La città scomparsa degli Inca

Transcript

La città scomparsa degli Inca
Unità
3
I GENERI: IL RACCONTO DI AVVENTURA
Anthony Horowitz
La città scomparsa degli Inca
Si misero in moto. Prima i due indios, poi Matt e Pedro, che continuava a inciampare mentre si abituava alle scarpe nuove, e infine Atoc,
in retroguardia. Matt aveva sperato che sarebbero scesi, ma a quanto
pareva il sentiero continuava a salire. La foresta non era impenetrabile come aveva creduto. Qualcuno, molto tempo prima, vi aveva intagliato una scala e, anche se orami i gradini erano quasi invisibili,
sconnessi e coperti di licheni, risalivano sicuri il pendio, serpeggiando
tra gli alberi.
– Se dovete riposare, ditelo – raccomandò loro Atoc.
Matt strinse i denti. Avevano percorso solo una breve distanza e già
gli mancava il fiato... non perché il pendio fosse troppo ripido, ma
perché l’aria era ancora più rarefatta che a Cuzco: gli bastava accelerare il passo per sentirsi pulsare le tempie e bruciare i polmoni. Il segreto stava nel mantenere un’andatura regolare, un passo alla volta,
senza mai alzare lo sguardo, perché questo serviva solo a ricordargli
quanta strada c’era ancora da fare. Si rigirò la llibta in bocca, augurandosi che funzionasse davvero.
Il caldo aumentò a mano a mano che il sole saliva nel cielo e non
passò molto tempo prima che Matt sentisse il sudore scorrergli lungo
la schiena. Tutto attorno a loro era umido, e quando si appoggiò a un
albero, la sua mano vi affondò come in una spugna. L’aria stessa sembrava formata da goccioline di umidità che gli stillavano fra i capelli
e gli scorrevano in rivoli sul viso. Ben presto Pedro si fermò per togliersi il poncho, e Matt lo imitò. Uno degli indios si affrettò a prenderli e dalla sua espressione fu chiaro che non avrebbe accettato discussioni al riguardo. Non che Matt avesse intenzione di protestare:
doveva ricorrere a tutta la sua energia solo per camminare. Ormai
dovevano avere salito almeno cinquecento scalini, ma la cima non
sembrava più vicina.
Una puntura improvvisa strappò un grido a Matt. Si schiaffeggiò un
braccio, ma un istante dopo fu punto di nuovo, stavolta sul collo.
Aveva voglia di piangere, imprecare, urlare. Fino a che punto le cose
potevano ancora peggiorare? Atoc lo raggiunse e gli tese un pezzo di
stoffa che conteneva un unguento puzzolente.
– Moscerini – spiegò. – Sono i puma waqachis: significa “insetti che
fanno piangere il puma”.
– Come capisco il puma – brontolò Matt. Prese un po’ di unguento e
se lo spalmò sul corpo, dove si mescolò subito al sudore. Ormai i vestiti gli stavano incollati come una seconda pelle. Un altro moscerino
gli punse una caviglia. Matt chiuse un momento gli occhi e si rimise
in moto.
La città scomparsa degli Inca
Si fermarono un paio di volte per bere dalle bottiglie di plastica che le
loro guide avevano nello zaino. Matt si costrinse a prenderne soltanto
un sorso, ben sapendo che quella provvista doveva servire a dissetare
tutti e cinque.
Di colpo si chiese se la vista gli stesse giocando un brutto tiro, perché
la foresta gli appariva annebbiata e sfocata, ma poi si rese conto che
il calore del sole ormai alto nel cielo stava trasformando l’umidità in
vapore. In breve furono avvolti da una nebbia così densa da riuscire
a stento a vedersi l’un l’altro.
– Restate vicini! – La voce di Atoc sembrò scaturire dal nulla, come se
provenisse da un altro pianeta. – Manca poco.
E poi, di punto in bianco, emersero dalla foresta e si trovarono sul
bordo di un canyon smisurato, sotto il cielo limpido e davanti a una
catena montuosa dalle vette innevate, alcune così alte che sembravano protendersi verso i confini dello spazio. Matt era sfinito, sudato
fradicio e con un tremendo mal di testa, ma nonostante tutto provò
un senso di esultanza. Abbassò lo sguardo e vide che nel canyon stava
piovendo... però la pioggia era sotto di loro. Avevano superato il livello delle nuvole.
– Guarda – Atoc indicò una montagna vagamente simile a una testa
umana. – Mandango – spiegò. – Il Dio Addormentato.
Pedro raggiunse Matt e si fermò ansimando al suo fianco, sul bordo
dell’abisso. Balbettò poche parole in spagnolo che fecero sorridere
Atoc per la prima volta da quando lui e Matt avevano parlato quella
mattina. – Dice che sta malissimo – tradusse per Matt. – Ma che tu stai
peggio.
– Ora che facciamo? – chiese Matt.
– Manca poco – lo rassicurò Atoc. – Però attento: se cadi, il fondo è
molto lontano...
Non esagerava. Uno stretto sentiero tagliava un fianco del canyon,
puntando verso il basso, e Matt immaginò che fosse stato scavato a
mano nella roccia. La sua superficie era piatta e lucida quasi come le
strade di Cuzco, ma non altrettanto larga: in alcuni punti c’era un
metro scarso fra la parete rocciosa e il precipizio e sarebbe bastato un
passo falso per cadere... cadere... cadere. Vide un gregge di pecore, o
forse di lama, brucare nella pampa ai piedi del canyon: a quella distanza, sembravano formiche. In mancanza di alberi a proteggerli dal sole,
non passò molto prima che a Matt cominciassero a scottare il viso e
le braccia. Quel paesaggio smisurato lo faceva sentire insignificante,
una nullità.
Continuarono a scendere per più di un’ora, mentre il variare della
pressione tappava e stappava le orecchie a Matt. Quanto tempo era
passato dalla colazione? Non lo sapeva... però sapeva di non poter
andare avanti ancora per molto. Aveva le gambe indolenzite e le scarpe nuove gli avevano procurato una collezione di vesciche. Finalmen-
Unità
3
I GENERI: IL RACCONTO DI AVVENTURA
te, dopo l’ennesima curva, si trovarono davanti una piattaforma di
solida roccia fiancheggiata da una serie di gradini, la cui vista gli fece
tirare un respiro di sollievo.
A quanto pareva, il loro viaggio stava per finire.
Erano arrivati.
E lì, edificata sul bordo del canyon, sorgeva un’incredibile città in
miniatura. Non una città moderna. Sotto molti aspetti ricordava
Cuzco, e Matt pensò che dovevano essere state costruite dallo stesso
popolo, forse più o meno nello stesso periodo.
Per cominciare, nella roccia erano state scavate una sessantina di ampie terrazze, alcune coltivate e altre adibite a pascolo, che sporgevano
dal fianco della montagna simili a giganteschi ripiani. La città vera e
propria era un insieme di case, templi, palazzi e magazzini, tutti costruiti con enormi blocchi di pietra trasportati chissà quando attraverso la foresta e sopra le montagne. Al centro della città si apriva un
grande rettangolo erboso: un luogo di riunione, un campo sportivo,
il centro della vita quotidiana. Senza bisogno che glielo dicessero, Matt
intuì che lì non c’erano né elettricità né automobili né altre tracce di
modernità, eppure quelle non erano rovine. La città era viva e pulsante di attività. Parecchi vivevano lì e la consideravano casa loro.
– Dove siamo? – sussurrò.
– Vilcabamba! – Era stato Pedro a rispondere.
Atoc annuì lentamente. – La città perduta degli Inca. Molti grandi
uomini l’hanno cercata per centinaia d’anni, ma nessuno l’ha trovata.
Impossibile trovare Vilcabamba. Impossibile raggiungerla.
– Perché no? – Tutto sommato a Matt era sembrato abbastanza facile,
anche se faticoso. In fin dei conti, loro c’erano arrivati senza troppi
problemi, e il sentiero che tagliava la parete del canyon doveva essere
visibile a chiunque potesse cercarlo. – Il sentiero... – iniziò.
Atoc scosse la testa. – Non ci sono sentieri.
– Voglio dire... – Matt tornò indietro di qualche passo e allungò il
collo oltre la curva.
Sbatté le palpebre, sbigottito.
Il sentiero era scomparso. Davanti a lui non c’era che la ripida parete
verticale del canyon. Il sentiero che avevano percorso per più di un’ora
era scomparso.
A. Horowitz, L’ultimo solstizio, trad. di A. Ragusa, Mondadori