Le Storie - Silvana de Mari

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Le Storie - Silvana de Mari
Le Storie
Tutto il materiale è tratto dai siti:
www.silvanademari.splinder.com
www.silvanademari.com
I racconti Il cavaliere, la strega, la Morte e il diavolo; Seravezza, Alpi Apuane, Toscana,
1526; Roma 1692; Capua 1860; Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, 1943; Una
storia come tante sono stati pubblicati sulla rivista «Inchiostro».
In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Proverbi fiamminghi (1559)
Berlino, Staatliche Museen zu Berlin - Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie
Copertina di Dada Effe - Torino
© 2009 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
Prima edizione: ottobre 2009
ISBN 978-88-7180-837-6
Silvana De Mari
IL CAVALIERE,
LA STREGA, LA MORTE
E IL DIAVOLO
Questo libro è dedicato a Mohamed Taha, sudanese, credente, paladino della libertà e della misericordia.
Questo libro è dedicato a Theo Van Gogh, olandese, libero pensatore, paladino della libertà e della misericordia.
Questo libro è dedicato ai loro assassini e tutti quelli che
li hanno applauditi, con i più calorosi e sinceri auguri
che escano dalla melma di imbecillità che li avvolge e ritrovino il pensiero, che è quello che ci rende simili a Dio,
Suoi figli e non Suoi servi.
IL CAVALIERE,
LA STREGA, LA MORTE
E IL DIAVOLO
Il cavaliere, la strega, la Morte e il diavolo
Prologo
L’assedio
I mori attaccarono poco prima del tramonto.
L’aria era caldo e polvere. Da quasi due mesi non c’era
più stata pioggia e anche la rugiada si era asciugata. Tutto
quello che poteva seccare si era seccato. Di vivo erano rimasti solo le mosche e i contadini, ma i contadini ancora per poco: la cavalleria musulmana non era mai passata alla storia
per la bontà di cuore.
La cavalleria musulmana apparve all’orizzonte prima che
il sole se ne andasse, annunciata da un gran polverone, che
sembrò all’inizio una nuvolaglia scura.
I cafoni alzarono dai campi le facce, poco più chiare di
quelle dei loro sterminatori, e guardarono l’ombra nera che
scuriva l’orizzonte.
Se si fossero trovati meno disperati e con meno fame, si
sarebbero forse stupiti di quel temporale, che oltre che tardivo era pure bizzarro: veniva dalla terra e non dal cielo, senza tuoni, né fulmini, né starnazzare di polli. Ma la stanchezza di quel loro vivere li aveva svuotati e nemmeno lo stupore li risvegliò. Quando la polvere fu abbastanza alta da co-
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prire il sole che era rosso e basso ed enorme, il clamore e gli
stendardi divennero chiari, la cavalleria mora ormai era su
di loro.
La disperazione e le bestemmie evaporarono, lasciando la
decisione ferma quanto inutile di campare ancora.
Nei minuti frenetici durante i quali si cercò di organizzare una resistenza qualsiasi, ognuno chiese misericordia al
Creatore, si scusò per le bestemmie di poco prima, la scortesia, quelle insulse dichiarazioni che, per campare così, era
meglio schiattare.
Non era vero niente. A loro campare così gli piaceva, anche così, anche da morti di fame, anche con la siccità, il freddo, il ballo di san Vito e il fuoco di sant’Antonio.
Ai contadini campare così gli piaceva: purché si campasse ancora. Purché non si crepasse subito, in quel giorno torrido che loro non volevano più che potesse essere l’ultimo e
che invece lo sarebbe stato.
Ovunque si invocò l’inestimabile dono di ancora un po’
di stenti e un po’ di miseria.
Ma il cielo restò sordo, come da sempre era sordo: per la
fame, la miseria, i figli morti bambini.
Pure quel giorno il cielo non intervenne, come sua abitudine, e la cavalleria mora macellò tutto quello che si trovò
sulla strada, con la stessa facilità e la stessa incuria di una
manata sopra un nugolo di moscerini.
Loro creparono tutti, fino all’ultimo bambino pulcioso, fino all’ultimo pollo mezzo morto di fame, persero per sempre
il diritto ad ancora un po’ di fame e di infelicità terrena.
Il cielo si coprì di una rete di nuvole sottili, tra le quali le
prime stelle cominciavano a brillare; finalmente, sulla polvere impastata di sangue, si mise a piovere.
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Dopo il volgo fu la volta dei signori. I mori attaccarono il
castello, che se ne stava un po’ più sopra, sull’unica altura
che sovrastava la piana, che in realtà non era neanche una
collina, ma era comunque qualche cosa.
Anche i signori stavano un po’ più sopra dei cafoni, un
po’ meno stracciati, un po’ meno morti di fame. Loro i calzari ce li avevano e tenevano pure, tra tutti, un cavallo, un mulo, due capre, tre conigli e undici galline.
Il castello fu attaccato che ormai era buio. La pioggia attesa da mesi cadde. Non un acquazzone pieno, ma una pioggerellina lieve e disuguale che a qualcosa servì. La paglia si
era bagnata e le micce pure, e questo fu una fortuna.
Le mura del maniero, che già prima che l’attacco cominciasse erano le più diroccate di tutta la cristianità, qualche
giorno erano in grado di resistere. Forse anche qualche settimana.
Fu la miseria che favorì l’immediatezza della distruzione.
Avevano sostituito i tetti di pietra, danneggiati dal tempo e
dall’incuria, con la paglia dei covoni, che non costava nulla.
La paglia era intrecciata insieme ai giunchi raccolti sul
greto del fiume e intonacata con la creta: era leggera, facile
da trovare, teneva l’umidità, si sostituiva con poca fatica; l’unico difetto era la sua formidabile capacità combustibile. In
parole più povere: se le si dà fuoco, la paglia brucia. Brucia
subito. Brucia dannatamente bene. Brucia talmente in fretta
che la dizione «fuoco di paglia» è stata coniata per indicare
qualcosa di violento e breve, che brucia appunto senza lasciare nulla, se non un pugnetto di cenere, come giustamente bruciano i covoni, i tetti di paglia e gli amori che non valgono niente.
Fortunatamente pioveva e per tutta la notte l’assedio si limitò a esserci, senza ulteriori danni per nessuno.
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All’alba il vento si alzò, disperse le nuvole e incominciò
ad asciugare la paglia dei tetti e le travi del portone, costituito dal ponte levatoio sollevato, dall’altra parte del fossato
asciutto che la pioggia aveva solo trasformato in fango.
I saraceni fecero un rapido conto sulle possibili ipotesi:
darsi da fare ad abbattere il portone, darsi da fare a scalare le
mura, non fare un accidente di niente e affidare il lavoro alle frecce incendiate con la pece greca, una volta che il sole di
giugno avesse fatto la cortesia di asciugare tutto. Qualcuno
fece osservare che, in qualunque bisogna, solo gli stolti faticano potendone fare a meno e la scelta fu per le frecce incendiarie.
Il giorno passò, scaldato dal sole, asciugato dal vento: le
ore furono lunghe e immobili, gli assedianti a farsi gli affari
loro, l’orizzonte vuoto di qualsiasi soccorso. Alla sera la paglia era secca e asciutta come se mai avesse conosciuto l’acqua in vita sua.
Il tramonto fu pieno di rosso e di oro. Il cielo si scurì. Le
prime frecce incendiarie si stagliarono con il caldo colore del
loro fuoco contro la luce fredda delle miriadi di stelle che
brillavano nel cielo estivo.
Alla prima freccia incendiaria che riuscì ad attecchire, il
castello si trasformò in una luminaria. La paglia prese fuoco,
e crollò su tutto quello che le sottostava: travi di legno, mobili, polli, cavalli, capre, uomini: tutte strutture combustibili,
per dirla in termini tecnici, e tutto bruciò anche se con diverse implicazioni cognitive, che tradotto in parole povere
vuol dire che i polli di cervello ne hanno meno dei cristiani
e, quindi, anche a bruciare e a vedere i propri figli crepare,
soffrono meno.
Questo successe solo a notte avanzata. In più i saraceni
erano un poco ubriachi, non per il vino, ché non ne avevano
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bevuto: a loro era vietato; ma per il sangue, per le vittorie:
tutto quel loro correre a cavallo per quella terra che altro non
aspettava che di essere conquistata con il sangue, il ferro e il
dolore.
Erano ubriachi di avere il loro Dio che combatteva con loro e che era contento della loro guerra, veramente convinti,
come tutti gli utenti di guerre giudicate sacre e sante, che Dio
sia veramente contento dei loro morti ammazzati. Chissà
perché a nessuno viene in mente mai che Dio forse ha creato
pure gli altri, quelli da sterminare.
E grazie all’ubriacatura di tempo ne impiegarono un sacco, con le micce bagnate e l’anima sbronza: impiegarono tutta quella nottata di pioggerelle, per riuscire a incendiare il
vecchio maniero.
Da dentro ebbero il tempo di scavare, con le pale e con le
mani, nella polvere che diventava fango, per la pioggia, il sudore che gli colava dalla fronte e il sangue che gli colava dalle mani.
Scavarono alla luce delle frecce incendiarie. Mentre i primi tetti cominciavano a bruciare, si completò una galleria da
talpa che passava sotto le mura di cinta e finiva in quello che,
se ci fosse stata l’acqua dentro, sarebbe stato il fossato, e che
era vuoto sia per la siccità che per l’incuria, e fu una fortuna,
perché così i fuggiaschi non si annegarono, ma restarono nascosti dall’ombra delle ciliate e si poterono salvare.
Nessun uomo e nessuna donna poterono infilarsi nel buco, ma i bambini sì e loro scamparono al rogo.
Si salvarono Baldassarre che aveva i vermi, Girolamo che
aveva i piedi piatti e lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, che per fare prima chiamavano Bradamante.
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Era lei che sarebbe poi diventata il flagello degli infedeli,
la loro croce, perché lei li combatté con tutte le sue forze, fino a che anche lei non fu colpita al cuore da un saraceno e allora il mondo cambiò.
Lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, detta Bradamante, in quella notte di fuoco e di fango, sdraiata con due
bambini più piccoli di lei, sotto la ciliata del fossato, mentre
i suoi bruciavano vivi e i saraceni inneggiavano al loro Dio,
giurò che avrebbe avuto vendetta o sarebbe morta nel tentativo; giurò che mai, finché aveva vita, altro avrebbe fatto che
sterminare saraceni.
La notte fu lunga e terribile: loro se ne stavano lì con il colore del fuoco negli occhi, il suo orribile odore nelle narici, il
fracasso dell’incendio che li assordava: di continuo qualcosa
crollava, qualcosa franava; si sentivano urla; pietre cadevano
dagli spalti, non più trattenute da nessuna impalcatura. Travi infuocate li evitarono per un pelo.
Si salvò anche il cane, che si chiamava Spartaco, come
l’antico guerriero che aveva detto che la crocifissione era meglio dell’essere schiavi. Era un nome altisonante quanto ingiustificato, perché la creatura teneva paura anche della sua
ombra. In quella notte di fango e di fuoco pure Spartaco riuscì a infilarsi nel buco, ma poi scappò, si dileguò nel buio con
il suo terrore e le urla dei saraceni che lo inseguivano, e fu
una fortuna perché così non attirò con il suo abbaiare l’attenzione sul fondo del fossato.
Quando l’alba arrivò, il fuoco si spense e gli sterminatori
se ne andarono, Bradamante se ne stava nel fosso con i due
bambini più piccoli sotto di lei, e lì se ne restò anche quando
il sole fu alto e i saraceni lontani, forse per la paura, forse per
la speranza che dalle rovine si alzasse una qualche voce a
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chiamarli, a dirgli che la minestra era in tavola, che era ora
di cambiarsi i vestiti pieni di fango e della pipì che si erano
fatti addosso.
Solo al tramonto osarono alzarsi e allontanarsi; se ne andarono a cercarsi qualcosa da mangiare e un po’ d’acqua che
calmasse la loro sete infinita, con il sogno inutile nel cuore di
qualcuno che li potesse consolare. Non cercarono morti calcinati tra le macerie. Neanche si guardarono indietro. Se ne
andarono e basta. Solo quando si alzò la luna lei, Bradamante, si girò, guardò le rovine e pensò alla voce di suo padre, all’odore della pelle di sua madre: non ci sarebbero più stati;
mai più, mai più. Si ripeté ancora nella sua testa quelle due
parole: mai più, mai più. Le lacrime le scesero lungo la faccia. Se le leccò per sentirne il sapore, che le restasse impresso come quella notte di luna, quel mai più che le risuonava
nel cranio. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai
più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più.
Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai
più. Mai più.
Se ne erano andati tirando dritto, senza levare gli occhi
dal fango della strada. Neanche spostavano lo sguardo
quando le pozzanghere erano rosse per vedere che ci aveva
sanguinato, così da non aggiungere altri ricordi a quelli che
già avevano dentro e che già li stavano per soffocare.
Traversarono il loro villaggio e poi si accamparono a dormire in mezzo a un prato, sotto l’unico albero che c’era, che
era la quercia più grande della regione. Lì passarono la notte, morti di freddo, di fame, di sete, di paura. Lì prima dell’alba li ritrovò il cane, e a loro il suo quieto russare diminuì
la paura perché per combattere non combatteva, ma per
scappare era un valore, e perciò, se lui era ancora lì, voleva
dire che si poteva dormire senza tema.
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All’alba si rimisero in marcia. Lasciarono l’ombra della
quercia e traversarono un pezzo di terra bruciata e poi un altro villaggio, pieno di mosche e di morti ammazzati, e poi un
altro po’ di terra sassosa e poi un altro villaggio annientato,
poi ancora un’altra strada in mezzo ai capperi e ai fichi d’india e ancora i resti dell’ultimo dei villaggi cristiani, quello
più lontano, quello vicino al mare.
E in questa loro marcia con gli occhi fissi e bassi, che tenevano aperti solo per non inciampare, neanche videro che
tra i morti ammazzati dell’ultimo villaggio, quello dove le
onde battevano, ce ne stava pure qualcuno saraceno: sulla
spiaggia assaliti e assalitori erano in numero pari.
Nel caso se ne fossero accorti, si sarebbero stupiti che dei
pescatori fossero riusciti a resistere in qualche maniera, e poi
i nemici morti avevano gli inconfondibili segni dei colpi netti e definitivi dati da un guerriero: gli elmi e i crani erano
spaccati come meloni e puliti come sassi nel mare, senza le
ammaccature e la terra dei colpi di zappa e di roncola delle
contese contadine.
Neanche videro che mancavano le donne e i bambini.
Neanche poterono capire che non erano del tutto abbandonati e soli.
Qualcuno aveva combattuto per loro.
Il diavolo
Lui si chiamava Rhug-er Bhar-hid-Amin e veniva dalla
terra del Leone di Giuda, vale a dire dalle sorgenti del Nilo,
dall’Etiopia, da una terra che già da sempre era contesa tra
cristiani, musulmani ed ebrei.
Gli ebrei erano i figli della regina di Saba ed erano quelli
venuti per primi, e che per ultimi avrebbero avuto il loro