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REDIGI UNO SCRITTO DI ALMENO TRE FACCIATE UTILIZZANDO LE FONTI
SOTTOSTANTI E ALTRE CHE PUOI REPERIRE NEL TUO TESTO O IN RETE SULLE
MOTIVAZIONI CHE HANNO PORTATO ALLA CRISI DELL’IMPERO ROMANO TRA IL
TERZO E IL QUARTO SECOLO D.C.
AMBITO STORICO-POLITICO
Argomento: L’IMPERO ROMANO: LE RAGIONI DI UNA CRISI
Nel campo politico, l’Impero visse un periodo di completa instabilità e in cinquant’anni si susseguirono
ventuno imperatori, quasi tutti morti assassinati. L’esercito divenne il padrone della situazione e designava
l’imperatore. A complicare la situazione si aggiunsero i combattimenti intestini; l’esempio maggiore è
l’uccisione di Filippo l’Arabo da parte di Traiano Decio, suo successore. Traiano tentò di ripristinare il culto
degli dei tradizionali, scatenando delle violente e sanguinose persecuzioni anticristiane. Nel III secolo d.C. il
Senato perse totalmente qualsiasi potere, mentre l’esercito nominava e manovrava l’imperatore. La crisi
portò molte riforme sociali; la maggior parte di esse furono a scapito dei poveri, dei lavoratori e dei
contadini: ci fu un irrigidimento della società che costrinse ogni cittadino a svolgere la sua professione a vita
e obbligò le persone a tramandare la loro professione ai loro figli. Anche i sudditi, che erano legati
indissolubilmente alla terra, dovevano tramandare la loro professione alla generazione successiva (servi della
gleba). In questa situazione si misero in evidenza i provinciali, che assunsero nuove e abbondanti ricchezze,
prestigio sociale e l’ingresso nel Senato, anche se ormai privo di potere.
Umberto Diotti, La Civiltà Romana, ed. De Agostini, 2001
L’Impero romano era diventato un mosaico di popolazioni diverse che vivevano legate dalla cultura e dalla
legge romana. A Roma venne creato un catasto di tutte le proprietà terriere per poter contare su entrate sicure
e regolari. La gerarchia sociale era quindi costituita da quattro scalini: il più alto era occupato dai funzionari
statali; al secondo scalino vi erano i ricchi latifondisti o proprietari terrieri; poi c’erano gli schiavi, che non
dovevano pagare alcuna tassa e infine i coloni che, oltre a lavorare molto duramente, dovevano pagare
moltissime tasse. Molti coloni diventarono servi della gleba. Intorno al IV secolo d.C. era usanza dei
latifondisti scambiarsi visite, organizzare banchetti sontuosi, inviarsi opere letterarie… I signori avevano
pieni poteri sui contadini, ma quando le invasioni barbariche giunsero al culmine la società rurale regredì
enormemente e si passò a un modello di economia di sussistenza. Iniziarono così i mutamenti economici che
gravarono molto sul già avviato decadimento dell’Impero. Ci furono continue devastazioni, saccheggi,
carestie e pestilenze che continuarono a mettere in difficoltà l’economia dell’Impero. Un’improvvisa
diminuzione della produzione agricola causò il calo demografico e il maggiore impoverimento del popolo. Si
decise, allora, di coniare una maggiore quantità di monete che contenessero una percentuale minore
d’argento; il risultato: una violenta inflazione e il crollo degli acquisti da parte dei meno ricchi. Tornò in uso,
quindi, l’economia di scambio (baratto); i coloni, invece, si ridussero a una condizione servile di fronte ai
ricchi. Ai fattori già elencati, si aggiunse la pressione sulle frontiere dell’Impero da parte di popoli ostili.
Lungo le coste del Reno e del Danubio ci furono enormi movimenti migratori di tribù nomadi. I Germani, i
Burgundi, i Vandali, i Visigoti e i Longobardi riuscirono a entrare nei territori romani. Oltre a popolazioni
germaniche e nord europee, vi fu l’arrivo degli Unni, un popolo proveniente dalle pianure mongole; essi
venivano descritti dagli storici romani quasi come animali rozzi e incivili, privi di una qualsiasi cultura.
Giorgio Ruffolo, Quando l’Italia era una superpotenza, ed. Einaudi, 2004
Il dominio di Roma era basato sulla conquista militare e sullo sfruttamento schiavistico delle campagne.
All’economia di mercato fu sempre dedicata poca considerazione. Così quando l’esercito non fu più in grado
di fornire nuovi bottini di guerra, le casse dello stato rimasero pericolosamente a secco. Gli imperatori
aumentarono la tassazione che era sempre stata molto bassa e prima gravava esclusivamente sui contadini.
La vecchia classe nobiliare si lasciò sfuggire il potere di mano, a scapito della figura dell’imperatore e dei
militari, abbandonò la cura delle città e si chiuse in sé stessa. L’economia agricola soffriva di una crisi
strisciante e la situazione fu decisamente peggiorata dalle epidemie, e dalle numerose guerre del terzo secolo.
Un mondo che sembrava ricco e potente, improvvisamente si trovò sull’orlo della frantumazione. In
cinquant’anni l’inflazione salì a livelli inauditi. E la moneta d’argento, su cui si basavano gli scambi fra la
gente comune, perse qualsiasi valore reale. Nessuno voleva più il denarius d’argento. Al punto che i
rappresentanti dello Stato non accettavano più le sue emissioni, neanche come pagamento delle imposte.
Preferivano riscuotere quanto dovuto sotto forma di beni naturali.
Santo Mazzarino, Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana (vol.1), ed. Dedalo, 2003
Ad ogni emissione delle zecche, infatti, le monete d’argento erano sempre più simili a monete di rame.
L’attività bancaria, di cambio, prestito, deposito, era tenuta in poco conto. Nella maggior parte dei casi era
affidata a schiavi affrancati, cioè ai cittadini di diritti più infimi. Lo stato non entrava minimamente nei loro
affari, ma li obbligava a rispettare alcune rigide regole, come il tasso di cambio fra argento e oro. Pur
essendo le leggi romane molto attente e sviluppate, l’economia sfuggì del tutto al loro controllo. Il mercato
nero aveva un certo peso economico. E così, nonostante le leggi da parte di Severo (193-211) contro tale
mercato, i banchieri, che pagavano le tasse, ma che avevano infimi diritti e scarse o nessuna attività di
investimento, andavano sempre più frequentemente incontro al fallimento. Sebbene supportata dallo stato, la
moneta d’argento perdeva valore reale: i prezzi aumentavano e le tasse pure. Questi fenomeni, uniti alle
guerre, alle carestie e alle epidemie, non facevano che rincorrersi ed intrecciarsi, perpretrando una situazione
di crisi generale e ristagno della produzione.
Tutti i tentativi di riforma economica fallirono miseramente, per più di duecento anni. Le condizioni dei
normali cittadini (che in otto casi su dieci facevano i contadini) continuarono a peggiorare. Secondo alcune
stime, nel III secolo ad un aumento del prezzo del grano di cento volte, corrispondeva il solo raddoppio della
paga di un soldato (presa come riferimento perché è una delle meglio documentate). Sotto Gallieno (260268) l’impero, attaccato da tutte le popolazioni di confine, perse momentaneamente molte province
importanti e con esse il controllo di fondamentali miniere di argento, di rame e di ferro. La moneta divenne
così svalutata che tutti volevano liberarsene. Il denarius, in teoria d’argento, aveva in realtà solo una leggera
patina chiara che si ossidava in fretta. I cittadini distinguevano da tempo le “vili monete” dalla ricchezza
“vera” - i possedimenti in natura - ed erano contenti di pagare le tasse con queste monete prive di valore.
Si può immaginare che la situazione dei contadini fosse al limite della sopportazione umana. In seguito
all’accentramento dei poteri nel solo esercito, le esazioni fiscali si confondevano ormai con le espropriazioni.
E i soldati con gli esattori. I militari imposero con la forza il diritto di riscuotere le tasse direttamente dai
possedimenti dei contribuenti, eludendo il passaggio attraverso l’autorità centrale, che comunque era sempre
un autorità di natura militare. Dato il totale crollo del denaro, i militi preferivano riscuotere le imposte o in
oro o in beni naturali: spesso quindi non accettavano le monete appena emesse dallo stato, lasciandole
circolare ulteriormente. L’inflazione inevitabilmente salì alle stelle.
La crisi dei piccoli e medi proprietari terrieri era totale. Iniziata secoli prima in seguito all’importazione di
prodotti meno cari dall’estero e alla diffusione dei latifondi schiavisti, si era aggravata irrimediabilmente.
Ormai da varie generazioni per pagare le imposte i fattori e gli agricoltori ricorrevano a prestiti, ma quando i
debiti salivano troppo, erano costretti a vendere le loro terre, retrocedendo nelle classi sociali, diventando
sempre più poveri. Ora la situazione di impoverimento divenne generale e consueta. Le conseguenze saranno
quel fenomeno di “associazione” da parte dei poveri coi grandi proprietari terrieri, caratteristico del
medioevo.
Santo Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, ed. Rizzoli, 1995
A partire dal 193 la dinastia dei Severi, proveniente dai paesi del Mediterraneo orientale, concentrò tutte le
sue energie contro la pressione dei germani e l’invadenza dei persiani. Dato che non c’erano più bottini con
cui provvedere alle spese di mantenimento dell’esercito, che rappresentavano almeno la metà della spesa
totale, le tassazioni su tutti i cittadini dell’impero - ma non sulla privilegiata Italia - furono gradatamente
aumentate. L’aumento delle tasse e la concentrazione di potere ai reggimenti dell’esercito provocò un feroce
dissenso interno, che si levava da ogni classe sociale. L’unità dell’impero romano mostrava dei segni di
cedimento, ma la dinastia si dimostrò ben determinata nei propri progetti di consolidare lo stato,
culturalmente e militarmente, attorno al concetto di monarchia. La vecchia nobiltà fu totalmente privata del
potere, e praticamente si rifugiò nei propri possedimenti di campagna. Anche i ricchi erano colpiti da nuove
tasse. Ma il peso delle richieste imperiali gravava in massima parte, ovviamente, sui cittadini comuni. I ceti
più deboli, plebe urbana e contadini, non ci stavano a sopportare continuamente dei tremendi sacrifici, senza
che la situazione politica cambiasse a loro favore. Le ribellioni di questi cittadini, i cui diritti giuridici erano
inferiori per legge a quelli dei ricchi, e i cui rappresentanti politici erano stati eliminati alla fondazione
dell’impero, furono però agevolmente domate tramite interventi repressivi delle forze armate. Dopo che nel
periodo della pax romana le città si erano sviluppate senza bisogno di mura e truppe militari al loro interno,
alla prima minaccia di irruzioni germaniche, la res publica romana tornò ad essere una “maccchina militare”
come era sempre stata. La “militarizzazione” di questo periodo fu però di tipo professionale, e non più
volontaria. A differenza che nei secoli andati, ora sia gli aristocratici, sia il popolo, osteggiavano il governo.
L’aumento delle tasse e la diminuzione dell’argento nelle monete fecero sì che anche l’inflazione, lentamente
ma inesorabilmente, aumentasse. Questi due fenomeni sviluppatesi nei primi due secoli dell’impero e
caratteristici del III secolo - l’imposizione delle tasse e l’inflazione - erano totalmente sconosciuti alla
mentalità dell’aristocrazia antica. Le tasse sui proprietari terrieri, le imposte sulla persona fisica e anche le
multe, infatti, non avevano mai rappresentato una grande entrata nelle casse dello stato repubblicano, Stato
che aveva occupato i cinque secoli (509-31 a.C.) anteriori alla fondazione dell’impero. Per i “nobili” senatori
ricchezza e nobiltà d’animo erano qualità naturali, che si basavano sulla proprietà terriera e sui valori
tradizionali, dovuti allo sfruttamento della natura e al controllo del proprio seguito. La ricchezza era
“naturale” ed era dovuta all’introito della guerra ottenuta tramite l’abilità politica di comando. Per i senatori,
dunque, la causa della crisi (inclinatio rei publicae) erano i nuovi governanti non romani (provinciali) e non
aristocratici (cavalieri). Nel III secolo, ormai esclusi dalla gestione dello stato, vedevano con timore
l’aumento dei prezzi e l’imposizione di tasse. Ma già prima delle irruzioni germaniche questa evoluzione
sociale contribuì ad alimentare l’idea della decadenza dei tempi anche fra le classi colte.
Mihail Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, ed. La Nuova Italia, 2003
In una costruzione politica che cercava di legittimarsi divinizzando la figura dell’Imperatore il cristiano non
era né un rivoluzionario, né un disobbediente. Al contrario, come si vede ad esempio nella lettera di San
Pietro Apostolo,, era esplicitamente invitato ad obbedire all’autorità. Ed era altresì invitato a rispettare un
ordine costituito. Ma non poteva ubbidire, ad esempio, all’editto dell’imperatore Decio, che imponeva a tutti
gli abitanti dell’impero di adempiere ai sacrifici di rito, né la pena di morte poteva essere un “deterrente”,
perché il cristiano sapeva che la persecuzione patita per amore di Cristo era da sopportare con animo lieto,
consapevoli della gloria che attendeva il martire. Insomma, il cristiano, lungi dal voler operare un
capovolgimento politico del sistema in cui viveva, ne disconosceva però alla radice la legittimazione, quando
questa veniva cercata contrabbandando per divinità un’autorità politica, l’imperatore. Infatti, se è vero che
San Pietro, come leggevamo sopra, invitava i cristiani all’obbedienza alle autorità, è altrettanto vero che i
cristiani rispettavano questa autorità riportandola però alla sua dimensione terrena e tornando così, tra l’altro,
ai concetti di dottrina dello stato propri dell’epoca classica, che giustificavano l’autorità e la legge “ne cives
ad arma veniant”, ossia come istituzioni necessarie nella vita organizzata “affinché i cittadini non vengano
alle armi”, ossia convivano pacificamente. Un modello politico accentratore e fondamentalmente dittatoriale,
qual è quello che si rese necessario per riportare ordine e coesione nell’Impero, non poteva tollerare al suo
interno degli elementi che non riconoscendo la natura divina dell’Imperatore mettevano a rischio la sua
esistenza stessa come autorità e fonte della legge. Oltre tutto questi elementi non erano malfattori, ma al
contrario erano individui che aveva mostrato concretamente la possibilità di una vita nuova, basata sulla
carità vicendevole, sul perdono, sulla solidarietà e che in questo modo mettevano in discussione anche la
divisione in classi che, seppur non codificata, era uno degli elementi su cui si reggeva il sistema. E’ vero che
San Paolo dice agli schiavi: “amate i vostri padroni”, ma è altrettanto vero che per il cristiano schiavo e
padrone sono fratelli in Cristo, uguali davanti a Dio. Non è un caso quindi che le grandi persecuzioni
coincidano col periodo storico della riscossa dell’impero, nella seconda metà del III secolo, con gli
imperatori illirici. Queste persecuzioni sono da annoverarsi tra gli atti “inevitabili” per riportare ordine in una
realtà politica che si andava squagliando. Inoltre la riscossa dell’impero, nella sua ricerca di elementi di
coesione, aveva anche bisogno di riportare a galla i valori della Roma classica, in cui l’elemento religioso era
parte integrante del sistema politico: e in questo senso già nel secolo precedente si erano accese dispute
ideologiche tra i cristiani e i sostenitori del paganesimo, visto come tradizione gloriosa per virtù antiche ed
uomini illustri, disconoscendo il quale i cristiani rifiutavano quanto di meglio aveva prodotto la sapienza
antica, palesandosi come nemici della ragione stessa.
Paolo Deotto, Roma si piega al figlio di Betlemme, in “Cultura Cristiana”, Marzo 1999