un cronista del medioevo

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un cronista del medioevo
STORIA/CULTURA
TERRA TRENTINA
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UN CRONISTA DEL MEDIOEVO
F
orse pochi conoscono
le cronache, anche
della storia minore e
quotidiana del nostro
Medioevo, come Fra’ Salimbene da Parma. Un frate cronachista che, nelle sue vivacissime pagine giunte miracolosamente fino a noi, narra non
solo gli avvenimenti che mutano il destino degli uomini,
ma anche i fatti di ogni giorno, ovvero quelli che contribuiscono a far conoscere fino
in fondo la società, l’economia
e la cultura di quel tempo. Salimbene insomma anticipa
Boccaccio ed infarcisce il suo
racconto di episodi divertenti,
di personaggi minori, di vicende spesso legate intimamente
all’economia agricola dell’Italia del Nord.
Più che raccontare, Salimbene ricorda e allora popolani, messeri, imperatori, uomini e donne che passano nelle
sue pagine, conservano infatti
i loro colori, i gesti d’amore e
le mattane. E il Duecento è il
secolo pieno di cose e di uomini da ricordare,
Guelfi e Ghibellini si cercano furiosi sulle piazze e sui
campi di battaglia. Veneziani,
pisani e genovesi si cercano sul
mare. Ci sono quattro Crociate. Sulla scena della grande
contesa tra l’Impero e la Chiesa e i Comuni passano nomi
come Federico II, re Enzo, Pier
della Vigna, frate Elia da Cortona, Onorio III, Gregorio IX,
Innocenzo IV, Manfredi, Corradino, Carlo d’Angiò, Ezzelino da Romano. E accanto agli
uomini di guerra, gli uomini
di pace: Marco Polo va in Cina
Grazie alla penna di fra’
Salimbene da Par ma
(“Cronica”), possiamo
leggere nel grande libro
della Storia alcune preziose pagine di quel tempo duro e favoloso che fu
l’alto Medioevo
n Renzo Fracalossi
e fra Giovanni da Pian del Carpine nel paese dei Tartari. Altri uomini senza nome coniano fiorini d’oro a Firenze e
ducati a Venezia, fanno funzionare ad Augusta una segheria
con l’acqua del fiume, sezionano a Cremona le vittime di
un’epidemia, soffiano vetri preziosi a Murano.
Tutto ciò che Salimbene
vede e viene a sapere, finisce
nelle pagine della “Cronica”.
Non soltanto gli avvenimenti
che cambiano il destino degli
uomini, ma anche le cose da
poco, le piccole guerre del
lambrusco tra reggiani e modenesi da un lato e parmigiani, piacentini e cremonesi dall’altro. Guerre che non cambiano niente, se non il destino
di un canale, di una strada, di
quattro case sperdute nei campi. E così, accanto al Papa che
scomunica l’Imperatore, c’è il
ciabattino Asdente che legge
il futuro; accanto a Gioacchino da Fiore che annunzia l’era
dello spirito, ci sono i manigoldi che vanno in giro vestiti
da frate a convincere le comari di lasciarli dormire con le
figlie per provarne la virtù.
E poi ci sono nelle pagine
della “Cronica”, i Tartari, i bottegai di Parma, le comitive
dell’Alleluia, i contadini della
pianura, gli scalpellini dell’Antelami, gli avvocati di Mantova che ammazzano il vescovo,
il canonico Giovanni di Bondeno che i frati minori trovano sempre a letto con qualche
ragazza e alla fine e poi le brinate, i terremoti, i temporali,
la passione di francesi e inglesi per il vino... La penna di fra
Salimbene non dimentica niente.
Di questo fraticello attento
e curioso – il cronista forse
maggiore, di certo il più affascinante e originale, del nostro
Basso Medioevo, sempre “con
un piede nel convento e uno
nel mondo” – noi sappiamo
soltanto ciò che di lui racconta quella sua “Cronica”.
Salimbene, con il nome di
Ognibene, comincia la sua avventura terrena a Parma il 9
ottobre 1221. Il padre, Guidone de Adam, uomo di simpatie e amicizie imperiali e di
buona posizione economica,
ha già sulla schiena una crociata, due mogli, una concubina, e un sacco di figli. “Era un
om bello e gagliardo” dice
compiaciuto Salimbene. La
madre, seconda moglie di Guidone, viene dall’Appennino.
La città, dominata dalle torri e dalle chiese, ha soltanto la
voce delle sue campane, e
quando cade il giorno si chiude nel buio e nel silenzio. Le
strade odorano di cavalli. La
vita ha toni molto crudi, però
si tratta ancora di un mondo
verde e aperto; verde di boschi e di praterie e di piazze, e
ca a Salimbene gli orizzonti del
mondo, ed è un avvenimento
fondamentale per la sua cultura. Conosce Innocenzo IV, re
Luigi IX il Santo, i frati Ugo da
Digne e Giovanni da Parma
che lo iniziano alle idee gioachimite e fra Giovanni da Pian
del Carpine che in lunghi conversari gli racconta del Paese
dei Tartari da dove è appena
ritornato. È questo, senza dubbio il periodo più felice per
Salimbene che è essenzialmente un vagabondo.
Quando i superiori lo fermano nei conventi della sua
terra, in Emilia, la sua prosa
perde infatti un poco del suo
entusiasmo, anche se, dedicandosi a vicende di tutti i
giorni, acquista un valore particolare, sia dal punto di vista
storico sia da quello del costume. Ed è una lunga teoria
di personaggi ed episodi che,
nel colore della vita del tempo, sembra preparare storie
per i novellieri del vicino Trecento: dal frate che asserisce
che giacere con una donna
senza toccarla è miracolo
maggiore che resuscitare un
morto; alla torta ripiena di
sterco inviata per burla a un
canonico e finita invece sulla
tavola del vescovo; al fraticello
fiorentino che, caduto lungo
disteso sul selciato per uno
sdrucciolone, risponde “La tu’
moglie!” a chi gli domanda
beffandolo se voleva qualcosa sotto.
È in questi ultimi anni che
Salimbene scrive, sul filo dei
ricordi, la sua “Cronica”, ben
lontano naturalmente dall’immaginare l’importanza che essa
avrebbe avuto nei secoli. Infatti, è proprio grazie alla penna di questo simpatico fraticello di Parma, che amava la buona tavola e si voltava a guardare le ragazze, se noi abbiamo potuto leggere nel grande
libro della Storia alcune preziose pagine di quel tempo
duro e favoloso che fu l’alto
Medioevo.
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conventi della Lombardia, accumula sapere ed esperienza.
Nel 1247, quando l’imperatore mette l’assedio a Parma,
passata in campo guelfo, Salimbene è in città e assiste alle
prime scaramucce.
Dopo duecentotrentadue
giorni di assedio, però, quei
contadini sono ancora lì, a fare
gesti osceni e a gridare contumelie alla marea di spade
che stringe la città. Fuori ci
sono tedeschi, saraceni, lombardi, borgognoni. Il 18 febbraio 1248, un martedì freddo e nebbioso, Federico II è
lontano, a caccia col falcone
nel greto del Taro; la città di
tende e di legno dove accampa il suo eterogeneo esercito,
sta ancora sonnecchiando.
Prima che le sentinelle svogliate si rendano conto che le
campane di Parma stanno
suonando a distesa, un turbine di uomini e di cavalli, e
poi di donne infuriate e di
ragazzi, si abbatte sul campo
imperiale, tutto viene scannato, rubato, messo a fuoco e
nel giro di poche ore il grande assedio degli alleati va a
farsi benedire.
L’Imperatore si salva fuggendo a spron battuto su Cremona, ma lascia fra le ceneri
centinaia di soldati sgozzati e
molto del suo sogno di dominio. Le sue concubine saracene passano, a calci nel sedere,
per le strade di Parma, e il suo
tesoro: una montagna d’oro, di
pietre e di stoffe preziose, finisce, di mano in mano, nelle
botteghe e sulle bancarelle.
Racconta Salimbene, divertito,
di un popolano chiamato Curtopasso, per le sue goffe sembianze che per qualche giorno se ne va in giro per le strade a fare il buffone con la grande corona d’oro dell’impero
calata come una pentola fino
alle orecchie.
Un viaggio in Francia, dove
viene mandato per studio, ma
forse anche con qualche incombenza per il Papa, spalan-
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aperto a mercanti, pellegrini,
predicatori, cantastorie, che si
muovono liberamente, senza
frontiere, da un capo all’altro
dell’Europa, mescolando linguaggi ed esperienze, nelle fiere, nei conventi, nelle Corti. Un
mondo agricolo e fortemente
religioso, dove ogni avventura mistica è possibile, da quella della Porziuncola alla Crociata dei fanciulli.
Trascinato da quest’ondata
di misticismo che pervade la
vita del tempo, il 4 febbraio
1238, il giovane Ognibene abbandona la casa paterna ed
entra, all’insaputa dei genitori,
nelle file dei francescani. Ad
accoglierlo, è lo stesso frate
Elia, allora ministro generale
dell’Ordine, di passaggio da
Parma; e il buon Salimbene,
in verità con scarso spirito francescano, ricorderà con nostalgia per tutta la vita il cenone
di quella prima sera in convento. “In seguito mi diedero soltanto dei cavoli” annota sconsolato.
Guidone de Adam, naturalmente la pensa però in modo
diverso. Vedendo la famiglia
andare a catafascio, con tutte
quelle storie dell’omino di Assisi, corre addirittura dall’Imperatore e ottiene una lettera
per frate Elia che, immediatamente, gira la grana al convento di Fano, dove si trova in
quel momento il ragazzo. Scuro come un temporale, Guidone arriva a Fano e fa fuoco e
fiamme, prega, scongiura, minaccia, ma non cava un ragno
dal buco. Il ragazzo non cede.
In un certo senso, anche se con
accenti diversi, quasi da novella toscana, si ripete la scena
accaduta trent’anni prima, davanti al vescovo di Assisi, tra
Pietro di Bernardone e il suo
ostinato figliolo Francesco. Ma
i frati di Fano, ridacchiando
soddisfatti, mettono invece al
sicuro il ragazzo facendolo
passare, di convento in convento, in Toscana.
Poi, per alcuni anni, nei
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