatasi al riguardo sia ricca di contributi, qui ci si limita a riassumere le varie opinioni. Da una parte, vi erano quegli autori che nella procedura di esecuzione vedevano esclusivamente un’attività giurisdizionale: la teoria era sostenuta principalmente dagli autori tedeschi, mentre in Italia, tra gli altri, dal Conso (voce Diritto processuale pe‑ nale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 156), dal Mortara (Commentario del codice e delle leggi di procedura penale. Della esecuzione, n. 3, p. 3), dal Flo‑ rian (Principi di diritto processuale italiano, Torino, 1932, p. 76), dal Vassalli (La potestà punitiva, Torino, 1942, p. 150). Dall’altra chi vi ravvisava una at‑ tività esclusivamente amministrativa: la teoria era propugnata dai giuristi francesi e in Italia dal Bellavista (Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1956, p. 283), dal Leone (Lineamenti di diritto processuale penale, Napoli, 1956, p. 567), dal Marsich (L’esecuzione penale, Padova, 1927, p. 24 ss.). In Italia, tuttavia, prevalse una teoria cd. mista, secondo la quale nel procedi‑ mento di esecuzione era ravvisabile una parte di carattere amministrativo ed una parte di carattere giurisdizionale; quest’ultima riservata al controllo giudi‑ ziale sulla esecuzione stessa. Tra i seguaci, tra gli altri, il Lucchini (Principi di procedura penale, Firenze, p. 63), il Manzini (Istituzioni di diritto processuale penale secondo il nuovo codice, Padova, 1932, vol. IV, p. 721), il Sabatini (Principi di diritto processuale penale, Città di Castello, 1931, p. 132), il San‑ toro (Fondamenti della esecuzione penale, Roma, 1931, pp. 127‑129), il Sotgiu (L’esecuzione penale, Roma, 1935, vol. I, p. 132). Per l’approfondimento si rinvia a A. Santoro, Fondamenti della esecuzione penale, Roma, 1931, p. 103 ss. 13 Corte cost., 17 maggio 2001, n. 146, in Giur. cost., 2001, p. 3. 2 0 1 3 71 determinazione della natura della esecuzione penale – di qui la pluralità di teorie al riguardo – continua a derivare dalla difficoltà di determinare con esattezza il concetto di giurisdi‑ zione. Secondo una parte della dottrina recente, «la vicenda esecutiva di per sé scaturisce, come conseguenza necessaria, dal perfezionamento di determinate fattispecie processuali […]; non sono previsti controlli preventivi di carattere giuri‑ sdizionale; è sufficiente la sola iniziativa dell’ufficio del PM che agisce quasi come organo di natura amministrativa, por‑ tatore di un potere di attuazione pratica del comando conte‑ nuto nel provvedimento del giudice». Questa situazione – con‑ tinua la dottrina – «se da un lato rappresenta la scoria di un’epoca neppure troppo lontana, nella quale la fase dell’ese‑ cuzione era ritenuta di natura puramente amministrativa ed in quanto tale extragiurisdizionale, da un altro lato, rende indiscutibile la netta scansione tra momento “amministrati‑ vo”, caratterizzato dalla sola esplicazione della forza attuati‑ va del comando contenuto nel dispositivo del provvedimento da eseguire e momento “giurisdizionale” dedicato al control‑ lo, secondo i principi e le garanzie propri della giurisdizione, delle situazioni giuridiche che nella loro mera apparenza do‑ cumentale hanno legittimato l’inizio dell’esecuzione»14. Altra parte, invece, partendo dal presupposto «di uno stretto rapporto tra l’esistenza del processo e l’intervento del giudice»15, considera l’esecuzione penale una «appendice del processo, in quanto le attività che la costituiscono non sono certo attività di cognizione […] e quindi non appartengono al processo». Di conseguenza, conclude, «all’esecuzione non è riconoscibile quella “natura giurisdizionale” che compete alla sola fase della cognizione in quanto è in essa che agisce il giudice: le si deve invece attribuire “natura amministrativa” proprio per il suo consistere in attività meramente attuative, esulanti da qualunque contenuto conoscitivo e decisorio tipi‑ co di quelle del giudice»16. Altra parte, infine, ritiene, in generale, che la fase esecu‑ tiva debba essere considerata giurisdizionale, nel senso della presenza delle garanzie minime imposte dal combinato dispo‑ sto degli artt. 13, 24, 25, 102, 111 Cost. là dove ha introdot‑ to una riserva costituzionale di giurisdizione in materia di libertà personale. Si dice: poiché la libertà personale è materia sulla quale incide la esecuzione penale, essa non può sottrar si ai requisiti fondamentali individuati in ossequio a tale ri‑ 14 Letteralmente, A. A. Sammarco, Il procedimento di esecuzione, in G. Span‑ gher, Trattato di procedura penale, vol. VI, a cura di L. Kalb, 2009, p. 241. 15 «Il concetto stesso del processo si identifica con quello della presenza del giudice e quindi della, per ciò solo dedotta, natura giurisdizionale delle attività che lo costituiscono, sino ad escludere, sul piano della costruzione dogmatica, da un lato che di processo si possa parlare, allorché non è previsto un simile inter‑ vento, principale ed assorbente del giudice; dall’altro, che all’intervento del giudice si debba egualmente fare ricorso anche allorché si tratta di compiere attività che non rientrano nei limiti logico‑temporali entro i quali è racchiuso e confinato il processo»: F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p. 30. 16 Letteralmente, F. Corbi, L’esecuzione, cit., p. 30. Conformi, M. Ceresa‑Gast‑ aldo, Esecuzione, in Aa. Vv., Compendio di procedura penale, cit., 2012, p. 1073; F. Fiorentin‑ G. G. Sandrelli, L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali. Disciplina dell’esecuzione penale e penitenziaria, Padova, 2007, p. 92. In giurisprudenza, in tal senso, tra le altre, Cass., I, 11 agosto 1999, Crea, in Cass. pen., 2001, p. 202; Id., I, 30 novembre 1994, D’Annibale, inedita; Id., I, 22 gennaio 1992, Pilone, in Cass. pen., 1993, p. 1484; Id., I, 23 ottobre 1991, Piu, in Riv. pen., 1993, p. 93. penale Gazzetta 72 D i r itto e p r o c e du r a serva, che devono caratterizzare tutte le procedure aventi ad oggetto quella libertà17. Nella fase esecutiva – conclude – «la giurisdizione esecu‑ tiva in senso stretto è costituita dai provvedimenti del giudice dell’esecuzione di cui agli artt. 665‑676 c.p.p.»18. Nessun accenno alla natura delle attività prodromiche al procedimento di esecuzione (= artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p.), le quali, secondo noi, costituiscono il vero nervo scoperto della questione in esame. Anzi, volendo seguire le speculazioni della riferita dottri‑ na, sembrerebbe implicitamente esclusa o quantomeno affie‑ volita la natura giurisdizionale delle attività disciplinate dagli artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p. … che pure rientrano nella fase dell’esecuzione penale. Diciamo subito che per noi l’esecuzione è fase giurisdizio‑ nale e lo è nel suo complesso19. 17 Da ultimo, F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, pp. 7‑8. Attribuisce natura giurisdizionale alla fase esecutiva anche D. Vigoni, I procedi‑ menti dell’esecuzione penale, in Studi in onore di Mario Pisani, vol. III, Piacen‑ za, 2010, p. 125 ss.: «L’abbandono del riferimento all’incidente (di esecuzione) proprio della corrispondente disposizione del codice del 1930 (art. 630), privi‑ legiando nella rubrica dell’art. 666 c.p.p. il richiamo al procedimento (di ese‑ cuzione), pare soltanto rimarcare anche sul piano letterale la caratura giurisdi‑ zionale di questa fase: non vi è dubbio che l’intervento del giudice nella sede esecutiva presenti tuttora, viste le scelte normative di fondo, pur sempre natura incidentale». Precedentemente, M. Pisani, Problemi della giurisdizione penale, Padova, 1987, p. 23, ma già in voce Giurisdizione penale, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, pp. 389‑390: «una vera e propria attività giurisdizionale, sia pure in forme particolari (art. 628 ss.) trova spazio nel corso dell’esecuzione (la quale, di per sé, è piuttosto un facere che un dicere ius): e ciò allorquando insorge un qualche incidente di esecuzione. Si tratta, in complesso, di questioni le quali importano una specificazione della portata del giudicato, diretta o magari soltanto media‑ ta […]; oppure una risoluzione del giudicato stesso, per l’allegata insorgenza di fatti stintivi; oppure ancora l’accertamento di condizioni risolutive della sospen‑ sione a suo tempo intervenuta, e così via». Collegano, invece, la giurisdizionalità della fase esecutiva a bisogni di personaliz‑ zazione e di individualizzazione del trattamento penitenziario, per scopi di rie‑ ducazione e di risocializzazione del condannato, M. D’Onofrio‑M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Milano 2004, p. 339. 18 … mentre la «giurisdizione rieducativa (o giurisdizione sul contenuto sanzion‑ atorio del titolo) è invece quella affidata dagli artt. 677‑684 c.p.p., dalla legge di ordinamento penitenziario e da numerose disposizioni di leggi speciali al magistrato e al tribunale di sorveglianza […]»: F. Caprioli‑D. Vicoli, Proce‑ dura penale, cit., p. 7. 19 Del resto, lo si evince già dalla direttiva n. 79 della legge‑delega n. 108 del 3 aprile 1974, nonché dalle direttive nn. 96, 97, 98, 101 e 104 della legge‑delega n. 81 del 16 febbraio 1987. Conforme l’intervento della giurisprudenza costituzionale volto a ribadire la imprescindibilità della garanzia della giurisdizione in una fase centrale della tutela e delle libertà della persona. Tra le altre, a partire da Corte cost., 23 aprile 1974, n. 110; Id., 4 luglio 1974, n. 204; Id., 6 agosto 1979, n. 114, fino a Id., 4 novembre 1999, n. 422. Le sentenze sono consultabili sul sito www. giurcost.it Sul punto ampiamente, di recente, A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzio‑ ne penale (frammenti di giurisprudenza costituzionale, in Il diritto processuale penale nella giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Conso, Napoli, pp. 951‑952; F. Della Casa, Il progressivo “traghettamento” dell’esecuzione penitenziaria dall’amministrazione alla giurisdizione, ivi, p. 961 ss. Lo stesso discorso può farsi rispetto al particolare settore dell’esecuzione pena‑ le che concerne le misure di sicurezza. L’intervento del giudice di sorveglianza e, per il caso di ricorso contro il suo decreto, della Corte di appello e della Corte di cassazione impone, al di là di qualsiasi polemica sulla natura ammini‑ strativa o giurisdizionale delle misure di sicurezza – che esula dall’economia del nostro discorso – di riconoscerne il carattere giurisdizionale. La riprova è nel combinato disposto degli artt. 678 commi 3 e 4; 666; 178‑179 c.p.p.: l’art. 666, richiamato dall’art. 678 c.p.p. prescrive, ai commi 3 e 4, il procedimento camerale partecipato ai sensi dell’art. 127 c.p.p., con l’ulteriore requisito dell’intervento necessario del difensore e del pubblico ministero. Di conseguenza, se il giudice di sorveglianza provvede de plano, con inosservanza delle forme di rito prescritte, si determina una nullità di ordine generale e di carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, p e n al e Gazzetta F O R E N S E La soluzione fonda sulla distinzione tra giurisdizione in‑ tesa come valore giurisdizione intesa come canone di attribu‑ zione di specifiche competenze funzionali agli organi giuri‑ sdizionali. La prima ha portata generale, in quanto è connotato del processo. Lo dimostra la linea normativa degli artt. 105, 106 e 107 Cost., dalla quale si evince, se letta in combinato dispo‑ sto con l’art. 1 c.p.p., che il processo penale proprio perché consente l’esercizio – sia pure normativamente guidato – di poteri di immissione nelle libertà fondamentali della persona, non può che essere presidiato dal valore‑giurisdizione, la cui violazione costituisce causa di illegalità del processo (così si spiegano, ad esempio, gli artt. 178 lett. a); oppure l’art. 36 lett. f) e g) c.p.p.) La seconda caratterizza il sistema là dove, concretizzando la regola costituzionale contenuta nel terzo comma dell’art. 107 Cost., stabilisce l’ambito dei poteri dei soggetti pubblici nel processo. Entrambe soddisfano i bisogni garantisti del codice del 1989, fondato su legalità ed uguaglianza, cioè sui connotati indiscussi della democrazia. Ed è proprio la giurisdizione suo doppio significato a rendere improponibile qualsiasi comparazione con il codice del 1930, nel quale la fase esecutiva aveva fisiologicamente natura amministrativa20. Invero, la stretta giurisdizionalità – in uno con la stretta legalità – sono principi complementari che costituiscono ca‑ ratteristiche distintive dell’attuale modello (processuale) de‑ mocratico rispetto a quello autoritativo e rappresentano da un lato, il superamento di una acritica continuità storica e dall’altro, all’interno del sistema stesso, l’abbandono del siste‑ ma processuale di tipo inquisitorio che ha caratterizzato le scelte da tempi risalenti 21. In generale, la diversa filosofia di codificazione e soprat‑ tutto le precise scelte del legislatore del 1989 sulle funzioni istituzionali del processo penale e sulle correlative attribuzio‑ ni dei soggetti chiamati a vario titolo a prepararlo; il mutato ambito del giudice penale all’interno del Preambolo penalisti‑ co della Costituzioneconcretizza le ragioni di essenza e di le‑ gittimità della giurisdizione oltre alle garanzie ordinamentali per i magistrati ed i diritti fondamentali sono sintomi di un profondo mutamento di prospettiva rispetto al codice del 1930. Mutamento che fa superare il problema della natura amministrativa o giurisdizionale della fase esecutiva a favore della seconda, in quanto solo nell’impianto del codice del 1930 si poteva adbicare a natura giurisdizionale di una fase del processo – quella esecutiva, appunto – non solo perché il pro‑ cesso non fondava sulla giurisdizione ma sull’azione, ma anche perché l’azione era nel dominio di un soggetto avente natura amministrativa. Di conseguenza, se in quel modello l’esecuzione era con‑ per effetto della estensiva applicazione delle previsioni della omessa citazione dell’imputato e della assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza. Cass., sez. I, 28 settembre 2011, in Diritto & Giustizia, 2011, 22 ottobre. 20Sui precedenti storici della procedura esecutiva, ampiamente, D. Vigoni, I procedimenti dell’esecuzione penale, cit., p. 128 ss. 21G. Riccio, sub art. 1, in Codice di procedura penale, a cura di G. Tranchina, tomo I, Milano, 2008, p. 128. F O R E N S E luglio • A G O S T O siderata fase dell’azione e se il promovimento dell’azione spettava al pubblico ministero e cioè allo stato‑amministra‑ zione il quale avanzava l’istanza di applicazione della pena; analogamente il promovimento dell’esecuzione, fase finale dell’azione, spettava sempre al pubblico ministero, vale a dire allo stato‑amministrazione il quale avanzava l’istanza di at‑ tuazione della pena giurisdizionalmente concretata nei con‑ fronti di chi doveva subirla. Di conseguenza, la natura amministrativa dell’esecuzione era l’effetto della attribuzione della fase ai poteri amministra‑ tivi del pubblico ministero22. Nel codice del 1989 un siffatto ragionamento non è più sostenibile, e non solo perché il pubblico ministero ha smesso i panni di organo‑amministrazione, ma soprattutto in quanto sul piano dell’assetto sistematico la giurisdizione e, dunque, la giurisdizionalitàdel (di tutte le fase del) processo (sia pure con diverse modulazioni) ha primazia sull’azione. Sicché, giurisdizione‑giudice‑processo sono termini che da un lato, evocano un contesto organizzativo ben definito e dall’altro rappresentano la democraticità processo penale, nella misura in cui solo attraverso la giurisdizione si realizza nel processo stesso il controllo diffuso della validità della legge23. E al primato della giurisdizione nell’art. 1 del codice e oggi soprattutto nell’art. 111 della Costituzione non può sottrarsi la fase esecutiva, anzi, rispetto ad essa, quel binomio normativo rappresenta le ragioni dell’ampliamento della co‑ gnizione del giudice penale ad un contesto procedurale prima (nel codice del 1930) condiviso con il potere esecutivo. Anche qui la giurisdizione ha il compito di tenuta della legalità e di tutela delle situazioni soggettive protette ogni‑ qualvolta si realizzi un conflitto tra pretesa punitiva dello Stato e diritti della persona. Specificamente, il legislatore del 1988, nell’individuare l’oggetto della giurisdizione esecutiva, «ha adottato un crite‑ rio misto che, accanto alla descrizione normativa delle fatti‑ specie sottoponibili alla cognizione del giudice dell’esecuzio‑ ne, fa salva una sua competenza “ad ampio spettro”, a deci‑ dere tutte le questioni suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale»24. A ben vedere, la rilevanza della funzione garantista della giurisdizione vale sia per la fase della cognizione – dove ven‑ gono in rilievo i temi del diritto al processo e dei diritti nel processo – che per la fase della esecuzione, dove è evidente il bisogno di assicurare la effettività della pena, senza trascura‑ re la protezione dei diritti del condannato. Insomma, il dato valoriale della giurisdizione conserva 22 «Il taglio “minimalista di un’esecuzione penale relegata a margine del sistema, a guisa di mera appendice del processo, emergeva in primis dal ruolo di com‑ primari attribuito al giudice dell’esecuzione ed al giudice di sorveglianza, i quali, lungi dall’esercitare funzioni giurisdizionali, si limitavano a fornire un’interpretazione autentica del giudicato, rimuovendo – se del caso – gli osta‑ coli alla sua pratica attuazione. All’interno di tali spazi, la posizione di predo‑ minio attribuita al pubblico ministero, unitamente alle ingerenze del Ministero di (grazia) e giustizia, valevano a sottolineare il ruolo dell’esecuzione quale mera realizzazione in via amministrativa del diritto penale materiale e precisamente delle sanzioni da esso comminate e riconosciute e determinate dal giudice pe‑ nale»: A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale (frammenti di giurisprudenza costituzionale, cit., pp. 951‑952. 23G. Riccio, sub art. 1, in Codice di procedura penale, cit., p. 129. 24 A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit., p. 950. 2 0 1 3 73 unicità, nonostante le fasi in cui essa (la giurisdizione) si svolge presentano ontologie diverse. Non potrebbe essere altrimenti: le diverse manifestazioni della giurisdizionalità della fase esecutiva rispetto a quella cognitiva sono fisiologiche, dipendendo dalle differenti situa‑ zioni concrete che ne costituiscono l’ogget to (fase cognitiva=decisione circa la sussistenza del fatto e la responsa‑ bilità dell’imputato‑quantificazione ed irrogazione della pena/ fase esecutiva=effettività e concretezza del comando contenuto nel titolo esecutivo); le quali, a loro volta, si riflettono sul mo‑ do in cui la giurisdizione si manifesta. Vale a dire: nella fase cognitiva la giurisdizione risponde ai bisogni dell’accertamen‑ to; in quella esecutiva, essa concerne l’applicazione della san‑ zione e le prospettive di rieducazione del condannato. Certo, se cambia il modo di atteggiarsi della funzione (giurisdizionale), mutano anche gli standard di giurisdiziona‑ lità che nella fase esecutiva sono affievoliti rispetto ai canoni del giusto processo cognitivo25; giammai negati. Epperò, questa è una patologia del sistema, che può esse‑ re risolta soltanto dal legislatore26. Ebbene, le linee differenziali quanto a forme e a contenu‑ ti fanno emergere l’esatta portata delle norme che regolano la fase esecutiva nel codice attuale; il loro approfondimento, poi, soprattutto sotto il profilo della loro collocazione sistematica, dimostra che la successione delle disposizioni degli artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p. da un lato, e degli artt. 665‑676 c.p.p., dall’altro, disciplina (soltanto) le regole di comportamento rispettivamente per il pubblico ministero (artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p.) e per il giudice (artt. 665‑676 c.p.p.), senza 25 «[…] nel momento di esecuzione della pena il principio di parità delle parti – in particolar modo, visto lo strapotere del magistrato del pubblico ministero nella fase esecutiva – ma anche il principio del contraddittorio, soprattutto riguardo alla formazione della prova, quello della terzietà ed imparzialità del giudice, quello della ragionevole durata del procedimento, quello del diritto all’interprete non vengono salvaguardati alla stregua di quanto avviene nelle altre fasi del processo penale. Probabilmente sul presupposto – errato – che essendovi stato un giudizio e una condanna, non vi è più necessità di garantire i diritti del condannato. Riguardo questo aspetto sono, infatti, sorti alcuni dubbi di legittimità della disciplina della fase esecutiva, intesa in toto, rispetto all’art. 111 Cost.»: V. Garofoli, Diritto processuale penale, Milano, 2012, pp. 546‑547. Così, pure A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit., pp. 956‑957. 26 L’esigenza fu avvertita dalla Commissione di riforma del codice di procedura penale presieduta dal prof. Giuseppe Riccio che propose di affidare la titolarità delle attribuzioni decisorie su tutte le questioni esecutive a una struttura giudi‑ ziaria autonoma: «105.1. prevedere l’istituzione, presso ogni distretto di corte di appello, del giudice della pena, diverso da quello della cognizione ed indivi‑ duato sulla base di criteri predeterminati; prevedere che il giudice della pena, quando delibera in composizione collegiale, sia composto, in casi predetermi‑ nati, da giudici togati e da esperti». Più esattamente, sono state individuate due macroaree di intervento del giudice della pena – coincidenti con la sua competenza a «conoscere dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali divenuti irrevocabili» (direttiva 105.2) e con la sua competenza a «conoscere dell’esecuzione delle pene, delle sanzioni sostitu‑ tive delle pene detentive brevi e delle misure di sicurezza» (direttiva 105.4) – e sono state elencate alcune competenze specifiche che il legislatore delegato (direttive 105.4 ss.) dovrà necessariamente assegnare al giudice nell’ambito di tali macroaree. Per contro, sono stati espressamente fatti salvi «casi predeterminati di attribu‑ zione della competenza al giudice che ha emesso il provvedimento» (direttiva 105.2): ciò al fine di scongiurare l’inevitabile appesantimento della procedura che deriva dalla competenza distrettuale del giudice della pena in presenza di adempimenti esecutivi di modesto rilievo e non incidenti sulla persona del condannato (ad esempio, la restituzione delle cose sequestrate) o per i quali sia necessario procedere con particolare urgenza. Relazione di accompagnamento alla Bozza di delega al Governo della repub‑ blica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale – febbraio 2007. penale Gazzetta 74 D i r itto e p r o c e du r a attribuire al pubblico ministero funzioni amministrative, né nega alla fase il carattere della giurisdizionalità. Sotto il profilo semantico, non è un caso che il titolo II del Libro X apra con l’art. 655 c.p.p. rubricato specificamente «Funzioni del pubblico ministero» ed il titolo III sia addirit‑ tura intitolato «Attribuzioni degli organi giurisdizionali». La scelte rivela la volontà del legislatore di assegnare a quelle disposizioni funzione attributiva di competenze fun‑ zionali diversificate all’interno della stessa fase e, dunque, di porre in rilievo le diversità funzionali tra pubblico ministero e giudice, senza per questo sminuire o addirittura derogare alla giurisdizionalità (= valore) fase. Se poi si guarda al contenuto del procedere ed ai suoi modi, il combinato disposto degli artt. 655 comma 2; 656 commi 5 e 6 c.p.p., da un lato e l’art. 665 comma 1 c.p.p., dall’altro, dimostrano che la fase esecutiva ha sempre natura giurisdizionale, nonostante l’autonomia di ciascun segmento normativo in ragione del metodo partecipazione del giudice alla vicenda. Ciò che è diverso, dunque, è l’oggetto della giurisdizione. Sicché, anche le attività di esecuzione del titolo esecutivo che la legge affida al pubblico ministero (combina‑ to disposto degli artt. 28 Reg; 655 (626)‑664 c.p.p.) non mutano la natura giurisdizionale di quel segmento della fase, nonostante lì l’intervento del giudice trova spazio soltanto se richiesto dalle parti. Infatti, il pubblico ministero cura l’ese‑ cuzione dei provvedimenti giurisdizionali al di fuori dei casi per cui necessita risolvere contrasti in ordine alla esistenza o alla validità del titolo esecutivo o ad atti capaci di modificar‑ ne gli estremi o i contenuti, ambito proprio del giudice. Diversamente, se si volesse riconoscere al pubblico mini‑ stero una funzione autonoma in quel segmento della proce‑ dura di esecuzione e, di conseguenza, se si volesse attribuire allo stesso natura anche giudiziale e non soltanto giudizia‑ ria 27, bisognerebbe dimostrare la competenza dell’organo pubblico a conoscere della esecuzione, e non soltanto a cu‑ rarla, vale a dire, a determinarne le modalità operative28. Ancora, si dovrebbe spiegare perché il legislatore, nel detta‑ re le regole per la individuazione del pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione, riproponga nel contesto esecutivo lo stesso rapporto funzionale previsto per la fase esecutiva. È evidente, viceversa, la volontà del legislatore, da un lato, di affidare la conoscenza esecuzione del titolo esecutivo – an‑ che in funzione di controllo (art. 665 comma 2 ss. c.p.p.) – alla competenza funzionale del giudice che lo ha deliberato – la regola di attribuzione è espressamente contenuta nell’art. 665 comma 1 c.p.p. –, dall’altro, di perpetrare anche all’interno di quel contesto la netta distinzione tra le situazioni soggettive. Non potrebbe essere altrimenti, non soltanto per «gli 27 La categoria dell’autorità giudiziaria è portatrice di una unitaria funzione statale di persecuzione penale che si scompone nelle due sotto‑funzioni di accusa e di decisione (funzione giudiziale, appunto). 28 Così, Cass., sez. III, 12 ottobre 2012, n. 49472, in Riv. giur. edilizia, 2012, 6, I, p. 1532. Diversamente, Cass., sez. I, 31 ottobre 2000, Trotta, in Cass. pen., 2001, p. 3089: «il pubblico ministero è organo dell’esecuzione e, come tale, titolare del potere‑dovere di emettere il relativo ordine, valutandone in proprio la le‑ galità, mentre il giudice dell’esecuzione è qualificato ad intervenire, sindacando la regolarità e validità del titolo esecutivo solo in sede di incidente di esecuzione, ovvero, allorché sia insorta controversia sul punto». p e n al e Gazzetta F O R E N S E artt. 13, 24, 25, 102 e 111 Cost.» che «hanno introdotto un’autentica riserva costituzionale di giurisdizione in materia di libertà personale»29, ma soprattutto perché, lo abbiamo visto, già sul terreno costituzionale la giurisdizione diventa elemento di qualificazione delle (di tutte le) attività funzio‑ nalmente orientate ad incidere sul diritto alla libertà perso‑ nale (= attività processuali), sia pure modulato sulle esigenze della fase processuale. Si vuole dire che la ampiezza della funzione di garanzia della giurisdizione (di qui il binomio: giurisdizione = valore) chiama il giudice a compiti di tutela anche in specifiche vicen‑ de che non attengono direttamente al fatto30 o solo alla respon‑ sabilità penale31, come nella fase della esecuzione penale. Anzi, se si considera che quella fase è procedimento fun‑ zionale a garantire il principio di effettività della pena secondo gli scopi fissati dall’art. 27 Cost., la giurisdizionalità della esecuzione è maggiormente evidente, tenuto conto che la effet‑ tività della pena e la sua esecuzione costituiscono, oggi più che mai, la misura della efficienza dell’intervento giurisdizionale e, in un senso più ampio, del grado di civiltà del sistema. Insomma, il valore giurisdizione non è messo in crisi dalle peculiarità del procedimento esecutivo: il procedimento di esecuzione è fase giurisdizionale nella misura in cui vi è un giudice che, se pure non più chiamato a compiti di accerta‑ mento, ne assicura la concretizzazione (= la attuazione del contenuto). Ancora. La giurisdizionalità in executivis manifesta anche nella circostanza, da un lato, che i meccanismi procedimen‑ tali della fase esecutiva non possono mai limitare gli ambiti della difesa; dall’altro, che gli atti del pubblico ministeri, o comunque, di soggetti diversi dal giudice non possono espli‑ care alcun effetto costitutivo per la sorte dell’interessato32. Su questa premessa, la naturalità conservazione capo al pubblico ministero della posizione di organo promotore del‑ la esecuzione penale deriva dal sistema, ovvero, dalla pro‑ gressione delle vicende che investono l’azione penale: il pub‑ blico ministero è titolare dell’esercizio dell’azione penale e rimane nella qualità fino alla consumazione della stessa che si realizza con la esecuzione del giudicato. Il concetto di azione in senso lato, infatti, include neces‑ sariamente tanto la fase dell’esercizio (= presupposto della giurisdizione), quanto la fase successiva in cui l’accertamento e la decisione si compiono (= giudizio/pronuncia giudiziale sulla proposta fattuale avanzata dal pubblico ministero), quanto, infine, la fase della esecuzione, in cui la pretesa pu‑ nitiva (= interesse azionato) raggiunge la sua affermazione: azione/decisione/esecuzione. Del resto, la correlazione tra momento cognitivo (e, spe‑ cularmente, azionabilità dell’interesse che lo presuppone) e momento esecutivo è indiscutibilmente testimoniata dagli artt. 671, 673 comm1 e 672 c.p.p.; i quali evidenziano inne‑ gabili profili di interferenza le due fasi33. 29 F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale, cit., p. 8. 30 Ad esempio, l’art. 327 c.p.p. 31Si pensi all’art. 529; o all’art. 129 comma 2 incipit c.p.p. 32 È quanto si rileva da Corte cost., 31 maggio 1990, n. 274, in Cass. pen., 1991, p. 533; Id., 3 dicembre 1990, n. 529, in Giur. cost., 1990, p. 3052. In dottrina, A. Gaito, La “lunga marcia” dell’esecuzione penale, cit., p. 958. 33Un esempio: in ordine ad una fattispecie relativa all’opposizione verso il F O R E N S E luglio • A G O S T O Anche qui, non c’è giurisdizione senza azione34 (ne proce‑ dat iudex ex officio); per cui, l’assetto dell’organo dell’accusa è conseguenza necessitata della funzione riconosciutagli dall’art. 112 Cost. 3. I parametri della legittimazione del pubblico ministero nella fase della esecuzione della pena Sicché, l’impulsodell’azione esecutiva non rievoca schemi del passato, nella misura in cui al pubblico ministero sono pre clu si p oter i de c i sor i 35 , r i s er vat i , v ic ever sa , a l giudice36(artt. 655 comma 2; 656 commi 5 e 6 c.p.p./art. 665 comma 1 (655 comma 4; 343) c.p.p.). Né possono essere considerati decisori competenza ad emanare l’ordine di esecuzione nonché i provvedimenti di cumulo delle pene concorrenti e di computo del c.d. presof‑ ferto, in quanto quelli, se pur incidenti sulla libertà persona‑ le del condannato, seguono regole di comportamento specifi‑ provvedimento di rigetto della richiesta di restituzione di beni confiscati ai sensi dell’art. 12 sexies legge n. 356 del 1992, gli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio di cognizione, all’esito del quale è stata disposta la confisca, possono essere utilizzati anche nel procedimento di esecuzione intentato dai terzi fittizi proprietari dei beni oggetto della misura ablativa. Così, Cass., sez.I, 3 maggio 2011, n. 22860, inedita; Id., I, 5 novembre 2009, n. 48128, inedita; Id., I, 9 gennaio 2009, n. 4196, inedita. Ancora: l’erronea applicazione, da parte del giudice di cognizione, di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata può essere rile‑ vata anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione. Cass., sez. I, 30 novembre 2012, n. 1800, inedita; Id., I, 13 ottobre 2010, n. 38245, inedita. In dottrina, S. Lorusso, Giudice, pubblico ministero e difesa, cit., p. 4. Anche per D. Grosso, voce Esecuzione penale, in Enc. giur., Vol. XIII, Roma, 1989, p. 16 «l’uso del sostantivo fase, avendo quale punto di riferimento im‑ plicito il processo penale, finisce con il delineare le attività successive e conseg‑ uenti alla definizione del giudizio come omogenee rispetto a quelle della fase di cognizione». 34 Cass., sez. I, 17 ottobre 2012, n. 46405, inedita; Id., III, 4 novembre 2005, n. 47266, in Cass. pen., 2007, p. 1136; Id., I, 4 dicembre 2000, n. 14358, ivi, 2001, p. 3089. 35 Lo dimostra, ad esempio, la preclusione in capo al pubblico ministero di disporre l’esecuzione di una pena sospesa in mancanza di un espresso provvedimento del giudice in tal senso, anche quando esistano tutti i presupposti per la revoca obbligatoria della sospensione. Tra le altre, Cass., sez. VI, 9 luglio 1997, in Cass. pen., 1998, p. 2048; Id., I, 15 aprile 1993, Sanna, ivi, 1994, p. 2138. Ancora: il provvedimento con il quale il pubblico ministero rigetta la richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione proposta in pendenza del termine per chiedere eventuali misure alternativa alla detenzione, pur non ricorribile in cassazione, può essere sottoposto al controllo del giudice dell’esecuzione mediante l’attivazione della procedura prevista in sede esecutiva dall’art. 670 c.p.p. Cass., sez. I, 17 giugno 2011, n. 36007, in Cass. pen., 2012, 10, p. 3487. In senso contrario, L. Kalb, Ruolo e poteri del pubblico ministero quale or‑ gano legittimato all’esecuzione del titolo, in G. Spangher, Trattato di proce‑ dura penale, vol. VI, cit., p. 95: «il quadro normativo rappresentato nel libro X raffigura una serie di interventi che non possono essere identificati come mera estrinsecazione del solo potere di iniziativa e di partecipazione. L’attribuzione di interventi decisori in capo all’ufficio del PM – tra l’altro in assenza di contrad‑ dittorio con l’interessato e del relativo controllo del giudice – non può che essere letta quale cedimento rispetto al principio della piena giurisdizionalizzazione della fase esecutiva». Sono dello stesso avviso, tra gli ultimi, G. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004, p. 8 ss e A. Gaito, Esecuzione, in AA. VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, 2006, p. 946 ss. 36In questi termini la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale: «[…] è apparso naturale conservare al pubblico ministero la sua posiz‑ ione di organo promotore dell’esecuzione penale, attribuendogli anche il potere di emettere l’ordine di carcerazione e di scarcerazione, di emanare cioè provvedimenti che incidono sulla libertà personale dell’individuo. […] nella fase dell’esecuzione, quando cioè sia stata emanata una sentenza di condanna ormai irrevocabile, non v’è spazio per l’uso di poteri discrezionali, dovendosi invece semplicemente dare esecuzione al provvedimento del giudice; dal che, è facile la deduzione dell’inesistenza di ostacoli a riconoscere nel pubblico ministero l’organo naturale per il promovimento dell’attività esecutiva». 2 0 1 3 75 camente indicate dal legislatore che garantiscono il condan‑ nato da qualsiasi discrezionalità del pubblico ministero, no‑ nostante la procedura si caratterizzi per un ridotto livello di conflittualità. Nella emanazione di tali provvedimenti, quindi, non v’è spazio per l’uso di poteri autenticamente decisionali37; i quali sarebbero contemperati, in ogni caso, dalla garanzia del di‑ ritto di difesa (= 656 comma 3 ultima parte; 657 comma 5; 663 comma 3; c.p.p.) e, specularmente, dal diritto alla giuri‑ sdizione (artt. 656 comma 6; 665 comma 1 c.p.p.). Infine. Le garanzie di giurisdizionalità, lo abbiamo dimo‑ strato, sono sempre assicurate dalla facoltà, attribuita all’in‑ teressato, di contestare di fronte al giudice dell’esecuzione il contenuto dei suddetti provvedimenti. La circostanza che il controllo giurisdizionale interviene soltanto in un momento successivo all’avvenuta restrizione della libertà personale del condannato ad opera della sua controparte processuale non inficia la validità del ragiona‑ mento. La cronologia garanzia giurisdizionale è fisiologica: poi‑ ché il controllo giudiziale ha ad oggetto un provvedimento (= l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del pre‑sofferto e il decreto di cumulo delle pene concorrenti) che presuppone una sentenza di condanna passata in giudicato, esso non può che essere naturalmente postumo al provvedimento restritti‑ vo della libertà personale del condannato; che, però, non è il frutto di scelte decisorie del pubblico ministero, ma è la na‑ turale conseguenza di una sentenza del giudice che, nell’ac‑ certare positivamente il fatto e la responsabilità dell’imputa‑ to, ha statuito anche sul conseguente trattamento sanziona‑ torio. In nessun caso, dunque, è possibile ipotizzare in capo al pubblico ministero la sussistenza di poteri potestativi38. Lo dimostrano chiaramente la natura informativa‑ com‑ pilativa ’ordine di esecuzione (= comma 3 dell’art. 656 c.p.p.) e quella meramente esecutiva delle pene stabilite in sentenza, anche quando egli è chiamato ad operazioni di mero calcolo, dalle quali, peraltro, non è esclusa la partecipazione dialetti‑ ca – sotto forma di richiesta – del condannato (nel senso che si rileva dal combinato disposto degli artt. 657 comma 3; 657 comma 5; 655 comma 5 c.p.p.). Sicché, le iniziative attribuite al pubblico ministero in questa fase sono funzionali all’esame della posizione proces‑ suale del condannato, oppure alla individuazione dell’esatto quantum pena da eseguire, tenuto conto di quella irrogata dal giudice di cognizione, nonché di quella eventualmente previ‑ 37Non è un caso che in tema di esecuzione, l’incompetenza del pubblico minis‑ tero che ha emesso il relativo provvedimento non determina nullità dello stesso, «trattandosi di provvedimento non giurisdizionale» e, per questo, non autono‑ mamente impugnabile, avverso il quale è proponibile soltanto l’incidente di esecuzione. Così, Cass., sez. III, 29 gennaio 2013, n. 10126, inedita. Conforme, Cass., sez. V, 2 luglio 2007, n. 31916, in Diritto & Giustizia 2007. 38 …nemmeno quando, volendo fare un esempio, si tratta di risolvere il dubbio sulla identità fisica della persona detenuta (art. 667 c.p.p.). Anche in questo caso non rivive il potere inquisitorio ed accertativo del pubblico ministero, spettando al giudice dell’esecuzione ogni accertamento necessario alla sua identificazione e residuando in capo al pubblico ministero solo compiti inves‑ tigativi, qualora il giudice accerti l’errore di persona e la identità del detenuto resti ancora incerta. Cass., sez. IV, 19 dicembre 2000, R. H., in Cass. pen., 2002, p. 1089; Id., V, 28 febbraio 1996, J., in CED Cass., n. 204239. penale Gazzetta 76 D i r itto e p r o c e du r a sta da altre sentenze di condanna emanate contestualmente a carico dello stesso soggetto. A ben vedere, si tratta di attività propulsive dell’azione esecutiva che non abbisognano delle garanzie ordinamentali della imparzialità e della terzietà del giudice perché non cre‑ ano conflitto tra le situazioni soggettive protette. E quando ciò accade, l’attribuzionedella esecuzione al giudice ad opera dell’art. 665 c.p.p. ristabilisce il carattere di sovranità giuri‑ sdizione anche in questa fase39. Infatti, la contrazione dei diritti della difesa verificatasi nella fase dove più vasti appaiono i poteri riconosciuti alla pubblica accusa non mette in crisi l’equità fase, in quanto quel (l’apparente) gap fronte delle garanzie appare compensato dalla tutela giurisdizionale offerta in seguito. In altri termini, anche se l’art. 655 comma 1 (e l’art. 28 Reg) c.p.p. assegna(no) al pubblico ministero non soltanto la promozione dell’esecuzione ma anche la scelta degli adempi‑ menti necessari e funzionali alla stessa, l’eventuale contrasto su queste modalità oltre che sul titolo esecutivo deve essere devoluto al giudice dell’esecuzione, proprio perché l’esecuzio‑ ne è fase giurisdizionale. La natura giurisdizionale della fase, innanzitutto ed il mantenimento in capo al pubblico ministero della qualità di parte anche il potere riconosciuto allo stesso di ricorrere in cassazione avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione (art. 666 comma 6 c.p.p.). Perciò tali attribuzioni (artt. 28 Reg; 655‑664 c.p.p.) non comportano una metamorfosi del rapporto pubblico ministe‑ ro‑parte/giudice, proprio in quanto non sfociano in un giudi‑ zio, essendo dirette esclusivamente – giova ripeterlo – alla mera attuazione della decisione giudiziale. Né la circostanza che il pubblico ministero ricopra un ruolo predominante nella fase della esecuzione vuole signifi‑ care – s’è detto – che lo stesso eserciti funzioni proprie del giudice, né, soprattutto, che ciò rappresenti un retaggio del codice del 1930, in cui quella fase aveva una valenza preva‑ lentemente amministrativa coerente con l’assetto istituziona‑ le del pubblico ministero 40. 4. La soluzione prospettata Ripartiamo dalla motivazione in fatto della sentenza. Nel procedimento a carico di più imputati, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari, quale giu‑ dice dell’esecuzione, accoglieva parzialmente l’istanza con la 39 È quanto accade, per esempio, nel caso in cui il pubblico ministero rigetti la richiesta di sospensione dell’ordine di carcerazione proposta in pendenza del termine per chiedere eventuali misure alternative alla detenzione. Ebbene, il provvedimento non è ricorribile in cassazione, ma può essere sottoposto al controllo del giudice dell’esecuzione mediante l’attivazione della procedura prevista in sede esecutiva dall’art. 670 c.p.p. Cass., sez. I, 17 giugno 2011, n. 36007, in Cass. pen., 2012, p. 3487; Id., II, 4 dicembre 2000, n. 7424, in CED Cass., n. 219045; Id., I, 11 gennaio 1999, n. 241, in Cass. pen., 2000, p. 117; Id., I, 24 maggio 1995, n. 3229, in Giust. pen., 1996, III, c. 298. 40In senso contrario, Cass., sez. VI, 22 gennaio 2002, Quercia, in Guida dir., 2002, 31, n. 94: il vigente ordinamento processuale al pari di quello precedente non prevede la possibilità di impugnare in modo autonomo e diretto i provved‑ imenti emessi dal pubblico ministero nella fase esecutiva; la ragione dell’inoppugnabilità deve rinvenirsi nella natura non giurisdizionale di tali atti, i quali, promanando da un organo la cui competenza è generalmente di carattere esecutivo e amministrativo, non hanno contenuto decisorio in senso stretto ed attitudine a definire il rapporto processuale. p e n al e Gazzetta F O R E N S E quale Domenico De Giglio chiedeva l’applicazione del bene‑ ficio dell’indulto in relazione alla pena inflitta dal giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale di Bari, successi‑ vamente riformata dalla Corte di appello di Bari esclusiva‑ mente in ordine alle statuizioni riguardanti la pena. In ordine al medesimo procedimento, la stessa Corte di Appello di Bari, quale giudice dell’esecuzione per aver rifor‑ mato sostanzialmente la decisione di primo grado, rigettava la richiesta di applicazione dell’indulto avanzata dal coimpu‑ tato Oronzo Montenegro. Proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bari rilevando la incompetenza funzionale del giudice per le indagini preliminari. La Corte di cassazione, con le argomentazioni di cui s’è detto, dichiarava inammissibile il ricorso per mancanza di legittimazione ad impugnare da parte del Procuratore gene‑ rale, senza entrare nel merito della esatta individuazione del giudice dell’esecuzione; rispetto alla quale riteniamo fondati i motivi dedotti dalla Procura generale di Bari. Vale a dire che anche per noi il giudice della esecuzione andava individuato nella Corte di appello di Bari. La giurisprudenza formatasi sull’art. 665 comma 2 c.p.p. è costante nell’affermare il principio della unitarietà della ese‑ cuzione penale: nel caso di procedimento a carico di una pluralità di imputati, qualora la sentenza pronunciata in gra‑ do di appello abbia riformato quella di primo grado – in or‑ dine a statuizioni non riguardanti esclusivamente la pena, le misure di sicurezza e le disposizioni civili – soltanto nei con‑ fronti di uno o di più imputati, il giudice dell’esecuzione è il giudice di secondo grado anche rispetto agli altri imputati, che non abbiano eventualmente impugnato la sentenza di primo grado o nei cui confronti sia stata confermata41. Dunque: l’art. 665 commi 1, 2 e 3 c.p.p. distribuisce la competenza funzionale a conoscere della esecuzione di un provvedimento tra il giudice di primo grado, il giudice dell’ap‑ pello ed il giudice del rinvio in caso di pronuncia di annulla‑ mento con rinvio. La ratio norma è attribuire la competenza a conoscere le questioni relative alla attuazione del titolo esecutivo all’orga‑ no giurisdizionale che, nell’ambito del procedimento di cogni‑ zione, ha maggiormente contribuito alla sua deliberazione42. 41 A partire da Cass., sez. VI, 4 marzo 1991, n. 831, in Giust. pen., 1991, III, c. 501; Id., I, 8 ottobre 1992, n. 3925, ivi, 1994, c. 659, fino a, tra le molte, Id., I, 16 febbraio 2010, n. 10415, inedita; Id., n. 10418 del 2009; Id., I, 11 giugno 2008, n. 25962; Id., I, 23 gennaio 2003, n. 5473, in Giur. it., 2004, p. 1717; Id., I, 18 gennaio 2005, n. 4510; Id., n. 35234 del 2002; Id., I, 28 marzo 2000, n. 2277. Cfr., pure, Cass., sez. II, 19 marzo 2003, n. 12803, inedita e Id., I, 19 gennaio 2000, n. 396, in Cass. pen., 2001, p. 199. Alla regola fa eccezione l’art. 40 del d. lgs. n. 274 del 2000 che ha introdotto la competenza in materia penale del giudice di pace. La norma, nell’ottica di massima semplificazione di quel procedimento, ha da un lato stabilito che il giudice di pace rimane sempre competente per la esecuzione delle sentenze definitive emesse, anche se riformate in grado di appello; dall’altro, che è es‑ clusa ogni sua competenza nel caso in cui concorrano sentenze di giudici di‑ versi. 42 Di conseguenza, l’attribuzione della funzione di giudice dell’esecuzione agli organi giurisdizionali che hanno deliberato il provvedimento divenuto irrevo‑ cabile, esclude che tale competenza possa essere assegnata ad organi giurisdiz‑ ionali diversi da quelli che hanno concorso alla formazione del giudicato penale ai sensi dell’art. 648 comma 1 c.p.p. Cass., sez. I, 19 giugno 2012, n. 25080, inedita; Id., I, 2 dicembre 2009, n. 49378, inedita; Id., I, 4 luglio 2008, n. 31946, inedita. Di qui, la negazione di legittimazione in capo al giudice della revisione, considera‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O A ben vedere, non vi è nessun riferimento – le ragioni sono ovvie, trattandosi di norma attributiva di potere giuri‑ sdizionale – al pubblico ministero. Per quest’ultimo, infatti, giova ripeterlo, la competenza a curare l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali si radica sulla base del combinato disposto degli artt. 655 comma 1; 665 comma 1 c.p.p.; mentre le funzioni sono stabilite dalle regole che si desumono dal segmento normativo degli artt. 73 comma 1; 78 comma 1 ord. giud.; 655 comma 2; 656 com‑ ma 1; 658; 659 c.p.p. Quid iuris per i poteri impugnativi? La cassazione dice che «la legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione spetta, in via esclusiva, per espressa designazione del legislatore, al pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel proce‑ dimento, non potendosi riconoscere al procuratore generale presso la Corte d’appello un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli dall’art. 570 c.p.p. nel giudizio di cognizione»43. Siamo di diverso avviso. Basta ragionare sul combinato disposto degli artt. 570 comma 1; 666 comma 6 c.p.p. per verificare come «l’espressa designazione del legislatore» sia di segno contrario. Intanto, è proprio l’art. 666 comma 6 a richiamare le di‑ sposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione, in quan‑ to applicabili. Ciò, di per sé, basterebbe a giustificare la estensione delle regole sub. 570 c.p.p. al procedimento di esecuzione. V’è di più. Non si nega che l’art. 570 comma 1 prima parte c.p.p. pre‑ vede che il procuratore generale presso la Corte di appello possa proporre impugnazione nei casi stabiliti dalla legge; né si disconosce che il comma 6 dell’art. 666 c.p.p. in tema di ordinanze emesse nel procedimento di esecuzione, là dove dispone che contro di esse sia proponibile ricorso per cassa‑ zione dalle «parti» e dai «difensori», non indica tra i sogget‑ ti legittimati all’impugnazione il procuratore generale presso la Corte di appello. Ma da qui a sostenere che queste argo‑ mentazioni bastino ad escludere l’applicabilità dell’art. 570 comma 1 ultima parte il passaggio è arduo. Infatti, se tale interpretazione poteva soddisfare nella vi‑ genza del codice precedente44 – dove pure si discuteva in meri‑ to alla individuazione del pubblico ministero legittimato ad impugnare l’ordinanza – in quanto l’art. 631 c.p.p. 1930, in tema di impugnabilità della decisione sull’incidente di esecu‑ zione, non faceva alcun riferimento alle disposizioni generali sulle impugnazioni, sicché doveva ritenersi che l’impugnazio‑ ne avverso i provvedimenti emessi in sede di esecuzione fos‑ sero regolati in modo specifico dalle norme dettate in materia dal legislatore, le quali, per il loro carattere speciale deroga‑ vano alle norme previste dallo stesso legislatore con riferimen‑ to che il procedimento di revisione, a differenza delle impugnazioni ordinarie, non concorre alla formazione del giudicato ma lo presuppone: Cass., sez. I, 25 marzo 2013, n. 18360, inedita. 43 Conforme la dottrina, F. Caprioli‑D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, cit., p. 355 e nt. 228. 44Per tutte, Cass., sez. III, 3 marzo 1959, Jattarelli, in Giust. pen., 1960, III, c. 510. 2 0 1 3 77 to alla materia delle impugnazioni in generale; oggi quel ri‑ chiamo (= «si osservano in quanto applicabili le disposizioni sulle impugnazioni»: art. 666 comma 6 c.p.p.) riconosce ai membri dell’ufficio gerarchicamente superiore, nell’ipotesi di provvedimento emesso dal tribunale, il diritto a ricorrere per cassazione, così come si verifica, in generale, per le impugna‑ zioni dei provvedimenti emessi nella fase della cognizione, sia pure nelle occasioni tipizzate dall’art. 570 comma 1 seconda parte c.p.p. Il ragionamento, infatti, non può limitarsi alla lettura della sola prima par te del com ma 1 dell’ar t. 570 c.p.p. – evidentemente rafforzata dal disposto del comma 6 dell’art. 666 c.p.p. – ma deve completarsi con la seconda parte dello stesso comma e soprattutto con il dettato costitu‑ zionale. Specificamente, non può trascurarsi che il ricorso del procuratore generale trova la sua fonte di legittimazione nell’art. 111, 7o comma Cost., così come è lo stesso art. 570, nell’ultima parte del comma 1 a consentirgli di proporre im‑ pugnazione anche in caso di acquiescenza del pubblico mini‑ stero presso il giudice che ha emesso il provvedimento 45. Si‑ tuazione, quest’ultima, che si aggiunge ai «casi previsti dalla legge» a cui fa riferimento la prima parte del comma 1 dell’art. 570 c.p.p. Semplificando: il richiamo alle disposizioni sulle impu‑ gnazioni contenuto nel comma 6 dell’art. 666 c.p.p. modella il gravame avverso l’ordinanza emessa a seguito del procedi‑ mento esecutivo sulle regole generali del sistema dei controlli in generale non soltanto quanto ad ammissibilità, termini, modalità, requisiti, contenuto, ma anche in relazione alla le‑ gittimazione. La soluzione non cambia nel caso di controllo dei provve‑ dimenti che statuiscono sull’applicazione dell’ indulto, nono‑ stante la Corte di cassazione abbia ribadito che «nel caso di specie, il procuratore generale presso la Corte di appello di Bari non è stato parte nel procedimento di esecuzione nel quale è stato emesso il provvedimento impugnato» – vale a dire l’ordinanza applicativa dell’indulto – «pertanto, non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso detto provvedimento in quanto soggetto diverso dai protagonisti della dialettica processuale del procedimento specifico, rima‑ sto estraneo a quella fase processuale». Intanto, una precisazione: contro il provvedimento del giudice dell’esecuzione reso in materia di indulto è esperibile da parte dell’interessato opposizioneai sensi dell’art. 667 comma 4 c.p.p., allo stesso giudice dell’esecuzione che dovrà decidere con le forme previste dall’art. 666; non anche ricor‑ so per cassazione che, precluso dallo strumento specificamen‑ te previsto dalla legge, è proponibile soltanto contro l’ordi‑ nanza che ha deciso sull’opposizione. L’opposizione, infatti, resta l’unico rimedio esperibile 45 Cass., 18 gennaio 1993, Giovannelli, in Cass. pen., 1994, p. 1287; Id., 22 mag‑ gio 1990, Bianchi, in Giur. it., 1991, II, c. 44; id., 2 aprile 1990, Linari, in Foro it., 1991, II, 223. In dottrina, attribuisce al procuratore generale presso la Corte di appello una generale potestà di impugnazione avverso le decisioni adottate dai giudici del distretto, G. Tranchina, Impugnazione (diritto processuale penale), in Enc. dir., II Aggiornamento, Milano, 1998, p. 398. Conforme, Cass., sez. II, 13 giugno 2012, n. 25786, inedita. penale Gazzetta 78 D i r itto e p r o c e du r a dalle parti; pertanto, l’eventuale ricorso per cassazione deve essere qualificato come opposizione, con successiva trasmis‑ sione degli atti al giudice dell’esecuzione46. La ratio è chiara: anche nel caso in cui il giudice dell’esecuzione abbia deciso con le forme di cui all’art. 666 c.p.p. sulla richiesta di appli‑ cazione dell’indulto deve essere esperibile l’opposizione – e non il ricorso immediato per cassazione – per non privare l’interessato di un controllo nel merito del provvedimento da parte del giudice stesso 47. Sicché, è questa l’unica reale causa di inammissibilità del ricorso rilevabile dal combinato disposto degli artt. 568, 666 comma 6; 591 comma 1 lett. b) c.p.p., ben potendo essere riconosciuta la legittimazione a ricorrere in capo al procura‑ tore generale, sempre qualora fosse stato corretto il mezzo – e non lo era –, attesa la inerzia del pubblico ministero. Sulla legittimazione, l’approdo trova ragione nella linea normativa degli artt. 672 comma 1; 667 comma 4; 666 (655 comma 1;665 comma 1); 667 comma 6 c.p.p.: se il giudice per l’applicazione dell’indulto è il giudice dell’esecuzione; se la competenza si determina sulla base dell’art. 665 comma 1, in generale, e del comma 2, nel caso che ci occupa; se per il prin‑ cipio della unitarietà della esecuzione, nei procedimenti con pluralità di imputati la competenza del giudice di appello a provvedere in executivis a affermata non solo rispetto a quelli nei cui confronti la decisione di primo grado sia stata sostan‑ zialmente riformata, ma anche rispetto a quelli nei cui confron‑ ti la decisione di primo grado sia stata riformata soltanto ri‑ spetto al quantumpena; se, giusti i richiami dell’art. 672 comma 1 c.p.p. all’art. 667 comma 4 c.p.p. e dell’art. 667 comma 4 c.p.p. all’art.666 c.p.p., rispettivamente al pubblico ministero è riconosciuto il potere di proporre opposizione, davanti allo stesso giudice dell’esecuzione, avverso l’ordinanza che statuisce sulla richiesta di indulto e la procedura segue le forme previste per il procedimento di esecuzione; se contro l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione a seguito dell’op‑ posizione, il pubblico ministero può presentare ricorso in cassazione; se per la procedura di ricorso si applicano le dispo‑ sizioni sulle impugnazioni; se il procuratore generale può so‑ stituirsi al pubblico ministero acquiescente; ebbene, se tutto ciò è vero, legittimato alla impugnazione non è in via esclusiva il pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel proce‑ dimento di esecuzione nel quale è stato emesso il provvedimen‑ to impugnato – come pure scrivono i giudici di legittimità – ben potendosi considerare tale pure il Procuratore generale presso la Corte di appello, sia pure nelle ipotesi considerate. In altri termini, nel caso che ci occupa, nonostante l’art. 666 comma 6 c.p.p. abbia designato il titolare del dirit‑ to di impugnazione con l’espressione «pubblico ministero», intendendo riferirsi soltanto al rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero che esercita le sue funzioni presso il giu‑ dice che ha emesso il provvedimento, la legittimazione del pubblico ministero di grado superiore non è esclusa, in quan‑ to espressamente autorizzata seconda parte del comma 1 dell’art. 570 c.p.p. 46 Cass., 5 giugno 2008, Nicastro, in CED Cass., n. 239730; Id., 16 gennaio 2008, Catania, ivi, n. 239076. 47 Cass., sez. I, 11 gennaio 2013, n. 4083, inedita; Id., 7 marzo 2012, n. 9252, inedita; Id., I, 21 aprile 2010, n. 16806, in CED Cass., n. 247072. p e n al e Gazzetta F O R E N S E In definitiva, dalle riferite argomentazioni non sembra che vi siano ostacoli a ritenere che la norma cardine sia rappre‑ sentata dall’art. 666 comma 6 c.p.p. («… si osservano in quanto applicabili le disposizioni sulle impugnazioni …») e che con essa debba essere coordinata la disposizione di cui all’art. 570 comma 1 ultima parte c.p.p., nel senso di inten‑ derla negli stessi termini di un rinvio a quella particolare ca‑ tegoria di regole sulle impugnazionidi generale applicabilità, se non sussistono ragioni di incompatibilità. Gazzetta F O R E N S E ● 79 2 0 1 3 I contrasti tra la corte Edu e le corti nazionali ● Vittorio Sabato Ambrosio Avvocato Corte cost., sent. 18 luglio 2013, n. 202 Sull’illegittimità dell’art. 5 co. 5 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 “la disposizione impugnata delimita l’ambito di applica‑ zione della tutela rafforzata, che permette di superare l’auto‑ matismo solo nei confronti dei soggetti che hanno fatto ingres‑ so nel territorio in virtù di un formale provvedimento di ricon‑ giungimento familiare, determinando così una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso. Simile restrizione viola l’art. 3 Cost. e reca un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost. e che la Repubblica è vincolata a soste‑ nere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali. In particolare, la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione impli‑ ca che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondar‑ si su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati”. Corte EDU, 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia La rilevanza del ricongiungimento familiare del reo per la Corte EDU “la CEDU non garantisce allo straniero il diritto di entra‑ re o risiedere in un determinato Paese, di tal che gli Stati mantengono il potere di espellere gli stranieri condannati per reati puniti con pena detentiva. Tuttavia, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stret‑ ti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzio‑ nato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8, paragrafo 1, della CEDU”. *** SOMMARIO: Premessa – 1. Il caso di specie sottoposto al vaglio della Corte – 2. Il giudizio della Corte Costituzionale sugli automatismi ostativi che limitano il ricongiungimento familiare – 3. La posizione espressa dalla giurisprudenza della Corte EDU – 4. Brevi considerazioni conclusive Premessa La sentenza della Corte costituzionale n. 202 del 18 luglio 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, del Testo Unico immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), ci offre un ulteriore spunto di riflessione per verificare sino a che punto sia attualmente giunta l’integrazione della Convenzione EDU nel nostro ordinamento. La disposizione impugnata prevede che nell’adottare il provvedimento di rifiu‑ to, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno «dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimen‑ to familiare, ovvero del familiare ricongiunto» si tiene conto anche della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’in‑ penale La Corte Costituzionale e la Corte Edu sul ricongiungimento familiare del reo luglio • A G O S T O 80 D i r itto e p r o c e du r a teressato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché della durata del suo soggiorno nel territorio italiano. In tal modo, gli stranieri che sono presen‑ ti in Italia in virtù di un provvedimento di ricongiungimento familiare possono godere di una tutela rafforzata, che li pone al riparo dall’applicazione automatica di misure capaci di compromettere la loro permanenza nel territorio, in caso di condanna per i reati indicati dall’art. 4, comma 3, del t.u. sull’immigrazione. Per questi aspetti il ragionamento ermeneutico effettuato dalla Corte si segnala per fondarsi tanto sul parametro dell’uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in relazione anche alle esigenze di tutela dei rapporti familiari desumibili dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost., quanto sul parametro interposto costituito dall’art. 8 CEDU, richiamato ex art. 117 co. 1 Cost. 1. Il caso di specie sottoposto al vaglio della Corte La questione incidentale di costituzionalità era stata sol‑ levata dal TAR Veneto, il quale si veniva adito per un giudizio di annullamento introdotto da un cittadino non appartenen‑ te all’Unione europea avverso il decreto del Questore di Ve‑ nezia che aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo sulla base di un giudizio di pericolosità sociale dell’istante desunto da: un pregresso provvedimento di espulsione disposto il 15 febbraio 1992; un «deferimento» all’autorità giudiziaria per il reato di «appropriazione indebi‑ ta», risalente all’anno 2006; e una condanna non definitiva in materia di stupefacenti, riportata in data 22 gennaio 2010 e relativa a fatti del 2002. Nello specifico il ricorrente si doleva del fatto che il prov‑ vedimento di diniego del rinnovo non avesse tenuto conto del fatto che egli aveva contratto in Italia un primo matrimonio con una cittadina italiana (unione dalla quale era nato un figlio in favore del quale, dopo la sentenza divorzile, grava sul ricorrente obbligo alimentare) e un secondo matrimonio con una cittadina straniera (unione dalla quale sono nati due figli, entrambi minorenni alla data dell’istanza di rinnovo). Al riguardo, occorre considerare che in via generale, ai sensi dell’art. 5 co. 5 t.u. imm., il permesso di soggiorno o il suo rinnovo “sono rifiutati […] quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso o il soggiorno nel territorio dello Stato”. Tali requisiti sono posti dal preceden‑ te art. 4, nel cui comma 3 si stabilisce, in particolare, che “non è ammesso in Italia lo straniero […] che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato” o che comunque “risulti condannato, anche con sentenza non definitiva” per una serie assai ampia di reati, tra cui quelli che concernono gli stupefacenti. Bisogna specificare che il quadro legislativo nazionale offre al legislatore un’ampia discrezionalità nella regolamen‑ tazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel terri‑ torio nazionale, in considerazione della pluralità degli inte‑ ressi che tale regolazione riguarda. In più occasioni il giudice delle leggi ha specificato che tale discrezionalità legislativa non è assoluta, dovendo rispec‑ chiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disci‑ plina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei p e n al e Gazzetta F O R E N S E confronti del cittadino e del non cittadino (cfr. sentenze n. 172 del 2012, n. 245 del 2011, nn. 299 e 249 del 2010, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006, n. 78 del 2005). Di conseguenza, l’automatismo posto dall’art. 4 comma 3 alla concessione del rinnovo del permesso di soggiorno viene censurato dal giudice rimettente in quanto non consente di tenere in considerazione taluni parametri relativi alla tutela della vita relazionale e familiare dello straniero, ciò che inve‑ ce è consentito da due altre norme di natura eccezionale: da un lato lo stesso art. 5, comma 5, nella parte in cui concerne però la sola specifica situazione dello “straniero che ha eser‑ citato il diritto al ricongiungimento familiare” e il “familiare ricongiunto”; dall’altro l’art. 9 inerente il “permesso di sog‑ giorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. In questi casi, infatti, l’automatismo ostativo di cui all’art. 4, comma 3 viene eccezionalmente temperato dalla necessità di un’analisi in concreto – e non più presuntiva – del‑ la pericolosità dello straniero, nonché dall’indagine circa i legami familiari dallo stesso formati e intrattenuti nel territo‑ rio dello Stato operando un vero e proprio bilanciamento tra diverse esigenze concorrenti (“si tiene anche conto della na‑ tura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale” – art. 5, comma 5; “si tiene conto anche dell’età dell’interessato, della durata del soggiorno sul terri‑ torio nazionale, delle conseguenze dell’espulsione per l’inte‑ ressato e i suoi familiari, dell’esistenza di legami familiari e sociali nel territorio nazionale e dell’assenza di tali vincoli con il Paese di origine” – art. 9, comma 11). 2. Il giudizio della Corte Costituzionale sugli automatismi ostativi che limitano il ricongiungimento familiare La Corte, limitando per ragioni di rilevanza il giudizio a quanto previsto dall’art. 5, comma 5, e preliminarmente di‑ sattendendo le argomentazioni della difesa erariale la quale sosteneva l’applicabilità al caso de quo di altra e più favore‑ vole norma, ritiene fondate le censure di incostituzionalità sulla base di tutti i parametri (‘interni’ e ‘internazionali’) so‑ pracitati. In particolare la Corte censura la norma impugnata nella parte in cui fa dipendere l’esito del bilanciamento tra le esi‑ genze di sicurezza, ordine pubblico e controllo delle frontiere, da un lato, ed il rispetto e la tutela della vita familiare, dall’al‑ tro, dalla mera circostanza dell’esercizio da parte dell’interes‑ sato del diritto a richiedere il ricongiungimento familiare, a prescindere dalla concreta sussistenza dei requisiti che legit‑ timerebbero l’accoglimento di tale istanza. Tale assetto normativo, pure inquadrato nell’ampia di‑ screzionalità della quale gode il legislatore nel momento in cui opera delle limitazioni – anche di carattere presuntivo – alla regolamentazione dell’ingresso sul territorio nazionale, con‑ fligge da un lato con l’art. 3 della Costituzione, in quanto tratta diversamente situazioni eguali sul piano sostanziale, le quali differiscano solo per l’avvenuto esercizio di un diritto potestativo da parte dell’interessato, dall’altro lato con le norme costituzionali che tutelano i rapporti familiari dell’in‑ dividuo, recando “un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegia‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O 2 0 1 3 81 ta ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost. e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali. In particolare, la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazio‑ ne della pericolosità concreta e attuale dello straniero con‑ dannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subi‑ ta condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazio‑ ni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componen‑ ti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari.” rente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle diver‑ se persone interessate; la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita fami‑ liare in seno alla coppia; la circostanza che il coniuge fosse a conoscenza del reato all’epoca della creazione della relazione familiare; il fatto che dal matrimonio siano nati dei figli e la loro età; le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di tro‑ varsi ad affrontare in caso di espulsione; l’interesse e il benes‑ sere dei figli; la solidità dei legami sociali, culturali e familia‑ ri con il paese ospite”. All’esito di tali argomentazioni, la Corte dichiara l’illegit‑ timità costituzionale dell’art. 5, comma 5, del t.u. imm., “nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricon‑ giunto», e non anche allo straniero «che abbia legami fami‑ liari nel territorio dello Stato»”. 3. La posizione espressa dalla giurisprudenza della Corte EDU In siffatto contesto la Corte specifica che tale esito con‑ fligge con l’art. 8 CEDU, “come applicato dalla Corte euro‑ pea dei diritti dell’uomo” (la Corte cita in particolare la sentenza 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia). Infatti, sotto‑ linea che tale norma convenzionale “esprim[a] un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente, per quanto rileva nel caso in esame, alla protezione accordata alla famiglia nel nostro ordinamento costituzionale”, così come desumibile dagli artt. 2, 29, 30 e 31 e consenta pertanto di giungere alle medesime conclusioni circa la necessità del sopraccennato bilanciamento: “quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occor‑ re bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita fami‑ liare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico” (così par. 5 in diritto), operando tale valutazione per mezzo dei diversificati parametri fattuali elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU, “quali, ad esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricor‑ 4. Brevi considerazioni conclusive La sentenza in esame costituisce un ulteriore esempio, in conclusione, del circolo virtuoso innescato dalla clausola di apertura dell’ordinamento nazionale alle fonti di diritto inter‑ nazionale rappresentata dall’art. 117 co. 1 Cost. In questo caso la Corte incamera i principi legislativi e giurisprudenzia‑ li della Convenzione EDU senza effettuare quel “margine di apprezzamento” che in molti casi gli ha fornito un comodo escamotage per sviare i dicta della Corte di Strasburgo. Infat‑ ti, almeno in questo caso, la tutela di cui all’art. 8 CEDU è equivalente a quella desumibile nel nostro ordinamento costi‑ tuzionale dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost. Il valore aggiunto del richiamo alla norma convenziona‑ le quale parametro interposto di costituzionalità sta – ovvia‑ mente – nel contestuale richiamo a una giurisprudenza che declina in concreto non soltanto l’an della tutela, ma soprat‑ tutto il “come” e il “quanto” di tale tutela, fornendo così un ampio bacino casistico di certo utile al giudice nazionale che si trovi a declinare in concreto i livelli di tutela previsti per i legami familiari dello straniero. penale Gazzetta 82 D i r itto ● p r o c e du r a Gazzetta p e n al e F O R E N S E CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 10 giugno 2013 (ud. 31 gennaio 2013), n. 25401 I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali ● e A cura di Angelo Pignatelli Avvocato Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti rientra nella sfera dell’illecito amministrativo Anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 agli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990, non sono punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’ille‑ cito amministrativo, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio anche per conto di soggetti diversi dall’agente, quando sia certa l’identità dei medesimi, nonché manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo, sempre che l’acquirente sia uno degli assuntori e che l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è de‑ stinata, i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia di concorrere coi mezzi finanziari occorren‑ ti all’acquisto. *** La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può essere riassunta nei seguenti termini: «se, a seguito della no‑ vella introdotta dalla l. n. 49 del 2006, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune, sia o meno penalmente rilevante». Il contrasto giurisprudenziale nasce dalle modifiche appor‑ tate dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 al t.u. sugli stupefacen‑ ti di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ed in particolare, agli artt. 73 e 75 secondo le quali l’acquisto e la detenzione di so‑ stanze stupefacenti integrano un illecito amministrativo solo quando le stesse appaiono destinate ad un uso esclusivamente personale. Un primo indirizzo, più rigoroso, ritiene che il nuovo testo legislativo ha ora reso penalmente rilevante il c.d. consumo di gruppo, sia nell’ipotesi del mandato all’acquisto sia nell’ipote‑ si dell’acquisto in comune. Ciò perché sono mutate sia la struttura normativa della disposizione (in quanto ora l’ambito della non punibilità penale non è indicato dall’art. 75, ma si desume dal combinato disposto dell’art. 73, comma 1 bis, e art. 75), sia la struttura semantica della frase, in quanto nell’art. 73, comma 1 bis, è stato introdotto l’avverbio “esclu‑ sivamente” che non esisteva nel previgente art. 75. Tale con‑ clusione si fonda sulla considerazione che il legislatore ha in‑ teso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e consumo di sostanze stupefacenti, tanto che ha equiparato ogni tipo di sostanza. Quindi l’uso di gruppo non potrebbe più farsi rientrare nell’ipotesi di consumo esclusiva‑ mente personale in quanto presuppone, per assioma, l’acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità o per modalità di presentazione, appare necessariamente de‑ stinato ad un uso non esclusivamente personale. (sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 4560/2013, inedita; sez. III, 20 aprile 2011, n. 35706, in questa Rivista, con commento di Tombesi; sez. III, 13 gennaio 2011 n. 7971, in Cass. pen., 2011, 4003, con commento di D’Ippolito; sez. II, 6 maggio 2009 n. 23574, in C.e.d. Cass., n. 244859). F O R E N S E luglio • A G O S T O Un secondo orientamento, ha invece sostenuto la perdu‑ rante validità, anche dopo le modifiche recate dalla l. n. 49 del 2006, della precedente consolidata interpretazione ed ha riaffermato il principio che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità degli altri non è punibile ai sensi del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (sez. 6, 26 gennaio 2011, n. 8366, D’Agostino, Rv. 249000; cfr. sez. III, 11 dicembre 2012, n. 224/2013, inedita; sez. VI, 27 febbraio 2012, n. 17396, in C.e.d. Cass., n. 252499; sez. VI, 12 gennaio 2012, n. 3513, ivi, n. 251579; sez. VI, 27 aprile 2011, n. 21375, ivi, n. 250064). In particolare, questo indirizzo sottolinea innanzitutto la non decisività del criterio che si fonda sulla ratio della modi‑ fica legislativa, dal momento che l’esame dei lavori prepara‑ tori non consente di chiarire univocamente il contesto che ne ha connotato l’approvazione, emergendo dagli interventi dei parlamentari due antipodiche interpretazioni sul valore e la portata delle modifiche normative in discussione. In secondo luogo, affermano i Giudici Ermellini, che la modifica della struttura normativa delle ipotesi di non puni‑ bilità e l’introduzione dell’avverbio “esclusivamente” non possono avere portata innovativa della fattispecie penale e non sono idonee a far ritenere superato il diritto vivente. Nella novella, infatti, l’avverbio è stato usato due volte (art. 73, comma 1 bis: “destinate ad un uso non esclusivamen‑ te personale”; e art. 75: richiesta dell’interessato di visione o copia degli atti “che riguardino esclusivamente la sua perso‑ na”) ed è evidente che in entrambi i casi tale avverbio, di modo o qualità, è stato usato con funzione e finalità afferma‑ tiva rafforzativa e non già innovativa. Per paralizzare la consolidata interpretazione sull’uso di gruppo non era suffi‑ ciente l’inserzione dell’avverbio, ma era invece essenziale una esplicita e non equivoca indicazione, tanto più necessaria te‑ nuto conto dell’esito del referendum abrogativo del 1993 e tenuto altresì conto che l’espressione “non esclusivamente personale” ha il medesimo intercambiabile significato di “tassativamente personale”, risolvendosi così in una aggiunta ridondante, superflua e pleonastica. Inoltre, l’utilizzo della forma indeterminativa “un uso esclusivamente personale” consente “inquadramenti nell’area di rilevanza meramente amministrativa delle condotte finalizzate all’uso esclusiva‑ mente personale (anche) di persone diverse”. Si verserebbe quindi in un “deficit di determinatezza e di sicurezza ermeneutica” con violazione del principio costitu‑ zionale di precisione, dal momento che se davvero la finalità fosse stata quella di sanzionare l’uso di gruppo, in entrambe le variabili, essa è stata male espressa, con la conseguenza che, a fronte di un dubbio interpretativo, deve prevalere l’opzione più favorevole al reo. In altre parole, argomenta la Suprema Corte, l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” non fa venir meno la validità di questa ricostruzione, poiché anche il consumo di gruppo, così inteso, è una forma di consumo “esclusivamente perso‑ nale”. L’avverbio ha pertanto il solo significato di confermare che hanno rilevanza penale le altre condotte di consumo di gruppo in cui più persone, in assenza di un preventivo man‑ dato, decidano di consumare droga detenuta da uno di loro, in quanto in tale ipotesi il cedente è originariamente in posi‑ 2 0 1 3 83 zione di estraneità rispetto agli altri assuntori e, quindi, non si concretizza un “uso esclusivamente personale”.(a conferma del citato orientamento si vedano anche sez. 6, 27 febbraio 2012, n. 17396, Bove, Rv. 252499; sez. 6, 12 gennaio 2012, n. 3513, Santini, Rv. 251579; sez. 6, 27 aprile 2011, n. 21375, Masucci, Rv. 250064). Ritengono le Sezioni unite che fra i due contrapposti orientamenti debba senz’altro preferirsi il secondo, che sostie‑ ne che il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell’originaria conoscenza dell’identità degli altri, continua a costituire, anche dopo le modifiche apportate dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49, una ipotesi di uso esclusivamente personale dei parte‑ cipanti al gruppo, e quindi integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, e non già il reato di cui all’art. 73, comma 1 bis. Non può infatti ritenersi che tali modifiche, ed in parti‑ colare, per quanto qui interessa, l’equivoca e non risolutiva aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, possano essere inte‑ se nel senso che abbiano addirittura introdotto una nuova fattispecie incriminatrice punendo un fatto in precedenza pacificamente integrante, secondo il diritto vivente, un illeci‑ to amministrativo o abbiano comunque determinato la neces‑ sità del superamento della univoca e consolidata giurispru‑ denza. L’argomento principale su cui si basa l’orientamento re‑ strittivo resta dunque quello letterale, secondo il quale la lo‑ cuzione “uso non esclusivamente personale”, al posto della precedente dizione di “uso personale”, dovrebbe essere inter‑ pretata nel senso che le ipotesi scriminate penalmente si ridu‑ cano ora ai soli casi in cui la sostanza detenuta possa ritener‑ si destinata all’uso esclusivo, ossia individuale, dell’autore della condotta. In altre parole, secondo l’indirizzo più restrittivo, all’ag‑ giunta dell’avverbio “esclusivamente” dovrebbe attribuirsi l’inequivoco significato di far considerare l’aggettivo “perso‑ nale” come sinonimo di “individuale” e quindi di restringere i confini del penalmente irrilevante. L’argomento, secondo il Supremo Consesso, non è però convincente perché non può ritenersi che questi semplici ri‑ tocchi testuali, e in particolare la sola aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” per caratterizzare la nozione di uso perso‑ nale, siano sufficienti per determinare un allargamento dell’area delle condotte penalmente rilevanti con la previsione di una nuova ipotesi di reato e, comunque, per fare venir meno il presupposto su cui si fondava il diritto vivente, ossia che nell’acquisto finalizzato all’uso di gruppo non si verifica alcun tipo di cessione a terzi, ma una mera divisione interna (di cui la consegna non è altro che una fase esecutiva), che consente a ciascuno di venire in possesso del solo quantitativo di reciproca pertinenza fin dall’inizio e già da quel momento destinato al rispettivo uso personale. Deve quindi convenirsi con l’osservazione che l’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente” non ha affatto, di per sé, un significato particolarmente pregnante sotto il profilo seman‑ tico, ma ha, al contrario, un significato quanto meno non univoco, ben potendo il termine essere inteso in una accezio‑ ne che permette di continuare a ricomprendervi la codeten‑ zione per uso di gruppo. Non può invero ritenersi che l’espressione “uso persona‑ penale Gazzetta 84 D i r itto e p r o c e du r a le” avrebbe un significato completamente differente da quella di “uso esclusivamente personale”, e in particolare che la semplice aggiunta di questo avverbio comporterebbe che per “uso personale” dovrebbe ora intendersi una cosa diver‑ sa, e precisamente un “uso individuale”. In realtà, l’avverbio oggettivamente ha un significato rafforzativo e pleonastico, e comunque non è idoneo a mutare addirittura il significato assunto in quel contesto dall’aggettivo cui accede. Nel pre‑ cedente testo della disposizione con l’espressione “uso perso‑ nale” si sono escluse dall’ambito penale e ricomprese in quello amministrativo le ipotesi in cui lo stupefacente non è destinato, nemmeno in parte, alla cessione a terzi, ma è fina‑ lizzato per intero al consumo personale. Nel caso di uso di gruppo, secondo il diritto vivente, non è ravvisabile in realtà una cessione a terzi, neppure parziale, e pertanto non sussiste il reato. L’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”, allora, sembra avere avuto l’oggettivo significato di sottolineare che per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata totalmente, per intero, ossia appunto “esclusivamente”, all’uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei all’acquisto ed alla detenzione. L’avverbio, però, non ha modificato il significato e l’ambito dell’espressione “cessione a terzi” e pertanto non è univocamente idoneo a modificare l’area di ciò che non è cessione ma “uso persona‑ le” secondo la giurisprudenza unanime, e cioè a fare entrare nell’area della cessione a terzi, sottraendola da quella dell’uso personale, una fattispecie che, per il diritto vivente, non è qualificabile come cessione a terzi, bensì, stante l’omogenei‑ tà ideologica delle condotte, come una specie del genere “uso personale”, e precisamente un “uso personale di gruppo”. È dunque condivisibile il rilievo che, qualora il legislato‑ re del 2006 avesse davvero voluto in modo non equivoco punire penalmente condotte fino ad allora non rientranti nelle ipotesi di “cessione” a terzi dello stupefacente, avrebbe dovuto introdurre la nuova fattispecie di reato in termini espliciti, chiari, univoci, eventualmente modificando l’ambi‑ to della nozione di “cessione”, e non limitarsi invece all’ag‑ giunta di un avverbio non idoneo a mutare il significato proprio che nella disposizione aveva ed ha, di per sè, l’agget‑ tivo “personale”. L’avverbio, dunque, non connota diversa‑ mente l’uso personale nel senso di riferirlo ora al solo sog‑ getto che detiene la sostanza stupefacente, ma ha il signifi‑ cato di evidenziare che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi ma all’utilizzo per‑ sonale degli appartenenti al gruppo che la codetengono (sez. 6, 12 gennaio 2012, n. 3513, Santini, Rv. 251579). Ciò, del resto, sembra implicitamente ammesso anche dalla tesi secondo cui l’uso di gruppo sarebbe ora punibile perché l’espressione “uso non esclusivamente personale” dovrebbe intendersi nel senso di “uso non individuale”. Con ciò, invero, si finisce per riconoscere, appunto, che se si fos‑ se voluto introdurre una nuova fattispecie di reato si sarebbe dovuta mutare la disposizione in modo inequivoco, eventual‑ mente sostituendo quanto meno il termine “personale”, e non invece riprodurre il medesimo aggettivo aggiungendovi un avverbio rafforzativo, non idoneo a mutarne il significato che pacificamente aveva in quel contesto. Nemmeno può condi‑ vidersi la tesi secondo cui con l’aggiunta dell’avverbio il ter‑ mine “uso personale” andrebbe ora inteso come equipollen‑ te di “uso individuale”, perché con una tale interpretazione p e n al e Gazzetta F O R E N S E si verrebbe in sostanza ad estendere l’ambito di applicazione di una fattispecie penale ad ipotesi che in essa non erano prima comprese, in contrasto con i principi di tassatività e di legalità e con il divieto di analogia in malam partem. D’altra parte, e sotto altro profilo, è stato esattamente osservato che il nuovo avverbio è inserito in una struttura ellittica ed oggettiva, che non connota soggettivamente l’uso da parte del detentore bensì oggettivamente la condotta de‑ tentiva, sicché, se si considera l’intera locuzione, ben può ritenersi che esistano casi di detenzione per uso non esclusi‑ vamente personale sia individuale, sia anche di persone di‑ verse. In altre parole, poiché la disposizione non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non esclusivamente personale” non è concettualmente incompa‑ tibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusiva‑ mente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga de‑ tenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclu‑ sivamente personale in comune” da parte di tutti i compo‑ nenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata. Ne deriva, conclusivamente, che le modifiche portate dalla Legge di conversione n. 49 del 2006, al testo del d.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75, secondo i Supremi Giudici, non abbiano inciso sulla correttezza e validità dei principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4 del 1997, Iacolare, in relazione al c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, in quanto non hanno né introdotto una nuova norma penale incriminatrice di questa ipotesi né determina‑ to una restrizione, rispetto a quella previgente, dell’area dei comportamenti rientranti nell’”uso personale”, trasferendo nell’area dell’illecito penale le condotte qualificate come fi‑ nalizzate al consumo personale dei componenti il gruppo. La massima enucleabile dalla pronunzia a Sezioni unite può sintetizzarsi nel seguente principio giuridico «Anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 agli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990, non sono punibili pe‑ nalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’illecito ammi‑ nistrativo, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano sin dall’inizio an‑ che per conto di soggetti diversi dall’agente, quando sia certa l’identità dei medesimi, nonché manifesta la loro vo‑ lontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo, sempre che l’acquirente sia uno degli assuntori e che l’acqui‑ sto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è destinata, i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia di concorrere coi mezzi finanziari occorrenti all’acquisto». CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 21 giugno 2013, (ud. 28 febbraio 2013), n. 27343 L’incompetenza per connessione La operatività dell’incompetenza determinata da connes‑ sione non è subordinata alla pendenza dei procedimenti connessi nello stesso stato e grado, essendo quello della com‑ luglio • A G O S T O F O R E N S E petenza per connessione criterio originario ed autonomo di attribuzione della competenza. *** La questione di diritto controversa sottoposta al vaglio delle Sezioni unite è così riassumibile: «Se, nel caso in cui venga dedotta l’incompetenza per territorio determinata da connessione a norma dell’art. 16 c.p.p., la sussistenza della connessione quale criterio attributivo della competenza ope‑ ri soltanto se i procedimenti connessi pendono nello stesso stato e grado». In sintesi, le Sezioni unite sono chiamate a stabilire se la competenza per connessione di cui agli artt. 15 e 16 c.p.p. sia o meno subordinata alla pendenza dei procedimenti connessi nello stesso stato e grado del procedimento. Secondo un primo indirizzo interpretativo definibile come maggioritario, la connessione tra procedimenti determina la competenza solo se i procedimenti si trovino nella medesima fase processuale: così si è stabilito (sez. 1, 10 giugno 2010, n. 26857, Piras, Rv. 247728) che non vi potesse essere sposta‑ mento per competenza in relazione a fatti connessi, alcuni giudicati con sentenza in corte di assise ed altri con rito ab‑ breviato. Condividono, l’indirizzo maggioritario le seguenti ulteriori decisioni con le quali si è escluso lo spostamento di un procedimento per effetto di connessione nella ipotesi di pendenza di un procedimento in fase dibattimentale ed altro in quella di indagini preliminari, “dovendosi applicare il principio della operatività delle norme sulla competenza per connessione soltanto tra procedimenti pendenti nella medesi‑ ma fase processuale” (sez. 1, 14 maggio 2009, n. 24072, Macaluso, Rv. 244027). Vedi inoltre sez. 2, 21 aprile 2006, n. 19579 Foraboschi, Rv. 234194, che ha sottolineato che la parte che solleva l’eccezione di incompetenza per territorio determinata dalla connessione ha l’onere di provare sia la pendenza attuale dell’altro procedimento nella medesima fase, sia la connessione qualificata ai sensi delle lettere b) e c) dell’art. 12 c.p.p.; sez. 1, 08 aprile 2004, n. 19003, Darocz, Rv. 227947, che, dopo avere stabilito che lo spostamento della competenza per territorio è subordinato alla pendenza dei procedimenti nella stessa fase processuale, ha, comunque, sottolineato che si tratta di un criterio originale ed autonomo di attribuzione della competenza ed ha precisato che gli epi‑ sodi uniti dal vincolo della continuazione debbono riguarda‑ re lo stesso imputato; sez. 6, 19 maggio 1999, n. 8656 Fracas‑ so, Rv. 214685; sez. 1, 29 gennaio 1998,n. 2794 Presti, Rv. 210004; sez. 1, 11 dicembre 1997, n. 6966 dep. 1998, Sidoti, Rv. 209895; sez. 1, 02 dicembre 1997, n. 6780. Maida, Rv. 209374, che ha precisato che la pendenza nella stessa fase è rilevante nel conflitto di competenza, ma non in quello di giurisdizione; sez. 1, 26 ottobre 1995, n. 5360 Ranzato, Rv. 203041, che ha sottolineato la necessità che i due procedimen‑ ti connessi siano pendenti; sez. 1, 11 ottobre 1994, n. 4444 Polverino, Rv. 199663. Secondo un indirizzo minoritario, che però è condiviso dalla dottrina, invece, lo spostamento del procedimento pe‑ nale per competenza per connessione tra reati opera indipen‑ dentemente dalla pendenza dei relativi procedimenti nello stesso stato e grado; ciò sia perché il vincolo tra reati indivi‑ duato dalla legge costituisce criterio originario ed autonomo 2 0 1 3 85 di attribuzione della competenza, sia perché le norme – artt. 15 e 16 c.p.p. – non richiedono la pendenza dei procedimento nello stesso stato e grado (così sez. 1, 12 giugno 1997, n. 4125, Di Biase, Rv. 208339, che ha tuttavia precisato che il principio non trova applicazione allorquando il procedimento per il reato più grave, che esercita la vis attractiva sia stato definito con sentenza passata in giudicato, essendo necessaria le pen‑ denza, o la possibile pendenza, dei due procedimenti; sez. 1, 30 aprile 1996, n. 6754 Biasoli, Rv.205179, secondo cui una volta radicata la competenza risultano irrilevanti le successive evenienze processuali, quali ad esempio la separazione della posizione del coimputato accusato dei reati che avevano de‑ terminato anche per gli altri coimputati la competenza per connessione, per il principio della perpetuano iurisdictionis; sez. 1, 08 luglio 1992, n. 3312 Maltese, Rv. 191755, che ha chiarito, tra l’altro, che la eventuale archiviazione di uno dei procedimenti vale a sciogliere il vincolo di connessione per l’altro reato o imputato, mentre nel caso di intervenuta con‑ danna per uno soltanto dei reati e degli imputati il predetto vincolo permane). Le Sezioni unite hanno aderito all’indirizzo giurispruden‑ ziale minoritario, a favore del quale depongono sia una cor‑ retta interpretazione letterale delle norme attualmente vigen‑ ti in materia di competenza per connessione, che quella logi‑ ca – sistematica dell’istituto in considerazione della evoluzio‑ ne legislativa, nonché la stessa volontà del legislatore desunta anche dai lavori parlamentari e dalla Relazione al codice di procedura penale. Conferma l’indirizzo minoritario anche l’evoluzione legi‑ slativa in materia di connessione. Il codice Rocco prevedeva all’art. 45 numerosi casi di connessione e disciplinava gli “Effetti della connessione sulla competenza per territorio” (così la rubrica dell’art. 47 c,p,p,. previgente) come deroghe ai principi generali dettati in via principale in tema di attribuzione di competenza, stabilendo che “la competenza per i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono egualmente competenti per materia appartiene a quello tra essi nella circoscrizione del quale fu commesso il reato più grave o in caso di pari gravità il maggior numero di reati”. In effetti dai lavori preparatori al codice del 1930, secon‑ do il Supremo Consesso, emerge la consapevolezza che “la competenza per connessione in realtà non fosse che una mo‑ dificazione della competenza per materia e per territorio” e che si trattasse di uno strumento finalizzato a consentire “la trattazione contemporanea dei processi connessi ad opera di un unico organo” (così sez. 1, 31 gennaio1968, n. 171 Glielmi, Rv. 108092, ed autorevole dottrina). A sua volta, l’innovazione introdotta con il codice del 1988 consiste proprio nella definizione della connessione come criterio originario di individuazione del giudice competente al pari della competenza per materia e per territorio e non come criterio di modificazione della competenza, come era nel codice previgente; tale innovazione fu determinata dalla volontà di escludere ogni discrezionalità nella determinazione del giudice competente e, quindi, di rispettare nella misura massima possibile il principio del giudice precostituito per legge. Negli anni successivi, con la novella sul “giusto processo” ex art. 1, comma 1, della legge 1 marzo 2001, n. 63, si è penale Gazzetta 86 D i r itto e p r o c e du r a provveduto ad abrogare le ipotesi di connessione di reati “commessi in occasione di altri ovvero per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il pro‑ dotto o l’impunità”; e in tal modo l’art. 12 cod. proc. pen. è ritornato quasi alla formulazione originaria con l’unica mo‑ difica concernente le ipotesi di connessione dei reati esecutivi di un unico disegno criminoso. Secondo una interpretazione logico‑sistematica dell’isti‑ tuto della competenza per connessione di cui agli artt. 15 e 16 c.p.p. quella giurisprudenza maggioritaria in tema di com‑ petenza per connessione che richiede la condizione della pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado finisce per sovrapporre ingiustificatamente i due istituti della com‑ petenza per connessione e della riunione dei processi. Come ha efficacemente affermato la Corte costituzionale (Corte cost., ord. n. 247 del 1998) quello previsto dagli artt. 15 e 16 c.p.p.. “è strumento attributivo in via originaria della competenza, operante nelle ipotesi tassativamente de‑ scritte dall’art. 12 c.p.p., mentre l’istituto della riunione pre‑ visto nei casi indicati dall’art. 17 c.p.p. (tra cui rientrano le ipotesi di connessione, nonché quelle dei reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre e del colle‑ gamento probatorio tra i vari reati), è invece destinato ad operare solo quando i processi sono già pendenti davanti allo stesso giudice, essendo criterio di mera organizzazione del lavoro giudiziario, subordinato alla condizione che la cele‑ brazione cumulativa dei processi non ne pregiudichi la rapida definizione”. Quindi la riunione è rimessa alla valutazione discrezio‑ nale del giudice – la norma usa il verbo ‘può’ – ed attiene alla distribuzione interna dei processi ed all’economia dei giudizi (sez. 5, 09 giugno2005, n. 26064Colonna, Rv. 231915); può avere ad oggetto solo i processi e non anche i procedimenti (sez. 6, 04 agosto 1992, n. 3011 Viola, Rv. 191953); e, come risulta evidente dalle espressioni letterali usate nelle due norme in esame, presuppone che i processi siano pendenti nello stesso stato e grado dinanzi al medesimo giudice e che non pregiudichi le esigenze di celerità nella definizione dei giudizi. Si tratta di requisiti e presupposti del tutto diversi rispetto alla competenza per connessione; quest’ultima, quindi, opera su un piano nettamente distinto rispetto alla riunione; ciò significa che la praticabilità o meno di quest’ultima non con‑ diziona l’operatività della connessione, mentre non è per lo più vero il contrario, posto che per l’art. 17 c.p.p. la riunione, salva l’ipotesi di cui alla lettera e), è possibile nei casi di con‑ nessione ed in presenza delle altre condizioni dinanzi richia‑ mate. Secondo, poi, una interpretazione letterale, l’indirizzo minoritario, secondo i Giudici Ermellini, oltre a trovare il conforto di una interpretazione logico‑sistematica dell’istitu‑ to della competenza per connessione, appare corretto non solo perché evita la sovrapposizione con il diverso istituto della riunione, che ha disciplina e finalità del tutto diverse, ma anche perché è pienamente conforme alla lettera della legge. Invero, osservano sotto questo profilo, i Giudici Spremi che nell’art. 16 c.p.p. manca, qualsiasi riferimento alla neces‑ sità della pendenza dei procedimenti nello stesso stato e grado e tale omissione, come si desume dalla Relazione al codice, è p e n al e Gazzetta F O R E N S E stata voluta dal legislatore e non è affatto casuale perché con essa si mirava a ridurre gli spazi di discrezionalità del giudice nella individua‑ zione del giudice competente ed a sganciare l’istituto della competenza per connessione da quello della riunione proprio per evitare che la vantazione di opportunità che contraddistingue gli istituti della riunione e separazione dei processi potesse incidere sulla individuazione del giudice competente, mate‑ ria di rilevanza costituzionale. Secondo i Giudici delle Sezioni unite, la interpretazione prospettata non contravviene, al principio costituzionale di cui all’art. 25 della Costituzione del giudice naturale preco‑ stituito per legge. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” recita il primo comma del citato art. 25 Cost.; ciò significa che il giudice competente a celebrare il processo deve essere preventivamente individuato secondo criteri generali ed astratti e non fissati in vista di singole controversie (Corte cost., sent. n. 207 del 1987). Questo e non altro può significare il termine ‘precostitu‑ ito’; più precisamente il giudice deve essere individuabile prima che si verifichi il fatto storico che generi il processo. Ma, secondo alcuni e anche secondo l’orientamento espresso da alcune pronunce del giudice delle leggi espressa‑ mente richiamate nella ordinanza di rimessione, il concetto di giudice naturale non si risolve in quello di giudice precosti‑ tuito per legge, nel senso che il predicato della naturalità as‑ sumerebbe nel processo penale un carattere del tutto partico‑ lare in ragione della fisiologica allocazione di quel processo nel locus commissi delicti; costituisce, infatti, principio tra‑ dizionale quello che il diritto e la giustizia devono riaffermar‑ si proprio nel luogo ove sono stati violati (vedi Corte cost., sent. n. 168 del 2006); ciò potrebbe, secondo alcuni, compor‑ tare problemi in ordine alla legittimità delle norme in materia di connessione. Per il vero, sottolineano i Giudici, accanto alla richiamata decisione n. 168 del 2006, che aveva, comunque, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45, comma primo, c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, e 111, comma secondo, Cost., ve ne sono altre più recenti che affermano che “il principio del giudice naturale deve ritenersi osservato quando l’organo giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controver‑ sie (sent. n. 30 del 2011) e la competenza venga determinata attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo potere, nel rispetto della riserva di legge esistente in tale ma‑ teria (ordd. nn. 417 e 112 del 2002)” (così Corte cost., sent. n. 117 del 2012). In effetti con il precetto costituzionale dell’art. 25 si è voluto garantire che la individuazione della competenza degli organi giudiziari, al fine di una rigorosa garanzia della loro imparzialità, venisse sottratta ad ogni possibile arbitrio (sez. un. 28 gennaio 2003, n. 13687 Berlusconi, Rv. 223636); la determinazione della competenza deve, quindi, avvenire in base a norme caratterizzate da un sufficiente grado di deter‑ minatezza, di rigorosa interpretazione e sottratte nella misu‑ ra massima possibile a valutazioni di discrezionalità. Orbene, secondo le sez.un., a parte il fatto che, come è stato autorevolmente osservato, anche in tema di competenza per connessione la individuazione del giudice competente per territorio riposa comunque su un collega‑ mento tra uno dei F O R E N S E luglio • A G O S T O fatti connessi ed il locus commissi delicti, va detto che è pro‑ prio il riferimento ad un requisito non contemplato dal siste‑ ma, quale la pendenza dei procedimenti connessi nello stesso stato e grado, che finisce con il tradire il principio costituzio‑ nale del giudice naturale precostituito introducendo un requi‑ sito non previsto dal legislatore, non ricavabile dal tessuto normativo e tale da creare incertezza sulla sua applicazione. Per concludere sul punto, proprio la previsione della com‑ petenza per connessione come criterio originario di attribu‑ zione della competenza, la esclusione di requisiti, come quello in discussione, al fine dichiarato di escludere ogni discrezio‑ nalità nella determinazione del giudice competente, la riduzio‑ ne significativa dei casi di connessione rispetto alla normativa previgente, la eliminazione di ogni valutazione di opportunità nella individuazione del giudice competente e la previsione di norme sufficientemente determinate rendono l’istituto compa‑ tibile con i principi costituzionali, in quanto del tutto idoneo a garantire la individuazione di un giudice imparziale. Al termine della complessiva analisi compiuta dalle Sezio‑ ni unite il principio di diritto è il seguente:« La operatività dell’incompetenza determinata da connessione non è subor‑ dinata alla pendenza dei procedimenti connessi nello stesso stato e grado, essendo quello della competenza per connes‑ sione criterio originario ed autonomo di attribuzione della competenza». CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, 18 lu‑ glio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 18 luglio 2013 le Sezio‑ ni unite hanno risolto i seguenti contrasti giurisprudenziali: a) «Se, con riferimento al reato di furto, il mero occulta‑ mento all’interno di una borsa o sulla persona della merce 2 0 1 3 87 sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza aggravante dell’uso di un mezzo fraudolento prevista dall’art. 625, comma primo, n. 2, c.p.» Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: « negativa ». b) «Se, con riferimento al reato di furto, abbia la veste di persona offesa – e sia conseguentemente legittimato a pro‑ porre la querela – il responsabile dell’esercizio commerciale nel quale è avvenuta la sottrazione che non abbia la qualità di legale rappresentante dell’ente proprietario o non sia mu‑ nito di formale investitura al riguardo». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: « affermativa ». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, 18 lu‑ glio 2013 All’esito dell’udienza pubblica del 18 luglio 2013 le Sezioni unite hanno risolto il seguente contrasto giurisprudenziale: «Se, nel caso in cui il giudice di appello abbia rilevato la sopravvenuta prescrizione del reato senza motivare in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato ai fini delle statui‑ zioni civili, la Corte di cassazione debba annullare la senten‑ za con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero al giudice civile competen‑ te per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p.». Secondo l’informazione provvisoria diffusa, al quesito è stata data la seguente soluzione: «seconda alternativa». La sentenza sarà massimata nel prossimo numero appena sarà depositata la motivazione. penale Gazzetta 88 D i r itto ● Rassegna di legittimità ● A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli e Andrea Alberico Assegnista di Ricerca in Diritto Penale Avvocato e p r o c e du r a p e n al e Gazzetta F O R E N S E Banche e Istituti di credito o risparmio – Reato di abusivismo fi‑ nanziario – Elemento materiale – Esercizio di servizi finanzia‑ ri – Requisiti della condotta Il reato di abusivismo finanziario di cui all’art. 166 d.lgs. n. 58 del 1998 sussiste solo se l’esercizio di servizi finanziari viene svolto in maniera professionale e nei confronti del pub‑ blico. (In motivazione la Corte ha precisato, quanto al primo requisito, che la nozione di professionalità debba essere inte‑ sa in senso ampio che corrisponde al compimento di una serie di atti coordinati del tipo indicato dalla norma incriminatri‑ ce, e, quanto al secondo, che gli stessi atti debbano essere indirizzati ad un numero indeterminato di soggetti qualitati‑ vamente non predeterminati). Cass., sez. 5, sentenza 29 maggio 2013, n. 27246 (dep. 20 giugno 2013) Rv. 255443 Pres. Ferrua, Est. Lapalorcia, Imp. Federici e altro, P.M. Ces‑ qui (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Como, 13 dicembre 2012) Edilizia – In genere ‑ Reati edilizi – Condanna – Sospensione con‑ dizionale della pena – Possibilità di subordinare il beneficio alla demolizione – Legittimità In tema di reati edilizi, il giudice, nella sentenza di con‑ danna, può subordinare il beneficio della sospensione condi‑ zionale della pena alla demolizione dell’opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato. Cass., sez. 3, sentenza 21 maggio 2013, n. 28356 (dep. 01 luglio 2013) Rv. 255466 Pres. Fiale, Est. Andreazza, Imp. Farina, P.M. Baglione (Diff.) (Dichiara inammissibile, App. Lecce, 13 giugno 2012) Impugnazioni – Presentazione – In genere ‑ Impugnazione a giu‑ dice incompetente – Trasmissione degli atti al giudice competen‑ te – Ambito di applicabilità del principio – Limiti – Fattispecie L a d i s posi z i o n e d e ll ’a r t . 56 8 , c o m m a q u i n t o , c.p.p. – secondo cui l’impugnazione proposta a giudice in‑ competente deve essere da questo trasmessa a quello com‑ petente – non può considerarsi principio generale applicabi‑ le al di fuori della materia delle impugnazioni, atteso che tale regola vale esclusivamente nel caso in cui l’erronea in‑ dividuazione del giudice dipenda da errata qualificazione del mezzo di impugnazione dovendo altrimenti ritenersi inammissibile il gravame. (Fattispecie nella quale la S.C. ha annullato senza rinvio, per incompetenza funzionale, l’ordi‑ nanza con cui la Corte di appello aveva deciso, in luogo della Corte di cassazione, sulla richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione). Cass., sez. 4, sentenza 18 giugno 2013, n. 29246 (dep. 09 luglio 2013) Rv. 255464 Pres. Sirena, Est. Dovere, Imp. Portokalski, P.M. Lettieri N. (Conf.) (Annulla senza rinvio, App. Brescia, 22 gennaio 2013) Previdenza e assistenza (Assicurazioni sociali) – Contributi – Rite‑ nute previdenziali ed assistenziali – Omesso versamento – Paga‑ mento della retribuzione – Modalità – Individuazione In tema di omesso versamento delle ritenute previdenzia‑ li ed assistenziali, ai fini dell’integrazione del reato previsto F O R E N S E luglio • A G O S T O dall’art. 2, comma primo bis, del d,l. 12 settembre 1983, n. 463 (conv. in l. 11 novembre 1983, n. 638) è necessaria la prova del materiale esborso della retribuzione, anche sotto forma di compensi in nero. Cass., sez. 3, sentenza 20 febbraio 2013, n. 29037 (dep. 09 luglio 2013) Rv. 255454 Pres. Fiale, Est. Grillo, Imp. Zampiccoli,P.M. Izzo (Diff.) (Annulla con rinvio, App. Trento, 25 gennaio 2012) Procedimenti Speciali – Giudizio abbreviato – Presupposti ‑ Ri‑ chiesta di ammissione – Udienza preliminare – Celebrazione a seguito di annullamento con rinvio della sentenza di non luogo a procedere – Legittimità È ammissibile l’accesso al rito abbreviato richiesto dall’imputato per la prima volta nell’udienza preliminare rinnovata a seguito dell’annullamento con rinvio della pre‑ cedente sentenza di non luogo a procedere disposto dalla Corte di cassazione. Cass., sez. 4, sentenza 15 maggio 2013, n. 28184 (dep. 27 giugno 2013) Rv. 255465 Pres. Brusco, Est. Blaiotta, Imp. P.G. in proc. Sironi e altri, P.M. Policastro (Diff.) (Rigetta, App. Bologna, 12 marzo 2012) Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubbli‑ ci Ufficiali – In genere ‑Modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 – Minaccia di un danno ingiusto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio – Finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità – Delitti configurabili – Con‑ cussione o estorsione – Prospettazione da parte di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico di servizio di adottare atti le‑ gittimi ma dannosi – Finalizzata a farsi dare o promettere de‑ naro o altra utilità – Delitto di induzione indebita – Configura‑ bilità A seguito dell’entrata in vigore della l. 6 novembre 2012, n. 190, la minaccia, esplicita o implicita, di un danno ingiu‑ sto, finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utili‑ tà, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico servizio mentre sussiste il delitto di induzione indebita, pre‑ visto dall’art. 319 quater cod. pen., qualora il pubblico uffi‑ ciale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della qualità o dei poteri, prospetti conseguenze sfavorevoli deri‑ 2 0 1 3 89 vanti dall’applicazione della legge per farsi dare o promette‑ re il denaro o l’utilità. Cass., sez. 6, sentenza 27 marzo 2013, n. 26285 (dep. 17 giugno 2013) Rv. 255371 Pres. Milo, Est. Paterno’ Raddusa, Imp. A.r.p.a. e altri, P.M. D’Angelo (Parz. Diff.) (Annulla in parte senza rinvio, App. Torino, 30 marzo 2012) Reato – Causalità (rapporto di) – Obbligo giuridico di impedire l’evento ‑ Fonte di pericolo per l’altrui incolumità – Posizione di garanzia – Obblighi di protezione anche in favore dei terzi – Sus‑ sistenza – Fattispecie Il titolare dell’azienda che, con la propria condotta, abbia determinato nell’esecuzione abusiva di lavori l’insorgere di una fonte di pericolo, è titolare di una posizione di garanzia che gli impone di fornire precise direttive al personale dipen‑ dente per avvertire i terzi dell’esistenza di situazioni di rischio. (Fattispecie nella quale è stata affermata la responsabilità del proprietario di un vivaio per il decesso del conducente di un autocarro, che, a causa dell’innalzamento del piano stradale realizzato senza rispettare le distanze, rimaneva folgorato per il contatto delle piante trasportate con la linea elettrica). Cass., sez. 4, sentenza 10 gennaio 2013, n. 27591 (dep. 24 giugno 2013) Rv. 255452 Pres. Romis, Est. Foti, Imp. Santacroce, P.M. Geraci (Conf.) (Rigetta, App. Catanzaro, 04 aprile 2012) Reato – Circostanze – Attenuanti comuni – Danno patrimoniale di speciale tenuità ‑Reati contro il patrimonio – Delitto tenta‑ to – Compatibilità – Fattispecie Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità é applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipo‑ tetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima. (Fattispecie relativa al tentativo di furto di monete custodite in apposito cassetto di un distributore automatico di bevande). Cass., sez. un., sentenza 28 marzo 2013, n. 28243 (dep. 28 giugno 2013) Rv. 255528 Pres. Lupo, Est. Fumo, Imp. Zonni Sanfilippo, P.M. Fedeli (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Torino, 19 dicembre 2011) penale Gazzetta 90 D i r itto ● p r o c e du r a p e n al e Gazzetta F O R E N S E DIRITTO PENALE Rassegna di merito ● e A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli e Giuseppina Marotta Avvocato Circostanze aggravanti: violenza sulle cose – Presupposti (art. 625 n. 2 c.p.) L'aggravante della violenza sulle cose sussiste ogni qual‑ volta gli strumenti materiali predisposti per una più efficace difesa del patrimonio siano manomessi, sicché, per poter as‑ solvere nuovamente alla loro funzione, essi richiedano una più o meno complessa attività di ripristino. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1642 Commercio di prodotti con segni falsi: elemento soggettivo (art. 474 c.p.) In ordine poi all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 474 c.p. che consiste nella coscienza e volontà di de‑ tenere le cose contraffatte destinate alla vendita e quindi la consapevolezza del marchio altrui. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 3 luglio 2013, n. 1708 Pres. Critelli, Est. Di Petti Contraffazione di marchi – Commercio di marchi contraffatti: bene tutelato – Natura di reato di pericolo – Elemento materiale (art. 473 – 474 c.p.) I reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. tutelano, in via prin‑ cipale e diretta, non la libera determinazione dell’acquirente ma la pubblica fede, vale a dire l’affidamento dei cittadini nei marchi e nei segni distintivi che garantiscono la circolazione degli stessi. Si tratta pertanto, di reati di pericolo, per la cui configurazione è del tutto irrilevante che l’acquirente sia in grado, avuto riguardo alla qualità del prodotto, al prezzo, al luogo dell’esposizione nonché alla figura del venditore, di escludere la genuinità del prodotto, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la possibilità d confusione tra i marchi – per la cui individuazione e sufficiente, ma imprescindibile, un raffronto tra i segni e non già quella tra i prodotti. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 3 luglio 2013, n. 1708 Pres. Critelli, Est. Di Petti Frode informatica: utilizzo carte credito falsificate – Configurabi‑ lità del reato (art. 640 ter c.p.) Integra il delitto di frode informatica e non quello di in‑ debita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un co‑ dice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, pe‑ netri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effet‑ tui operazioni di bonifico, accredito o altri ordini, procuran‑ dosi un ingiusto profitto con pari danno per il titolare del conto oggetto degli interventi. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1653 Frode informatica:differenza con il reato di indebita utilizzazione di carta di credito (art. 640 ter.p.) La condotta di utilizzazione di una carta falsificata, previa artificiosa captazione del codice segreto di accesso, (utilizzo F O R E N S E luglio • A G O S T O di carte con banda magnetica falsificata; acquisizione illegit‑ tima dei codici segreti di accesso al sistema bancario; inseri‑ mento senza diritto nel sistema stesso; ordine di pagamento, con intervento sui dati contabili del sistema) integra il reato di cui all'art. 640 ter c.p., perché l'elemento specializzante, rappresentato dall'utilizzazione fraudolenta del sistema in‑ formatico, costituisce un presupposto "assorbente" rispetto alla "generica" indebita utilizzazione di una carta di credito Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1653 Frode informatica: procedibilità (art. 640 ter c.p.) Il reato di frode informatica è procedibile a querela ove non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dall'art. 640 ter, co. 2o, c.p., o dall'art. 61 c.p. (cfr. art. 640 ter, U.C., c.p.). Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1653 Istigazione alla corruzione: elementi costitutivi (art. 322 c.p.) Il delitto di istigazione alla corruzione si configura con la semplice offerta o promessa di denaro o di altra utilità, pur‑ chéseria e potenzialmente idonea ad omettere un atto del proprio ufficio, tale cioè da determinare una rilevante pro‑ babilità di causare un turbamento psichico nel pubblico uf‑ ficiale, così che sorga il pericolo che egli accetti l’offerta o la promessa; idoneità che va valutata con un giudizio ex ante che tenga conto di tutte circostanze concrete, sicché il reato può essere escluso solo se manchi la idoneità potenziale dell’offerta e della promessa a conseguire lo scopo perseguito dall’autore per l’evidente quanto assoluta impossibilità del pubblico ufficiale di tenere il comportamento illecito richie‑ stogli. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 3 luglio 2013, n. 1708 Pres. Critelli, Est. Di Petti Istigazione alla corruzione: tenuità della somma offerta – Irrile‑ vanza ai fini della configurabilità del reato (art. 322 comma II c.p.) La tenuità della somma di denaro offerta al pubblico uf‑ ficiale non esclude il reato di istigazione alla corruzione, ma anzi lo rende maggiormente lesivo del prestigio del funzion‑ ario in quanto l’agente mostra di ritenere costui persona suscettibile di venir meno ai propri doveri accettando una offerta anche minima. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 3 luglio 2013, n. 1708 Pres. Critelli, Est. Di Petti Omicidio volontario: elemento soggettivo – Volontà omicida – Accertamento – Criteri (art. 575 c.p.) Fra i vari criteri utili indicati dalla dottrina e dalla giuri‑ sprudenza per stabilire se il colpevole ebbe o no la volontà omicida, assumono particolare rilievo le modalità esteriori dell’azione criminosa. Nella non semplice attività di indivi‑ duazione del processo volitivo, normalmente del tutto inti‑ 2 0 1 3 91 mo, e della direzione della volontà che ne costituisce il risul‑ tato, non può invero farsi a meno di valutare in concreto le modalità della condotta e rapportare queste ultime a quei parametri obiettivizzati dalla costante giurisprudenza di le‑ gittimità, desunti sulla base dell’id quod plerunque accidit e comprensivi del carattere micidiale o meno del mezzo usato, dell’eventuale pluralità di colpi, della vitalità della zona del corpo colpita, elementi tutti da considerare procedendo ad una valutazione ex ante ed in concreto, rispetto alla realizza‑ zione dell’evento. A tali elementi di carattere oggettivo pos‑ sono aggiungersi altre circostanze idonee ad avvalorare l’ipotesi dell’intenzione omicida come il comportamento del reo prima e dopo il delitto, i rapporti antecedenti tra l’autore della condotta violenta e la vittima, mentre secondaria im‑ portanza può attribuirsi alla causale, la cui ricerca ed il cui rigoroso accertamento si impone solo quando la prova dell’animus necandinon è sostenuta da elementi univoci. Per tali ragioni la prova del dolo omicida ha natura essenzialmen‑ te indiretta nel senso che deve desumersi dai sopra eviden‑ ziati elementi esterni rispetto allo stesso elemento soggettivo, in quanto unici dati idonei ad esprimere il fine effettivamen‑ te perseguito dall’agente, dovendosi l’effettiva volontà dell’agente essere desunta da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 2 luglio 2013, n. 1703 Pres. Aschettino, Est. De Majo Omicidio: aggravante del fatto commesso con arma – Arma im‑ propria – Sussistenza (art. 575 – art. 4 l. 110/75) Ricorre la circostanza aggravante del fatto commesso con armi anche quando il soggetto agente utilizzi una arma im‑ prorpia ai sensi dell’art. 4 co. 2 l. 110/75, per il quale rientra in questa categoria, oltre agli strumenti da punta e taglio e gli altri oggetti specificamente indicati, qualsiasi strumento, che, nelle circostanze di tempo e di luogo in cui sia portato, sia potenzialmente utilizzabile per l’offesa della persona. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 2 luglio 2013, n. 1703 Pres. Aschettino, Est. De Majo Recidiva: riconoscimento ed applicabilità – Criteri di valutazione del giudice – Conseguenze (art. 99 c.p.) Nel caso in cui la contestazione concerna, una delle ipote‑ si di recidiva contemplate dall'art. 99, primi quattro commi, il giudice deve "verificare in concreto se la reiterazione dell'il‑ lecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità", tenendo conto, secondo quanto precisato dalla giurispruden‑ za costituzionale (cfr. sentenza n. ]92/2007) e di legittimità “della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno della qualità dei comportamenti, del margine di offensivitàdel‑ le condotte, della distanza temporale e del livello di omogenei‑ tà esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricadu‑ ta e di ogni altro possibile parametro individualizzante signi‑ ficativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esisten‑ za di precedenti penali. Qualora all'esito di questa verifica il penale Gazzetta 92 D i r itto e p r o c e du r a giudice neghi la rilevanza aggravatrice della recidiva, escluden‑ do la circostanza, non solo non ha luogo l'aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisu‑ rativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di pre‑ valenza delle circostanze attenuanti, di cui all'art. 69, co. 4o, c.p., e dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all'art. 81, co. 4o, c.p., stesso codice. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1642 Recidiva: natura di aggravante ad effetto speciale – Operatività dell’aumento di pena – Criteri (art. 99 c.p.) La natura di circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva determina l'operatività, della disciplina detta‑ ta dall'art. 63, co. 4o, c.p., secondo cui, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si applica soltanto la pena stabilita per la‑circostanza più grave, con facoltà per il giudice di aumentarla fino ad un terzo. A tal fine è circostanza più grave,quella connotata dalla pena più alta nel massimo edittale e, a parità di massimo, quella con la pena più elevata nel minimo edittale, con l'ulteriore speci‑ ficazione che l'aumento da irrogare in concreto non può in ogni caso essere inferiore alla previsione del più alto minimo edittale per il caso in cui concorrano circostanze, delle quali l'una determini una pena più severa nel massimo e l'altra più severa nel minimo. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1642 Recidiva: obbligatorietà – Limiti e presupposti (art. 99 c.p.) Quando non si è in presenza di uno dei delitti previsti dall'art. 407, comma 2o, letto a) c.p.p., l'applicazione della recidiva, sia essa semplice, aggravata, pluriaggravata o reite‑ rata, è rimasta una facoltà del giudice, limitandosi il novellato art. 99 c.p. a stabilire l'obbligatorietà non della sottoposizione all'aumento di pena, quanto piuttosto della misura dell'au‑ mento medesimo (o in misura fissa, o in misura variabile). Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1642 Ricettazione – Commercio di prodotti con marchio contraffatto: differenze e rapporti (art. 648 – 474 c.p.) Colui il quale dopo aver acquistato o ricevuto, al fine di trarne profitto prodotti con il marchio contraffatto, li detie‑ ne per la vendita, può essere chiamato a rispondere sia del delitto d ricettazione, sia del reato di commercio di prodotti con segni falsi, non sussistendo alcun rapporto di specialità tra le due fattispecie, le quali si differenziano tra loro tanto sul piano soggettivo – richiedendosi il dolo specifico nella prima, il dolo generico nella seconda – quanto per la condot‑ ta, che si sostanzia nella ricezione di beni di provenienza il‑ lecita nella ricettazione, nella detenzione per la vendita o messa in vendita di prodotti con segni contraffatti nel reato previsto dall’art. 474 c.p. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 3 luglio 2013, n. 1708 Pres. Critelli, Est. Di Petti p e n al e Gazzetta F O R E N S E Tentativo: limiti e presupposto per punibilità (art. 56 c.p.) Invero, secondo l’insegnamento della S.C. ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l’agen‑ te abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma in‑ criminatrice. Tribunale Napoli, G.u.p.Lucarelli sentenza 3 giugno 2013, n. 1330 Tentativo: idoneità degli atti – Giudizio – Criteri di valutazione (art. 56 c.p.) L’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante te‑ nendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinare la reale ade‑ guatezza casuale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 2 luglio 2013, n. 1703 Pres. Aschettino, Est. De Majo Tentato omicidio – Lesioni personali: differenze – Modalità di accertamento (art. 575 – 582 c.p.) Ricorre la fattispecie di tentato omicidio e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamen‑ te l’idoneità offensiva della stessa e la profondità delle ferite inferte inducano a ritenere la sussistenza in capo al soggetto agente del cosiddetto “animus necandi”. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 2 luglio 2013, n. 1703 Pres. Aschettino, Est. De Majo PROCEDURA PENALE Accertamenti urgenti sulle persone: alcooltest – Procedura – As‑ sistenza del difensore – Necessità – Esclusione (art. 354 co. 3 c.p.p.) L’alcool test costituisce un’ accertamento urgente ed indif‑ feribile rientrante nell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 354 co. 3 c.p.p. e, pertanto, l’atto deve essere ac‑ compagnato dalle garanzie previste dall’art. 356 c.p.p.: in altri termini, prima dello svolgimento dell’atto, la polizia giudizia‑ ria deve avvertire la persona che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia. Il difensore della persona nei cui con‑ fronti deve essere svolto l’accertamento potrà, quindi, inter‑ venire ma, non dovendo lo stesso essere preventivamente av‑ visato, non dovrà essere necessariamente atteso prima del suo compimento. Del resto, esigenze pratiche impongono di rite‑ nere che la P.G. non potrebbe comunque aspettare troppo tempo l’arrivo dell’avvocato perché il test non solo reca con sé un’intrinseca irripetibilità ma anche una naturale tensione verso l’obsolescenza che impone di effettuarlo in tempio stret‑ ti poiché il tasso alcool emico diminuisce nel tempo. Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla sentenza 2 luglio 2013, n. 1604 F O R E N S E luglio • A G O S T O Accertamenti urgenti sulle persone: alcooltest – Mancato avver‑ timento della facoltà di farsi assistere dal difensore – Nullità di ordine generale a regime intermedio (art. 354 c.p.p. – 178 c.p.p.) La mancanza dell’avvertimento integra ipotesi di nullità di ordine generale a regime intermedio con la conseguenza che, laddove la parte assiste alla formazione del vizio in pa‑ rola, deve tenersi conto di quanto disposto dell’art. 182 co. 2 c.p.p., che impone a pena di preclusione e conseguente sanatoria, che la relativa eccezione debba essere formulata prima del compimento dell’atto, ovvero se ciò non è possibi‑ le, immediatamente dopo, con la conseguenza che stessa è tardiva quando è dedotta a distanza di parecchi giorni ed in occasione di un primo atto successivo del procedimento. Tribunale Napoli, G.u.p. Pilla sentenza 2 luglio 2013, n. 1604 Querela: condizione di procedibilità –Requisiti formali (art. 337 c.p.p.) Affinché un atto diretto alle competenti autorità possa interpretarsi come formale querela – e, quindi, possa dirsi sussistente la condizione di procedibilità nei reati persegui‑ bili a querela – occorre che da tale atto risulti, in modo espresso e non equivoco, l'intenzione della persona offesa di richiedere la punizione dell'autore di un presunto reato. Ai fini della validità della querela, non è necessario l'uso di formule sacramentali, essendo sufficiente la denuncia dei fatti e la "chiara manifestazione della volontà della persona offesa di voler perseguire penalmente i fatti denunciati. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1653 Udienza preliminare: funzioni del G.u.p. – sentenza non luogo a procedere‑ presupposti. (art. 429 c.p.p.) La giurisprudenza ha, più volte, ribadito che, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 479 del 1999, la decisione del giudice dell'udienza preliminare ha mantenuto una natura eminentemente processuale. La prognosi richiesta al G.U.P. ha ad oggetto due momenti complementari, ma distinti, rappresentati dalla completabilità degli atti di inda‑ gine (le indagini sono complete quando non è ragionevole ritenere che, continuandole, si potrebbero reperire ulteriori elementi di conoscenza), e dall'utilità del dibattimento (il dibattimento è inutile quando è ragionevole ritenere che il suo espletamento non porterebbe a trasformare in prove gli elementi acquisiti). Pertanto, come sostenuto da autorevole dottrina, la sentenza di non luogo a procedere va pronuncia‑ ta quando è consentito formulare una prognosi di resistenza 2 0 1 3 93 in giudizio di uno tra tre possibili esiti dell'udienza prelimi‑ nare: la prova dell'innocenza dell'accusato, la mancanza di prova oppure la prova insufficiente o contraddittoria (art. 425, commi l e 3, c.p.p.). Tribunale Napoli, G.u.p.Gallo sentenza 26 giugno 2013, n. 1569 LEGGI PENALI SPECIALI Armi: porto di una roncola – Giustificato motivo – Accertamento (art. 4 l. 110/75) Deve intendersi per motivo giustificativo del porto quel‑ lo determinato da particolari esigenze dell’agente perfetta‑ mente corrispondenti a regole comportamentali lecite, rela‑ zionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazio‑ ne del fatto, alle condizione soggettive dell’agente del porta‑ tore ai luoghi dell’accadimento. Il porto di una roncola fuori dalla propria abitazione al fine di provvedere al taglio degli alberi di nocciole, integra un motivo illecito. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 17 luglio 2013, n. 1782 Pres. Critelli, Di Petti, Tirone Pubblica sicurezza: misure prevenzione – d.lgs. 159/11 – Modifi‑ che legislative – Continuità normativa (l. 1423/56 – d.lgs. 159/11) In relazione al delitto concernente la violazione delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, va rilevato che la l. 1423/56 è stata abrogata a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011; il reato previsto dall'art. 9 co. II L. 1423 /56 è stato, però, ri‑ prodotto nell'art. 75 co. II e, pertanto, vi è continuità fra le due norme incriminatrici. Tribunale Napoli, G.u.p. Carola sentenza 21 giugno 2013, n. 1524 Stranieri: espulsione – Applicabilità – Presupposti (d.lgs. 286/98) In diritto si rileva che l'espulsione dal territorio dello Strato dello straniero può essere ordinata dal giudice in cor‑ relazione al giudizio di pericolosità, sempre necessario (cfr. Cass. Sez. III, 511112009, n. 48937; Cass. Sez. II, 217/2009, n. 28614),e indipendentemente da qualsiasi contestazione delle circostanze che possono importare l'applicazione delle misure di sicurezza, quando la condanna superi due anni di reclusione. Tribunale Napoli, G.u.p. Gallo sentenza 4 luglio 2013, n. 1642 penale Gazzetta Diritto amministrativo I diritti edificatori nella gestione pianificatoria del territorio 97 Gaetana Marena Accessibilità degli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013, n. 5021 102 Alessandro Barbieri Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.) 109 amministrativo A cura di Almerina Bove Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 1 3 97 Sommario: 1. La rilevanza dei diritti edificatori nei nuovi strumenti di pianificazione urbanistica: la perequazione, la compensazione e le premialità edilizie – 2. I diritti edificatori: natura giuridica e profili problematici. ● Gaetana Marena Avvocato e Docente Università Telematica Pegaso 1. La rilevanza dei diritti edificatori nei nuovi strumenti di piani‑ ficazione urbanistica: la perequazione, la compensazione e le premialità edilizie Un concreta applicazione di quanto finora asserito e, cioè, dell’imperare del principio della consensualità nell’azione amministrativa, ma soprattutto nella materia della gestione del territorio, è la negoziazione dei diritti edificatori, norma‑ tivamente consacrata dal recente Decreto Sviluppo 70 del 2011. Per effetto dell’incessante evoluzione giurisprudenziale e legislativa, i diritti edificatori possono oggi costituire ogget‑ to di attività di scambio tra i privati, mediante il tipico nego‑ zio di cessione di cubatura1, nonché di concessione da parte della Pubblica Amministrazione, con tutti i risvolti pratici ed applicativi che la questione pone. Il contesto di riferimento è quello dell’urbanistica e, dun‑ que, della funzione pubblicistica di pianificazione dell’assetto territoriale e di conformazione della proprietà privata, dove è incisivo il momento discrezionale nella fase pianificatoria, al punto da operare, in via preliminare, un’esaustiva conforma‑ zione dell’an, del quid, del quomodoe del quandodel diritto di edificare ed, al contempo, relegare il permesso di costruire a mera autorizzazione ricognitiva 2. Ma la scelta discrezionale non sempre risulta rispettosa dei parametri dell’uguaglianza. Per converso, il più delle volte evidenzia un connotato intrin‑ secamente discriminatorio3, per sopperire al quale si è assis‑ titi ad una recente proliferazione di tecniche pianificatorie di tipo perequativo. Queste nuove modalità di governo del ter‑ ritorio nascono essenzialmente proprio per ovviare alle crit‑ 1 La giurisprudenza ha chiarito come il negozio di cessione di cubatura non abbia efficacia traslativa, in quanto l’effetto costitutivo non è riconducibile al consen‑ so delle parti, ma discende dal permesso di costruire. La cessione di cubatura è dunque una fattispecie a formazione progressiva in cui confluiscono, sul piano dei presupposti, dichiarazioni negoziali nel contesto di un procedimento ammi‑ nistrativo; a determinare il trasferimento di cubatura, tra le parti e nei confron‑ ti dei terzi, è esclusivamente il provvedimento concessorio. Cass., Sez. II, 24 settembre 2009, n. 20623, in Riv. Giur. Ed., 1, 72. 2 R. Galli‑ D. Galli, Corso di diritto amministrativo, 2004, p. 958 e ss.: Il mutamento della qualificazione giuridica della vecchia concessione edilizia è stato immediato. Originariamente, quest’ultima rispondeva appieno ai requisi‑ ti ed alla funzione tipica dei provvedimenti autorizza tori, in quanto deputata a rimuovere discrezionalmente i limiti imposti dalla legge allo svolgimento della facoltà di edificare ricompresa nel diritto di proprietà. Per il vero, prima che la legge Ponte del 67 imponesse l’adozione da parte dei Comuni di un programma di fabbricazione alternativo al piano regolatore generale, il rilascio della licenza edilizia per la realizzazione di costruzioni in zone non soggette a pianificazione urbanistica richiedeva valutazioni discrezionali così impegnative e complesse da far ritenere che si trattasse di autorizzazione costitutiva, in quanto conformativa dello ius aedificandi. Un’ampia estensione del potere discrezionale venne a regredire man mano che furono i piani urbanistici, generali e particolari, a conformare il diritto ad edi‑ ficare, relegando la verifica posta in essere dalla P. A. a mera attività di control‑ lo tecnico. Di qui la configurazione della concessione edilizia in termini di au‑ torizzazione ricognitiva, se non addirittura vincolata. 3 P. Stella Richter, Diritto Urbanistico, 2010, p. 47: “non è possibile pianifi‑ care l’uso del territorio senza differenziare le varie sue parti, valorizzandone alcune (con il destinarle ad esempio all’edilizia privata) e mettendone altre più o meno direttamente al loro servizio (con il prevedervi opere di urbanizzazione od anche una sola zona verde)…poiché il piano ha come oggetto principale quello di attribuire destinazione di aree, che non possono essere ovunque le stesse, esso riveste necessariamente un carattere discriminatorio”. In giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 1981, n. 367, in Foro Amm., I, 851. amministrativo I diritti edificatori nella gestione pianificatoria del territorio luglio • A G O S T O 98 di r itto a m m i n ist r ati v o icità tipiche della zonizzazione e, segnatamente, alle forti sperequazioni che la tecnica dello zoning4 determina tra le diverse classi dei proprietari fondiari, alcuni avvantaggiati in maniera considerevole dalle scelte della pubblica amminis‑ trazione in ordine all’edificabilità dei suoli (proprietari di fondi interessati da destinazioni edificatorie); altri, invece, impoveriti perché colpiti da disposizioni vincolistiche o comu‑ nque riduttive della capacità edificatoria5. In realtà, ulteriori sono le ragioni sottese al diffondersi di tale tecnica urbanis‑ tica. Anzitutto, pregante è l’esigenza di consentire ai Comuni di disporre di aree pubbliche per servizi senza affrontare da un lato il carico finanziario necessario per l’attuazione di misure espropriative, dall’altro la conflittualità conseguente al ricorso ai vincoli di inedificabilità. Oltre alle due finalità di superare la discriminatorietà degli effetti della zonizzazi‑ one6 e di disporre gratuitamente di aree pubbliche per servizi, determinante è, altresì, la logica “della cosiddetta integrazione di funzioni edificatorie: ovvero la possibilità che coesistano nei medesimi spazi diverse forme di utilizzazione del territorio. L’obiettivo è superare il rigido principio della divisione in zone monofunzionali, che si rivela spesso elemento di rigidità pianificatoria”7. A livello tecnico‑definitorio, per perequazione8 s’intende 4 M. Miglioranza, Le funzioni delle zone e degli edifici: individuazione e con‑ seguenze, in Riv. Giur. Edil. 2005, p. 245. 5 R. Garofoli‑ G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, 2012, pag. 1235 e ss. 6 Urbani, Urbanistica solidale, 2011, 141: muovendo dal presupposto che la zonizzazione è discriminatoria nella misura un cui parcellizza le destinazioni d’uso e le vocazioni edificatorie, come “dalle camere stagne della zonizzazione si passa ad un sistema perequativo di vasi comunicanti che permette oltre al riconoscimento dell’edificabilità virtuale anche la circolazione di tale edificabi‑ lità su tutto il territorio trasformabile”. 7 P. Urbani, Disciplina regionale concorrente in materia di governo del territo‑ rio e principio perequativo nella pianificazione urbanistica comunale, tenuta al Congresso nazionale dei notai “Urbanistica e attività notarile: nuovi stru‑ menti di pianificazione del territorio e sicurezza delle contrattazioni”, 11 giugno 2011. Sul punto, altresì, S. Perongini, profili giuridici della pianificazione urbanistica perequativa, Milano, 2005; Gambaro, Compensazione urbanisti‑ ca e mercato dei diritti edificatori, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2010, I, 3 ss.; P. Stella Richter, La perequazione urbanistica, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2005, 2, 169 e ss.; Police, Gli strumenti di perequazione urba‑ nistica. Magia evocativa dei nomi, legalità ed effettività, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2004, II, 3 e ss.; Portaluri, Poteri urbanistici e principio di pianificazione, Napoli, 2003; Quaglia, Pianificazione urbanistica e perequa‑ zione, Torino, 2000; Sabbato, La perequazione urbanistica, Relazione al Convegno di studi di Salerno, 20 novembre 2009, Attività edilizia tra governo del territorio e tutela paesaggistica e ambientale; A.Travi, Accordi tra proprie‑ tari e Comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti, in Il Foro It., 2002, 274 e ss.; P. Urbani, La perequazione tra ipotesi di riforma nazionale e leggi regionali, in Edilizia e Territorio. Commenti e norme, 2008, 30; ID, voce Urbanistica, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Aggiornamento XVII, 2009; ID, Concertazione e perequazione urbanistica, in Atti del Conve‑ gno di Lisbona sulla perequazione urbanistica 15‑18 giugno 2008, in www. pausania.it. 8 E. Boscolo, Le perequazioni e le compensazioni, op. cit., p. 6, il quale sotto‑ linea anche un problema di formazione del consenso intorno ai modelli della perequazione e della compensazione, dal momento che oggi spesso le uniche possibilità di intervento sono rappresentate dalla “ricucitura di circoscritte aree interstiziali” e che anche in un piano che preveda il mantenimento delle capa‑ cità insediative anteriori (i cd. residui di piano), i proprietari delle aree attual‑ mente edificabili chiamati a condividere le possibilità edificatorie vivono tale situazione quale “un'autentica privazione”; rispetto, infatti, ad un piano tradi‑ zionale in cui il saldo volumetrico non subisce variazioni mutano “gli esiti in‑ dividuali”. Deve essere segnalato che la tecnica dello zoning segnava inevitabil‑ mente anche le sorti dei proprietari sulla base delle linee disegnate dal penna‑ rello del pianificatore (p. 9). La perequazione costituisce insomma il rimedio alle “esternalità negative dello zoning” (p. 10). Questione questa delicatissima, ma già segnalata in un risalente ma attuale saggio da P. Stella Richter, Il potere di pianificazione nella legislazione urbanistica, in Riv. Giur. Edil. 1968, Gazzetta F O R E N S E una tecnica urbanistica volta ad attribuire un valore edifica‑ torio uniforme a tutte le proprietà che possano concorrere alla trasformazione urbanistica di uno o più ambiti del ter‑ ritorio comunale, prescindendo dall’effettiva localizzazione della capacità edificatoria sulle singole proprietà. Questo implica che i proprietari partecipino in misura uguale alla distribuzione dei valori e degli oneri correlati alla trasfor‑ mazione urbanistica. Segnatamente, i proprietari di aree inedificabili diventano titolari di diritti edificatori “virtuali” o “potenziali”, non potendo esercitarli di fatto. I proprietari di aree edificabili, seppur titolari del diritto ad edificare in astratto, non possono esercitarlo in concreto, perché l’area soggetta a perequazione non raggiunge il limite minimo dell’indice di edificabilità previsto. Dovranno procurarsi, mediante una cessione a tito‑ lo oneroso, la differenza volumetrica necessaria o dai proprie‑ tari di aree inedificabili oppure dai proprietari di aree con destinazione pubblica. Questi ultimi possono decidere di ce‑ dere tali aree al Comune, a titolo gratuito, ed essere parimen‑ ti ristorati del sacrificio sostenuto, cedendo, a titolo oneroso, i loro diritti edificatori ai proprietari di aree edificabili. Il modello perequativo9 tende, insomma, a generare il massimo dell’equità applicando all’intero territorio un unico indice di edificazione, con l’esclusione delle sole zone agrico‑ le e del centro storico. In tale luce, in prima approssimazione, la permuta o la cessione delle aree o lo scambio (a titolo one‑ roso) dei diritti edificatori ripartiti prima di tutto sui fondi cd. sorgente (sending areas) permetteranno, al tempo della successiva concentrazione dei volumi (cd. fase di atterraggio) sui soli fondi cd. accipienti o riceventi (receiving areas), di garantire anche ai proprietari dei fondi cd. sorgente di otte‑ nere una frazione in senso economico o nel senso dello sfrut‑ tamento edificatorio dell’attività di trasformazione del terri‑ torio urbano interessato dall’intervento. Il rischio di un tale meccanismo, che richiede necessaria‑ mente di essere affinato è, però, palese: la totale parificazione delle aree, dal punto di vista urbanistico, reca con sé, infatti, II, p. 123, il quale già all'epoca affermava il carattere intrinsecamente discrimi‑ natorio degli schemi tradizionali. 9 E. Boscolo, Le perequazioni e le compensazioni. Relazione pubblicata in atti del Convegno organizzato dalla società Paradigma tenuto nel mese di marzo 2009 in Milano e nel mese di aprile 2009 in Roma. Inoltre, A. Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale (le cd. premialità edilizie) (pubblicato anche in Giust. Amm. 2008, n. 4, p. 163); E. Micelli, La perequazione urba‑ nistica in alcune esperienze di piani e progetti (slides); A. Quaglia, Gli stru‑ menti di concertazione pubblico‑privato nelle politiche di rinnovamento urba‑ no; G. Rizzi, I crediti edilizi : l'esperienza della Legge Regione Veneto n. 11 del 2004; Sulla questione dei crediti di volumetria diffusamente altresì, A. Barto‑ lini, Profili giuridici del cd. credito di volumetria, in Riv. Giur. Urb. 2007 p. 302; P. Marzaro Gamba, Credito edilizio compensazione e potere di piani‑ ficazione. Il caso della legge urbanistica veneta, in Riv. Giur. Urb. 2005 p. 644; P. Urbani, Conformazione della proprietà diritti edificatori e moduli di desti‑ nazione d'uso dei suoli, in Urb. e app. 2006, p. 905. Sul tema della perequazio‑ ne, E. Boscolo, Una conferma urbanistica (e qualche novità legislativa) in tema di perequazione urbanistica, in Riv. Giur. Edil. 2003, 3, p. 823; S. De Paolis, Pianificazione di dettaglio e perequazione, in Riv. Giur. Edil, 2008, p. 527; P. Stella Richter, La perequazione urbanistica,in Riv. Giur. Edil., 2005, pag. 169. N. Assini, Pianificazione urbanistica e governo del territorio, Padova, 2000, p. 148 e ss.; N. Centofanti, Diritto urbanistico, Padova, 2008; E. Micelli, Perequazione urbanistica, 2004; P. Urbani, Urbanistica consensu‑ ale, Bollati Boringhieri 2000, AA.VV. Urbanistica e perequazione a cura di S. Carbonara – C.M. Torre Franco Angeli, 2008. In tema di lettura della fattispecie dal punto di vista fiscale A. Pischetola, Utilizzo di volumetria pe‑ requativa e ipotesi di applicabilità delle agevolazioni ex legge n. 10 del 1977, in Studi e Materiali del Cons. naz. Not. 2006/1, p. 556. F O R E N S E luglio • A G O S T O il risultato paradossale di non tenere in alcuna considerazione le differenze discendenti dalla allocazione delle medesime, generando in tal modo una disuguaglianza per così dire di ritorno. Per evitare un tale risultato inefficiente e soprattutto ini‑ quo e certo discordante con le premesse di partenza, è neces‑ sario procedere, allora, “alla decodificazione dei caratteri e delle invarianti territoriali” (la cd. classificazione dei suoli): i lotti compresi in una certa classe riceveranno una eguale potenzialità di cubatura, indipendentemente dalla destinazio‑ ne finale; le dinamiche perequative consentono, infatti, con la revisione profonda delle regole di pianificazione, una mag‑ giore flessibilità. Dovranno essere, di conseguenza, fissate le regole di tra‑ sformazione all’interno di unità minime di intervento (com‑ parti, piani attuativi, ambiti o distretti) o le regole di circola‑ zione dei titoli volumetrici esattamente corrispondenti con la cubatura sviluppata da ciascun fondo interessato Si distingue tra perequazione10 ristretta e perequazione allargata11. La prima è riferita ai comparti oggetto degli strumenti urbanistici, ovvero ad un insieme di aree di proprietà privata componenti un comparto12. All’interno di questo, a ciascuna area viene attribuita un’identica capacità volumetrica, pro‑ porzionale all’estensione dell’area stessa, ma in ogni caso in‑ feriore al limite minimo fondiario di edificabilità. La seconda si riferisce all’intero territorio comunale13. Prevede l’assegna‑ zione ai cosiddetti fondi sorgente di una dotazione volumetri‑ ca sotto forma di diritto edificatorio cedibile a terzi. Il piano individua due macrocategorie di fondi: aree di trasformazione ed aree di conservazione. L’utilizzo del diritto edificatorio che 10 P. Urbani, La perequazione tra ipotesi di riforma nazionale e leggi regionali, op. cit., p. 3 distingue tra la perequazione di valori e la perequazione di volumi. La prima consiste nella monetizzazione dei diritti edificatori unita ai trasferi‑ menti compensativi delle disparità derivanti dalla pianificazione; si tratta di un modello che richiede l'applicazione all'intero territorio comunale ed è quindi di difficile applicazione concreta. La seconda, piuttosto diffusa negli strumenti di pianificazione già adottati, si realizza allorquando a certe aree (o ambiti) esat‑ tamente individuate, è attribuito un unico indice territoriale. Compete ai priva‑ ti il trasferimento e la conseguente distribuzione delle quote di edificabilità; alla pubblica Amministrazione posta in posizione di terzietà spetta il controllo sul rispetto delle previsioni di piano. 11E. Boscolo, Una conferma giurisprudenziale (e qualche novità legislativa) in tema di perequazione urbanistica, Riv. Giur. Edil., 3, 823; ID, Le perequazioni e le compensazioni, Riv. Giur. Di urbanistica, 1, 104 e ss.; Colnaghi, I nuovi strumenti della programmazione urbanistica: perequazioni, compensazioni e diritti edificatori. tenuta al Convegno di Como dell’8 aprile 2011, del Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Como e Lecco; Urbani, Disciplina regionale concorrente in materia di governo del territorio e principio perequativo nella pianificazione urbanistica comunale, tenuta al Congresso nazionale dei notai “Urbanistica e attività notarile: nuovi strumenti di pianificazione del territorio e sicurezza delle contrattazioni”, 11 giugno 2011; ID, voce Urbanistica, Enci‑ clopedia Giuridica Treccani, XVII, 2009; ID, La perequazione tra ipotesi di ri‑ forma nazionale e leggi regionali, Edilizia e territorio. Commenti e norme, 30. 12 La giurisprudenza distingue, nell’ambito del “comparto perequativo”, tra il “comparto continuo”, che delimita un settore determinato del territorio nel quale sorgono i diritti edificatori e nel quale soltanto gli stessi possono essere utilizzati, ed il “comparto discontinuo”, i cui diritti possono essere trasferiti e sfruttati su aree diverse da quelle incluse nel perimetro originario. Si veda TAR Puglia, Bari, Sez. II, 1 luglio 2010, n. 2810, in Foro amm.‑ Tar, 2607. 13E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico‑edilizia introdotte dall’art. 5 del decreto sviluppo, Urb. e App., 1060: Soltanto la seconda pone in luce la circo‑ lazione dei diritti edificatori, con i connessi problemi di “decollo, volo ed atter‑ raggio”, atteso che nei piani con perequazione endoambito l’atto traslativo non incide tanto sui titoli volumetrici e dunque sulle potenzialità edificatorie, quan‑ to piuttosto sulla proprietà dei suoli interni ai parametri di comparto‑piano attuativo. 2 0 1 3 99 spetta ad un’area non suscettibile di trasformazione secondo le indicazioni del pianificatore potrà avvenire su un altro fondo detto accipiente, scelto tra le numerose aree di atterrag‑ gio previste dal piano. Altra forma di negoziazione dei diritti edificatori è la compensazione urbanistica, che consiste nella cessione di una volumetria da parte del Comune in favore di soggetti che cedono volontariamente le aree di proprietà a destinazione pubblica, soggette come tali ad un vincolo d’inedificabilità. Tale possibilità deve essere espressamente contemplata nel piano regolatore. Ovviamente, il diritto edificatorio ceduto non può essere concretamente esercitato dal destinatario, essendosi quest’ultimo spogliato della titolarità dell’area. Sarà, invece, esercitato su una differente area di atterraggio, anch’essa predeterminata dal piano, di pertinenza di un terzo. Lo schema che, allora, viene in rilievo è quello tipico della datio in solutum. Comune estingue la propria obbligazione urbanistico‑paesaggistica con una prestazione diversa da quella ordinaria del pagamento del corrispettivo, ovvero l’at‑ tribuzione di un diritto edificatorio14. Precisamente, ciò che l’Amministrazione concede al proprietario è un credito edili‑ zio nei confronti del terzo titolare dell’area di atterraggio, che riceverà, pertanto, un soddisfacimento differito attraverso l’esperimento di una nuova vicenda giuridica15. Sono, poi, previste misure incentivanti, quali la premialità e d i l i z i a , c he c on si s t e nel l’at t r ibu z ione d a p a r t e dell’amministrazione comunale di diritti edificatori in favore di alcuni soggetti ritenuti meritevoli, in quanto autori di con‑ dotte di promozione e soddisfacimento di interessi pubblici. Gli interventi di riqualificazione urbana diretti a realizzare attrezzature e servizi in aggiunta a quanto necessario per sod‑ disfare gli standards o migliorare la qualità ambientale deter‑ minano un premio, vale a dire nuovi diritti edificatori in ag‑ giunta a quelli già spettanti sull’area. L’istituto ha trovato riconoscimento nella legge statale ed, in particolare, nella legge finanziaria per il 200816. Ma, accanto a questa regola‑ mentazione nazionale17, vigono differenziate discipline re‑ 14 La Corte Cost., con sentenza del 1999, n. 179, ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica quale procedura alternativa all’indennizzo espropriativo, che non penalizza i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su determinati beni, riconoscendo la conformità all’ordinamento di moduli di compensazione anche a prescindere da specifiche previsioni nor‑ mative. 15Già da questa breve disamina emerge in maniera in equivoca il discrimen tra la perequazione e la compensazione. La cessione perequativa è alternativa all’espropriazione, perché non prevede l’ap‑ posizione di un vincolo espropriativo sulle aree destinate ai servizi pubblici, ma prevede che tutti i proprietari, sia di aree edificabili si di aree non edificabili, partecipino alla realizzazione di infrastrutture pubbliche. La cessione compen‑ sativa, invece, si caratterizza per la previa apposizione di un vincolo d’inedifi‑ cabilità su aree destinate alla realizzazione di opere pubbliche, potendo risto‑ rare il proprietario leso mediante l’attribuzione di crediti compensativi. 16 L’art. 1, comma 259, della legge finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244), stabilisce che “ai fini dell’attuazione di interventi finalizzati ala realiz‑ zazione di edilizia residenziale sociale, di rinnovo urbanistico ed edilizio, di ri‑ qualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti, il comune può, nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici, consentire un aumento di volumetria premiale nei limiti di incremento massimi della ca‑ pacità edificatoria previsti per gli ambiti di cui al comma 258”. 17 La disciplina statale sul “piano casa”, rivolta all’incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo, consente il perseguimento di tale obiettivo anche mediante la promozione da parte dei privati in project financing; in tale eve‑ nienza l’art. 11, comma 5, lett. a) del D. L. 25 giugno 2008, n. 112 prevede la possibilità di trasferimento dei diritti edificatori in favore dei promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo. amministrativo Gazzetta 100 di r itto a m m i n ist r ati v o gionali sul tema, che spiccano anche per differenze termino‑ logiche. La legge veneta del 2004 parla di credito edilizio con riferimento agli interventi di riqualificazione ambientale che danno origine al premio; la legge lombarda consente al docu‑ mento di piano di prevedere, a fronte di rilevanti benefici pubblici, una disciplina di incentivazione, in misura non su‑ periore al 15% della volumetria ammessa. Diverse sono le ragioni che sottendono le tipologie di misure urbanistiche prese in esame: redistributive nella perequazione, indennitarie nella perequazione, incentivanti nella premialità. A tali diversità ontologiche corrispondono anche differenze nella disciplina dei diritti edificatori. Mentre i diritti perequativi sono assegnati direttamente in seguito alla formazione del piano e sono commerciabili nel momento stesso in cui il piano è approvato; i diritti compensativi sono attribuiti in seguito alla cessione all’amministrazione comu‑ nale del fondo sorgente e non hanno limiti spaziali; i diritti incentivanti o premiali sono attribuiti in seguito all’intervento di riqualificazione urbanistica ed ambientale. La diversa natura e genesi dei diversi tipi di diritti edificatori determina, altresi’, una diversità funzionale degli stessi. I diritti perequa‑ tivi sono assoggettati a revisioni in seguito alle modifiche del piano che li ha assegnati; i diritti compensativi, in quanto corrispettivo della prestazione privata di cessione dell’area, sono del tutto indifferenti alle variazioni del piano. Ma al di là delle palesi divergenze strutturali e funzionali che contrassegnano le tre tipologie, residua un comune deno‑ minatore che le avvince in maniera stringente, rappresentato dall’attitudine a generare quei diritti edificatori, che hanno trovato una loro recente consacrazione nell’art. 5 del D. L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con la legge 12 luglio 2011, n. 106 (c. d. Decreto Sviluppo), che inserisce nell’art. 2643, comma 1, c. c. il punto 2 bis18 . 2. I nuovi diritti edificatori: natura giuridica e profili problematici All’indomani dell’entrata in vigore della nuova normativa in tema di circolazione dei diritti edificatori, dottrina e giu‑ risprudenza si sono schierate su posizioni divergenti, alla ri‑ cerca di soluzioni ricostruttive che potessero dirimere qual‑ sivoglia dubbio sulla complessità del meccanismo di funzio‑ namento. Ciò che connota questa categoria di situazioni giuridiche è, senza dubbio, la loro scorporazione rispetto alla titolarità del fondo, trattandosi di diritti autonomi ed idonei in quanto tali ad essere oggetto di negozi giuridici, senza un collegamen‑ to con l’area di provenienza o di destinazione19. Va sottoline‑ ato, però, un aspetto importante. Se nell’ipotesi di perequa‑ zione c’è un collegamento genetico tra diritto edificatorio e terreno, al punto da assurgere il primo a qualità intrinseca del Tale normativa, però, ingenera un dubbio sistematico. Ci si chiede se i diritti edificatori ceduti al promotore siano comunque connessi ad una proprietà preesistente, ovvero costituiscano “un tesoretto svincolato da una dimensione realistica” (Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale, www.giustamm. it, 10). 18Il 2 bis l’istituto della trascrizione a quei “contratti che trasferiscono, costitui‑ scono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoria‑ le”. 19Per un approfondimento dell’argomento, si veda S. Fantini, L’ambito di rile‑ vanze dei diritti edificatori, www.giustizia_amministrativa.it, ottobre 2011. Gazzetta F O R E N S E secondo; nell’ipotesi di compensazione e di premialità questo rapporto diretto di tipo genetico difetta, dal momento che il diritto edificatorio è attribuito dall’amministrazione quale corrispettivo per la cessione di un’area ovvero in seguito ad un intervento di riqualificazione urbanistica. Se, dunque, il diritto edificatorio, sia pure con delle sotti‑ li sfumature, non coincide con lo ius aedificandi, i motivi espressi, senza dubbio ne rappresenta la dimensione quanti‑ tativa, evocando la volumetria concretamente utilizzabile dal titolare dei diritto di edificare ed esprimendo, al contempo, la misura della trasformazione urbanistica effettivamente realizzabile dal medesimo. Ne discende il corollario per cui questo diritto edificatorio viene ad assumere la consistenza di una chance, come seria possibilità di trasformazione dell’as‑ setto territoriale in termini volumetrici 20. È una situazione giuridica soggettiva che dialoga con il potere21 e che, segnata‑ mente, si atteggia alla stregua di un interesse legittimo pre‑ tensivo, in quanto il diritto a costruire è riconducibile al fascio di facoltà connaturate alla proprietà fondiaria, il cui esercizio è condizionato al rilascio di un titolo abilitativo edilizio da parte dell’amministrazione. Ampliando le fila del ragionamen‑ to si potrebbe anche arrivare ad affermare che il diritto edifi‑ catorio è una situazione che vede la coesistenza di diritti soggettivi e di interessi legittimi 22. Il dibattito sulla natura giuridica dei diritti edificatori ha recato con sé ulteriori spunti di riflessione circa aspetti pro‑ blematici legati all’operatività dell’art. 2643 c.c., che, al nuo‑ vo punto 2 bis, ad aver dato risposta ad esigenze di certezza nella circolazione giuridica, ha anche tipizzato il contratto con cui dispone dei diritti edificatori. L’esigenza di certezza giuri‑ dica si pone per rendere nota ai terzi la limitazione edificato‑ ria intervenuta con riguardo all’area di proprietà del cedente, ma anche per rendere opponibili quelle cessioni di cubatura strutturate in modo da non consentire previamente l’indivi‑ duazione di un’area di atterraggio delle volumetrie cedute. Quanto al dato definitorio della categoria contrattuale di ri‑ ferimento, senza dubbio si aggiungono al contratto di trasfe‑ rimento le “fattispecie modificative e costitutive” dei diritti edificatori. Finora il trasferimento dei diritti edificatori esau‑ riva l’ambito dell’attività negoziale dei privati consentita nella materia in esame. Il riferimento alla costituzione e modifica‑ zione sembra alludere all’esercizio dei poteri pubblicistici e, dunque, ad atti convenzionali tra il privato e l’amministrazio‑ ne, non propriamente contrattuali, in quanto non espressione di autonomia privata, bensì veicolo di discrezionalità ammi‑ nistrativa 23. 20 Bartolini, Profili giuridici del credito di volumetria, Riv. Giur. Urb., 303 e ss. 21 Scoca, Interessi protetti, Enc. Giur., Roma, 1989, 9. 22In tal senso, E. Boscolo, Le novità in materia urbanistico‑edilizia introdotte dall’art. 5 del decreto sviluppo, Urb. e app., 1060: il diritto edificatorio è disci‑ plinato al contempo da norme di azione e norme di relazione, che evidenziano “il lato pubblicistico, inscindibilmente connesso alla sua derivazione e destina‑ zione entro una vicenda che coinvolge anche l’amministrazione, e di un lato privatistico, che si manifesta ove il titolo viene assunto alla stregua di un be‑ ne‑diritto avente natura patrimoniale e suscettibile di circolazione autono‑ ma”. 23P. Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata nella legge n. 106/2011, di conversione del d.l. 13 maggio 2011, n. 70. Semestre europeo‑ prime dispo‑ sizioni urgenti per l’economia, www.giustamm.it, 2011, 5: “un esempio di contratto costitutivo di diritti potrebbe essere quello concluso ai sensi dell’art. 45 del t. u. sull’espropriazione, che nel sancire il diritto del proprietario di stipula‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O Altra questione riguarda le modalità di trasferimento dei diritti edificatori e poi dei diritti premiali, cioè connessi alle premialità edilizie. Occorre chiedersi, in particolare, se sia necessario l’esperimento di un procedimento di evidenza pubblica o di valutazione comparativa concorrenziale24. Il tema, parzialmente affrontato dall’ Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici 25, richiede una rivisitazione del concetto di onerosità. Anche a voler ritenere che lo stesso sia collega‑ bile solamente ad una controprestazione in termini moneta‑ ri e, dunque, in difetto di corrispettività, deve comunque ritenersi che la fattispecie della cessione dei diritti edificato‑ ri soggiaccia ai principi del Trattato in tema di concorrenza, valevoli al di là dei confini tracciati dalle direttive26. Nei diritti premiali non vi è, invece, corrispettività tra le presta‑ zioni e l’ambito nazionale di riferimento sembra essere quel‑ lo dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici, di‑ sciplinati dall’art. 2 della legge 241/1990. Atteso che la legge subordina le sovvenzioni alla predeterminazione e pubblicazione dei criteri e delle modalità cui le amministra‑ zioni devono attenersi, si è ritenuto in dottrina che ciò esima l’amministrazione dal procedere all’assegnazione con proce‑ dure competitive27. Degno di riflessione è, altresi’, l’aspetto inerente all’indi‑ viduazione del fondamento dei diritti edificatori. Sebbene la legge statale si sia marginalmente occupata di queste peculia‑ ri situazioni giuridiche soggettive, riconoscendone l’esistenza e regolamentandone il funzionamento (come, da ultimo, il recente Decreto Sviluppo), la fonte principale di disciplina è tradizionalmente stata la legge regionale e ciò ha sempre dato adito a dibattiti circa la sua legittimità in tal senso. L’inqua‑ dramento prospettato induce a dare una soluzione positiva al quesito, in quanto i diritti edificatori sono espressione del potere conformativo del territorio e della proprietà, che è il quidproprio della pianificazione urbanistica. Non viene, dunque, in gioco, sempre in linea di principio, la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile ex art. 117, comma 2, Cost., ma la potestà concorrente in materia di go‑ verno del territorio ex art. 117, comma 3, Cost. Resta inteso che, laddove la disciplina dei diritti edifica‑ tori incida sulla materia dell’ordinamento civile, sarà neces‑ saria la legge statale, come è emblematicamente accaduto con l’art. 5 del Decreto 70 del 2011, che estende il regime di pub‑ re un atto di cessione volontaria del bene espropriando, consente di prevedere un controvalore in diritti edificatori anziché in denaro”. 24Nell’esperienza pratica, va ricordato come nel Comune di Reggio Emilia sia stata disposta, a prescindere dal fatto che ciò fosse o meno dovuto alla stregua di quanto disposto dalla legge regionale Emilia Romagna 24 marzo 2000, n. 20, l’alienazione di quote di edificabilità generate da proprietà fondiarie comunali mediante gara aperta, secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, finalizzata alla selezione delle aree su cui far atterrare i diritti edificatori. 25 L’Autorità in questione, con la determinazione n. 4 del 2 aprile 2008, con rife‑ rimento ad una convenzione urbanistica, che prevedeva, a fronte del riconosci‑ mento al soggetto privato di diritti edificatori, la cessione, da parte dello stesso, di aree, ovvero la realizzazione di opere di adeguamento infrastrutturale e di trasformazione del territorio, ha ritenuto, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale 23 marzo 2006, n. 129 sulla legge regionale Lombardia n. 12 del 2005, che le opere che il privato si impegna a fare sono assoggettate alla disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici di lavori, salvo che l’amministrazione non abbia esperito previamente una procedura ad evi‑ denza pubblica per la scelta del privato sottoscrittore. 26 Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 30, in Foro amm. – CDS, 2, 1, 161. 27 Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale, 5‑6. 2 0 1 3 101 blicità immobiliare ai “contratti che trasferiscono, modifica‑ no o costituiscono i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”. Il riferimento alla pianificazio‑ ne territoriale come fonte di disciplina dei diritti edificatori, contenuto nella norma, schiude la strada ad una riflessione in ordine al fatto che, anche in assenza di una legge regionale, può essere lo strumento urbanistico a contenere una discipli‑ na della materia 28. Collegato al complesso meccanismo di funzionamento dei diritti edificatori è il puntum dolens la possibilità di parlare di un mercato di capacità edificatorie virtuali. In sostanza, se si è detto che il titolare di un titolo volumetrico possa trasfe‑ rire la propria volumetria mediante negozio di cessione ad altro soggetto, che così acquista un credito edilizio, da com‑ merciare con altri ovvero da far atterrare su un’area conces‑ sionaria, ci si è chiesti se la possibilità di un trasferimento di tali diritti “in volo” (in una condizione cioè in cui è indivi‑ duata l’area di decollo, ma non anche quella di atterraggio) configuri un vero e proprio mercato di titoli smaterializzati. Benché alcune norme regionali contemplino questa evenienza, non sembra esservi spazio per un libero mercato dei diritti edificatori, in quanto le norme e gli strumenti urbanistici ne contemplano la commerciabilità nella misura in cui siano funzionali ad un più equo ed efficiente governo del territorio. Ne è la prova il fatto che tali negoziazioni sussistano negli ambiti della perequazione, della compensazione e delle pre‑ mialità edilizie. Ma, anche ove si intenda configurare un mercato di titoli edificatori, proprio in considerazione dei rischi cui vanno incontro i crediti edilizi in volo, e cioè non ancora atterrati sull’area di destinazione, si tratterebbe comunque di un mer‑ cato a rischio di inefficienza e soprattutto non libero, perché condizionato dal ruolo di decisore dell’amministrazione pub‑ blica e, dunque, non di un mercato di diritti 29. 28 È quanto accaduto con il nuovo P.R.G. di Roma, in relazione al quale il Con‑ siglio di Stato, Sez. IV, 13 luglio 2010, n. 4545 (in www.giustamm.it, 2010) ha ritenuto legittimo l’istituto perequativo della cessione delle aree a favore dell’am‑ ministrazione, proprio nella considerazione che, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento in due pilastri fondamentali del nostro ordinamento e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è ti‑ tolare l’amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione, ed al contempo nella possibilità di utilizzare i modelli consensuali per il perse‑ guimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1 bis, e 11 della legge 241 del 1990. 29 Renna, L’esperienza della Lombardia, Governo e mercato dei diritti edifica‑ tori: esperienze regionali a confronto, cura di Bartolini‑ Maltoni, 2009, p. 70‑84, il quale, con riferimento all’ipotesi in cui un Comune crei dal nulla e si auto assegni diritti edificatori, evoca, pur con le debite differenze, la vicenda del battere moneta senza riserva aurea. A p. 85, precisa che “ove si intenda istituire mercato di diritti edificatori virtuali, si deve essere consapevoli del fatto che si tratterebbe di diritti per forza esposti, con il passare del tempo e con l’allungarsi del loro volo, al rischio di non poter essere totalmente concre‑ tizzati”. amministrativo Gazzetta 102 di r itto ● F O R E N S E TAR LAZIO - ROMA SEZ. II sentenza 20 maggio 2013, n. 5021 Luigi Tosti, Presidente; Elena Stanizzi, Estensore Accessibilità degli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione Nota a Tar Lazio – Roma, sez. II, 20 maggio 2013, n. 5021 ● Alessandro Barbieri Gazzetta a m m i n ist r ati v o Gli atti di carattere generale e normativo sono suscettibi‑ li di divulgazione e possono formare oggetto di accesso. Non può essere negato l’accesso agli atti inerenti la deter‑ minazione del fabbisogno da acquisire mediante mobilità intercompartimentale ed agli atti inerenti il fabbisogno com‑ plessivo di personale dell’ente in quanto, adottati a conclu‑ sione del relativo procedimento e espressione di potestà or‑ ganizzatoria, rivestono carattere definitivo, amministrativo generale, a contenuto programmatorio e di pianificazione. Esulano dall’ambito applicativo del comb. disposto di cui agli artt. 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90 tutti gli atti normativi, amministrativi generali, di pianifica‑ zione e di programmazione che non siano sussumibili nel novero degli atti endoprocedimentali e sempre che per essi la legge non contempli un autonomo regime di pubblicità, con conseguente illegittimità della motivazione di diniego di ac‑ cesso agli atti. Avvocato *** (Omissis) Fatto Espongono in fatto gli odierni ricorrenti di aver presenta‑ to istanza di accesso, in qualità di soggetti risultati idonei allo svolgimento del tirocinio tecnico‑pratico di cui alla sele‑ zione bandita nel 2008 dall’Agenzia delle Entrate, volta ad ottenere gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante mobilità intercompartimentale, gli atti inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/RU e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo di personale dell’ente. L’istanza di accesso è stata presentata a fronte della deter‑ minazione dell’Agenzia delle Dogane di provvedere al soddi‑ sfacimento del proprio fabbisogno mediante mobilità inter‑ compartimentale nonostante l’esistenza di graduatorie regio‑ nali ancora valide ed efficaci, ai sensi del decreto legge n. 216 del 2011, in cui risultano collocati i ricorrenti, da cui attinge‑ re. Tale istanza è stata rigettata, mediante adozione del gra‑ vato provvedimento, nella considerazione che, con riferimen‑ to alla richiesta relativa agli atti inerenti la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante mobilità intercompar‑ timentale ed agli atti inerenti il fabbisogno complessivo di personale dell’ente, l’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990 esclude l’accesso con riferimento agli atti generali, di pianificazione e di programmazione. Con riferimento alla richiesta di accesso agli atti inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/RU, il diniego di accesso poggia sulla considerazione dell’assenza di un collegamento tra gli stessi e la posizione degli istanti, precisando che per la tutela degli interessi degli stessi deve essere considerata sufficiente la co‑ noscenza degli atti già pubblicati, nel dettaglio indicati. Avverso tale diniego di accesso, deducono i ricorrenti i seguenti motivi di censura: F O R E N S E luglio • A G O S T O 1 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della Co‑ stituzione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere. Vio‑ lazione e falsa applicazione degli artt. 3, 13 e 24 della legge n. 241 del 1990. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, all. 1, della legge n. 14 del 2012 e del comma 4 bis dell’art. 1. Violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A.. Ingiustizia manifesta. Difetto di motivazione. Denunciano i ricorrenti l’illegittimità dell’interpretazione adottata dalla resistente Amministrazione con riferimento al diniego di accesso agli atti relativi alla determinazione del fabbisogno di personale dell’ente, sostenendo che, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990, l’accesso deve essere escluso solo con riferimento all’attività diretta all’emanazione di atti normativi, generali, di pianifi‑ cazione e di programmazione, e quindi ai soli atti che ne co‑ stituiscono il substrato, dovendo conseguentemente essere riconosciuto l’accesso agli atti programmatori definitivi e non aventi natura infraprocedimentale. Affermano, inoltre, i ricorrenti che essendo la scelta dell’Amministrazione di procedere alla mobilità intercompar‑ timentale comunque connessa agli atti di programmazione del fabbisogno del personale, e rivestendo la stessa natura lesiva dei propri interessi, non potrebbe negarsi l’accesso ad atti dotati di autonoma lesività e suscettibili di impugnativa giu‑ risdizionale. 2 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della Co‑ stituzione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere. Vio‑ lazione e falsa applicazione degli artt. 3, 13 e 24 della legge n. 241 del 1990. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, all. 1, della legge n. 14 del 2012 e del comma 4 bis dell’art. 1. Violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A.. Ingiustizia manifesta. Difetto di motivazione. Contestano i ricorrenti la motivazione con la quale l’Am‑ ministrazione ha negato l’accesso sul rilievo dell’assenza di un collegamento tra la posizione degli istanti e gli atti inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale per non avere essi partecipato a tale procedura né contestato la legittimità degli atti endoprocedimentali, sostenendo, quanto al rilievo ostativo tributato alla mancata partecipazione alla procedura, l’inconferenza dello stesso, per essere la mobilità riservata solo ai soggetti già appartenenti all’Amministrazione, ed af‑ fermando di essere portatori di un interesse diretto, concreto e attuale alla conoscenza dei documenti richiesti per essere risultati idonei alla selezione pubblica per l’assunzione a tem‑ po indeterminato di funzionari per attività amministrati‑ vo‑tributaria, sulla base di graduatorie regionali tuttora vali‑ de ed efficaci, sulla cui base hanno diffidato l’Amministrazio‑ ne a procedere allo scorrimento delle graduatorie in luogo della mobilità intercompartimentale, lesiva delle posizioni dei ricorrenti. Evidenziano, al riguardo, di essere destinatari di uno specifico regime legislativo di assunzione, come dettato dall’art. 1, allegato 1, della legge n. 14 del 20012, di conver‑ sione in legge del decreto legge n. 216 del 2011, ai sensi del quale l’efficacia delle graduatorie di merito per l’ammissione al tirocinio tecnico‑pratico è prorogata sino al 31 dicembre 2012, e da tali graduatorie deve essere attinto il personale prima di reclutare nuovo personale. 2 0 1 3 103 Quanto al rilievo, contenuto nel gravato atto di diniego di accesso, secondo cui i ricorrenti non avrebbero contestato la legittimità degli atti endoprocedimentali, precisano gli stessi l’impossibilità di siffatta contestazione per non essere a cono‑ scenza di tali atti, evidenziando come l’interesse che sorregge l’accesso non coincide con quello all’impugnazione e deve essere inteso in senso ampio. Si sono costituite in resistenza le intimate Amministrazio‑ ni difendendo la legittimità del gravato provvedimento e so‑ stenendo l’infondatezza del ricorso, con richiesta di corrispon‑ dente pronuncia. Con memoria successivamente depositata i ricorrenti hanno controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insisten‑ do nelle loro deduzioni e ulteriormente argomentando. Alla Camera di Consiglio del 10 aprile 2013 la causa è stata chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti, trat‑ tenuta per la decisione, come da verbale. Diritto Con il ricorso in esame, proposto ai sensi dell’art. 116 del codice del processo amministrativo, è impugnato il provvedi‑ mento – meglio indicato in epigrafe nei suoi estremi – con cui è stata rigettata l’istanza presentata dagli interessati all’Agen‑ zia delle Dogane, volta ad ottenere l’accesso agli atti inerenti la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante mo‑ bilità intercompartimentale, gli atti inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/ RU e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo di personale dell’ente. Tale istanza è stata presentata dagli odierni ricorrenti a fronte dell’avvio delle procedure di mobilità intercomparti‑ mentale da parte dell’Agenzia delle Dogane, ritenuta dagli stessi illegittima stante la persistente validità ed efficacia delle graduatorie regionali per l’assunzione a tempo indeter‑ minato di funzionari per l’attività amministrativo‑tributaria, cui i ricorrenti hanno partecipato risultando idonei e da cui l’Amministrazione avrebbe dovuto attingere il personale tra‑ mite scorrimento, ai sensi dell’art. 1, Allegato 1, della legge n. 14 del 2012. L’istanza di accesso è stata rigettata nella considerazio‑ ne – quanto agli atti relativi alla determinazione del fabbiso‑ gno di personale da acquisire mediante mobilità intercompar‑ timentale e del fabbisogno complessivo di personale dell’en‑ te – che trattasi di atti rientranti nella previsione di cui all’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990, ai sensi della quale l’accesso deve essere escluso con riferimento agli atti generali, di pianificazione e di programmazione. Con riferimento alla richiesta di accesso agli atti inerenti la procedura di mobilità intercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/RU, il gravato diniego di accesso poggia sulla considerazione dell’assenza di un collegamento tra gli stessi e la posizione degli istanti, per non avere gli stessi par‑ tecipato alla procedura di mobilità e per non averne contesta‑ to i relativi atti infraprocedimentali, ulteriormente evidenzian‑ do che per la tutela degli interessi degli istanti deve essere considerata sufficiente la conoscenza degli atti già pubblicati, nel dettaglio indicati. Posta tale breve ricognizione del contenuto del gravato provvedimento di diniego di accesso alla richiesta documen‑ tazione e procedendo al vaglio della legittimità dello stesso, alla luce delle doglianze sollevate dai ricorrenti, osserva in amministrativo Gazzetta 104 di r itto a m m i n ist r ati v o primo luogo il Collegio che deve essere censurato il richiamo, ivi contenuto a sostegno della decisione, all’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990, quale fondamento dell’opposto diniego all’accesso agli atti con cui è stato deter‑ minato il fabbisogno del personale da acquisire mediante mobilità intercompartimentale ed il fabbisogno complessivo di personale dell’ente, dovendo al riguardo rilevarsi che tale previsione fa riferimento, in senso letterale, ai soli atti endo‑ precedimentali diretti all’emanazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, e non già agli atti definitivi aventi carattere generale, di pianificazione e di programmazione. La citata norma è chiara, difatti, nel sottrarre all’accesso unicamente “l’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione” e non già gli atti con‑ clusivi del procedimento aventi tali caratteri di generalità, pianificazione e programmazione. Se, dunque, viene escluso l’accesso agli atti preparatori intervenuti nel corso della formazione dei provvedimenti normativi ed amministrativi generali, analoga esclusione non può predicarsi – alla luce del tenore letterale della norma e della sua connessione con il mancato riconoscimento di dirit‑ ti partecipativi nell’ambito dell’attività amministrativa diret‑ ta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione – con riferimento alla documentazione avente natura normativa, generale, di piani‑ ficazione o di programmazione una volta che il relativo pro‑ cedimento abbia trovato definizione. Ne deriva che anche gli atti di carattere generale e norma‑ tivo sono in linea di principio suscettibili di divulgazione e possono, quindi formare oggetto di accesso, con il solo limite per i casi in cui sia previsto un autonomo regime di pubblici‑ tà, che rende l’istanza di accesso superflua. Posto, quindi, che la documentazione di cui all’istanza di accesso presentata dai ricorrenti, come riferita agli atti ine‑ renti la determinazione del fabbisogno da acquisire mediante mobilità intercompartimentale ed agli atti inerenti il fabbiso‑ gno complessivo di personale dell’ente, riveste carattere am‑ ministrativo generale, a contenuto programmatorio e di pia‑ nificazione, espressione di potestà organizzatoria, ed avendo tali atti carattere definitivo in quanto adottati a conclusione del relativo procedimento, la motivazione posta a sostegno del gravato diniego risulta frutto di un’errata percezione del‑ la portata della previsione di cui all’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990, con riveniente illegittimità della stessa. La citata norma esclude espressamente dal suo ambito di applicazione solo quelle attività rivolte alla adozione ed alla approvazione degli atti ivi indicati, e non gli atti conclusivi, dovendo coniugarsi la portata di detta previsione con quella di cui all’art. 13 della legge n. 241 del 1990, che esclude i diritti partecipativi nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazio‑ ne, riferendosi quindi la prevista esclusione ai soli atti prepa‑ ratori allorché sia ancora in corso il procedimento e dovendo invece riconoscersi il diritto all’accesso sul presupposto che l’Amministrazione abbia concluso il procedimento, con l’ema‑ nazione del provvedimento. Gazzetta F O R E N S E L’esclusione dell’accesso e della partecipazione alla fase preparatoria degli atti amministrativi generali, normativi, di pianificazione e di programmazione – quest’ultima esclusione riconducibile alla necessità di evitare intralci all’azione am‑ ministrativa ed alla inutilità della stessa stante la generalità degli atti, non suscettibili di arrecare concreti pregiudizi ai privati, tali da richiederne il coinvolgimento in sede procedi‑ mentale – si traduce in un differimento e non in una radicale esclusione, cosicché l’accesso, ricorrendone i presupposti, può essere consentito dal momento della formazione del provve‑ dimento finale. Se i principi generali in tema di partecipazione procedi‑ mentale hanno lo scopo di assicurare l’acquisizione corretta e imparziale degli interessi privati coinvolti nell’esercizio del pubblico potere, l’esclusione della partecipazione nei procedi‑ mento volti all’adozione di atti generali, normativi e di pro‑ grammazione, si giustifica con la non utilità, nell’ambito dei relativi procedimenti, dell’acquisizione del contributo dei privati, cui corrisponde la mancata previsione del diritto di accesso ai relativi atti infraprocedimentali, nei cui confronti non è ravvisabile la sussistenza di una posizione di interesse concreto e attuale cui l’accesso potrebbe risultare funziona‑ le. Discende, dalla superiori considerazioni, l’illegittimità della motivazione, recata dal gravato provvedimento, sottesa al diniego di accesso ai documenti relativi alla determinazio‑ ne del fabbisogno di personale da soddisfare mediante proce‑ dura di mobilità intercompartimentale e del fabbisogno complessivo di personale dell’ente, non trattandosi di catego‑ rie di atti che, per la loro natura di atti generali ed il loro carattere programmatorio quanto a profili organizzativi ine‑ renti la provvista di personale, sono ex se sottratti all’accesso ai sensi della disciplina dettata dal citato art. 24 della legge n. 241 del 1990, la quale riconduce la sottrazione al diritto di accesso ai soli atti preparatori ed endoprocedimentali volti all’adozione di tali categorie di atti, dovendo ravvisarsi la ra‑ tio di tale sottrazione all’accesso nell’esigenza di non creare intralcio all’azione amministrativa, anche nella considerazio‑ ne della assenza di esigenze di dialettica procedimentale con i privati con riferimento all’adozione di tali atti, fatte salve discipline specifiche di pubblicità per determinate categorie di atti. Tanto chiarito quanto alla riconducibilità dei predetti atti tra quelli per i quali è consentito l’esercizio del diritto di accesso, deve rilevarsi, quanto ai richiesti presupposti legitti‑ manti la relativa azione, che deve riconoscersi, in capo ai ri‑ correnti, la sussistenza di una posizione di interesse all’acqui‑ sizione dei richiesti documenti in quanto direttamente con‑ nessi con la situazione giuridica di cui gli stessi sono portato‑ ri, come radicata nella loro posizione di soggetti risultati idonei allo svolgimento del tirocinio tecnico‑pratico in esito alla selezione, indetta nel 2008, per l’assunzione a tempo in‑ determinato di funzionari per attività amministrativo‑tribu‑ taria, essendo stata la validità ed efficacia delle relative gra‑ duatorie regionali prorogata sino al 31 dicembre 2012 per effetto dell’art. 1, Allegato 1, della legge n. 14 del 2012 – di conversione del decreto legge n. 216 del 2011 – cui l’Ammini‑ strazione deve attingere fino alla loro completa utilizzazione, prima di poter reclutare nuovo personale. Sulla base di tale posizione giuridica soggettiva, come F O R E N S E luglio • A G O S T O delineata dallo specifico regime legislativo privilegiato di as‑ sunzione di cui alla illustrata previsione normativa, viene dunque a delinearsi l’interesse diretto, attuale e concreto dei ricorrenti ad ottenere l’ostensione dei richiesti documenti, a fronte della decisione della resistente Amministrazione di provvedere al soddisfacimento del proprio fabbisogno di personale mediante procedura di mobilità intercompartimen‑ tale, piuttosto che attingere alle graduatorie regionali, valide ed efficaci, in cui i ricorrenti sono collocati quali soggetti idonei. L’interesse di cui i ricorrenti sono portatori acquista, dun‑ que, carattere di concretezza ed attualità proprio in ragione della decisione della resistente Amministrazione di avviare procedure di mobilità intercompartimentale piuttosto che attingere alle graduatorie regionali, così incidendo sulla posi‑ zione giuridica degli stessi. Tali considerazioni vanno coniugate con i principi gene‑ rali declinati in materia di accesso alla documentazione am‑ ministrativa, sulla cui base deve riconoscersi il diritto di ac‑ cesso, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990, a chiunque vi abbia interesse, ricollegando siffatto interesse all’esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Per aversi un interesse qualificato e una legittimazione ad accede‑ re alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di una posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolari‑ tà di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo – ossia posizioni giuridiche soggettive piene – ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale, radicandosi, nel caso di specie, la posizione legittimante l’ac‑ cesso, nella posizione di idonei rivestita dai ricorrenti nelle graduatorie cui l’Amministrazione deve attingere, ai sensi della richiamata normativa, per soddisfare i propri fabbisogni di personale, laddove la stessa ha invece optato per la proce‑ dura di mobilità intercompartimentale. Ciò in quanto il diritto di accesso, e quindi alla trasparen‑ za dell’azione amministrativa e alla conoscenza di atti con‑ nessi con una posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante, costituisce situazione attiva meritevole di autonoma protezione, in quanto diretto al conseguimento di un autono‑ mo bene della vita. Sussiste, quindi, un interesse diretto, concreto e attuale in capo ai ricorrenti, corrispondente ad una situazione giuridi‑ camente tutelata e collegata alla documentazione richiesta dalla quale poter evincere sia il fabbisogno totale di persona‑ le dell’ente, sia il fabbisogno che si intende soddisfare median‑ te procedura di mobilità intercompartimentale, essendo in‑ dubbia la rilevanza della conoscenza di tali atti in relazione alle aspettative maturate dai ricorrenti sulla base della posi‑ zione rivestita nell’ambito delle predette graduatorie. Risulta, quindi, soddisfatta la condizione in base alla quale l’esercizio del diritto di accesso – in quanto non corri‑ spondente ad una azione popolare – deve essere necessaria‑ mente collegato alla sussistenza (e alla puntuale rappresenta‑ zione) di un interesse differenziato, concreto ed attuale all’accesso ai documenti, postulando pertanto il diritto di accesso – per come configurato dalla legge n. 241 del 1990 – un accertamento concreto dell’esistenza di un bisogno differen‑ ziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, non essendo l’accesso orientato ad un controllo generalizzato ed 2 0 1 3 105 indiscriminato di chiunque sull’azione amministrativa (che è anzi espressamente vietato a norma dell’art. 24 comma 3), ma solo alla conoscenza da parte dei singoli titolari di atti effet‑ tivamente, o anche solo potenzialmente, incidenti sui loro interessi particolari. Nel caso di specie, essendo la scelta dell’Amministrazione di procedere alla mobilità intercompartimentale comunque connessa agli atti di programmazione del fabbisogno del personale, e rivestendo la stessa natura lesiva degli interessi dei ricorrenti in quanto incidente sulla loro posizione di idonei in graduatorie da cui normativamente attingere tramite scor‑ rimento, va riconosciuto il loro interesse alla conoscenza della richiesta documentazione. Il positivo riscontro della legittimazione all’accesso in capo ai ricorrenti, come parametrata alla titolarità di una posizione differenziata su cui si radica un interesse diretto, attuale e concreto alla conoscenza della indicata documenta‑ zione, stante il collegamento della stessa con detta posizione, va esteso anche agli atti inerenti la procedura di mobilità in‑ tercompartimentale di cui alla nota prot. n. 94765/RU, anch’essi oggetto dell’istanza di accesso. Con riferimento a tali atti, la resistente Amministrazione ha negato l’accesso nella considerazione dell’assenza di un loro collegamento con la situazione giuridica di cui gli istan‑ ti sono portatori, come desunta dalla circostanza che gli stessi non hanno partecipato alla procedura di mobilità e non hanno contestato tale procedura con riferimento agli atti endoprocedimentali. In disparte il rilievo circa l’erroneità della negazione del necessario collegamento tra posizione giuridica rivestita e richiesta documentazione come basata sulla mancata parte‑ cipazione dei ricorrenti alla procedura di mobilità – la quale è riservata ai soli soggetti già appartenenti alle Amministra‑ zioni dello Stato – tale collegamento è invero rinvenibile alla luce dell’incidenza di tale documentazione sulla posizione rivestita dai ricorrenti, in quanto preclusiva della possibilità di procedere allo scorrimento delle graduatorie in cui gli stessi sono inseriti. Né, ai fini del riconoscimento della legittimazione all’ac‑ cesso occorre che la documentazione richiesta sia funzionale alla difesa in giudizio delle posizioni vantate dagli istanti, stante il carattere autonomo dell’interesse all’accesso rispetto all’interesse all’impugnazione. Ed invero, la legittimazione all’accesso deve essere ricono‑ sciuta a chiunque subisca dagli atti di cui è chiesta l’ostensio‑ ne, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendente‑ mente dalla lesione di una posizione giuridica stante l’auto‑ nomia del diritto di accesso, inteso come bene della vita di‑ stinto rispetto alla posizione legittimante all’impugnativa degli atti. Né il diritto di accesso può essere negato, a fronte della riconducibilità degli atti richiesti tra quelli di cui è possibile l’ostensione e della sussistenza di una posizione legittimante, sulla base della considerazione, contenuta nel gravato atto di diniego, secondo cui per la tutela degli interessi dei ricorrenti dovrebbe essere considerata sufficiente la conoscenza degli atti già pubblicati, nel dettaglio indicati, in quanto, laddove gli atti già pubblicati siano diversi da quelli richiesti – posto che la pubblicità degli atti rende superfluo l’accesso – non può l’Amministrazione sostituirsi nelle valutazioni rimesse agli amministrativo Gazzetta 106 di r itto a m m i n ist r ati v o istanti in ordine alle esigenze di conoscenza degli atti ritenuti funzionali alla tutela delle proprie posizioni giuridiche una volta riscontrato il collegamento tra l’interesse giuridicamen‑ te rilevante e la documentazione richiesta. Discende dalle considerazioni sin qui illustrate che, stante la sussistenza, in capo ai ricorrenti, di un interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridi‑ camente tutelata e collegata alla richiesta documentazione, e stante l’ostensibilità degli atti richiesti – non sottratti all’acces‑ so in ragione della loro natura alla luce della disciplina di rife‑ rimento – il ricorso in esame deve essere accolto, con conseguen‑ te annullamento del gravato provvedimento di diniego, la cui illegittimità risiede nelle esposte argomentazioni, e riconosci‑ mento del diritto dei ricorrenti ad ottenere l’esibizione della richiesta documentazione, ordinando alla resistente Agenzie delle Dogane di provvedere in ordine all’istanza dei ricorrenti. (Omissis)” *** Nota a sentenza Premessa La sentenza in epigrafe affronta il problema dell’accessi‑ bilità ai documenti amministrativi1 alla luce delle esclusioni contemplate dalla Legge sul procedimento amministrativo e, segnatamente, dal comb. disp. degli artt. 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90. Va, al riguardo, evidenziato che la recente decisione dei giudici amministrativi muove da una interpretazione lettera‑ le e costituzionalmente orientata della normativa di riferimen‑ to approdando alla conclusione, da un lato, della inutilità della partecipazione procedimentale e dell’acquisizione di contributi di privati nell’ambito del processo di formazione degli atti generali, normativi e di programmazione e, dall’al‑ tro, della sussistenza del relativo diritto ad accedere agli atti allorquando l’amministrazione abbia concluso il relativo procedimento. E ciò in quanto, il diritto di accesso, anche in tali ipotesi, cristallizza un principio cardine e generale dell’attività ammi‑ nistrativa, volto a favorire nel modo più ampio possibile la partecipazione procedimentale onde assicurare l’imparzialità e la trasparenza laddove, in concreto, sussista un interesse effettivo ed attuale agli atti conclusivi del procedimento (ge‑ nerali, normativi e di programmazione) per i quali è stato richiesto l’accesso2. I giudici campani, anche alla luce delle difficoltà interpre‑ tative circa la natura giuridica dell’ accesso e della rilevanza dell’interesse all’esercizio del diritto all’ostensione, hanno ri‑ tenuto illegittimo il diniego espresso dall’Agenzia delle Doga‑ 1 Cfr. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Volume I, Giuffrè, 2006; San‑ dulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., Agg., IV, 2000; Sandulli, Il procedimento, in Trattato di diritto amministrativo, (a cura di Cassese), Parte generale, Milano, 2003, spec. 1157; Sandulli, Ac‑ cesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enc. dir., (agg.) Milano, 2001. 2 Cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6682; Tar Marche, n. 681/2011. Gazzetta F O R E N S E ne e dei Monopoli in merito a una istanza di accessi tendente a ottenere gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno del personale da acquisire mediante mobilità intercomprati‑ mentale e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo persona‑ le dell’ente, avanzata dai soggetti risultati idonei allo svolgi‑ mento tecnico‑pratico della selezione bandita dall’Agenzia delle Entrate. Le motivazioni del Tar Campania offrono lo spunto per una riflessione sulla disciplina prevista dal legislatore per il diritto di accesso e sui limiti contemplati dalla normativa di riferimento. 1. La vicenda sottoposta all’attenzione del Tar Campania – Napoli I soggetti risultati idonei allo svolgimento del tirocinio tecnico‑pratico della selezione bandita nel 2008 dall’Agenzia delle Entrate hanno impugnato il diniego opposto alla richie‑ sta di accesso presentata all’Agenzia delle Dogane e dei Mo‑ nopoli e finalizzata ad ottenere gli atti inerenti la determina‑ zione del fabbisogno del personale da acquisire mediante mobilità intercompartimentale e gli atti inerenti il fabbisogno complessivo di personale dell’ente. L’istanza di accesso veniva presentata a fronte della deter‑ minazione dell’Agenzia delle Dogane di provvedere al soddi‑ sfacimento del proprio fabbisogno mediante mobilità inter‑ compartimentale nonostante l’esistenza di graduatorie regio‑ nali ancora valide ed efficaci, ai sensi del decreto legge n. 216 del 2011, in cui risultavano utilmente collocati i ricorrenti. L’Agenzia delle Dogane nel negare l’accesso agli atti rela‑ tivi alla procedura di mobilità intercompartimentale deduce‑ va che il c.d. fabbisogno del personale rientrerebbe tra gli atti che il comb. disp. di cui agli artt. 13 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90 escluderebbe dal diritto all’ostensio‑ ne documentale. I Giudici Campani, nel condividere le censure sollevate dai ricorrenti, hanno ritenuto che: i) la previsione di cui all’art. 24 comma 1 lett. c), Legge n. 241/90 fa riferimento, in senso letterale, ai soli atti endoprocedimentali diretti all’ema‑ nazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, e non già agli atti definitivi aventi caratte‑ re generale, di pianificazione e di programmazione; ii) l’esclu‑ sione dell’accesso e della partecipazione alla fase preparatoria degli atti amministrativi generali, normativi, di pianificazio‑ ne e di programmazione – riconducibile alla necessità di evi‑ tare intralci all’azione amministrativa – si traduce in un dif‑ ferimento e non in una radicale esclusione, cosicché l’accesso, ricorrendone i presupposti, può essere consentito dal momen‑ to della formazione del provvedimento finale. 2. Diritto di accesso ed esclusioni Al fine di comprendere la portata della sentenza in com‑ mento, occorre richiamare il quadro normativo di riferimen‑ to. Come noto, invero, la determinazione del fabbisogno del personale, costituisce per l’amministrazione atto di pianifica‑ zione e programmazione mediante il quale, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs 165/2001 e dell’art. 39 comma 1 L. 449/1997, le risor‑ se umane ed i servizi vengono organizzate compatibilmente con le disponibilità finanziarie. Strumenti, quindi, attraverso cui le amministrazioni espli‑ cano una generale competenza organizzativa. F O R E N S E luglio • A G O S T O Ciò posto, e chiarita la natura giuridica degli atti oggetto di accesso, va, altresì, e‑videnziato come ai sensi dell’art. 13 comma 1 della Legge n. 241/90 “le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione” Il successivo art. 24 comma 1, lettera c) della L. 241/1990 recita quanto segue: “il diritto di accesso è escluso: […] nei confronti dell’attività della pubblica ammini‑strazione diret‑ ta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pia‑nificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”. La normativa richiamata [art. 13 e art. 24 comma 1 lett. c)], alla luce di una inter‑pretazione non solo testuale ma anche costituzionalmente orientata, è chiara nell’escludere il diritto di acceso solo ed esclusivamente per quegli atti che costituiscono il substrato endoprocedimentale di provvedi‑ menti normativi, programmatori o comunque aventi contenu‑ to generale. Come si vede, l’articolo 24, primo comma, lettera c), del‑ la Legge 7 agosto 1990, n. 241 esclude il diritto d’accesso non con riguardo agli atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, bensì solo nei confronti degli atti infraprocedimentali diretti all’emanazione dei pri‑ mi. La previsione, si lega all’articolo 13 della stessa legge, regolante la partecipazione in tali casi, per i quali fu elimina‑ ta, nel testo definitivo della legge sul procedimento, l’origina‑ ria formulazione della “commissione Nigro”, tendente a in‑ trodurre l’istruttoria pubblica3. Il diritto di accesso nei confronti degli atti a contenuto generale, normativi, di pianificazione e programmazione – tra cui rientra il fabbisogno del personale da acquisire mediante la procedura di mobilità – costituiscono, per converso, atti programmatori definitivi e non atti meramente endoprocedi‑ mentali. Del resto, escludere dagli atti considerati ostensibili quel‑ li sopra richiamati significherebbe violare l’art. 24 Cost. ed i principi di effettività della tutela giurisdizionale, laddove si consideri che gli atti di programmazione del fabbisogno di personale assumono una autonoma carica lesiva poiché è mediante tali atti che le Amministrazioni radicano le proprie scelte in materia di assunzioni. L’autonoma lesività degli stessi è, peraltro, tale da deter‑ minarne l’autonoma impugnabilità4. Orbene, pur volendo ritenere che ai sensi dell’art. 22, comma 1, lettera b) della L. 2241/1990 l’interesse alla osten‑ sione dei documenti amministrativi è sostanzialmente avulso dall’impugnazione dei provvedimenti dei quali si intende avere conoscenza, non può di certo affermarsi che un atto e/o provvedimento, il quale presenti le caratteristiche dell’auto‑ noma lesività e dell’autonoma impugnabilità, venga sottratto al diritto di accesso. 3 4 Cfr. in terminis Tar Puglia – Bari, Sez. I, 7 novembre 2011, n. 1686. Cfr. Tar Calabria – Reggio Calabria, 28 maggio 2009 n. 375) anche innanzi al Giudice Ordinario (Tar Lazio‑ Latina, sez. I, 19 giugno 2012, n. 498. 2 0 1 3 107 La ratio sottesa al divieto di cui all’art. 24 è certamente idonea ad evitare che il soggetto privato possa effettuare in‑ debite indagini sull’operato dell’amministrazione, ma certa‑ mente tale principio è recessivo di fronte ad atti pubblici dal carattere programmatorio adottati ex lege. Alla luce delle suddette considerazioni, la sentenza in commento non ha solo ha chiarito che la determinazione del fabbisogno del personale rientri tra quegli atti di pianificazio‑ ne e di programmazione contemplati dall’art. 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90, ma, maxime, che una interpre‑ tazione letterale della norma di riferimento delimita la relati‑ va esclusione solo a quegli atti aventi valore endoprecedimen‑ tale e diretti all’emanazione dei primi5. Con la conseguenza per cui anche gli atti a carattere ge‑ nerale e normativo sono in linea di principio suscettibili di divulgazione e possono, quindi formare oggetto di accesso, con il solo limite per i casi in cui sia previsto un autonomo regime di pubblicità6, che rende l’istanza di accesso super‑ flua. Pertanto, gli atti inerenti la determinazione del fabbisogno complessivo di personale dell’ente, riveste carattere ammini‑ strativo generale, a contenuto programmatorio e di pianifica‑ zione, espressione di potestà organizzatoria, ed avendo tali atti carattere definitivo in quanto adottati a conclusione del relativo procedimento, sono pienamente accessibili. E ciò in quanto, l’art. 24, comma 1, lettera c), della legge n. 241 del 1990 “esclude espressamente dal suo am‑ bito di applicazione solo quelle attività rivolte alla adozio‑ ne ed alla approvazione degli atti ivi indicati, e non gli atti conclusivi, dovendo coniugarsi la portata di detta previsione con quella di cui all’art. 13 della legge n. 241 del 1990, che esclude i diritti partecipativi nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, riferendosi quindi la 5 Cfr. per un’interpretazione estensiva della norma cfr. Tar Sicilia – Palermo, sent. n. 3457/2007 secondo cui "in caso di un procedimento complesso, qualora ciascuna fase mantenga una propria autonoma rilevanza, il diritto di accesso deve essere garantito una volta concluso ogni singolo sub‑procedimento, con conseguente illegittimità del diniego di accesso nei riguardi dell'attività prepa‑ ratoria di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di program‑ mazione". 6 Cfr. sul punto Tar Sicilia, Catania, sez. III, 10 febbraio 2011, n. 314 secondo cui “L'art. 24 comma 1 lett. c), l. n. 241 del 1990, per il quale "il diritto di accesso è escluso nei confronti dell'attività della p.a. diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione, esclude espressamente dal suo ambito di applicazione quelle attività dell'amministrazione rivolte anche alla adozione ed alla approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, non perché quei procedimento siano sottratti alla trasparenza e alla conoscenza dei cittadini e non sia possibile nei loro confronti alcun tipo di accesso, ma solo perché la trasparenza degli atti volti all'emanazione del piano – che era possibile già prima l. n. 241 del 1990 – continua ad essere disciplinata dalle norme speciali che la regolavano e che prevalgono pertanto su quelle generali, secondo il criterio risolutore di antinomie normative appunto della specialità; infatti gli atti dei procedimenti amministrativi generali volti all'approvazione degli strumenti di piano, per‑ tanto, sono accessibili agli interessati nelle particolari forme del deposito al pubblico del progetto di piano con i relativi elaborati, della pubblicazione dell'avvenuto deposito, della visione dello stesso da parte di ogni soggetto in‑ teressato e la disciplina dell'accesso agli strumenti di piano, quindi, è model‑ lata sulle particolarità di tali procedure amministrative, che – proprio perché interessano potenzialmente un numero indeterminato di soggetti che sono tito‑ lari di situazioni soggettive che l'amministrazione deve regolare in modo uni‑ forme con efficacia generale – suggeriscono di prevedere per esse forme di conoscenza legale”. amministrativo Gazzetta 108 di r itto a m m i n ist r ati v o prevista esclusione ai soli atti preparatori allorché sia an‑ cora in corso il procedimento e dovendo invece riconoscer‑ si il diritto all’accesso sul presupposto che l’Amministra‑ zione abbia concluso il procedimento, con l’emanazione del provvedimento”. Secondo la sentenza in commento, “l’esclusione dell’ac‑ cesso e della partecipazione alla fase preparatoria degli atti amministrativi generali, normativi, di pianificazione e di programmazione – quest’ultima esclusione riconducibile alla necessità di evitare intralci all’azione amministrativa ed alla inutilità della stessa stante la generalità degli atti, non suscet‑ tibili di arrecare concreti pregiudizi ai privati, tali da richie‑ derne il coinvolgimento in sede procedimentale – si traduce in un differimento e non in una radicale esclusione, cosicché l’accesso, ricorrendone i presupposti, può essere consentito dal momento della formazione del provvedimento finale”78. Tali conclusioni, risultano giustificate dalla stessa inter‑ pretazione delle norme in tema di partecipazione procedimen‑ tale le quali escludono la partecipazione in tutti quei procedi‑ menti nei quali l’acquisizione del contributo dei privati non apporterebbero allo stesso alcuna utilità. 3. Conclusioni Alla luce della sentenza in commento, dunque, esulano dall’ambito applicativo del comb. disposto di cui agli artt. artt. 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. c) della Legge n. 241/90 tutti gli atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione che non siano sussumibili nel novero degli atti endoprocedimentali e sempre che per essi la legge non con‑ templi un autonomo regime di pubblicità. 7 In senso sostanzialmente conforme anche se con riferimento all’art. 24 comma 1 lett. b) della Legge 241/90 cfr. Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 21 dicembre 2012, n. 1280 secondo cui “l'art. 24 l. n. 241/1990 esclude dall'accesso solo gli atti preparatori del procedimento tributario adottati nel corso di formazione del provvedimento, prima che lo stesso sia emanato, con la conseguenza che tale causa di esclusione opera con riguardo a documenti inerenti l'attività della p.a. diretta alla emanazione di atti propedeutici alla emanazione del provvedi‑ mento conclusivo ed allorché sia ancora in corso il procedimento; viceversa, deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l'Amministrazione abbia con‑ cluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale; quindi, in via generale, deve ritenersi sussistente il diritto di accedere agli atti di un pro‑ cedimento tributario ormai concluso” 8 cfr. Tar Catania‑ Sicilia sez. IV 11 luglio 2012, n. 1831; cfr. da ultimo anche Consiglio di Stato sez. IV, 20 settembre 2012, n. 5047, e 30 luglio 2012, n. 4316. Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E luglio • A G O S T O ● Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n.163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania 2 0 1 3 109 Aggiudicazione provvisoria – Decisione di non procedere all’ag‑ giudicazione definitiva: declinazione dell'obbligo motivazionale L'articolo 81, comma ultimo, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, è una norma di chiusura che facoltizza un ultimo vaglio del‑ la stazione appaltante circa la convenienza dell'offerta aggiu‑ dicataria a prescindere da profili di illegittimità della proce‑ dura. La determinazione di non procedere all’aggiudicazione definitiva, tuttavia, costituendo un esito evidentemente anormale della procedura di evidenza pubblica (la quale è non priva di onerosità per la stazione appaltante), deve ripo‑ sare su argomentazioni reali, logiche e consistenti, da poter sottoporre a verifica giudiziaria di adeguatezza e proporzio‑ nalità. Ed invero, sebbene l'aggiudicazione provvisoria abbia natura di atto endoprocedimentale con effetti interinali, conseguentemente inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita cui si aspira e ad ingenerare il connesso legit‑ timo affidamento, non può trascurarsi la posizione di quali‑ ficata aspettativa dell'aggiudicatario provvisoriamente, unico rimasto in gara, ad ottenere il bene della vita sperato, posizione che concorre ad irrobustire l’onere motivazionale del provvedimento di determinazione della «non convenien‑ za» dell’offerta presentata, quale esplicitazione precisa e circostanziata da parte dell’Amministrazione degli elementi di inidoneità dell'offerta che giustificano la mancata aggiu‑ dicazione. Tar Campania‑Napoli, sez. I, 26 luglio 2013, n. 03964 Pres. Cesare Mastrocola; Est. Michele Buonauro Atti di gara – L'istituto della etero integrazione non è applicabile in danno dei partecipanti in presenza di clausole di esclusione ambigue ed in violazione del principio dell’affidamento ex art. 1, comma 1, legge 241/1990 L'istituto della eterointegrazione ha come necessario presupposto la sussistenza di una "lacuna" nella legge di gara e, solo nel caso in cui la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara elementi previsti come obbli‑ gatori dall'ordinamento giuridico, soccorre il meccanismo di integrazione automatica in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione. Quando invece la legge di gara contiene disposizioni contrastanti con quanto normativamente previsto, non può disporsi l'esclusione dalla gara del concorrente che non abbia allegato quanto espressamente previsto dalla legge, dovendo tenersi conto che solo fondamentali esigenze di certezza del diritto e tutela della “ par condicio” dei concorrenti possono impedire all'Amministrazione di disattendere i precetti fissa‑ ti nella normativa di gara dalla stessa formulata, in ossequio al principio di affidamento formalmente elevato al rango di principio generale dell'azione amministrativa dall'art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990, che impedisce che sul cittadi‑ no possano ricadere gli errori dell'Amministrazione (Consi‑ glio di Stato, sez. V, 9 settembre 2011, n. 5073). Non può quindi escludersi il soggetto che rende una di‑ chiarazione del tutto conforme a quella richiesta dall'Ammi‑ nistrazione, se pur con clausola della “lex specialis” che, anche se potesse ritenersi equivoca, era comunque pienamen‑ te idonea ad ingenerare l'errore in cui è caduto il concorren‑ amministrativo Gazzetta 110 di r itto a m m i n ist r ati v o Gazzetta F O R E N S E te, non vertendosi in caso di omessa regolamentazione della fattispecie che avrebbe dovuto essere automaticamente ete‑ rointegrata. Va difatti ricordato che, nelle procedure ad evidenza pubblica, le clausole di esclusione poste dal bando in ordine agli adempimenti cui è tenuto il soggetto partecipante alla gara sono di stretta interpretazione, dovendosi dare esclusiva prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute; resta quindi preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei partecipanti, la “ par condicio” dei concor‑ renti e l'esigenza della più ampia partecipazione, con prefe‑ ribilità dell'interpretazione che favorisca la massima parte‑ cipazione alla gara piuttosto quella che la ostacoli. Ne deriva che, a fronte di una dichiarazione conforme al dettato del bando di gara – anche in presenza di una clauso‑ la ambigua – la stazione appaltante non può procedere all'esclusione, dovendo viceversa consentire la regolarizza‑ zione della documentazione di gara mediante integrazione della dichiarazione incompleta. Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3811 Pres. Carmine Volpe, Est. Antonio Amicuzzi ribasso offerto sia incongruo rispetto alla media dei ribassi degli altri concorrenti, non importa ex se l’incongruità dell'offerta complessiva. 2. Mentre l'art. 86, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 impone un obbligo di procedere alla verifica nei casi di anomalia da quella stessa previsione individuati, il successi‑ vo comma 3 si limita a facoltizzare la stazione appaltante a procedere alla suddetta verifica sempre che l'offerta, pur in assenza delle condizioni indicate dal comma precedente, appaia, in base ad elementi specifici ‑da indicare con idonea motivazione‑ anormalmente bassa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 luglio 2011, n. 4489). Qualora quindi, ex art. 86 comma 3 del Codice dei Con‑ tratti Pubblici, l’Amministrazione non rilevi alcuno di quegli specifici elementi capaci di indurre a dubitare della congruità dell’offerta e a giustificare la decisione di sottoporla a verifi‑ ca di anomalia, il giudice non può censurare tale comporta‑ mento, a pena di un’inammissibile interferenza nell'esercizio della discrezionalita' amministrativa. Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4193 Pres. FF Francesco Caringella, Est. Paolo Giovanni Nicolò Lotti Cooptazione – Ratio e presupposti di legittimità La cooptazione è un istituto di carattere speciale che abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualifica‑ zione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei lavori nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione SOA, per cui il soggetto cooptato : ‑ non può acquistare lo status di concorrente; ‑ non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’ap‑ palto; ‑ non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, poi; ‑ non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di un contraente; ‑ non può, in alcun modo, subappaltare o affidare a terzi una quota dei lavori da eseguire. Alla luce del carattere eccezionale e derogatorio dell’isti‑ tuto, il ricorso alla cooptazione deve necessariamente scatu‑ rire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concor‑ rente, per evitare che un uso improprio della stessa consenta l’elusione della disciplina inderogabile in tema di qualificazio‑ ne e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica. Cons. Stato, sez. V, 27 agosto 2013, n. 4278 Pres. Manfredo Atzeni, Est. Antonio Bianchi Offerta – Criteri di valutazione – Divieto generale di commistione tra elementi soggettivi e oggettivi – 1. Ratio – 2. Natura attenua‑ ta 1. Per giurisprudenza consolidata – di matrice comunita‑ ria – sono indebitamente inclusi, tra i criteri di valutazione delle offerte, gli elementi attinenti alla capacità tecnica dell'im‑ presa (certificazione di qualità e pregressa esperienza presso soggetti pubblici e privati). È difatti da respingere ogni com‑ mistione fra i criteri soggettivi di prequalificazione e criteri afferenti alla valutazione dell'offerta ai fini dell'aggiudicazio‑ ne, in funzione dell'esigenza di aprire il mercato premiando le offerte più competitive, ove presentate da imprese comunque affidabili, anche allo scopo di dare applicazione al canone della par condicio (vietante asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente soggettivo). Ne discende la necessità di tenere separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da quelli pertinenti all'offerta ed all'aggiudicazione, non potendo rientrare tra questi ultimi i requisiti soggettivi in sé considera‑ ti, avulsi dalla valutazione dell'incidenza dell'organizzazione sull'espletamento dello specifico servizio da aggiudicare. 2. Alla stregua di quanto appena detto, l’inserimento, da parte dell’Amministrazione, del requisito di esperienza pro‑ pria dell’impresa tra i requisiti di valutazione dell’offerta è illegittimo con conseguente illegittimità della gara. Tanto premesso, la previsione nel bando di gara di ele‑ menti di valutazione dell'offerta tecnica di tipo soggettivo (concernenti la specifica attitudine del concorrente a realiz‑ zare lo specifico progetto oggetto di gara), è tuttavia legittima nella misura in cui aspetti dell'attività dell'impresa possano illuminare la qualità dell'offerta. Infatti, secondo questo orientamento, tale divieto gene‑ rale di commistione tra le caratteristiche oggettive dell’offer‑ ta e i requisiti soggettivi dell’impresa concorrente deve avere un’applicazione per così dire “ attenuata”; ciò alla luce del principio di proporzionalità ed in relazione all’art. 83 del Codice dei contratti che – nel delineare i criteri di valutazio‑ ne dell'offerta da aggiudicare con il criterio dell'offerta eco‑ Offerta – Verifica relativa all'eventuale anomalia – 1. Oggetto e presupposti – 2. Divieto di sindacato giurisdizionale sull'esercizio della facoltà ex art. 86, comma 3, d.lgs. 163/2006 in merito ai presupposti per la verifica 1. La verifica di anomalia ha per oggetto l’offerta nel suo complesso, posto che essa deve essere effettuata sulla base del punteggio attribuito tanto per il progetto tecnico, quanto per l’offerta economica, mentre il ribasso non è che una delle mol‑ teplici voci che compongono l'offerta economica che, singolar‑ mente considerata, è del tutto insufficiente a costituire un va‑ lido indice per valutare la congruità dell’offerta complessiva. Ne deriva che la circostanza per la quale la commissione, all’esito dell’apertura delle offerte economiche, osservi che il F O R E N S E luglio • A G O S T O nomicamente più vantaggiosa – prescrive che gli elementi di valutazione debbano essere pertinenti alla natura, all'oggetto e alle caratteristiche del contratto, quando consente di ri‑ spondere in concreto alle possibili specificità che le procedu‑ re di affidamento degli appalti pubblici in talune ipotesi presentano, dove l’offerta tecnica si sostanzia non in proget‑ to o in un prodotto, bensì in un “facere” e dove, pertanto, anche la pregressa esperienza del professionista che partecipa alla gara può essere di ausilio nella valutazione dell’offerta tecnica. Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4191 Pres. FF Francesco Caringella, Est. Paolo Giovanni Nicolò Lotti Offerta tecnica – In applicazione del principio del 'raggiungimen‑ to dello scopo', la mancanza di un documento non è ex se causa di esclusione dell’offerta In omaggio ad un approccio sostanzialistico, imperniato sulla regola del raggiungimento dello scopo, la mancata produzione di un autonomo documento programmatico operativo non può essere considerata causa di esclusione dell’offerta, qualora i relativi contenuti siano ricavabili dal complessivo contenuto dell’offerta tecnica evincibile da un’apposita scheda allegata all’offerta tecnica stessa e dalla relazione descrittiva. A fronte di un’adeguata esplicazione dei contenuti richie‑ sti dal capitolato, il fatto che manchi un autonomo elaborato non può invero essere considerato causa di esclusione dell'of‑ ferta. Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 3966 Pres. Pier Giorgio Trovato, Est. Francesco Caringella Requisiti di moralità – Le relative dichiarazioni sono doverose da parte di qualsiasi figura dirigenziale che, a prescindere dalla de‑ nominazione, sia nella sostanza assimilabile al direttore tecnico L'art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163‑ nella parte in cui impone al direttore tecnico delle societa' partecipanti di dichiarare l’assenza di circostanze, incidenti sulla moralità professionale, che impedirebbero la stipula del relativo con‑ tratto – si applica anche al responsabile tecnico, ovvero ad altre figure professionali che siano connotate da sovrapponi‑ bilità dei compiti rispetto al direttore tecnico. Argomentando altrimenti, difatti, si giungerebbe alla il‑ logica conclusione secondo la quale la normativa che concer‑ ne il direttore tecnico potrebbe essere facilmente aggirata sulla base di espedienti puramente verbali, privi di qualsiasi contenuto sostanziale. Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2013, n. 4328 Pres. FF Francesco Caringella, Est. Manfredo Atzeni. Risarcimento del danno da risoluzione del contratto di appalto basata su informativa prefettizia successivamente annullata in sede giurisdizionale – La complessità della valutazione alla base dell’interdittiva antimafia e la assenza di discrezionalità della PA impediscono il risarcimento del danno, anche a fronte di una ri‑ soluzione del contratto Il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e costante dell'annullamento giurisdizionale di un atto am‑ ministrativo, in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse 2 0 1 3 111 tutelata dall'ordinento, anche del nesso causale tra l'illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell'amministrazione, almeno nelle controversie nelle quali non trovi diretta applicazione il diritto comunitario. Orbene, relativamente all’emanazione dell’interdittiva antimafia, è da escludere un giudizio di colpevolezza dell’au‑ torità prefettizia, in quanto vanno considerate la difficoltà e la complessità delle questioni da affrontare nell'esercizio della funzione amministrativa di merito, che nella specie implica accertamenti e verifiche delicate ed insidiose di una realtà sfuggente. Sotto altro profilo è da rilevare che la determinazione di risoluzione del rapporto contrattuale è direttamente e stretta‑ mente consequenziale all’interdittiva prefettizia. Infatti, il sistema normativo non offre alle stazioni appaltanti strumen‑ ti e capacità per apprezzare la correttezza e la rilevanza “an‑ timafia” degli elementi e delle indicazioni fornite dalla Prefet‑ tura, alla quale spettano le funzioni connesse alla classifica‑ zione, analisi, elaborazione e valutazione delle notizie e dei dati specificamente attinenti ai fenomeni di tipo mafioso. Pertanto l’effettivo ambito della discrezionalità riservata alle stazioni appaltanti ne esce sostanzialmente depotenziato, per quanto riguarda i contenuti delle suddette informative, rispetto all’interesse pubblico alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblici, che presiede ai poteri interdettivi antima‑ fia, per cui la motivazione sulle controindicazioni di preven‑ zione rispetto alla criminalità organizzata è normalmente sufficiente a giustificare la determinazione di non proseguire il rapporto contrattuale con un soggetto rispetto al quale si presentano indizi di condizionamento mafioso. Da quanto detto, ne deriva che non sono meritevoli di accoglimento eventuali pretese risarcitorie avanzate nei ter‑ mini suddetti. Tar Napoli, sez. I, 10 luglio 2013, n. 3579 Pres. Cesare Mastrocola, Est. Fabio Donadono Partecipazione alla gara – Affidamento di lavori scorporabi‑ li – Sufficienza dei requisiti di partecipazione relativamente alla categoria prevalente – Identificazione del sub‑appaltatore – At‑ tiene al momento dell'esecuzione, e non a quello della partecipa‑ zione alla gara L’art. 92 del d.p.r. n. 207 del 2010, in materia di parteci‑ pazione alla gara, stabilisce che è l’esistenza della totale co‑ pertura della categoria prevalente a legittimare la partecipa‑ zione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di voler subappaltare le scorporabili. Quanto alla identificazio‑ ne del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene solo al momento dell’esecuzione. Tale scelta è stata voluta dal legislatore. Infatti, la prima stesura del d.lgs. n. 163 del 2006 prevedeva esplicitamente che le opere specializzate eccedenti il 15% potessero essere eseguite solo da a.t.i. nel caso in cui il partecipante alla gara non avesse avuto i requi‑ siti tecnico – organizzativi ed economico – finanziari relativi alla categoria scorporabile; successivamente, con la modifica operata dal d.lgs. n. 152 dell’11 settembre 2008 è stata pre‑ vista la possibilità del subappalto anche per le opere speciali‑ stiche, senza alcuna specificazione, rinviando il tutto a quan‑ to disposto dall’art. 118, comma 2, terzo periodo del d.lgs. n. amministrativo Gazzetta 112 di r itto a m m i n ist r ati v o 163 del 2006, non ritenendo di delineare in modo diverso le condizioni di partecipazione alla gara neppure nel caso in cui l’opera specialistica superi il 15% dell’importo complessivo. Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 03963 Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Doris Durante Valutazione dell'offerta – Insindacabilità intrinseca delle scelte operate dalla PA in merito alle formule matematiche da utilizzare per la valutazione dell’offerta Nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la valu‑ tazione dell'offerta economica può essere scelta dall'ammi‑ Gazzetta F O R E N S E nistrazione con ampia discrezionalità: la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione non solo dei criteri da porre quale riferimento per l'individuazione dell'of‑ ferta economicamente più vantaggiosa, ma anche nella indi‑ viduazione delle formule matematiche. Ne deriva che il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico‑am‑ ministrativa, può essere consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità. Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3802 Pres. Pier Giorgio Trovato, Est. Saltelli. Diritto tributario La detassazione dei premi di produttività prorogata anche per il 2013 115 tributario Enza Sonetti Gazzetta F O R E N S E luglio • A G O S T O ● Dottoranda di ricerca in “Strategie legali per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle P.M.I.” presso l’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa” 1. Introduzione Nell’ambito delle misure adottate per fronteggiare la crisi economica e per incrementare la produttività delle aziende, anche nel 2013, il legislatore ha deciso di prevedere forme di tassazione agevolata per quanto erogato ai propri dipendenti a fronte di incrementi di produttività delle aziende private. La scelta di introdurre misure a sostegno della produtti‑ vità, a cui si è proceduto per la prima volta ed in via speri‑ mentale nel 2008, è stata spesso oggetto di aspri contrappo‑ sizioni fra il favormostrato dalle rappresentanze industriali e il disappunto delle rappresentanze sindacali che in poche occasioni hanno sottolineato come tali misure incidesse‑ ro – ed incidano – ben poco sul tanto invocato alleggerimen‑ to fiscale della busta paga dei lavoratori dipendenti e che non hanno mai nascosto il timore che le stesse potessero – e pos‑ sano – spalancare le porte a forme mascherate di demansio‑ namento e sfruttamento. La disciplina in esame, che sfiora questioni tanto giusla‑ voristiche quanto fiscali, ha subito nel corso degli anni nume‑ rose modifiche, sfiorando forse solo in parte la soluzione del problema principale ovvero favorire e facilitare la produttivi‑ tà, aumentando al contempo il potere d’acquisto dei lavora‑ tori dipendenti e migliorando le forme di flessibilità attual‑ mente esistenti nel mercato del lavoro. Da più parti infatti è stato sottolineato che la detassazio‑ ne degli straordinari, per quanto encomiabile è stata scarsa‑ mente incisiva essendo mancato negli anni, un vero e struttu‑ rato intervento diretto a ridurre il cuneo fiscale che oggi grava su dipendenti ed imprese in maniera illogica e spropor‑ zionata e che costituisce il primo e principale disincentivo agli investimenti e al rilancio dell’economia nel nostro Paese. Procedendo con ordine, dunque occorre prendere le mos‑ se dall’originaria disciplina,che introduceva imposta sostitu‑ tiva del 10%, tutt’oggi invariata, analizzando i vari interven‑ ti legislativi e dell’amministrazione finanziaria che negli anni hanno contribuito a meglio delineare i profili della misura in questione. 2. L’originaria disciplina introdotta con il D.L. n. 93/2008. Con il preciso obiettivo di consentire l’incentivo e l’aumen‑ to della produttività nel settore privato il legislatore del 2008, ha introdotto con il decreto n. 93, la possibilità di applicare un’imposta sostitutiva per quelle componenti di reddito dei lavoratori dipendenti, erogate per prestazioni di lavoro stra‑ ordinario, lavoro supplementare e/o rese in virtù di clausole cd. elastiche e flessibili nell’arco temporale compreso fra il 31 luglio ed il 31 dicembre 20081. Il breve lasso di tempo cui fa 1 1. Salva espressa rinuncia scritta del prestatore di lavoro, nel periodo dal luglio 2008 al 31 dicembre 2008, sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, le somme erogate a livello aziendale: a) per prestazioni di lavoro straordinario, ai sensi del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, effettuate nel periodo suddetto; tributario ● Enza Sonetti 115 Sommario: 1. Introduzione – 2. L’originaria disciplina intro‑ dotta con il D.L. n. 93/2008 – 3. Le modifiche avvenute negli anni seguenti – 4. Le novità introdotte nel 2012 e 2013 – 5. L’istanza di rimborso – 6. Conclusioni. La detassazione dei premi di produttività prorogata anche per il 2013 2 0 1 3 116 di r itto riferimento la norma e soprattutto la sua applicazione limi‑ tata al settore produttivo privato sono diretta conseguenza del suo carattere sperimentale, come essa stessa precisa al co. 5 del suddetto articolo, tant’è che – anche se non si è mai proceduto in tal senso – non si precludeva una volta verifi‑ cati gli effetti della misura, una possibilità di estensione anche al settore pubblico. Quanto ai soggetti che potevano beneficiare della misura agevolativa dunque, il legislatore ne ha limitato la possibilità al settore privato. È d’uopo precisare però, che il termine azienda utilizzato dalla norma, va inteso, secondo le indica‑ zioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, in senso a‑tecnico, non potendosi escludere la possibilità del beneficio ai dipen‑ denti di soggetto non imprenditore2. Rientrano nel novero dei soggetti potenzialmente beneficiari, altresì i lavoratori dipen‑ denti di lavoratori autonomi, nonché quelli dipendenti da agenzie del lavoro, anche per missioni rese nel settore della p.a. 3. Passando ad analizzare la misura “dalla parte dei dipen‑ denti”, il beneficio può essere concesso a coloro che sono ti‑ tolari nell’anno antecedente a quello in cui si vuol godere dell’agevolazione, di un reddito di lavoro dipendente di cui all’art. 49 T.U.I.R., che non superi un determinato ammon‑ tare. Per l’anno 2008 il limite era fissato entro il 30.000 € annui lordi, prodotti nel 2007. Il chiaro riferimento all’art. 49 del T.U.I.R. consente di escludere dal novero dei soggetti che possono beneficiare dell’imposta sostitutiva i titolari di red‑ dito di lavoro assimilato a quello dipendente, come ad esempio i lavoratori a progetto. Il limite previsto dalle norme fa riferimento inoltre a tutti i redditi percepiti nell’anno anteced‑ ente a titolo di reddito di lavoro dipendente ex art. 49 del T.U.I.R., nonché alle ipotesi nelle quali il dipendente non ab‑ b) per prestazioni di lavoro supplementare ovvero per prestazioni rese in funzione di clausole elastiche effettuate nel periodo suddetto e con esclusivo riferimento a contratti di lavoro a tempo parziale stipulati prima della data di entrata in vigore del presente provvedimento; c)in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa. 2. I redditi di cui al comma 1 non concorrono ai fini fiscali e della determinazione della situazione economica equivalente alla formazione del reddito complessivo del percipiente o del suo nucleo familiare entro il limite massimo di 3.000 euro. Resta fermo il computo dei predetti redditi ai fini dell’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali, salve restando le prestazioni in godimento sulla base del reddito di cui al comma 5. 3. L’imposta sostitutiva è applicata dal sostituto d’imposta. Se quest’ultimo non è lo stesso che ha rilasciato la certificazione unica dei redditi per il 2007, il beneficiario attesta per iscritto l’importo del reddito da lavoro dipendente conseguito nel medesimo anno 2007. 4. Per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, si applicano, in quanto compatibili, le ordinarie disposizioni in materia di imposte dirette. 5. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 4 hanno natura sperimentale e trovano applicazione con esclusivo riferimento al settore privato e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore, nell’anno 2007, a 30.000 euro. Trenta giorni prima del termine della sperimentazione, il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali procede, con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a una verifica degli effetti delle disposizioni in esso contenute. Alla verifica partecipa anche il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, al fine di valutare l’eventuale estensione del provvedimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni. 6. Nell’articolo 51, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, la lettera b) è soppressa. 2 Agenzia delle Entrate, Circ. n. 59/E del 22 ottobre 2008. 3 Agenzie delle Entrate, Circ. n. 59/E 2008,cit. t r i b uta r io Gazzetta F O R E N S E bia percepito alcun reddito nell’anno da utilizzare quale parametro. A restare fuori da tale disciplina pertanto sono solo i la‑ voratori dipendenti del settore pubblico. Sotto un profilo oggettivo la norma, limita il beneficio alle prestazioni rese o per lavoro straordinario (lett. a) o sup‑ plementare o in virtù di clausole elastiche o flessibili (lett. b) o in relazione ad incrementi di produttività, innovazione ed ef‑ ficienza organizzativa e altri elementi di competitività e reddi‑ tività legati all’andamento economico dell’impresa (lett. c). Preliminarmente va precisato che per lavoro straordinario, si intende quello che si concretizza in quello reso attraverso il prolungamento dell’orario oltre il normale orario di lavoro full‑time4. L’art. 2 del decreto per la definizione di lavoro straordi‑ nario rinvia genericamente al D.lgs. 66/2003 e da ciò deve dedursi che sarà considerato lavoro straordinario tanto quel‑ lo reso oltre la misura legale di lavoro, quanto quello reso oltre una misura, inferiore a quella legale, definita dal con‑ tratto collettivo applicato5. Anche in tale ultimo caso, quindi si sarebbe in presenza di lavoro straordinario seppur a meri fini contrattuali ed in quanto tale potenzialmente meritevole di beneficiare dell’imposta sostitutiva. Ad essere soggetti all’imposta sostitutiva pertanto sono i compensi, premi o gettoni, corrisposti per l’esecuzione di prestazioni straordinarie rese ad esempio nei giorni di riposo o festivi o che possano esser ricondotte alle ipotesi ex lett. c). Con riferimento al lavoro straordinario, ha creato non pochi dubbi l’estensione della misura anche al lavoro nottur‑ no. La circolare 59/E del 2008, ha però precisato che il lavo‑ ro notturno ordinario beneficiava dell’imposta sostitutiva, specificando che l’agevolazione deve applicare sia ai lavorato‑ ri che rendano lavoro straordinario notturno, sia ai lavorato‑ ri non turnisti che prestano il loro lavoro giornaliero norma‑ le nel periodo notturno e ciò in relazione sia al compenso che alla maggiorazione. Il regime agevolato inoltre può essere applicato altresì alle ipotesi di straordinario forfetario, all’intera somma cor‑ risposta a tal fine indipendentemente dall’effettiva resa di prestazioni l’orario normale poiché in tal caso potrebbe trat‑ tarsi di ipotesi rientranti nella lett. c)6. Ancora in caso di superminimi o delle cd. indennità di funzione e /o mansione, secondo l’orientamento dell’Ammi‑ nistrazione finanziaria, è applicabile il regime sostitutivo solo per il lavoro reso per compensare eventuali prestazioni di lavoro rese oltre il normale orario o per quello rientrante nelle ipotesi di incrementi di produttività ex lett. c). Con l’espressione “lavoro supplementare” si fa invece ri‑ ferimento a quello reso in misura eccedente il limite fissato dai contratti collettivi, ma entro il limite del tempo pieno7. In questo caso ad esser agevolato è il compenso percepito per il 4 Carinci‑De Luca Tamajo‑Tosi‑Treu, Diritto del Lavoro – Il rapporto di Lavoro subordinato, Utet, 2013. 5 “I contratti collettivi possono stabilire che la durata dell’orario normale sia ridotta rispetto al limite legale delle 40 ore settimanali. Questa facoltà ha ad oggetto una riduzione d’orario valida ai soli fini contrattuali”, Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, n. 8 del 3 marzo 2005. 6 Agenzia Entrate, Circ. n. 59/E cit. 7 Art. 1 co. 1 lett.e), d.lgs. n. 61 del 25 febbraio 2000. F O R E N S E luglio • A G O S T O lavoro reso oltre l’orario concordato. La norma inoltre richia‑ ma sia le cd. clausole elastiche che flessibili. Le prime, modi‑ ficate rispetto all’originaria disciplina contenuta nel D.lgs. 61/2000 che le inquadrava fra quelle che consentivano la variabilità della collocazione temporale del lavoro, consento‑ no ora di incrementare la durata delle prestazioni lavorative8. In tali ultimi casi, già nel 2008, potevano beneficiare del re‑ gime più favorevole solo le prestazioni rientranti nelle ipotesi di straordinario o di incrementi di produttività. Quanto alle ipotesi di lavoro supplementare di cui alla lett. b) era invece necessario che i contratti di lavoro a tempo parziale fossero stati stipulati antecedentemente al 29 maggio 2008, data di entrata in vigore del decreto. Quanto alle cd. clausole flessibili, con tale espressione, si fa riferimento alla variazione di collocazione oraria delle prestazioni rese del lavoratore dipendente. In questo caso, il beneficio può essere accordato per le ore situate al di fuori della fascia oraria precedentemente concordata. In ultimo, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia de‑ ciso di utilizzare il sistema della cd. banca ore, che consente di compensare risposi con prestazioni lavorative aggiuntive, sarà oggetto di imposizione sostitutiva la sola maggiorazione retributiva. L’imposta sostitutiva, come già detto, si applicava per l’anno 2008 per le somme erogate per le prestazioni di cui sopra, fra il 1 luglio ed il 31 dicembre 2008, entro il tetto massimo di € 3.000 al lordo della ritenuta fiscale. La norma fa specifico riferimento all’ipotesi di erogazione tanto per cui, occorre considerare solo i compensi erogati in denaro e non in natura ed in ossequio al principio di cassa allargata, ex art. 51 del T.U.I.R., vanno considerate ai fini del calcolo del tetto massimo anche le somme percepite entro il 12 gennaio dell’anno seguente (nel caso di specie 2009). In ordine invece ai cd. premi di produttività e delle somme erogate per produttività ed efficienza ai sensi dell’art. 2 co. 1 lett. c), la circolare dell’Agenzia delle Entrate di ottobre 2008, ha precisato che il concetto di somma va interpretato in ma‑ niera estesa e tenendo conto della ratioperseguita dal legisla‑ tore. In caso ad esempio di compensi per cd. permessi R.O.L. (Riduzione orario di lavoro) non goduti entro i termini di maturazione, l’imposta sostitutiva può essere applicata sia su richiesta del dipendente, sia periodicamente se così pattuito in sede di contrattazione collettiva. I premi per le vendite, invece possono esser soggetti all’agevolazione solo se le pre‑ stazioni lavorative da cui discendono hanno contribuito un incremento della produttività del lavoro e dell’efficienza or‑ ganizzativa ovvero se le stesse sono legate alla competitività e redditività dell’impresa9. I redditi percepiti a tale titolo pertanto potevano – e pos‑ sono –, salvo eventuale scelta contraria del lavoratore, esser soggetti a imposta sostitutiva del 10%. Il lavoratore infatti può valutare se applicare l’imposta sostitutiva o se del caso, qualora la stessa dovesse risultare meno conveniente, applica‑ re la tassazione ordinaria per scaglioni. È infatti ipotizzabile che al lavoratore dipendente possa non convenire applicare 8 Cardarello C., Licenziamento, lavoro a progetto, agenzia, Giuffré, 2008, pag. 54. 9 Agenzia delle Entrate, Circ. n. 59/E 2008, cit. 2 0 1 3 117 l’imposta sostitutiva che potrebbe ad esempio impedire la deduzione o detrazione di oneri che invece gli sarebbero rico‑ nosciute, assoggettando le somme percepite alle aliquote progressive IRPEF. In tal caso, deve formulare espressa di‑ chiarazione di rinuncia da inviare al datore di lavoro, poiché in caso contrario, là dove il lavoratore non effettui alcuna scelta, la decisione circa la convenienza della sottoposizione ad imposta sostitutiva quelle somme, entro i limiti previsti e se sussiste la condizione relativa all’annualità precedente, spetterà solo ed esclusivamente al datore di lavoro. È infatti a quest’ultimo che competono tutti gli adempimenti necessari per l’applicazione dell’imposta sostitutiva. L’imposta sostitutiva è applicata in via automatica in busta paga, se il datore di lavoro è lo stesso che ha rilasciato il CUD per l’anno precedente. Se invece si tratta di due soggetti diver‑ si allora sarà il lavoratore a comunicare per iscritto al nuovo datore di lavoro se nell’anno precedente ha conseguito un reddito di lavoro dipendente tale da consentire di godere del beneficio in esame. Le somme che potranno beneficiare dell’imposta sostituiva dovranno essere indicate nel modello CUD, insieme all’importo trattenuto al dipendente. Ovvia‑ mente sarà necessario altresì indicare quella quota di somme erogate allo stesso titolo delle precedenti per le quali non è stato possibile applicare l’imposta sostitutiva a causa del su‑ peramento della soglia limite. L’imposta sostitutiva, inoltre può essere oggetto di com‑ pensazione ai sensi dell’art. 17 D.lgs. 241/97. Infine va sottolineato che l’art. 2 al co. 6 del decreto 93/2008, ha abrogato la lett. b) co. 2 dell’art. 51 del T.U.I.R. che escludeva dalla base imponibile ai fini del reddito di lavo‑ ro dipendente determinate voci, come ad esempio le erogazio‑ ni liberali entro determinati importi o ad esempio altri sussi‑ di fra i quali rientravano quelli corrisposti ai dipendenti vit‑ time di usura ex l. 108/9610. A seguito dell’abrogazione di tale articolo, tali voci, concorrono a formare il reddito impo‑ nibile per l’intero importo e verranno assoggettate a tassazio‑ ne ordinaria. 3. Le modifiche avvenute negli anni seguenti. Negli anni successivi al 2008, le disposizioni che avevano introdotto in maniera sperimentale la detassazione degli straordinari, non sono state prorogate in toto. Solo le ipotesi relative ai premi di produttività, sono state oggetto di inter‑ venti legislativi, volti ad assicurare la possibilità di applicare ancora l’imposta sostitutiva del 10%. L’art. 5 del d.l. n. 185 del 200811, ha infatti previsto la proroga solo della disposizione di cui alla lett. c) dell’art. 2 del D.L. 93/2008, comportando quale conseguenza l’elimina‑ zione di qualsiasi riferimento espresso a lavoro straordinario o a lavoro supplementare e soprattutto legando, l’ammissibi‑ 10 b) le erogazioni liberali concesse in occasione di festività o ricorrenze alla gene‑ ralità o a categorie di dipendenti non superiori nel periodo d’imposta a lire 500.000 [euro 258,23], nonché i sussidi occasionali concessi in occasione di rilevanti esigenze personali o familiari del dipendente e quelli corrisposti a di‑ pendenti vittime dell’usura ai sensi della legge 7 marzo 1996, n. 108, o ammes‑ si a fruire delle erogazioni pecuniarie a ristoro dei danni conseguenti a rifiuto opposto a richieste estorsive ai sensi del decreto‑legge 31 dicembre 1991, n. 419, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172, art. 51, co. 2 lett. b), abrogata dall’art. 2 co. 6 D.l. 93/2008. 11 Art. 5, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009, n.2 tributario Gazzetta 118 di r itto lità dell’imposta sostitutiva alla presenza di somme erogate per incrementi di produttività, o di innovazione, efficienza organizzativa, e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’azienda. I vari incontri con le parti sociali, hanno portato il legi‑ slatore a prediligere quale strada di intervento quello dell’au‑ mento delle soglie reddituali poter beneficiare dell’imposta sostitutiva. Il limite di somme erogate sottoponibili all’impo‑ sta sostitutiva passava dai 3.000 € a 6.000 € lordi e il para‑ metro di riferimento, relativo all’annualità precedente passa‑ va da 30.000 € a 35.000. Una scelta poi confermata anche per l’anno 201012 e 201113 con l’aumento in quest’ultimo anno del reddito relativo all’annualità precedente portato ad € 40.000. La “riduzione” delle ipotesi di straordinario agevolato è una scelta che è stata confermata anche da parte dell’Agenzia delle Entrate che in una nota congiunta del 201014, secondo la quale avendo la proroga riguardato solo la lett. c) dell’art. 2 del D.L. 98/2003, l’imposta sostitutiva per potersi applicare doveva necessariamente far riferimento a somme erogate per prestazioni riconducibili fra i cd. premi di produttività o co‑ munque fra quelle previste dalla lett.c) in attuazione di quan‑ to previsto da accordi o contratti collettivi territoriali o aziendali15. Nel 2011 infatti per la prima volta, viene ancorata la possibilità di fruire dell’imposta sostitutiva alla circostanza che tali somme siano state erogate in attuazione di quanto previsto da accordi collettivi territoriali o aziendali cui sia stata data esecuzione in azienda16. In particolare stando a quanto riferito dall’Agenzia delle Entrate e sicuramente al fine di rafforzare e semplificare la dimostrazione della pre‑ mialità della somma erogata, diventava necessaria la forma‑ lizzazione per iscritto del contratto17. Diventava dunque necessario che gli straordinari, potesse‑ ro esser collegati a parametri di produttività dell’azienda. Il punto diventa riuscire a dimostrare che quella determinata prestazione lavorativa abbia inciso sull’aumento di produtti‑ 12 Art. 2 co. 156, l. 23 dicembre 2009, n. 191. 13 Art. 53, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito in l. 30 luglio 2010, n. 122. 14Nota congiunta Agenzia delle Entrate e Ministero del Lavoro‑ Prot. N. 2010/134950‑ Imposta sostitutiva del 10 per cento su retribuzioni erogate ai dipendenti per lavoro straordinario. 15 L’agenzia delle Entrate in seguito alle polemiche insorte con le parti sociali, ha precisato in una nota congiunta che il beneficio poteva essere applicato solo ed esclusivamente per quelle somme erogate a seguito della stipulazione del con‑ tratto collettivo applicato in azienda, non potendo la disciplina fiscale esser aggirata tramite la retrodatazione convenzionale degli effetti del contratto. Si veda: Agenzia delle Entrate, Circ. n. 19/E del 10 maggio 2011; Nota F.I.O.M.‑CGIL del 13 maggio 2011 “La detassazione del salario di produttivi‑ tà per il 2011 non può essere retroattiva rispetto alla data della stipula degli accordi territoriali e/o aziendali”. 16 Agenzia delle Entrate, Circolare 14 febbraio 2011, n. 3/E. 17 Agenzia delle Entrate, Circolare del 10 maggio 2011, n. 14/E. La circolare di maggio 2011, si pone in netto contrasto con quanto affermato nella precedente circolare del febbraio dello stesso anno, nella quale l’ammini‑ strazione finanziaria aveva dichiarato che “Per i contratti collettivi c.d. di dirit‑ to comune, in applicazione del principio generale di libertà di forma e come ribadito dalla giurisprudenza di Cassazione (ex multis Cass. 15 febbraio 1998, n. 1735; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12757; Cass. 22 marzo 1995, n. 3318), non esiste un onere di tipo formale, ragione per cui possono concorrere a in‑ crementi di produttività, come non di rado avviene, accordi collettivi non cri‑ stallizzati in un documento cartolare e cionondimeno riconducibili, a livello di fonti del diritto, al generale principio di libertà di azione sindacale di cui all’ar‑ ticolo 39 della Costituzione”. t r i b uta r io Gazzetta F O R E N S E vità o efficienza dell’impresa. Fatto sicuramente non di facile dimostrazione soprattutto in assenza di collegamenti con parametri di tipo numerici quali potrebbero essere quelli le‑ gati al ricavi o ai minori costi sostenuti dall’azienda nel perio‑ do in cui è stata svolta la prestazione di lavoro straordinaria. Ed anche in quel caso però sarebbe difficile dimostrare che sia stata la prestazione straordinaria del lavoratore a consentire tutto ciò. A tal riguardo, nella nota ora citata, l’amministrazione finanziaria, rinviando alle circolari del 2008, ha precisato che è la stessa azienda a dover certificare in un certo senso lo svolgimento di tali mansioni da parte del lavoratore dipendente. L’impresa pertanto dovrà fornire al lavoratore dipendente tutta la documentazione attestante l’espletamento di mansioni straordinarie che hanno contribu‑ ito ad incrementi di produttività od efficienza della stessa e ciò potrà avvenire anche tramite una comunicazione nella quale sono esplicitate le ragioni della corresponsione della somma. Era quindi difficile, per non dire quasi impossibile, in caso di accertamenti da parte dell’amministrazione finan‑ ziaria circa la sussistenza delle condizioni per l’applicazione dell’imposta sostitutiva, dimostrare che effettivamente l’ap‑ porto di quel determinato lavoratore aveva contribuito a in‑ crementi di produttività o efficienza. 4. Le novità introdotte nel 2012 e 2013. La proroga delle misure introdotte nel 2008, è stata effet‑ tuata, seppur limitatamente alle ipotesi ex lett. c), anche per le annualità 201218 e 201319, con l’introduzione di alcune importanti novità. Nel 2012, il tetto massimo di somme agevolabili è stato portato a 2.500 € lordi annui, con un riferimento reddituale per l’anno precedente di € 30.000, mentre nel 2013, fermo restando il limite di € 2.500, è stato innalzato il riferimento reddituale complessivo per l’anno precedente ad € 40.000. Fatta tale premessa, a partire dall’anno 2012, con disci‑ plina sostanzialmente riprodotta nell’anno seguente le somme per incrementi di produttività o di efficienza aziendale, così come individuati dalla lett. c) dell’art. 1 del d.l.98/2003, pos‑ sono continuare a beneficiare dell’imposta sostitutiva del 10%20. Tali incrementi devono essere stati resi in esecuzione di contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni comparativamente più rappresen‑ tative sul piano nazionale o anche dalle loro rappresentanze sindacali presenti in azienda 21. 18 Art. 26, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in l. 15 luglio 2011, n. 111 19 Art. 2 co. 481, l. 24 dicembre 2012, n. 228 20 Massi E., Salario di produttività e fiscalizzazione agevolata, in Diritto e Prati‑ ca del Lavoro, n. 20/2013, pag. 1278; MaistroA., Detassazione2013: prime istruzioni, in Guida alle paghe, n. 5/2013, pag. 267. 21 “Alla luce della nuova formulazione normativa va dunque evidenziata la necessità che gli accordi in questione, ai fini della applicabilità del regime agevolativo, siano sottoscritti da associazioni in possesso del requisito della maggiore rappresentatività comparata sul piano nazionale. In sostanza, in relazione agli accordi territoriali, entrambe le parti devono essere in possesso di tale requisito di rappresentatività. La problematica appare invece più complessa nell’ipotesi di accordi azien‑ dali, in quanto solo uno dei firmatari dell’accordo può considerarsi una “associazione” in rappresentanza di una collettività di soggetti (i lavora‑ tori). Per la parte datoriale, pertanto, trattandosi di accordo aziendale, non potrà che essere il singolo datore di lavoro a stipulare l’accordo con le rappresen‑ F O R E N S E luglio • A G O S T O Diventa quindi necessario per poter applicare la detassa‑ zione che in azienda sia stata sottoscritto un contratto collet‑ tivo aziendale, o che sia stato sottoscritto o recepito un con‑ tratto collettivo territoriale e di conseguenza sarà possibile solo per quanto maturato ed erogato dopo la sottoscrizione o il recepimento dei contratti. Ma a diventare protagonista è soprattutto la contrattazione di secondo livello, a cui, secon‑ do la CGIL, si darebbe in alcune occasioni altresì la facoltà di derogare in pejusai minimi retributivi nazionali 22. A seguito dell’emanazione del D.P.C.M. del 23 marzo 2012, con il quale venivano individuati i nuovi parametri reddituali, la fondazione Studi dei Consulenti del lavoro ha evidenziato, con riferimento alla necessità della presenza del contratto aziendale o territoriale, che problemi particolari per poter godere del beneficio potrebbero nascere per quelle aziende prive di un sindacato interno (micro aziende)23. Va sottolineato però, che tale disciplina è stata frutto di scontri e dibattiti con le parti sociali molto accesi. In partico‑ lare il D.P.C.M. del 22 gennaio 2013, ha cercato sostanzial‑ mente di conformarsi a quanto definito in sede di accordo con le parti sociali il 21 novembre 201224 in ordine alla nozione di “retribuzione di produttività”. L’obiettivo dell’accordo era quello di garantire lo sviluppo di un “sistema di relazioni industriali, che crei condizioni di competitività e di produtti‑ vità tali da rafforzare il sistema produttivo, occupazione e le retribuzioni”. Lo stesso era stato firmato da tutte le parti sociali, con l’eccezione della sola CGIL che, pur valutando con favore quella parte del provvedimento che confermava l’applicazione dell’imposta sostitutiva per i premi di produt‑ tività, ha comunque considerato le previsioni ivi contenute “peggiorative del sistema di detassazione”: l’aver infatti can‑ cellato, qualsiasi riferimento testuale ai turni di lavoro, ovve‑ ro al lavoro notturno o festivo che incidono, questi sì, su competitività e produttività delle aziende, porta alla nascita di un sistema “sbagliato ed inadeguato”25. A prescindere tuttavia dalla normale dialettica con le parti sociali, va dato atto e merito al legislatore di aver affron‑ tato il nodo della definizione di “retribuzione di produttività”. tanze dei lavoratori che promanano da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale mentre, per le realtà datoriali che non abbiano al proprio interno tali rappresentanze, tali accordi potranno essere sottoscritti con le organizzazioni sindacali territoriali in possesso del citato requisito di rappresentatività”, Interpello Del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali n. 8 del 5 febbraio 2013; In seguito anche la Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, n. 15 del 3 aprile 2013, ha precisato che per “rappresentanze sindacali presenti in azienda” devono in‑ tendersi tanto le R.S.A.(rappresentanze sindacali aziendali) che le R.S.U.(rappresentanze sindacali unitarie). 22Si veda al riguardo: GiugniG., Diritto sindacale – Appendice di aggiornamen‑ to, Carucci Editore, 2013, pag. 221. 23 “In questo caso, è comunque possibile detassare le somme incentivate re‑ cependo in forma scritta il contratto collettivo territoriale sottoscritto dalle parti sociali individuate dalla norma. Si fa presente che, sulla base dell’ordinario principio contenuto nell’articolo 39 della Costituzione, è possibile recepire tale accordo territoriale anche da parte di aziende non iscritte alle organizzazioni firmatarie, purché sia data espressa adesione (possibilmente in forma scritta) cosi come l’azienda ha presumibilmente effettuato per il contratto collettivo nazionale. La sottoscrizione di un contratto collettivo aziendale potrà avvenire anche con una sola sigla sindacale purché comparativamente rappresentativa sul piano nazionale”. Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, Circolare n. 13 del 19 giugno 2012. 24 Accordo per la crescita della produttività e della competitività in Italia, firmato il 21 novembre 2012. 25 CGIL, nota della Segreteria Nazionale del 21 gennaio 2013. 2 0 1 3 119 In particolare secondo il decreto di gennaio 2013, al fine di qualificare una somma erogata a titolo di retribuzione di produttività occorre far riferimento o alle voci “retributive erogate in esecuzione di contratti, con esplicito riferimento ad indicatori quantitativi di produttività/redditività/qualità/effi‑ cienza/ innovazione, o, in alternativa, alle voci retributive erogate in esecuzione di contratti che prevedano l’attivazione di almeno una misura in almeno tre delle aree di intervento” alternativamente ivi indicate che afferiscono agli orari di la‑ voro e alla distribuzione con modelli flessibili ovvero all’in‑ troduzione di una distribuzione flessibile delle ferie o all’ado‑ zione di misure che rendano consentano l’attivazione di strumentazioni informatiche compatibilmente coi diritti dei lavoratori ovvero la previsione di interventi atti a consentire la fungibilità delle mansioni 26. È questa la vera e propria novità introdotta – fra non poche polemiche – dal decreto del 2013, ovvero la previsione di una chiara ed ampia estrinsecazione degli obiettivi perseguiti e dei parametri da utilizzare per valutarne la sussistenza. L’introduzione di tali voci, comporta infatti quale conse‑ guenza che poter provare la sussistenza degli stessi, ci sia un parametro di riferimento di tipo quantitativo/oggettivo. Ed in effetti onde dimostrare che le somme siano state erogate a fronte di incrementi è necessario che le prestazioni di lavoro da cui traggono origine siano strettamente connesse e abbia‑ no comportato una riduzione dei costi di produzione o ad esempio un aumento dei ricavi dell’azienda o quanto meno devono esser state frutto dell’attivazione di una delle misure alternative che il legislatore ha voluto a priori, far rientrare fra le misure incrementative della produttività. Va però sot‑ tolineato che se con riferimento a criteri quali la produttività e la redditività sembra possibile procedere ad un confronto di tipo quantitativo/oggettivo, altrettanto non può dirsi per quanto attiene alle valutazioni attinenti all’incremento di ef‑ ficienza, innovazione e qualità del lavoro reso. Il Ministero ha precisato inoltre, che le due grandi cate‑ gorie definite dal decreto, possono coesistere purché ovvia‑ mente sussista altresì il requisito fondamentale della destina‑ zione ad incrementi di produttività degli stessi. Infine, l’ultima novità introdotta nel decreto del 2013, è costituita dall’obbligo di depositare il contratto di lavoro applicato in azienda presso la Direzione Territoriale del lavo‑ ro competente entro 30 giorni dalla sua sottoscrizione alle‑ gando un’apposita autodichiarazione di conformità dell’ac‑ cordo depositato a quanto previsto dal decreto attuativo. 26 a) ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione con modelli flessi‑ bili, anche in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica e alla fluttuazione dei mercati finalizzati ad un piu’ efficiente utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttivita’ convenuti median‑ te una programmazione mensile della quantita’ e della collocazione oraria della prestazione; b) introduzione di una distribuzione flessibile delle ferie mediante una program‑ mazione aziendale anche non continuativa delle giornate di ferie eccedenti le due settimane; c) adozione di misure volte a rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione di strumenti informatici, indispensabili per lo svolgimento delle attivita’ lavo‑ rative; d) attivazione di interventi in materia di fungibilita’ delle mansioni e di integrazio‑ ne delle competenze, anche funzionali a processi di innovazione tecnologica. tributario Gazzetta 120 di r itto Al riguardo, la circolare n. 15 del 201327, come già preci‑ sato, prevede che l’imposta sostitutiva non può applicarsi anteriormente alla data di sottoscrizione del contratto collet‑ tivo eseguito e che per i contratti sottoscritti anteriormente alla data in entrata in vigore del decreto, i 30 giorni non pos‑ sono che decorrere da tale data 28. Anche l’agenzia delle Entrate sul punto ha precisato che per i contratti sottoscritti in vigenza della precedente discipli‑ na, che già contenevano fra le ipotesi di somme erogate a ti‑ tolo di incrementi di produttività, una di quelle rientranti nella casistica poi cristallizzata dal decreto, l’applicazione dell’imposta sostitutiva potrà essere retrodatata sino al 1 gennaio 2013. Qualora poi un datore di lavoro avesse scelto, prima dell’entrata in vigore del decreto di sottoporre a tassa‑ zione ordinaria le somme erogate per produttività, e poi avesse deciso in seguito di applicare l’imposta sostitutiva, potrebbe farlo alla prima retribuzione utile, recuperando il versamento delle ritenute alla fonte operate in misura supe‑ riore rispetto a quanto dovuto a titolo di imposta sostitutiva e scomputando l’eccedenza nei versamenti successivi 29. 5. L’istanza di rimborso. L’agenzia dell’entrate, con risoluzione n. 83 del 201030 ha precisato che i dipendenti, che in seguito all’introduzione della misura non ne avessero beneficiato, possano farlo me‑ diante dichiarazione integrativa per gli anni passati ovvero chiedendo il rimborso delle somme versate in eccedenza, ex art. 38 d.p.r. 602/7331. Ovviamente, previa verifica dei pre‑ supposti di carattere reddituale per ciascun anno. La questio‑ ne però al riguardo non è così banale e scontata come sembra. Problemi particolari si pongono ad esempio con riferimento all’individuazione del dies a quo a partire dal quale il contri‑ buente può presentare istanza di rimborso. Un consolidato orientamento giurisprudenziale al riguardo, sostiene la neces‑ sità di guardare all’origine del debito tributario. Il termine comincerebbe dunque a decorrere dal saldo, solo se il diritto scaturisce da un versamento successivamente considerato in eccesso rispetto a quanto correttamente dovuto o se tale “eccesso” dipenda da una ridefinizione dell’obbligazione fi‑ scale. Se invece i versamenti risultino non dovuti già al mo‑ mento dei versamenti in acconto, allora il dies a quo per il rimborso degli stessi inizia a decorrere nel giorno in cui sono stati effettuati32. Nel caso di specie, risulta difficile stabilire sempre che non ci sia stata una espressa rinuncia, stabilire il dies a quo. 27 Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 15/2013, cit. 28 La data di entrata in vigore del decreto è quella del 13 aprile 2013 ovvero del quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione in gazzetta ufficiale, avve‑ nuta il 29 marzo 2013. 29 Agenzia delle Entrate, Circ. del 30 aprile 2013, n. 11/E. 30 Agenzia delle Entrate, Ris. del 17 agosto 2010, n. 83/E. 31 “Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’intenden‑ te di finanza nella cui circoscrizione ha sede l’esattoria presso la quale è stato eseguito il versamento istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento. L’istan‑ za di cui al primo comma può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata”Art. 38 co. 1, D.p.r. 602/73. 32 Mannoni E., Il dies a quo nella procedura di rimborso ex art. 38 del D.P.R. 602 del 1973, in Il fisco, 18/2013, pag. 2719. t r i b uta r io Gazzetta F O R E N S E Inoltre, non vanno sottaciute le preoccupazioni in ordine a profili per così dire probatori: se nel 2013, sono stati intro‑ dotti degli specifici parametri ed indicatori che “testimonia‑ no” gli incrementi di produttività, parimenti non può dirsi per gli anni precedenti. A tale scopo infatti in un primo momento era stata richie‑ sta necessariamente una dichiarazione proveniente dal datore di lavoro che attestasse la straordinarietà e/o la destinazione ad incrementi di produttività della prestazione resa da parte del lavoratore per le quali erano state erogate determinate somme di danaro. Le difficoltà connesse alla operatività pra‑ tica di tali adempimenti, segnalati in particolar modo da Caf e da associazioni dei datori di lavoro ha portato l’amministra‑ zione finanziaria a scegliere una via più pratica e veloce. Proprio per tale motivo l’agenzia delle Entrate, ha ritenu‑ to nel 2010, di dover integrare i modelli di dichiarazione e di certificazione, consentendo che l’indicazione di tali somme possa esser fatta anche nello stesso CUD. Ovviamente non vanno nascoste le difficoltà per il lavoratore di dimostrare la sussistenza del diritto al rimborso in particolar modo quando il datore di lavoro è differente da quello alle cui dipendenze sono state svolte le prestazioni straordinarie33. Trattasi in tali casi di una sorta di probatio diabolica, che ad esempio in caso di lavoro notturno ordinario, svolto dal dipendente do‑ vrebbe non esser necessaria soprattutto se riferita alle annua‑ lità 2008‑09. Per quanto attiene alle annualità a partire dalle quali le ipotesi di “straordinario” dovevano esser rese in attuazione di quanto previsto dai contratti territoriali o aziendali applicati in azienda, forse la questione si pone in misura leggermente diversa, anche se non vanno sottaciuti i timori e le difficoltà di dimostrare che delle retribuzioni possano essere effettiva‑ mente connesse ad incrementi di produttività. Se si guarda infatti al 2011, anno durante il quale è stato sì espressamente previsto il legame col contratto applicato in azienda ma senza che l’estrinsecazione di parametri di tipo quantitativo/ogget‑ tivo – come previsto invece nel 2013‑ allora la questione “probatoria” assume dei contorni ancora troppo sfuocati e poco chiari, ma soprattutto di difficile risoluzione. 6. Conclusioni. La disciplina in materia di detassazione dei premi di pro‑ duttività, era stata introdotta nell’ottica di rilancio delle atti‑ vità produttive ed al fine di rafforzare il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti. Al di là del periodo di sperimentazione, però va sottolineato come gli interventi del legislatore siano stati per certi versi poco organici e poco coerenti con la ratio‑ ispiratrice. Problemi sono stati ad esempio evidenziati da più parti in ordine alla possibilità di applicare tale disciplina, così come novellata alle piccole e medie imprese, stante l’as‑ senza di riferimenti espliciti ai turni di lavoro che potevano costituire una valida e “sintomatica” chiave di lettura per dimostrare l’esistenza di lavoro straordinario a sostegno del‑ la produttività delle imprese34. 33 Agenzia delle Entrate, Ris. 83/2010, cit. 34 Mastromatteo A. – SantacroceB., Prima applicazione o opzione per la ri‑ nuncia all’imposta sostitutiva sulla retribuzione di produttività, in Corriere Tributario, n. 23/2013, pag. 1827. F O R E N S E luglio • A G O S T O La disciplina originaria infatti, facendo espresso riferi‑ mento al lavoro straordinario o supplementare consentiva di agevolare il lavoro festivo o notturno, in maniera più sempli‑ ce e diretta, senza dover ancorare la concessione del beneficio alla sussistenza di parametri contrattuali e di produttività. Il legame necessario con i contratti territoriali o azienda‑ li introdotto, ha invece comportato quale conseguenza che le modalità attraverso le quali si realizzano tali incrementi deb‑ bano in un certo senso esser preventivate e previste a priori dagli accordi. Non è dunque privo di senso, il timore che più volte le rappresentanze sindacali hanno mostrato in ordine alla possibilità che lavoro festivo e notturno, possano non beneficiare dei regimi preferenziali, in particolar modo per quanto attiene alle realtà medio piccole. Non vanno, poi sottovalutati i rischi “dell’uso distorto” delle tre aree di intervento previste dal legislatore, che per 2 0 1 3 121 quanto attiene ad esempio alla definizione di modelli flessibi‑ li o di fungibilità delle mansioni, potrebbero nascondere sfruttamenti e demansionamenti ingiustificati. Non è dunque priva di pregio, la richiesta proveniente in particolar modo dalle parti sociali, di definire questa disci‑ plina, con più attenzione e aderenza alla realtà, considerando soprattutto quello che è il reale tessuto produttivo italiano, costituto per lo più da piccole e medie imprese. Se da un lato infatti, non può esser negato il giusto e degno di nota intervento del legislatore volto a dare “respiro” tanto alle imprese quanto ai lavoratori dipendenti, che si collocano al di sotto di una determinata fascia reddituale, dall’altro non può esser sottaciuto che questo Paese attende ormai da troppo tempo un intervento strutturato ed adeguato in ordine alla fiscalità delle imprese, che sappia dare slancio e nuova vita all’economia italiana. tributario Gazzetta Diritto internazionale Rassegna di diritto internazionale 125 internazionale Francesco Romanelli F O R E N S E ● Rassegna di diritto internazionale ● A cura di Francesco Romanelli Avvocato e specialista in diritto ed economia delle comunità europee luglio • A G O S T O 2 0 1 3 125 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali – Ricorso alla Corte – Legittimazio‑ ne – Esaurimento dei mezzi interni di ricorso – Diritto ad un pro‑ cesso equo – Protezione della proprietà – Divieto di discrimina‑ zione – Obbligo per lo Stato di adottare misure di carattere gene‑ rale – Indennizzo ex lege n. 210/1992 Il decreto legge 78/2010 1 che con il quale si dà, tra l’altro, un’interpretazione autentica 2 della l. 210/1992, relativa all’in‑ dennizzo da corrispondersi a coloro che siano stati contagia‑ ti dal virus HCV a causa di emotrasfusioni, viola il principio di legalità ed il diritto dei ricorrenti ad un processo equo. Il divieto di rivalutazione annuale dell’indennità integra‑ tiva speciale, di cui al d.l. 78/2010, costituisce violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione. Il decreto legge 78/2010 viola l’art. 14 della Convenzione e l’art. 1 del Protocollo n. 12 integrando una illegittima di‑ sparità di trattamento C.E.D.U., sez. II, sentenza 03 settembre 2013, ricorso n. 5376/11, M.C. e altri c/ Italia La pronuncia della Corte europea, riportata da molti quotidiani, è intervenuta sul diritto alla rivalutazione dell’in‑ dennità integrativa speciale, componente principale dell’in‑ dennizzo spettante a coloro che abbiano subito menomazioni permanenti a causa di emotrasfusioni o che siano affetti dal‑ la sindrome della talidomide. Il legislatore aveva stabilito, per limitare la spesa pubblica, di bloccare la rivalutazione della IIS in favore dei soggetti portatori di HCV, determinando così una irragionevole di‑ sparità di trattamento in contrasto con l’art. 3, comma primo, Cost., per le persone affette da epatite post‑trasfusionale ri‑ spetto a quella dei soggetti portatori della sindrome da tali‑ domide. A questi ultimi è riconosciuta la rivalutazione annua‑ le dell’intero indennizzo, mentre alle prime la rivalutazione sulla base del tasso di inflazione programmato3 è negata pro‑ prio sulla componente diretta a coprire la maggior parte dell’indennizzo stesso, con la conseguenza, tra l’altro, che soltanto questo rimane esposto alla progressiva erosione de‑ rivante dalla svalutazione. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costi‑ tuzionale della norma con la sentenza n. 293 del 9.11.11. La Corte europea ha però rilevato, accogliendo le ragioni dei ricorrenti, che nonostante ciò, essi non abbiano ancora perce‑ pito quanto loro spettante. La Corte europea ha riaffermato il principio 4 secondo cui, pur se, in linea di principio in materia civile, al legislatore non 1 Convertito, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, legge 30 luglio 2010, n. 122. 2 L’art. 11, comma 13, ha disposto che «Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la somma corrispondente all'importo dell'indennità integrativa speciale non è rivalutata secondo il tasso d'inflazione». 3 art. 2, comma 1, legge n. 210 del 1992. 4 cfr. Raffineries grecques Stran et Stratis Andreadis c. Grèce, 9 décembre 1994, o § 49, série A n –B ; Papageorgiou c. Grèce, 22 octobre 1997, § 37, Recueil des arrêts et décisions1997–VI ; National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society et Yorkshire Building Society c. Royaume‑Uni, 23 octobre 1997, § 112, Recueil des arrêts et décisions1997–VII, Zielinski et Pradal et Gonzalez et autres c. France[GC], nos /94 et 34165/96 à 34173/96, § 57, CEDH 1999–VII, Agrati et autres c. Italie, nos 43549/08, 6107/09 et 5087/09, § 58, 7 juin 2011 et Maggio et autres c. Italie, nos 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 et 56001/08, § 43, 31 mai 2011. internazionale Gazzetta 126 D i r itto I n t e r n a z io n al e è precluso di regolare con nuove disposizioni retroattive dirit‑ ti derivanti da leggi vigenti, il principio di legalità e la nozio‑ ne di processo equo sancito dall’articolo 6 § 1 Conv. ostano, se non per ragioni imperative di interesse generale, a che il legislatore intervenga sulle decisioni giudiziali delle contro‑ versie. Parte essenziale del principio di legalità è, infatti, costitu‑ ito dalla certezza del diritto che richiede, tra l’altro, che le decisioni definitive dell’autorità giudiziaria non siano poste nel nulla5. Purtroppo il legislatore italiano, carente sotto più profili, spesso dimentica concetti fondamentali come questi. La Corte ha rilevato che il d. l. 78/2010 interveniva su una materia che era oggetto di numerosi procedimenti giudiziari e che, a causa di esso, un gran numero di procedure esecutive era stato interrotto. Diritto degli Stati Uniti d’America – Class action – Responsabilità civile – Mediazione – Omologazione da parte del Giudice Il Giudice è tenuto a valutare la correttezza, sia formale sia sostanziale, l’adeguatezza e la ragionevolezza di un accor‑ do transattivo che definisca una class action e tale scrutinio deve essere tanto maggiore nel caso in cui le trattative per un bonario componimento abbiano avuto inizio prima del prov‑ vedimento autorizzativo della class action stessa. Corte Distrettuale degli Stati Uniti, Distretto meridionale di New York, sentenza 20 agosto 2013, M. et al. c/ C*** inc. Un gruppo assai numeroso di acquirenti di titoli emessi o venduti da uno dei maggiori gruppi bancari statunitensi ha promosso un’azione risarcitoria ai sensi del Securities Act del 1933 che disciplina, tra l’altro, la responsabilità degli emit‑ tenti titoli finanziari. Gli attori lamentavano che la Banca avesse fornito infor‑ mazioni non complete e non veritiere circa il proprio coinvol‑ gimento nel mercato dei mutui cd. subprime, in occasione delle 48 emissioni di titoli obbligazionari nel corso degli anni 2006/08. Avendo quindi raggiunto un accordo, attraverso la media‑ zione di un conciliatore a tal fine nominato dalla Corte, che prevede il pagamento agli appartenenti alla classe di $ 730.000.000,00, essi hanno chiesto quella che potremmo definire, nel nostro sistema giuridico, l’omologazione dell’ac‑ cordo alla Corte. Nella propria sentenza, il Giudice monocratico ripercorre lo svolgimento del giudizio. I ricorrenti lamentavano che la mancata indicazione del pesante coinvolgimento della Banca ‑ $ 66 miliardi nel mercato dei derivati per mutui, $ 100 mi‑ liardi nel mercato dei derivati per finanziamento all’acquisto di veicoli, $ 11 miliardi investiti in obbligazioni a tasso varia‑ bile, il cui valore era “evaporato” (sic!) – aveva prodotto, nel momento della scoperta di tali investimenti sbagliati il drasti‑ co deprezzamento delle obbligazioni della Banca da loro ac‑ quistate. Esaminate e risolte alcune eccezioni procedurali sollevate dalla convenuta, in fase di istruttoria, le parti iniziavano delle trattative a fini transattivi. A tal fine chiedevano al giu‑ dice di sospendere il procedimento, nominando congiunta‑ 5 Brumărescu. Romania [, § 61, GC], n. 28342/95, CEDU 1999 VII. Gazzetta F O R E N S E mente un mediatore per facilitare l’accordo nella persona di un ex giudice federale ormai in pensione. La Corte approvò quindi gli accordi preliminari, certifi‑ cando altresì l’esistenza di una classe formata da tutti coloro che avevano acquistato titoli obbligazionari emessi dalla Banca nel periodo oggetto della transazione, nominando al contempo il procuratore ed il difensore della classe stessa. Con il medesimo provvedimento, la Corte dispose la notifica a tutti coloro che avessero acquistato le obbligazioni dell’esi‑ stenza di una class action, della proposta di accordo e delle modalità per l’adesione e/o la non adesione all’azione. Il procuratore provvide alla formale comunicazione a circa 500.000 appartenenti alla classe, ricevendo soltanto 31 oppo‑ sizioni. Fissata l’udienza per l’esame della regolarità della proposta, il giudice si è riservato ed a scioglimento di essa ha emesso il provvedimento di omologazione dell’accordo. In particolare, la Corte, ricordando che vi sia una presun‑ zione di correttezza quando l’accordo venga a seguito di un negoziato serrato tra esperti e capaci difensori6 dopo un’esau‑ stiva istruttoria7, ha rilevato che l’accordo possa ritenersi conveniente alla luce di nove parametri, dettati dall’elabora‑ zione giurisprudenziale8: 1) la complessità, i costi e la proba‑ bile durata del giudizio; 2) la reazione dei membri della classe alla proposta di accordo; 3) lo stato del processo e l’avanza‑ mento dell’istruttoria; 4) il rischio di un accertamento di re‑ sponsabilità; 5) il rischio della quantificazione del risarcimen‑ to; 6) il rischio “processuale” della class action; 7) la capacità del convenuto di resistere in un giudizio molto complesso; 8) la ragionevolezza delle somme in accordo alla luce del maggior possibile recupero; 9) la ragionevolezza delle somme in accor‑ do da valutarsi alla luce dei rischi della prosecuzione del giudizio. La questione risolta, con l’attribuzione di una somma che è la seconda per grandezza in controversie relative a diritti obbligazionari negli Stati Uniti, dimostra che anche contro‑ versie di enorme complessità e coinvolgenti un esteso numero di soggetti possa essere risolta in maniera efficace ed efficien‑ te attraverso lo strumento delle class action, strumento che il legislatore nazionale si ostina a voler limitare. Inadempimento di uno Stato – Direttiva 1999/31/CE – Discariche di rifiuti –Proseguimento dell’attività in mancanza di un piano di riassetto dell’area – Obbligo di chiusura La mancata chiusura di tutte le discariche di smaltimen‑ to incontrollato dei rifiuti che sono in attività sul suo terri‑ torio e non adeguandosi agli obblighi derivanti dalla diretti‑ va 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti, costituisce inadempimento agli ob‑ blighi che incombono sugli Stati membri in forza dell’artico‑ lo 14 di tale direttiva. C.G.U.E., sentenza 18 luglio 2013, Causa C‑412/12, Commissione europea / Repubblica di Cipro 6 Deve rilevarsi una stima della professione forense da parte della magistratura invidiabile nel nostro contesto. 7 Federal Judicial Center, Manual for complex litigation (third), §30.42, 1995, Thomson West. 8 City of Detroit v. Grinnell Corp., 495, F.2d, 448, 463 (2d Circ., 1974): “la Corte è impegnata in un processo che richiede un amalgama di delicati bilan‑ ciamenti, grosse approssimazioni e giustizia sostanziale”. F O R E N S E luglio • A G O S T O La Repubblica di Cipro è stata convenuta in giudizio dal‑ la Commissione poiché nel corso della fase precontenziosa aveva dichiarato di non poter procedere alla completa chiu‑ sura di tutte le discariche funzionanti al momento dell’entra‑ ta in vigore della direttiva in parola prima del 2015, poiché a causa della sua conformazione territoriale era necessario at‑ tendere la costruzione di impianti di smaltimento prima di procedere alla disattivazione delle discariche, non potendo altrimenti smaltire i rifiuti prodotti. La Corte ha disatteso la giustificazione dello Stato mem‑ bro, ricordando che secondo la propria costante giurispruden‑ za, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini previsti da una direttiva9. La materia della gestione dei rifiuti è particolarmente nota. È opportuno solo segnalare che sono stati proposti dalla Commissione due ricorsi contro il nostro Paese iscritti ai n. C‑196/13, per l’accoglimento delle seguenti conclusioni: dichiarare che, non avendo adottato tutte le misure necessarie per conformarsi alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 26 aprile 2007, nella causa C‑135/05, nella quale è stato dichiarato che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli 4, 8 e 9 della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, dell’articolo 2, n. 1, della diretti‑ va del Consiglio, del 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e dell’articolo 14, lettere a) – c), della di‑ rettiva del Consiglio, del 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in virtù dell’articolo 260, paragrafo 1, TFUE; ordinare alla Repubblica italiana di ver‑ sare alla Commissione una penalità giornaliera pari a EUR 256 819,2 per il ritardo nell’esecuzione della sentenza nella causa C‑135/05 dal giorno in cui sarà pronunciata la senten‑ za nella presente causa fino al giorno in cui sarà stata esegui‑ ta la sentenza nella causa C‑135/05; ordinare alla Repubblica italiana di versare alla Commissione una somma forfettaria il cui importo risulta dalla moltiplicazione di un importo giornaliero pari a EUR 28 089,6 per il numero di giorni di persistenza dell’infrazione dal giorno della pronunzia della sentenza nella causa C‑135/05 alla data alla quale sarà pro‑ nunziata la sentenza nella presente causa, condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese di giudizio. Con il secondo ricorso, iscritto al n. C‑313/13, la Com‑ missione ha chiesto alla Corte di dichiarare che, poiché una parte dei rifiuti urbani conferiti nelle discariche del SubATO di Roma, inclusa quella di Malagrotta e in quelle del SubATO Latina non viene sottoposta ad un trattamento che compren‑ da un’adeguata selezione delle diverse frazioni dei rifiuti e la stabilizzazione della frazione organica, e poiché in Lazio non è stata creata una rete integrata e adeguata di impianti per la gestione dei rifiuti tenendo conto delle migliori tecniche di‑ sponibili, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi 9 Sentenze del 28 febbraio 2013, Commissione / Regno di Spagna, C‑ 483/10, non ancora pubblicata, del 7 luglio 2009, Commissione/Grecia, C–369/07, Racc. pag. I–5703, punto 45, e del 25 febbraio 2010, Commissione/Spagna, C–295/09, punto 10. 2 0 1 3 127 imposti dall’articolo 6, lettera a), della direttiva 1999/31/CE, letto in combinato disposto con l’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 1999/31/CE e con gli articoli 4 e 13 della di‑ rettiva 2008/98/CE e dall’articolo 16, paragrafo 1, della di‑ rettiva 2008/98/CE; condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese processuali. internazionale Gazzetta Questioni [ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ] È sempre possibile, in attuazione degli artt. 3 e 32 Cost., trovare tutela ex art. 700 c.p.c.? Profili processuali e costituzionali scaturenti dalle recenti richieste d’urgenza di accesso alla speri‑ mentazione e trattamenti con cellule staminali, secondo il metodo Stamina. Analisi di quattro 131 ordinanze in materia. / Domenico Spena Nesso di causalità e colpa: un percorso argomentativo tra profili logico‑scientifici ed emozio‑ 135 nali. / Elisa Asprone questioni Un Istituto scolastico statale può impugnare un provvedimento emanato da un’Amministrazio‑ ne non statale, (nella specie la Regione), avvalendosi del patrocinio di un avvocato del libero 142 Foro? / Elia Scafuri F O R E N S E ● DIRITTO CIVILE È sempre possibile, in attuazione degli artt. 3 e 32 Cost., trovare tutela ex art. 700 c.p.c.? Profili processuali e costituzionali scaturenti dalle recenti richieste d’urgenza di accesso alla sperimentazione e trattamenti con cellule staminali, secondo il metodo Stamina. Analisi di quattro ordinanze in materia ● Domenico Spena Avvocato Nel panorama dei più recenti pro‑ nunciati giurisprudenziali, in ambito di trattamento ed uso delle cellule stami‑ nali attraverso la metodica Stamina, vanno segnalate quattro recenti ordi‑ nanze, emesse tra la fine di luglio e l’inizio dell’agosto scorso. Ci si riferisce all’ordinanza del Tribunale di Bergamo del 17 luglio 2013 R.G. n. 1810/2013, all’ordinanza del Tribunale di Milano del 26 luglio 2013 R.G. 7655/2013, a quella del Tribunale di Lecco del 18 luglio 2013 R.G. n. 454/2013 e, infine, ultima in ordine temporale, a quella emanata dal Tribunale di Firenze il 9 agosto 2013 R.G. 29231/2013. L’analisi di queste ordinanze, acco‑ munate dal fatto che tutte concludono per il rigetto della richiesta di parte at‑ torea relativamente all’accesso al tratta‑ mento con cellule staminali col metodo Stamina, appare utile ai fini di una ri‑ costruzione delle problematiche, non solo di ordine processuale, che si sono poste in relazione a tali tipi di ricorsi. La prima questione che va affrontata è quella della possibilità o meno di otte‑ nere una tutela in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., in merito alla richiesta di accedere a cure di frontiera o ai pro‑ grammi di sperimentazione delle stesse. Al riguardo, il Tribunale di Lecco, in funzione di giudice del lavoro, affer‑ ma l’insussistenza del fumus boni iuris, uno dei presupposti di cui all’art. 700 c.p.c. Ciò sia sotto un profilo astratto, luglio • A G O S T O 2 0 1 3 sia sotto il profilo particolare della questione trattata. Sotto il profilo astratto, nell’ordi‑ nanza del Tribunale di Lecco si legge che nella sede cautelare d’urgenza, pro‑ prio perché caratterizzata da una cogni‑ zione necessariamente sommaria dei fatti per cui è causa a fronte di richieste oggettivamente di rilevante incidenza sulla sfera giuridica della parte conve‑ nuta, debba pretendersi un grado di valutazione prognostica di fondatezza della domanda di elevato livello; ciò deve ritenersi anche in particolare per i presupposti processuali, stante il fatto che, per la stessa ragione d’urgenza di cui sopra, il rispetto delle garanzie pro‑ cessuali rischierebbe altrimenti di subi‑ re una attenuazione, inammissibile; Sotto il profilo concreto, poi, la domanda riguarda una autorizzazione al ricorso alla infusione di cellule stami‑ nali coma da metodo Stamina Founda‑ tion, previa disapplicazione di ordinan‑ ze AIFA del 15.05.2012 e 29.11.2012 che hanno vietato ciò. Questione questa che, necessariamente, coinvolge giudizi di costituzionalità estranei alla sede cautelare. Infatti, nell’ordinanza citata si legge che, in sede cautelare, il giudice non potrebbe ipotizzare eventuali profili di illegittimità costituzionale a prescindere da una formale adozione di una rimes‑ sione degli atti alla Corte Costituzionale (iter che, peraltro, sembrerebbe incom‑ patibile con la procedura d’urgenza). Al riguardo l’ordinanza del Tribu‑ nale di Firenze, richiamando una sen‑ tenza della Corte di Cassazione, affer‑ ma che “il provvedimento d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. illegittimamen‑ te emesso con riguardo a norme che escludono il diritto con esso riconosciu‑ to e per le quali è stata sollevata que‑ stione di legittimità costituzionale con sospensione del giudizio di merito, ha carattere abnorme, in quanto è corre‑ lato solo formalmente alla previsione normativa che attribuisce efficacia temporanea al provvedimento cautela‑ re di tutela interinale dei diritti, la sorte del quale è affidata alla sentenza di merito, costituendo bensì una tutela in attesa del futuro ed eventuale rico‑ noscimento dei diritti correlativi; tale atto anomalo – la cui caducazione non può essere ancorata alla prosecuzione del giudizio di merito e all’appello – è suscettibile di ricorso per cassazione ex 131 art. 111 secondo comma Cost., che ne consente la verifica di legittimità” (co‑ sì Cass. Civ., Sez. Lav., 12 dicembre 1991, n. 13415, nonché, sulla medesima questione oggetto del presente giudizio, v. Trib. Milano, 28.05.2013; Trib. Ti‑ voli, 22 .05. 2013; Trib. Bologna, 06.05.2013, Trib. Como 7.6.2013, Trib. Firenze 12.06.2013). Infine sul punto si richiama quanto affermato dall’ordinanza del Tribunale di Milano del 26 luglio 2013: “non si ritiene di aderire all’orientamento espresso da alcune pronunce che am‑ mettono la possibilità di un controllo diffuso di legittimità costituzionale nell’ambito della fase cautelare, con rinvio alla fase di cognizione piena (ma eventuale) per sollevare effettivamente la questione, con conseguente disappli‑ cazione di una norma di legge. Com’è noto l’ordinamento italiano è caratterizzato da un sindacato di co‑ stituzionalità accentrato (art. 134 Cost., art. 1 legge Cost. n. 1/1948 e art. 23 legge n. 87/1953) che non con‑ sente mai al giudice ordinario, in alcu‑ na sede, di disapplicare la legge o emet‑ tere ‘pronunce additive’ che determini‑ no un ampliamento della platea dei destinatari della legge stessa, in base a un autonomo giudizio di incostituzio‑ nalità della disciplina vigente”. Le ordinanze in oggetto, in ogni modo, forniscono un contributo all’ana‑ lisi dei profili costituzionali collegati alla vicenda. In particolare, la questione attiene alla portata applicativa degli artt. 3 e 32 della Costituzione. Il tema della salute e della cura si muove per intero nell’orizzonte del pri‑ mo comma dell’art. 32 Cost., tra il di‑ ritto fondamentale dell’individuo alla salute e l’interesse della collettività alla salute individuale. Questo è l’unico di‑ ritto nella Costituzione per il quale si prevede un concorrente interesse della collettività, rispetto alla situazione giu‑ ridica soggettiva tutelata e che integra una pretesa generale (in ciò diversa, ed esempio, dall’istruzione – che fa riferi‑ mento, per i gradi più alti degli studi, ai “capaci e meritevoli”), azionabile in pratica solo se la Repubblica costituisce strutture e assicura servizi che lo con‑ cretizzano. Preliminarmente, però, è opportuno fare una sintesi del quadro normativo che si è succeduto a regolamentare la questioni Gazzetta 132 materia, nonché delle concrete vicende relative al caso Stamina. Il sistema normativo di riferimento, prima dell’entrata in vigore della Legge 23 maggio 2013, n. 17 (che ha conver‑ tito con modificazioni il D.L. 25 marzo 2013, n. 24), era ancorato al D.M. 5 d icembre 20 06 e a l cit ato D. L . n. 24/2013. Il D.M. 5 dicembre 2006 n. 25520 prevede la sussistenza di una serie di requisiti specificamente individuati ai fini della salvaguardia della salute del paziente. L’art. 1 comma 3 così recita: “con provvedimento del direttore generale della Agenzia italiana del farmaco (AI‑ FA), da aggiornare periodicamente, sentita la Commissione consultiva tec‑ nico scientifica della medesima Agen‑ zia, vengono elencati gli impieghi di medicinali per terapia cellulare somati‑ ca considerati clinicamente e scientifi‑ camente consolidati”. L’art.1 comma 4, aggiunge: “Fermo restando il disposto di cui al comma 3, è consentito l’impiego dei medicinali di cui al comma 1 su singoli pazienti, in mancanza di valida alternativa tera‑ peutica, nei casi di urgenza ed emergen‑ za che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave danno alla salute, nonché nei casi di grave patologia a rapida progressione, sotto la responsa‑ bilità del medico prescrittore e, per quanto concerne la qualità del medici‑ nale, sotto la responsabilità del diretto‑ re del laboratorio di produzione di tali medicinali purché: a) siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali; b) sia stato acquisito il consenso informato del paziente; c) sia stato acquisito il parere favorevole del Comitato etico di cui all’art. 6 del de‑ creto legislativo 24 giugno 20 03, n. 211, con specifica pronuncia sul rapporto favorevole fra i benefici ipo‑ tizzabili ed i rischi prevedibili del trat‑ tamento proposto, nelle particolari condizioni del paziente; d) siano utiliz‑ zati, non a fini di lucro, prodotti prepa‑ rati in laboratori in possesso dei requi‑ siti di cui all’art. 2, anche nei casi di preparazioni standard e comunque nel rispetto dei requisiti di qualità farma‑ ceutica approvati dalle Autorità com‑ petenti, qualora il medicinale sia stato precedentemente utilizzato per speri‑ mentazioni cliniche in Italia; se il me‑ q u e stio n i dicinale non è stato sperimentato in Italia, dovrà essere assicurato il rispet‑ to dei requisiti di qualità farmaceutica approvati dall’Istituto superiore di sa‑ nità, secondo modalità da stabilirsi con provvedimento del Presidente del me‑ desimo Istituto; e) il trattamento sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o in struttura pub‑ blica o ad essa equiparata; f) pregressa trasmissione all’AIFA di autocertifica‑ zione del possesso di quanto indicato nelle lettere a), b), c), d) ed e)”. Più in particolare la fattispecie era regolata, dagli artt. 1 (comma 4) e 2 (comma 1) del decreto del Ministro della salute 5 dicembre 2006, nonché dall’art. 3, comma 1, lett. f‑bis, del de‑ creto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (introdotto dall’art. 34 della legge 7 luglio 2009, n. 88, in attuazione di quanto previsto dal regolamento 2007/1394/CE del Parlamento europeo e del Consiglio 13 novembre 2007), fonti normative relative “a qualsiasi medicinale per terapia avanzata prepa‑ rato su base non ripetitiva in esecuzione di una prescrizione medica individuale per un prodotto specifico destinato ad un determinato paziente”. Da questo complesso normativo si evince innanzi‑ tutto che la produzione di tali specifici medicinali deve essere espressamente “autorizzata dall’autorità competente dello Stato membro” (così l’ art. 28, comma 2, del regolamento). Gli Stati membri devono inoltre far sì che, per tali medicinali, “la tracciabilità”, “i requisiti di farmacovigilanza”, “gli specifici requisiti di qualità” siano “equivalenti a quelli previsti a livello comunitario per quanto riguarda i me‑ dicinali per terapie avanzate per i quali è richiesta l’autorizzazione a norma del regolamento (CE) n. 726/2004” (così, l’art. 28, comma 2, del regolamento 2007/I394/CE). Lo Stato italiano individua nell’AI‑ FA (Agenzia Italiana del Farmaco) l’au‑ torità competente al rilascio dell’auto‑ rizzazione alla produzione di tali medi‑ cinali (così l’art. 3, comma 1, lett. f‑bis, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, introdotto dall’art. 34 della legge 7 luglio 2009, n. 88) e lo Stato italiano stabilisce altresì che compito specifico dell’ AIFA è di garantire (a norma della citata fonte comunitaria e della legge italiana) “la tracciabilità”, “i requisiti di farmacovigilanza”, “gli Gazzetta F O R E N S E specifici requisiti di qualità” (quelli cioè di buona fabbricazione) in modo “equi‑ valente” a quanto previsto per i medici‑ nali per terapie avanzate, per i quali è richiesta l’autorizzazione all’immissione in commercio (aic). Dal 2011, dopo il nullaosta dell’AI‑ FA, la reclamata Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia e la Stamina Foundation ONLUS formalizzano la collaborazione per il trattamento di cellule mesenchimali ed avviano la somministrazione di queste cellule su alcuni pazienti, previa acquisizione dei requisiti richiesti dalla legge. I trattamenti proseguono fino al 13 febbraio 2012, quando l’Azienda comu‑ nica a Stamina Foundation di volere temporaneamente sospendere l’arruola‑ mento di nuovi pazienti da trattare, stante il raggiungimento del previsto limite annuale. Tuttavia, a seguito dell’avvio di in‑ dagine della Procura della Repubblica di Torino e di un sopralluogo dei N.A.S. presso il laboratorio dell’Azienda, viene disposta l’interruzione delle procedure di preparazione e somministrazione del materiale biologico, in quanto non sod‑ disfacenti le norme generali e in parti‑ colare di salute pubblica. A questo punto interviene 1’AIFA, che, con ordinanza n. 1/2012 del 15 maggio 2012, vieta “con decorrenza immediata, di effettuare: prelievi, tra‑ sporti, manipolazioni, colture, stoccag‑ gi e somministrazioni di cellule umane presso l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia in collaborazione con la Stamina Foundation ONLUS, ai sensi e per gli effetti dell’art. 142 del D.lgs.219 del 2006 e s.m.i.”. Il 25 giu‑ gno 2012 l’Azienda reclamata risolve il contratto con la Stamina Foundation. Contro il provvedimento dell’AIFA è stato proposto, con esito negativo, ricorso al TAR Lombardia Brescia dai pa zient i i nteressat i, da St a m i na Foundation e dalla stessa Azienda Ospedaliera. Il 29 novembre 2012 AIFA diffida l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia ad eseguire i provvedimenti cautelari (nel frattempo intervenuti), in coerenza con l’iter previsto dal D.M. c.d. Turco del 2006, utilizzando “esclu‑ sivamente cellule staminali prodotte da cell factory autorizzate ai sensi della normativa vigente sulla sperimentazio‑ ne clinica”. F O R E N S E Ad oggi, per effetto della soppres‑ sione attuata in sede di conversione del comma 1 dell’art. 2 del D.L. 24/2013, quest’ultimo sembra l’unica fonte nor‑ mativa applicabile. Il comma 1 dell’art. 2 del predetto decreto legge conteneva una disposizio‑ ne transitoria in forza della quale, fino all’entrata in vigore del regolamento da adottarsi dal Ministero della Salute per la determinazione delle disposizioni attuative in materia di medicinali per terapie avanzate preparate su base non ripetitiva, trovava applicazione il D.M. 5 dicembre 2006. Per effetto dell’abrogazione di tale disposizione, l’attuale riferimento nor‑ mativo sembra essere costituito unica‑ mente dal D.L. 24/2013. Il D.L. n. 24/2013, convertito con modificazioni dalla I. 57/13 che all’art 2 prevede: “2. Le strutture pubbliche in cui sono stati avviati, anteriormente alla data di entrata in vigore del presen‑ te decreto, trattamenti su singoli pazien‑ ti con medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, lavorati in laboratori di strutture pub‑ bliche e secondo procedure idonee alla lavorazione e alla conservazione di cellule e tessuti, possono completare i trattamenti medesimi, sotto la respon‑ sabilità del medico prescrittore, nell’am‑ bito delle risorse finanziarie disponibili secondo la normativa vigente. 2‑bis. Il Ministero della salute, av‑ valendosi dell’Agenzia italiana del far‑ maco e del Centro nazionale trapianti, promuove lo svolgimento di una speri‑ mentazione clinica, coordinata dall’Isti‑ tuto superiore di sanità, condotta an‑ che in deroga alla normativa vigente e da completarsi entro 18 mesi a decor‑ rere dal 1o luglio 2013, concernente l’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, utilizzate nell’ambito dei trattamenti di cui al comma 2, a condizione che i predetti medicinali, per quanto attiene alla sicurezza del paziente, siano preparati in conformità alle linee guida di cui all’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1394/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007. Al fine di garan‑ tire la ripetibilità delle terapie di cui al primo periodo, le modalità di prepara‑ zione sono rese disponibili all’Agenzia italiana del farmaco e all’Istituto supe‑ riore di sanità. L’Istituto superiore di luglio • A G O S T O 2 0 1 3 sanità fornisce un servizio di consulen‑ za multidisciplinare di alta specializza‑ zione per i pazienti arruolati. L’Istituto superiore di sanità e l’Agenzia italiana del farmaco curano la valutazione della predetta sperimentazione. Per l’attua‑ zione della sperimentazione di cui al primo periodo, il Comitato intermini‑ steriale per la programmazione econo‑ mica, in attuazione dell’articolo 1, comma 34, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, vincola, fino a 1 milione di euro per l’anno 2013 e a 2 milioni di euro per l’anno 2014, una quota del Fondo sanitario nazionale, su proposta del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Confe‑ renza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al decreto del Ministro della salute 17 dicembre 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 22 febbra‑ io 2005. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apporta‑ re, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Si considerano avviati, ai sensi del comma 2, anche i trattamenti in rela‑ zione ai quali sia stato praticato, pres‑ so strutture pubbliche, il prelievo dal paziente o da donatore di cellule desti‑ nate all’uso terapeutico e quelli che siano stati già ordinati dall’autorità giudiziaria. Le strutture di cui al comma 2, e quelle che effettuano la sperimentazio‑ ne ai sensi del comma 2‑bis, assicurano la costante trasmissione all’Agenzia italiana del farmaco, all’Istituto supe‑ riore di sanità, al Centro nazionale trapianti ed al Ministero della salute di informazioni dettagliate sulle indica‑ zioni terapeutiche per le quali è stato avviato il trattamento, sullo stato di salute dei pazienti e su ogni altro ele‑ mento utile alla valutazione degli esiti e degli eventi avversi, con modalità t ali d a garantire l a rise r vatez z a dell’identità dei pazienti. 4‑bis. 11 Ministero della salute, almeno con cadenza semestrale, tra‑ smette alle competenti Commissioni parlamentari ed alla Conferenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano la documentazione di cui al comma 4 ed una relazione sugli esiti dell’attività di controllo, valutazio‑ 133 ne e monitoraggio svolta ai sensi del presente articolo nonché sull’utilizzo delle risorse stanziate per la sperimen‑ tazione di cui al comma 2‑bis. 4‑ter. Presso il Ministero della salu‑ te è istituito un Osservatorio sulle tera‑ pie avanzate con cellule staminali me‑ senchimali con compiti consultivi e di proposta, di monitoraggio, di garanzia della trasparenza delle informazioni e delle procedure, presieduto dal medesi‑ mo Ministro o da un suo delegato e composto da esperti e da rappresentan‑ ti di associazioni interessate. Ai compo‑ nenti dell’Osservatorio non sono cor‑ risposti gettoni, compensi, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati. Al funzionamento dell’Os‑ servatorio si provvede nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumenta‑ li disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Dalla lettura della norma emerge con chiarezza che i trattamenti a base di cellule staminali mesenchimali sono consentiti esclusivamente per quei pa‑ zienti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del decreto: ‑ sia stata già praticata un’infusione; ‑ sia stato effettuato il prelievo delle cellule destinate all’uso terapeuti‑ co; ‑ sia stato emesso un provvedimento dell’Autorità giudiziaria che impone la terapia. Con tale rigorosa formulazione, del tutto antitetica rispetto a quella conte‑ nuta nel decreto legge, che faceva rife‑ rimento a “medicinali per terapie avan‑ zate preparati presso laboratori non conformi ai principi delle norme euro‑ pee di buona fabbricazione dei medici‑ nali e in difformità delle disposizioni del decreto del. Ministro della Salute 5 dicembre 2006” la nuova normativa fa riferimento a terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali lavorate (A) in “laboratori di strutture pubbli‑ che” e (B) “secondo procedure idonee alla lavorazione e alla conservazione di cellule e tessuti”; e, in questo quadro e solo in questo quadro, prevede che i trattamenti già avviati prima dell’entra‑ ta in vigore del decreto legge possano essere portati a compimento. Ritornan‑ do ai profili costituzionali accennati e sulla base delle ordinanze suindicate, si può affermare che nell’art. 32, com‑ ma 1, Cost., trovano sede le questioni questioni Gazzetta 134 relative al rapporto di collaborazione tra paziente e medico, quelle inerenti al consenso informato, il rispetto e l’appli‑ cazione delle risultanze della scienza medica, il distinguo tra la cura e l’acca‑ nimento terapeutico, la valutazione sulle prestazioni da assicurare in sede di sanità pubblica (anche quali cure pallia‑ tive) e sui comportamenti che le autori‑ tà sanitarie devono suggerire dal punto di vista dell’interesse pubblico e dell’in‑ dividuo. Dall’art. 32 Cost. discende, quindi, non soltanto l’obbligo di fornire ai pa‑ zienti affetti da patologie contrassegna‑ te da inarrestabile evoluzione, prognosi infausta e assenza di trattamenti speci‑ fici, cure palliative nella speranza che possano determinare un prolungamen‑ to della vita o, comunque, alleviare le loro sofferenze, ma anche l’obbligo, in sede giudiziale, di affrontare la materia con professionalità e competenza, po‑ nendo alla base una corretta e scientifi‑ ca valutazione sulle prestazioni da assi‑ curare in sede di sanità pubblica, che è gratuita ed al servizio di tutti. Orbene risulta che nessuna autoriz‑ zazione è stata rilasciata dall’AIFA, con riferimento ai trattamenti con cellule staminali mesenchimali, secondo il co‑ siddetto metodo Stamina Foundation ONLUS, come viceversa prescritto all’art. 3, comma 1, lett. f‑bis), del de‑ creto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, introdotto dall’art. 34 della legge 7 lu‑ glio 2009, n. 88, in attuazione della prescrizione di cui all’art. 28, comma 2, del regolamento 2007/1394/CE. Esistono al contrario specifici prov‑ vedimenti AIFA, resi nell’esercizio del potere di farmacovigilanza che la legge attribuisce all’ente, ai sensi dell’art. 129 e ss., in relazione all’art. 3, comma 1, lett. f‑bis), del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, che espressamen‑ te: a) vietano l’effettuazione di “Prelievi, trasporti, manipolazioni, colture, stoccaggi somministrazione di cel‑ lule umane presso l’Azienda Ospe‑ daliera Spedali Civili di Brescia in collaborazione con la Statuina. Foundation ONLUS” (Ordinanza n. 1/2012 del 15 maggio 2012); b) diffidano “l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia dallo svol‑ gimento nei propri laboratori di qualsiasi attività di produzione di medicinali per terapie avanzate q u e stio n i con. cellule staminali mesenchima‑ li” e intimano “alla stessa Azienda Ospedaliera, per l’esecuzione dei provvedimenti cautelari dei tribu‑ nali civili …, di attivare l’ iter pro‑ cedurale previsto dal DM 5 dicem‑ bre 2006 utilizzando esclusivamen‑ te cellule staminali prodotte da cell factory autorizzate ai sensi della normativa vigente sulla sperimen‑ tazione clinica” (Diffida 29 novem‑ bre 2012). Quel che maggiormente rileva è che la metodologia seguita da Stamina Foundation ONLUS nei prelievi, tra‑ sporti, manipolazioni, colture, stoccag‑ gi, somministrazioni di cellule non se‑ gue alcun protocollo noto e, pertanto, tale attività viene svolta in palese viola‑ zione degli obblighi di tracciabilità (e, quindi, ex post di rintracciabilità) e di buona fabbricazione sanciti dal decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, intro‑ dotto dall’art. 34 della legge 7 luglio 2009, n. 88, in attuazione della prescri‑ zione di cui all’art. 28, comma 2, del regolamento 2007/1394/CE. Nell’ambito di una causa innanzi al Tribunale di Udine si può riportare quanto accertato da un CTU, il quale segnala una inadeguata validità scienti‑ fica certificata dall’US Patent Office che ha respinto la richiesta di brevettabilità del modello, sulla base della non credi‑ bilità delle prove allegate; segnala inol‑ tre una coltura delle cellule in condizio‑ ni “non GMP” (Good Manufacturing Practice) e la mancanza totale di infor‑ mazioni sui risultati clinici ottenuti, senza prove documentarie cliniche spe‑ rimentali che testimonino un minimo effetto. A ciò deve aggiungersi che – duran‑ te un accertamento compiuto a seguito di sopralluogo dell’8‑9 maggio 2012, presso l’Azienda Ospedaliera di Brescia, dai Carabinieri NAS e da due ispettori AIFA – sono emersi, nell’operato di Stamina Foundation ONLUS presso l’Azienda Ospedaliera citata, gravi e plurime violazioni dell’obbligo di trac‑ ciabilità, nonché di quello afferente i requisiti di buona fabbricazione, en‑ trambi sanciti dall’ art. 3, comma 1, lett. f‑bis), del decreto legislativo 24 apr i le 20 0 6 , n. 219, i nt rodot to dall’art. 34 della legge 7 luglio 2009, n. 88, in attuazione della prescrizione di cui al_l’art. 28, comma 2, del rego‑ lamento 2007/1394/CE. Gazzetta F O R E N S E Come evidenziato dal Tribunale di Torino nell’ordinanza 28 giugno 2013 (RG 15833/13) “nella vicenda sono presenti elementi sintomatici (assenza di protocollo; assenza di prove di effi‑ cacia; presunta idoneità a curare pato‑ logie estremamente eterogenee), che paiono rammentare tratti propri delle c.d. “cure miracolose” e, con ciò, del “quack method”, indicato dalla lette‑ ratura medica italiana ed internaziona‑ le quale connotato distintivo delle cure alternative rispetto al metodo clini‑ co‑scientifico propugnato dalla scienza medica”. In questo quadro, riportando il pensiero e le conclusioni delle ordinan‑ ze citate, nessun aggancio diretto all’art. 32 Costituzione è possibile in mancanza di ogni minimo fondamento di validità scientifica. Né la nuova nor‑ mativa può in alcun modo essere intesa come idonea ad autorizzare terapie cellulari, come quelle effettuate con il cosiddetto metodo Stamina Foundation ONLUS, che si svolgono in palese vio‑ lazione della normativa comunitaria e di quella legale che ne ha dato attuazio‑ ne. Quanto poi al principio di ugua‑ glianza sancito dall’art. 3 della Costitu‑ zione, in ordine alla limitazione dei soggetti che possono accedere ai tratta‑ menti a base di cellule staminali mesen‑ chimali, l’ordinanza del Tribunale di Firenze, richiamando anche precedenti giurisprudenziali, ne afferma il pieno rispetto sottolineando che: 1) l’individuazione dei soggetti auto‑ rizzati a continuare la cura in base al dato cronologico appare ragione‑ vole essendo stata effettuata in base al “principio etico, largamente se‑ guito in sanità, secondo cui un trattamento sanitario avviato che non abbia provocato gravi effetti collaterali non deve essere interrot‑ to” (v. relazione al disegno di legge S‑298) e in base al già avvenuto consolidamento, per effetto del rico‑ noscimento in sede giudiziale, di situazioni soggettive in capo ai pa‑ zienti. 2) L’intervento normativo realizzato con il D.L. 24/2013, effettuato in un contesto nel quale si erano succedu‑ te molteplici pronunce giurisdizio‑ nali, contrastanti tra di loro e con provvedimenti amministrativi (cfr. ordinanze AIFA più volte citate in luglio • A G O S T O F O R E N S E atti) relativi ad una terapia non an‑ cora accreditata, è stato predisposto tenendo conto da un Iato dell’obbli‑ go di protezione della salute dei cittadini e dall’altro della necessità di garantire l’utilizzo delle risorse disponibili, regolamentando per il futuro l’accesso ai trattamenti a base di cellule staminali secondo il principio di precauzione, promuo‑ vendo una sperimentazione (art. 2 comma 2 bis ss.) all’interno della quale sono garantiti l’uso di prepa‑ rati conformi ai requisiti di sicurez‑ za per i pazienti, stabiliti dalla legi‑ slazione europea, la trasparenza delle modalità di preparazione dei farmaci e la valutazione della speri‑ mentazione a cura dell’Istituto supe‑ riore di sanità e dell’AIFA. Ultimo profilo che si ritiene di evi‑ denziare è quello della competenza in tale materia del giudice del lavoro. Sul punto, nelle ordinanze succitate, si può rilevare un contrasto di posizione. Infatti, mentre l’ordinanza del Tri‑ bunale di Firenze e quella del Tribunale di Milano hanno dato una risposta positiva in ordine alla competenza in materia del Giudice del lavoro, l’ordi‑ nanza del Tribunale di Lecco ne ha so‑ stenuto la mancanza. In particolare, il Tribunale di Mila‑ no ha riaffermato il principio di diritto, più volte espresso dalla Suprema Corte, secondo cui la determinazione della competenza dipende dal contenuto della domanda proposta in giudizio (cfr. Cass. ord. 8189/12; Cass. sent. n. 8214/2009). Nel caso specifico, infat‑ ti, la domanda si concretizzava nella ri‑ chiesta, da parte del ricorrente, di usu‑ fruire gratuitamente di una prestazione previdenziale, ritenendo che il suo dirit‑ to alla salute dovesse essere garantito attraverso la somministrazione di un trattamento, consistente nella partecipa‑ zione ad una sperimentazione avviata dal Ministero della Salute. Secondo il disposto dell’art. 442 c.p.c. sono devo‑ lute Sulla base di tali premesse, e tenuto conto che l’art. 442 c.p.c. stabilisce che sono devolute alla cognizione del Giu‑ dice del Lavoro, tra le altre “…le con‑ troversie derivanti dall’applicazione delle norme riguardanti…ogni altra forma di previdenza ed assistenza ob‑ bligatorie…”, l’interprete ha ritenuto che il giudizio in oggetto rientrasse 2 0 1 3 nella cognizione dell’autorità giudizia‑ ria adita. Laddove il Tribunale di Lecco, inve‑ ce, ha sostenuto che “nel caso concreto non si comprende in base a quale crite‑ rio la causa dovrebbe rientrare nelle fattispecie di previdenza e assistenza obbligatorie di cui all’art. 442 cpc; nella causa si chiede infatti, nei con‑ fronti di un ente che non ha natura previdenziale né assistenziale, la ado‑ zione di una cura medica, ritenuta in‑ differibile; in relazione a ciò, nessuna prestazione previdenziale o assistenzia‑ le si chiede”. ● Diritto PENALE Nesso di causalità e colpa: un percorso argomentativo tra profili logico‑scientifici ed emozionali. ● Elisa Asprone Avvocato Introduzione La questione prende spunto dalla celebre sentenza del Tribunale di L’Aquila del 22 ottobre 2012, n. 380, che, con non poco clamore e risonanza mediatica, condannava per i reati di omicidio colposo e lesione colpose plurimi i componenti della Commissione Grandi Rischi, istituita presso la Protezione Civile, in riferimento al sisma avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009. Secondo i giudici delle prime cure, cioè, tale Commissione effettuava una valutazione approssimativa, generica ed inefficace, in violazione dei doveri di prevenzione e protezione nella valuta‑ zione dei rischi incombente sulla stessa, fornendo, altresì, informazioni incom‑ plete, imprecise e contraddittorie sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell’attività sismica, in tal mo‑ do vanificando le finalità di tutela dell’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da 135 altri grandi eventi che determinino si‑ tuazioni di grave rischio. Secondo il Tribunale di L’Aquila, tale condotta è idonea a porsi come antecedente causale rispetto alla deci‑ sione delle vittime di abbandonare le cautele fin ad allora seguite (evitando, ad esempio, di rimanere in casa), in grado, invece, di eludere gli effetti di‑ struttivi della scossa sismica di più ampia portata, intervenuta nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009. L’intensità di tale scossa, secondo la ricostruzione fornita dai giudici, non si pone come causa da sola sufficiente a determinare l’evento ed idonea ad elidere il nesso di causa tra le risultanze della riunione della Commissione Grandi Rischi circa lo sviluppo futuro dell’attività sismica e le morti e lesioni delle vittime, in quan‑ to evento non imprevedibile né eccezio‑ nale o atipico. 1. Breve ricostruzione dei fatti. La città di L’Aquila, è stata interes‑ sata, a partire dal giugno 2008, da una serie continuata e ripetuta di scosse, culminata nell’evento sismico di magni‑ tudo momento 6.3 del 6 aprile 2009. Lo sciame sismico precedente l’even‑ to de quo, nel periodo di riferimento, fonte di forti preoccupazioni presso la popolazione locale, sopratutto per l’ele‑ vato interessamento dei mediae per la presenza di soggetti che, creando allar‑ mismo, paventavano la possibilità di un incremento dell’intensità di tali scosse, suffragato dall’analisi del gas radon di superficie, secondo un metodo forte‑ mente criticato dalla comunità scienti‑ fica. Orbene, a seguito del prolungarsi di tale situazione e sopratutto della forte scossa del 30 marzo del 2009, il Dipar‑ timento della Protezione Civile decise di convocare, con urgenza, la Commissio‑ ne Grandi Rischi, suo organo consulti‑ vo, per offrire “una attenta disamina degli aspetti scientifici e di protezione civile relativi alla sequenza sismica degli ultimi quattro mesi verifcatesi nei territori della provincia di L’Aquila e culminata nella scossa di magnitudo 4.0 del 30 marzo alle ore 15,38 locali” (pag. 81 della senten‑ za in commento) e per prospettare pos‑ sibili scenari futuri in ordine alla peri‑ colosità di tale sciame sismico. La riunione della Commissione, formata da scienziati di levatura inter‑ questioni Gazzetta 136 nazionale, ebbe luogo il giorno dopo e, al di là della questione inerente la rego‑ lare costituzione del collegio, è interes‑ sante dar conto delle risultanze della stessa. Da quanto è dato riscontrare nel verbale emerge, da un lato, la sismicità del territorio abruzzese, regione dall’ele‑ vato rischio sismico, e, dall’altro, si ri‑ marca che, allo stato delle conoscenze scientifiche “è estremamente difficile fare previsioni temporali sull’evoluzio‑ ne dei fenomeni sismici”, “che in pas‑ sato non ci sono stati forti eventi, ma numerosi sciami che però non hanno preceduto grossi eventi (esempio in Garfagnana). Ovviamente essendo la zona di L’Aquila sismica non è possibi‑ le affermare che non ci saranno terre‑ moti” (pag. 88), che “non c’è alcuno strumento che possa avvisare che ci sarà un terremoto” (pag. 89), “non c’è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magni‑ tudo possa essere considerata precurso‑ re di un forte evento” (pag. 83). La notte del 6 aprile 2009 alle 3.32 un sisma di ben più profonda intensità colpì L’Aquila provocando i disastri a tutti noti. 2. Il profilo della colpa 2.1. Sull’analisi dei fenomeni precursori La sentenza in commento ha conte‑ stato ai membri della Commissione Grandi Rischi di avere colposamente concorso a determinare la morte e le lesioni delle vittime a causa di una va‑ lutazione approssimativa, generica ed inefficace del rischio in relazione ai doveri di prevenzione e protezione in‑ combenti sulla stessa e di aver fornito al Dipartimento Nazionale della Protezio‑ ne Civile, all’assessore alla Protezione Civile della Regione Abruzzo, al sinda‑ co di L’Aquila ed alla cittadinanza aquilana informazioni incomplete, im‑ precise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futu‑ ri sviluppi dell’attività sismica in corso; con l’effetto di aver indotto, in via esclu‑ siva, le vittime a rimanere all’interno delle rispettive abitazioni, contraria‑ mente alle consolidate abitudini di cau‑ tela, fino all’esito fatale delle ore 03.32 del 6 aprile 2009. Ricostruiti, in tal modo, i profili di colpevolezza delineati dai giudici del Tribunale di L’Aquila, occorre effettua‑ re un rilievo preliminare circa l’ordine q u e stio n i metodologico seguito dallo stesso, al‑ lorquando incentra la propria analisi dapprima sul profilo soggettivo della colpa per poi passare ad esaminare la sussistenza, sul piano oggettivo, del nesso di causalità. Si finisce, così, per anticipare giudi‑ zi circa il profilo soggettivo ancor prima di aver ricostruito il fatto sul piano oggettivo e la sua riconduzione all’agen‑ te e si affida alla dimensione psicologica una funzione tipizzante, delineata dai caratteri della regola cautelare, la cui violazione attribuisce rilevanza alla condotta. Scegliendo, dunque, di seguire l’or‑ dine metodologico della sentenza, oc‑ corre analizzare i profili inerenti il piano della colpa e la sua dubbia rico‑ struzione nel caso di specie. Uno dei punti di rilievo, considerati nella sentenza de qua,per ritenere sussi‑ stente la condotta colposa degli impu‑ tati, consiste nell’analisi dei cd. fenome‑ ni precursori. Tali sono fenomeni o insieme di fe‑ nomeni che “talvolta è possibile regi‑ strare prima di un terremoto, che “pre‑ corrono” un terremoto. Tali fenomeni consistono in anomalie o variazioni di alcuni parametri chimici o geofisici che talvolta è possibile osservare prima di alcuni terremoti come, ad esempio, le variazioni anomale della sismicità, le anomalie nella pressione atmosferica, nella temperatura o nel flusso di calore terrestre, le variazioni del campo gravi‑ tazionale e geomagnetico, le modifica‑ zioni anomale del flusso delle acque sotterranee e dei componenti chimici dell’acqua, le variazioni anomale negli sforzi crostali.” (pag. 59). I giudici del Tribunale ritengono che, dall’analisi di tali fenomeni, gli imputati avrebbero dovuto valutare il rischio del verificarsi della scossa del 6 aprile 2009. Vengono richiamati, in proposito, cinque fenomeni in presenza dei quali, secondo la sentenza de qua, è dato ri‑ scontrare una relazione intercorrente con un evento sismico futuro. Tuttavia nella sentenza stessa si af‑ ferma che, allo stato delle conoscenze scientifiche, nell’analisi dei fenomeni precursori e nella riconduzione degli stessi ad un evento sismico di più ampia portata, si riscontrano “posizioni diver‑ se e contrastanti: alla posizione di chi attribuisce ai fenomeni precursori gran‑ Gazzetta F O R E N S E de importanza e significatività come strumenti di previsione dei terremoti si contrappone la posizione di chi, invece, disconosce la possibilità di utilizzo di tali fenomeni per fare previsioni conno‑ tate da apprezzabile attendibilità.” (pag 59). Si richiamano sul punto lavori auto‑ revoli effettuati sullo studio dei fenome‑ ni precursori, i quali, però, concludono che non esiste una relazione che con certezza lega il verificarsi di un “feno‑ meno precursore” ad un evento sismico di più ampia portata. Tra l’altro, ad avviso della scrivente, i giudici male interpretano l’individua‑ zione di cinque fenomeni come sicuri precursori, rispetto ai quali poter fare previsioni su un evento sismico futuro, quando, invece, essi negli studi scienti‑ fici su citati vengono individuati come quelli che allo stato dell’arte sono meri‑ tevoli di ulteriori ricerche, per poter poi essere in un futuro considerati come precursori affidabili. V’è di più: dei cinque fenomeni menzionati, tre sono riferibili ad ano‑ malie della sismicità di fondo e i giudici impropriamente ritengono che essi fos‑ sero applicabili al caso di specie e, dunque, tali da poter essere ricondotti alla scossa determinativa dell’evento. In presenza di tali anomalie, cioè, gli esperti della Commissione Grandi Rischi avrebbero dovuto prevedere il rischio del verificarsi di un evento sismi‑ co come quello del 6 aprile 2009. Tuttavia, balza agli occhi che, ferma la loro non certa riconducibilità all’even‑ to sismico de quo, in quanto ancora in itinereè lo stato della ricerca su tali fe‑ nomeni, uno di questi tre è riferito alla quiescenza sismica (ossia anomala ridu‑ zione della sismicità di fondo), tutt’altro che riscontrabile a L’Aquila nel periodo considerato. I giudici delle prime cure sottoline‑ ano, nella ricostruzione dell’elemento psicologico del reato, la contraddittorie‑ tà della posizione della Commissione Grandi Rischi, la quale sostiene “da un lato l’impossibilità di fare previsioni (tout court) o l’impossibilità di fare previsioni supportate da un valido fondamento scientifco e, dall’altro lato (e contestualmente), esclude recisamen‑ te la riconducibilità di una sequenza di scosse di bassa magnitudo (o di molti piccoli terremoti) al fenomeno dei cd. precursori dei terremoti”. (pag. 189). F O R E N S E Uno dei profili maggiormente discu‑ tibili della sentenza in commento si rinviene proprio nella scelta dei criteri in base ai quali decide di poter utilizza‑ re una determinata teoria scientifica. Essa dà atto che, in riferimento ai fenomeni precursori, si registrano po‑ sizioni diverse e contrastanti e che questi non appaiono indici di riferimen‑ to sicuri. Non può dunque addebitarsi agli imputati la mancata valutazione, ex ante, dello sciame sismico come feno‑ meno precursore che avrebbe dovuto instaurare una relazione con la scossa del 6 aprile 2009. Un simile criterio non è in grado di giustificare l’utilizzo nel processo di una determinata teoria scientifica, quando essa non sia pacifica tra gli esperti, ma anzi ancora non consolidata e ritenuta critica dalle più autorevoli fonti scientifiche. Le leggi scientifiche che possono trovare applicazione nel processo pena‑ le infatti, sono quelle “più generalmente accolte, più condivise” (Cass. SS.UU. n. 9163 del 2005) individuate “secondo il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica” (Cass. pen. IV sez. n. 43786 del 2010). Ciò non è acca‑ duto nella sentenza in commento. V’è da evidenziare, in sostanza, che la pretesa contraddittorietà, imputata alle risultanze della Commissione Gran‑ di Rischi, sconta essenzialmente il dato imprescindibile dell’impossibilità di ogni previsione, che abbia riconosciuti riscontri nella comunità scientifica in‑ ternazionale, in ordine ai futuri svilup‑ pi di uno sciame sismico, anche protrat‑ tosi per lungo tempo, come quello di L’Aquila, con riguardo all’intensità, frequenza, al tempo e al luogo di verifi‑ cazione delle future scosse. La pretesa antinomia risultante dal verbale, laddove, da un lato, si evidenzia l’elevata sismicità del territorio aquilano e, dall’altro, l’impossibilità di evidenzia‑ re ex anteuna relazione sussistente tra lo sciame sismico ed una scossa delle dimensioni di quella della notte del 6 aprile è il riflesso dell’attuale evoluzione scientifica in tema di terremoti, che gli esperti della commissione si sono pre‑ occupati di evidenziare. 2.2. Sulla valutazione del rischio I giudici delle prime cure, ritenendo sussistente il profilo psicologico della colpa e dunque rimproverabile la con‑ luglio • A G O S T O 2 0 1 3 dotta degli agenti, sono chiari nell’affer‑ mare un principio, puntualmente ripro‑ posto, poi, in più parti nella sentenza. Sostengono, infatti, che non si vuo‑ le contestare agli imputati la mancata previsione del terremoto o la mancata evacuazione della città di L’Aquila o la mancata promulgazione di uno stato di allarme o un generico mancato allarme o un generico “rassicurazionismo”, ma la violazione di specifici obblighi in te‑ ma di previsione e prevenzione del ri‑ schio sismico. “La “base di accusa”, in altri termini, non consiste nella manca‑ ta previsione di un evento naturalistico (il terremoto) che non si può prevedere in senso deterministico o nella manca‑ ta promulgazione di uno stato di allar‑ me: non si tratta di “processo alla scienza” ma di processo a sette funzio‑ nari pubblici, dotati di particolari com‑ petenze e conoscenze scientifiche, chia‑ mati per tali ragioni a comporre una commissione statale, che, nel corso della riunione del 31.3.09, effettuava‑ no una valutazione del rischio sismico in violazione delle regole di analisi, previsione e prevenzione disciplinate dalla legge.” (pag. 183). Il giudizio di prevedibilità/evitabili‑ tà, secondo la sentenza in commento, non va calibrato sul terremoto quale evento naturale, bensì sul rischio quale giudizio di valore. Non va confuso, se‑ condo l’impianto sistematico della stes‑ sa, l’impossibilità di prevedere il terre‑ moto quale fenomeno naturale e l’im‑ possibilità di prevederne il rischio. Se, dunque, il terremoto quale fenomeno naturale non è certo evitabile, e se le attuali conoscenze non consentono di lanciare fondati allarmi per forti scosse imminenti, la corretta valutazione di prevedibilità del rischio e la completa informazione in tal senso avrebbero evitato o contribuito ad evitare la morte e il ferimento delle vittime (pag. 246). Due i rilievi principali che possono muoversi a tale iter argomentativo. In primo luogo, può dirsi che l’ad‑ debito colposo contestato agli imputati si muove sulla base di un giudizio di approssimazione, insufficienza e con‑ traddittorietà in ordine alla valutazione del rischio. In generale, può dirsi che la colpa consiste in uno scollamento tra la rego‑ la di diligenza che impone all’agente un determinato comportamento e la con‑ dotta operata nel caso concreto. 137 Tale titolo di imputazione psichica, distinguendosi dal dolo, si caratterizza per una mancata volizione dell’evento finale e per la riconduzione dello stesso ad una condotta dell’agente distaccata da una regola di diligenza che lo stesso era tenuto ad osservare nel caso di specie. Tale regola può trovare la propria fonte in norme di carattere sociale (col‑ pa generica) la cui violazione dà luogo ad un comportamento qualificabile in termini di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero nell’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica). Imprescindibile appare allora il pa‑ rametro di riferimento cui ricondurre la condotta dell’agente, lo standard da osservare per non incorrere in respon‑ sabilità colposa. Nel caso di specie, il giudizio di re‑ sponsabilità formulato a titolo di colpa avrebbe dovuto trovare, dunque, fonda‑ mento nell’individuazione di regole e di uno standard metodologico condivisi da tutta la comunità scientifica. L’imputazione in termini di negli‑ genza, imprudenza, imperizia non può che fondarsi sullo scollamento tra il comportamento tenuto dagli agenti e la regola di diligenza da osservare nel caso di specie, che impone agli stessi di tene‑ re una determinata condotta. La valutazione del rischio effettuata dalla commissione deve, cioè, raffron‑ tarsi con un comportamento alternativo imposto da una norma che avrebbe evitato o ridotto il rischio di verificazio‑ ne dell’evento dannoso. Il rimprovero colposo deve trovare la propria fonte nella discrasia tra quan‑ to affermato dalla Commissione Gran‑ di Rischi e quanto assunto dalla miglio‑ re scienza fondante uno standardmeto‑ dologico accreditato nella comunità scientifica. Tale operazione ricostruttiva non viene effettuata nella sentenza in com‑ mento. Nella parte in cui, infatti, viene evidenziato il cd. comportamento alter‑ nativo lecito, il comportamento, cioè, che gli agenti avrebbero dovuto tenere per assumere un condotta diligente, i giudici non possono sottrarsi da affer‑ mazioni tautologiche. Viene evidenziato che per rispetta‑ re la presunta regola di diligenza sa‑ rebbe bastato non dire che, ad esempio, “la semplice osservazione di molti questioni Gazzetta 138 piccoli terremoti non costituisce feno‑ meno precursore”. Ma, in tal modo, la regola di diligenza non sarebbe comun‑ que stata rispettata, imponendo alla Commissione Grandi Rischi di omet‑ tere di prospettare lo stato dei fatti e ogni possibile sviluppo della situazio‑ ne. Anche con riferimento al profilo della colpa specifica, vengono richiama‑ te norme che pongono l’obbligo di pre‑ visione e prevenzione del rischio ma non evidenziano uno standardcomporta‑ mentale di riferimento, rispetto al quale giungere alla conclusione che la condot‑ ta in concreto tenuta dalla Commissione Grandi Rischi possa risultare violativa o inosservante di tale modello di com‑ portamento. Anche nell’opera di ricostruzione del rischio come risultato della valuta‑ zione della pericolosità, vulnerabilità ed esposizione (R=PxVxE) non si dà poi atto di come in concreto la condotta della commissione risultata violativa di tale regola. L’altro punto degno di rilievo nella sentenza in commento concerne il ri‑ condurre il giudizio di rimproverabilità degli agenti non alla mancata previsione dell’evento, come nella specie verifica‑ tosi, ma nella mancata valutazione del rischio dell’evento in termini di preven‑ zione. Orbene, in primo luogo è dato rile‑ vare che ciò che si imputa è la morte e le lesioni plurime, occorse in occasione dell’evento e non una imprecisata con‑ dotta di errata valutazione del rischio, scollegata da eventi naturalistici, peral‑ tro non sanzionata penalmente. Non si muove, cioè, agli imputati un rimprovero basato sulla mera erronea valutazione del rischio sismico, ma si imputa agli stessi la morte e le lesioni delle vittime nel terremoto del 6 aprile 2009. La presunta imprudenza nella valutazione del rischio non rileva ex se, quasi come se fosse un reato di mera condotta previsto dal legislatore, ma rileva nella misura in cui determini o concorra a determinare l’evento natura‑ listico verificatosi. Non è dunque possibile procedere nella prevenzione e previsione del rischio sismico senza operare un collegamento in termini di previsione dell’evento. Nella sentenza non è in gioco un’im‑ putazione avente ad oggetto un reato di mera condotta, la violazione della rego‑ q u e stio n i la cautelare, nel caso di specie, non as‑ sorbe ed esaurisce in sé il reato. La regola di diligenza ha senso sol‑ tanto allorquando si ricolleghi all’even‑ to naturalistico. Ed ecco che appare degna di rilievo l’affermazione secondo la quale rischio e terremoto non posso‑ no essere separati. La previsione del ri‑ schio è intimamente collegata alla pre‑ visione del terremoto. Ciò in quanto il rischio varia al variare della magnitudo e localizzazione della scossa. Non potendosi dunque prevedere l’intensità, la localizzazione e il tempo di una determinata scossa, non può analizzarsi il rischio sismico provenien‑ te dalla stessa. Ragionando nel senso della senten‑ za, invero, si sovrapporrebbero due piani tra loro distinti, operando un’in‑ debita commistione tra reati di danno e reati di pericolo. Addebitare agli agenti l’inesatta valutazione del rischio avrebbe riper‑ cussione anche sul piano del principio di offensività, andando a sanzionare non il verificarsi di un evento, collegato ad una condotta colposa, ma il mero pericolo del verificarsi dell’evento, dan‑ do luogo ad una anticipazione della soglia di punibilità, non consentita nel caso di specie e non voluta dal legisla‑ tore. È questo uno dei punctum prurien‑ sdelle motivazioni della sentenza che non regge ad un’analisi più approfondi‑ ta. Tanto è vero, infatti, che quando i giudici, sono chiamati a sostenere la tenuta del loro ragionamento sul piano dell’offensività, richiamano esempi, come l’attentato, dove la soglia di puni‑ bilità è già anticipata ex antedal legisla‑ tore. 2.3.Sui destinatari dell’obbligo informativo e sulla natura consultiva della Commissione Grandi Rischi L’altro rimprovero che si muove alla condotta degli imputati si incentra sulla violazione degli obblighi informativi a vantaggio del Dipartimento di Protezio‑ ne Civile. Si contesta, cioè, la condotta degli imputati nell’aver fornito al Diparti‑ mento Nazionale della Protezione Civi‑ le, all’assessore alla Protezione Civile della Regione Abruzzo, al sindaco di L’Aquila ed alla cittadinanza aquilana informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cau‑ Gazzetta F O R E N S E se, sulla pericolosità e sui futuri svilup‑ pi dell’attività sismica in corso; con l’effetto di aver indotto, in via esclusiva, le vittime a rimanere all’interno delle rispettive abitazioni, contrariamente alle consolidate abitudini di cautela, fino all’esito fatale delle ore 03.32 del 6 aprile 2009. Occorre, a tal punto, evidenziare la natura della Commissione Grandi Ri‑ schi, onde verificare i destinatari dell’obbligo informativo e la titolarità circa l’assunzione di decisioni, in ordine alle concrete attività precauzionali da predisporre circa il sisma in atto. Con riferimento all’obbligo di infor‑ mazione gravante sulla Commissione Grandi Rischi, è da richiamare la l. n. 21 del 2006, nella parte in cui definisce la Commissione come un “organo di Con‑ sulenza tecnico scientifica del Diparti‑ mento della Protezione civile(pag. 170), incaricata di rendere pareri e proposte in ordine alle tematiche relative ai setto‑ ri di rischio. “La Commissione fornisce le indicazioni necessarie per la defini‑ zione delle esigenze di studio e ricerca in materia di protezione civile, procede all’esame dei dati forniti dalle istituzio‑ ni ed organizzazioni preposte alla vigi‑ lanza degli eventi previsti dalla presente legge ed alla valutazione dei rischi con‑ nessi e degli interventi conseguenti, nonché all’esame di ogni altra questione inerente alle attività di cui alla presente legge ad essa rimesse” (art. 9 l. 225 del 1992). Il destinatario di tale attività di studio e consulenza è, quindi, il Dipar‑ timento Nazionale della protezione ci‑ vile, sul quale grava l’obbligo di “pro‑ muovere l’attività di informazione alle popolazioni interessate, per gli scenari nazionali e l’attività di formazione in materia di protezione civile, in raccor‑ do con le regioni” (art. 5 l. 401 del 2001). Il destinatario di tali obblighi è la popolazione interessata. Sulla parte politica, poi, in relazione ad eventi di urgenza e necessità, vale richiamare l’art. 54 co. 4 del TUEL nella parte in cui affida al sindaco il potere di emanare ordinanze contingi‑ bili ed urgenti “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Sebbene, dunque, gli esperti della Commissione Grandi Rischi assunsero F O R E N S E direttamente rapporti con la stampa, esternando le loro valutazioni in merito ai possibili futuri sviluppi della situazio‑ ne e ebbero contatto con la popolazione locale, ciò non toglie la natura di orga‑ no consultivo della stessa, né elide i poteri di intervento in ordine alla ge‑ stione delle emergenze ravvisabili in capo alla Protezione Civile e agli organi politici locali. Forzato appare, dunque, ricondurre la scelta deterministica delle vittime di restare in casa o abbandonare le ordina‑ rie misure cautelari all’attività di valuta‑ zione della Commissione Grandi Rischi che, quale organo consultivo, sebbene autorevole, non può sostituirsi ai poteri di intervento nella predisposizione con‑ creta di misure o ordinanze in merito alla gestione della situazione locale. La decisione in ordine alla messa in atto di misure volte a gestire l’emergen‑ za rientra comunque nei poteri normal‑ mente attribuibili al sindaco, che gode di ampia discrezionalità in merito, non soltanto nell’anma, attraverso lo stru‑ mento dell’art. 54 TUEL, anche anche nelle concrete modalità di esercizio de‑ gli stessi. Che, dunque, questo ruolo di valu‑ tazione del livello di rischio accettabile e di conseguente adozione delle decisio‑ ni operative spetti ai politici emerge anche dalla normativa europea sul prin‑ cipio di precauzione, allorquando, nella Comunicazione 2 febbraio 2000 della Commissione europea, si evidenzia co‑ me di fronte alle possibili catastrofi, “pur essendo indispensabile una valu‑ tazione scientifica quanto più completa possibile, il giudizio su quale sia un li‑ vello di rischio accettabile per la socie‑ tà costituisce una responsabilità emi‑ nentemente politica”. 3.Sulla sussistenza del nesso di causalità Nel ricostruire il nesso di causalità tra l’evento e la condotta, i giudici di L’Aquila concentrano l’indagine sul le‑ game intercorrente tra l’inesatta valuta‑ zione dei rischi offerta dagli scienziati e l’effetto di rassicurazione che ha deter‑ minato nei cittadini la scelta volontari‑ stica di dismettere le ordinarie cautele e di rimanere all’interno degli edifici poi crollati. In particolare, i giudici basano la loro analisi su i seguenti punti: a) quale fosse l’abituale comporta‑ mento delle vittime di fronte alla minac‑ luglio • A G O S T O 2 0 1 3 cia di scosse sismiche fino al 30 marzo 2009; b) il mutamento delle abitudini del‑ le vittime a seguito della riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009; c) l’influenza che la condotta conte‑ stata agli imputati abbia esercitato, in senso causalmente rilevante, sulla deci‑ sione delle vittime di rimanere in casa. Si è quindi ritenuto sussistente il nesso di causalità e riconducibile l’even‑ to morte e lesioni alla presunta impru‑ dente valutazione dei rischi operata dagli imputati, ogni qual volta, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, è risulta‑ to che le vittime, a seguito delle risul‑ tanze della Commissione Grandi Ri‑ schi, hanno modificato le proprie abitu‑ dini e deciso di rimanere in casa. Eliminato mentalmente, secondo i giudici, l’antecedente, costituito dalla riunione della Commissione Grandi Rischi, dunque, le morti e le lesioni non si sarebbero verificate, poiché la notte a cavallo tra il 5 e il 6 aprile 2009, dopo le due scosse delle ore 22.48, di magni‑ tudo 3.9 e delle ore 00.39, di magnitudo 3.5, le vittime sarebbero certamente uscite di casa, in aderenza alle preceden‑ ti abitudini di prudenza; sicché la scos‑ sa delle ore 03.32, di magnitudo 6.3, giunta a distanza di meno di tre ore da quelle delle ore 00.39, non le avrebbe sorprese in casa (pag. 380). Tuttavia, la ricostruzione del nesso di causalità nel caso di specie si espone, ad avviso della scrivente, alle medesime critiche cui va incontro un’applicazione meccanicista della regola della condicio sine qua non, avallata da puntuali e precise leggi scientifiche di copertura che, calate nel caso di specie, consenta‑ no di affermare con “un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibi‑ lità razionale” che una condotta è cau‑ sa di un evento, esponendosi in tal modo al rischio di regressi all’infinito. Com’è noto, infatti, nella regola di causalità il procedimento di eliminazio‑ ne mentale consente di selezionare, nel novero degli antecedenti di un evento, la condizione necessaria (condicio sine qua non), cioè quella condizione che non può essere mentalmente eliminata senza che far venir meno l’evento stesso. Ovviamente, tale procedimento di verifica della regola causale presuppone la pregressa conoscenza della regola che consente di affermare che da una deter‑ 139 minata condotta scaturisce (o non sca‑ turisce) un determinato evento. La regola della condicio sine qua nonè un procedimento logico e, per il suo corretto funzionamento, è richiesta la pregressa conoscenza della legge scientifica in base alla quale una deter‑ minata condotta provoca un determina‑ to evento. Sul punto nella sentenza Franzese si legge: “in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’an‑ tecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, “già da prima”, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.” Per la verifica della causalità si è dunque storicamente fatto ricorso alla teoria condizionalistica con l’integra‑ zione di leggi scientifiche di copertura, ossia si è spiegata la successione causa‑ le attraverso il ricorso a leggi scientifi‑ che, individuate e fornite di volta in volta ai giudici dai periti e dai consulen‑ ti tecnici di parte secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico. Ancorare la regola condizionalistica a leggi scientifiche di copertura, con‑ trollabili empiricamente, di applicazio‑ ne generale, che esprimono regolarità di successione tra accadimenti, consente di non fare ricorso, nella verifica della causalità, a metodi individualizzanti e di evitare che il singolo giudice, piutto‑ sto che un fruitore di leggi scientifiche, diventi egli stesso fonte di produzione di nessi causali scientificamente non confermati. Tuttavia non sempre è agevole l’in‑ dividuare di una tale legge. Ci si è interrogati dunque in ordine alla percentuale di validità statistica della stessa per ritenere sussistente il nesso di causa nel caso di specie. Nella maggior parte dei casi della vita quotidiana, invero, non esistono regole causali con validità assoluta, per cui, data una determinata condotta, è certo che si produrrà un determinato evento. È per questo che, nella maggior parte dei casi, la verifica della causalità si basa su leggi di tipo statistico. Fino alla celeberrima sentenza Fran‑ zese vi erano disparità di vedute in dottrina e in giurisprudenza circa la percentuale di validità statistica da ri‑ questioni Gazzetta 140 chiedere alla legge scientifica di coper‑ tura. Da un lato, infatti, si richiedevano serie e apprezzabili probabilità di veri‑ ficazione dell’evento, dall’altro si esige‑ va un coefficiente pari alla certezza. Le Sezioni Unite del 2002, interve‑ nendo a dirimere il contrasto, hanno spiegato che è “sufficiente che le leggi statistiche forniscano la spiegazione causale di un evento con un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale, che dovrà essere individuato caso per caso, in ragione delle particolarità del fenomeno in considerazione” (la cd. certezza proces‑ suale). Il giudice, quindi, nell’accertamen‑ to del nesso di causalità, è chiamato ad operare secondo uno schema bifasico: deve dapprima individuare la legge scientifica di copertura astrattamente applicabile al caso in esame, per accer‑ tare poi, con un’analisi attenta e pun‑ tuale, condotta alla luce delle evidenze del caso concreto emerse nel corso del dibattimento e di tutti gli eventuali fattori condizionalistici alternativi, se il fenomeno verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di quella legge. Come affermato anche nella senten‑ za in commento, la probabilità logica, pur presupponendo e partendo da una legge scientifica, la supera e va oltre, proprio perché è caratterizzata dalla verifica aggiuntiva (condotta sulla base dell’evidenza probatoria disponibile) dell’attendibilità dell’impiego della leg‑ ge scientifica in quello specifico caso concreto. Nel caso di specie, il ricondurre la decisione delle vittime di rimanere in casa all’imprudente valutazione dei ri‑ schi contestata agli imputati pare, dun‑ que, non trovare una legge scientifica di copertura che, calandosi nel caso con‑ creto, dimostri, con un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibi‑ lità razionale, la riconduzione delle morti e lesioni al comportamento degli agenti, sì da ritenerli responsabili oltre ogni ragionevole dubbio. La scelta deterministica delle vitti‑ me di restare in casa non può ricondur‑ si esclusivamente o prevalentemente alle rassicurazioni della commissioni grandi rischi, in quanto frutto di elabo‑ razioni personali, spesso intrecciate con motivazioni totalmente avulse da rassi‑ q u e stio n i curazioni esterne, in quanto apparte‑ nenti alla sfera dell’intimo volere. La scelta delle vittime, cioè, innesca percorsi psichici che richiamano valuta‑ zioni diverse ed intrecciate tra loro. Non possono ricondursi in un rapporto di causa ed effetto con la presunta rassicu‑ razione degli esperti della commissione grandi rischi. Sopratutto, poi, si tratta di scelte frutto di elaborazioni persona‑ li, non dimostrabili con evidenza e con facilità. Non si conoscono le ragioni, sup‑ portate da leggi scientifiche di copertu‑ ra, tali da affermare con un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale che la decisione di rimanere in casa può essere stata causa‑ ta dalla condotta degli imputati. Si pensi, infatti, che di fronte alla medesima condotta, non tutta la popo‑ lazione ha reagito nel medesimo modo. In alcuni casi, infatti, le vittime sono rimaste nelle abitazioni, dismettendo le proprie ordinarie misure precauzionali. In altri casi, invece, a fronte della me‑ desima condotta rassicurante, altri han‑ no preferito abbandonare le proprie dimore. L’errore metodologico in cui è incor‑ sa la sentenza de qua si basa, quindi, su una mera applicazione del giudizio contrafattuale della condicio. Ma, da un lato, occorre dimostrare che, pur eliminando mentalmente la condotta censurata ne seguirebbe il venir meno dell’evento con un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale e, dall’altro, occorre ancorare tale nesso ad una valida legge scientifica di copertura, che trovi applicazione nel caso di specie. La possibilità di rinvenire una legge di tale natura incontra, invece, resisten‑ ze nel caso in esame. È infatti da tempo confutata la pre‑ tesa di voler inquadrare in rigidi riferi‑ menti causali situazioni che presuppon‑ gono plurime condotte umane che si intrecciano sul piano psichico. Una medesima decisione, cioè, può essere il frutto di più fattori. Stante dunque la difficoltà di ricor‑ rere a sicuri riferimenti scientifici, ap‑ pare arduo il servirsi di strumenti an‑ tropoligici, affermando che le scelte motivazionali di una persona siano, sul piano psichico, influenzate in maniera esclusiva o prevalente da una condotta esterna rassicurante. Gazzetta F O R E N S E Potrebbe, quindi, apparire invitante la tentazione, stante un non sicuro an‑ coraggio ad una legge scientifica di co‑ pertura, di rifuggire da leggi di tal specie per affidarsi al comodo terreno della probabilità logica, atta a colmare la lacuna di una regola di validità scien‑ tifica. Evidente è dunque il rischio che la capacità esplicativa della legge scienti‑ fica sia affidata o superata dall’accerta‑ mento della tenuta della probabilità logica nel caso concreto. Sarebbe convenuto, dunque, che i giudici, prima di dimostrare la validità del nesso causale nel caso concreto, operando sulla probabilità logica, aves‑ sero dato conto della validità generale delle leggi scientifiche di copertura da utilizzare ovvero avessero analizzato le massime di esperienza operanti presso la popolazione circa una propensione della stessa ad adeguarsi supinamente alle risultanze della Commissione Gran‑ di Rischi. V’è ancora da dimostrare, cioè, sulla base di una legge scientifica di copertura, che la determinazione volon‑ taristica di parte della popolazione di restare nella proprie abitazioni sia esclu‑ sivamente o prevalentemente il risultato della condotta degli esperti della Com‑ missione Grandi Rischi, escludendo quindi il concorrere di altre motivazioni personali. Tale dimostrazione non può rifuggire da regole di validità scientifica che affer‑ mino con un alto ed elevato grado di probabilità logica o di credibilità razio‑ nale il non abbandonare la propria dimo‑ ra sia derivato in maniera esclusiva o prevalente dalla condotta degli agenti. 4. Sull’interruzione del nesso di causalità Per pervenire ad una sentenza di condanna, tuttavia, non è sufficiente dimostrare la sussistenza di un rappor‑ to di causalità tra condotta ed evento. Non è sufficiente, cioè, dimostrare che se il comportamento colposo non fosse intervenuto l’evento non si sarebbe ve‑ rificato. Occorre, altresì, accertare che il nesso tra condotta ed evento non si sia interrotto per effetto di una “causa so‑ pravvenuta da sola sufficiente a deter‑ minare l’evento”(art. 41, co.2 c.p.). La norma, posta dall’articolo appe‑ na richiamato, è stata fonte di profondi contrasti interpretativi. Si riteneva, in passato, infatti, che F O R E N S E l’espressione “cause sopravvenute da s o l e s u f f i c i e n t i a d e t e r m i n a re l’evento”fosse indicativa di una serie causale del tutto autonoma, ossia di una causa che opera indipendentemente ed a prescindere da qualsiasi legame con l’azione del soggetto agente. Tale interpretazione rendeva tutta‑ v ia pleonast ic a la for mu la zione dell’art. 41 co. 2 c.p., in quanto tale regola già poteva evincersi con chiarez‑ za dall’art. 40 co. 1 c.p. L’art. 41 comma 2 c.p., dunque, per acquisire un’autonoma capacità norma‑ tiva, esclude il nesso causale non quando l’evento sia riconducibile a fatti del tutto autonomi ed indipendenti dall’azione del soggetto agente (tale situazione viene già contemplata, come visto, dall’art. 40 comma 1 c.p.), ma quanto l’evento sia riconducibile a fatti che, pur ponendosi lungo la linea di sviluppo della condotta antecedente e non essendo del tutto autonomi e scollegati dall’azione del soggetto agente, sono imprevedibili e risultano connotati da un carattere di assoluta anormalità. In tal senso è utile richiamare Cass. n. 42502/09 secondo la quale “le cause sopravvenute idonee ad esclude‑ re il rapporto di causalità non sono solo quelle che innescano un percorso causale completamente autonomo da quello determinato dall’agente, bensì anche quei fatti sopravvenuti che rea‑ lizzano una linea di sviluppo del tutto anomala e imprevedibile della condot‑ ta antecedente”. Orbene, il Tribunale procede nella considerazione di cause che potrebbero porsi come fattori causali anormali e eccezionali, come tali sufficienti, da soli, a costituire unica causa dell’evento lesivo e idonei ad interrompere il colle‑ gamento causale tra l’evento e la con‑ dotta degli imputati. Quanto alla scossa determinativa dell’evento morte e lesioni del 6 aprile 2009, i giudici ritengono che la sua ve‑ rificabilità non poteva essere esclusa alla stregua delle acquisizioni scientifi‑ che e dei dati disponibili alla Commis‑ sione Grandi Rischi. Non si è trattato, dunque, secondo i giudici di un evento eccezionale ed atipico, idoneo a porsi come causa sopravvenuta da sola suffi‑ ciente a determinare l’evento. Si tratta di un discorso non facile da svolgere, sopratutto sul piano dell’elevato tecnicismo scientifico e luglio • A G O S T O 2 0 1 3 l’argomentazione del Tribunale sembra soffrirne. Di fronte al dato che solo una parte degli edifici sono crollati in seguito alla scossa del 6 aprile 2009, la sentenza si affida non all’interpretazione scientifica dei dati in suo possesso, ma a valutazio‑ ni logiche incentrate sul piano della ragionevolezza. Si vuole evidenziare, in questa sede, non soltanto la considerazione secondo la quale solo una parte, appunto, degli edifici caratterizzati da debolezza strut‑ turale è crollata, ma sopratutto come può considerarsi tale evento rientrante nel patrimonio di prevedibilità degli agenti. Basta considerare, infatti, che gran parte del patrimonio edilizio esistente sul territorio nazionale soffre delle con‑ dizioni strutturali in cui si trovavano quelle di L’Aquila. Non può dubitarsi che tali strutture possono dunque sottostare ai rischi di un cedimento. Tale situazione venne denunciata dagli esperti della Commissione Grandi Rischi, nell’opera di valutazione effet‑ tuata. Ma non può ex antedeterminarsi in concreto l’entità dell’evento sismico che di lì a poco sarebbe intervenuto, né il tempo e il luogo. Tutti dati che, se per assurdo conoscibili, avrebbero consen‑ tito di indicare quali strutture avrebbe‑ ro retto meglio alla scossa e quali, vice‑ versa, crollate. L’evento sismico, come in concreto verificatosi la notte del 6 aprile, non può considerarsi, cioè, come evento non imprevedibile e non eccezionale, atipi‑ co, inidoneo ad elidere il nesso di cau‑ salità tra condotta ed evento che, sulla base dei dati disponibili alla Commis‑ sione, non poteva essere escluso. In tale argomentazione, il Tribuna‑ le pare confondere due piani: quello della prevedibilità di un evento sismico in qualche parte del mondo o proprio nel territorio di vaste dimensioni in cui stava avvenendo lo sciame e il piano della prevedibilità della scossa in con‑ creto verificatosi, sopratutto con ri‑ guardo alla magnitudo, al tempo e al luogo. Non può semplicisticamente osser‑ varsi, come fanno i giudici delle prime cure, che i dati in possesso della com‑ missione erano idonei a valutare il ri‑ schio di un evento di tale portata. Il giudizio probabilistico sulla ecce‑ 141 zionalità o meno di un fenomeno non può prescindere da valutazioni di inten‑ sità, di tempo e di luogo. Deve, cioè, prendersi in considerazione l’evento hic et nunc. Il verificarsi della scossa del 6 aprile non poteva, cioè, essere un logico svi‑ luppo nella sequenza causale originata dalla condotta degli imputati, in quan‑ to evento eccezionale e non prevedibile sulla base dei dati in possesso della commissione in termini di magnitudo, di luogo e di tempo. Qual era dunque il comportamento esigibile dagli esperti? Evacuare le abitazioni? In quale zona? Per quanto tempo? Si noti, infatti, che lo sciame sismico stava interessando una zona di vaste dimensioni. Come dunque poteva pre‑ vedersi che l’evento si fosse verificato proprio quella notte, di quella magnitu‑ do e in quel luogo? E quand’anche si voglia accettare l’argomentazione se‑ condo la quale non occorreva prevedere l’evento, ma il rischio dell’evento, non può poi rifuggirsi dalla considerazione che la valutazione del rischio di un evento di tale portata richiede la previ‑ sione di un evento di tale portata, in tale luogo e in tale momento; una pre‑ visione non richiedibile ex ante. Non può, dunque, condividersi che la scossa del 6 aprile costituisce un normale sviluppo della presunta impru‑ dente valutazione del rischio, in quanto si è trattato di un evento che per inten‑ sità, luogo e tempo era imprevedibile, atipico, eccezionale, idoneo ad elidere il nesso di causa. Va detto, tuttavia, che l’affermazio‑ ne di responsabilità degli imputati si alimenta dalla interferenza che i giudici ritengono ravvisabile tra il piano della non eccezionalità dell’evento e quello della prevedibilità degli eventi, secondo le capacità dell’agente modello ravvisa‑ bile nel caso di specie. Non può negarsi che, allorquando si affidi la soluzione di tali questioni ad una prognosi normati‑ vo‑valutativa che non trova un solido ancoraggio da un riscontro esplicativo sufficientemente scientifico, si propone il problema non di una interruzione del nesso di causalità, ma di una sua man‑ cata sussistenza nel caso in esame. In conclusione possono formularsi due considerazioni. In primo luogo, occorrerebbe che giudizi di così delicata natura, sopratut‑ to con riferimento alla elevata carica questioni Gazzetta 142 q u e stio n i emotiva e all’intensa pressione mediati‑ ca, si potessero svolgere in un territorio non caratterizzato da una così intima vicinitascon il luogo di verificazione dell’evento. In secondo luogo, va rilevato che un’opera di prevenzione, atta a scongiu‑ rare eventi di tale natura, deve inevita‑ bilmente passare non per un (inesigibile) sforzo di previsione oculato del rischio del verificarsi di fenomeni del genere, con riguardo all’intensità, al tempo e al luogo in cui potranno accadere tali ca‑ lamità (che, come si è detto non possono prevedersi), ma con una necessaria mes‑ sa in sicurezza dell’esistente, con impro‑ crastinabili interventi di rinforzo strut‑ turale degli edifici. Come, infatti, affermato da Rousse‑ au nella “Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona” del 18 agosto del 1756, non v’è rimedio alle calamità naturali, “do‑ potutto non è la natura che ha ammuc‑ chiato là ventimila case di sei‑sette piani”. ● Diritto amministrativo Un Istituto scolastico statale può impugnare un provvedimento emanato da un’Amministrazione non statale, (nella specie la Regione), avvalendosi del patrocinio di un avvocato del libero Foro? ● Elia Scafuri Dottoressa in Giurisprudenza La questione in esame trae spunto dalla sentenza n. 4823/2012 del Tar‑Campania emessa in data 9 ottobre 2012. L’aspetto della decisione che s’inten‑ de analizzare in questa sede è la tradizio‑ nale quaestio, pur tuttavia prospettata in termini innovativi dal Collegio giudi‑ cante, circa la possibilità, da parte di un Istituto scolastico statale, di avvalersi del patrocinio di un avvocato del libero Foro nel giudizio amministrativo. Preliminare all’analisi della senten‑ za, è la breve ricostruzione delle recenti riforme ordinamentali sull’autonomia scolastica. L’organizzazione del sistema scola‑ stico è stata riformata ad opera dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59 (“Delega al Governo per il conferimen‑ to di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazio‑ ne amministrativa” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 17 marzo 1997) e conseguentemente dai successivi provvedimenti di attuazione (in partico‑ lare il D.p.r. n. 233/1998 e il D.p.r. n. 275/1999). La riforma legislativa ha dotato le istituzioni scolastiche di perso‑ nalità giuridica ed autonomia didattica e organizzativa. Tra gli obiettivi primari ed innovati‑ vi perseguiti dall’intervento normativo figurano: la riduzione del numero delle istituzioni scolastiche; la dotazione delle istituzioni scolastiche di personalità giuridica; l’ampliamento dell’autonomia amministrativa di tali istituzioni, sia sotto il profilo didattico, che sotto quel‑ lo organizzativo e finanziario; l’attribu‑ zione della qualifica dirigenziale ai capi d’istituto in servizio. Tuttavia, ad onta delle numerose novità, la riforma non ha impedito che le istituzioni scolastiche, tuttora autono‑ me, continuino a svolgere le funzioni e ad incarnare le finalità di competenza dello Stato, così come previsto dall’art. 1, comma 3, lett. q), della L. n. 59 del 1997. Tale norma dispone, infatti, che le attri‑ buzioni in materia di ordinamenti sco‑ lastici, programmi scolastici, organizza‑ zione generale dell’istruzione scolastica e status giuridico del personale, per‑ mangono in capo allo Stato. Il D.p.r. n. 275 del 1999 (“Regola‑ mento recante norme in materia di au‑ tonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n.59”) ha poi individuato l’ambi‑ to di autonomia attribuito alle istituzio‑ ni scolastiche, segnando il confine ri‑ spetto al quale queste ultime operano come enti diversi dallo Stato, o continua‑ no ad operare come organi statali. La qualificazione delle istituzioni scolastiche come organi statali, e conse‑ guentemente come “Amministrazioni dello Stato” ai sensi dell’art. 1 del R.d. n. 1611 del 1933, non è una questione di poco momento, rilevando ai fini dell’ob‑ Gazzetta F O R E N S E bligatorietà del patrocinio dell’Avvoca‑ tura dello Stato. Com’è noto, infatti, rientrando nel genus delle “Amministrazioni dello Stato”, la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle istituzioni scolastiche spetterebbero obbligatoria‑ mente ed inderogabilmente all’Avvoca‑ tura dello Stato. Diversamente, rientran‑ do tra le Amministrazioni non statali il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato si risolverebbe in una mera facoltà eserci‑ tabile da parte dell’istituto scolastico. Così, mentre nel caso di patrocinio obbligatorio la procura eventualmente conferita ad un avvocato del libero Foro sarebbe nulla, come i conseguenti atti processuali eventualmente posti in esse‑ re, nel caso di patrocinio facoltativo non potrebbe essere messa in dubbio la legittimità, sotto il profilo generale, dell’eventuale conferimento della procu‑ ra ad un avvocato del libero Foro e la validità degli atti processuali posti in essere. È ormai palese, post‑riforma, che non possa più essere messa in dubbio la natura di “Amministrazioni dello Stato” delle istituzioni scolastiche autonome, con la conseguenza che ad esse continua ad applicarsi il patrocinio obbligatorio di cui all’art. 1 del R.d. n. 1611 del 1933, che prevede che “la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio del‑ le Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano all’Avvocatura dello Stato”. A dissipare ogni dubbio è infatti in‑ tervenuto l’art. 14, comma 7‑bis, del D.p.r. n. 275/1999, (aggiunto dall’art. 1 del D.p.r. n. 352/2001, contenente il regolamento in materia di istituzioni scolastiche), disponendo in tal senso: “l’Avvocatura dello Stato continua ad assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le Au‑ torità giudiziarie, i Collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali, di tutte le istituzioni scolastiche cui è stata attribuita l’autonomia e la perso‑ nalità giuridica a norma dell’art. 21 della legge n. 57/1997.” Ne deriva che, pur configurando, a seguito della riforma, autonomi centri d’imputazione giuridica, le istituzioni scolastiche continuano tuttora ad ope‑ rare in veste di organi statali. A conferma di tanto, l’autorevole giurisprudenza della Corte di Cassazio‑ ne ha precisato che le istituzioni “rifor‑ F O R E N S E mate”, sebbene dotate di personalità giuridica di diritto pubblico, costituisco‑ no organi dello Stato, rimanendo inseri‑ te nell’organizzazione statale, ed essendo la loro attività direttamente imputabile allo Stato (ex multis si veda: Cass. civ., Sez. lav., n. 20521 del 28.7.2008). Corollario ne è la circostanza che gli istituti de quibus appaiono titolari di situazioni giuridiche soggettive esclusi‑ vamente nei confronti di soggetti terzi, ma non nei confronti dello Stato, atteso che con esso i rapporti sono di tipo inte‑ rorganico, con impossibilità, dunque, che tali istituti dispongano di alcuna tutela in via giurisdizionale nei confron‑ ti dello Stato. Sgombrato il campo da eventuali equivoci, si può quindi pacificamente affermare che l’Avvocatura dello Stato, in via generale, è l’unico difensore attri‑ buito dalla legge alle istituzioni scola‑ stiche. Non mancano tuttavia eccezioni. L’art. 5 del R.d. citato, prevede, infatti, che le Amministrazioni statali possano richiedere l’assistenza di avvocati del li‑ bero Foro “per ragioni eccezionali, in‑ teso il parere dell’Avvocato generale dello Stato e secondo norme che saran‑ no stabilite dal Consiglio dei Ministri”. Le ragioni eccezionali contemplate dalla norma si configurano nelle ipotesi di conflitto di interesse con lo Stato (in tal senso si veda, ex multis, la recente ordi‑ nanza del Cds, sez. VI, n. 2370/2012 in cui il tenore del provvedimento fa riferi‑ mento ad una diretta contrapposizione tra Istituto scolastico e Miur), ovvero in casi speciali. Occorre poi ricordare che, ai sensi dell’art. 43 del regio decreto, l’Avvoca‑ tura può assumere la rappresentanza e la difesa in giudizio delle “Amministra‑ zioni pubbliche non statali ed enti sov‑ venzionati”, sempre che autorizzata da disposizione di legge o di regolamento, con esclusione delle “ipotesi di conflit‑ to”. Anche nelle ipotesi di patrocinio autorizzato, dunque, (per le Ammini‑ strazioni non statali e per quelle dotate di autonomia e personalità giuridica) il ricorso al patrocinio dell’Avvocatura è escluso nei casi di conflitto di interesse con lo Stato o con le Regioni, conflitto che l’Avvocatura deve obbligatoriamen‑ te rilevare e segnalare, ai sensi del III comma della stessa norma. Ancora, “salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano in luglio • A G O S T O 2 0 1 3 casi speciali non avvalersi della Avvo‑ catura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottopor‑ re agli organi di vigilanza”(IV com‑ ma art. 43 citato). Conseguentemente all’estensione del patrocinio dell’Avvocatura agli Enti pubblici, e alla novella dell’art. 11 della L. n. 103 del 1979 (che ha riformato il suddetto art. 43), l’istituto del patrocinio facoltativo come originariamente inteso, ov vero nel senso della piena discrezionalità dell’Ente di ricorrere o meno all’Avvocatura, non ha più ragion d’essere. In definitiva, l’Avvocatura dello Stato assiste l’Amministrazione e gli Enti in via organica ed esclusiva, eccet‑ tuati i casi di conflitto di interesse con lo Stato o con una Regione che abbia deliberato di servirsi dell’Avvocatura dello Stato. (Per una visione completa della tematica si veda P. Pavone, Lo Stato in giudizio, Editoriale Scientifica, Napoli, 1992, 157 e ss). Tanto brevemente premesso, tornan‑ do alla quaestio in esame, l’aspetto in‑ novativo e contestualmente delicato della sentenza sopracitata riguarda la legittimità del mandato conferito da un Istituto scolastico statale ricorrente ad un avvocato del libero Foro. Sul punto, si è espressa la recente ordinanza del Consiglio di Stato (n. 2370/2012) che, in riforma di un orientamento del Tar Abruzzo (cfr. n. 641/2011) ha espressamente afferma‑ to la nullità del mandato conferito da un Istituto scolastico ad un avvocato del libero Foro per impugnare un provvedi‑ mento amministrativo statale, atteso che: “gli istituti scolastici, sebbene for‑ niti della personalità giuridica, riman‑ gono Amministrazioni dello Stato, co‑ me tali soggetti al patrocinio esclusivo dell’Avvocatura dello Stato, patrocinio derogabile soltanto seguendo lo specia‑ le procedimento di cui all’art. 5 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611.” Vertendo sul conflitto sorto tra un Istituto scolastico e il Ministero dell’istruzione, la stessa ordinanza ha anche affermato che un contrasto meramente interno all’Ammi‑ nistrazione statale debba “trovare com‑ posizione in sede amministrativa e non giurisdizionale”. Tornando alla sentenza da esamina‑ re, la controversia sorgeva su input di un’Amministrazione statale, ovvero un Istituto scolastico statale, che agiva in 143 giudizio nei confronti della Regione Campania (Amministrazione resistente) e di un’ulteriore Scuola secondaria di primo grado. A seguito dell’operazione di “dimen‑ sionamento” del sistema scuola, (opera‑ zione che si basa su una logica di accen‑ tramento mediante l’incorporazione dei plessi più piccoli in quelli di maggiori dimensioni, o mediante la fusione tra plessi sottodimensionati), avvenuta tra‑ mite due delibere emanate dalla giunta regionale (con cui veniva dapprima ap‑ provata la riorganizzazione della rete scolastica, ed in seguito confermato il ridimensionamento), l’Istituto ricorrente veniva depotenziato con la sottrazione di alcune sezioni in favore di istituti di mi‑ nore rilievo, tra cui la Scuola resistente. Lamentando, dunque, che l’opera‑ zione si fosse risolta in una mera azione a suo detrimento – scuola già di per sè “ben dimensionata” – l’Istituto ricor‑ rente agiva davanti al Tar Campania per l’annullamento, previa sospensione, dei provvedimenti della regione Campa‑ nia. La Scuola media controinteressata, patrocinata dalla difesa erariale, si co‑ stituiva eccependo, tra l’altro: l’inam‑ missibilità del ricorso per difetto di legi‑ timatio ad processum, in quanto l’Isti‑ tuto ricorrente aveva proposto il grava‑ me rivolgendosi ad un avvocato del libe‑ ro Foro in violazione dell’art. 5 del R.d. n. 1611/1933, ed in mancanza di elemen‑ ti idonei a denotare un conflitto (ordi‑ nanza del CdS, sez. VI, n. 2370/2012); l’inammissibilità della domanda, in quanto proposta da un organo periferi‑ co dell’Amministrazione scolastica, che avrebbe potuto configurare un conflitto meramente interorganico e non inter‑ soggettivo. Con la sentenza suindicata, il Tar Campania riteneva la legittimità del mandato conferito dall’Istituto scolasti‑ co ricorrente ad un avvocato delibero Foro. Inquadrata brevemente la controver‑ sia a meri fini chiarificatori, appare ne‑ cessario esaminare i punti salienti della sentenza de qua, soffermandosi in par‑ ticolare sull’eccezione di nullità del ri‑ corso, avanzata dalla scuola convenuta, per nullità della procura ad litem. In primis, il Collegio ritiene che il ricorrente sia portatore di un interesse qualificato e differenziato a reagire contro le asserite lesioni dell’autonomia questioni Gazzetta 144 strettamente dipendente dal requisito dimensionale previsto dalle norme: l’Istituto scolastico, leso proprio negli elementi costituenti della sua stessa autonomia, avrebbe correttamente in‑ tentato il ricorso con finalità protettive per impedire illegittimi sconfinamenti ai suoi danni nell’esercizio di competen‑ ze attribuite dalla legge. Ad avviso dell’Autorità giudicante, l’interesse le‑ gittimo protetto coinciderebbe, dunque, con lo status individuato dalle norme sull’autonomia scolastica che definisco‑ no le attribuzioni degli organismi in questione. Chiarito il punto circa la legittima‑ zione a ricorrere da parte dell’Istituto, il Collegio non sembra condividere la su‑ indicata tesi della Cassazione (rectius, pur condividendo tale tesi ritiene che la stessa non colga il focus della controver‑ sia oggetto della sentenza) per cui le istituzioni scolastiche, seppur dotate di personalità giuridica di diritto pubblico, costituiscano sempre organi dello Stato. Tesi, lo si ripete, che afferma la compe‑ netrazione delle istituzioni scolastiche nell’organizzazione dello Stato – perma‑ nendo in capo a quest’ultimo la funzione “istruzione” – e ne fa discendere il co‑ rollario per cui tali istituzioni sarebbero titolari di situazioni giuridiche soggetti‑ ve esclusivamente nei confronti dei terzi, ma non nei confronti dello Stato. Al fine di giustificare la non adatta‑ bilità al caso concreto della citata sen‑ tenza, e di distinguere tale fattispecie da quella esaminata dal Consiglio di Stato con la suindicata ordinanza n. 2370/2012 (i n r i f o r m a d e l Ta r A b r u z z o n. 641/2011) – ordinanza pure evocata dalla difesa erariale – il Collegio ne evidenzia il proprium, ovvero i caratteri peculiari: ‑ la controversia è diretta a contestare provvedimenti di Amministrazioni terze, (Regione ed Enti locali coin‑ volti nel procedimento di dimensio‑ namento), che avrebbero illegittima‑ mente favorito un organo dell’ammi‑ nistrazione scolastica in danno del ricorrente Istituto; ‑ la sostanziale contrapposizione è tra due istituti scolastici, entrambi dota‑ ti di pari autonomia, ed in posizione di incompatibilità in ragione della contestata opzione che ha operato la “trasfusione” degli alunni da un istituto all’altro. Dai descritti caratteri peculiari del‑ q u e stio n i la sentenza l’Autorità giudicante fa di‑ scendere, dunque, la considerazione per cui il contrasto non possa essere ricon‑ dotto allo schema del conflitto interor‑ ganico, trattandosi di un contrasto in‑ tersoggettivo. Proseguendo, centrale appare l’esa‑ me dell’eccezione di nullità del ricorso, mossa dalla Scuola convenuta, per nul‑ lità della procura ad litem, stante il conferimento del mandato ad un avvo‑ cato del libero Foro. Invero, come obiettato dalla difesa erariale, trattandosi di un motivo di per sè assorbente di ogni altra censura sul merito della controversia, il Tar adito avrebbe potuto “rilevare la nul‑ lità del mandato conferito e dunque ritenere preclusa ogni pronuncia di merito”, piuttosto che rinviare l’appro‑ fondimento della questione alla fase del merito. L’Autorità giudicante, invece, riba‑ dendo di essersi trovata di fronte ad un rapporto conflittuale intersoggettivo, (e non interorganico, come sostenuto dal‑ la difesa erariale), afferma che l’Istituto scolastico ricorrente nella specie non agisca in veste di organo dello Stato, “ma come un diverso e confliggente centro di interessi” per cui ritiene do‑ versi applicare, in via analogica, l’art. 43 del decreto sopracitato. La norma, avente ad oggetto il c.d. patrocinio autorizzato, dispone (in particolare ai commi III e IV aggiunti dall’art. 11 della L. 3 aprile 1979, n. 103) l’esclusione del patrocinio obbli‑ gatorio dell’Avvocatura nei casi in cui le Amministrazioni pubbliche non statali e gli Enti sovvenzionati vengano a tro‑ varsi in conflitto con lo Stato o con le Regioni e nei casi speciali in cui inten‑ dano non avvalersene. A ben guardare, tale norma si riferisce esclusivamente “alle amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con regio decreto.” Il Collegio, dunque, applica analo‑ gicamente all’Istituto ricorrente (di na‑ tura statale) l’art. 43 che è espressamen‑ te rivolto alle Amministrazioni non statali ivi contemplate. Seguendo ancora l’interessante ra‑ gionamento posto in essere dall’Autori‑ tà giudicante, coerente con il meccani‑ Gazzetta F O R E N S E s m o d i appl i c a z io n e a n a lo g i c a dell’art. 43, la sentenza afferma che nella specie la mancata richiesta del parere dell’Avvocato generale dello Stato non comporti la nullità del man‑ dato, nè ravvisa nella specie l’obbligo del ricorrente di munirsi dell’autorizza‑ zione del Consiglio di istituto. Si potrebbe dunque ritenere che il Collegio faccia riferimento proprio al l’ipotesi prev ist a dal III com‑ ma dell’art. 43 che non prevede alcun obbligo per le Amministrazioni che non si avvalgano del patrocinio nei casi di conflitto; conflitto che l’Avvocatura deve obbligatoriamente rilevare e se‑ gnalare. L’aspetto particolare, già messo in luce dalla Cassazione (cfr. Cass. n. 10982/96), su cui si sofferma il Col‑ legio, è la dicotomia venutasi a creare a seguito della riforma. Posto che l’auto‑ nomia riconosciuta alle istituzioni inte‑ ressa l’impostazione organizzativa e didattica della scuola, da un lato le istituzioni sarebbero state trasformate in centri autonomi di imputazione nei rapporti nei confronti di enti terzi (rap‑ porti riguardanti attività negoziali e fatti illeciti), dall’altro le istituzioni sa‑ rebbero rimaste, nei rapporti interni, organi statali. Tuttavia, seguendo l’iter logico in‑ trapreso dall’Autorità giudicante, se le istituzioni scolastiche, per legge, conti‑ nuano ad essere ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 1 del decreto citato, e in nessun caso potrebbe verificarsi un contrasto giudiziale tra le medesime e lo Stato (cfr. sentenza Tar Calabria, Sez. II, n. 2800 del 29.11.2010; parere Avvocatura ge‑ nerale cs. 16507/00; Ordinanza del Cds, Sez. VI, n. 2370/2012), non po‑ trebbe escludersi, come nel caso di specie, un contrasto tra due centri di imputazione dell’autonomia: in tal caso, afferma la sentenza de qua, se lo Stato, in persona del Ministero competente, non interviene a risolvere il conflitto, il centro di imputazione autonomo po‑ trebbe ricorrere alla difesa di un avvo‑ cato del libero Foro. Il Collegio dunque afferma che: “Il ricorso ad un avvocato del libero foro in tale ipotesi appare non solo ammis‑ sibile, ma obbligato, in quanto il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, non tollera che possano sussistere situa‑ zioni nelle quali il patrocinio venga ri‑ F O R E N S E fiutato e non si possa adire altrimenti il Giudice.” Ad ulteriore sostegno di tale conclu‑ sione, l’Autorità giudicante distingue, nel disegno organizzativo dell’autono‑ mia scolastica, due linee direttrici diver‑ genti: ‑ l’una, quella esaminata in alcune sentenze dall’autorevole giurispru‑ denza della Cassazione (ex multis Cass. civ., Sez. lav., 6372/11), relati‑ va alle funzioni amministrative ed alla gestione del servizio di istruzio‑ ne (ivi compresi i rapporti con il personale); ‑ l’altra, quella relativa alla presenza di una soggettività giuridica con legittimazione sostanziale e proces‑ suale, attinente al piano della rico‑ nosciuta autonomia funzionale, che riguarda il caso di specie. Per la prima varrebbero, secondo il Collegio giudicante, le limitazioni pro‑ cessuali sopra richiamate – ovvero l’ob‑ bligatorietà del patrocinio dell’Avvoca‑ tura – derogabili solo seguendo la pro‑ cedura di cui all’art. 5 del regio decreto. Diversamente, per la seconda tali limi‑ tazioni non varrebbero, verificandosi l’ipotesi di conflitto con lo Stato. Ne deriva che, ove sia in contesta‑ zione la sussistenza della stessa autono‑ mia funzionale (autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimenta‑ zione e sviluppo), come nel caso di specie, debba riconoscersi all’Istituto scolastico una soggettività e legittima‑ zione autonoma. Ciò è reso evidente, ad avviso del Collegio, dallo stesso tenore del D.p.r. n. 223/98 sul dimensionamento, in quanto l’art. 1 dispone che: “Il raggiun‑ gimento delle dimensioni ottimali delle istituzioni scolastiche ha la finalità di garantire l’efficace esercizio dell’auto‑ nomia prevista dall’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, di dare stabilità nel tempo alle stesse istituzioni e di offrire alle comunità locali una plura‑ lità di scelte, articolate sul territorio, che agevolino l’esercizio del diritto all’istruzione.” Dunque è proprio la stessa normativa ad individuare, circo‑ scrivere e radicare una posizione diffe‑ renziata e qualificata del singolo istitu‑ to scolastico nei confronti degli atti le‑ sivi dell’autonomia, come conclude il Collegio. Da un’attenta lettura della sentenza luglio • A G O S T O 2 0 1 3 de qua discendono due possibilità inter‑ pretative: a) Prima facie sembra che il Tar abbia operato una vera e propria inver‑ sione logica, in quanto l’unica Ammini‑ strazione non statale coinvolta nel giu‑ dizio è la Regione Campania che, però, nel caso di specie è convenuta. Ciò con particolare riguardo all’estensione in via analogica delle prescrizioni di cui all’art. 43 del decreto citato al caso di specie, trovando tale norma applicazio‑ ne esclusiva alle Amministrazioni non statali ed agli Enti sovvenzionati. Partendo da tale presupposto si ap‑ palesa, dunque, che tutto quanto affer‑ mato dal Collegio giudicante – discen‑ dente dall’applicazione dell’art. 43 del R.d. sopracitato – varrebbe esclusiva‑ mente nel caso in cui ad intentare il giudizio fosse stata un’Amministrazio‑ ne non statale. Trattandosi, invece, nella specie, di un’Amministrazione statale – in quanto ricorrente è l’Istituto scolastico autonomo – quest’ultimo si sarebbe dovuto correttamente avvalere del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato obbligatorio ed inderogabile. Il problema della derogabilità della regola generale tramite la procedura di cui all’art. 5 del decreto citato si sarebbe potuto porre, tutt’al più, per la Scuola convenuta controinteressata. b) A ben vedere, sembra che il Tar abbia affermato una tesi innovativa quanto all’autonomia scolastica: se la qualificazione di “Amministrazione dello Stato” dell’istituzione scolastica, e quindi l’obbligatorietà del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato non può essere posta in discussione ogniqualvol‑ ta la stessa operi come organo dello Stato (in tal senso infatti è la costante giurisprudenza formatasi a proposito delle Università), nel caso di specie, non operando quale organo dello Stato, l’Amministrazione non può essere qua‑ lificata come statale. In conclusione, laddove non si vo‑ glia ritenere che il Collegio giudicante abbia operato un’inversione logica tra l’Istituzione scolastica ricorrente e la Regione Campania resistente – la sola Amministrazione non statale in giudi‑ zio – si dovrà necessariamente avallare la tesi innovativa affermata dal Colle‑ gio. L’Autorità giudicante, ritenendo che l’Istituto ricorrente nella specie non agisca in veste di organo dello Stato, 145 “ma come un diverso e confliggente centro di interessi” applica, in via ana‑ logica, l’art. 43 del decreto sopracitato. Trattandosi, dunque, di un contrasto tra due centri di imputazione dell’auto‑ nomia, e non intervenendo il Ministero a risolvere il conflitto ingeneratosi tra gli stessi avverso l’adozione di un atto emanato da un ente terzo (nella specie la Regione), l’ipotesi di impossibilità di conflitto viene a cadere, e l’Istituto non può che avvalersi del patrocinio di un avvocato del libero Foro. In merito a tale tesi innovativa, che tra l’altro riprende, con ulteriori appro‑ fondimenti, principi già affermati dal Tar Calabria, Sez. II, n. 2800 del 29 novembre 2010, residua qualche dubbio circa la possibilità di equiparare un’Isti‑ tuzione scolastica statale ad un’Ammi‑ nistrazione non statale per il solo fatto che agisca in un giudizio amministrati‑ vo a difesa della propria autonomia funzionale. Sebbene infatti la normativa sul di‑ mensionamento individui una posizio‑ ne differenziata e qualificata del singo‑ lo istituto scolastico nei confronti degli atti lesivi della propria autonomia, è palese che le norme in materia di patro‑ cinio dell’Avvocatura – tra l’altro rifor‑ mate posteriormente alla disciplina del dimensionamento – non tengano conto di tale circostanza. Tant’è che l’art. 14, comma 7‑bis, del D.p.r. n. 275/1999, (come già evi‑ denziato sopra), dispone che: “l’Avvo‑ catura dello Stato continua ad assume‑ re la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le Autori‑ tà giudiziarie, i Collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali, di tutte le istituzioni scolastiche cui è stata attribuita l’autonomia e la perso‑ nalità giuridica a norma dell’art. 21 della legge n. 57/1997”. La norma, come si evince dal dato testuale, non opera distinzioni in meri‑ to alle contestazioni fatte valere in giu‑ dizio dalle Istituzioni scolastiche ai fini dell’obbligatorietà del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Si deve dunque presumere, in difetto di un’espressa previsione legislativa in tal senso, che il patrocinio dell’Avvoca‑ tura sia obbligatorio anche nei casi in cui un’Amministrazione agisca in un giudizio amministrativo a difesa della propria autonomia funzionale. questioni Gazzetta Recensioni Il capitale sociale e le operazioni straordinarie, di Michele Nastri, Paolo Divizia, Luca Olivieri, Milano, 2012 149 recensioni A cura di Sara Frizzoni F O R E N S E ● Il capitale sociale e le operazioni straordinarie, di Michele Nastri, Paolo Divizia, Luca Olivieri Milano, 2012 ● A cura di Sara Frizzoni Dottoressa in Giurisprudenza L’Opera in commento si propone di analizzare la complessa tematica con‑ cernente il capitale sociale in pendenza delle operazioni straordinarie di tra‑ sformazione, fusione e scissione. Gli Autori, con una approfondita indagine analitica ed organica, si occu‑ pano dello studio di tutti i possibili ri‑ svolti teorico‑pratici relativi e connessi alle procedure di aumento e/o riduzione del capitale, per gli specifici casi nei quali, contemporaneamente ad esse, sia già stata deliberata una operazione straordinaria di “mutamento” dell’as‑ setto societario. Codesta trattazione è affrontata all’interno della costante evoluzione del diritto delle società: la Riforma del 2003, contraddistinta per l’incremento dell’autonomia privata e per la valoriz‑ zazione dell’elemento personale nelle società a responsabilità limitata, e gli interventi del legislatore circa l’inseri‑ mento nel nostro ordinamento della società semplificata a responsabilità li‑ mitata (decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 che ha introdotto nel codice civile l’articolo 2463 bis) e della società a re‑ sponsabilità limitata a capitale ridotto (decreto legge 22 giugno 2012, n. 83). Per l’esame dell’argomento, data la limitatezza del corpus normativo e le numerose questioni interpretative, è stato fondamentale l’ausilio delle mas‑ sime notarili. Indispensabile è stato anche il ricorso alla scienza contabile, poiché la struttura societaria “è divenu‑ ta via via strumento ineludibile della produzione, intesa come luogo dell’ organizzazione amministrativa da una parte, e di valutazione omogenea dei valori aziendali e delle prospettive pro‑ duttive dall’altra”. m aggio • giug n o 2 0 1 3 La materia, di rilevante interesse notarile, presenta molti aspetti di criti‑ cità, gli Autori, al fine di adiuvare il lettore nella comprensione e per offrire spunti di riflessione, si sono avvalsi di numerosi grafici e di una copiosa esem‑ plificazione. In particolare, ad una preliminare introduzione attinente, in linea genera‑ le, gli ambiti definitori delle tematiche affrontate, con specifico riferimento alla nozione di “operazione straordina‑ ria” e di “operazione sul capitale” (in rapporto ai differenti modelli societari allo stato vigenti e disciplinati nel no‑ stro ordinamento), fa seguito una det‑ tagliata ed esaustiva disamina delle problematiche circa tutte le possibili varianti del capitale sociale durante l’operazione di trasformazione. Ed in‑ vero, gli Autori prendono in considera‑ zione, con raro rigore dogmatico, l’au‑ mento del capitale sociale a titolo gra‑ tuito, operazione considerata di mero carattere contabile nella trasformazio‑ ne omogenea progressiva e regressiva, e ritenuta, al contrario, rilevante sul profilo operativo in tre casi: se non proporzionale prodromico ad una tra‑ sformazione regressiva, nella s.r.l. in previsione della trasformazione pro‑ gressiva in s.p.a. ed infine, nel caso di aumento gratuito diretto all’adegua‑ mento del valore nominale minimo delle partecipazioni in vista di una trasformazione da società di persone ovvero da società di capitali in società cooperativa. La lettura dell’Opera pro‑ segue con lo studio analitico dell’au‑ mento del capitale sociale a titolo one‑ roso, operazione di carattere reale e non meramente contabile, che mostra molteplici problematiche nelle ipotesi di trasformazione omogenea progressi‑ va e di trasformazione da s.r.l. a s.p.a., esaminate dettagliatamente in conside‑ razione della presenza di particolari posizioni soggettive (socio assente, so‑ cio presente favorevole all’operazione trasformativa ma contrario al versa‑ mento di quanto di sua spettanza per l’integrazione del capitale sociale “di arrivo”, ingresso del terzo, socio d’ope‑ ra…). Segue una stimolante descrizione della riduzione nominale e reale del capitale contestuale alla trasformazio‑ ne. Con grande tecnica di approfondi‑ mento circa la riduzione nominale del capitale sociale, gli Autori esaminano la particolare situazione della riduzione 149 “a zero” e “sottozero” (differente in base alla tipologia societaria “di arri‑ vo”), la riduzione del capitale sociale in pendenza dello stato di liquidazione (c.d. trasformazione liquidativa, cioè “quell’ipotesi di trasformazione volta semplicemente ad agevolare il compi‑ mento della liquidazione, mediante l’adozione di strutture organizzative più semplici e meno onerose”), e l’ipo‑ tesi della riduzione nominale del capi‑ tale posteriore alla trasformazione ma da essa dipendente. La riduzione reale, a seguito della Riforma, ha carattere facoltativo e volontario, nel rispetto dei limiti ex art. 2445 c.c. e di quelli elabo‑ rati dalla dottrina per esigenze di coor‑ dinamento con altre norme codicisti‑ che. Infatti, oltre ai limiti espressamen‑ te previsti dall’art. 2445 c.c., ulteriori sono stati desunti da altre disposizioni del codice, tra cui quelli connessi alla necessità di mantenere il rapporto pro‑ porzionale tra capitale sociale e catego‑ rie di azioni con voto limitato (art. 2351 secondo comma c.c.) oppure tra patri‑ monio netto e patrimoni destinati (art. 2447 bis secondo comma c.c.). Inoltre, è stato motivo di dibattito in dottrina, l’individuazione di altri limi‑ ti alla riduzione volontaria in relazioni a particolari circostanze sociali, come lo stato di liquidazione o la presenza di perdite. Dopo avere analizzato le con‑ seguenze di tale riduzione nella trasfor‑ mazione progressiva delle società di persone, il testo si concentra puntual‑ mente sulla trasformazione regressiva da s.p.a. a s.r.l. e sulla trasformazione da s.p.a. in società cooperativa. Succes‑ sivamente gli Autori approfondiscono, mediante una eccellente analisi, le mo‑ difiche del capitale in funzione della fusione o della scissione, affrontando anche le principali novità introdotte con il decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 123, diretto a semplificare gli adempimenti richiesti in tali operazioni straordinarie. A seguito di una attenta descrizione circa l’importanza del rap‑ porto di cambio, è esaminato l’aumen‑ to di capitale a servizio e “non a servi‑ zio” di tale rapporto. Di particolare interesse è lo studio degli effetti gene‑ rati dalla presenza di perdite rilevate prima dell’avvio del procedimento di fusione/scissione, nel caso in cui la perdita sia di oltre un terzo del capitale sociale senza, però, ridurlo al di sotto del minimo legale (art. 2446 c.c. per le recensioni Gazzetta 150 s.p.a., e art. 2482 bis c.c. per le s.r.l.), e nel caso in cui la perdita superi il terzo del capitale sociale e questo si riduca al di sotto del minimo legale (art. 2247 c.c. per le s.p.a., e art. 2482 ter c.c. per le s.r.l.). Un intero capitolo è dedicato alla fondamentale importan‑ za della relazione di stima richiesta nelle operazioni di fusione e scissione (art. 2501 sexies, settimo comma c.c., per la fusione di società di persone con società di capitali, disposizione alla quale rinvia per la scissione l’art. 2506 ter, terzo comma c.c.) tale relazione è volta a garantire l’indispensabile prin‑ cipio di effettività del capitale sociale, “tale principio trova la sua espressione più significativa nella disciplina dei conferimenti, diretta a garantire la re c ens i on i corretta valorizzazione dei beni appor‑ tati dai soci e la loro effettiva acquisi‑ zione da parte della società, sia in sede di costituzione che di aumento di capi‑ tale”. Per completezza, gli Autori sot‑ tolineano che a seguito di recenti inter‑ venti legislativi sono state indicate al‑ cune ipotesi in cui la relazione di stima può essere esclusa (decreto legislativo 4 agosto 2008, n. 142 che ha introdotto gli articoli 2343 ter e 2343 quater c.c. e modificato l’art. 2440 c.c. e il decreto legislativo 29 novembre 2010 che ha recato alcuni cambiamenti alle dispo‑ sizioni in precedenza introdotte e agli articoli 2440 e 2443 c.c.). Dopo aver analizzato analiticamente le operazioni sul capitale sociale che assumono ca‑ rattere funzionale all’operazione di Gazzetta F O R E N S E fusione o scissione, il testo si conclude dedicandosi alle operazioni di carattere “occasionale” in pendenza di tali ope‑ razioni straordinarie, analizzando: l’operazione di aumento, di riduzione e l’emissione di prestiti obbligazionari. L’Opera di rilevante spessore scien‑ tifico ed attualità, mediante una note‑ vole disamina degli istituti in esame, permette al lettore di orientarsi con abilità nel cuore di una macchinosa branca del diritto societario, quale quella attinente agli esiti del capitale sociale in relazione alle operazioni stra‑ ordinarie di trasformazione, fusione e scissione. Come supra anticipato, tale percorso è agevolato dal costante utiliz‑ zo di grafici ed esempi inseriti all’inter‑ no del testo. Indice delle sentenze Diritto e procedura civile CORTE DI CASSAZIONE Cass. civ., sez. III, 30.08.2013, n. 19963 s.m. Cass. civ., sez. III, 22.08.2013, n. 19405 s.m. Cass. civ., sez. II, ord. 09.08.2013, n. 19148 s.m. Cass. civ., sez. I, 04.08.2013, n. 16751 s.m. Cass. civ., sez. I, 01.08.2013, n. 18443 s.m. Cass. civ., sez. Un., 29.07.2013, n.18184 s.m. Cass. civ., sez. Un., 24.07.2013, n. 17931 s.m. Cass. civ., sez. Un., 22.07.2013, n. 17781 s.m. TRIBUNALE Trib. Nola, coll. B), 17.07.2013, n. 1782 s.m. Trib. Nola, coll. B), 03.07.2013, n.1708 s.m. Trib. Nola, coll. A), 02.07.2013, n.1703 s.m. G.i.p / G.u.p. Napoli, 26.06.2013, n. 1569 s.m. Napoli, 21.06.2013, n. 1524 s.m. Napoli, 03.06.2013, n. 1330 s.m. Napoli, 04.07.2013, n. 1642 s.m. Napoli, 04.07.2013, n. 1653 s.m. Napoli, 02.07.2013, n. 1604 s.m. Cass. civ., sez. I, 17.07.2013, n. 17467 s.m. Cass. civ., sez. II, 09.05.2013, n.10989 (con nota di Valletta) Cass. civ., sez. III, 22.03.2013, n. 7273 (con di Scuotto) Diritto amministrativo TRIBUNALE CONSIGLIO DI STATO Cons. Stato, sez. V, 30.08.2013, n. 4328 s.m. Cons. Stato, sez. V, 27.08.2013, n. 4278 s.m. Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4193 s.m. Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4191 s.m. Cons. Stato, sez. V, 25.07.2013, n. 3966 s.m. Cons. Stato, sez. V, 25.07.2013, n. 03963 s.m. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3811 s.m. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3802 s.m. Trib. Napoli, sez. II Lav., ord. 04.07.2013, Giud. U. Lauro s.m. Trib. Nola, sez. II, 01.07.2013, Giud. R. De Luca (con nota di Restucci) Trib. Napoli, 27.06.2013, Giud. U. Macrì s.m. Trib. Napoli, sez. dist. Portici, ord. 12.06.2013.Giud. E. Quaranta s.m. Trib. Napoli, sez. X, 22.05.2013, Giud. C. d’Ambrosio s.m. Trib. Napoli, sez. X, 13.05.2013, n. 6114 (con nota di Sabbatini) Diritto e procedura penale CORTE DI CASSAZIONE Cass. pen., sez. IV, 18.06.2013, n. 29246 s.m. Cass. pen., sez. V, 29.05.2013, n. 27246 s,m, TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE T.a.r. Campania‑Napoli, sez. I, 26.07.2013, n. 3964 s.m. T.a.r. Campania‑Napoli, sez. I, 10.07.2013, n. 3579 s.m. T.a.r. Lazio‑Roma, sez. II, 20.05.2013, n. 5021 (con nota di Barbieri) Cass. pen., sez. III, 21.05.2013, n. 28356 s.m. Cass. pen., sez. IV, 15.05.2013, n. 28184 s.m. Cass. pen., sez. Un., 28.03.2013, n. 28243 s.m. Cass. pen., sez. VI, 27.03.2013, n. 26285 s.m. Cass. pen., sez. Un., 28.02.2013, n. 27343 (con nota di Pignatelli) Cass. pen., sez. VI, 20.02.2013, n. 29037 s.m. Cass. pen., sez. Un., 31.01. 2013, n. 25401 (con nota di Pignatelli) Cass. pen., sez. I, 11.01.2013, n. 6324 (con nota di Falato) Cass. pen., sez. IV, 10.01.2013, n. 27591 s.m. Diritto internazionale C.E.D.U., sez. II, 03.09.2013, ricorso n. 5376/11, M.C. e altri c/ Italia (con nota di Romanelli) Corte Distr. Stati Uniti, Distr. meridionale di N.Y., 20.08.2013, M. et al. c/C. inc. (con nota di Romanelli) C.G.U.E., 18.07.2013, Causa C‑412/12, Comm. europea/Rep.Cipro (con nota di Romanelli)