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Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it Proposte per la scuola 5. ESERCITI E POPOLI IN GUERRA [a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin] Esercito italiano: ordinamento e reclutamento Le origini La struttura dell’esercito del Carso, di Caporetto e del Piave, come noi lo conosciamo, trova le sue lontane radici in parte nelle scelte degli uomini che “avevano fatto l’Italia” e perciò nel modello di unificazione degli eserciti preunitari, in parte nell’assetto conferito dalle riforme degli anni Settanta. L’esigenza di tener salda la compagine militare in uno stato sorto da poco, necessariamente poco coeso, fu la priorità seguita nella politica militare dopo il 1861. Le tradizioni militari, gli ordinamenti e le forme di reclutamento degli staterelli preunitari erano infatti troppo diverse. La soluzione ricercata, in una qualche misura prevedibile, fu quella seguita in altri campi dell’amministrazione statale: una sorta di “piemontesizzazione” forzata per quanto riguarda l’assetto dell’esercito unitario, i suoi ordinamenti e la sua “mentalità”. Dal punto di vista dell’organica, l’intento era di favorire in tempi rapidi l’amalgama tra i coscritti delle diverse regioni. L’esercito piemontese si fondava allora su un ristretto numero di professionisti a lunga ferma, coadiuvati dai chiamati alla leva e dai riservisti: un esercito proporzionato a guerre di tipo dinastico e al mantenimento dell’ordine pubblico. Il suo prestigio era in Italia, dopo la conclusione delle guerre risorgimentali, senza pari. Le riforme degli anni Settanta La vittoria prussiana del 1870 diede la spinta finale all’esigenza di riforma degli ordinamenti, da tutti sentita necessaria dopo le prove militari degli anni Sessanta (lotta al brigantaggio, guerra del 1866). Nell’Europa degli stati nazionali – si pensava – lo strumento militare avrebbe dovuto rinnovarsi, chiamare il popolo alle armi, senza tuttavia procurare un indebolimento degli equilibri sociali e dell’ordine borghese. Le riforme del ministro Ricotti, dal 1871 al 1876, e dei successori rappresentarono un grande sforzo di adeguamento dell’esercito alla nuova realtà europea e alla formazione di un esercito autenticamente nazionale. Fu accolto, con alcune varianti, il “modello prussiano”: ferma breve, ridotta a tre anni, per tutte le persone abili, secondo il principio di obbligatorietà – che era stato della rivoluzione francese, napoleonico e poi della rinascita prussiana – per cui ogni cittadino doveva contribuire alla difesa della nazione (dopo il servizio di leva, lo avrebbe fatto tra i riservisti). Sarà questa la forma organica dell’esercito italiano nella Grande Guerra e, in generale, in tutto il Novecento. In caso di conflitto, la mobilitazione –cui, è chiaro, veniva data importanza centrale – avrebbe consentito il completamento delle truppe di prima schiera con i complementi più giovani e avrebbe portato alla costituzione della Milizia Mobile e della Milizia Territoriale con i soggetti più anziani, per compiti minori come il presidio del territorio. La revisione degli ordinamenti fu accompagnata da modifiche dell’organizzazione di difesa del territorio, da una nuova sistemazione delle circoscrizioni territoriali, da uno sforzo di ammodernamento degli armamenti. Dalle origini alla propaganda: cartolina in franchigia commissionata dalla Quinta Armata. Nel 1918 fu diffusa una serie di manifesti e cartoline propagandistiche che esortavano a diffidare dei “traditori interni”, cioè di chi sosteneva che tra i soldati serpeggiassero malcontento, insofferenza e desiderio di pace a qualsiasi costo (M. Isnenghi, La Grande Guerra, Giunti-Casterman, Firenze 2003, p.59) La via italiana: il reclutamento “nazionale” Del modello prussiano, tuttavia, non si volle accogliere uno degli elementi qualificanti e costitutivi: il cosiddetto “reclutamento regionale” o territoriale. In Germania i reggimenti si formavano con i coscritti di una regione, quella in cui l’unità era dislocata. Ciò consentiva un’obiettiva semplificazione amministrativa (soprattutto nel reclutamento), rendeva rapide le procedure di mobilitazione, radicava i rapporti di solidarietà e coesione tra i coscritti, in una realtà sociale europea ancora dominata dall’idea della “piccola patria”. I governi della Destra scelsero invece una soluzione diversa. Il reclutamento fu disposto su basi rigidamente “nazionali”, inserendo nei reggimenti uomini provenienti da due regioni. Le unità venivano dislocate in una terza, ulteriore regione. Questa misura mostrava ben pochi vantaggi militari, ma sicuramente ne possedeva uno politico. Diversamente dalla Germania, dove, nonostante la presenza di forti contrapposizioni Consorzio Culturale del Monfalconese di censo o tra i Länder, l’unità della nazione non era in discussione, la stabilità sociale era garantita e il patriottismo diffuso, l’Italia appariva, agli occhi del suo ceto dirigente, uno stato ancora in formazione, privo di coesione nazionale e preda delle convulsioni sociali e del localismo civico e regionale, di focolai di rivolta spenti con difficoltà. Un mito dell’Italia liberale La soluzione dei governanti consentiva dunque, entro buoni margini, un giusto mezzo tra la possibilità di condurre, con uno strumento militare rafforzato, una politica europea alla stregua delle altre nazioni e, d’altra parte, la necessità di mantenere ben definiti i rapporti tra i ceti all’interno del paese (Rochat, Massobrio, 1978). La retorica postrisorgimentale seppe poi trasformare un provvedimento a difesa dello stato e degli equilibri sociali in uno dei miti fondanti per la formazione dell’identità nazionale e patriottica degli italiani (esercito come “scuola della nazione”, fonte di educazione morale e nazionale). Solo alle truppe alpine fu consentita una forma di reclutamento territoriale, ma l’ambiente di provenienza, tradizionalista e d’ordine, sembrava poter dare garanzie sulla fedeltà dei reparti. Non si può dire, d’altra parte, che alle soglie della Grande Guerra, il sistema nazionale di reclutamento (le stesse considerazioni varrebbero anche per il sistema scolastico) avesse rinsaldato il senso patrio degli italiani, né che avesse contribuito a creare attorno all’esercito un’atmosfera di partecipe unanimità. L’Italia dei particolarismi era ben viva. Nel bene e nel male sarà la trincea - in un’accezione diversa da quanto successivamente le forze nazionaliste e il fascismo cercheranno di accreditare (“trincerocrazia”) - un luogo di unificazione delle masse. www.grandeguerra.ccm.it nell’anno successivo a 65; saranno poco meno, 57, nel 1918 (Stefani, 1984). I Corpi d’armata, che raggruppavano le divisioni e le unità minori dipendenti (brigate, reggimenti, etc.) passarono da 14 (1915) a 25 (1917). Dal sommario computo abbiamo escluso le truppe stanziate nel paese, i cui effettivi furono sempre al di sopra del mezzo milione, e destinati ulteriormente ad impennarsi dopo Caporetto. Complessivamente sui luoghi delle operazioni si avvicendarono ben 4.200.000 soldati. I tre quarti appartenevano alla fanteria. Seicentomila furono i morti, un milione i feriti e gli invalidi, oltre mezzo milione i prigionieri. Le cifre dell’impegno bellico mostrano, dunque, uno sforzo di mobilitazione delle risorse umane senza precedenti per la nazione. [Angelo Visintin] Alla prova della Grande Guerra Alcune cifre della guerra italiana Allo scoppio della guerra mondiale e a poco più di cinquant’anni dall’unificazione del paese, l’organismo militare italiano poteva considerarsi sufficientemente solido e addestrato. Era stato superato senza troppe difficoltà anche lo scoglio della riforma del servizio: la ferma era stata da poco (1910) portata a due anni, sull’esempio degli altri stati europei. L’arma più tipica, la fanteria, poteva contare su 94 reggimenti, che formavano 47 brigate. La qualità degli armamenti e dell’equipaggiamento non rispondeva sempre ai più elevati livelli continentali, ma nel complesso era avvertibile uno sforzo di rinnovamento dei materiali. L’entrata in guerra dell’Italia determinò uno sviluppo enorme dell’apparato militare: alla fine del 1915 l’esercito operante poteva contare su un milione di soldati; oltre due milioni e duecentomila uomini gravitavano sul fronte nel 1917. L’incremento delle unità fu esponenziale. Per ripianare le perdite e far fronte alle esigenze dello sforzo bellico, nel 1916 le divisioni di fanteria furono portate da 35 a 48, Fanteria italiana all'attacco (G. Tomasoni, C. Nuvoli, La Grande Guerra raccontata dalle cartoline, Arca Edizioni, 2004, p. 274) Il soldato italiano e la guerra Tradizionalmente, il tipico coscritto italiano considerava la vita nell’esercito come un’incombenza ineludibile ma negativa e la caserma un ambiente di costrizione e disciplina ferrea, di allontanamento ed estraniazione dal mondo di appartenenza. Ciò a fronte della festosità delle usanze paesane che celebravano la partenza per la leva e di una mentalità popolare che considerava formativo e virile - un vero “rito di passaggio” - il servizio militare. Solo una ristretta minoranza di operai e contadini nutriva l’istintiva Consorzio Culturale del Monfalconese ostilità con una chiara e antagonistica consapevolezza individuale e politica. Coscritti e richiamati, perlopiù provenienti dal mondo rurale, accolsero generalmente come una dolorosa sventura l’entrata in guerra e affrontarono con le consuete doti di fatalismo, pazienza, obbedienza poco partecipe, ingegnosità e spirito di sopravvivenza una scelta fatta altrove e da altri. Il reclutamento nazionale d’altra parte non sviluppò la coesione dei reparti. In generale, le prime campagne costarono all’esercito italiano un pesante tributo in termini di truppe di prima linea, giovani e più vigorose, e di ufficiali esperti e preparati. La logica della guerra di attrito, di massa e materiale, impose poi la mobilitazione nel paese di sempre maggiori risorse umane, aumentò le classi anziane richiamate e determinò nel prosieguo del conflitto un peggioramento della efficacia bellica e, forse, della capacità combattiva dei soldati. Fattore, questo, aggravato dalla frettolosità dell’addestramento della truppa e dalla brevità dei corsi di formazione per ufficiali, dall’inesorabilità del controllo e della repressione, ma in primo luogo da ascrivere ai caratteri di logoramento psichico e fisico propri della guerra di posizione. [Angelo Visintin] L’ufficiale italiano e la guerra Il corpo degli ufficiali vide anch’esso un incremento fortissimo, non tanto nella categoria dei quadri provenienti dal servizio permanente effettivo (quasi 16 mila nell’agosto 1914, gli ufficiali di carriera saranno 22.500 alla fine della guerra), quanto in quella dei complementi. Gli ufficiali di complemento, della Milizia Territoriale e di riserva, allo scoppio del conflitto erano 27.500. Nel corso del conflitto ne vennero nominati altri 147.000. Sulla piazza di Caporetto il generale Frugoni a colloquio con il generale Mario Nicolis di Robilant, in secondo piano i colonnelli Giardino e Badoglio (M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Gaspari Editore, Udine 2004, p. 211) www.grandeguerra.ccm.it Le perdite dell’ufficialità durante la guerra assommarono a circa 17.000 unità, anche se la cifra lascia ancora qualche aspetto di incertezza interpretativa. Ufficiale e società Nell’Italia umbertina e giolittiana, la figura dell’ufficiale di carriera rivestiva uno status di privilegio nella mentalità comune e nella stessa cultura popolare. Il suo ruolo era considerato di prestigio, e come tale particolarmente riconosciuto nella società borghese, anche se gli emolumenti, soprattutto per i gradi inferiori, non erano mai stati all’altezza della posizione sociale. Nel corso dei decenni era diminuita la presenza degli ufficiali provenienti dalle famiglie di alto lignaggio e di antica consuetudine militare, quasi sempre di rango nobiliare e di provenienza centro settentrionale, principalmente piemontese. Questi quadri si trovavano, tuttavia, in una posizione favorevole nel veder dischiuse le posizioni più alte della carriera. Era venuta crescendo, invece, la componente medio e piccolo borghese: ceto proprietario delle campagne, gruppo sociale degli impieghi e delle professioni. In questo ambiente la carriera militare rappresentava una sicura espressione di miglioramento sociale. Se vogliamo ridurre agli estremi la questione, possiamo dire che la preparazione professionale dell’ufficialità era inoltre accettabile, pur presentando qualche rigidità in termini esecutivi ed operativi e nell’autonomia di decisione. Povera invece ogni altra prospettiva culturale e ciò sollecitava interventi preoccupati nella pubblicistica militare dell’epoca (Del Negro, 1989). La consapevolezza di appartenere ad un mondo esclusivo e, d’altra parte, la previsione, per la maggior parte degli ufficiali, di una carriera lenta, routiniére, poco retribuita, segnata dai continui spostamenti di sede, si condensavano in disagio e frustrazioni che, negli anni Novanta e nel primo decennio del secolo, si espressero in forme di sordo malcontento. Sul campo La partecipazione al conflitto dell’ufficialità in servizio permanente mise in rilievo i caratteri di dedizione, fedeltà alla monarchia, valore personale nel combattimento, capacità tecnica, ma anche, in generale, burocraticità, mancanza di spirito autonomo, scarsa elasticità, distacco nei confronti della truppa e talora debole attenzione alle sue esigenze. Difetti di casta, di formazione, nazionali se vogliamo. Nondimeno, gli ufficiali subalterni delle armi combattenti affrontarono con grande spregio del pericolo gli assalti frontali guidando i soldati e dando loro l’esempio, nei primi scontri, con un empito addirittura risorgimentale: bandiere al vento e sciabola sguainata, al segnale di carica delle “drappelle” reggimentali. Soffrirono perdite considerevoli. La funzione dell’ufficiale di truppa passò in maniera preponderante agli ufficiali di complemento. Gli ufficiali di complemento Provenienti dalla borghesia e dai ceti colti, nello Consorzio Culturale del Monfalconese spirito delle leggi Ricotti gli ufficiali di complemento avrebbero dovuto, terminato il servizio militare, fornire i quadri di riserva dell’esercito in caso di mobilitazione. Il reclutamento fu eterogeneo: ufficiali di carriera che avevano abbandonato il servizio, sottufficiali che avevano ben meritato, allievi che avevano frequentato i corsi regolari nei plotoni presso i Corpi o erano usciti dal “volontariato di un anno” (Rochat, 1989). In quest’ultimo caso, l’ordinamento adottato consentiva al volontario, dietro pagamento di una cifra rilevante, la ferma di un solo anno, seguita da un esame e, superato questo, dalla nomina a sottotenente o sergente. Gli aspetti del privilegio, del riconoscimento del censo, della scarsa preparazione professionale risultarono preponderanti, quello militare assolutamente carente. Prima della grande guerra l’istituto del “volontariato di un anno” fu soppresso, sommerso dalle critiche del mondo politico, della stampa, degli stessi ambienti militari. La fabbrica degli ufficiali Gli ufficiali di complemento che entrarono nelle file dell’esercito allo scoppio e nel corso della guerra rappresentarono, in genere, ben altra virtù morale e militare. Animati in molti casi da forti motivazioni ideali, lontani dalle rigidità dei professionisti militari, più solidali con la truppa, con cui condividevano il legame con la vita civile, a migliaia, addestrati in sommari corsi di pochi mesi, prestarono servizio come ufficiali subalterni nelle trincee, svolgendo un’importante funzione di coesione nazionale e militare. Rappresentarono il contributo più alto dei ceti colti e della borghesia nazionale alla guerra: il titolo di scuola media superiore comportò tra il 1916 e il 1917, obbligatoriamente, la partecipazione ai corsi accelerati. L’accesso ai ranghi superiori rimase loro quasi sempre precluso. www.grandeguerra.ccm.it e croati, sloveni, ma anche polacchi ed ucraini, rumeni e slovacchi, ruteni e italiani, rappresentavano anche nell’esercito la fusione di popoli e di etnie, piccole e grandi, propria dell’Impero asburgico. Reclutamento “regionale” L’organizzazione dell’esercito fu segnatamente territoriale. Ogni sede di reggimento fungeva anche da circolo territoriale di reclutamento. Il carattere dei reparti risultò così regionale. Ciò, nel contesto della Duplice monarchia, poteva significare la presenza di più gruppi nazionali. Il reggimento di fanteria n. 97 come il n. 27, 47, 87, il n. 5 di cavalleria, il n. 27 Landwehr (“Lubiana”) e il n. 5 Landwehr (“Pola”) - era ad esempio formato da coscritti della regione giuliana: italiani, ma anche sloveni e croati. Altri reggimenti, provenienti da aree etniche più compatte, potevano invece risultare omogenei dal punto di vista nazionale. Il reggimento n. 4 di stanza a Vienna (i famosi Deutschmeister, che combatteranno sul medio Isonzo) era composto interamente o quasi da tedeschi. Il reggimento n. 28 di fanteria, messo brutalmente in rotta dai russi in Galizia e poi attivo sul San Michele, era formato quasi integralmente da cechi. Il reggimento n. 17 era tutto sloveno. [Angelo Visintin] Crogiuolo di popoli nell'esercito imperiale Le riforme militari dopo Sadowa In Austria-Ungheria, dopo la bruciante sconfitta del 1866 con la Prussia, l’assetto della struttura militare fu al centro di una integrale riforma, anch’essa mutuata dal modello tedesco, secondo i caratteri che di questo in precedenza abbiamo individuato. Il K. und k. (Kaiserlich und königlich; imperiale e regio) esercito austro-ungarico si fondava sull’Armee (esercito comune) e sulle milizie nazionali della Landwehr e della Honvéd, che riunivano rispettivamente i coscritti e i riservisti dell’entità austriaca e di quella ungherese. La milizia della leva in massa (l’austriaca Landsturm e l’ungherese Népfölkelök) comprendeva i congedati delle classi più anziane. Era per loro previsto un impiego territoriale, all’interno; di fatto anche questi soldati verranno mandati al fronte. Furono adottate delle correzioni per adeguare le linee di fondo della riforma alla specifica realtà dell’esercito imperiale, contraddistinto da una composizione multietnica. I coscritti tedeschi, ungheresi, cechi, serbi Giuramento di fedeltà alla monarchia degli ufficiali austro-ungarici Collezione Dal Molin (E. Cernigoi, R. Lenardon, P. Pozzato, Soldati dell'Impero. La struttura e l'organizzazione dell'esercito della monarchia asburgica, Itinera progetti, Bassano del Grappa 2002, p. 12) Le unità reggimentali – prima della guerra ve ne erano 102, per la sola fanteria, in tutto l’Impero – potevano essere stanziate in una regione diversa dalla zona di reclutamento: allo scoppio della guerra il 97° era ad esempio dislocato a Bjelovar, in Croazia. L’elemento unificante e coesivo della specifica provenienza territoriale era nondimeno tenuto in debita considerazione dai comandi, che riconoscevano, oltre al tedesco, la lingua ufficiale di servizio nell’esercito comune, l’uso di una o più delle lingue nazionali di provenienza, ove fossero preminenti. Il sentimento religioso era valorizzato, nel rispetto delle diverse fedi, da cui discendevano talora specifici costumi alimentari e regole per le uniformi. In comune con quanto messo in atto negli altri eserciti, una legge del 1911 fissò la ferma a due anni. L’addestramento alle armi poteva essere considerato Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it all’altezza dei principali eserciti europei. Similari agli evacuata il 3 settembre. I russi investirono per ben due altri complessi militari del continente erano pure le volte l’importante piazzaforte di Przemyśl (che dovrà norme della condotta bellica. arrendersi nel marzo 1915, con 120.000 uomini e un’enorme quantità di materiali). Nell’inverno le forze L’ufficialità russe si affacciarono ai passi di Dukla, Łupków e Uzsok Gli ufficiali erano devotissimi alla Corona, che sui Carpazi, minacciarono di tracimare nella pianura anteponevano alla loro stessa appartenenza nazionale. ungherese e furono trattenute con difficoltà. In Serbia, La provenienza dei quadri rimandava perlopiù al ceppo a dicembre, le truppe austro-ungariche erano di nuovo tedesco, soprattutto tra il personale permanente (quasi in rotta. Prima della fine dell’anno, l’esercito l’80 %, in questo caso). Nella carriera, l’elemento imperiale aveva avuto 900.000 perdite, tra morti, feriti tedesco era per tradizione privilegiato. Ciò nonostante e dispersi. diversi ufficiali delle altre nazionalità giunsero a posti Sembrava che le tensioni nazionali nell’Impero, di alto comando o di responsabilità: si pensi a ingovernabili negli ultimi decenni, avessero inciso in Boroević, il comandante dell’Isonzo Armee, che era profondità sulla stessa struttura dell’esercito, se è vero originario della Krajna (Croazia). La piccola che i reparti giuliani e cechi avevano dato una debole componente ebraica era anch’essa ben rappresentata prova e, in qualche caso, si erano sbandati o arresi in tra i quadri. L’apertura alle nazionalità diverse da massa. Pareva d’altra parte essere venuta meno la quella germanica era la condizione stessa della capacità coesiva che l’esercito aveva sempre sopravvivenza di un impero in misura sempre minore considerato come missione nazionale primaria. tedesco e più accentuatamente magiaro e slavo. È da Sottolineava un corrispondente di guerra italiano, nel dire che questo indirizzo fu vissuto con ostilità e periodo della neutralità: “I soli che abbiano un riluttanza negli ambienti conservatori di Vienna e singolare sentimento della patria sono i magiari. Gli inteso soltanto come azione di cooptazione o di altri vanno alla guerra perché c’è la guerra e sono bilanciamento nazionale. L’aristocrazia forniva soldati. Molti non sanno nemmeno perché la guerra ci tradizionalmente gli ufficiali delle armi d’élite (come sia” (Fraccaroli, 1914). Inoltre, l’impreparazione alla la cavalleria) e i componenti dello stato maggiore. guerra di movimento era apparsa con cocente Il riconoscimento sociale era alto. Negli eventi evidenza. mondani, nei salotti civili, l’ufficiale portava un senso Soltanto nella primavera del 1915 l’iniziativa passò agli di distinzione e prestigio, compensazione alla grigia austro-ungheresi, ma con il risolutivo aiuto di truppe vita di guarnigione che Joseph Roth ha magistralmente germaniche. Lo sfondamento operato dagli Imperi descritto ne La marcia di Radetzsky. L’ufficialità Centrali tra Tarnów e Gòrlice in maggio aprì la strada mostrava, nel suo complesso, grande coesione interna. alla rioccupazione di Przemyśl e dei territori galiziani. Per ciò che concerne, infine, l’ufficialità di A fine giugno fu ripresa Leopoli. Più a nord i russi complemento va detto che l’istituzione del dovettero abbandonare Lublino, Varsavia e Vilnius. volontariato di un anno, ripreso esso pure dalle Nell’autunno il fronte si era stabilizzato lungo una consuetudini militari prussiane, non si trasformò, come precaria linea che da Riga, sul Baltico, giungeva alla in Italia, in una poco decorosa ostentazione del censo, Bucovina, sul Mar Nero. ma consentì la formazione di migliaia di rispettati e Nel 1916, al principio dell’estate, l’esercito zarista volenterosi quadri della riserva. attuò un’operazione militare di grande portata. L’«offensiva Brusilov» determinò una nuova rottura del [Angelo Visintin] fronte, un pesante arretramento austro-ungherese, perdite rilevanti, ma lo sforzo si esaurì rapidamente e L’esercito k. und k. sui fronti della guerra con esso la capacità militare offensiva dell’intero esercito russo. Una contromossa austro-tedesca riportò Le difficoltà sul fronte serbo e russo Nonostante l’efficacia operativa dell’esercito fosse il fronte verso est, sulle posizioni iniziali. posta in qualche dubbio dagli stessi opinionisti, che L’inverno e gli avvenimenti interni all’impero dello chiamavano in causa le ristrettezze dei bilanci e le Zar, con lo scoppio della rivoluzione (febbraio 1917), limitazioni negli organici (situazione condivisa in parte stabilizzarono il campo di battaglia su posizioni ancor con l’Italia), l’entusiasmo e il patriottismo asburgico più favorevoli agli Imperi Centrali. Un ultimo sussulto non mancarono nei volontari (Freiwilliger), nei bellico, l’«offensiva Kerenskij», nel luglio 1917, sancì coscritti e nei riservisti durante i giorni della la definitiva disfatta dell’apparato militare russo. Poi dichiarazione di guerra e della mobilitazione generale, sul fronte orientale le armi tacquero, soverchiate come non mancarono a tutta la “comunità di agosto”: dall’incalzare rapido degli eventi rivoluzionari. treni pavesati; fiori, alloro e fronde di quercia sulle L’armistizio del nuovo potere sovietico con la canne dei fucili; apparente assenza di divisioni Germania, l’Austria-Ungheria e i loro alleati fu firmato nazionali o sociali. Nell’attesa di tutti vi erano facili nel dicembre 1917. Sul fronte balcanico, con l’aiuto determinante delle vittorie. L’esordio del conflitto si mostrò sotto pessimi auspici, armate tedesche e bulgare, alla fine del 1915 gli rivelando le crepe del sistema statuale soprannazionale austro-ungarici ebbero ragione dell’esercito serbo e, di unificato dalla dinastia. Nell’estate 1914 i reparti lì ad un anno, portarono rapidamente alla sconfitta austro-ungheresi furono duramente battuti in Serbia e quello della Romania, intempestivamente entrata in sul fronte orientale. In Galizia, Leopoli dovette essere guerra a fianco dell’Intesa. Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it altro tasto su cui agirono i sistemi propagandistici, necessaria per salvare “i sacri confini dell’Impero” dalla minaccia dei Welschen (“latini”), gli italiani. Sensibili a questo motivo si mostrarono soprattutto i soldati sloveni e croati, per i quali la difesa della causa asburgica poteva al contempo significare, in maniera schematica, la difesa delle proprie terre. Queste truppe, già caratterizzate da una rude combattività, lottarono implacabilmente. La guerra di difesa, appoggiata da fortificazioni via via più sicure e forti, consentiva poi, pur nei disagi e nell’incognita della morte propri della guerra di posizione, quella percezione di minor rischio che sola nasce dalla possibilità che debba essere l’avversario a compiere la prima mossa, peraltro prevedibile. Uscendo dall’ambito della psicologia del soldato, il combattimento in una posizione protetta offre un’innegabile capacità di sopravvivenza su chi è costretto a procedere allo scoperto. Inoltre, i Un reggimento di fanteria austroungarico in un momento di riposo sul contrattacchi erano sortite limitate, non avanzate fronte galiziano (H. P. Willmott, La Prima Guerra Mondiale, generali, e, tranne i casi disperati di rioccupazione Mondadori, Milano 2004, p. 64) delle posizioni perdute, quasi sempre godevano dell’effetto di sorpresa. Ogni ritirata portava infine la Le rinnovate capacità combattive sul fronte italiano sicurezza della ricostituzione del fronte su linee In realtà, se il rendimento bellico del combattente in arretrate. Feldgrau (“grigioverde”) sul fronte orientale e balcanico fu quantomeno oscillante e non privo di Una precisazione, tuttavia improvvisi crolli nel morale e nella capacità Con ciò non vogliamo certo dare la sensazione che i combattiva, il contegno delle truppe sul fronte italiano combattenti austro-ungarici percepissero chiaro un si presentò particolarmente saldo. In termini di senso di superiorità morale o, tantomeno, efficienza e di condotta militare, muovendo da una conducessero una guerra facile. La Lustige Krieg, la situazione che fu sempre di inferiorità numerica, di “guerra allegra” evocata da alcuni memorialisti dotazioni ed equipaggiamenti, l’esercito austroaustriaci è un’invenzione letteraria e, nella maggior ungherese sul fronte dell’Isonzo mostrò una capacità parte dei casi, postuma. La vita e le azioni di guerra notevole (Sema, 1995-1997). L’abilità nel contendere il nelle trincee carsiche erano terribili e dolorose per i terreno e la capacità di sfruttare al meglio soldati imperiali almeno quanto lo fossero per gli l’armamento furono a dir poco insuperabili; i comandi italiani, le perdite furono quasi altrettanto cospicue. quasi sempre si mostrarono all’altezza delle complesse Abbiamo soltanto voluto individuare un coagulo di situazioni da affrontare. Tutto ciò ha a che fare con elementi e contesti che potrebbero aver influito sulla ragioni di indole diversa, ma concordi nel delineare il caparbia resistenza opposta agli italiani. Di altre quadro di coesione e compattezza nella resistenza agli componenti, in questo caso comuni ai combattenti italiani. Ne segnaliamo qualcuna. dell’opposta parte del fronte e inerenti ai caratteri del conflitto sul fronte isontino, diremo in un Le cause del “ miracolo” dell’Isonzo approfondimento. Innanzitutto, le truppe che lottarono sulla linea dell’Isonzo avevano alle spalle diversi mesi di guerra [Angelo Visintin] sugli altri fronti, e quindi un’esperienza reale di combattimento in una guerra moderna e per certi versi Fattori accomunanti e fattori disgreganti già “totale”. Gli italiani, e in taluni casi i soli ufficiali, potevano invece far conto su esperienze cruente ma Il problema: l’Italia di fronte al conflitto limitate, come le guerre coloniali. Ciò garantiva agli “La Grande Guerra costituisce per gli italiani un austro-ungheresi un vantaggio tattico iniziale, che essi momento di rifusione, che non si risolve in maniera definitiva con la scelta dell’intervento maturata nel seppero valorizzare e consolidare. Questa era, inoltre, una guerra in cui convincenti lungo dibattito fra il 1914 e il 1915, tanto è vero che, ragioni morali di adesione alle finalità del conflitto - al momento della rotta di Caporetto, c’è chi ideali, patriottiche, dinastiche che fossero - erano razionalizza gli incubi sociali, dando corpo ai fantasmi labili o facevano scarsa presa di fronte ad un’istintiva dell’estraneità e del tradimento, e commenta in chiave ripulsa alla guerra o a motivazioni più coscienti di «ci siamo arrivati e non potevamo non arrivarci, è (nell’Impero, l’accentuazione dei valori nazionali o il l’esito dell’antico e irrisolto scollamento tra società e pacifismo socialista). Tuttavia, il motivo del stato». Non era così, automatico e consequenziale, tradimento “dell’infido alleato meridionale” poteva perché altrimenti non ci sarebbe stato Vittorio Veneto” essere ben speso dalla propaganda e contare su effetti (Isnenghi, 1997). persuasivi. A ciò si univa il tema della guerra difensiva, Posto in questi termini, si evidenzia subito il nucleo del Consorzio Culturale del Monfalconese problema che emerge dall’analisi delle vicende del primo conflitto mondiale, per quanto concerne l’Italia: quali furono gli elementi di aggregazione che agirono tra gli uomini comuni di fronte a una guerra che la maggioranza del paese non aveva scelto di fare? Certo bisogna considerare che l’unità datava solo una cinquantina d’anni, che le prove militari fino ad allora compiute non erano state per nulla esaltanti, che l’interventismo era un fenomeno tutto sommato elitario e che la coesione delle varie componenti sociali e culturali faceva difetto. L’esercito italiano. Caratteri L’esercito italiano era, almeno in teoria, un esercito nazionale, dato che nei suoi reggimenti confluivano reclute da ogni parte d’Italia e se era anche esistita all’inizio della guerra qualche traccia di territorialità fu ben presto superata dai costi in vite umane e dalla sostituzione dei caduti con soldati provenienti da tutto il territorio nazionale. Tra gli ostacoli alla creazione di un’entità coesa vi erano l’analfabetismo molto diffuso, la varietà dei dialetti, l’estraneità di alcune fasce sociali rispetto alle istituzioni statali, per lungo tempo responsabili del peggioramento delle condizioni delle masse rurali, principalmente meridionali. Davanti alla realtà della guerra Per superare questi ostacoli vennero messe in atto strategie propagandistiche mirate, di cui si parla in altra parte. Prigionieri italiani a Udine (H. P. Willmott, La Prima Guerra Mondiale, Mondadori, Milano 2004, p. 64) Tuttavia, la realtà della vita quotidiana al fronte, tra assalti, rischi, morte, privazione, noia, lontananza dalle famiglie, ecc., fu molto più efficace di qualsiasi strategia attuata dalle autorità, anche presso coloro che si erano avvicinati con entusiasmo alla guerra. Tra molti degli stessi fautori dell’intervento si diffusero sentimenti di delusione e di stanchezza, che non giovarono certo alla tenuta dei reparti. Nonostante ciò, va riconosciuto che i soldati non diedero cattiva prova, www.grandeguerra.ccm.it tanto più che il disastro di Caporetto, enfatizzato in Italia per motivi ideologici di varia natura, non fu un elemento isolato sui fronti del 1917. La disgregazione dell’esercito imperiale Nell’esercito austriaco, a composizione plurinazionale, le perdite di vite umane, percentualmente maggiori rispetto a quelle italiane, le difficoltà di armamento e di vettovagliamento, nonché soprattutto l’esplodere delle divisioni nazionali compromisero le possibilità di fronteggiare l’avanzata italiana dell’ottobre 1918. Il senso della “Finis Austriae” fece sì che ciascuna nazionalità mirasse a salvaguardare i propri interessi. Interessante per cogliere l’atmosfera degli ultimi giorni di guerra tra le fila dell’esercito austriaco è la descrizione che ne fa il sottufficiale sloveno Ciril Prestor: “Nella tenuta del conte Pajačevič. Grandi mulini e grandi proprietà. La disciplina austriaca è andata in frantumi. I soldati si riunivano per nazionalità. Dormivano sotto il cielo aperto o nelle stalle della tenuta. Apprendemmo che si tornava a casa, per primi i soldati ungheresi e poi gli altri. Gli ungheresi si preparavano a fucilarci. Il Zugführer Prosensky mi ha dato uno schiaffo, io gli ho risposto con la baionetta. I cechi hanno preparato la munizione per i cannoni, in caso ci fosse la necessità di difendersi. Il generale Lavdon ha reagito contro i soldati che non hanno salutato. In seguito è stato malmenato dai soldati, denigrato, umiliato; gli hanno stracciato i gradi e tolte le strisce rosse da genarle dai calzoni. Gli ufficiali si sono nascosti. I soldati stessi hanno oziato a cercare gli ufficiali. Ho salutato il centurione Čihak. Ci fu un terribile disordine. Ognuno cercava di vendicarsi e nello stesso tempo aveva paura per la sua persona”. Prestor in questo suo scritto coglie l’esplodere degli odi latenti tra le diverse etnie sul fronte serbo e mentre l’autorità imperiale si va dissolvendo emergono i segni di ostilità che avveleneranno tanta parte del XX secolo. Scrive lo storico Jože Pirjevec: “Il numero crescente dei caduti – quasi quattrocento mila sul fronte isontino – le precarie condizioni in cui si trovavano le masse per la mancanza di cibo e di generi di prima necessità, la consapevolezza sempre più diffusa che gli Sloveni si sarebbero trovati tra gli sconfitti, senza considerare chi sarebbe stato il vincitore, suscitarono nei mesi conclusivi del conflitto una crescente avversione all’inutile carneficina e alla classe dirigente che l’aveva voluta. Essa si manifestò in tutta una serie di rivolte militari, scoppiate tra i soldati sloveni nella primavera del 1918, nella formazione di bande di disertori, i così detti «gruppi verdi», che si rifugiarono nei boschi per sottrarsi al fronte, e nel movimento di massa, per la costituzione di uno stato jugoslavo, conosciuto come il «movimento di maggio», che aveva una punta ormai chiaramente antiasburgica”. [Massimo Palmieri]