Eterno Ritorno - I.I.S. “Carducci”

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Eterno Ritorno - I.I.S. “Carducci”
Nietzsche: l’eterno ritorno e il divenire dell’ente
«Il nichilista filosofico è convinto che tutto ciò che accade sia privo di senso e vano; e
non dovrebbe esistere nessun essere privo di senso e vano. Ma da dove viene questo “non
dovrebbe”?».
La volontà di potenza
«E, in verità, mai avevo visto nulla di simile a ciò che vidi. Un giovane pastore, vidi,
che si rotolava, che ansimava, che si dibatteva convulsamente, il volto stravolto: un nero e
grosso serpente gli penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto ribrezzo e livido orrore su di
un volto? Forse era accaduto mentre dormiva? Allora, il serpente gli era strisciato per la gola,
e lì si era attaccato, mordendo. La mia mano cercò ripetutamente di strappare il serpente –
invano! non riusciva a strappare il serpente dalla gola. Allora si levò da me un grido: “Mordi!
Mordi!”. “Staccagli la testa! Mordi!”. Così da dentro di me gridarono il mio orrore, il mio
odio, il mio ribrezzo, la mia pietà: tutto ciò che c’era in me di buono e di cattivo, si levò da me
in un unico grido.
Voi arditi, che mi state intorno! Voi amanti della ricerca e del rischio, e quanti tra di
voi si misero in viaggio, con vele scaltrite, per mari inesplorati! Voi che vi rallegrate degli
enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che allora scorsi, interpretate dunque la visione del più
solitario! Perché fu una visione ed un presagio: che cosa vidi allora in forma di parabola? E
chi è colui che un giorno dovrà necessariamente venire? Chi è il pastore a cui il serpente
strisciò in quel modo nella gola? chi è l’uomo nella cui gola striscerà allo stesso modo tutto
ciò che c’è di più pesante e di più nero?
Ma il pastore morse, come gli aveva consigliato il mio grido; e morse con un bel
morso! Lontano da sé sputò la testa del serpente – e balzò in piedi. Non più pastore, non più
uomo – un trasfigurato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima, sulla terra, un uomo
aveva riso come lui rideva!».
Così parlò Zarathustra – “Della visione e dell’enigma”
♣
La mancanza di senso dell’esistenza è la radice profonda del dolore – di quel dolore
che Eschilo chiamava mátan, cioè “vano”: dolore che rende folli, che disorienta, perché non
lascia intravedere uno scopo, una giustificazione all’esistere. E il dolore è legato anzitutto al
divenire, cioè alla precarietà di tutto ciò che l’uomo ama e vorrebbe preservare
dall’annientamento. Per millenni l’umanità ha coltivato la speranza di poter dare un senso al
dolore, di renderlo sopportabile riferendolo ad un contesto-altro, che potesse trasfigurarlo
ridefinendone il significato: per sottrarsi alla follia del non-senso, l’uomo ha cioè cercato di
attribuire un esito (ex-itus), una via d’uscita, al divenire delle cose.
Ma che cosa accade quando nessun esito del genere appare più credibile? Esiste,
secondo Nietzsche, una forma di rassegnazione “filosofica” (= di stampo ancora metafisico)
che vive il non-senso, la vanità della vita, come mancanza, e che si attua di conseguenza
come rassegnazione, come lamento per una felicità che si sottrae (questo sarebbe più o meno
l’atteggiamento leopardiano di fronte alle “promesse non mantenute” della natura). In questo
modo, tuttavia, l’uomo resta ancora dipendente da un modello ideale – certamente ormai visto
consapevolmente come un fantasma, ma sempre in grado di costituire un punto di riferimento,
una pietra di paragone rispetto alla vita reale; la cui mancanza di senso è dunque allo stesso
tempo riconosciuta e rifiutata (in nome, appunto dell’ideale). Questo tipo di nichilismo, in
fondo, non depone completamente la speranza in un qualche valore, in una qualche verità
assoluta: esso simula la disperazione, mentre continua ad attendere un esito, mantenuto in vita
dallo stesso rifiuto del nichilismo. Ma con questo atteggiamento l’uomo perpetua il proprio
tormento, determinato dallo scarto tra reale e ideale, tra “essere” e “dover-essere”.
L’accettazione completa del non-senso dell’esistenza (cioè del suo continuo mutare,
che rende instabile qualsiasi valore e significato) può aprire la strada a un diverso modo di
vivere sulla terra: lo scarto di cui sopra vien meno quando è definitivamente soppressa la
prospettiva di un esito del divenire, cioè dell’avvento di un contesto ulteriore, che possa
definirlo, conferirgli un significato che lo trascenda e lo giustifichi. Da questo punto di vista,
la stessa apertura indeterminata del futuro – che per un verso libera l’accadere da ogni vincolo
storico e da ogni legge meta-storica – lascia d’altra parte in vita, per Nietzsche, la promessa di
redenzione che caratterizza il nichilismo “filosofico”, cioè il nichilismo incompiuto.
Quando il divenire si fa invece immanente a se stesso, chiudendosi definitivamente
nella propria mancanza di esito, quando questa mancanza è spinta cioè fino al limite della
connotazione negativa che aveva assunto nella tradizione metafisico-religiosa, si apre una
prospettiva inaudita. Chi accetta fino in fondo il divenire, senza più cercarvi un senso, uno
scopo di tipo “metafisico”, è infine destinato a conferire al divenire stesso un senso di tipo
nuovo, non più fondato su altro, ma autofondante. La volontà di potenza, che nella tradizione
filosofica e religiosa si è espressa come tentativo di redimere la realtà dal divenire annientante
(ancorandola ad un principio eterno), alleandosi col divenire stesso, accogliendolo come
proprio contenuto fino a identificarsi con esso, assume infine a sua volta un aspetto eterno.
La dottrina dell’eterno ritorno – che, come si vedrà più avanti, rappresenta questo
sbocco inaudito della volontà – si presenta insieme come l’assunzione del fardello più penoso
(perché con essa quell’infondatezza dell’esistere che l’umanità aveva per secoli considerato la
cosa più terribile è posta come irrevocabile) e come l’autentica e suprema redenzione dal
dolore, in cui l’infondatezza dell’esistenza si rovescia, trasfigurandosi, nell’atto fondante con
cui l’oltre-uomo si vuole / si scopre padrone del tempo.
Tutto ciò indica che l’accettazione totale del divenire, della precarietà dell’esistente,
non è ancora di per sé il tratto essenziale del pensiero di Nietzsche. Già nella Gaia Scienza,
dopo aver annunciato la morte di Dio, l’uomo folle accenna – in una serie di domande niente
affatto retoriche – al compito inaudito che ancora attende l’uomo: «… Come ci consoleremo
noi, gli assassini di tutti gli assassini? … Non è forse la grandezza di quest’impresa troppo
grande per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, già solo per apparire degni di essa?».
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Nel capitolo di Così parlò Zarathustra intitolato “Della redenzione”, il problema del
non-senso dell’esistere è introdotto attraverso una scena in cui una folla di uomini storpi
circonda il profeta ed uno di loro, un gobbo, lo prega di guarire dalla deformità lui ed i suoi
compagni di sventura. Dopo aver risposto con un motivato rifiuto, Zarathustra aggiunge di
aver assistito anche a spettacoli peggiori: «In verità, amici, io mi aggiro tra gli uomini come in
mezzo ad un ammasso di frammenti di membra umane! Questo ai miei occhi è la cosa
terribile: il trovare gli uomini frantumati e le loro membra sparse come su un campo di
battaglia o di macello. E se il mio occhio fugge dal presente verso il passato, trova sempre la
stessa cosa: frammenti, membra sparse, casualità orrende – ma mai un uomo!».
L’esistenza appare arcana, disorientante in quanto non mostra alcun assetto organico,
ed ogni esistente appare privo di scopo, di fondamento, di giustificazione: qualcosa di
deforme, di mutilato. Il pensiero metafisico ha cercato di togliere peso a questo spettacolo,
dichiarandolo provvisorio, parziale, e cioè sovrapponendo ad esso la presunta visibilità degli
Eterni. Quando cadono le illusioni della metafisica, e quello spettacolo resta inesorabilmente
davanti agli occhi, ci si può ostinare a sperare in rimedi invisibili o ci si può rassegnare a
sopportarlo. Zarathustra respinge entrambe queste alternative: mentre rifiuta ogni “rimedio”
proposto dalla tradizione, appare tutt’altro che rassegnato alla devastazione di cui anch’egli si
trova spettatore: la frammentazione del mondo e dell’uomo è per lui un enigma – e come tutti
gli enigmi dovrà prima o poi avere una soluzione. «… E come potrei sopportare d’essere
uomo – prosegue infatti Zarathustra – se l’uomo non fosse anche poeta, solutore di enigmi ed
il redentore (Erlöser) della casualità? ».
2
Subito dopo viene reso esplicito il nodo decisivo della questione: «Volontà: così si
chiama ciò che libera e che arreca gioia: questo v’insegnai, amici miei! Ma adesso imparate
pure questo: il volere stesso è ancora un prigioniero». Accettando senza condizioni il divenire,
la volontà si libera dai falsi rimedi della tradizione, ma lascia intatta – e anzi rafforzata in
modo estremo – la catena più pesante, l’ostacolo che da sempre sembra vanificare ogni sua
ricerca di libertà: tale catena è costituita dal passato: ogni potenza creativa ed interpretativa
sembra arrestarsi di fronte al “così fu”, all’esistenza passata di tutto ciò che, essendosi ormai
compiuto, appare inaccessibile alla volontà che si attua nel presente. «… “Così fu”: ecco
come si chiama ciò che fa digrignare i denti alla volontà, il suo più solitario corruccio.
Impotente contro quanto si è compiuto, essa è una spettatrice malevola dell’intero passato».
E’ vero che anche il passato può essere di continuo re-interpretato (la realtà concreta
della storia è sempre definita nel presente, come ben sanno anche Kierkegaard e Gentile), e
questo sembrerebbe renderlo modificabile da parte della volontà; ma ogni interpretazione o
re-interpretazione del passato è destinata a tradursi subito, a sua volta, in un “fatto”, in un
ulteriore esser-passato a cui la volontà torna a sentirsi incatenata. Sicché la volontà si trova
inviluppata anche in un continuo conflitto con se stessa, e quanto più vigorosamente lotta per
liberarsi dalle catene del proprio passato, tanto più ne costruisce di nuove.
«O Zarathustra, pietra filosofale, pietra da fionda, tu che frantumi le stelle! Lanciasti te
stesso tanto in alto, ma ogni pietra lanciata deve ricadere! Condannato a te stesso, alla tua
stessa lapidazione: o Zarathustra, gettasti il sasso lontano, ma esso ricadrà su di te». Sono le
parole pronunciate, nel capitolo “Della visione e dell’enigma”, dallo Spirito di Gravità che,
raffigurato in forma di nano, incarna appunto il senso d’impotenza di fronte al passato. E’ in
questo stesso capitolo che la dottrina dell’eterno ritorno, annunciata con una certa reticenza in
“Della redenzione”, troverà la sua formulazione compiuta – anche se ancora espressa
attraverso immagini enigmatiche.
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Il “no” che la volontà pronuncia di continuo contro il passato si rivela, all’inizio,
impotente, e nel “digrignare i denti” per la propria impotenza, la volontà si accanisce in realtà
contro se stessa. Il passato le appare, insieme, come colpa e come punizione: colpa, in quanto,
cristallizzandosi di continuo nel proprio passato, la volontà contraddice la sua aspirazione alla
libertà e alla potenza, diviene la peggior nemica di se stessa; punizione in quanto, scatenando
il proprio odio contro tutto ciò che al presente può soffrire, cioè contro i contenuti e gli esiti
delle azioni passate, essa riesce solamente ad appesantire la catena del passato stesso,
perpetuandone la tirannia. Vendicandosi del passato, la volontà punisce sé medesima.
Nella Genealogia della morale si delineano due diverse e complementari valenze di
quegli Eterni che la cultura occidentale è destinata a distruggere: essi si costituiscono, da un
lato, come rimedio al terrore del divenire, reazione (impotente) contro il tempo che, come il
Crono del mito greco, divora i propri figli (li imprigiona e li distrugge fin dal momento in cui
li crea) e, ad un livello più profondo, come maschere della volontà autodistruttiva con cui i
figli, evocando l’autorità invincibile del Padre (gli eterni valori morali), si trasformano in
emissari del loro stesso nemico, imprigionando e cancellando comunque la propria libertà. In
questo modo, l’uomo si rende definitivamente schiavo: il “rimedio” risulta peggiore del
“male”, anzitutto perché il “male” se lo porta nel cuore.
L’utilità sociale del castigo, attraverso cui la morale cerca di legittimare la propria
tirannia, è soltanto l’alibi dello spirito di vendetta che veste i panni della “giustizia”: vendetta,
cioè autopunizione a sua volta camuffata, tramite la quale l’uomo pone come valore, eternizza
un certo aspetto di sé e ad esso sacrifica tutto il resto. In Umano, troppo umano (I, 57: “La
morale come autoscissione dell’uomo”) si legge: «Sono, tutte queste, situazioni altruistiche?
… Non è evidente che in questi casi l’uomo ama qualcosa di sé … più di qualche altra cosa
di sé, che egli, cioè, scinde il suo essere e ne sacrifica una parte all’altra? … Nella morale
l’uomo tratta se stesso non come individuum, ma come dividuum».
3
Ma anche la – necessaria – distruzione degli Eterni finisce per risultare impotente, ed
anzi si rivela più che mai dannosa, se lascia inalterata l’ottica della vendetta, cioè l’immagine
del tempo rettilineo che è la vera radice del conflitto della volontà con se stessa. Per usare la
terminologia hegeliana, la rivolta dei “servi” contro il “signore” non fa altro che evocare una
suprema forma di autorità, una visione ancor più rassegnata del mondo, che irretisce lo spirito
in via definitiva e lo destina alla “coscienza infelice” (Nietzsche individua nell’ebraismo non
un momento provvisorio, ma l’essenza profonda della religiosità e più in generale della
cultura occidentale): è il vicolo cieco del “nichilismo incompiuto”.
In queste tesi lo spirito appare dunque frammentato in istanze contrapposte, momenti
di un meccanismo ossessivo ed autodistruttivo in cui non si prospetta alcuna composizione
“dialettica”: colpevolezza e punizione, aggressore e aggredito, sono le facce specularmente
complementari di quest’unico meccanismo, le figure fantasmatiche in cui si scinde una stessa
presenza “alienata”. E’ possibile collegare tutto questo, senza forzature, ai modelli elaborati
successivamente dalla psicoanalisi, della quale il pensiero di Nietzsche costituisce del resto
una non secondaria radice culturale. Da tale radice scaturisce anche la teoria freudiana che
ricollega le origini della società umana al rapporto edipico ed al conseguente sviluppo del
super-io1: dopo il parricidio ancestrale, i figli ricostituiscono e perpetuano l’autorità paterna,
conferendole anzi un assetto definitivo, che destina la civiltà al “disagio”. Anche se per Freud
si tratta di un disagio inevitabile, e in fin dei conti accettabile, mentre per Nietzsche – come si
è già indicato e come si chiarirà meglio nella sezione successiva – il supremo compito
dell’oltre-uomo consiste proprio nel superamento di ogni colpa e di ogni punizione.
In effetti la teoria freudiana, che certo non avrebbe potuto seguire la via percorsa da
Nietzsche fino al suo “pensiero abissale”, perviene ad assumere le forze autodistruttive,
ossessive, operanti nel soggetto, come meccanismi innati, di ordine biologico e quindi in
sostanza insuperabili. Soprattutto le tesi elaborate da Freud a partire dal 1920 appaiono
consonanti proprio con quella sapienza “silenica” che nella filosofia di Nietzsche funge
piuttosto da punto di partenza, base da cui prendere le distanze per pervenire all’annuncio
dell’eterno ritorno: si vedano l’“istinto di morte” o l’estinzione “nirvanica” della libido,
concetti in cui vengono riproposti, consapevolmente, fondamentali temi schopenhaueriani2.
♣
Per restare nell’ambito terminologico della psicoanalisi, Zarathustra considera ancora
non risolto l’enigma che segna il destino di Edipo: “l’uomo” non può costituire la definitiva
risposta, la soluzione dell’autentico enigma, perché l’uomo stesso ignora ancora chi è. Né
toccano ancora il fondo di quell’enigma le terribili parole estorte al Sileno da re Mida
(“misera, effimera stirpe, figlio del caso e del dolore, perché mi obblighi a dire ciò che per te
non è certo la cosa più giovevole da ascoltare? …”), che si riaffacciano ossessivamente,
attraverso i secoli, nella cultura occidentale – parole equivalenti a quelle che lo stesso Edipo,
sollecitando la propria rovina, ottiene infine in risposta dal riluttante Tiresia. Ma anche queste
voci abissali dell’Occidente suonano, alle orecchie di Zarathustra, come “filastrocche della
demenza” (Fabellieder des Wahnsinns). «Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube,
finché la demenza si mise a predicare: “tutto passa, quindi tutto merita di passare” … “a meno
che alla fine la volontà non redima se stessa, e che il volere divenga non-volere” ma –
conclude Zarathustra – voi la conoscete già, fratelli miei, questa filastrocca della demenza!».
1
E’ in questa prospettiva che, nel suo saggio Il soggetto e la maschera, dedicato al pensiero di
Nietzsche, G. Vattimo parla appunto di “tempo edipico”, riferendosi al meccanismo per cui, nella
concezione rettilinea del tempo (il padre che annienta i figli) si producono le figure, le maschere
funzionali al costituirsi ed al perpetuarsi dell’autorità. {Lo stesso termine auctoritas, del resto, indica
“ciò che fa avanzare”, “ciò che produce e distrugge”, e infine ciò che accumula le colpe e le pene}.
2
«E perché mai … un audace pensatore non dovrebbe aver indovinato ciò che una spassionata e
faticosa ricerca di dettaglio conferma?» dice Freud nelle sue Neue Vorlesungen (1932), riferendosi
appunto al pensiero di Schopenhauer.
4
Il capitolo “Della redenzione” prosegue quindi indicando la direzione in cui si deve
guardare per scorgere la soluzione dell’enigma: «Via da tutte queste filastrocche io vi guidai
quando vi insegnai: “la volontà è qualcosa che crea”. Ogni “così fu” è un frammento, un
enigma, un orrido caso, finché la volontà che crea, di fronte a ciò, non dica: “ma così io volli
che fosse!”; finché la volontà che crea, di fronte a ciò, non dica: “ma così io voglio! così io
vorrò che sia!”». La volontà, afferma dunque Zarathustra, può liberarsi dal peso estremo del
passato, non già rifiutandolo, ma assumendolo (cioè volendolo) come un contenuto del
proprio stesso volere: si tratta di imparare a volere anche a ritroso, invertendo così la freccia –
apparentemente unidirezionale – dello scorrere del tempo.
Anche se la dottrina dell’eterno ritorno non viene qui ulteriormente esplicitata, il testo
ha ormai introdotto tutti gli elementi necessari alla sua formulazione – che compariva già nel
capitolo della Gaia scienza intitolato “Il peso più grande” e che verrà riproposta da
Zarathustra in “Della visione e dell’enigma” e nel “Convalescente”. La volontà deve volere
che tutto ritorni eternamente, lungo un anello (Ring der Wiederkunft) in cui l’immediato
passato rappresenti anche il più lontano futuro: solo volendo che tutto ciò che è stato (e tutto
ciò che è e sarà) ritorni infinite volte, negando cioè ogni differenza tra presente, futuro e
passato, la volontà riesce a volere anche a ritroso, a dominare totalmente il tempo. Questa
scelta della volontà è l’interpretazione suprema, che segna l’avvento dell’oltre-uomo; ma
come si vedrà, si tratta anche di un’interpretazione necessaria.
E’ fondamentale, per la comprensione della dottrina dell’eterno ritorno, rendersi conto
che, inserita nell’ottica dello spirito di gravità (che vede la volontà come condizionata da una
realtà “oggettiva”, esterna ad essa), tale dottrina sembra addirittura irretire al massimo grado
la libertà dell’uomo, consegnandola per sempre all’inevitabile – e insopportabile – ripetizione
di tutto ciò che è stato. In quell’ottica ogni slancio più potente della volontà (ogni “pietra che
frantuma le stelle”) compreso il supremo slancio costituito dalla stessa istituzione dell’eterno
ritorno, è destinato a ricadere, a precipitare verso una “oggettività” immobilizzante in cui la
libertà del volere non potrebbe riconoscersi: uno specchio deformante che le restituirà sempre
un’immagine frantumata e sfigurata di sé.
Ma, come si è visto, l’oggettivazione più insidiosa è lo stesso passato della volontà,
assunto nel tempo rettilineo: il “nero serpente” che compare nella seconda parte di “Della
visione e dell’enigma”, rappresenta lo stesso spirito di gravità collegato alla struttura rettilinea
del tempo. Il morso del pastore è il superamento definitivo di tale struttura, il gesto supremo
con cui l’oltre-uomo trasforma il tempo rettilineo in tempo circolare (il serpente, simbolo del
tempo e dell’infinito, è rappresentato nella tradizione orientale, che Nietzsche mostra di avere
ben presente, in forma di anello che si chiude su se stesso). Nella seconda parte della visione è
così riproposta nella sua struttura concettuale, giungendo a compimento, la liberazione già
perseguita da Zarathustra nella prima parte (“Alt, nano!, o io, o tu!”); liberazione che tuttavia,
per quest’ultimo, non appare ancora totalmente realizzata. Zarathustra non è ancora l’oltreuomo, ma piuttosto un suo araldo: per questo il riso del pastore, anche dopo la liberazione,
appare ancora come il contenuto di un sogno nostalgico, avvolto pur sempre nell’enigma.
Se il morso che stacca la testa del serpente rappresenta la definitiva affermazione della
dottrina – inizialmente vista come disgustosa, paralizzante – dell’eterno ritorno, quello stesso
gesto indica che non si tratta di accogliere, scoprire (come accadeva ad esempio nella teoria
stoica dei cicli cosmici) una verità preesistente, bensì di decidere, di istituire la verità di tale
dottrina. Il morso decide (de-caedit), taglia la testa del serpente, in un gesto simbolico che è
insieme di rifiuto e di appropriazione: mentre elimina la prospettiva del tempo rettilineo, esso
nega anche la valenza metafisica del tempo circolare, come “oggettività” presupposta al
volere dell’oltre-uomo; allo stesso tempo, il decidere eternizza l’attimo del proprio accadere,
lo trasfigura nel fondamento irrevocabile di un nuovo senso dell’esistere3.
3
Cfr. l’attimo kierkegaardiano: l’elemento di discontinuità implicato dalla scelta (certo meno radicale di
quella indicata da Zarathustra) che conferisce un senso inaudito all’intera storia dell’uomo.
5
Ma in questa trasfigurazione l’attimo appare a sua volta inserito nel circolo dell’eterno
ritorno; sicché la decisione, la scelta di tale dottrina (anche in questo sembra stare l’enigma)
non fonda nel senso consueto del termine: essa non deve essere assunta, daccapo, nell’ottica
dello spirito di gravità , che “prende le cose troppo alla leggera” in quanto vorrebbe applicare
i vecchi modelli a qualcosa di radicalmente estraneo ad essi (pronunciate dal nano, le stesse
parole di Zarathustra risultano banali e fuorvianti). La decisione è avvento dell’autofondante,
punto luminoso in cui si svela un’eterna “ruota che gira da sola” (secondo l’espressione che
appariva nel discorso “Delle tre metamorfosi”): passaggio dalla trascendenza all’immanenza
del senso, identificazione di esistenza ed essenza. La riduzione dell’eterno ritorno a decisione
è quindi – come osserva Vattimo4 – anche riduzione della decisione (che là dove avviene si
riconosce anche già da sempre avvenuta, e dunque risulta trasfigurata rispetto al significato
ordinario del termine “decidere”).
♣
Si sarebbe pertanto fuori strada se si volesse ridurre la dottrina dell’eterno ritorno ad
una semplice istanza pratica, ad un “postulato” della volontà che si limitasse a “scommettere”
tutto sull’unica chance che potrebbe liberarla. Nietzsche stesso indica che la “riconciliazione”
della volontà con il tempo non è una semplice scelta che si potrebbe evitare: l’oltre-uomo è
indicato da Zarathustra come qualcuno che “non potrà non venire”. L’eterno ritorno non può
configurarsi come “verità oggettiva” (nel senso dei vecchi canoni metafisici), che la volontà
incontri ad un certo punto del suo cammino, ma neanche come il contenuto di un’opzione
arbitraria – sia pure la più potente che appaia disponibile.
Nel capitolo: “Delle antiche tavole e delle nuove” si legge: «Un tempo si credeva agli
indovini ed agli astrologi; e di conseguenza si credeva “tutto è destino: tu devi perché sei
costretto!” (du sollst, denn du musst). Si diffidò poi di tutti gli indovini e di tutti gli astrologi,
e di conseguenza si credette “tutto è libertà: tu puoi, perché vuoi!” (du kannst, denn du willst).
O fratelli! Sulle stelle e sull’avvenire si è finora solo fantasticato, senza capirne nulla; e di
conseguenza sul bene e sul male si è finora solo fantasticato, senza capirne nulla!».
Per cercar di chiarire questo punto essenziale, si tenga anzitutto presente che, se dopo
la distruzione degli Eterni la volontà umana si riconosce nel divenire, quest’ultimo non può
configurarsi, da parte sua, che come volontà: il divenire non può infatti fondarsi su alcuna
preesistente “verità oggettiva”, su alcuna “realtà in sé” (che, costituendosi come immutabile,
renderebbe il divenire stesso illusorio)5. Sicché ogni “fatto” non può essere visto che come un
voluto, come un’interpretazione che non è mai “più vera” delle sue alternative, ma si impone
su di esse in quanto più potente (nel termine “Volontà di potenza” la specificazione non
delimita, ma esplicita il significato del soggetto).
D’altra parte, proprio il passato inteso come momento del tempo rettilineo condiziona
il presente e tutto ciò che deve ancora venire: rende impossibile il suo ridursi a contenuto
della volontà – e quindi (cfr. sopra) il suo ridursi a divenire: il passato così assunto si presenta
come un Immutabile che condiziona il divenire, lo lega a sé e quindi in qualche modo lo
prevede (“giudica delle cose avanti le cose”) vanificandone l’assolutezza. Ma se il divenire
non è assoluto, se qualcosa si sottrae al panta rhei – che Nietzsche crede di poter ricondurre al
pensiero di Eraclito – il divenire stesso è destinato ad apparire infine illusorio. Al di sopra di
ogni “oggettività” ed “interpretazione”, il divenire vuole imporsi come l’evidenza suprema.
4
Il soggetto e la maschera, Bompiani, 1990, pag. 210
5
Da questo punto di vista, l’idealismo presenta notevoli consonanze con il pensiero di Nietzsche. Là
dove, come nella filosofia di Gentile, l’idealismo abbandona la pretesa di fissare regole assolute e
meta-storiche al divenire, tali consonanze si traducono in prossimità concettuale. Si può addirittura
affermare che negli scritti di Gentile, più ancora che in quelli di Nietzsche, restino chiariti i motivi per
cui ogni “fattualità in sé” e in particolare il passato in quanto fattualità inaccessibile allo spirito siano
incompatibili con l’esistenza del divenire; anche se è nella dottrina dell’eterno ritorno – estranea al
pensiero gentiliano – che il divenire stesso perviene alla sua massima coerenza e potenza.
6
♣
Eliminando ogni scarto tra presente e passato, la volontà di potenza dell’oltre-uomo
scioglie il presente – cioè l’evidenza assoluta del divenire – da ogni residuo vincolo: è
necessario che nessun elemento del reale assuma gravità rispetto agli altri, affinché il divenire
appaia infine fondato solo su se stesso, ogni accadimento sia in sé compiuto e “giustificato”6.
La libertà dalla vendetta, l’amor fati, rappresenta insieme il trionfo della volontà creatrice
dell’oltre-uomo ed il coerente, necessario esito della concezione occidentale del divenire. Ma
anche la “coerenza” di questo esito si mantiene all’interno della contraddizione fondamentale
in cui tale concezione consiste: l’identificazione tra l’ente e il niente. E’ appunto un sintomo
rilevante di questa contraddizione l’esito paradossale a cui perviene la filosofia di Nietzsche,
scorgendo che la precarietà del divenire è destinata a collassare, infine, nell’eterno.
A differenza del pensiero di Leopardi, quello di Nietzsche, assume spesso i tratti
espliciti di un rifiuto della ragione; e tuttavia entrambi questi pensatori mostrano un’analoga
coerenza speculativa7, che costituisce poi la coerenza della filosofia occidentale, la quale li fa
spingere in contrade estreme, prossime tra di loro anche se apparentemente molto diverse: la
differenza essenziale è data dalla collocazione della frattura logica, attraverso cui, nell’opera
dei due grandi pensatori affiora, non riconosciuta, la contraddizione di fondo dell’Occidente.
Il razionalismo leopardiano fa emergere la tesi catastrofica della contraddittorietà del
reale; perviene cioè, rinnegando se stesso, al rifiuto di quel principio di non-contraddizione
che costituisce il fondamento di ogni speculazione razionale. La dottrina dell’eterno ritorno,
che scaturisce dalla negazione di ogni eternità e necessità, giunge dal canto suo a vanificare
proprio quell’imprevedibilità e libertà del divenire su cui tale negazione si fondava. Leopardi
arriva a cogliere direttamente (sia pure attraverso un velo metaforico) la contraddittorietà del
divenire, e ad essa si arresta e si arrende, sopportandone il peso (l’assurdità dell’esistere);
Nietzsche subisce la contraddizione, se la porta dietro senza affrontarla e ne trae con rigore le
conseguenze formali: il crollo del nichilismo ed il suo rovesciarsi nell’eternità di ogni ente. In
entrambi i casi, il nichilismo perviene a toccare il proprio scacco, ma non può riconoscerne
l’autentico significato (il nichilismo non può cessare di essere nichilismo).
La dottrina dell’eterno ritorno intende così anche liberare l’uomo – cioè il divenire con
cui l’uomo dell’oltre si identifica – dalla dominazione del nulla: se infatti il nulla stesso
apparisse come unico orizzonte e unica destinazione del divenire, quest’ultimo risulterebbe
ancora condizionato da un esito supremo. Fondare il divenire solo su se stesso significa,
insieme, eternizzarlo, nel senso che neanche il nulla può ipotecare il destino del divenire: è in
questa prospettiva che all’immagine enigmatica del fanciullo, che appare alla fine del discorso
sulle tre metamorfosi, vengono attribuiti i tratti positivi, non più nichilistici, di una “santa
affermazione”. Ma si tratta, appunto, di un crollo solo formale del nichilismo, che anziché
toglierlo (in senso dialettico), lo lascia piuttosto convivere con la sua negazione.
Il divenire, così come viene inteso dalla cultura occidentale, è possibile solamente se il
niente resta alla radice dell’ente, se cioè sono destinate al nulla (perché contengono in se
stesse il nulla) non solo le cose che vengono via via prodotte e distrutte, ma la stessa potenza
– umana o divina – che presiede ad ogni processo di produzione e distruzione. Anche la
volontà creatrice dell’oltre-uomo, che si vuole eterna, poggia sul presupposto ineliminabile
della non-eternità dell’ente: è un fondarsi sulla propria negazione.
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Leopardi, nello Zibaldone, parla della “perfezione assoluta delle cose”: se non esistono schemi
assoluti a cui rapportarla, ogni cosa ha in sé la propria giustificazione, è cioè ab-soluta, non dipende
da altro. Ma il permanere delle cose nel tempo rettilineo mantiene loro, dal punto di vista di Nietzsche,
quell’aspetto di incompiutezza e di “orrida casualità” che solo nel tempo circolare può essere redento.
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In Nietzsche, proprio come in Leopardi, il rifiuto del principio di non-contraddizione procede quindi da
una fondamentale accettazione di tale principio, non meno rigorosa di quella che si può trovare in
Platone, in Aristotele, o in Hegel. Ridurre a “puro irrazionalismo” il pensiero di Nietzsche, rischia di
riproporre un equivoco simile a quello che ha indotto taluni commentatori di Hegel o di Marx a
considerare la dialettica come la semplice affermazione della contraddittorietà del reale.
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Il dominio sulle cose, progettato dalla volontà di potenza, non può vedersi come
definitivo – portandosi al di sopra del contrasto tra necessità e libera interpretazione – se non
all’interno di un infondato atto interpretante (non riconosciuto come tale), e quindi non può
mai liberarsi veramente dal dubbio della propria destinazione al fallimento. Sotto questo
aspetto, le tesi di Nietzsche – che per altri versi sviluppano e completano la tematica
leopardiana relativa all’autonomia dell’esistente – non si lasciano alle spalle, ma mantengono
davanti a sé ed intorno a sé l’angoscia di fronte al dominio del nulla. E’ Leopardi che giunge a
cogliere l’inevitabile fallimento di qualsiasi costruzione tecnica (compresa quella forma
suprema ed estrema di potenza che è il canto poetico del nulla): il destino dell’Occidente è la
vanità di ogni poíesis e di ogni téchne, siano queste concepite come atto creativo del dio o
come frutto dell’iniziativa e della volontà dell’uomo.
Mentre si mostra capace di percorrere tutte le vie (pantóporos è detto l’uomo già da
Sofocle), la volontà di potenza, che culmina nella dottrina nicciana dell’eterno ritorno e che
oggi sembra definitivamente incarnarsi nella civiltà della scienza e della tecnica, riesce a
dominare le cose solo in forma problematica8: il suo dominio è dunque bensì infinito, ma solo
nel senso che qualsiasi livello di potenza è oltrepassabile; non nel senso che ne siano garantite
l’infallibilità e l’irrevocabilità.
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Frank J. Tipler (v. La fisica dell’immortalità, Dio, la cosmologia e la risurrezione dei morti) sostiene,
insieme a J. Barrow, P. Dirac, R. Nozick etc., la convergenza tra fisica e teologia: la scienza moderna
si avvierebbe alla costruzione del paradiso sulla terra, e renderebbe infine possibile anche quella
“resurrezione dei morti” che era la promessa essenziale del messaggio cristiano. Si tratta di una
rilevante consonanza tra cultura tecnico-scientifica e dottrina dell’eterno ritorno. Lo stesso Tipler
riconosce tuttavia lo statuto ipotetico della scienza; sicché la “salvezza” dalla morte che essa promette
non potrà mai assumere carattere definitivo. L’importanza delle tesi di Tipler & C. consiste proprio nel
fatto che in esse, sia pure in forma implicita, si prefigurano la dominazione ed insieme il fallimento del
paradiso della tecnica.
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