I luoghi monastici come spazi sacri

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I luoghi monastici come spazi sacri
Maria Chiara Giorda - Sara Hejazi
Luoghi monastici come spazi sacri
Il monastero Dominus Tecum di Prà d’Mill e il tempio zen sōtō
Shobozan Fudenji di Salsomaggiore
«Monasteries are sacred because they are inhabited by
women or men who want to make their lives a worship
of God. Some of them may be holy people, others not.
What makes a sacred place of their place is the holiness
of the spiritual goal they have chosen for their lives»1
1. Che cosa è un monastero?
La questione che ci poniamo in questo articolo è quella di indagare le
caratteristiche del monastero come specie di luogo di quel più ampio genere che è lo spazio sacro, avente sue caratteristiche e funzioni specifiche2.
La nostra ipotesi è che il monastero abbia tratti caratteristici che lo
distinguono, quali il fatto che l’atto cultuale che vi si compie coincida
con il vissuto quotidiano. Non vi è separazione tra rito e vita ordinaria,
ma sovrapposizione costante, in un’ottica di totalità e unità3. La pratica
di vita dei monaci, una vera e propria art de vivre4, è routine sacralizzata,
con ritmi e tempi che si riflettono sul luogo in cui essi abitano, che essi
modellano e dal quale sono modellati5.
In questo senso, vi è contemporaneamente una sincronizzazione dei
tempi di vita dei singoli individui e della comunità, all’unisono. La prati1
 A. Veilleux, What Makes a Monastery a Sacred Place?, in T. Coomans - H. De Dijn - J. De
Maeyer - R. Heynickx - B. Verschaffel (eds.), Loci sacri. Understanding Sacred Places, Leuven
University Press, Leuven 2012, pp. 29-33, qui p. 30.
2
 M. Barrett, The Monastery as Sacred Space, in S. Brie - J. Daggers - D. Torevell (eds.), Sacred
Space. Interdisciplinary Perspectives within Contemporary Contexts, Cambridge Scholars, Cambridge 2009, pp. 9-22.
3
 F. Debuyst, Le génie chrétien du lieu, Cerf, Paris 1997, p. 80: il monastero è il luogo della
totalità e pienezza di vita cristiana.
4
 Sul concetto di art de vivre si veda D. Hervieu-Léger, «Tenersi fuori dal mondo». Le diverse
valenze dell’extramondanità monastica, in «Etnografia e ricerca qualitativa» 2(2012), pp. 185-202,
in part. p. 199.
5
 Si vedano le riflessioni sulla reciprocità/circolarità esistente tra un determinato luogo e l’attività
che in esso si compie di A. Wathen, Space and Time in the Rule of S. Benedict, in «Cistercian Studies» 17(1982), pp. 81-98, in part. p. 90.
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ca monastica costruisce l’identità del monaco e della comunità monastica
all’interno del monastero6. È questa cultura che si forma e riforma nel
luogo monastico che segna uno spartiacque tra chi è dentro e chi è fuori,
tra chi ha compiuto una scelta di vita – fatta di ritualità e culto nella dimensione quotidiana – e chi non lo ha fatto; tra chi costruisce un habitus
e il resto del mondo.
L’ipotesi dell’esistenza del luogo del monastero come una specie del
più ampio genere spazio sacro in cui si verifica e si celebra l’atto cultuale
di una comunità che ne definisce l’identità e il confine, scaturisce dall’osservazione del caso di due monasteri contemporanei di tradizioni differenti, entrambi situati nell’Italia settentrionale: il monastero Dominus Tecum
di Prà d’Mill e il tempio zen sōtō Shobozan Fudenji di Salsomaggiore.
2. Osservare il monastero
Nel caso dei monasteri, non si tratta solo di analizzarne i differenti
ambienti destinati alle azioni quotidiane e ai rituali per capire come sono
disposti, secondo quale evoluzione storica, con quali progettualità, ma di
cogliere il nesso costante tra il luogo che “crea” il monaco e la comunità
monastica, che sacralizza lo spazio in cui vive.
Le scienze sociali – e in particolare modo l’antropologia culturale –
hanno portato avanti questo tipo di analisi attraverso l’utilizzo dell’osservazione partecipata come strumento privilegiato per conoscere l’alterità,
il che ha implicato in alcuni casi una residenza prolungata del ricercatore
presso i monasteri di interesse e, a volte, persino un avvicinamento spirituale, una conversione, o la presa in carico di alcuni voti monastici7.
Anche nel caso dei due contesti sopraelencati, monastero Dominus
Tecum e tempio buddhista Shobozan Fudenji, si è utilizzata l’osservazione partecipata per analizzare il rapporto tra spazio monastico e cultura monastica, anche se si è scelta la residenza ripetuta per brevi periodi
di ritiro, piuttosto che un’unica residenza prolungata di diversi mesi. Vi
sono infatti modi multipli nell’antropologia contemporanea di affrontare
6
 E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano 2006 (orig. Communities of Practice. Learning, Meaning and Identity, Cambridge University
Press, New York 1998).
7
 Si vedano, ad esempio, il lavoro di Joanna Cook, Meditation in Modern Buddhism. Renunciation and Change in Thai Monastic Life, Cambridge University Press, Cambridge 2010, in cui la studiosa prende otto dei voti delle monache e risiede per più di un anno nel monastero di Wat Bonamron,
nel nord della Tailandia, e il lavoro di Francesca Sbardella, più volte residente in un monastero femminile di clausura, M. Giorda - F. Sbardella (eds.), Famiglia monastica. Prassi aggregative di isolamento, Pàtron, Bologna 2012.
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la ricerca etnografica e l’osservazione partecipata nei contesti complessi8,
specie se si tiene conto del fatto che tutta la ricerca sociale è una forma
di osservazione partecipata, essendo il ricercatore parte del mondo che
studia9; questo è particolarmente vero nel caso dello spazio monastico
che, attraverso la costante uscita ed entrata dei monaci dal monastero e
dei sempre più numerosi visitatori (turisti, ricercatori, giornalisti) fuori
e dentro lo spazio monastico, si dilata ripercuotendosi nelle città e negli
spazi circostanti, anche attraverso l’utilizzo specifico di una auto-rappresentazione monastica ad hoc per il mondo fuori, che fa abitualmente uso
delle moderne tecnologie per raggiungere spazi sempre più lontani.
Occorre considerare infatti che le distanze tra monaci e laici “vicini” a
vario titolo al generico spazio monastico tendono a ridursi in un’attualità
che vede templi e monasteri confondersi nello spazio della città10, o persino monaci vivere da soli in appartamenti nel cuore delle metropolitane11
Si tratta di una riduzione che non è solo geografica e spaziale, e nemmeno
è limitata all’avvicinamento dello spazio monastico allo spazio profano;
piuttosto, essa è costituita da un processo di inglobamento e accoglienza
dello spazio profano e della cultura laica all’interno del luogo monastico,
attraverso un’apertura ai laici sempre più costante da parte dei monasteri.
I monasteri – anche quelli situati nei luoghi più impervi12 – hanno sviluppato e incrementato la propria capacità di ricevere intere famiglie di laici,
di promuovere corsi e ritiri destinati a una moltitudine variegata di persone: vi è un modo differente di abitare, transitare, soggiornare nei monasteri
che scaturisce da e fa scaturire differenti attribuzioni di senso ai riti e alla
quotidianità monastica. Anche il processo inverso è sempre più frequente: il sapere monastico corre sul web13, i monaci partecipano a conferenze
ed eventi culturali di loro interesse in città, quando non sono loro stessi a
presentare al pubblico laico – in occasione di fiere, conferenze ecc. – i libri
che hanno scritto: è lo spazio monastico che si espande e al contempo si
esaurisce, si mette in scena nel profano, uscendo dall’ambito del sacro.
8
 Si veda a questo proposito P. Atkinson - S. Delamont - W. Housley (eds), Contours of Culture.
Complex Ethnography and the Ethnography of Complexity, AltaMira Press, Plymouth 2008.
9
 M. Hammersley - P.Atkinson, Ethnography. Principles in Practice, Tavistock, London-New
York 1983.
10
 A proposito di un’antropologia urbana si veda Ulf Hannerz, Exploring the City. Inquiries
Toward an Urban Anthropology, Columbia University Press, New York 1992.
11
 Tra questi, anche il noto Henry Quinson, un monaco trappista che risiede nelle banlieues al
nord di Marsiglia.
12
 Si veda F. Galmiche, A Retreat in a Southern Korean Buddhist Monastery. Becoming a Lay
Devotee through Monastic Life, in «European Journal of East Asian Studies» 9/1(2010), pp. 47-66.
13
 Per entrambi i casi studio la comunicazione e lo scambio di informazioni e di materiali tra monaci e ricercatori sono avvenuti anche via mail. Si veda, a tale proposito, lo studio di P. Maffeo, Voci
dal chiostro. Monache di clausura raccontano, Ancora edizioni, Milano 2013.
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La possibilità di un contatto frequente tra monaci e laici apporta importanti cambiamenti all’identità monastica, che si fa elastica, abituata
all’interazione costante con il mondo fuori, autoconsapevole al punto da
rendere possibile anche ai ricercatori di osservare e partecipare “a intermittenza” alla vita e alla pratica monastica, cogliendone alcuni tratti
fondamentali legati al suo agire nel luogo del monastero e al suo rapporto
con lo spazio profano.
Come si leggerà più avanti, vi sono ambienti del monastero inaccessibili ai laici, così come – per esempio nel caso del sangha misto di Shobozan Fudenji – vi sono ambienti che periodicamente, o in base al rituale,
sono accessibili solo agli uomini o solo alle donne. In questi casi, all’osservazione partecipata si associa il lavoro di un informatore, di solito un
monaco o una monca residente, che rende “accessibili” tali luoghi descrivendoli, filmandoli o fotografandoli per conto del ricercatore.
Per osservare il luogo del monastero e dunque provare a riflettere sul
più generico spazio monastico, ci siamo infatti avvalse anche dello strumento fotografico per coglierne i molteplici livelli: per fotografare ambienti a cui abbiamo potuto accedere; per fotografare le attività dei monaci
all’interno di questi ambienti; per fare fotografare ai monaci gli ambienti
a cui non avevamo accesso; per rappresentare a terzi il monastero.
Già Roland Barthes aveva individuato il carattere polisemico delle foto
e degli strumenti visivi nello studio etnografico14. Per l’antropologo, la foto
è un oggetto capace di generare significati multipli, che vanno dal processo
di realizzazione della foto stessa ai significati veicolati ai destinatari delle
immagini. Come osserva Giovanni De Luna nella prefazione a Le fotografie e la storia, le immagini fotografiche sono state quasi sempre utilizzate
anche dagli storici per “illustrare” una narrazione basata sull’unicità del
documento scritto15. Solo di recente, una nuova tendenza di studi ha riconosciuto alla fotografia altre due funzioni16. Innanzitutto quella di essere
fonte storica, ovvero una testimonianza diretta di un evento; in secondo
luogo quella di ricoprire il ruolo di vero e proprio agente di storia: una
foto è capace infatti di suscitare, in chi la vede, reazioni di ogni tipo (sociale, morale o politico) e riesce in alcuni casi a orientare i comportamenti
14
 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980 (orig. La chambre
claire. Note sur la photographie, Cahiers du Cinéma-Gallimard-Le Seuil, Paris 1980).
15
 G. De Luna, Prefazione all’opera, in G. De Luna - G. D’Autilia - L. Criscenti (eds.), Storia
del Novecento. Le fotografie e la storia, vol. i, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Einaudi,
Torino 2005, p. xxxv.
16
 G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, La Nuova Italia, Firenze 2001;
P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002; A. Mignemi,
Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
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collettivi17. Byers si era spinto oltre18, considerando la foto come un materiale grezzo capace di veicolare un numero quasi infinito di messaggi che
l’osservatore può ricavare da sé. In questo senso l’immagine fotografica
diventa un pretesto per uno scambio di informazioni variabili tra l’oggetto
fotografato, il fotografo e il suo destinatario, piuttosto che un messaggio
in sé. È capitato per esempio che alcune monache in abito da lavoro – vedendo la macchina fotografica – chiedessero di potersi andare a cambiare
per “vestirsi da monache”. L’oggetto fotografato è infatti intenzionato a
veicolare delle informazioni, almeno quanto lo è il fotografo. Come accade
al ricercatore del film Kitchen Stories del regista norvegese Bent Hamer
(2003)19, l’osservato e l’osservatore diventano vesti e ruoli intercambiabili,
al punto in cui il progetto finale del ricercatore si modifica e si plasma a
seconda delle esigenze, degli stimoli offerti dall’oggetto della ricerca.
3. Dentro ai monasteri: un percorso nel luogo sacro
L’osservazione dei casi studio ha messo in luce alcune caratteristiche
peculiari del luogo monastico.
La relazione con l’ambiente circostante il monastero è bi-univoca: lo
spazio monastico è circoscritto, ma al contempo immerso in uno specifico ambiente dal quale non si può prescindere. L’accesso al monastero è
un accesso facilitato, agevolato: sia nell’uno che nell’altro caso, insegne
stradali indicano la via per arrivarvi; ma è anche un accesso preparatorio, nel senso che il percorso presenta una serie di ostacoli o di azioni
pre-liminari: ad esempio, a Prà d’Mill si accede da una salita, in un bosco sempre più fitto, in una valle, quella dell’Infernotto, chiusa e spesso
all’ombra, lungo una strada che si fa sempre più accidentata. Sempre in
salita – anche se non accidentato – è il percorso verso il monastero Fudenji, che si trova sulla cima della collina di Tabiano. Una volta avuto accesso al giardino che circonda la casa colonica, si ridiscende per accedere
al sōdō – la stanza della meditazione – ma solo dopo aver tolto le scarpe e
aver percorso un tratto su una pedana di legno che unisce la casa coloniale
al secondo edificio.
 G. De Luna, Prefazione all’opera, cit., p. xxxvi.
 P. Byers, Still Photography in the Systematic Recording and Analysis of Behavioral Data, in
«Human Organization» 23(1964), pp. 78-84.
19
 Nel film, un ricercatore siede su un trespolo nella cucina di uno sconosciuto per osservare
l’utilizzo che questi fa degli utensili e degli spazi di quell’ambiente. Il fine della ricerca è quella di
ottimizzare la cucina per un’utenza maschile. Alla fine però, sarà proprio il ricercatore sul trespolo
ad essere osservato di nascosto dall’inquilino della casa.
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Il monastero Dominus Tecum è stato costruito per mimetizzarsi, esteticamente e architettonicamente, nel paesaggio circostante: dai materiali
usati, le pietre, lose sovrapposte e il legno20; alle pendenze della montagna, rispettate e quasi accompagnate, il monastero è stato quasi invisibile
negli anni, confondendosi e conformandosi con il declivio.
Il rapporto del tempio buddhista Fudenji con l’ambiente circostante e
con la tradizione zen è di tipo mimetico21 cioè riflette una volontà di imitazione e integrazione consapevole dell’altro: si tratta di un’alterità ambigua, perché ingloba identità molto diverse tra loro: quella della tradizione
del buddhismo giapponese zen, e quella territoriale. Questo è evidente
nell’utilizzo dei materiali locali, come il cotto e il mattone, che fanno
sì che dalla strada il tempio somigli a una delle tante case della zona,
integrandosi perfettamente nel suo contesto, ma presentando caratteri di
forte innovazione e rottura: le porte scorrevoli Shoji, caratteri giapponesi
all’entrata che presentano il tempio, sovrastati da un tettoia a pagoda simile a quella dei templi zen giapponesi.
Si assiste quindi a una sorta di doppia permeazione dello spazio esterno rispetto a quello monastico e viceversa del monastero rispetto al suo
esterno, in una sorta di evanescenza o di appiattimento dei confini netti che
dovrebbero segnare la distinzione tra sacro e profano, tra il qui e l’altrove.
La costruzione del luogo monastico è frutto di azioni differenti successive ed è organizzato e ordinato; il lavoro è sempre in itinere, laddove l’iter
segue uno sviluppo: la prima è la costruzione degli ambienti monastici all’epoca dell’installazione dei monaci, con i lavori di ristrutturazione, di
organizzazione degli spazi secondo un progetto che rispettasse la natura
del luogo, lo schema architettonico dei monasteri cistercensi o un rimando più o meno esplicito ai monasteri zen, con tutti gli elementi che la
storia e la tradizione monastica hanno definito nel tempo. Per il Dominus
Tecum: il chiostro, il capitolo, la chiesa, le celle, il refettorio dei monaci e
quello degli ospiti, la biblioteca, i laboratori, il capitolo, i terreni, il cimitero, la foresteria22. Per Fudenji il sōdō, la stanza del dharma, i bagni, lo
spazio per l’insegnamento dell’abate, il giardino.
20
 M. Momo, Il progetto del monastero «Dominus Tecum», in «Aión» 2(2003), pp. 66-73, p. 70.
Id., Sulle pendici del Monviso. Il rifugio Vallanta e il monastero di Prà ’d Mill, «Rifugio dello spirito», in AA.VV., Architettura moderna alpina. I rifugi, Musmeci, Quart 2006, pp. 45-58, in part. p. 51.
In realtà vi è una trave di acciaio dipinta dello stesso colore di quelle di legno che sostengono il tetto
della chiesa, aggiunta in un secondo momento per ragioni di sicurezza e solidità e l’armatura dei muri
è in calcestruzzo: pilastri verticali e orizzontali ricoperti di pietre sorreggono la struttura monastica.
21
 R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 (orig. Violence and the Sacred, Continuum, London 1988).
22
 Come ha messo in luce A. Longhi nel suo articolo in questo volume, esistono modelli differenti
di monastero oggi che sono stati progettati da architetti in dialogo con il mondo monastico: il mona-
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Lo studio di Maurizio Momo si è occupato fin dall’inizio della ristrutturazione degli edifici storici presenti, partendo dalle esigenze legislative e funzionali, dalla morfologia del territorio, dalle sperimentazioni dei
monaci e dalle norme dell’architettura monastica cistercense23. Il monastero non è rigidamente legato alla pianta “classica” cistercense24 costruita intorno a un chiostro e che prevede la chiesa a nord o sud, speculare
al refettorio, il capitolo, il locutorium, la sacrestia, i libri per la lectio a
est: basti citare il fatto che il capitolo è sopra la chiesa, per una ragione di
pendenze, o che non esiste uno scriptorium per la lectio che viene fatta
dai monaci nella propria stanza e manca un’infermeria. Dell’architettura
cistercense sono state prese, senza dubbio, le linee spoglie, essenziali, la
semplicità25 e l’adattamento alle esigenze della comunità: sono gli uomini
che abitano il monastero a rendere lo spazio sacro.
Al Dominus Tecum, all’inizio della installazione, erano presenti due
gruppi di case: in basso, sul limitare del bosco, tre fabbricati settecenteschi, un palazzotto, con grangia e cappella, costituivano una piccola
residenza nobiliare (questi i terreni appartenenti alla famiglia d’Isola, donataria dei terreni). In alto, alla base del pendio montagnoso, sorgevano
diversi fabbricati rurali, una lunga manica discontinua, a due piani, che
verso il bosco si ampliava e i fabbricati si fronteggiavano. Qui c’era e c’è
ancora una grande baita, ora inserita nel monastero, risparmiata da un
incendio che aveva quasi distrutto le altre grange26. I lavori iniziarono nel
1988 e nel 1991 il progetto del monastero venne inserito nel nuovo piano
regolatore, nel 1992 arrivava la luce elettrica, nel 1994 a seguito di una
frana si procedette con uno studio sulla situazione geologica dei terreni,
nel 1995 si lavorò alla foresteria, nel 1996 fu costruita una palizzata con
valenza più simbolica che reale per indicare la clausura. Nel 1998 iniziò
la ristrutturazione della seconda parte delle case antiche, la stalla dove si
stero-villaggio, il monastero-casa, il monastero a struttura aperta, il monastero sviluppato intorno
al chiostro: A. Longhi, Spazio sacro e architettura liturgica, supra, p. 955. Al Dominus Tecum il chiostro è stato un nucleo importante del monastero, anche se i nuovi ampliamenti costringono a parlare di
chiostri al plurale, ma la chiesa è sempre al centro: l’altare è al centro di due linee incrociate in diagonale che partono l’una dalla cappellina e va alla biblioteca, l’altra al palazzotto e va verso la foresteria
(T. Kinder, I cistercensi. Vita quotidiana, cultura e arte, Jaca Book, Milano 1998, p. 92; orig. The
Cistercian Europe, Zodiaque, St. Léger Vauban 1997, p. 89). Sull’architettura cistercense: A. Dimier,
Recueil de plans d’églises cisterciennes, Abbaye Notre-Dame D’Aiguebelle, Vincent Freal, Paris
1949; G. Viti, Una architettura per l’Europa: l’abbazia cistercense, Certosa Cultura, Firenze 2000.
23
 M. Momo, Sulle pendici del Monviso, cit., p. 51.
24
 T. Kinder, I cistercensi, cit., p. 72. In uno dei primi progetti del monastero i disegni prevedevano la pianta classica con il chiostro al centro, tuttavia l’idea è stata abbandonata per questioni di
adattamento al territorio.
25
 Ibidem.
26
 Ibidem.
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celebrava la messa – oggi refettorio dei monaci –, per organizzare meglio il monastero e la clausura27. Nel 2000 nuovi lavori portarono alla
costruzione della Chiesa, consacrata nel 2004 e infine nel 2011 furono avviati i lavori – tuttora in corso – per l’ampliamento della parte dell’accoglienza. Una sorta di continua progettazione secondo il criterio dell’ampliamento o, come lo ha definito il priore padre Cesare, un «monastero
componibile»28. Non vi è un progetto che a priori ne ha determinato la
struttura e la morfologia, ma vi sono dei principi direttori operativi, basati
sulle esigenze pratiche, condivise dagli attori della costruzione29.
Shobozan Fudenji è stato fondato nel 1984, per iniziativa di Fausto
Taiten Gureschi, allora maestro di arti marziali, che aveva ricevuto la
trasmissione del dharma qualche anno prima a Parigi, da Taisen Deshimaru Roshi. La conversione al buddhismo in quegli anni era un fatto che
riguardava la frattura rispetto all’ambiente cattolico di provenienza del
primo nucleo fondatore, che era composto per lo più da studiosi di arti
marziali provenienti da Fidenza. La struttura odierna del monastero riflette questo percorso in itinere: il gruppo di fondatori acquistò all’inizio
degli anni ’80 una casa colonica e un terreno di 40.000 metri quadrati che
era in disuso da un ventennio. Dopo aver ristrutturato la casa, nel corso
di un decennio, fu costruito il secondo edificio, a un solo piano, che oggi
è anche la parte più importante del monastero: la sala di meditazione. Ma
il progetto è ancora in itinere, perché mira alla costruzione di altri due
edifici, che disposti a chiostro, avranno al proprio centro una nuova sala
del dharma.
La costruzione dello spazio sacro, proprio perché è frutto della pratica e
del vissuto, è continua nel tempo per adeguare lo spazio alle nuove pratiche
e alle nuove esigenze: le comunità sono cresciute, il numero di visitatori e
ospiti anche, le attività dei monaci sono cambiate: al Dominus Tecum, se si
producono più marmellate occorre un luogo idoneo per esporle e venderle
perché anche l’economia fa parte della vita quotidiana; è uno spazio, quello monastico, non dato una volta per tutte, ma in divenire, in evoluzione,
in costante discussione e rimodellamento. Nell’aprile 2012 sono iniziati
infatti i lavori di ampliamento del monastero che prevedono l’aggiunta
di due stanze alla foresteria, la portineria, l’ufficio per il forestario, alcuni
parlatori, una sala conferenze (di quaranta posti circa), un portico di acces27
 Tutte le informazioni sono state tratte dalle lettere annuali dei fratelli del Dominus Tecum e da
colloqui ripetuti nel 2012/2013 con Maurizio Momo e con padre Cesare Falletti.
28
 L’espressione è stata utilizzata dal priore padre Cesare Falletti durante l’intervista di Maria
Chiara Giorda del 23 luglio 2013.
29
 Dai colloqui con l’architetto Momo durante il 2013 è emerso come il progetto è stato via via
discusso e strutturato insieme alla comunità monastica, a partire da necessità e bisogni dei monaci.
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so alla chiesa, un parcheggio e un ingresso pedonale, la tettoia di riparo per
auto e mezzi agricoli (su cui sono stati montati pannelli fotovoltaici), un
luogo più raccolto per gli ospiti della foresteria e un piccolo negozio, con
il suo deposito, dove poter esporre le confetture e alcuni libri30.
A Fudenji non si vendono prodotti, ma saperi. I vari corsi e seminari
attivati nel corso dell’anno variano dalla calligrafia alla cerimonia del tè;
proprio perché quasi tutti gli insegnamenti mirano a sacralizzare i gesti quotidiani (lo scrivere, il battere un ritmo attraverso lo strumento del Taiko, il
cucinare), lo spazio del monastero si è definito in base a un’attenzione elevata verso il particolare; la disposizione degli oggetti, così come la perfezione del giardino, non lasciano nulla al caso presentando un luogo che vuole
distinguersi dal mondo fuori per un valore specifico, che ha anche un senso
spirituale: la bellezza. Così il monastero vuole essere in primis bello, in
quanto perfetto, ordinato, curato, contrapponendosi alla bruttezza del mondo fuori, «dove caso-caos e stupidità umana tolgono spazio all’armonia»31.
In questa costante ri-organizzazione dello spazio, esso si compone di
strutture ordinate dove vi si trovano elementi che rimandano a tale ordine:
barriere, figure geometriche, l’elemento della luce e del buio che si alternano, porte scorrevoli da aprire e chiudere: confini insomma, in una logica di esclusione e inclusione. I confini sono anche interni e in particolare
vi è una barriera, non solo metaforica e spirituale, segnata dal silenzio che
va rispettato, ma fisica, come attestano cartelli e cancelli, tra la clausura e
la parte aperta ai non-monaci nel caso del Dominus Tecum, o l’obbligo di
togliere e mettere le scarpe, nel caso di Fudenji.
Al centro del monastero la chiesa – così come il sōdō – pur essendo
“altamente” monastico per la liturgia che vi si celebra – è al contempo
il luogo più accessibile, sempre, da tutti; intorno ad esso si aprono (e si
chiudono) spazi più o meno accessibili.
La chiesa del Dominus Tecum, è il luogo della celebrazione liturgica,
che non è solo la Messa ma la liturgia monastica, peculiare perché è cantata
ed è capace di scandire il tempo quotidiano nelle differenti ore, con canti
che sono costantemente introdotti, imparati e trasmessi tra i monaci32.
 Lettera xxiii dei fratelli del Dominus Tecum del 2011.
 Fausto Taiten Guareschi, intervista di Sara Hejazi del 27 febbraio 2013.
32
 Al monastero la liturgia delle ore segue lo schema benedettino dei 150 Salmi in una settimana,
secondo i principi della stabilità e regolarità: D. Ogliari, Tempo e spazio. Alla scuola di san Benedetto, La Scala, Noci 2012, in part. pp. 43-57; per i diversi sviluppi dell’ufficio divino nell’ambiente cistercense contemporaneo si veda: http://www.ocist.org/cms/index.php?option=com_content&view=
article&id=84&Itemid=89&lang=it. Il Dominus Tecum segue lo schema Psalterium integrum per
unam hebdomadam distributum. Per un’introduzione storica alla liturgia delle ore, si veda A. Elberti,
Canto di lode per tutti i suoi fedeli. Origini e sviluppo della liturgia delle ore in Occidente, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2011; Si veda anche lo studio di M. Augé, Liturgia. Storia, celebrazione,
30
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Spazi e luoghi sacri
La cappella è il luogo della comunicazione con il divino per eccellenza, il
luogo dell’incontro e l’altare l’elemento centrale33; antistante ad esso vi è
il coro dei monaci, costituito da sedie in legno disposte a ferro di cavallo,
non separato da elementi fisici rispetto all’assemblea34.
Quali sono gli spazi vietati al Dominus Tecum? Quelli in cui esclusivamente i monaci mettono in azione – quotidianamente – la loro pratica
di vita, fatta di una precisa e regolata scansione tra giorno e notte, con
un’attenzione particolare per la lectio (la cella del monaco), la preghiera
che è anche personale (chiostro e le celle), la costruzione della comunità/
le regole (il capitolo), un controllo dell’alimentazione, una pratica di digiuni (la cucina e refettorio dei monaci), il lavoro (i laboratori e una parte
dei terreni per le attività pratiche e la biblioteca per la lettura e lo studio) e
infine la morte (lo spazio dedicato al cimitero). La clausura è il cuore del
monastero, ma lo spazio monastico è tutto spazio sacro, non importano
le gerarchie interne, ma tutto è permeato dalla vita dei monaci: mentre i
viaggiatori, fedeli, frequentatori non possono andare dappertutto, i monaci invece sì, ed è il loro passaggio, la loro vita a rendere sacro lo spazio,
nella clausura, nell’accoglienza e anche nella tripla divisione che diventerà concreta al termine degli ultimi lavori: gli spazi per i visitatori di una
giornata e coloro che si fermano più giorni, i cui spazi saranno separati da
un cancelletto o una porta35.
A Fudenji gli spazi vietati sono la cucina, che è accessibile solo al
Tenzo, colui o colei tra i monaci che ha avuto accesso a questa carica di
grandi responsabilità e valore spirituale nello zen, e i bagni, dove una
volta alla settimana i monaci compiono il rituale della rasatura della testa.
teologia, spiritualità, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994.
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 Sulla centralità dell’altare e dell’ambone, G. Boselli (ed.), L’Altare mistero di presenza, opera
dell’arte, Qiqajon, Bose 2005, in part. M. Valdinoci, Realizzazioni di altari in Italia. Altri recenti
esempi, pp. 153-158, con riferimento alle pp. 157-158 e tav. 45 (le opere degli arredi liturgici sono di
Hilario Isola); G. Boselli (ed.), L’ambone tavola della parola di Dio, Qiqajon, Bose 2006. Sul rapporto
tra spazio e della liturgia si vedano Id. (ed.), Spazio liturgico e orientamento, Qiqajon, Bose 2007; A.
Longhi, Comunità, liturgie e società. Architetture per il culto nel Novecento, in Id., Luoghi di culto.
Architetture 1997-2007, Motta Architettura, Milano 2008, pp. 6-41, con riferimento alla p. 39 e alla
foto di p. 40. Rimando anche al tema della desacralizzazione dello spazio, molto vivace tra i teologi
nati negli anni ’30, ben sintetizzato (e osteggiato) da K. Ott, Das Wechselspiel von Architektur und
Theologie, Akademie der Diözese, Rottenberg-Stuttgart 1992.
34
 L’ottica della partecipazione liturgica ha determinato, in questo caso, la disposizione del coro
dei monaci. Interessante il fatto che chi partecipa alla liturgia, arrivando e uscendo dalla chiesa da un
accesso laterale, sia spesso nel dubbio se genuflettersi di fronte al tabernacolo oppure al coro dei monaci, presenza viva di Cristo; questo particolare mi è stato fatto notare da Zeno, maestro dei novizi,
durante un’intervista il 23 agosto 2013.
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 Sulla continua tensione tra “ospitalità incondizionata” e clausura, si veda D. Hervieu-Léger,
«Tenersi fuori dal mondo», cit., p. 200.
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Giorda-Hejazi – Luoghi monastici come spazi sacri
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4. Conclusioni
Nel monastero il sacro è quotidiano e routinizzato, è frutto di una pratica che si ripete e al cessare di essa cessa anche la sacralità dello spazio:
a differenza di una chiesa, sacra anche se è vuota, non esiste un monastero
senza monaci e lo spazio sacro cessa di essere tale.
La pratica, vissuta e condivisa, non è isolata ma aperta, a tratti condivisa, quindi sempre in tensione tra apertura e chiusura, accoglienza e
isolamento. Questo si riflette sul luogo del monastero con due conseguenze; in primis, non è sempre vero che il confine è più netto, ma anzi
lo spazio monastico riesce a permeare lo spazio, spesso naturale, che ha
intorno: boschi, strade, prati, colline diventano elementi naturali veicolo
di accesso al sacro, una sorta di preparazione e percorso attraverso cui ci
si prepara all’entrata nel monastero.
Inoltre il monastero è il luogo del compromesso paradossale: il sacro
in un luogo definito e anche recintato è, al contempo, dappertutto e non
si può contenere.
In secondo luogo se la pratica crea il luogo sacro monastico, è comprensibile come, nella tensione irrisolta tra inclusione ed esclusione, si
creino anche dei confini interni e il monastero finisca per essere altamente gerarchizzato; vi è come una doppia scala di sacralità per cui alcune
porzioni di tale spazio sono inaccessibili e i confini necessari perché hanno a che fare con la costruzione dell’identità monastica.
Il monastero è al contempo centro, verso cui il mondo converge, ma
anche confine, spartiacque tra ciò che è dentro e ciò che è fuori; vi sono
confini geografici visibili ma anche invisibili, impercettibili che aprono
verso mondi altri rispetto a quello umano.
Il legame tra pratica quotidiana e ambiente è quanto mai creatore e
centrale non solo nella definizione del luogo del monastero, ma anche
nella sua formazione e ri-organizzazione continua.
Abstract: The article focuses on the issue of constructing a sacred space, and
in particular, the ascetic-monastic space, including the definitions and values
it displays. The research on the specific monastic space highlights the tensions
between the opposites: closure/isolation and opening/welcoming; it also considers the liaison between the precepts of sacred contemporary architecture and
the architectural history of the monastery, and finally it tackles the relation between city and village. The case studies listed are two: the Dominus Tecum
monastery founded in 1995 by the Congregation “Immacolata Concezione” of
the Cistercian Order. The project of the Prà d’Mill monastery was made by
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Maurizio Momo who started from the functional and legislative necessities and
from the morphology of the territory to conceal the monk’s desire for innovating
experimentations and traditional norms of Cistercian monastic architecture. The
Buddhist soto zen temple Shobozan Fudenji, founded in 1984 by Fausto Taiten
Guareschi, disciple of Shuyu Narita Roshi, one of the first Japanese masters of
soto zen Buddhism in Europe. The actual current project of the zen temple in
which less than 10 monks and nuns are now residing, originates as the restoring of a colonial house and has ever since been developed ever since, looking
searching for a mediation – as its founder himself states – between local tradition and oriental zen Buddhism.
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