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Consorzio Culturale del Monfalconese
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Proposte per la scuola
5. ESERCITI E POPOLI IN GUERRA
[a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin]
Esercito italiano: ordinamento e reclutamento
Le origini
La struttura dell’esercito del Carso, di Caporetto e del
Piave, come noi lo conosciamo, trova le sue lontane
radici in parte nelle scelte degli uomini che “avevano
fatto l’Italia” e perciò nel modello di unificazione degli
eserciti preunitari, in parte nell’assetto conferito dalle
riforme degli anni Settanta.
L’esigenza di tener salda la compagine militare in uno
stato sorto da poco, necessariamente poco coeso, fu la
priorità seguita nella politica militare dopo il 1861. Le
tradizioni militari, gli ordinamenti e le forme di
reclutamento degli staterelli preunitari erano infatti
troppo diverse. La soluzione ricercata, in una qualche
misura prevedibile, fu quella seguita in altri campi
dell’amministrazione
statale:
una
sorta
di
“piemontesizzazione” forzata per quanto riguarda
l’assetto dell’esercito unitario, i suoi ordinamenti e la
sua “mentalità”. Dal punto di vista dell’organica,
l’intento era di favorire in tempi rapidi l’amalgama tra
i coscritti delle diverse regioni.
L’esercito piemontese si fondava allora su un ristretto
numero di professionisti a lunga ferma, coadiuvati dai
chiamati alla leva e dai riservisti: un esercito
proporzionato a guerre di tipo dinastico e al
mantenimento dell’ordine pubblico. Il suo prestigio era
in Italia, dopo la conclusione delle guerre
risorgimentali, senza pari.
Le riforme degli anni Settanta
La vittoria prussiana del 1870 diede la spinta finale
all’esigenza di riforma degli ordinamenti, da tutti
sentita necessaria dopo le prove militari degli anni
Sessanta (lotta al brigantaggio, guerra del 1866).
Nell’Europa degli stati nazionali – si pensava – lo
strumento militare avrebbe dovuto rinnovarsi,
chiamare il popolo alle armi, senza tuttavia procurare
un indebolimento degli equilibri sociali e dell’ordine
borghese. Le riforme del ministro Ricotti, dal 1871 al
1876, e dei successori rappresentarono un grande
sforzo di adeguamento dell’esercito alla nuova realtà
europea e alla formazione di un esercito
autenticamente nazionale. Fu accolto, con alcune
varianti, il “modello prussiano”: ferma breve, ridotta a
tre anni, per tutte le persone abili, secondo il principio
di obbligatorietà – che era stato della rivoluzione
francese, napoleonico e poi della rinascita prussiana –
per cui ogni cittadino doveva contribuire alla difesa
della nazione (dopo il servizio di leva, lo avrebbe fatto
tra i riservisti). Sarà questa la forma organica
dell’esercito italiano nella Grande Guerra e, in
generale, in tutto il Novecento.
In caso di conflitto, la mobilitazione –cui, è chiaro,
veniva data importanza centrale – avrebbe consentito il
completamento delle truppe di prima schiera con i
complementi più giovani e avrebbe portato alla
costituzione della Milizia Mobile e della Milizia
Territoriale con i soggetti più anziani, per compiti
minori come il presidio del territorio. La revisione degli
ordinamenti
fu
accompagnata
da
modifiche
dell’organizzazione di difesa del territorio, da una
nuova sistemazione delle circoscrizioni territoriali, da
uno sforzo di ammodernamento degli armamenti.
Dalle origini alla propaganda: cartolina in franchigia commissionata
dalla Quinta Armata. Nel 1918 fu diffusa una serie di manifesti e
cartoline propagandistiche che esortavano a diffidare dei “traditori
interni”, cioè di chi sosteneva che tra i soldati serpeggiassero
malcontento, insofferenza e desiderio di pace a qualsiasi costo (M.
Isnenghi, La Grande Guerra, Giunti-Casterman, Firenze 2003, p.59)
La via italiana: il reclutamento “nazionale”
Del modello prussiano, tuttavia, non si volle accogliere
uno degli elementi qualificanti e costitutivi: il
cosiddetto “reclutamento regionale” o territoriale. In
Germania i reggimenti si formavano con i coscritti di
una regione, quella in cui l’unità era dislocata. Ciò
consentiva un’obiettiva semplificazione amministrativa
(soprattutto nel reclutamento), rendeva rapide le
procedure di mobilitazione, radicava i rapporti di
solidarietà e coesione tra i coscritti, in una realtà
sociale europea ancora dominata dall’idea della
“piccola patria”.
I governi della Destra scelsero invece una soluzione
diversa. Il reclutamento fu disposto su basi rigidamente
“nazionali”,
inserendo
nei
reggimenti
uomini
provenienti da due regioni. Le unità venivano dislocate
in una terza, ulteriore regione. Questa misura mostrava
ben pochi vantaggi militari, ma sicuramente ne
possedeva uno politico. Diversamente dalla Germania,
dove, nonostante la presenza di forti contrapposizioni
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di censo o tra i Länder, l’unità della nazione non era in
discussione, la stabilità sociale era garantita e il
patriottismo diffuso, l’Italia appariva, agli occhi del
suo ceto dirigente, uno stato ancora in formazione,
privo di coesione nazionale e preda delle convulsioni
sociali e del localismo civico e regionale, di focolai di
rivolta spenti con difficoltà.
Un mito dell’Italia liberale
La soluzione dei governanti consentiva dunque, entro
buoni margini, un giusto mezzo tra la possibilità di
condurre, con uno strumento militare rafforzato, una
politica europea alla stregua delle altre nazioni e,
d’altra parte, la necessità di mantenere ben definiti i
rapporti tra i ceti all’interno del paese (Rochat,
Massobrio, 1978). La retorica postrisorgimentale seppe
poi trasformare un provvedimento a difesa dello stato
e degli equilibri sociali in uno dei miti fondanti per la
formazione dell’identità nazionale e patriottica degli
italiani (esercito come “scuola della nazione”, fonte di
educazione morale e nazionale). Solo alle truppe
alpine fu consentita una forma di reclutamento
territoriale,
ma
l’ambiente
di
provenienza,
tradizionalista e d’ordine, sembrava poter dare
garanzie sulla fedeltà dei reparti.
Non si può dire, d’altra parte, che alle soglie della
Grande Guerra, il sistema nazionale di reclutamento
(le stesse considerazioni varrebbero anche per il
sistema scolastico) avesse rinsaldato il senso patrio
degli italiani, né che avesse contribuito a creare
attorno all’esercito un’atmosfera di partecipe
unanimità. L’Italia dei particolarismi era ben viva.
Nel bene e nel male sarà la trincea - in un’accezione
diversa da quanto successivamente le forze
nazionaliste e il fascismo cercheranno di accreditare
(“trincerocrazia”) - un luogo di unificazione delle
masse.
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nell’anno successivo a 65; saranno poco meno, 57, nel
1918 (Stefani, 1984). I Corpi d’armata, che
raggruppavano le divisioni e le unità minori dipendenti
(brigate, reggimenti, etc.) passarono da 14 (1915) a 25
(1917). Dal sommario computo abbiamo escluso le
truppe stanziate nel paese, i cui effettivi furono
sempre al di sopra del mezzo milione, e destinati
ulteriormente ad impennarsi dopo Caporetto.
Complessivamente sui luoghi delle operazioni si
avvicendarono ben 4.200.000 soldati. I tre quarti
appartenevano alla fanteria. Seicentomila furono i
morti, un milione i feriti e gli invalidi, oltre mezzo
milione i prigionieri. Le cifre dell’impegno bellico
mostrano, dunque, uno sforzo di mobilitazione delle
risorse umane senza precedenti per la nazione.
[Angelo Visintin]
Alla prova della Grande Guerra
Alcune cifre della guerra italiana
Allo scoppio della guerra mondiale e a poco più di
cinquant’anni dall’unificazione del paese, l’organismo
militare italiano poteva considerarsi sufficientemente
solido e addestrato. Era stato superato senza troppe
difficoltà anche lo scoglio della riforma del servizio: la
ferma era stata da poco (1910) portata a due anni,
sull’esempio degli altri stati europei. L’arma più tipica,
la fanteria, poteva contare su 94 reggimenti, che
formavano 47 brigate. La qualità degli armamenti e
dell’equipaggiamento non rispondeva sempre ai più
elevati livelli continentali, ma nel complesso era
avvertibile uno sforzo di rinnovamento dei materiali.
L’entrata in guerra dell’Italia determinò uno sviluppo
enorme dell’apparato militare: alla fine del 1915
l’esercito operante poteva contare su un milione di
soldati; oltre due milioni e duecentomila uomini
gravitavano sul fronte nel 1917. L’incremento delle
unità fu esponenziale. Per ripianare le perdite e far
fronte alle esigenze dello sforzo bellico, nel 1916 le
divisioni di fanteria furono portate da 35 a 48,
Fanteria italiana all'attacco (G. Tomasoni, C. Nuvoli, La Grande
Guerra raccontata dalle cartoline, Arca Edizioni, 2004, p. 274)
Il soldato italiano e la guerra
Tradizionalmente,
il
tipico
coscritto
italiano
considerava la vita nell’esercito come un’incombenza
ineludibile ma negativa e la caserma un ambiente di
costrizione e disciplina ferrea, di allontanamento ed
estraniazione dal mondo di appartenenza. Ciò a fronte
della festosità delle usanze paesane che celebravano la
partenza per la leva e di una mentalità popolare che
considerava formativo e virile - un vero “rito di
passaggio” - il servizio militare. Solo una ristretta
minoranza di operai e contadini nutriva l’istintiva
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ostilità con una chiara e antagonistica consapevolezza
individuale e politica.
Coscritti e richiamati, perlopiù provenienti dal mondo
rurale, accolsero generalmente come una dolorosa
sventura l’entrata in guerra e affrontarono con le
consuete doti di fatalismo, pazienza, obbedienza poco
partecipe, ingegnosità e spirito di sopravvivenza una
scelta fatta altrove e da altri. Il reclutamento
nazionale d’altra parte non sviluppò
la coesione dei reparti.
In generale, le prime campagne costarono all’esercito
italiano un pesante tributo in termini di truppe di
prima linea, giovani e più vigorose, e di ufficiali esperti
e preparati. La logica della guerra di attrito, di massa
e materiale, impose poi la mobilitazione nel paese di
sempre maggiori risorse umane, aumentò le classi
anziane richiamate e determinò nel prosieguo del
conflitto un peggioramento della efficacia bellica e,
forse, della capacità combattiva dei soldati. Fattore,
questo, aggravato dalla frettolosità dell’addestramento
della truppa e dalla brevità dei corsi di formazione per
ufficiali, dall’inesorabilità del controllo e della
repressione, ma in primo luogo da ascrivere ai caratteri
di logoramento psichico e fisico propri della guerra di
posizione.
[Angelo Visintin]
L’ufficiale italiano e la guerra
Il corpo degli ufficiali vide anch’esso un incremento
fortissimo, non tanto nella categoria dei quadri
provenienti dal servizio permanente effettivo (quasi 16
mila nell’agosto 1914, gli ufficiali di carriera saranno
22.500 alla fine della guerra), quanto in quella dei
complementi. Gli ufficiali di complemento, della
Milizia Territoriale e di riserva, allo scoppio del
conflitto erano 27.500. Nel corso del conflitto ne
vennero nominati altri 147.000.
Sulla piazza di Caporetto il generale Frugoni a colloquio con il
generale Mario Nicolis di Robilant, in secondo piano i colonnelli
Giardino e Badoglio (M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni
sommarie nella prima guerra mondiale, Gaspari Editore, Udine 2004,
p. 211)
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Le perdite dell’ufficialità durante la guerra
assommarono a circa 17.000 unità, anche se la cifra
lascia ancora qualche aspetto di incertezza
interpretativa.
Ufficiale e società
Nell’Italia umbertina e giolittiana, la figura
dell’ufficiale di carriera rivestiva uno status di
privilegio nella mentalità comune e nella stessa cultura
popolare. Il suo ruolo era considerato di prestigio, e
come tale particolarmente riconosciuto nella società
borghese, anche se gli emolumenti, soprattutto per i
gradi inferiori, non erano mai stati all’altezza della
posizione sociale. Nel corso dei decenni era diminuita
la presenza degli ufficiali provenienti dalle famiglie di
alto lignaggio e di antica consuetudine militare, quasi
sempre di rango nobiliare e di provenienza centro
settentrionale, principalmente piemontese. Questi
quadri si trovavano, tuttavia, in una posizione
favorevole nel veder dischiuse le posizioni più alte
della carriera. Era venuta crescendo, invece, la
componente medio e piccolo borghese: ceto
proprietario delle campagne, gruppo sociale degli
impieghi e delle professioni. In questo ambiente la
carriera militare rappresentava una sicura espressione
di miglioramento sociale.
Se vogliamo ridurre agli estremi la questione, possiamo
dire che la preparazione professionale dell’ufficialità
era inoltre accettabile, pur presentando qualche
rigidità in termini esecutivi ed operativi e
nell’autonomia di decisione. Povera invece ogni altra
prospettiva culturale e ciò sollecitava interventi
preoccupati nella pubblicistica militare dell’epoca (Del
Negro, 1989).
La consapevolezza di appartenere ad un mondo
esclusivo e, d’altra parte, la previsione, per la maggior
parte degli ufficiali, di una carriera lenta, routiniére,
poco retribuita, segnata dai continui spostamenti di
sede, si condensavano in disagio e frustrazioni che,
negli anni Novanta e nel primo decennio del secolo, si
espressero in forme di sordo malcontento.
Sul campo
La partecipazione al conflitto dell’ufficialità in servizio
permanente mise in rilievo i caratteri di dedizione,
fedeltà alla monarchia, valore personale nel
combattimento, capacità tecnica, ma anche, in
generale, burocraticità, mancanza di spirito autonomo,
scarsa elasticità, distacco nei confronti della truppa e
talora debole attenzione alle sue esigenze. Difetti di
casta, di formazione, nazionali se vogliamo.
Nondimeno, gli ufficiali subalterni delle armi
combattenti affrontarono con grande spregio del
pericolo gli assalti frontali guidando i soldati e dando
loro l’esempio, nei primi scontri, con un empito
addirittura risorgimentale: bandiere al vento e sciabola
sguainata, al segnale di carica delle “drappelle”
reggimentali. Soffrirono perdite considerevoli. La
funzione dell’ufficiale di truppa passò in maniera
preponderante agli ufficiali di complemento.
Gli ufficiali di complemento
Provenienti dalla borghesia e dai ceti colti, nello
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spirito delle leggi Ricotti gli ufficiali di complemento
avrebbero dovuto, terminato il servizio militare,
fornire i quadri di riserva dell’esercito in caso di
mobilitazione. Il reclutamento fu eterogeneo: ufficiali
di carriera che avevano abbandonato il servizio,
sottufficiali che avevano ben meritato, allievi che
avevano frequentato i corsi regolari nei plotoni presso i
Corpi o erano usciti dal “volontariato di un anno”
(Rochat, 1989). In quest’ultimo caso, l’ordinamento
adottato consentiva al volontario, dietro pagamento di
una cifra rilevante, la ferma di un solo anno, seguita da
un esame e, superato questo, dalla nomina a
sottotenente o sergente. Gli aspetti del privilegio, del
riconoscimento del censo, della scarsa preparazione
professionale risultarono preponderanti, quello militare
assolutamente carente. Prima della grande guerra
l’istituto del “volontariato di un anno” fu soppresso,
sommerso dalle critiche del mondo politico, della
stampa, degli stessi ambienti militari.
La fabbrica degli ufficiali
Gli ufficiali di complemento che entrarono nelle file
dell’esercito allo scoppio e nel corso della guerra
rappresentarono, in genere, ben altra virtù morale e
militare. Animati in molti casi da forti motivazioni
ideali, lontani dalle rigidità dei professionisti militari,
più solidali con la truppa, con cui condividevano il
legame con la vita civile, a migliaia, addestrati in
sommari corsi di pochi mesi, prestarono servizio come
ufficiali
subalterni
nelle
trincee,
svolgendo
un’importante funzione di coesione nazionale e
militare. Rappresentarono il contributo più alto dei
ceti colti e della borghesia nazionale alla guerra: il
titolo di scuola media superiore comportò tra il 1916 e
il 1917, obbligatoriamente, la partecipazione ai corsi
accelerati.
L’accesso ai ranghi superiori rimase loro quasi sempre
precluso.
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e croati, sloveni, ma anche polacchi ed ucraini, rumeni
e slovacchi, ruteni e italiani, rappresentavano anche
nell’esercito la fusione di popoli e di etnie, piccole e
grandi, propria dell’Impero asburgico.
Reclutamento “regionale”
L’organizzazione
dell’esercito
fu
segnatamente
territoriale. Ogni sede di reggimento fungeva anche da
circolo territoriale di reclutamento. Il carattere dei
reparti risultò così regionale. Ciò, nel contesto della
Duplice monarchia, poteva significare la presenza di
più gruppi nazionali. Il reggimento di fanteria n. 97 come il n. 27, 47, 87, il n. 5 di cavalleria, il n. 27
Landwehr (“Lubiana”) e il n. 5 Landwehr (“Pola”) - era
ad esempio formato da coscritti della regione giuliana:
italiani, ma anche sloveni e croati. Altri reggimenti,
provenienti da aree etniche più compatte, potevano
invece risultare omogenei dal punto di vista nazionale.
Il reggimento n. 4 di stanza a Vienna (i famosi
Deutschmeister, che combatteranno sul medio Isonzo)
era composto interamente o quasi da tedeschi. Il
reggimento n. 28 di fanteria, messo brutalmente in
rotta dai russi in Galizia e poi attivo sul San Michele,
era formato quasi integralmente da cechi. Il
reggimento n. 17 era tutto sloveno.
[Angelo Visintin]
Crogiuolo di popoli nell'esercito imperiale
Le riforme militari dopo Sadowa
In Austria-Ungheria, dopo la bruciante sconfitta del
1866 con la Prussia, l’assetto della struttura militare fu
al centro di una integrale riforma, anch’essa mutuata
dal modello tedesco, secondo i caratteri che di questo
in precedenza abbiamo individuato. Il K. und k.
(Kaiserlich und königlich; imperiale e regio) esercito
austro-ungarico si fondava sull’Armee (esercito
comune) e sulle milizie nazionali della Landwehr e
della Honvéd, che riunivano rispettivamente i coscritti
e i riservisti dell’entità austriaca e di quella ungherese.
La milizia della leva in massa (l’austriaca Landsturm e
l’ungherese Népfölkelök) comprendeva i congedati
delle classi più anziane. Era per loro previsto un
impiego territoriale, all’interno; di fatto anche questi
soldati verranno mandati al fronte.
Furono adottate delle correzioni per adeguare le linee
di fondo della riforma alla specifica realtà dell’esercito
imperiale, contraddistinto da una composizione
multietnica. I coscritti tedeschi, ungheresi, cechi, serbi
Giuramento di fedeltà alla monarchia degli ufficiali austro-ungarici Collezione Dal Molin (E. Cernigoi, R. Lenardon, P. Pozzato, Soldati
dell'Impero. La struttura e l'organizzazione dell'esercito della
monarchia asburgica, Itinera progetti, Bassano del Grappa 2002, p.
12)
Le unità reggimentali – prima della guerra ve ne erano
102, per la sola fanteria, in tutto l’Impero – potevano
essere stanziate in una regione diversa dalla zona di
reclutamento: allo scoppio della guerra il 97° era ad
esempio dislocato a Bjelovar, in Croazia. L’elemento
unificante e coesivo della specifica provenienza
territoriale era nondimeno tenuto in debita
considerazione dai comandi, che riconoscevano, oltre
al tedesco, la lingua ufficiale di servizio nell’esercito
comune, l’uso di una o più delle lingue nazionali di
provenienza, ove fossero preminenti. Il sentimento
religioso era valorizzato, nel rispetto delle diverse
fedi, da cui discendevano talora specifici costumi
alimentari e regole per le uniformi.
In comune con quanto messo in atto negli altri eserciti,
una legge del 1911 fissò la ferma a due anni.
L’addestramento alle armi poteva essere considerato
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all’altezza dei principali eserciti europei. Similari agli evacuata il 3 settembre. I russi investirono per ben due
altri complessi militari del continente erano pure le volte l’importante piazzaforte di Przemyśl (che dovrà
norme della condotta bellica.
arrendersi nel marzo 1915, con 120.000 uomini e
un’enorme quantità di materiali). Nell’inverno le forze
L’ufficialità
russe si affacciarono ai passi di Dukla, Łupków e Uzsok
Gli ufficiali erano devotissimi alla Corona, che sui Carpazi, minacciarono di tracimare nella pianura
anteponevano alla loro stessa appartenenza nazionale. ungherese e furono trattenute con difficoltà. In Serbia,
La provenienza dei quadri rimandava perlopiù al ceppo a dicembre, le truppe austro-ungariche erano di nuovo
tedesco, soprattutto tra il personale permanente (quasi in rotta. Prima della fine dell’anno, l’esercito
l’80 %, in questo caso). Nella carriera, l’elemento imperiale aveva avuto 900.000 perdite, tra morti, feriti
tedesco era per tradizione privilegiato. Ciò nonostante e dispersi.
diversi ufficiali delle altre nazionalità giunsero a posti Sembrava che le tensioni nazionali nell’Impero,
di alto comando o di responsabilità: si pensi a ingovernabili negli ultimi decenni, avessero inciso in
Boroević, il comandante dell’Isonzo Armee, che era profondità sulla stessa struttura dell’esercito, se è vero
originario della Krajna (Croazia). La piccola che i reparti giuliani e cechi avevano dato una debole
componente ebraica era anch’essa ben rappresentata prova e, in qualche caso, si erano sbandati o arresi in
tra i quadri. L’apertura alle nazionalità diverse da massa. Pareva d’altra parte essere venuta meno la
quella germanica era la condizione stessa della capacità coesiva che l’esercito aveva sempre
sopravvivenza di un impero in misura sempre minore considerato come missione nazionale primaria.
tedesco e più accentuatamente magiaro e slavo. È da Sottolineava un corrispondente di guerra italiano, nel
dire che questo indirizzo fu vissuto con ostilità e periodo della neutralità: “I soli che abbiano un
riluttanza negli ambienti conservatori di Vienna e singolare sentimento della patria sono i magiari. Gli
inteso soltanto come azione di cooptazione o di altri vanno alla guerra perché c’è la guerra e sono
bilanciamento
nazionale.
L’aristocrazia
forniva soldati. Molti non sanno nemmeno perché la guerra ci
tradizionalmente gli ufficiali delle armi d’élite (come sia” (Fraccaroli, 1914). Inoltre, l’impreparazione alla
la cavalleria) e i componenti dello stato maggiore.
guerra di movimento era apparsa con cocente
Il riconoscimento sociale era alto. Negli eventi evidenza.
mondani, nei salotti civili, l’ufficiale portava un senso Soltanto nella primavera del 1915 l’iniziativa passò agli
di distinzione e prestigio, compensazione alla grigia austro-ungheresi, ma con il risolutivo aiuto di truppe
vita di guarnigione che Joseph Roth ha magistralmente germaniche. Lo sfondamento operato dagli Imperi
descritto ne La marcia di Radetzsky. L’ufficialità Centrali tra Tarnów e Gòrlice in maggio aprì la strada
mostrava, nel suo complesso, grande coesione interna. alla rioccupazione di Przemyśl e dei territori galiziani.
Per ciò che concerne, infine, l’ufficialità di A fine giugno fu ripresa Leopoli. Più a nord i russi
complemento va detto che l’istituzione del dovettero abbandonare Lublino, Varsavia e Vilnius.
volontariato di un anno, ripreso esso pure dalle Nell’autunno il fronte si era stabilizzato lungo una
consuetudini militari prussiane, non si trasformò, come precaria linea che da Riga, sul Baltico, giungeva alla
in Italia, in una poco decorosa ostentazione del censo, Bucovina, sul Mar Nero.
ma consentì la formazione di migliaia di rispettati e Nel 1916, al principio dell’estate, l’esercito zarista
volenterosi quadri della riserva.
attuò un’operazione militare di grande portata.
L’«offensiva Brusilov» determinò una nuova rottura del
[Angelo Visintin]
fronte, un pesante arretramento austro-ungherese,
perdite rilevanti, ma lo sforzo si esaurì rapidamente e
L’esercito k. und k. sui fronti della guerra
con esso la capacità militare offensiva dell’intero
esercito russo. Una contromossa austro-tedesca riportò
Le difficoltà sul fronte serbo e russo
Nonostante l’efficacia operativa dell’esercito fosse il fronte verso est, sulle posizioni iniziali.
posta in qualche dubbio dagli stessi opinionisti, che L’inverno e gli avvenimenti interni all’impero dello
chiamavano in causa le ristrettezze dei bilanci e le Zar, con lo scoppio della rivoluzione (febbraio 1917),
limitazioni negli organici (situazione condivisa in parte stabilizzarono il campo di battaglia su posizioni ancor
con l’Italia), l’entusiasmo e il patriottismo asburgico più favorevoli agli Imperi Centrali. Un ultimo sussulto
non mancarono nei volontari (Freiwilliger), nei bellico, l’«offensiva Kerenskij», nel luglio 1917, sancì
coscritti e nei riservisti durante i giorni della la definitiva disfatta dell’apparato militare russo. Poi
dichiarazione di guerra e della mobilitazione generale, sul fronte orientale le armi tacquero, soverchiate
come non mancarono a tutta la “comunità di agosto”: dall’incalzare rapido degli eventi rivoluzionari.
treni pavesati; fiori, alloro e fronde di quercia sulle L’armistizio del nuovo potere sovietico con la
canne dei fucili; apparente assenza di divisioni Germania, l’Austria-Ungheria e i loro alleati fu firmato
nazionali o sociali. Nell’attesa di tutti vi erano facili nel dicembre 1917.
Sul fronte balcanico, con l’aiuto determinante delle
vittorie.
L’esordio del conflitto si mostrò sotto pessimi auspici, armate tedesche e bulgare, alla fine del 1915 gli
rivelando le crepe del sistema statuale soprannazionale austro-ungarici ebbero ragione dell’esercito serbo e, di
unificato dalla dinastia. Nell’estate 1914 i reparti lì ad un anno, portarono rapidamente alla sconfitta
austro-ungheresi furono duramente battuti in Serbia e quello della Romania, intempestivamente entrata in
sul fronte orientale. In Galizia, Leopoli dovette essere guerra a fianco dell’Intesa.
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altro tasto su cui agirono i sistemi propagandistici,
necessaria per salvare “i sacri confini dell’Impero”
dalla minaccia dei Welschen (“latini”), gli italiani.
Sensibili a questo motivo si mostrarono soprattutto i
soldati sloveni e croati, per i quali la difesa della causa
asburgica poteva al contempo significare, in maniera
schematica, la difesa delle proprie terre. Queste
truppe, già caratterizzate da una rude combattività,
lottarono implacabilmente.
La guerra di difesa, appoggiata da fortificazioni via via
più sicure e forti, consentiva poi, pur nei disagi e
nell’incognita della morte propri della guerra di
posizione, quella percezione di minor rischio che sola
nasce dalla possibilità che debba essere l’avversario a
compiere la prima mossa, peraltro prevedibile.
Uscendo dall’ambito della psicologia del soldato, il
combattimento in una posizione protetta offre
un’innegabile capacità di sopravvivenza su chi è
costretto a procedere allo scoperto. Inoltre, i
Un reggimento di fanteria austroungarico in un momento di riposo sul contrattacchi erano sortite limitate, non avanzate
fronte galiziano (H. P. Willmott, La Prima Guerra Mondiale, generali, e, tranne i casi disperati di rioccupazione
Mondadori, Milano 2004, p. 64)
delle posizioni perdute, quasi sempre godevano
dell’effetto di sorpresa. Ogni ritirata portava infine la
Le rinnovate capacità combattive sul fronte italiano
sicurezza della ricostituzione del fronte su linee
In realtà, se il rendimento bellico del combattente in
arretrate.
Feldgrau (“grigioverde”) sul fronte orientale e
balcanico fu quantomeno oscillante e non privo di
Una precisazione, tuttavia
improvvisi crolli nel morale e nella capacità
Con ciò non vogliamo certo dare la sensazione che i
combattiva, il contegno delle truppe sul fronte italiano
combattenti austro-ungarici percepissero chiaro un
si presentò particolarmente saldo. In termini di
senso
di
superiorità
morale
o,
tantomeno,
efficienza e di condotta militare, muovendo da una
conducessero una guerra facile. La Lustige Krieg, la
situazione che fu sempre di inferiorità numerica, di
“guerra allegra” evocata da alcuni memorialisti
dotazioni ed equipaggiamenti, l’esercito austroaustriaci è un’invenzione letteraria e, nella maggior
ungherese sul fronte dell’Isonzo mostrò una capacità
parte dei casi, postuma. La vita e le azioni di guerra
notevole (Sema, 1995-1997). L’abilità nel contendere il
nelle trincee carsiche erano terribili e dolorose per i
terreno e la capacità di sfruttare al meglio
soldati imperiali almeno quanto lo fossero per gli
l’armamento furono a dir poco insuperabili; i comandi
italiani, le perdite furono quasi altrettanto cospicue.
quasi sempre si mostrarono all’altezza delle complesse
Abbiamo soltanto voluto individuare un coagulo di
situazioni da affrontare. Tutto ciò ha a che fare con
elementi e contesti che potrebbero aver influito sulla
ragioni di indole diversa, ma concordi nel delineare il
caparbia resistenza opposta agli italiani. Di altre
quadro di coesione e compattezza nella resistenza agli
componenti, in questo caso comuni ai combattenti
italiani. Ne segnaliamo qualcuna.
dell’opposta parte del fronte e inerenti ai caratteri del
conflitto sul fronte isontino, diremo in un
Le cause del “ miracolo” dell’Isonzo
approfondimento.
Innanzitutto, le truppe che lottarono sulla linea
dell’Isonzo avevano alle spalle diversi mesi di guerra [Angelo Visintin]
sugli altri fronti, e quindi un’esperienza reale di
combattimento in una guerra moderna e per certi versi Fattori accomunanti e fattori disgreganti
già “totale”. Gli italiani, e in taluni casi i soli ufficiali,
potevano invece far conto su esperienze cruente ma Il problema: l’Italia di fronte al conflitto
limitate, come le guerre coloniali. Ciò garantiva agli “La Grande Guerra costituisce per gli italiani un
austro-ungheresi un vantaggio tattico iniziale, che essi momento di rifusione, che non si risolve in maniera
definitiva con la scelta dell’intervento maturata nel
seppero valorizzare e consolidare.
Questa era, inoltre, una guerra in cui convincenti lungo dibattito fra il 1914 e il 1915, tanto è vero che,
ragioni morali di adesione alle finalità del conflitto - al momento della rotta di Caporetto, c’è chi
ideali, patriottiche, dinastiche che fossero - erano razionalizza gli incubi sociali, dando corpo ai fantasmi
labili o facevano scarsa presa di fronte ad un’istintiva dell’estraneità e del tradimento, e commenta in chiave
ripulsa alla guerra o a motivazioni più coscienti di «ci siamo arrivati e non potevamo non arrivarci, è
(nell’Impero, l’accentuazione dei valori nazionali o il l’esito dell’antico e irrisolto scollamento tra società e
pacifismo socialista). Tuttavia, il motivo del stato». Non era così, automatico e consequenziale,
tradimento “dell’infido alleato meridionale” poteva perché altrimenti non ci sarebbe stato Vittorio Veneto”
essere ben speso dalla propaganda e contare su effetti (Isnenghi, 1997).
persuasivi. A ciò si univa il tema della guerra difensiva, Posto in questi termini, si evidenzia subito il nucleo del
Consorzio Culturale del Monfalconese
problema che emerge dall’analisi delle vicende del
primo conflitto mondiale, per quanto concerne l’Italia:
quali furono gli elementi di aggregazione che agirono
tra gli uomini comuni di fronte a una guerra che la
maggioranza del paese non aveva scelto di fare?
Certo bisogna considerare che l’unità datava solo una
cinquantina d’anni, che le prove militari fino ad allora
compiute non erano state per nulla esaltanti, che
l’interventismo era un fenomeno tutto sommato
elitario e che la coesione delle varie componenti
sociali e culturali faceva difetto.
L’esercito italiano. Caratteri
L’esercito italiano era, almeno in teoria, un esercito
nazionale, dato che nei suoi reggimenti confluivano
reclute da ogni parte d’Italia e se era anche esistita
all’inizio della guerra qualche traccia di territorialità
fu ben presto superata dai costi in vite umane e dalla
sostituzione dei caduti con soldati provenienti da tutto
il territorio nazionale.
Tra gli ostacoli alla creazione di un’entità coesa vi
erano l’analfabetismo molto diffuso, la varietà dei
dialetti, l’estraneità di alcune fasce sociali rispetto
alle istituzioni statali, per lungo tempo responsabili del
peggioramento delle condizioni delle masse rurali,
principalmente meridionali.
Davanti alla realtà della guerra
Per superare questi ostacoli vennero messe in atto
strategie propagandistiche mirate, di cui si parla in
altra parte.
Prigionieri italiani a Udine (H. P. Willmott, La Prima Guerra
Mondiale, Mondadori, Milano 2004, p. 64)
Tuttavia, la realtà della vita quotidiana al fronte, tra
assalti, rischi, morte, privazione, noia, lontananza
dalle famiglie, ecc., fu molto più efficace di qualsiasi
strategia attuata dalle autorità, anche presso coloro
che si erano avvicinati con entusiasmo alla guerra. Tra
molti degli stessi fautori dell’intervento si diffusero
sentimenti di delusione e di stanchezza, che non
giovarono certo alla tenuta dei reparti. Nonostante ciò,
va riconosciuto che i soldati non diedero cattiva prova,
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tanto più che il disastro di Caporetto, enfatizzato in
Italia per motivi ideologici di varia natura, non fu un
elemento
isolato
sui
fronti
del
1917.
La disgregazione dell’esercito imperiale
Nell’esercito austriaco, a composizione plurinazionale,
le perdite di vite umane, percentualmente maggiori
rispetto a quelle italiane, le difficoltà di armamento e
di vettovagliamento, nonché soprattutto l’esplodere
delle divisioni nazionali compromisero le possibilità di
fronteggiare l’avanzata italiana dell’ottobre 1918.
Il senso della “Finis Austriae” fece sì che ciascuna
nazionalità mirasse a salvaguardare i propri interessi.
Interessante per cogliere l’atmosfera degli ultimi giorni
di guerra tra le fila dell’esercito austriaco è la
descrizione che ne fa il sottufficiale sloveno Ciril
Prestor: “Nella tenuta del conte Pajačevič. Grandi
mulini e grandi proprietà. La disciplina austriaca è
andata in frantumi. I soldati si riunivano per
nazionalità. Dormivano sotto il cielo aperto o nelle
stalle della tenuta. Apprendemmo che si tornava a
casa, per primi i soldati ungheresi e poi gli altri. Gli
ungheresi si preparavano a fucilarci. Il Zugführer
Prosensky mi ha dato uno schiaffo, io gli ho risposto
con la baionetta. I cechi hanno preparato la munizione
per i cannoni, in caso ci fosse la necessità di
difendersi. Il generale Lavdon ha reagito contro i
soldati che non hanno salutato. In seguito è stato
malmenato dai soldati, denigrato, umiliato; gli hanno
stracciato i gradi e tolte le strisce rosse da genarle dai
calzoni. Gli ufficiali si sono nascosti. I soldati stessi
hanno oziato a cercare gli ufficiali. Ho salutato il
centurione Čihak. Ci fu un terribile disordine. Ognuno
cercava di vendicarsi e nello stesso tempo aveva paura
per la sua persona”. Prestor in questo suo scritto coglie
l’esplodere degli odi latenti tra le diverse etnie sul
fronte serbo e mentre l’autorità imperiale si va
dissolvendo emergono i segni di ostilità che
avveleneranno tanta parte del XX secolo.
Scrive lo storico Jože Pirjevec: “Il numero crescente
dei caduti – quasi quattrocento mila sul fronte isontino
– le precarie condizioni in cui si trovavano le masse per
la mancanza di cibo e di generi di prima necessità, la
consapevolezza sempre più diffusa che gli Sloveni si
sarebbero trovati tra gli sconfitti, senza considerare
chi sarebbe stato il vincitore, suscitarono nei mesi
conclusivi del conflitto una crescente avversione
all’inutile carneficina e alla classe dirigente che
l’aveva voluta. Essa si manifestò in tutta una serie di
rivolte militari, scoppiate tra i soldati sloveni nella
primavera del 1918, nella formazione di bande di
disertori, i così detti «gruppi verdi», che si rifugiarono
nei boschi per sottrarsi al fronte, e nel movimento di
massa, per la costituzione di uno stato jugoslavo,
conosciuto come il «movimento di maggio», che aveva
una punta ormai chiaramente antiasburgica”.
[Massimo Palmieri]