La tecnica del “dettato” nell`educazione linguistica. Note sul contesto

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La tecnica del “dettato” nell`educazione linguistica. Note sul contesto
Education et Sociétés Plurilingues n°25-décembre 2008
La tecnica del “dettato” nell’educazione linguistica.
Note sul contesto d’insegnamento della scuola valdostana.
Antonella MALARA
Cet article se propose de vérifier le rôle quantitatif e qualitatif que la pratique de
l’écriture sous la dictée a pendant un siècle assumé à l’école. La dictée fut en effet une
constante dans l’enseignement des langues italienne et française en Vallée d'Aoste.
L’analyse, conduite à partir d’un corpus de cahiers de l’école élémentaire, met en
évidence l’évolution des objectifs – pas seulement linguistiques – que cette typologie
d'écriture a poursuivie, en rapport avec les changements socio-politiques et par la suite
avec les hypothèses pédagogiques et éducatives qui ont été élaborées.
The aim of this article is to examine the quantitative and qualitative role played for
over a century by the practice of writing under dictation in schools. Dictations were a
permanent feature in the teaching of Italian and French in the Aosta Valley. Based on
a collection of elementary school notebooks, our analysis shows how the exercise
developed, not only from a linguistic point of view, but also in connection with the
socio-political changes that took place and also with the pedagogical and educational
hypotheses that followed.
PREMESSE
Luisa REVELLI
La pratica del dettato rappresenta da secoli una costante nell’insegnamento
delle lingue materne e di quelle straniere. Tradizionalmente, quello della
scrittura sotto dettatura è in effetti ritenuto l’esercizio più efficace per
l’acquisizione degli automatismi grafemici e per la fissazione delle
convenzioni ortografiche. Negli anni più recenti, e non soltanto in ambito
italiano, il suo valore glottodidattico è stato, tuttavia, messo in discussione:
il modello della dettatura dell’insegnante è stato criticato in quanto
contrassegnato da ritmi dell’eloquio eccessivamente scanditi rispetto a
quelli del parlato autentico, da curve intonative falsate rispetto a quelle
naturali, da un approccio metodologico ripetitivo, tendente a relegare gli
apprendenti ad un ruolo passivo e esecutivo. Quasi assurto a emblema della
didattica più molesta, il dettato è, insomma, piano piano stato pressoché
escluso dalle prassi di insegnamento delle lingue materne, e permane in
genere oggi soltanto nell’insegnamento delle lingue straniere con scopi
meramente valutativi delle competenze ortografiche. Eppure, il senso della
scrittura sotto dettatura non riguarda soltanto la corretta associazione dei
suoni ai grafemi corrispondenti; se ben impostata, anzi, può mettere in
moto l’attivazione di riflessioni di ordine morfo-sintattico, legate agli
accordi e a tutti quei fenomeni di cui solamente la lingua scritta rende conto
così come strategie per lo sviluppo di capacità di anticipazione, inferenza e
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presupposizione che fanno riferimento a quella expentancy grammar che
tanta parte ha nei processi di comprensione e costruzione dei significati (1):
durante il processo di dettatura, infatti, l’apprendente non si limita a
tradurre la lingua parlata in lingua scritta, ma interpreta anche
semanticamente le parole pronunciate dall’insegnante, verificandone la
contestualizzazione per cogliere e precorrere gli sviluppi di contenuto. In
una prospettiva di insegnamento plurilingue, poi, la tecnica del dettato può
essere efficacemente adottata non soltanto per sollecitare comparazioni tra
suoni e rese grafiche, ma anche per riflettere sulle specificità –
morfologiche, lessicali, sintattiche – che caratterizzano i diversi codici del
repertorio e per riflettere sulle ipotesi interlinguistiche che gli apprendenti
elaborano a proposito delle diverse lingue oggetto di insegnamento.
È per questa ragione che può essere utile, oggi, ripensare alla pratica del
dettato con la consapevolezza di quali possano essere stati nel passato gli
errori che ne hanno generato il progressivo abbandono, e quelle che si
prospettano invece come potenzialità didattiche fruttuose e innovative.
In questa direzione va il contributo di Antonella Malara, sintesi di uno
studio effettuato per la tesi di laurea quadriennale discussa presso la Facoltà
di Scienze della Formazione dell’Università della Valle d’Aosta (2). Il
lavoro di analisi, condotto a partire da quaderni scolastici relativi all’ultimo
ottantennio di scuola, è stato finalizzato a verificare quale ruolo
quantitativo e qualitativo abbia assunto la pratica del ‘dettato’ nel contesto
d’insegnamento della lingua italiana nelle prime classi della scuola
primaria valdostana, anche in rapporto alle esercitazioni di scrittura
parallelamente condotte per la lingua francese. Al fine di delineare i tempi
e le modalità attraverso le quali la tecnica del dettato si è andata
modificando, sono stati analizzati e posti in relazione con i differenti
programmi didattici istituzionali di riferimento variabili quali la frequenza
della scrittura sotto dettatura in rapporto ad altre tipologie di scrittura
(copiatura, autodettatura), gli obiettivi di volta in volta perseguiti, le
progressioni dei contenuti ortografici, morfo-sintattici e lessicali oggetto di
addestramento e, infine, le modalità di correzione e valutazione da parte
degli insegnanti. I risultati cui lo studio ha condotto evidenziano una
progressiva rarefazione e un parallelo, moderato rinnovamento qualitativo
delle esercitazioni di dettatura praticate nell’insegnamento della lingua
italiana, cui si affianca un sostanzialmente immutato permanere delle
esercitazioni condotte per l’insegnamento della lingua francese, nel cui
ambito la “dictée” costituisce ancora oggi, e non soltanto nell’ordine di
scuola primaria, una delle tecniche più diffuse. In direzione di una
prospettiva che preveda una maggiore integrazione dell’insegnamento delle
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due lingue potrebbero allora andare gli sviluppi applicativi di una pratica
didattica spesso vituperata, e tuttavia rivalutabile, a patto di saperne
riconoscere le effettive potenzialità.
Note
(1) L’attivazione dei meccanismi di anticipazione e interpretazione durante i processi di
scrittura sotto dettatura è stata messa in evidenza relativamente alla lingua inglese da
J.W.Oller già negli anni Settanta (Language Tests, Longman, Londra, 1979). Più di
recente, P.E.Balboni (Tecniche didattiche per l’educazione linguistica: Italiano, lingue
straniere, lingue classiche, Utet Libreria, Torino, 1998: 75-79 e 147-149 ) ha suggerito
una “rivisitazione” del dettato anche nella didattica della lingua italiana proponendone
varianti quali il dettato-cloze e la dicto-comp(osition), capaci di conferire
all’esercitazione un ruolo acquisizionale più complesso e profondo di quello
semplicemente ortografico.
(2) Tesi di laurea discussa nell’anno accademico 2005/2006 nell’ambito
dell’insegnamento di Didattica della lingua italiana di cui è titolare chi scrive.
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Il dettato nella didattica della lingua italiana
Le indicazioni programmatiche ministeriali che si sono avvicendate nel
corso dell’ultimo secolo di scuola italiana citano costantemente, fra le
molte pratiche didattiche disponibili per l’insegnamento delle lingue
materne e straniere, quella del dettato. Può allora essere il caso, prima di
addentarci nell’analisi dei materiali presi in considerazione per il presente
lavoro, di ripercorrere rapidamente le indicazioni nazionali di riferimento,
non soltanto perché punti di riferimento istituzionali per gli insegnanti, ma
anche in quanto preziose fonti di informazioni sui “climi” politici e sociali
in cui si sono collocate le differenti tendenze pedagogico-didattiche
individuabili all’interno dei tre corpora presi in considerazione, relativi
rispettivamente agli anni scolastici 1920-1921; 1983-1984; 2001-2002 (tutti
i quaderni esaminati fanno riferimento al primo anno di scuola elementare).
Le disposizioni in vigore nei primi anni Venti erano quelle dei Programmi
(1) del 1905, nati in un momento in cui in Italia il fenomeno
dell’analfabetismo era ancora diffusissimo. Sotto il profilo che qui ci
interessa, in questi programmi è riservato ampio spazio all’apprendimento
della lingua italiana, che per gran parte degli apprendenti costituiva un
idioma del tutto nuovo, appreso soprattutto o esclusivamente a scuola, e
che in Valle d’Aosta si affiancava come codice alto alla lingua francese
(Raimondi 2006). Dalla lettura dei programmi relativi alla lingua italiana
appare con evidenza come il dialetto, lingua materna per gran parte degli
alunni, fosse considerato in maniera del tutto negativa, in quanto ritenuto
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fonte di errori ortografici e grammaticali. Mentre si proponeva
l’apprendimento della lingua italiana secondo il modello letterario del
fiorentino (Lo Duca 2003), la pratica del dettato assumeva un aspetto di
rilievo in ogni classe: “l’esercizio della dettatura è l’esercizio collettivo per
eccellenza, e diverrà sempre un più potente ausilio dell’insegnamento
linguistico”.
Nelle prime classi il dettato svolgeva prevalentemente un ruolo di esercizio
di ortografia, mentre in quelle successive diveniva anche un mezzo per
integrare le nozioni del libro di testo. In modo particolare, nelle classi
prime la dettatura doveva essere costituita da parole e proposizioni brevi e
semplici. Solo con il progredire delle competenze di scrittura il dettato
doveva divenire sempre più complesso sotto il profilo ortografico,
morfologico e sintattico, e implicare, anche, l’inserimento dei diversi segni
di interpunzione. Particolare riguardo doveva essere rivolto agli esercizi di
copiatura e di calligrafia, che in effetti nei quaderni esaminati
rappresentano, accanto ai dettati, il repertorio di esercizi di scrittura
nettamente prevalente. I dettati svolgevano, inoltre, un ruolo di educazione
morale e di insegnamento storico con fini patriottici. Questi due aspetti
risultano con evidenza dalla scelta delle intestazioni dei dettati testimoniati
nei quaderni, come dimostrano titoli del tipo “Tu ami e onori tuo papà”,
“Lavina è pietosa coi poveri”, “I soldati italiani sono valorosi”, “Io amo il
Re d’Italia.”
Il secondo corpus di quaderni preso in considerazione ci porta a compiere
un salto temporale di un sessantennio. Le disposizioni ministeriali di
riferimento sono, benché già molto invecchiate, quelle del 1955 (2), il cui
principio ispiratore è riconducibile al personalismo cattolico che assegna
alla scuola una funzione importante nell’insegnamento religioso,
considerato come fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa.
Anche in questo caso, viene data particolare importanza all’educazione
morale, tuttavia i contenuti dei testi proposti risultano meno orientati verso
la stereotipia che caratterizzava l’epoca precedente, e maggiormente
indirizzati a educare al senso della responsabilità personale e della
solidarietà umana. Qui di seguito, due esempi:
Fanciullo sano
Il fanciullo sano è sempre lieto. Corre, salta, canta, gioca, lavora, studia volentieri.
Non è mai stanco.
Si corica presto e dorme tutta la notte. Si sveglia contento, pronto a riprendere con
gioia la fatica di ogni giorno.Si lava con cura perché sa che la pulizia è salute,
bellezza, bontà.
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Tre parolette da imparare
Tre parolette che suonano così bene sulle labbra di grandi e piccini.
Una è: permesso. Permesso si dice per entrare in una stanza, per entrare in casa
d’altri, per passare davanti alle persone, per prendere un oggetto di cui si sta servendo
un altro.
La seconda è: scusi. Capita a tutti di fare qualche piccola cosa che può dare noia, si
ripara domandando scusa.
La terza infine è: grazie. Grazie per qualunque cosa che ti venga data o prestata,
grazie per qualunque insegnamento, consiglio o indicazione;grazie a chi ti lascia
passare dopo che tu hai chiesto permesso. Queste paroline sono come tre sorelle che
aiutano gli uomini a vivere in armonia.
Chi le usa poco, è poco gentile.
I Programmi del 1955 affermano che l’acquisizione della lettura e della
scrittura deve essere il risultato di una personale scoperta dello scolaro, e
che la scrittura, fin dall’inizio, deve essere considerata come una delle
espressioni della personalità degli apprendenti. Si accenna anche alla
pratica del dettato, che deve mirare ad assicurare la padronanza delle più
comuni norme ortografiche, ma – viene precisato – la conquista della
lingua scritta non va basata sull’impiego di esercizi artificiosi. Le
indicazioni programmatiche ministeriali, quindi, sembrano attribuire al
dettato un ruolo e uno spazio decisamente inferiori che nel passato.
Il declino della pratica del dettato non è, tuttavia, ad essi direttamente
collegato. La cosiddetta “rivoluzione glottodidattica”, infatti, riceve la
spinta più forte a partire dagli anni Settanta, riflettendosi concretamente nel
mondo della scuola soltanto a partire dal decennio successivo. Prima degli
anni Ottanta, l’azione educativa si orientava sostanzialmente nella
repressione dei dialetti, principalmente finalizzata all’imposizione di un
modello di “buon italiano” coincidente con la lingua della letteratura e
degli “autori”. Il linguaggio a cui si doveva condurre gli apprendenti era di
tipo aulico e ricercato. I cambiamenti che nel corso del tempo e dello
spazio le lingue subiscono erano considerati elementi negativi, e compito
dell’istruzione era quello di reprimerli. Si riteneva che proprio la
memorizzazione di regole e stilemi, acquisiti attraverso l’esercizio della
scrittura sotto dettatura, riuscisse a condurre gli studenti ad appropriarsi di
una lingua nazionale, alternativa alle parlate locali. Il dibattito che negli
anni Settanta si sviluppò intorno all’educazione linguistica prese invece in
considerazione i diversi fattori sociali dello svantaggio linguistico,
interrogandosi sul modello di lingua adottato a scuola, nei suoi rapporti tra
lingua italiana, lingue minoritarie, dialetti e varietà. Grazie a questi nuovi
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apporti teorici, ci si avvicinò ad un nuovo modo di fare educazione
linguistica, che proponeva, anche, nuove modalità di avvicinamento
all’apprendimento della scrittura, decisamente più attente agli aspetti
motivazionali ed al riconoscimento di una pluralità di registri, di modi e di
situazioni secondo cui la lingua si può realizzare. Tutte queste nuove
considerazioni contribuirono negli anni Ottanta a una nuova riformulazione
delle disposizioni scolastiche che sfociarono nei Programmi didattici per
la scuola primaria del 1985 in cui, per la prima volta, l’atteggiamento
verso l’identità linguistica e culturale di ciascun allievo era espressa in
termini di rispetto e valorizzazione. La scrittura sotto dettatura non è
inclusa fra le pratiche raccomandate, e anzi viene precisato che anche
“dettare alla classe un argomento quale spunto per gli alunni a svolgere la
loro composizione scritta non è pratica didattica accettabile se,
preventivamente, non ci si sarà adoprati a far convergere su
quell'argomento l'interesse degli alunni medesimi” (3). La pratica del
dettato perde, così, il suo primato per lasciare spazio ad attività più
motivanti, più divertenti e diversificate, cui si affianca – sotto il profilo
metodologico – un nuovo modo di concepire l’errore, la correzione e la
valutazione, considerate parti necessarie di tutto il processo di
apprendimento (Altieri Biagi (a cura di) 1986).
Continuità e fratture
Entrando nel merito delle testimonianze offerte dai quaderni, può essere
utile verificare come le indicazioni programmatiche istituzionali si siano
effettivamente tradotte nella prassi didattica quotidiana. Un primo aspetto
di interesse può essere quello relativo alla frequenza con cui i dettati
compaiono nell’arco dell’ottantennio esaminato, e all’interno dei tre anni
scolastici presi a campione.
In generale, appare con chiarezza che la presenza del dettato va
progressivamente rarefacendosi: mentre nei quaderni degli Venti esso
costituisce un esercizio quotidiano, in quelli relativi agli anni Ottanta
compare al massimo con cadenza settimanale, e giunge quasi a scomparire
nelle testimonianze relative ai primi anni del nuovo secolo. Rispetto ai
programmi di riferimento, si può quindi notare che la corrispondenza tra
prassi didattica e quanto prescritto istituzionalmente è vera soltanto per
quanto concerne il primo e il terzo corpus. Negli anni Ottanta, invece,
laddove le indicazioni programmatiche prevedono che “l’usuale esercizio
dello scrivere (…), anche sotto dettatura, senza esercizi artificiosi, miri ad
assicurare, la padronanza delle più comuni norme ortografiche” le
testimonianze degli esercizi di dettatura risultano essere ancora frequenti.
Soltanto nei primi anni del nuovo millennio il significativo decremento
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delle attività di dettatura manifesta in modo evidente che il dettato doveva
essere sentito dagli insegnanti come un esercizio anacronistico e privo di
senso, se non inscritto in un contesto ben definito e con obiettivi chiari e
precisi, differenti dalla semplice esercitazione ortografica.
Altri aspetti, accanto a quello della frequenza, ci segnalano cambiamenti di
sostanza rispetto alla concezione del dettato come tipologia testuale e
tecnica di insegnamento, il primo dei quali riguarda la lunghezza.
Considerato che i dettati esaminati appartengono tutti alla prima classe, è
evidente che si tratta di esercitazioni finalizzate principalmente
all’acquisizione della corretta associazione tra fonemi e grafemi. Non
stupisce, quindi, che le testimonianze relative agli anni Venti e Ottanta
presentino caratteristiche di gradualità, con un continuo e progressivo
incremento del numero delle parole e delle righe, incremento rimarcabile in
maniera particolare nei primi mesi di scuola. Una volta raggiunto un livello
minimo di sicurezza ortografica, a partire dai mesi primaverili, in entrambi
i corpora la lunghezza del dettato viene invece sottoposta a fasi alterne di
relativo progresso o diminuzione, in rapporto all’argomento e ai contenuti
del testo.
I quaderni del corpus più recente non presentano, invece, una progressione
nel numero delle parole presenti, né, apparentemente, un graduale
innalzamento del livello delle difficoltà ortografiche, sintattiche e lessicali.
Probabilmente per gli insegnanti contemporanei il dettato non rappresenta
più, effettivamente, il veicolo privilegiato per l’insegnamento delle
competenze di scrittura, che vengono perseguite attraverso altre tecniche
glottodidattiche invece abbondantemente testimoniate e evidentemente
ritenute più efficaci sotto il profilo motivazionale e anche strumentale.
Le tecniche per l’insegnamento della letto-scrittura, in effetti, hanno subito
negli ultimi decenni innovazioni decisive sotto una molteplicità di aspetti.
Mentre, ad esempio, nei due corpora più antichi i dettati delle prime classi
sono scritti rigorosamente in corsivo, quelli più recenti sono sempre in
stampatello maiuscolo, carattere impiegato in modo prevalente o anche
esclusivo per tutto il primo anno di scuola. Gli stessi approcci metodologici
evolvono in modo significativo con l’avvento dei cosiddetti metodi
“globali”, che tendono, in molti casi, a soppiantare i precedenti metodi
grafici, grafico-fonetici e sillabici.
Rispetto alle funzioni didattiche assunte dal dettato, poi, si osserva come
esso abbia ricoperto diversi ruoli funzionali nei differenti momenti storici.
Nelle testimonianze degli anni Venti, esso svolge nei primi mesi di scuola
un compito di puro controllo ortografico e di memorizzazione dei diversi
grafemi, con l’insistita ripetizione di singole parole e frasi.
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Successivamente, con la progressione delle competenze degli allievi,
diviene anche un mezzo per veicolare informazioni di tipo religioso, morale
e patriottico, e anche un’occasione per fornire agli apprendenti strumenti
linguistici per parlare delle loro esperienze di vita (ad esempio, “Nel mio
fienile vi è un grosso vespaio”, “La capra è la mucca del povero, essa dà
latte buono e nutriente e la carne”).
Negli anni Ottanta il dettato continua ad assolvere un duplice ruolo, di
controllo delle competenze ortografiche e di mezzo per veicolare
informazioni. I contenuti, però, sono meno impegnati, e prevalentemente
narrativi e descrittivi (“Benvenuta Pasqua”, “Pomeriggio di primavera”).
Occasionalmente il dettato può anche trasformarsi in strumento per
introdurre riflessioni e esercitazioni di tipo grammaticale, con consegne del
tipo “Sottolinea nel dettato tutte le azioni presenti”, o testo a partire dal
quale avviare verifiche relative alla comprensione (con relative domande a
risposta aperta o chiusa) o alla capacità di rielaborazione (del tipo
“Continua tu la storia…”).
Nei dettati relativi all’ultimo corpus, il dettato perde del tutto la funzione
veicolare di contenuti morali e religiosi, e diviene punto di partenza per lo
svolgimento di diverse attività di riflessione sulla lingua, che invitano gli
apprendenti a individuare singoli grafemi, nessi consonantici, rime, ecc. o a
dimostrare l’avvenuta comprensione del teso trascritto:
Dettato
C’era sopra la panchina una bella bistecchina.
C’erano anche lì vicino un colombo ed un gattino, una rana e una capretta, un tacchino
e una civetta.
Beh, com’è, come non è, la bistecca più non c’è. Sai tu dir chi l’ha mangiata, la
bistecca abbandonata?
In ultimo, occorre ricordare un ulteriore aspetto che è stato oggetto di
grandi cambiamenti e innovazione, e cioè quello relativo alla correzione e
valutazione. Rispetto alle prassi della scrittura sotto dettatura il momento
della correzione ha sempre svolto un ruolo centrale e fondamentale. Il
sistema relativo ai giudizi è, però, mutato nel corso degli anni: si è passati
da scale di valutazioni numeriche, presenti nei documenti degli anni Venti,
a giudizi sintetici, come per esempio “molto bene”, “bene”, “discreto” o
addirittura, a partire dagli anni Ottanta, a espressioni ancor più stringate,
quali “sì” e “visto”.
Nei dettati relativi ai primi due corpora il riscontro valutativo appare con
una certa continuità, anche se non sempre con coerenza. Per contro, nei
testi dei parlanti d’inizio XXI secolo, il voto non è presente in maniera così
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regolare e puntuale. A differenza di quanto avveniva nel passato, in effetti,
secondo gli orientamenti più recenti la correzione non coincide con la
sanzione dell’errore e la conseguente valutazione. L’errore, semmai, è
indizio e spia del processo di apprendimento di ogni singolo apprendente,
strumento ricco di potenzialità informative per l’insegnante, che può
orientare in maniera più efficace il proprio percorso didattico, prevedendo
attività di rinforzo e di consolidamento di un particolare “item” ortografico
o sintattico. È forse per questa ragione che nei quaderni più recenti non si
trovano tanti interventi correttivi di tipo risolutivo, con la sottolineatura in
rosso della forma scorretta, né di tipo sostitutivo, con la permuta della
parola errata con la corrispondente corretta, ma piuttosto soluzioni che
prevedono l’attivazione di tecniche quali l’autocorrezione (Cattana et al.
2004).
Conclusioni
A conclusione di questo rapido excursus sulla storia del dettato nel contesto
d’insegnamento della lingua italiana in Valle d’Aosta occorre rilevare, da
un lato, come esso abbia ricoperto nell’ottantennio preso in esame un ruolo
significativo ma in progressivo disuso sia fra le tecniche di insegnamento
della scrittura, sia come veicolo per la trasmissione di contenuti. Se è vero
che l’esercizio della scrittura sotto dettatura effettuato in maniera pedante
negli anni Venti risulterebbe nella realtà odierna inaccettabile, occorre
tenere presente che questa metodologia poteva invece bene adattarsi alle
esigenze dell’epoca, quando l’italiano era lingua straniera per gran parte
degli apprendenti, e il dettato costituiva uno strumento per insegnare il
codice e allo stesso tempo veicolare nozioni disciplinari in una situazione
di estrema povertà, in cui anche l’accesso ai libri di testo costituiva un
problema in molti casi insormontabile.
Mi pare, allora, che oltre alle riflessioni su quanto e come la tecnica del
dettato possa oggi essere ancora considerata pratica didattica valida e
raccomandabile nell’insegnamento della lingua madre e delle lingue
straniere, un’indagine di taglio qualitativo e diacronico sulla sua diffusione
possa offrire molti stimoli per l’analisi dei cambiamenti – culturali, sociali
e linguistici – che hanno accompagnato e anche condizionato un secolo di
scuola valdostana.
Note
(1) R.D n° 43 del 29-01-1905, I nuovi programmi per la scuola elementare. Per questo
e i successivi riferimenti a programmi didattici ministeriali si rimanda a Catarsi 1990.
(2) DPR n° 503 del 14.06.1955, Programmi della scuola elementare.
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(3) DPR n° 104 del 12.02.1985, Programmi didattici per la scuola primaria.
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