TERRA VENTO PIETRA

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TERRA VENTO PIETRA
SOPRINTENDENZA BSAE DELLA CALABRIA
GALLERIA NAZIONALE DI COSENZA
TERRA VENTO PIETRA
ANGELO ALIGIA
a cura di
Fabio De Chirico e Andrea Romoli Barberini
TERRA VENTO PIETRA
ANGELO ALIGIA
a cura di
Fabio De Chirico e Andrea Romoli Barberini
GALLERIA NAZIONALE DI COSENZA
Aquila di mare
il mondo della grafica d’autore
TERRA VENTO PIETRA
ANGELO ALIGIA
GALLERIA NAZIONALE di COSENZA
Palazzo Arnone
8 ottobre 2010 - 7 novembre 2010
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti,
l’Architettura e l’Arte Contemporanee
Mario Lolli Ghetti, Direttore
Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici della Calabria
Francesco Prosperetti, Direttore
Galleria Nazionale di Cosenza
Soprintendenza BSAE della Calabria
Fabio De Chirico, Soprintendente
Regione Calabria
Giuseppe Scopelliti, Presidente
Mario Caligiuri, Assessore alla cultura, istruzione e
ricerca
Provincia di Cosenza
Gerardo Mario Oliverio, Presidente
Maria Francesca Corigliano, Assessore alla cultura
Comune di Cosenza
Salvatore Perugini, Sindaco
La mostra è stata organizzata in occasione della
Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI
Progetto della mostra
Fabio De Chirico
Angelo Aligia
Francarosa Negroni
Coordinamento scientifico
Fabio De Chirico
Coordinamento generale
Domenico Belcastro
Francarosa Negroni
Segreteria
Angela Gabriele
Brunella Macchione
Salvatore Montalto
Relazioni esterne
Maria Clotilde Cariello
Immacolata Dell’Aquila
Massimo Sabato
Uffici Amministrativi
Giuseppe Valentini
Ugo Pietramala
Adriana Bitonti
Immacolata Guglielmelli
Rosangela Sammarco
Giampaolo Mandarino
Brunella Citrigno
Gloria Garofalo
Adelina Lo Celso
Antonio Sciacca
Luigi Negroni
Giorgina Ritacca
Salvatore Lorenzini
Rosa Greco
Giulio Solla
Catalogo a cura di
Fabio De Chirico
Andrea Romoli Barberini
Testi di
Fabio de Chirico
Christoph Bertsch
Giancarlo Cauteruccio
Patrizia Ferri
Andrea Romoli Barberini
Angelo Sanna
Lara Vinca Masini
Progetto grafico
Andrea Mocci
Ufficio Tecnico
Domenico Bloise
Eugenio Provenzano
Anna Lucia Scalzo
Referenze fotografiche
Francesco Martorelli
Ufficio Stampa
Nicoletta Ciardullo
ARUS Comunicazione
Segreteria tecnica
Ines Altomare
Patrizia Barbuscio
Ada Ivana Giuzio
Anna Greco
Faustino Nigrelli
Cerimoniale
Rosanna Caputo
Michella Aquino
Belmira De Rango
Brunella Macchione
Ada Ivana Giuzio
Anna Greco
Comunicazione e Ufficio stampa
Nella Mari
Patrizia Carravetta
Silvio Rubens Vivone
Riprese fotografiche, applicazioni multimediali e video
Attilio Onofrio
Servizio di vigilanza e accoglienza
Personale di custodia della Soprintendenza BSAE
della Calabria
Allestimenti
Giuseppe Chiappetta
Venanzio Corigliano
Franco Federico
Attilio Onofrio
Aldo Retek
Domenico Visciglia
Ringraziamenti
Giuseppe Stolfi
Giorgio Ceraudo
Raffaele Giovinazzo
Maria Teresa Sorrenti
Francesco Sguglio
Raffaele Di Vaio
Giancarlo Cauteruccio
Giulio Telarico
Pino La Fauci
Franco Salemme
Gianfranco Lombardi
Giuseppe Felice
Francesco Felice
Remo Nervino
Pasquale Capano
Vincenzo Molino
Maria Rosaria Gianni
Gennaro Cosentino
Francesca Cannataro
Gemma-Anais Principe
Un vivo ringraziamento agli studenti del Liceo
Artistico Statale di Cosenza, guide d’eccezione
Ed ancora un ringraziamento ai dipendenti della
Soprintendenza BSAE della Calabria che hanno
affiancato il personale addetto alla vigilanza per
assicurare l’apertura delle sale espositive di
Palazzo Arnone
Fotografia
Francesco Martorelli
Installazioni sonore
Roberto Musolino
Post-Produzione
Videolab
DIREZIONE REGIONALE BENI CULTURALI
E PAESSAGGISTICI DELLA CALABRIA
SOPRINTENDENZA BENI STORICI ARTISTICI
ED ETNOANTROPOLOGICI DELLA CALABRIA
indice
Presentazione
di Francesco Prosperetti
p. 7
Presentazione
di Fabio De Chirico
p. 8
Materia e paesaggio. Arte e immedesimazione
nella ricerca di Angelo Aligia
di Fabio De Chirico
p. 9
Angelo Aligia al Chiostro di Sant’Ivo
di Christoph Bertsch
p. 14
Le parole su pietra di Angelo Aligia
di Giancarlo Cauteruccio
p. 16
Il cielo in terra
di Patrizia Ferri
p. 17
Angelo Aligia, ricordare con le mani
di Andrea Romoli Barberini
p. 19
Angelo Aligia - In attesa del vento
di Angela Sanna
p. 21
Angelo Aligia
di Lara Vinca Masini
p. 23
A studio da Angelo Aligia
a cura di Andrea Romoli Barberini
p. 24
opere
p. 29
apparati
p. 57
L’allestimento nella suggestiva cornice del rinascimentale Palazzo Arnone di una mostra di installazioni e sculture a parete del calabrese Angelo Aligia,
si inserisce in quel programma di valorizzazione e
promozione dell’arte contemporanea che rappresenta, da qualche anno, una scelta vincente della
politica culturale promossa dalla Istituti calabresi del
MiBAC in collaborazione con il Governo regionale e gli Enti locali. Nel 2004 la realizzazione della
prima mostra “Intersezioni”, oggi giunta alla sua
quinta edizione, e realizzata nel Parco archeologico
della Roccelletta, luogo simbolo del patrimonio archeologico regionale, avviava un dialogo, o meglio
una singolare quanto suggestiva contaminazione,
tra scultura contemporanea ed archeologia, avvicinando al grande pubblico calabrese artisti di fama
internazionale, da Mimmo Paladino a Tony Cragg,
da Jan Fabre a Dennis Oppenheim a Michelangelo
Pistoletto. A quel lontano esordio segue oggi, per
iniziativa del soprintendente al Patrimonio Storico
Artistico ed Etnoantropologico della Calabria, Fabio
De Chirico, un nuovo evento di cui sono protagoniste le opere di uno stimato ed apprezzato maestro
calabrese, anch’egli interprete di un linguaggio che
ha attraversato, pur con declinazioni differenti, tutta la ricerca artistica del secolo appena trascorso,
rivoluzionando i ruoli tradizionalmente intesi, quello
dell’ artista e quello del fruitore dell’opera d’arte,
dal momento che proprio quest’ultimo da spettatore
diviene – diremmo – compartecipe del fare creativo.
Evento, quindi, non episodico la mostra di Palazzo Arnone, ma tassello di una politica culturale
condivisa, intesa a promuovere i “luoghi dell’arte” e
valorizzarne il portato ideologico attraverso suggestive aperture ai linguaggi della contemporaneità.
Francesco Prosperetti
Direttore Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Calabria
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Materia e paesaggio.
Arte e immedesimazione nella ricerca
di Angelo Aligia
Fabio De Chirico
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Per la sesta giornata del Contemporaneo, in collaborazione con l’AMACI, la Soprintendenza per i
Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria ha scelto di presentare negli spazi per le
esposizioni temporanee della Galleria Nazionale di
Cosenza il lavoro di Angelo Aligia, artista di origine
calabrese che opera spesso tra Roma e la sua terra
d’origine.
Si tratta di opere realizzate nell’ultimo decennio
ma anche di installazioni progettate specificamente
per gli spazi di Palazzo Arnone.
Tale scelta si inserisce nell’attività di programmazione della Soprintendenza che intende dar voce
non solo alle più significative esperienze prodotte
in ambito regionale ma anche a tutti quegli ambiti
di ricerca del contemporaneo che abbiano una rilevante connotazione nazionale ed internazionale.
Gli spazi, da poco acquisiti, saranno utilizzati sia
come possibile campo di indagine e di documentazione di quanto prodotto sinora e ormai storicizzato – l’ultima mostra di grande rilievo, conclusasi a gennaio 2010, è stata l’omaggio a Umberto
Boccioni, in collaborazione col Museo di Lugano
e con il MAON di Rende, nel centenario del Futurismo – sia come laboratorio sperimentale di nuove ed emergenti realtà visive, come nel caso degli
eventi realizzati per la Notte dei Musei, che hanno
consentito a giovani realtà culturali operanti nel territorio di presentare una selezione dei loro lavori,
indicando i percorsi e gli indirizzi che segneranno i
passaggi da conseguire.
Aligia presenta non solo le sue opere e installazioni già prodotte e costituenti il nucleo emblematico del suo percorso artistico – i pannelli materici
e le installazioni realizzate per precedenti mostre a
Sant’Ivo alla Sapienza e al Vittoriano – ma anche
dei site specific works: una caratteristica precisa e
puntuale della sua ricerca visiva, infatti, è quella
di scegliere moduli espressivi e raggiungere esiti
formali che si connotano nello stretto rapporto che
istituiscono con il contesto per cui sono realizzati,
sia esso un sito museale o il paesaggio nel senso
più complessivo del termine.
L’aver scelto questo artista e queste opere, infine,
se da un lato rappresenta l’esigenza di presentare
un lavoro che si ritiene di forte impatto espressivo
e di importante testimonianza culturale, nel suo essere pienamente ascrivibile all’ambito più rappresentativo dell’arte dell’ultimo secolo, dall’altro consente di proporre un repertorio che pur prodotto in
ambito regionale, si apre ad un respiro veramente
europeo.
Fabio De Chirico
Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed
Etnoantopologici della Calabria
Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive
in funzione del nostro vivere.
Giovanni Anselmo
Il vento che stasera suona attento
- ricorda un forte scotere di lame gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l’orizzonte di lame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba…
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore,
lancia a terra una tromba
di schiume intorte…
Eugenio Montale
La produzione artistica di Angelo Aligia nasce da
un rapporto di immersione totale, di immedesimazione con il contesto e direi con il paesaggio in cui
da sempre è inserito.
Non si può pensare ad un suo lavoro, anche
quello più apparentemente astratto, senza comprendere che gli esiti di questa ricerca sono il risultato di un processo di scavo interiore, di ricerca di
sé, che trova motivazioni e dunque stilemi espressivi
nell’appartenenza, nell’essere parte di un tutto, e
più specificamente di un ambito culturale preciso:
quello che si potrebbe definire in termini a mio avviso limitanti, calabrese, ma che sarebbe più corretto
definire ‘mediterraneo’. In quanto riflesso di una
condizione umana più generale, e dunque paradigmatica.
Eracliteo il suo senso di percepire le cose, cercare la materia, fissarla in un’apparenza consapevole.
La terra, i suoi orizzonti, l’aria e il vento, le pietre
e le piante, tutto questo, oltre la luce e il suono e gli
odori di un paesaggio straordinario sono materia
vivente delle sue opere, che condensano, come un
concentrato o un processo di riduzione chimica, la
storia e la memoria, lo spazio e lo sguardo di un
uomo che si rapporta in termini percettivi ma anche
interrogativi verso il contesto in cui è immerso.
Credo che il suo lavoro non esisterebbe senza il
paesaggio, nella fattispecie quello calabrese, che
si fa paesaggio nell’accezione più totalizzante, culturalmente e antropologicamente, quando diviene
una dimensione dell’anima, un modo di esistere,
anzi l’unico, attraverso cui comunicare in mancanza delle parole, o meglio nella convinzione che le
parole siano insufficienti ad esprimere l’essenza di
un rapporto, di una relazione, di una interazione.
L’arte di Aligia ha un che di montaliano, nel suo
disvelare segreti che possa cogliere solo chi è in
una sorta di sintonia cosmica, chi si sintonizzi sulla
stessa lunghezza d’onda. <<Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe….io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si
voltano, col mio segreto>>.
Tocca l’essenza delle cose e degli esseri e la
reinterpreta. Senza l’assurda pretesa di rivelare magiche formule o denunciare e svelare chiavi
di lettura univoche e totalizzanti. La sua è un’arte
dell’astanza, come avrebbe detto Cesare Brandi,
ossia un modo di produrre icone che riassumono
storia e sostanza dell’essere, nella forma. Le sue
opere sono, non rappresentano.
Le sue installazioni, le sue tavole murali, non si
potrebbero comprendere altrimenti. Certamente si
tratta di un dono, un carisma che non è da tutti
possedere: quando progetta un lavoro lui respira
tutto ciò che lo circonda, assorbe come una spugna
gli umori del luogo, e condensa infine in un’idea
che si fa forma ed espressione compiuta il senso di
un rapporto quasi sciamanico con quel contesto,
distillando la storia e la cultura, le emozioni e il sen-
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tire, attraverso un dialogo fisico ed empatico con
le cose: tutto viene come asciugato in una forma
compiuta, in cui anche la scelta materica ha il suo
perché, in un processo che è di sottrazione e riduzione all’essenza. Vissuto personale e storia collettiva, paesaggio e materia, tutto confluisce attraverso
un percorso quasi da cortocircuito intellettivo-emozionale, in una scelta espressiva che sembra essere
l’unica possibile tra le tante. Un dono, appunto.
Ma il suo esprimersi definisce un raffronto che è
insieme la sintesi del fare arte nel paesaggio e col
paesaggio stesso.
Non sarebbe comprensibile alcuna sua installazione o lavoro al di fuori del contesto in cui egli è
vissuto, vive ed opera, ma è altrettanto importante
il fatto che egli poi utilizzi questo contesto stesso,
il paesaggio come materia del suo fare, e del suo
fare arte. Utilizza la materia per parlare ma di fatto
è la materia che parla attraverso le sue opere.
Non credo a quanti ritengono questo processo
un processo sapientemente artigianale. Artigianale,
nel senso dell’artifex, della sapienza nell’uso della materia e delle tecniche è il suo medium, il suo
modo di selezionare, prelevare e riformulare la materia; ma arte nel senso pieno è il raggiungimento,
l’esito di questo percorso, il significato ultimo della
sua ricerca. Troppo deprezzata e sminuita dall’accezione artigianale, si rivela grande nella sua capacità di confluire in una sintesi formale unica e
personale, in cui la materia finisce per essere solo il
dato di partenza.
Nei percorsi critici che lo hanno riguardato frequente è il richiamo alle forme di espressività più
arcaiche, quelle che evocano i totem e i menhir,
antichi segnacoli posti a calcare la scena di un sentire simbiotico l’essenza dell’essere, e dell’essere
tutt’uno tra l’uomo e gli elementi del cosmo.
Credo invece – ed è questa la forza e la capacità
che meglio definiscono il suo linguaggio in termini
di discorso sull’essere – che tutto il suo percorso e
il suo procedere sia nella direzione della riduzione,
del prosciugare e togliere tutto ciò che è superfetazione, ridondanza, eccesso visivo.
Ciò che lo conduce a definire forme e materie è
una sorta di asciuttezza verbale, verso una strada
che porta all’essenza delle cose.
Senza per questo rinunciare all’espressione più
urgente e violenta, alla passione materica e cromatica, che traduce nelle opere le contraddizioni e
i conflitti, spesso violenti, ma con la consapevolezza della reductio ad unum: razionale e irrazionale,
passione e ragione, vita e morte, dolore e felicità
si traducono nella raffinata configurazione di forme compiute e serene, matericamente vibranti, ma
sempre racchiuse e circoscritte come per essere dominate e infine domate.
Aligia potrebbe essere inserito a pieno titolo
nell’ambito della generazione che fa capo ai migliori interpreti di quella che Germano Celant ha
definito ‘arte povera’, principalmente per l’utilizzo
di materiali semplici e per una sorta di rivendicazione di un rapporto più stringente e reale tra uomo e
natura, non più viziato dalle logiche della mercificazione, che hanno invaso anche il sistema dell’arte, come sistema di produzione.
In questa accezione la sua arte è un’arte tutta
del Novecento, nel senso che si colloca pienamente nell’alveo di un rapporto consapevole con la
tradizione senza rinunciare alla sperimentazione,
ma con piena fiducia e dominio dei propri mezzi
espressivi.
Senza la rinuncia, la protesta verso la tradizione
intesa come portato culturale e tecnico di un saper fare. Aligia è uomo del Novecento, non mediato, non gli interessa la sperimentazione linguistica
come ricerca di un preciso luogo espressivo, fine a
se stessa. Sa qual è la sua strada, indirizza in quella
direzione la sua ricerca, non gli importa comuni-
care con i mezzi più vicini al contesto contemporaneo, gli interessa fare il suo discorso migliorando
gli strumenti linguistici che sono a lui consoni.
È un artista del Novecento, inoltre, nel seguire il
necessario espandersi delle potenzialità espressive
allo spazio con cui interagisce, nella convinzione
che l’arte non sia solo espressione ma interpretazione. Dopo Cezanne e le neo-avanguardie utilizza
la tradizione come un dato, un assunto scontato,
una materia alla stregua delle altre; e in questo è
molto post-moderno.
Proprio relativamente alla materia il suo eloquio
si connota come una possibile lettura del paesaggio non solo in termini di dato o di assunto irrinunciabile, ma come strumento: la sua arte è nel
paesaggio ma è fatta e realizzata col paesaggio.
Sarebbero incomprensibili le sue installazioni avulse dal contesto, nel senso che esse nascono come
rapporto e relazione con il luogo: antropologicamente la sua arte relazionale vive del raffronto, sia
in senso spaziale che temporale.
La memoria e la geografia si inverano nelle sue
forme, mai accademiche, mai intellettualistiche,
bensì reali.
In questa accezione egli utilizza il paesaggio
come una riserva, una dispensa cui attingere, da
cui prelevare materiali e segni da fare propri: le
pietre, le terre, le piante, tutto può concorrere a
delineare un ‘paesaggio altro’, un orizzonte attraverso cui riproporre il consueto utilizzo della materia per la configurazione di un orizzonte diverso,
più rappresentativo dello stato delle cose ma anche
del disagio verso una tecnologia disumanizzante e
straniante.
Credo calzante per le sue opere quanto afferma
Rosalind Krauss nell’analisi sulla scultura moderna,
quando sostiene che <<ogni organizzazione spaziale contiene un’asserzione implicita sulla natura
dell’esperienza temporale>>, ossia che il termine
di raffronto nel rapporto di reciprocità tra l’osservatore e l’opera non è mai la forma o lo spazio,
ma l’uomo stesso, implicando ogni opera in sé una
dimensione temporale.
Con lui si ritorna alla natura, ma con una consapevolezza diversa, più attenta e sorvegliata. Nel
senso che Aligia non rinuncia alla tecnica più avanzata, purché questa serva per enfatizzare la dichiarazione di partenza: che l’arte è un modo, per lui
l’unico, per attraversare l’esistente, per racchiudere
e rivelare, all’occorrenza, il senso del vivere. L’ambiente, la natura, il paesaggio, nella sua poliedricità
diventano così la materia da plasmare e riproporre, utilizzando anche conformazioni abusate, come
i pagliericci destinati all’essiccazione di ortaggi o
frutti, purché si sappia che l’arte è un’occasione,
un’opportunità.
Da non perdere, o da scoprire. Ma che serva
anche a farci riconsiderare quelle materie povere,
a farcene riscoprire le potenzialità e i mille aspetti segreti, perché così la materia diviene metafora
dell’essere umano, delle sue multiformi dimensioni
di crescita e raffronto.
Se il paesaggio e l’arte che da esso deriva non
esiste senza la cultura e la storia che lo rendono
tale – il concetto di paesaggio nasce con la storia
dell’arte, come mediazione tra l’uomo e la natura
attraverso la cultura – le sue installazioni acquistano senso dal dialogo col contesto.
Si condensa nel suo lavoro l’idea di una interrelazione tra l’uomo e natura intesa in termini di
fusione, ma anche di consapevole utilizzazione.
Le sue opere, per quanto progettate all’interno
dell’atelier, vivono nell’interrelazione con un contesto, per il contesto per cui sono state immaginate,
pensate, realizzate.
Il percorso di Angelo Aliga inizia dal contesto e si
conclude ritornando al contesto stesso: la materia
informe e multipla, in stato di caos, viene reimpie-
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gata e riorganizzata in un discorso visivo per cui
essa assume nuove valenze e nuovi percorsi semantici. La ricontestualizzazione tra architetture o nello spazio di un museo crea dunque nuovi percorsi
interpretativi, riattivati dal processo di fruizione. La
materia è quella, ha la sua riconoscibilità, ma non
è più quella che inizialmente è stata adoperata perché nuove forme creano per essa nuovi sguardi e
nuovi pensieri.
Trovo assolutamente interessante l’utilizzo che
egli fa delle pietre all’interno delle forme e strutture
in cui le racchiude, come a tenerle a freno: evocando la terra riarsa dei cretti di Burri, assumono
valenze cromatiche e vibrazioni luminose che variano al variare della posizione del sole. La pietra
si fa scultura, si fa pittura senza rinunciare al suo
essere pietra, ma anche il singolo elemento acquista valenza estetica ed espressiva diversa dal suo
essere inserito in una trama, in un fitto dialogo silenzioso. Il comporre a secco è il corrispettivo di
una frantumazione tonale che rimanda al mosaico,
al pointillisme, alla traduzione tattile e corporea di
un assunto visivo.
Ciò che resta è l’aridità, l’asciuttezza scarna e ossea delle pietre come metafora di un percorso terreno, come l’interrogarsi sul senso ultimo delle cose.
Qui alla Galleria Nazionale di Cosenza Aligia
presenta un percorso che racconta la sua produzione dell’ultimo decennio: Geometrie della materia,
che è l’insieme delle installazioni realizzate in esterno, le sue tavole materiche Senza titolo, e altre due
installazioni, In attesa del vento, nel salone e un’altra opera realizzata per la mostra, In/Oltre.
Con l’insieme delle installazioni all’esterno, alcune delle quali già realizzate per un precedente
progetto nell’atrio borrominiano di Sant’Ivo alla
Sapienza nel 2005, l’artista propone una variazione site specific in cui l’arco a tutto sesto dialoga e si
interfaccia con le architetture e gli spazi di Palazzo
Arnone, nella ricerca di un confronto, di un serrato
raffronto di forme, di idee, come a ritrovare nelle
forme del passato la certezza del presente. È anche
un gioco di specchi, che slitta lentamente verso lo
spiazzamento visivo, il rimando ludico e straniante
degli archi rossi, di terra, di lance, di pietre, che
evocano ed alludono a forme archetipiche ma anche un richiamo verso uno sguardo più attento al
contesto. La circolarità rasserenante dell’arco, quasi materna e passionale nel rosso vivo costretto in
forzate geometrie, si libera nelle acuminate lance
inflitte alla terra in un gesto reiterato che richiama il
dolore e la rinuncia come dimensione abusata, ma
orgogliosamente rivendicata.
Ecco, un altro elemento specifico del suo lavoro,
è proprio la dignità e la fierezza come modi di assunzione ed espressione del dolore.
Nelle tavole materiche si sviluppa invece la storia di un costante dialogo con la materia e con la
sua vita, che attraverso l’arte si incontrano, e che
la cultura riesce a far convivere nello sguardo. Il
recupero di forme consuete, reinterpretate e riassunte dal quotidiano, nel prelievo di un’operazione duchampiana, appare come un raffinato gioco
pop, che utilizza nell’opera non più la consunta
bandiera U.S.A., l’etichetta abrasa della Coca, ma
attrezzi semplici del quotidiano contadino di una
volta, diventate icone quasi per sbaglio. Ecco in
questo recupero si coglie il senso del suo rapporto
con la tradizione, con l’immaginario di chi ancora
non era frastornato dall’intermittenza straniante dei
mass media.
Anche in questo vi è un elemento di grande specificità: nell’attingere ad un repertorio assolutamente personale, quasi proustiano, ad una gestualità
ormai perduta e come si direbbe vintage. Nel mercatino della nostra memoria, nel paesaggio delle
cose ferme e desuete, ecco riaffiorare elementi di
straordinaria vivacità formale e di grande potenzia-
lità espressiva.
In attesa del vento presenta poi, in un paesaggio
ormai straniante e difficile da connotare, il replicante e mutevole ripetersi di figure, plasmate attraverso
il calco dell’artista stesso, come fossero indicative
di una condizione condivisa: l’artista, come chiunque, stenta a riconoscersi in una realtà in cui nulla
è facilmente individuabile, in cui anche il traliccio
di canne si trasforma in una barriera metropolitana.
Anche se il suono evoca una natura incontaminata,
nulla riesce a cancellare il senso di alienazione, di
annullamento di sé, di sperdimento.
L’ultimo lavoro In/Oltre realizzato utilizzando
una sedia come evocazione di una presenza diventa, nella sua enfasi, quasi emblematico e stigmatizzante della condizione e del ruolo dell’artista: la
sedia da sempre rappresenta nella storia dell’arte
un elemento di transizione, tra il mondo dell’artista
e l’osservatore, tra l’espressione e la sua interpretazione, tra significato e significante: da Van Gogh a
Rauschenberg. La sedia è un elemento fisico che invita a partecipare, ad entrare e sostare all’interno di
un mondo spesso inaccessibile. Sul confine la sedia
è una sollecitazione, una provocazione, un elemento tra due mondi, tra due codici. Anche nel caso di
questa installazione si fa proiezione di un modo di
interagire, una richiesta di confronto e dialogo.
Sta ad ognuno di noi accettare la sfida.
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Angelo Aligia al Chiostro di Sant’Ivo
di Christoph Bertsch
… La pietra, che aveva parte nella vita della montagna,
nella molteplicità della sua materia e della sua struttura,
una volta da lei separata, diventava un elemento morto
in attesa del proprio perfezionamento.
Giuseppe Penone, 1995
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Nel gennaio del 2005 il cortile del già chiostro di
Sant’Ivo a Roma, sede dell’università romana fino al
1935, è il luogo di un emozionante dialogo tra l’architettura e la scultura.
Angelo Aligia, interverrà, avvalendosi dell’architettura del cortile interno, modificandolo e completandolo,
entrando in dialogo con la storia e il presente. La materia viva e dinamica della pietra a secco si inoltra negli
elementi architettonici e ne assume la forma, spazio preesistente e intervento artistico si compenetrano.
Il cortile del palazzo della Sapienza, ubicato nel centro di Roma in prossimità di Piazza Navona e del Pantheon, con la chiesa di Sant’Ivo di Francesco Borromini,
meta di ogni visitatore della città eterna, fu costruito in
diverse fasi. Il sistema del cortile fu concepito dall’architetto Giulietto Guidetti, l’esedra dal suo successore
Pietro Ligorio, mentre tra il 1577 e il 1602, sotto il papato di Sisto V, Giacomo della Porta eseguì i principali
elementi costruttivi. La costruzione della chiesa, capolavoro del Borromini, la cui pianta si sviluppa attorno a un
esagono, iniziò nel 1642.
L’architetto realizza la sua idea guida di creare una
continuità verticale lasciando invariata la pianta fino
alla cupola. In questo Borromini crea una delle strutture
più omogenee della storia dell’architettura, uno spazio
centrale di carattere assai dinamico.
Il cortile da tre lati è circondato da due piani di arcate
con pilastri sporgenti, mentre il quarto lato confina con
la facciata della chiesa. La struttura della facciata forma
la base architettonica dell’intervento artistico di Aligia.
Questa sua opera più recente è frutto del dialogo
con la facciata e diventa parte dello spazio circondato da costruzioni. La percezione dello spazio è sempre
parte integrata di un’opera architettonica. L’artista, con
i suoi interventi sobri, riesce ad articolarla, analizzarla
criticamente e modificarla prudentemente. Con pietra
reale e riprodotta fotograficamente mette in risalto l’es-
senza dell’architettura, fatto che porta a un affascinante
dialogo di materie e superfici.
Da ormai tanti anni la pietra è la materia principale
dei lavori di Angelo Aligia. Le sue sculture, nonché le
sue linee di pietre e terra, che segnano allineamenti affini alla Land Art, disegni primordiali eseguiti sul suolo, ci
affascinano per la loro chiarezza e semplicità. La pietra
come materia dell’arte figurativa ha una lunga tradizione ed è ancora spesso usata nell’arte contemporanea.
Sarà stata l’idea del primitivo, del rudimentale,
dell’ancestrale insito nella pietra naturale, il suo attaccamento alla terra, a ispirare questi artisti, indipendentemente dai mezzi espressivi formali.
Nel caso di Aligia a questo si aggiunge il fatto che
nella sua regione di provenienza, la Calabria, come in
molte altre aree rurali, la pietra a secco da secoli è onnipresente nell’architettura di chiese, masi e stalle, ma
anche come delimitazione del territorio.
La pietra stessa nel corso dei millenni della sua formazione memorizza delle esperienze.
La pietra è storia, il suo utilizzo come materia artistica
significa resistenza, è un elemento emblematico della
sfida; dall’altro, già dai tempi arcaici decretò il primo
concetto di limite territoriale e recinzione, protegge, delimita e conferisce sicurezza.
Aligia si rende conto che con le sue pietre si avvale
di un linguaggio arcaico che viene sempre riarticolato.
I suoi lavori sono strettamente legati alla storia della
sua regione di provenienza, il Sud d’Italia, e comunicano attaccamento alla terra, solidità e senso d’ordine.
Sono pervasi da una profonda umanità e, nonostante la loro pesantezza e le dimensioni a volte enormi,
possiedono forza cosmica, leggerezza e poesia.
Sono il frutto dell’ambiente in cui l’artista vive, della
sua regione, del suo stile di vita, del silenzio del Sud,
raggiungendo in questo modo la loro autenticità impressionante.
Aligia vede se stesso come costruttore, organizzatore
della materia inerte della pietra, assume il ruolo di osservatore della stessa nel contesto naturale.
Parla di una creatività ingenua, necessaria, per riconoscere i misteri della natura. La pietra non è quindi soltanto intesa come oggetto con proprietà materiali, ma
anche come dotata di caratteristiche intellettuali, come
memoria della nostra terra.
Oltre agli artisti della Land Art sono soprattutto i protagonisti dell’Arte Povera quali Jannis Kounellis, Giovanni Anselmo o Giuseppe Penone che spesso nelle
proprie opere impiegano materie naturali e intendono
la terra come memoria culturale, un’idea che non è
estranea neanche ad artisti come Joseph Beuys e Lois
Weinberger e domina numerose delle loro opere. Nel
cortile del Palazzo della Sapienza, Aligia realizza una
scultura-architettura in cui confluiscono le due discipline. Lo spazio preesistente del cortile con il suo ritmo
dominante, al contempo recitato in modo misurato, diviene il protagonista dell’azione artistica. La materia viva
e dinamica della pietra a secco si inoltra negli elementi
fondamentali del linguaggio delle forme architettoniche,
spazio preesistente e azione artistica si compenetrano.
Per la sua installazione Aligia utilizza grandi pannelli
fotografici che riproducono muri di pietra a secco.
Questi saranno incastonati in un arco su ogni piano, “il ribaltamento di un arco in proiezione ortogonale
sulla pavimentazione del chiostro, e un piano andrà ad
intersecare l’interno del loggiato con la pavimentazione
attraversando obliquamente uno degli archi del chiostro” (A. Aligia).
Ogni intervento sarà caratterizzato dalla presenza
della materia reale e della materia riprodotta.
Aligia lavora con pietra reale e finzione, impiega diverse dimensioni della realtà, discute i concetti
dell’”aperto” e del “chiuso”.
In questo modo la superficie immaginaria di un’arcata, leggermente spostata, come parete purpurea viene posta davanti all’arcata reale, diventando un segno,
l’elemento decisivo dell’architettura del cortile con riferimento al committente ecclesiastico.
Con questo progetto Angelo Aligia riesce a combinare in modo straordinario la sua personalissima arte di
lavorare la pietra con le attuali strategie artistiche.
La sua opera nel cortile del palazo della Sapienza
affascina sia per l’approccio concettuale stringente che
per il gioco sottile tra l’architettura preesistente e l’intervento artistico.
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Le parole su pietra di Angelo Aligia
Il cielo in terra
di Giancarlo Cauteruccio
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Il percorso artistico di Aligia nasce dalla materia
scultorea. Dal segno al metallo, alla pietra lavorata,
al cemento armato, inseguendo una linea operatva
che nel corso degli anni invece che svilupparsi per
accumulazione ed elaborazione dell’azione scultorea conduce a un processo di sottrazione.
Da una condizione di manipolatore della materia, l’artista assume il ruolo di osservatore della
materia nel suo contesto naturale.
Non più il creatore plastico nel senso tradizionale del termine ma costruttore/organizzatore del
modulo materico inerte, così come la natura offre,
per un maggior senso di appartenenza alla realtà.
Un immaginario, dunque, che non si risolve unicamente nell’oggetto bensì nel rapporto tra segno
e ambiente.
In ultima analisi una forma di SCULTURA-ARCHITETTURA, nella quale la pietra come elemento
primario diviene modulo dell’archetipo.
Da una parte porta con sé tutta intera la tradizione arcaica della costruzione con il sistema del
muro a secco, tipico degli insediamenti del Sud italiano, dall’altra sviluppa un procedimento tecnico
ingegneristico che permette di attuare operazioni
complesse sul piano costruttivo per generare un
concreto dialogo tra il “costruito”, la potenza del
paesaggio e la forza dell’architettura organica.
Ecco dunque il viaggio dentro l’universo del fuori scala, dentro un carattere immaginifico e, perché
no, giustamente ironico come segno di leggerezza e consapevolezza nell’offrire un gesto naturale,
quasi ingenuo, intendendo l’ingenuità viatico di
una creatività necessaria per la conoscenza dei misteri della natura.
Non è casuale dunque che di fronte alla bellezza, all’equilibrio e all’imponenza architettonica del
chiostro di Sant’Ivo in Roma, il progetto di Aligia
consista nell’utilizzazione dello spazio come contenitore passivo di oggetti scultorei, bensì come luo-
di Patrizia Ferri
go protagonista dell’intervento artistico.
Sarà dunque la specificità morfologica del luogo
architettonico a guidare il processo scultoreo e non
viceversa, le sculture altrove modellate a sottomettere lo spazio alla loro presenza.
Ecco quindi l’opera che scaturisce dall’architettura divenendo essa stesa architettura.
Ecco la materia viva e dinamica della pietra a
secco che si inoltra negli elementi della geometria
e ne assume la forma.
Spazio preesistente e azione scultorea si compenetrano e convivono in un disegno dinamico e esteticamente forte tanto da cortocircuitare e dialogare
al tempo stesso.
L’ancestralità cruda dell’operazione di Angelo
Aligia è ispirata da un’idea di primitivo e originario: un qualcosa che va oltre la sua valenza estetica
e culturale all’interno di quella linea moderna di
ricerca elaborata da Picasso e Brancusi che passa per certe declinazioni di Land Art e Arte Povera
spingendosi fino a Long e Kapoor.
La ricerca di Aligia trasuda di un’umanità profonda che risiede in quell’aspetto di manufatto artistico
dalla pregevole tecnica e dalla sapienza manuale,
che ne fa un particolare oggetto di poesia radicale
frutto di un esercizio visionario a cui l’artista si abbandona, mantenendo altresì un forte contatto con
la realtà del mondo.
Il suo significato pertanto sta nell’affidare al gesto e alla corporalità, tutta nei suoi termini empirici
e pragmatici, la possibilità di ristabilire una relazione piena con il contesto naturale, agendo direttamente in esso, prelevando e ricontestualizzando
frammenti di rocce e pietre di varia provenienza: un
qualcosa di simile a quel gesto umano primordiale
che collocando la prima pietra stabiliva anche il
primo concetto di limite nell’appropriazione dello
spazio secondo un principio di esistenza.
I materiali sono scelti e assunti come veicoli di
concettualità primordiale articolata e complessa
come fattore biologico unificante, che rimanda
all’ipotesi affascinante di originarie radici comuni
che tracciano le caratteristiche universali della memoria collettiva sommersa.
La capacità di sondare il sommerso ridandogli
nuova vitalità fuori dagli ambiti circoscritti dell’intellettualizzazione, è la peculiarità espressiva centrale
dell’artista, che ci indica come la riscoperta di paradigmi e archetipi vada letta secondo una dinamica dell’intelletto che, come quella tecnologica, non
può che essere all’interno dell’evoluzione globale
dell’uomo. Le sculture-installazioni di Aligia – dove
la pietra è assunta nella sua peculiarità originaria
che ricorda in alcuni casi i cosiddetti “pebble drawing”, quei disegni eseguiti sul suolo con ciottoli
allineati – rimandano a un principio creativo attraverso il quale si riprende coscienza dei meccanismi
che presiedono alcuni processi fondamentali del
nostro modo di essere, simbolizzare e sintetizzare,
per cui l’arte non è rappresentazione o sublimazione quanto quintessenza dell’esperienza personale e
relazionale, metafora della vita.
Per comprenderne interamente l’autenticità è indispensabile conoscere il contesto in cui tutto questo si realizza, una realtà territoriale e culturale di
cui è una sorta di prodotto spontaneo, come una di
quelle protoarchitetture o quei frammenti di muri a
secco che delimitano i campi di un aspro e profondo Sud, quelle edificazioni agresti di pietra locale
che emanano l’aura arcaica della notte dei tempi
che riluce del riverbero accecante che brucia e riduce all’osso e all’anima delle cose radicalizzando
e intensificando sentimenti, pensieri e atti decantati
in un silenzio intenso e pesante.
La scultura rurale di Aligia, declinata in piccole architetture arcadiche semplici e misteriose, o
in monumentali mobili fuori scala, impenetrabili
eppure così immediati, assertivi e familiari, è una
vera e propria figura icastica carica di una singolare energia, una specie di forza cosmica, quella
che lega l’essere umano al modello primordiale
di unitarietà che l’ambiente naturale rappresenta,
suggerendo in questo senso una sana riflessione.
Un qualcosa da intendersi non tanto come atto
polemico di contrapposizione netta ai modelli di
reificazione, simulazione e artificialità della società
telematica, quanto nel tentativo di instaurare un’interagenza di quelle parti del patrimonio visuale originario, recuperate insieme ai meccanismi profondi
dei processi fondamentali all’interno dell’attuale
sistema di comunicazione, per ripristinare un linguaggio comune in una positiva globalizzazione. 17
Angelo Aligia, ricordare con le mani
di Andrea Romoli Barberini
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Un messaggio non decrittabile interamente per
una pienamente proponibile attuazione e pianificazione, ma più che altro valido per le sue potenzialità, più che per la sua luce utopica, per quell’ombra
problematica di cui si fa portatore, rispetto a una
densità significante che non va interamente spiegata: proprio la stessa, in questo caso, che emerge dalla filigrana complessa che salda la forma al
mondo del suo autore, alla sua realtà di artista e di
persona e al tempo stesso a quella di ognuno di noi.
Geometrie della memoria, ovvero Il cielo in terra
è l’ultimo lavoro di Angelo Aligia progettato per il
chiostro di Sant’Ivo alla Sapienza, uno dei capolavori della Roma barocca, dove il contrasto di forze
e tensioni che fa da nucleo generatore delle architetture di Borromini, condensato nella straordinaria
continuità strutturale e dinamica che culmina nello
slancio verticale della guglia vertiginosa, viene in
qualche modo assorbito e contemporaneamente
rilanciato dall’installazione che scompone la complessità geometrica della pianta dell’edificio attraverso la figura dell’arco riprodotto e riempito di
materia vera e simulata, rimandando così al principio barocco di coesistenza di realtà e artificio che
anticipa di gran lunga la visione contemporanea.
Ancora nel nobile solco del recupero del primario, dopo le suggestive sperimentazioni con pietra e
terra, Angelo Aligia continua a interrogare e interrogarsi sui temi eterni: l’uomo, lo spazio, il tempo.
La ricerca artistica, nella sua prassi, resta per lui il
prezioso strumento di riflessione e conoscenza.
Da sempre, il suo, è un fare, quasi senza progetto, ma non senza intenzione, che nelle sue fasi di
avvio, e solo in queste, presenta più di qualche affinità con certe dinamiche dell’informel decantate e
alleggerite della gestualità più violenta e viscerale.
Qui, convivono drammaticamente, quasi a contendersi la supremazia l’uno sull’altra, istinto ed
esperienza fino a quando, a questo primo approccio, per così dire, magmatico e pieno di incognite,
subentra una sorta di blank, un vuoto d’azione che
è silenzio, stasi, richiamo alla riflessione dell’artista.
E’, quest’ultimo, il momento del pensiero che,
se disarmato dell’analisi, rischia il naufragio nella
sospensione del giudizio, ma che nel caso contrario
può suscitare quelle ipotesi di significato e forma
che accompagneranno l’azione dell’artefice, solo
ora pienamente cosciente e consapevole, fino alla
completa esecuzione dell’opera.
Questo percorso, in cui istinto e razionalità
concorrono, in fasi diverse, alla realizzazione dei
manufatti, proprio per la successione dei momenti
esecutivi, sembra dimostrare l’incrollabile fede di
questo artista nella virtuosa forza del fare.
Un fare, s’è detto, in cui istinto ed esperienza
interpretano un ruolo chiave e dettano, tra le altre
cose, la scelta del medium espressivo, i materiali,
le tecniche. Ed il fare di Aligia, da sempre, coincide con l’appropriazione e la manipolazione degli
elementi e della cultura dei luoghi in cui è nato e
vissuto. Lo dimostrano le grandi sculture in pietra
che recuperano ad un tempo le schegge di roccia
e la tecnica tradizionale dei costruttori dei muri a
secco, sebbene con varianti imposte da esigenze
statiche, o ancora le straordinarie opere bidimensionali, vere e proprie pittosculture, realizzate con le
terre dai diversi colori, che Aligia trova nelle colline
a ridosso del suo studio e setaccia pazientemente.
Un processo di appropriazione, quindi, questo
dell’artista calabrese che, come visto, corre sul
doppio binario della natura (la pietra, la terra) e
dell’artificio (la tecnica dei muri a secco). E che proprio per ciò si presenta ricco di senso ancor prima
che venga chiamata in causa la razionalità del manipolatore che pure interviene nella fase, per così
dire, conclusiva dell’inerzia del fare, per “dirottare”
la forma verso i significati concepiti nella pausa del
“vuoto d’azione”. E questo dato, così rilevante, fa
resistere alla tentazione di affermare che nelle opere di questo artista manchi un significato a priori
perché invece c’è, a priori, un’intenzione di senso
rilevabile dalla scelta delle tecniche e dei materiali
adottati attraverso cui l’opera si realizzerà.
Aligia, non rifiuta i suggerimenti degli automatismi ispirati dal fare e cerca, attraverso la prassi, un
ulteriore e più complesso livello di significato che
si aggiunge e spesso eclissa quello basilare che risiede nella deliberata volontà di risemantizzare e
nobilitare i materiali e le tecniche che utilizza, proiettandoli nella sfera dell’arte.
Le sue opere, difficilmente inseribili nei comodi
clichè della critica d’arte, vanno pertanto a collocarsi in un territorio ibrido, ma di estremo fascino,
una sorta di terra di nessuno in cui convergono e si
contaminano processi creativi diversi che richiamano tanto il Surrealismo quanto l’arte Concettuale.
In altri termini è come se l’appropriazione duchampiana del ready-made svolgesse il compito
di anticipare e preparare il campo alla bretoniana
azione senza controllo razionale.
Quest’ultima da spendere come ulteriore bacino
di possibili forme significanti.
Al pari di quanto era avvenuto in passato con
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Angelo Aligia - In attesa del vento
di Angela Sanna
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la pietra e la tecnica del muro a secco, ora l’appropriazione di Aligia, o se si preferisce l’a priori di
senso, chiama in causa la canna e l’antica tecnica
dell’intreccio.
La scelta, a ben vedere, è coerente con il percorso sin qui condotto perché ricalca l’idea di celebrare
la memoria di qualcosa di scomparso (i contenitori
di canne intrecciate e la tecnica artigianale dell’intreccio) che apparteneva a una remota quotidianità
che fu sua e dei suoi luoghi di origine.
Aligia, quindi, recupera e si appropria, rivivendoli direttamente, di tutti i momenti della lavorazione della canna, dalla ricerca delle piante mature
nelle zone più impervie, alla pulizia e al taglio delle
fibre, via via fino all’intreccio che utilizza non già
per creare ceste e canestre ma per realizzare pannelli rettangolari, piani sostanzialmente modulari,
facilmente assemblabili per costruire semplici e imponenti volumi regolari.
Quanto sin qui detto basterebbe a connotare
l’azione dell’artista di un’intenzionalità estetica, ma
è proprio a partire da questo momento che inizia,
se così si può dire, il travaglio della sperimentazione che si fonda, nel caso in esame, sulla manipolazione dei materiali prodotti con il processo
dell’appropriazione.
Nell’installazione proposta in questa mostra,
il travaglio si è concluso, dopo numerosi esperimenti, grazie a quella sorta di folgorazione che ha
colpito l’autore quando, lavorando sull’idea di disseminazione dei volumi realizzati con pannelli di
canne intrecciate, nel sistemare le luci, ha fortuitamente colto nella dialettica tra gli oggetti e le loro
ombre quell’ipotesi di significato che ha dettato
tutti i passi successivi fino al completo compimento
del testo visivo.
L’opera necessita di un ambiente suo proprio. Lo
invade per intero senza ammettere null’altro che la
propria presenza e quella di chi ne fruisce che, a
sua volta, si troverà come interrogato da una sinestesia in cui immagini e suoni sembrano concorrere
alla composizione di un rebus.
Il quesito è dato dalla compresenza, in uno spazio comune e praticabile, di oggetti dalla tangibile fisicità (le costruzioni con pannelli di canne), da
giochi di luce e ombra (ottenuti con le stesse costruzioni), che evocano una metropoli contemporanea illusoria, e dal fruscio del vento attraverso un
canneto.
Completano l’opera alcune sedie. Su una di
esse siede il calco in gesso di un uomo, il simulacro
dell’artista che ad un tempo contempla e partecipa
all’enigma, quasi invitando l’osservatore a fare altrettanto, prendendo posto sulle sedie vuote.
La rete, complessa e fittissima, di relazioni tra gli
oggetti, le luci, i suoni suscita una riflessione quasi
circolarmente tautologica sul tempo, sul suo scorrere impalpabile, come il vento di cui si sente il sibilo.
Tempo che divide il presente della metropoli, evocata dalle luci, dal passato più lontano, preindustriale, delle costruzioni a canne intrecciate.
Una divisione naturale e temibile, questa tra presente e passato, che precede la scomparsa, la rimozione e la perdita di ciò che è più lontano e che
pertanto va esorcizzata con l’esercizio della memoria, la riflessione. Memoria che non è solo azione
del pensiero ma anche prassi, tecnica che si fonda
su saperi antichi. Proprio come quel ricordare con
le mani, quel fare virtuoso, che Aligia coltiva quando intreccia le canne.
Con l’installazione In attesa del vento Angelo
Aligia introduce a Firenze un suggestivo lavoro che
rappresenta, secondo lo stesso artista, <<una riflessione sul tempo, sulle corrispondenze, le affinità
e le discontinuità tra il passato più remoto e il presente; tra l’arcaico e il contemporaneo>> .1
Aligia, natio della Calabria e residente a Diamante, antica tappa della via istmica battuta un
tempo dai greci per giungere da Sybaris alla scomparsa città di Laos, ci fa rivivere queste sue riflessioni, strettamente collegate con la propria terra,
attraverso un ricordo d’infanzia radicato nella sua
memoria.
Quello che lo vede, da ragazzo, concentrarsi
sull’attesa del vento, del suo improvviso passaggio
tra i canneti, per coglierne i suoni, il fruscio e le
manifestazioni più pregnanti.
Questa sensibilità verso la natura, ancora oggi
intatta e densa di valori antropologici e primari, si
materializza nell’ambiente qui presentato, costituito da strutture longitudinali, edificate con pareti di canna pazientemente elaborate e intrecciate
dall’artista. Soffusi di luce artificiale, questi edifici
formano una città notturna e virtuale che esprime le
meditazioni di Aligia sul rapporto fra l’uomo contemporaneo e il proprio territorio.
Le canne costituiscono il simbolo più esplicito di
questa dicotomia: esili, flessibili e apparentemente fragili, alla mercé del vento e della natura, esse
possiedono nondimeno una forza tale da sopraffare anche quella del cemento, disgregandolo sotto
la spinta delle loro radici. Nella loro parvenza di
grattacieli, primitivi e al tempo stesso metropolitani, queste costruzioni evocano il mutamento e la
manipolazione che l’uomo tecnologico impone alla
natura piegandola alle proprie esigenze.
Lungi dal formulare una critica radicale nei confronti del progresso, di per sé inarrestabile e, per
molti versi, necessario, Aligia tende piuttosto a in-
terrogarsi sul limite invalicabile oltre il quale l’uomo
potrebbe spezzare l’equilibrio, già molto compromesso, tra evoluzione e natura.
Il suo impegno sociale, culturale e politico rivela un’attenzione costante a questa problematica,
che sottende anche la propria indagine artistica.
Nell’ottica di una riconciliazione ideale con l’ambiente, Aligia sottopone le proprie opere all’osservazione e alla partecipazione del visitatore che
nell’installazione è invitato a sedersi su uno scanno
vuoto, in prossimità di altri, occupati a loro volta da
individui, come manichini seriali dal volto di gesso,
identificabili con l’artista.
Il contatto diretto con questa realtà, insieme
arcaica e urbana, primitiva ed elaborata, diventa
apparizione tangibile di uno scenario naturale appartato che si risveglia attraverso il suono del vento,
dell’acqua, delle cicale, significativamente scelte a
evocare la brevità del ciclo vitale.
L’uomo seduto e immobile diviene allora parte
attiva di quell’attesa del vento vissuta da Aligia da
bambino, riavvicinandosi, in un’atmosfera di stupore, alle proprie origini.
All’importanza di questo legame con la natura
riconduce anche l’homo faber che rivive attraverso
l’artista nel video dell’installazione, e che mediante
la prassi artistica e artigianale assume valenze di
artefice, contadino, costruttore.
Al lavoratore del mondo contemporaneo che
produce in una dimensione accelerata si contrappone quello che rielabora la materia naturale secondo un lento rituale tramandato nei secoli, pregno di ricordi ancestrali a tratti perfino religiosi.
L’artista si introduce totalmente in questo contesto,
ricorrendo ad elementi ben noti all’agricoltura – la
canna, appunto, usata come sostegno di vegetali o
come supporto per l’essiccazione di frutti – e sperimentando appieno le varie fasi di lavorazione della
materia prima.
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Angelo Aligia
di Lara Vinca Masini
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Le operazioni cui si assiste nel video sono pertanto parte fondante dell’opera d’arte, integrandosi
ad essa come fatica, manualità, concentrazione,
precisione, sapere antico.
Aligia sfronda le canne, le incide, le apre, le assembla, le intreccia, le assetta fino a trasformarle
nelle strutture che compongono la sua città virtuale.
Di questo procedimento serba la memoria,
nell’ambientazione ricostruita dall’artista, anche lo
scanno, oggetto spoglio e umile da cui si diparte
un lungo cumulo di foglie, residuo e scarto naturale
delle canne.
La semplicità solo apparentemente bucolica di
questo insieme invita alla riscoperta di memorie primordiali, verità sommerse, saperi perduti, svelando
così diversi riferimenti alla terra d’origine dell’artista, dai miti alle tradizioni popolari e arcaiche.
Altrettanti elementi, questi, che potrebbero anche ricondurci alla cultura letteraria amata da Angelo, come quella del suo conterraneo Corrado Alvaro, di cui sembra altresì condividere la denuncia
delle costrizioni imposte dalla società dei consumi
o da quella, ancora più attuale, della tecnocrazia.
Su questa scia, Aligia arricchisce la propria ricerca di riflessioni su varie esperienze culturali che possono incontrare le sue preoccupazioni e sperimentazioni, da Beuys all’arte ambientale, dall’informale
materico all’arte povera, fino alla scenografia per il
teatro sperimentale, altra tappa estremamente formativa del suo percorso.
Tutto il lavoro di Angelo, unito ai procedimenti
da cui nasce, sembra del resto costituire il frutto
di una performance spontanea e vitale, come indicano, anche, altre numerose opere dell’artista,
scabre, materiche e pazientemente elaborate con
terra cruda e cemento, bronzo e resina, legno e
foglia d’oro.
La vicenda artistica di Aligia è dunque il risultato di un impegno dinamico, costante e sincero, in
creativa tensione tra memoria e contemporaneità,
arte e artigianato, spinta interiore e mondo esterno.
Aligia. In attesa del vento, cat. mostra, a cura di
Andrea Romoli Barberini, Complesso del Vittoriano, Roma,
Gangemi Editore 2009, p. 16.
1 Angelo
Questo è un momento particolare per l’arte, dominato da una continua “contaminazione”, da un
trascorrere da una disciplina artistica ad un’altra,
da un confuso, ma straordinariamente felice fermento, dovuti anche al momento di crisi provocato
da un Postmoderno che si è distinto per un nomadismo culturale rivolto a modelli del passato, ripresi
troppo spesso in maniera acritica e non riconsiderati in un contesto di attualità.
Mi sembra che il nomadismo, nei giovani, si sia
trasformato, da quello nel tempo e nella memoria
del passato, in fughe attraverso discipline diverse, in
una sorta di “memoria del futuro”, così che vediamo, oggi, artisti, architetti, designers, operatori teatrali, ma anche scrittori, poeti, musicisti, scambiarsi,
con felice leggerezza, i ruoli, senza, peraltro, venir
meno alla propria specificità. Lo si è constatato nei
lavori presenti alle due ultime Biennali veneziane, di
arti visive e di architettura. Anche la scultura ha seguito un po’ questa routine, perfino quando, come
quella di Angelo Aligia, calabrese, è ostinatamente
e antropologicamente legata alla tradizione della
sua regione, ad una immagine di scultura fatta di
solidità, di compattezza, di attaccamento alla terra,
di memorie ancestrali, che parlano della difficoltà
del vivere in una terra bellissima ma aspra e difficile, da sempre da conquistare con fatica, dolore,
tenacia... Egli usa frammenti di roccia, dagli splendidi colori del sole locale, della vegetazione, della
terra bruciata, tagliati grossolanamente in forme di
una geometria irregolare, scheggiati, naturali, che
assembla nella stesso modo col quale si costruiscono i muretti a secco, tra i primi segni dell’uomo a
definire lo spazio.
Ne derivano i suoi lavori di carattere primario,
grandi sfere, quasi analogie di pianeti dispersi, e
che ci aspetteremmo di vedere, pur nella loro pesantezza, sospesi in orbite nello spazio infinito, nuovi pianeti deserti; ne derivano anche le sue colonne
pesanti, rastremate come colonne doriche, pronte
a sostenere enormi trabeazioni.
Paolo Balmas, in un suo testo, paragona il lavoro di Aligia a quello di Richard Long, che pure usa
frammenti di roccia prelevati dai luoghi nei quali
“segna” le sue linee, che sono, peraltro, linee di
viaggio, segni di un cammino, di un continuo “altrove”. Aligia non mira, mi sembra, ad un “altrove”,
ma ad una stabilità, all’evocazione di un luogo, che
è, da sempre, il suo.
Già con queste sue opere Aligia “contamina” la
scultura, entrando nell’ambito dello spazio architettonico. Ma ancor più egli vi entra, in chiave con
le linee inquiete dell’arte di oggi, quando realizza
“oggetti”, che apparterrebbero allo spazio domestico, al design di interni (tavoli, poltrone in pietra...).
C’è stato un altro artista, lo scultore americano Scott Burton che realizzava, negli anni Settanta,
contaminando il concetto di design con quello di
scultura e usando materiali per antonomasia “scultorei” (marmi diversi, pietra...), mobili quali Tavolo
di onice (con luce fluorescente all’interno), Sedia di
roccia, una sedia-poltrona scavata direttamente nel
blocco, sconvolgendo il significato di specificità,
mantenendo peraltro, ai suoi “mobili”, le dimensioni consuete all’uso.
Aligia, invece – e questo, a mio avviso, è il portato più creativo della sua intuizione – realizza i suoi
mobili “fuori scala”, per giganti fruitori, provocando un impatto di notevole forza espressiva.
Ed è nella sua visione dilatata, anomala, inquietante, di un mondo “altro”, che sta il segno più autonomo e promettente del suo lavoro.
Con questo non intendo certo proporgli una linea di operazione preordinata; ma il lavoro che ha
svolto fino ad oggi mi fa pensare che sarà capace
di portare avanti un suo iter creativo autonomo e
aperto, ricco di sfaccettature e di nuove possibilità.
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A studio da Angelo Aligia
a cura di Andrea Romoli Barberini
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Uno studio immerso nel profumo di un agrumeto posto sul versante meridionale della collina di
Vrasi che domina, a Sud, la valle di Buonvicino e,
a Ovest, il blu cobalto del mare. Siamo nel cuore
della Riviera dei Cedri, sull’antica via istmica tracciata dai greci per collegare il Tirreno allo Ionio, a
un passo da Diamante, in Calabria. Angelo Aligia,
scultore, è nato qui e dalla sua terra antica, ricca
di memorie, leggende e tradizioni da sempre trae
spunto per le sue opere, suggestivamente calate in
una dimensione di arcaico mistero. Mi accoglie,
venendomi incontro lungo la strada stretta e ripida
che conduce alla sua casa e al suo atelier, con il
calore e la cordialità dell’autentico uomo del Sud.
Lo studio colpisce già dall’esterno per la bellezza
pittoresca di una costruzione che fa pensare alla
casa delle fate. All’interno, oltre ai mille strumenti
del mestiere, pietre bianche, non di quelle tonde,
levigate dal mare o dal fiume vicino, ma aguzze,
spigolose e taglienti come quelle buone per tirar
su muri a secco. Completano lo scenario cumuli di
terra finissima, passata pazientemente al setaccio:
hanno colori che variano dal rosso ruggine al bianco sporco dell’argilla; i colori della terra di quei
luoghi e delle sue opere.
“Sono le materie prime per i miei lavori – spiega
con una punta di orgoglio – le mie sculture a tuttotondo e quelle a parete nascono qui, con i materiali
di queste zone che cerco e recupero personalmente. Da queste parti, nel raggio di pochi chilometri
puoi trovare terre dai colori diversissimi, quelle più
rosse sono le più ricche di ferro. Cercarle è per me
una specie di caccia al tesoro che mi porta negli angoli più remoti di queste colline che ormai conosco
palmo a palmo”.
Aligia si muove nello studio con passi sicuri,
nonostante opere e materiali, disseminati un po’
ovunque, complichino gli spostamenti.
Da uno scaffale estrae e mi mostra una cartella
con schizzi e fotografie.
“Si tratta di un progetto importante, su cui ho lavorato sodo e che avevo già in mente da un po’.
E’ un’installazione che ho esposto a Roma, al Vittoriano, un lavoro complesso, perfettamente coerente
con il percorso della mia ricerca.
Dall’inorganico di pietre e terre, come vedi, sono
passato all’organico delle canne. Anche se, in realtà, già da tempo sto sperimentando questo materiale”.
Il tuo percorso, dai lavori in pietra, che sono
per così dire “scultura pura”, è passato a una
bidimensionalità che di fatto realizza opere pittoriche con materiali scultorei. Due percorsi, per
così dire, tradizionali. Come è nata l’idea di misurarti con l’installazione?
“E’ stato il normale sviluppo della mia ricerca.
Devo dire che personalmente non bado molto a
certi confini disciplinari. Per me l’importante è comunicare il messaggio che ho in mente attraverso i
materiali e le forme che sento più mie, che mi appartengono quasi geneticamente. Comunque se
vuoi sapere cosa mi ha spinto a realizzare un’installazione, devo risponderti che è stata la necessità di
imporre un approccio, una fruizione diversa. Quindi
ho dovuto creare un ambiente diverso, più complesso e praticabile dall’osservatore”.
Anche in questa tua opera c’è, mi pare evidente, una centralità del concetto di memoria.
“Sì, senza dubbio. In tutto il mio lavoro l’idea
della memoria ha una grande rilevanza. Questa installazione con le canne è nata dal recupero di un
materiale semplice, che si usava molto nel mondo
contadino, specialmente nel Sud: la canna appunto.
Intrecciandole secondo una tecnica antica ho voluto
celebrare un’idea di lavoro che non c’è più.
Gli oggetti sapientemente realizzati con canne
intrecciate erano molto pratici, leggeri e servivano
per tante cose: potevano contenere alimenti come
il pane, la frutta e la verdura, agevolavano l’essiccazione dei fichi... Erano di un artigianato semplice
ma utilissimo. Ho cominciato a sperimentare l’uso
delle canne in diverse situazioni: in opere bidimensionali e tridimensionali, arrivando addirittura a farne delle scenografie teatrali come quella per “Femmina, Fuoco” messa in scena, due anni fa, al Teatro
Festival della Magna Grecia, con Ornella Vanoni
per la regìa di Giancarlo Cauteruccio.
In tutte queste sperimentazioni ho voluto combinare questo mestiere artigianale con l’arte. Anzi, la
mia intenzione è stata quella di sdoganare questo
materiale dall’ambito artigianale per inserirlo nella
sfera dell’arte. La canna mi stimola anche come elemento per affrontare un discorso ambientale. Pochi
sanno, per esempio, che questa pianta è in grado
di distruggere il cemento, disgregandolo con le sue
radici. Sono stati fatti degli esperimenti in tal senso
ed è risultato che, dopo aver gettato degli elementi
in cemento nel bel mezzo di un canneto, in tempi
relativamente brevi le piante riescono a polverizzare
e disgregare quanto si presentava in forma solida e
coerente. Anche Beuys, negli anni Settanta, aveva
iniziato un discorso straordinario in questo senso”.
Quali sono state e come si sono sviluppate le
diverse fasi che hanno portato alla realizzazione di questo lavoro?
“I momenti che portano alla realizzazione di un’opera sono molteplici e può accadere che la sistematicità della ricerca risulti meno efficace dell’intuizione fortuita. Nei vari esperimenti che ho fatto con
le canne mi sono accorto che, con un particolare
uso delle luci, per certi versi scenografico, si riuscivano ad ottenere degli effetti sorprendentemente
spettacolari con le ombre. Sono arrivato, quindi,
dopo numerosi tentativi, a trovare qualcosa di interessante. Quell’effetto particolare, trovato quasi per
caso, era come se mi parlasse, mi dicesse qualcosa di importante ma che non riuscivo a decifrare
pienamente. Intuitivamente avvertivo l’importanza
di quella soluzione, ma volevo penetrarne il senso
fino in fondo. Ho iniziato a ragionarci sopra, a sviluppare attraverso le canne e le luci delle situazioni
quasi contraddittorie. Le strutture di canne intrecciate evocano infatti un senso d’antico, di primordiale,
mentre i giochi d’ombra che proiettano sul muro,
all’opposto, fanno pensare ai grattacieli di una metropoli contemporanea illuminati di notte.
Questa dialettica giocata sulla tangibile fisicità di
una semplice e artigianale costruzione e l’illusoria
seduzione di una metropoli modernissima, riprodotta dalle ombre delle canne, mi ha sedotto per tutte
le possibili riflessioni che suscita al di là delle indiscutibili suggestioni visive che alimenta. Si tratta, in
sintesi, di qualcosa che va oltre il facile effetto, del
gioco di luce e dell’illusione ottica”.
L’installazione, a sorpresa, presenta anche
più calchi umani in gesso vestiti con abiti veri…
“Sì, oltre ai volumi più o meno regolari realizzati
con le canne intrecciate, l’opera comprende tre figure sedute, sono tre calchi miei che ho voluto vestire con i panni che indosso normalmente, l’abito
di tutti i giorni per intenderci. Anche la figura ha una
postura vagamente arcaica che partecipa all’incredibile salto cronologico che si legge tra la fisicità
antichissima delle strutture vegetali e l’attualità metropolitana delle ombre.
La figura, il calco, quindi, rappresenta me stesso, l’artista calato nel suo presente che coglie la
distanza, di questi due momenti espressi in unico
ambiente e fatica a trovare non tanto una via di
compromesso senza contraddizioni, quanto la sua
giusta collocazione tra le due polarità. Il calco si
ripete tre volte, ma questa ripetizione non nasconde
significati simbolici, misteriosi”.
E’ quindi casuale che ai tre calchi umani corrispondano nove elementi, tre volte tre, costruiti
con le canne?
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“E’ una pura esigenza compositiva. L’installazione, di fatto, è una riflessone sul tempo, sulle corrispondenze, le affinità e le discontinuità tra il passato
più remoto e il presente; tra l’arcaico e il contemporaneo. Tornando al materiale di base di questo
lavoro, che trovo straordinario, posso dirti che per
la sua forza e la sua fragilità, la canna può essere
interpretata come metafora dell’uomo.
Gli oggetti realizzati con questa pianta spontanea, se lasciati alle intemperie non possono durare più di un anno. In passato si utilizzava molto in
architettura, era preziosa per i tetti delle abitazioni
e ora in molti paesi dell’Est, e non soltanto lì, sta
tornando di grande attualità per le architetture ecocompatibili”.
A giudicare dalla quantità di foto scattate
nelle diverse fasi di lavorazione di queste strutture vegetali, mi sembra di leggere l’intenzione di integrare all’opera, l‘installazione vera e
propria, anche il momento esecutivo. Quasi a
voler sottolineare con la documentazione videofotografica l’unità indissolubile dell’opera che
si compone di una performance che ha nell’installazione il suo esito finale.
“E’ proprio così! Devi sapere che la stessa lavorazione della canna si compone di diversi momenti.
Tutto inizia dal reperimento delle piante utili per eseguire gli intrecci. Poi c’è il taglio, che deve avvenire quando la luna è calante e il tessuto ha minore
quantità di acqua e si deteriora più lentamente.
Sono gli stessi saperi che vengono utilizzati dai
boscaioli nel taglio del legname. Anche loro seguono le fasi lunari e certe stagioni dell’anno.
Per le canne il periodo migliore per il taglio è
gennaio o febbraio, con luna calante. Di fatto, lo
hai ben colto, si tratta di una performance attraverso cui si crea l’installazione. Per motivi pratici alla
mostra esporrò solo il risultato finale e un video
con le fasi della lavorazione. Nel catalogo intendo
documentare tutti i passaggi della realizzazione di
queste strutture.
Lo ritengo necessario perché in quella prassi
c’è la memoria di antichi saperi artigianali perduti. Quasi un documento antropologico. Questo è il
senso delle foto: testimoniare quei gesti, che sono
l’opera nel suo farsi, nella sua fase esecutiva. Alla
mostra, l’installazione sarà accompagnata da un rumore di fondo che creerà una sinestesia.
Si sentirà il suono, il fruscio del vento attraverso
le canne. E poi si avvertirà il rumore delle canne secche schiacciate dai passi, quello del taglio e quello,
più delicato, provocato dalle mani che le selezionano e le intrecciano per farle diventare l’ambiente
semplice e complesso, sospeso tra passato e futuro,
in cui ci si trova nel momento, un po’ spaesante,
della fruizione”.
Per la mostra in programma a Palazzo Arnone, a Cosenza, tornerai a proporre opere in
pietra…
“Forse è più corretto dire che a Palazzo Arnone presenterò anche opere in pietra, insieme a tanti altri
lavori che documentano la mia ricerca degli ultimi
cinque o sei anni. Non amo il concetto di mostra
antologica, odora di incenso, di celebrazione alla
memoria, però non posso negare che a Cosenza
ci saranno buona parte dei miei lavori recenti più
significativi”.
Qualche esempio?
“Esporrò, e questa forse sarà la vera sorpresa
della mostra, una grande installazione molto simile
a quella che presentai al chiostro di Sant’Ivo alla
Sapienza, a Roma, nel 2005. Si tratta di un’opera unica e complessa, sostanzialmente una disseminazione formata da più elementi che inserirò nel
cortile monumentale di Palazzo Arnone. Questa installazione, Geometrie della materia, nasce dall’intenzione di cercare un dialogo reale con l’architettura. Ti accorgerai subito che le analogie con il lavoro
esposto a Roma sono meno evidenti delle differenze
per ovvie ragioni legate alle diversità strutturali dei
due ambienti. L’obiettivo dell’installazione, a Cosenza come a Roma, è certamente quello di cercare
una interazione, per così dire, totale e, nei limiti del
possibile, organica, con la struttura del cortile. Per
troppo tempo si è interpretata la scultura come una
sorta di orpello decorativo dell’architettura, sostanzialmente accessorio. Per operare una integrazione
tra le due discipline, giocherò con gli elementi architettonici del palazzo. Farò, per così dire, il verso ai
suoi archi, invertirò certi vuoti in pieni, utilizzando i
miei materiali di sempre: la terra, la pietra, il legno,
l’aggressività allarmante del rosso.
Tutto questo creerà degli imprevisti visivi in qualche modo connotanti, pur nella loro provvisorietà.
Mi piace immaginare la mia installazione come l’incontro imprevisto di epoche diverse in cui il passato
ospita il presente accettandone bonariamente anche l’ironia e l’apparente irriverenza”.
Cos’altro andrà in scena a Cosenza?
“Un cospicuo numero di opere a parete, quelle
del ciclo Terra madre per intenderci. Molte le ho realizzate appositamente per la mostra e presenteranno significative varianti che stanno aprendo nuovi
fronti per la mia ricerca. Poi ci sarà l’installazione
In attesa del vento, quella presentata al Complesso
Monumentale del Vittoriano, a Roma.
La presenterò con il suo video, in cui molti potranno riconoscere i luoghi, le atmosfere e i gesti
che appartengono alla nostra terra e alla nostra tradizione”.
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OPERE
(pagina precedente)
GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
34
GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
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GEOMETRIE DELLA MATERIA
installazione - materiali vari
anno 2010
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39
SENZA TITOLO
180x120 cm - tecnica mista
anno 2010
SENZA TITOLO
210x120x19 cm - tecnica mista
anno 2007
40
41
SENZA TITOLO
220x140 cm - tecnica mista
anno 2009
SENZA TITOLO
220x140 cm - tecnica mista
anno 2009
42
43
SENZA TITOLO
180x120 cm - tecnica mista
anno 2010
SENZA TITOLO
180x120 cm - tecnica mista
anno 2008
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(pagina precedente)
SENZA TITOLO
150x150 cm - tecnica mista
anno 2010
SENZA TITOLO
180x120 cm - tecnica mista
anno 2010
46
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SENZA TITOLO
179x111 cm - tecnica mista
anno 2010
SENZA TITOLO
197x120x13 cm - tecnica mista
anno 2010
(pagina successiva)
dal video:
IN ATTESA DEL VENTO
(pagina precedente)
IN ATTESA DEL VENTO
installazione - materiali vari
anno 2010
IN ATTESA DEL VENTO, particolare
installazione - materiali vari
anno 2010
IN ATTESA DEL VENTO, particolare
installazione - materiali vari
anno 2010
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IN ATTESA DEL VENTO, particolare
installazione - materiali vari
anno 2010
(pagina successiva)
IN ATTESA DEL VENTO
installazione - materiali vari
anno 2010
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APPARATI
IN/OLTRE
installazione
anno 2010
ANTOLOGIA CRITICA
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“[…] Raccogliere delle pietre e disporle secondo forme
di ordine che il puro caso non avrebbe mai potuto produrre è un gesto che, se compiuto con intenti estetici
entro un contesto adeguato, trascende immancabilmente la sua materiale immediatezza per caricarsi di una
certa elementare solennità, una sorta di fattiva evidenza
a sfondo rituale capace di evocare insieme l’aurora del
pensiero simbolico e quella di ogni reale azione trasformatrice. In questo senso il lavoro di Angelo Aligia
si pone indubbiamente sulla scia della asciutta eppure
umanissima lezione che ci proviene da un maestro riconosciuto come Richard Long. Con un procedimento
simile a quello seguito dall’artista inglese, infatti, anche
Aligia preleva dal territorio in cui opera i frammenti di
materiale roccioso che poi, senza alcuna alterazione,
compone in modo tale da dar vita a configurazioni
primarie inequivocabilmente ascrivibili all’“intervento”
umano: una parola quest’ultima da intendersi qui nella sua doppia valenza di agire fisico e di proiezione di
contenuti mentali. Se quanto detto risulta innegabile è
tuttavia altrettanto vero che solo una riflessione su ciò
che fa divergere la ricerca del nostro artista da quella
del suo celebrato referente può servire a introdurci al
suo mondo e meglio comprendere, al di là di una prima
impressione, pure piuttosto diretta e pregnante, le motivazioni della sua poetica. Converrà allora, in questa
ottica, procedere in maniera per così dire “concentrica”,
e considerare i fattori in gioco a partire da quelli di significato più vasto e meno specifico per stringere poi
dappresso gli oggetti ben determinati che ci troviamo
di fronte, il che equivale poi a dire seguendo l’ordine
discendente che va dall’ambiente (il territorio), alla materia (la pietra), alla forma (la geometria dei solidi euclidei) per giungere fino alle installazioni effettivamente
realizzate ed esposte. Bene, il territorio cui pensa Aligia,
va detto subito, non è un’estensione geografica ancora
incontaminata che in qualche modo possa essere fatta
coincidere con il concetto di natura, ovvero con quella
polarità dialettica che opposta al complementare concetto di cultura sta alla base del pensiero antropologico
moderno, è piuttosto una precisa regione non urbanizzata sulla quale l’uomo agisce da tempo immemorabile
per mitigarne l’asprezza e ricavarne qualche ausilio alle
attività con cui si garantisce la sopravvivenza. In maniera omologa le pietre che il nostro artista utilizza non
sono elementi caratteristici di un nobile paesaggio da
restituire a esso subito dopo essersene rispettosamente
serviti per materializzare i principali archetipi del pensiero visivo e simbolico di tutti i tempi e tutte le latitudini,
sono sempre spesso e volentieri ciò che resta al termine
di una necessaria fatica come ad esempio dissodare un
campo, il preparare il terreno per tirare su una casa o
l’estrarre qualcosa di più pregiato da una cava. Le forme geometriche assunte come riferimento ideale, infine,
sono sì forme elementari, ma per via della loro tridimensionalità, del loro stare erette, accamparsi nello spazio
e relazionarsi con chi lo abita, rappresentano già delle
affermazioni di natura architettonica se non addirittura
della protoarchitettura. Eccoci dunque dinanzi ai coni,
alle piramidi e parallelepipedi di pietre grezze e ineguali
che si sarebbero comunque imposti al nostro sguardo e
alla nostra stessa fisicità senza altre spiegazioni, ma eccoci anche in grado di apprezzare più a fondo il fascino
insolito e quasi commovente della loro modestia tettonica, della loro approssimazione formale, della loro estraneità a ogni ammiccamento seduttivo. Un fascino che
non va confuso con la semplice capacità di evocare una
vita più povera e sana, ma va riguardato come riprova
del contatto che in qualche modo è stato ristabilito tra
il nostro sentire e una catena di pensieri, emozioni ed
esperienze che ha unito per secoli, all’insegna di un fare
concreto e astraente a un tempo, generazioni di uomini
semplici e pieni di dignità”.
PAOLO BALMAS, 1997
“[…] Una necessità di tipo ordinatore e costruttivo anima il lavoro di Angelo Aligia, il quale preleva anonime pietre collocate nella casualità disordinata, ma pur
sempre armoniosa dell’ambiente naturale, per costruire
forme come edifici, che non possono essere percorsi o
abitati, ma che assolvono all’unico compito di stare nel
tempo e nello spazio. Esattamente come le opere d’arte
le edificazioni di Aligia stanno e possiedono la forza antica e la semplicità misteriosa di quei muretti a secco nel
Sud dell’Italia, che evocano trazzere bianche, confini di
proprietà persi nel tempo, caldo asciutto, sole a picco e
cicale infaticabili […]”.
BARBARA TOSI, 1998
“[…] Angelo Aligia. Scultore che utilizza pietre, con cui
realizza frastagliate figure geometriche. Andando in giro
per il nostro Bel Paese, vi sarà capitato più di una volta
di vedere muretti a secco, segnali di confine fatti con
sassi accatastati. Chiaro che proprio questo è il primo
riferimento del lavoro di Aligia. L’elaborazione concettuale di questo dato originario, è in quel nuovo ordine
geometrico con cui sono disposti gli elementi, e altresì
nella nuova contestualizzazione spaziale, che viene determinata con il passaggio dallo spazio aperto e dalla
dimensione rurale, a quella generalmente asettica dello
spazio espositivo […]”.
RAFFAELE GAVARRO, 1999
“[…] Non mi capita spesso di scrivere di un artista che
pone la materia (e in questo caso si tratta di qualcosa
di primigenio, la sostanza stessa di cui è fatto il pianeta)
al centro della propria ricerca. Tuttavia trovo che Angelo Aligia sia inventore di un linguaggio non del tutto
estraneo alla cultura delle tecnologie contemporanee.
Le pietre di Aligia hanno un fascino che si imparenta
con il lirismo muto dei monoliti preistorici, con gli obelischi egiziani e con l’armonia matematica dell’architetturta mediterranea. Il parallelo con le esperienze della
Land Art è fin troppo immediato, cosi come il riferimento
a una sesibilità terrena, fatta di materia, peso, superfici scabre e luce, che è quanto l’immaginario collettivo
trascina, banalmente, con sè nella visione delle regioni
del Sud: bellezza e fatica. Mi piace, però, individuare
un’ulteriore possibilità di interpretazione nell’impaginato
scultoreo delle opere di Aligia, ed è la sua aderenza al
tempo presente. Si tratta di un’attitudine mentale che si
sviluppa in due direzioni diverse e, solo apparentemente, antitetiche. Con grande plauso dei romantici c’è il
senso dell’immanenza, ereditato senza filtri della cultura greca, e assunto da ogni calabrese assieme al latte
materno: è quella particolare inclinazione estetica per
cui una pietra al sole racconta se stessa, e parla di un
presente, continuo e nuovo in ogni momento (le pietre
invecchiano straordinariamente bene). La concretezza
solare delle sculture di Aligia indica, come il dito di una
divinità antichissima, che il momento corrente è l’unico
che valga la pena di vivere. […]”.
PIETRO GAGLIANÓ, 2006
[…] Due grandi pannelli si fronteggiano, dialogano a
breve distanza l’uno dall’altro, imponendo al fruitore un
punto di osservazione obbligato, a metà strada tra i due
elaborati che definiscono l’area di una vera e propria
installazione dissimulata dietro la regolarità di un allestimento apparentemente ordinario. Angelo Aligia li ha
realizzati entrambi attraverso una prassi che si colloca
nel nobile solco delle poetiche basate sul recupero del
primario grazie a una acuta, sofisticata manipolazione di quanto appartiene alla memoria dei suoi luoghi
di origine. La terra, grigia, argillosa o ancora rossa e
ferrosa diventa supporto, sfondo pittorico come solcato, in verticale, dai segni del tempo su cui si adagiano,
fusi in bronzo, spinosi e monumentali, ora i rami e il
frutto del cedro, ora giganteschi cucchiai di legno dalle
forme morbide e rassicuranti, caldi e accoglienti come
un utero materno. L’osservatore si troverà al centro di
questa suggestiva contesa della memoria tradotta in immagini, ad un tempo attratto e respinto dalla opposte
forze, uguali e contrarie, delle polarità del concavo e
del convesso (il cucchiaio ligneo e la spina aggettante),
del freddo e del caldo (il bronzo e il legno), del dolce e
dell’amaro (l’evocazione del miele nel colore del legno
e il gusto aspro del cedro, usato in tale accezione anche
nella tradizione ebraica in ricordo della schiavitù d’Egitto), in una coinvolgente e insospettabile celebrazione tra
reminiscenza e identità.
ANDREA ROMOLI BARBERINI, 2010
BIOGRAFIA
Angelo Aligia è nato a Maierà (Cs) nel 1959. Giovanissimo, dotato di una spiccata inclinazione per il disegno,
si dedica alla scultura, in cui trasferisce l’esigenza di un
rapporto con un principio originale e antropologico,
come condizione autentica vitale dell’essere umano oltre
le differenze individuali e storiche. Le sue sculture precedenti gli anni Ottanta, riconducibili ad alcune esperienze
dell’avanguardia storica, si sono sviluppate nel tempo in
composizioni più libere e sperimentali. L’area della sua
ricerca si colloca sin dagli esordi nell’ambito poetico
del recupero del primario cui aggiunge una sensibilità
architettonica che lo ha portato a indagare nel mondo
delle forme geometriche solide regolari. Nei suoi lavori
più recenti, la sua vena di rinnovato lirismo lo ha indotto
a sperimentare nel rilievo e nella pura bidimensionalità
l’innato senso della natura che ne connota gli interessi
poetici sin dagli esordi. Ha preso parte a numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e gallerie private, in Italia e all’estero, realizzando numerose sculture
per centri urbani. Vive e opera a Diamante (Cs).
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