La trama del tempo da Alice Munro a Pedro Almodóvar | sul film
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La trama del tempo da Alice Munro a Pedro Almodóvar | sul film
Alla ricerca di Dory | di Andrew Stanton | Recensione di Paolo Camangi Genere: Commedia / Animazione Durata: 103 Regia: Andrew Stanton USA 2016 La miopia con cui certa critica guarda a questo film come ad una riduzione di Alla Ricerca di Nemo, e non a un coraggioso e necessario passo avanti, è preoccupante. Le cose stanno così, dopo Inside Out tutto è cambiato. Una decina di anni fa, Nemo, Sullivan e Buzz rivoluzionavano il mondo dell’animazione digitale, oggi questa rivoluzione avviene di nuovo, in seno alla Pixar, un superamento delle proprie barriere, un ampliamento dei propri confini, per guardare ancora una volta verso l’infinito e oltre… Ma cosa cambia fondamentalmente dal passato, cosa si percepisce in più sotto questa apparente scorza creativa? Alla Ricerca di Dory, è più simile ad un film di Tarantino che ad una opera Pixar vecchio stampo: ci sono innanzitutto molti registri adottati, stanze, isole all’interno della narrazione, scene a se stanti molto forti e ben costruite. I toni simpatici diventano demenziali, la lacrima (immancabile) ha un sottotesto riflessivo più ampio, la solitudine tracima in desolazione, immancabili le esilaranti gag che dettano i tempi. C’è una profonda volontà di creare un’opera il più completa possibile, tridimensionale non solo nella tecnica, rischiosa, vicino e distante al vecchio ordinamento, mimetica all’occhio, diversa al tatto con i nostri sentimenti, sempre e comunque emozionante. Impressiona l’utilizzo della colonna sonora, un’arma incollata alla narrazione che tende, mai come in questo caso, a sottolineare le situazioni e a dettarne le temperature, diventando anch’essa protagonista a sua volta. Per dire, un utilizzo simile lo fa P.T. Anderson nei suoi film. Provate a seguirne le evoluzioni, come quando Dory si ritrova da sola nei fondali (con dilemmi di beckettiana memoria) o alle fughe di Hank e Dory con il passeggino, sembra di assistere a scene costruite da Hitchcock. Straordinario è il lavoro fatto sui personaggi, Dory è scolpito con lo scalpello del miglior artigiano, attento alle rotondità come ai dettagli, con quell’arma in più che è la sua menomazione, carta giocata in maniera superba. Hank (sicuri che sarà il prossimo protagonista del franchise) è il secondo perfetto, Nemo, Marlin, Destiny e Bailey colorano con i loro ruoli sincronizzati i pochi punti bianchi del quadro. Non ci sono cattivi (o quasi), la sfida è contro se stessi alla ricerca delle proprie radici affettive. Stanton, dopo il fiacco John Carter si riappropria di un suo prodotto, lo evolve a tal punto da renderlo ennesimo capolavoro; un film di cui Disney, il grande Walt, ne andrebbe assai fiero. Lasciatevi trasportare da questa nuova via intrapresa dai ragazzi Pixar, non rimpiangete il passato, e se ai vostri bambini magari qualcosa sfugge, è perchè forse, ora è a voi più grandi che si rivolge. Tommaso | di Kim Rossi Stuart | recensione di Enrico Carli Genere: Commedia Durata: 97 min. Cast: Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca, Cristina Capotondi, Renato Scarpa, Camilla Diana Paese: Italia Anno: 2016 Tommaso è, come il suo interprete, un attore di successo che può permettersi di abbozzare soggetti per poi avviarne la realizzazione (anche quando, nella fattispecie, l’idea è fragile e potrebbe portare a un nulla di fatto). Il suo background psicologico viene dal precedente film da regista di Stuart, Anche libero va bene: lì Tommaso era un adolescente abbandonato dalla madre e in balia di un padre violento. In ogni modo Tommaso è un film a sé, non un seguito. Questo figlio che assomiglia come una goccia d’acqua al padre (Rossi Stuart interpretava là il genitore qui Tommaso adulto) è però un uomo non violento, che non smette di ribadirci la sua fragilità. È ipocrita, spigoloso, pignolo. Kim Rossi Stuart ha il coraggio di non buttarla in commedia, e di rendere il suo protagonista piuttosto antipatico. Se davvero si dovesse attribuirgli una qualche qualità si faticherebbe a trovarla (per quello che ci viene mostrato non sembra neanche particolarmente dedito alla carriera, anzi fa di tutto per sabotarla), non di meno questa caratteristica che per alcuni è la parte debole del film trovo sia deliberata e centrale: non ci viene mostrato tutto l’uomo – se è arrivato a quel punto della sua professione qualcosa di buono deve aver pur combinato – ma il suo tracollo: un individuo in analisi che mentre ricerca le origini del suo malessere nell’infanzia torna ad essere puerile. La ricerca del bambino è un ripetersi bambini, via gli orpelli, le sovrastrutture dei rapporti con gli altri, in maniera più pratica però: ecco che l’ipocrisia è in un certo senso un farla breve, un chiudere con la controparte evitando lunghi e tormentati chiarimenti. Il bambino vuole o non vuole per istintivo capriccio, non saprebbe dare conto né dell’una né dell’altra volontà. Tommaso non è, come in molte rappresentazioni dell’uomo che ha un debole per le belle donne, né particolarmente affascinante (tra i tipi mi viene in mente il regista Guido Anselmi di Otto e mezzo), né gentile fino al servilismo (il Gianni De Gregorio di Gianni e le donne), né tantomeno un intellettuale libertino che se ne fugge ululando alla luna piuttosto che rinchiudersi nelle maglie di una relazione (l’Apicella di Moretti in Sogni d’oro); è piuttosto un uomo bello e di successo cui queste qualità non facilitano la promiscuità che va cercando. Questo è un po’ forzato: com’è possibile che nessuna lo riconosca? (non lo riconosce la ragazza del libro, quella dei giardini, non sembra riconoscerlo nemmeno la cameriera per cui Tommaso si prende una sbandata). Ma il discorso è un altro, e pare vero anche nella misura in cui Stuart dichiara che questo è il suo film più personale: il successo non è sempre veicolo di irresistibilità, specie quando non viene riconosciuto. Al di là delle derive freudiane presenti fin dalla locandina, Tommaso è ossessionato dalla civiltà delle immagini, non solo dalla bellezza che piace a tutti, ma dall’elemento di provocazione che scatena un immaginario più pornografico che erotico (il pompino, la pecorina: fantasie dominanti che lo sorprendono davanti alla farmacista). Tutto diventa spersonalizzato, dettaglio di corpo femminile: provocante, ossessivo, irraggiungibile mercanzia di un’emancipazione che mette in mostra con estrema consapevolezza. Si pensi alla giovane cameriera interpretata da Camilla Diana, una donna che già sa tutto, è scritto nel DNA della sua avvenenza, e allora si intrattiene coi propri attendenti grazie all’esuberanza della gioventù e alla noia di una relazione che pure sa che finirà in matrimonio, perché in fondo le sta bene il suo Giuliano, capace di amarla per quello che è (o forse di venerarla) e non solo di volersela portare a letto. Curioso che questo personaggio sia quello più verace, quello che piace di più: sarà ancora una volta perché è giovane, bella, procace, pane al pane? Eppure è anche lei vittima del gioco delle parti: è quella che se la tira perché tutti la vogliono, ma se la tira alla maniera della borgatara, non della snob, lei vuole giocare, tendere i nervi dei maschi con cui ha a che fare per renderli sue marionette. Neanche qui Tommaso ha un moto di rivalsa (ce lo ha, ma piccolo: lei sa come quietarlo), e questo perché è un uomo che subisce l’irresistibile ascendente del sesso, soprattutto quando sembra a portata di mano. La psicanalisi è quasi accessoria in questo film, basterebbero tutte le lamentazioni del caso, i piccoli difetti fisici sui quali Tommaso si fissa che sono inconfessabili, l’eterna storia che ci raccontiamo dell’uomo che non vuole crescere, tutto ciò è sufficiente a motivare l’esasperazione l’influsso della carne. di chi patisce Non vuole crescere, oppure il mondo intorno a lui si è allestito, propedeuticamente alle fantasie indotte, come il grande set di un film pornografico? Mettiamola così: per ogni uomo che non vuole crescere c’è almeno una giovane ninfetta che guarda film solo per adulti. Magari l’equazione non è scientifica, ma l’elemento perturbante e simbolico del film, il nido di processionarie che Tommaso trova in cima a un pino della sua tenuta (insetto pericoloso e distruttivo, oltre che repellente), fa un po’ da cassa di risonanza all’ossessione del nostro antieroe: questa è l’origine di una nuova mandata di farfalle notturne. In questo senso Tommaso è una vittima del desiderio, della moltiplicazione delle ninfe/crisalidi e del loro ascendente su questa parte di mondo. Nel finale si sceglie la via più facile: quando si ha l’acqua alla gola, imbattersi in fortuite coincidenze è di buon auspicio per cominciare di nuovo. Si finisce sempre col parlare delle proprie ossessioni private, anche quando l’inconscio dal quale attingono ha del collettivo. Del resto il collettivo non è sempre includente, quindi è bene non allargarsi troppo. La trama del tempo da Alice Munro a Pedro Almodóvar | sul film “Julieta” di Pedro Almodóvar | di Enrico Carli Genere: Drammatico Durata: 99 min. Cast: Emma Suárez, Adriana Ugarte, Daniel Grao, Inma Cuesta Paese: Spagna Anno: 2016 La scrittrice canadese Alice Munro, classe 1931, a cui Pedro Almodóvar s’ispira per il suo ultimo film, dice in un’intervista che ha iniziato a scrivere molto presto, da bambina, per “salvare la vita alla sirenetta” (non quella del film Disney, ma la fiaba ben più truce di Hans Christian Andersen). “È una storia tristissima. La sirenetta si innamora di un principe, ma non lo può sposare, essendo una sirena. Guardi, è davvero triste, le risparmio i dettagli”. Fa quasi tenerezza sentirlo dire da una scrittrice la cui penna è uno strumento così affilato da sezionare l’animo umano senza risparmiare al lettore alcun dettaglio della dolorosa presa di coscienza dei suoi personaggi. Oggi probabilmente riscriverebbe il finale di Andersen in chiave diversa, magari salverebbe ancora la vita alla sirenetta, le farebbe sposare il principe, ma quello non sarebbe l’epilogo, solo l’inizio di un’altra fase, e la sua sirenetta si chiederebbe più o meno indirettamente: valeva davvero la pena fare quello che ho fatto, rinnegare la mia natura di sirena, perdere le mie sorelle e la lingua, per sposare quest’uomo? In quanto prova vivente che le sirene esistono, l’ipotetica sirena della scrittrice osserverebbe che il suo sposo è invece la dimostrazione lampante che il principe azzurro altri non è che una fantasia da sirene. La vera tragedia per il premio Nobel per la letteratura 2013 non è la morte e il sacrificio, ma l’illusione che col tempo svanisce e si mostra per ciò che è, vale a dire poco più che una rosea aspettativa. Alice Munro è una scrittrice inesorabile, nel senso che procede con risolutezza nella comprensione degli eventi più comuni sfatandone ogni mito, e con una competenza che nulla concede al sentimentalismo e che non manca di sbalordire. Molti dei suoi racconti più celebri ricostruiscono per tessere l’andazzo del tempo, gli andirivieni dei ricordi e delle impressioni nel più vasto mosaico della memoria; l’imprevedibilità delle scelte fatte per assecondare la nostra indole, e l’agnizione che le accompagna rivelandoci a noi stessi come artefici e non solo come vittime, un determinismo che però non rinuncia alla follia del caso, al nonsense della vita, coi suoi naturali colpi e cambi di scena. Il matrimonio non è mai la fine della storia. I tre racconti da cui Almodóvar ha preso spunto provengono dalla raccolta In fuga (2004), e sono un trittico che ha per protagonista la stessa donna, Juliet, anche lei alle prese con gli scherzi del tempo: la vediamo giovane nel racconto Fatalità, madre di una bambina in Fra poco, e donna matura abbandonata dalla figlia in Silenzio. Il regista spagnolo cambia i connotati geografici e temporali di Juliet – spostandola un po’ più in qua per attualizzare il soggetto – e la rende Julieta. E nell’aggiunta di quella vocale ci sono già i colori del suo modo di raccontare; c’è anche un metodo diverso di chiudere, i simbolici puntini di sospensione con cui termina l’opera letteraria da lui utilizzati alla maniera di caselle di un rebus che va decifrato, come se la sua intenzione fosse analoga a quella della bambina che voleva salvare la vita alla sirenetta. Almodóvar vuole lasciare una fiducia più morbida alla sua Julieta, meno dura da portare della sola speranza. E lo fa a modo suo, trasferendo la poetica del premio Nobel nella propria, senza risparmiarsi per comprensibile riguardo nei confronti di uno dei più grandi scrittori viventi. Ne consegue che Julieta è un film comunque almodovariano, che si segue come una sua opera non solo nella messinscena tipicamente iberica del suo cinema, ma anche nella scrittura – e le storie della Munro, pur parlando di tematiche universali, sono molto legate alla terra della scrittrice. Lo è molto anche il regista spagnolo, innamorato dei suoi colori e della sua cultura, e appunto per questo riesce a realizzare un gioiello di trasposizione, utilizzando le ellissi temporali della scrittrice e anche, diversamente, del suo cinema, travestendo da melò e da giallo quello che nell’opera della Munro è senso del mistero e delle circostanze. Non rifà, come fece pur bene l’esordiente attrice alla regia Sarah Polley in Away from Her – Lontano da lei (adattando molto fedelmente il racconto The Bear Came Over the Mountain), ma organizza per il plot una struttura più circolare, un flashback che contiene le libere associazioni temporali dei racconti e che gli permette di mettere in scena una delle più belle sequenze del suo cinema, quando le due attrici che interpretano la Julieta giovane e quella matura (Adriana Ugarte e Emma Suárez) si scambiano definitivamente di posto nella storia: una sola inquadratura per esprimere la tessitura inesorabile del tempo su due belle guance. Il dettaglio di un tessuto rosso apre come un sipario la storia di Julieta – è l’abito che indossa mentre sta letteralmente avvolgendo il tempo (imballa un vecchio oggetto della sua vita precedente), ma il ricordo doloroso della figlia smarrita tornerà a tormentarla impedendole di attuare il presente, cioè il trasferimento in Portogallo col suo attuale compagno. L’incontro fortuito con una giovane donna che le porterà notizie di Antìa non le consentirà più di chiudere quel sipario che si è aperto, di avvolgere e accantonare il tempo che precede. Così nella scena di passaggio tra le due stagioni della donna si chiude il primo anello temporale del flashback, e sempre attraverso un sipario – prima il vestito, poi l’asciugamano – si apre il terzo atto della storia. Come nei migliori drammi, è il dolore laddove si fa più intollerabile che fa scaturire ogni passaggio della vicenda. Ancora un tessuto; ora, nella ricerca della figlia, avvolgente come una vestaglia: Julieta ne indossa una che richiama le “tessere bizantine” dei famosi dipinti di Klimt. In un ricordo la vedremo uscire dalla casa paterna in mezzo alla figlia piccola e la madre malata, le età della donna rappresentate dal pittore austriaco che prima ci erano state suggerite adesso si mostrano nella loro fulgida trasparenza, e si resta avviluppati nella trama di tutte le trame, dalla densa brillantezza della stoffa che intesse il tempo in cui Antìa (Penelope nei racconti della Munro) lascerà che a intrecciare la tela sia sua madre Julieta, insegnante di letteratura greca e atea. Perché si è per forza smarriti a vivere in un mondo che ci è stato consegnato senza Dio. Si è smarriti probabilmente comunque, ma almeno il tempo che rimane potrebbe sembrare più comprensibile, e di certo più rassicurante, nell’attesa di un lieto fine già scritto. Una breve riflessione sulla memoria e le sue cose preziose, da Fatalità di Alice Munro: Kallipareos. Dalle belle guance. Finalmente l’ha pescato. L’epiteto omerico scintilla appeso all’amo. E Juliet all’improvviso recupera il suo intero vocabolario greco, tutto ciò che sembrava finito in fondo a un armadio da quasi sei mesi. Non insegnando la lingua, l’aveva messa via. È così che succede. Ritiri ogni cosa per qualche tempo, e di tanto in tanto dai un’occhiata dentro l’armadio in cerca d’altro e allora te ne ricordi e ti dici: fra poco. Poi diventa un oggetto che è là, nell’armadio, e vi si affollano davanti e sopra altre cose, e finisci col non pensarci nemmeno più. Proprio a ciò che consideravi il tuo luminoso tesoro. Non ci pensi. Una perdita che in passato ritenevi insopportabile è diventata ora qualcosa che a stento ricordi. È così che succede. E anche se non lo metti via, se anche ti ci guadagni da vivere, ogni giorno… Juliet ripensa alle altre insegnanti più vecchie, a scuola, a quanto poco la maggior parte di loro sembrasse interessata a qualunque materia d’insegnamento. Prendi Juanita, che ha scelto lo spagnolo perché si adatta al suo nome (in realtà è irlandese) e che vuole parlarlo bene, usarlo per viaggiare. Non si può dire però che lo spagnolo sia il suo tesoro. Sono poche, pochissime le persone che hanno un tesoro, perciò se ce l’hai devi tenertelo stretto. Non devi lasciarti imbrogliare e fartelo portare via. Le anomalie di Kaufman | intorno Charlie al film “Anomalisa” di Duke Johnson e Charlie Kaufman | di Enrico Carli Genere: Dramedy di animazione Durata: 90 min. Voci: David Thewlis, Jennifer Jason Leigh, Tom Noonan Paese: USA Anno: 2015 Charlie Kaufman è una penna così particolare che anche i film che portano la sua firma solo nella sceneggiatura, sebbene diretti da registi come Jonze, Gondry e Clooney – che stupì tutti col suo esordio alla regia, poi si capì perché – sembrano interamente farina del suo sacco. Bisogna dire che fin dalla prima sceneggiatura ha sempre seguito passo passo la trasposizione filmica dello script, ma al di là della sua presenza sul set come parte attiva, l’immaginario tutto mentale di Kaufman, allo stesso tempo complesso e toccante, spassoso e disperato, è a tal punto riconoscibile da essere un genere a sé. Kaufman non smette d’indagare le amare conseguenze del solipsismo, sondandone con estrema efficacia simbolica anche gli aspetti patologici. Se il Caden Cotard del suo primo film da regista (interpretato da P. Seymour Hoffman – solo a seguito della morte dell’attore Synecdoche, New York poté essere visto in Italia, a distanza di ben sei anni dall’uscita americana) richiamava già dal nome la sindrome coniata dal neurologo francese Jules Cotard, un delirio di negazione secondo il quale il soggetto malato potrebbe convincersi di non esistere (l’antitesi del solipsismo, dove esiste solo il solipsista), in Anomalisa l’Hotel Fregoli dove Michael Stone deve tenere la sua conferenza rimanda alla Sindrome di Fregoli, da cui parrebbe affetto il protagonista: il guru della comunicazione vede in tutte le persone – uomini e donne – gli stessi identici tratti somatici. E non solo, tutti i personaggi, compresi moglie e figlio, parlano anche con la stessa voce. Kaufman è interessato al ritratto di folli affetti da una rara disfunzione o piuttosto ci sta parlando di una più vasta gamma di ossessioni/malattie – la paura della morte, la depressione della fine di una relazione, i fantasmi della memoria – con una sottigliezza che sconfina nella patologia? Scrive il critico Roberto Tallarita a proposito del primo lungometraggio di Kaufman: “Ci vogliono giorni e giorni per riprendersi da questo film”. È da questa sofferta abilità che si sprigiona il pathos delle sue storie, l’emozione e il dolore con cui arrivano a turbare lo spettatore che non rifugge da questo tipo di immersione dentro se stesso. I suoi film più toccanti sono profonde esperienze intime, e la domanda filosofica che i suoi personaggi si pongono implicitamente – “Davvero gli altri sono reali quanto me?” (finanche al parossistico “Davvero io sono reale?”) – è una domanda centrale anche per altri scrittori contemporanei. In esergo a un suo lungo racconto, David Foster Wallace cita Anthony Burgess: “Dato che siamo tutti solipsisti, e tutti moriamo, il mondo muore con noi. Solo la letteratura molto mediocre mira all’apocalisse”. Per il prematuramente scomparso Wallace, come per Kaufman, l’apocalisse era una questione privata della massima importanza. Di un privato collettivo, come se il solipsismo fosse la condizione dell’uomo occidentale mediamente colto, una sensazione molto acuta, anche se inconsapevole, fino a ben oltre l’adolescenza – sempre Wallace, nel discorso al Kenyon College Questa è l’acqua la chiama ironicamente “modalità predefinita”, e suggerisce che sia nostro preciso impegno e dovere, crescendo, empatizzare col vissuto degli altri per sentirlo reale quanto il nostro. Kaufman sembra però ammettere il fallimento di questo mirabile scopo nel sovrappiù dell’intelligenza ricorsiva, quasi che la capacità della mente di penetrare l’altrui sofferenza sia inficiata dalla necessità di dimostrarne le speculazioni, col pericolo di diventare prigionieri del proprio labirinto mentale. Nella finzione, il libro di Michael Stone per incrementare il profitto delle aziende di servizio clienti s’intitola How May I Help You Help Them? (Come posso aiutarti ad aiutarli?). Il cielo nuvoloso all’inizio di Anomalisa (gran premio della Giuria alla Mostra di Venezia 2015) dove compare l’aereo che trasporta Michael Stone a Cincinnati, è cerebrale come certi cieli descritti da DFW. Siamo dentro la mente del guru della comunicazione in crisi, la luce è solo un riverbero tenue tra le grigie nubi che gravano intorno. All’Hotel Fregoli Michael Stone incontra la sconosciuta Lisa, l’unica voce distinguibile fuori dal coro. Lei è bruttina, ha una cicatrice sul volto che nasconde coi capelli (altro segno particolare che la contraddistingue), è inesperta – non ha una relazione anche solo sessuale da otto anni – ma Michael la trova adorabile. Kaufman e il coregista Duke Johnson realizzano un film in stop-motion solo per adulti (con pupazzi di plastilina, per intenderci; ci sono voluti due anni per ottenere da ogni frazione di secondo della storia una singola fotografia), in assenza del canonico pudore del film d’animazione: organi genitali e amplesso, paranoia e nevrosi – non ci vengono nascoste nemmeno le suture delle facce/espressioni intercambiabili, i dettagli e le sensazioni porose della luminosa estasi notturna, mentre assistiamo a quella che a tutti gli effetti sembra l’inizio di una storia d’amore. Ma la fregola all’Hotel Fregoli pare avere i minuti contati: il calore può disperdersi con la stessa rapidità con cui si sprigiona. Oltre a metterci la pulce nelle orecchie che la percezione degli altri sia a nostro uso e consumo (non una novità, ma Kaufman sa spingersi fino al punto di non ritorno), la storia di Michael Stone suggerisce che si è abili manipolatori delle proprie istanze, le quali si creano o distruggono a seconda degli entusiasmi o delle idiosincrasie, i due “generi narrativi” prediletti nel raccontarsi a chi, laddove ne prendessimo per reale l’esistenza, dovrebbe assumersi l’ingrato compito di confermarci la singolarità della nostra. L’anomalia ci uniforma al di là del paradosso di questa stessa affermazione, come se le classificazioni patologiche che si usano per interpretare alcuni casi clinici si riferissero ad altri che i cosiddetti normali. La purezza, per Kaufman, sembra esistere solo in assenza di risentimento, nella capacità di prendere l’autoinganno per quello che è: un’affermazione di vitalità nella negazione dei propri limiti, uno smodato fabbisogno di “cose vere” che ci corrispondano. Ne Il ladro di orchidee Kaufman fa dire al gemello del protagonista, a proposito di un amore non consumato e messo in ridicolo: “Non importa se lei non mi amava. Era mio, quell’amore, lo possedevo. Questo l’ho deciso molto tempo fa. Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te”. Kaufman dichiara: “[…] sono convinto di essere uno scrittore migliore quando dormo e sogno, rispetto a quando sono sveglio: con la libertà dei miei sogni racconto storie pazzesche, che difficilmente potrei immaginare di giorno. Spesso, quando scrivo da sveglio, mi domando come rompere le catene della razionalità”. Le catene della razionalità, la prigione della mente: come lui anche il suo cinema si interroga su questo, dall’infinita spensieratezza della mente candida alle confessioni di una mente pericolosa, una parte del tutto è comunque la soggettività dell’Io, e la natura umana un sommario adattamento della personalità alle proprie proiezioni autoreferenziali. L’anomalia non è essere John Malkovich (ci siamo già fatti un giro nella “sua” testa), ma trovarsi in tutte queste soggettive pluralità*. Qualunque cosa voglia dire, trovarsi. *Nda: questa frase e la precedente giocano con la trasposizione letterale dei titoli originali dei film di Charlie Kaufman anche solo come sceneggiatore: Essere John Malkovich (Being John Malkovich), regia di Spike Jonze (1999); Human Nature (Human Nature), regia di Michel Gondry (2001); Il ladro di orchidee (Adaptation.), regia di Spike Jonze (2002); Confessioni di una mente pericolosa (Confessions of a Dangerous Mind), regia di George Clooney (2002); Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), regia di Michel Gondry (2004); Synecdoche, New York, regia di Charlie Kaufman (2008); Anomalisa (2015). RACE – di Stephen Hopkins – recensione di Alessandro Faralla Genere: Biografico, Drammatico Durata: 134 min Cast: Stephan James, Jeremy Irons, Amanda Crew, Carice van Houten, Jason Sudeikis, William Hurt, Tony Curran, Giacomo Gianniotti, Tim McInnerny Paese: Francia, Germania, Canada Anno: 2016 Raccontare la storia di Jesse Owens, specie per quello che stiamo vivendo oggi giorno, ha un significato potente. Farlo concentrandosi sullo sport è ancora più emblematico. Come accade sempre più spesso anche questo biopic sceglie di concentrarsi su un momento particolare della vita del protagonista: in Race vediamo un giovane Jesse Owens, già con famiglia, entrare all’Ohio State University. Dovrà ricorrere a tutta la sua tenacia e passione per fronteggiare le tensioni razziali, le aspettative e difendere il suo sogno di atleta afro-americano. Il problema di Race – il Colore della vittoria è che non riesce a dare linfa ai tanti risvolti della vittoria di Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Stephen Hopkins, dirige un film privo di voce e battito che non entra con vigore nella realtà, ma la tratteggia. La figura di Owens, i suoi dubbi sulla partecipazione ai giochi organizzati dalla Germania nazista, il contesto umano, vengono messi in scena senza profondità, con un linguaggio povero e anonimo. C’è fretta nel registro adottato da Hopkins come se il fine fosse semplicemente la celebrazione sportiva e mediatica dell’icona, il ragazzo afro-americano che stupì i tedeschi e il mondo vincendo quattro ori olimpici (100 metri, il salto in lungo, 200 metri e la staffetta 4×100) alle Olimpiadi del 1936. I passaggi dove il pensiero e la figura di Jesse Owens (Stephen James) emergono con forza e chiarezza si manifestano grazie al bel rapporto che l’atleta ha con Larry Snyder, l’allenatore della Ohio State University: i sacrifici, le sofferenze, lo spaesamento di rappresentare l’America quando negli Usa prima e dopo la vittoria alle Olimpiadi le persone di colore subivano la segregazione razziale assumono spessore e vita. Jason Sudeikis, offre una prova apprezzabile nei panni di coach Snyder, un uomo della mischia, appassionato e con scarso ascendente presso le alte sfere. Lui la vera guida, anzitutto umana, di Jesse nel percorso di avvicinamento a quella storica manifestazione. Altrettanto interessante la divisione in seno al comitato olimpico americano circa la possibilità di boicottare i giochi a causa delle voci che iniziarono a circolare sulla violazione dei diritti umani da parte del regime tedesco. Race pecca in special modo là dove avrebbe dovuto sfruttare la bellezza e la straordinarietà delle imprese sportive: le gare mancano di enfasi, sono piatte e prive del pathos necessario. In definitiva Hopkins rende accademica e prevedibile, evitando di sporcarsi le mani, la storia di un simbolo umano e sportivo.