TERRA VENTO PIETRA
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TERRA VENTO PIETRA
SOPRINTENDENZA BSAE DELLA CALABRIA GALLERIA NAZIONALE DI COSENZA TERRA VENTO PIETRA ANGELO ALIGIA a cura di Fabio De Chirico e Andrea Romoli Barberini TERRA VENTO PIETRA ANGELO ALIGIA a cura di Fabio De Chirico e Andrea Romoli Barberini GALLERIA NAZIONALE DI COSENZA Aquila di mare il mondo della grafica d’autore TERRA VENTO PIETRA ANGELO ALIGIA GALLERIA NAZIONALE di COSENZA Palazzo Arnone 8 ottobre 2010 - 7 novembre 2010 Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte Contemporanee Mario Lolli Ghetti, Direttore Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria Francesco Prosperetti, Direttore Galleria Nazionale di Cosenza Soprintendenza BSAE della Calabria Fabio De Chirico, Soprintendente Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, Presidente Mario Caligiuri, Assessore alla cultura, istruzione e ricerca Provincia di Cosenza Gerardo Mario Oliverio, Presidente Maria Francesca Corigliano, Assessore alla cultura Comune di Cosenza Salvatore Perugini, Sindaco La mostra è stata organizzata in occasione della Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI Progetto della mostra Fabio De Chirico Angelo Aligia Francarosa Negroni Coordinamento scientifico Fabio De Chirico Coordinamento generale Domenico Belcastro Francarosa Negroni Segreteria Angela Gabriele Brunella Macchione Salvatore Montalto Relazioni esterne Maria Clotilde Cariello Immacolata Dell’Aquila Massimo Sabato Uffici Amministrativi Giuseppe Valentini Ugo Pietramala Adriana Bitonti Immacolata Guglielmelli Rosangela Sammarco Giampaolo Mandarino Brunella Citrigno Gloria Garofalo Adelina Lo Celso Antonio Sciacca Luigi Negroni Giorgina Ritacca Salvatore Lorenzini Rosa Greco Giulio Solla Catalogo a cura di Fabio De Chirico Andrea Romoli Barberini Testi di Fabio de Chirico Christoph Bertsch Giancarlo Cauteruccio Patrizia Ferri Andrea Romoli Barberini Angelo Sanna Lara Vinca Masini Progetto grafico Andrea Mocci Ufficio Tecnico Domenico Bloise Eugenio Provenzano Anna Lucia Scalzo Referenze fotografiche Francesco Martorelli Ufficio Stampa Nicoletta Ciardullo ARUS Comunicazione Segreteria tecnica Ines Altomare Patrizia Barbuscio Ada Ivana Giuzio Anna Greco Faustino Nigrelli Cerimoniale Rosanna Caputo Michella Aquino Belmira De Rango Brunella Macchione Ada Ivana Giuzio Anna Greco Comunicazione e Ufficio stampa Nella Mari Patrizia Carravetta Silvio Rubens Vivone Riprese fotografiche, applicazioni multimediali e video Attilio Onofrio Servizio di vigilanza e accoglienza Personale di custodia della Soprintendenza BSAE della Calabria Allestimenti Giuseppe Chiappetta Venanzio Corigliano Franco Federico Attilio Onofrio Aldo Retek Domenico Visciglia Ringraziamenti Giuseppe Stolfi Giorgio Ceraudo Raffaele Giovinazzo Maria Teresa Sorrenti Francesco Sguglio Raffaele Di Vaio Giancarlo Cauteruccio Giulio Telarico Pino La Fauci Franco Salemme Gianfranco Lombardi Giuseppe Felice Francesco Felice Remo Nervino Pasquale Capano Vincenzo Molino Maria Rosaria Gianni Gennaro Cosentino Francesca Cannataro Gemma-Anais Principe Un vivo ringraziamento agli studenti del Liceo Artistico Statale di Cosenza, guide d’eccezione Ed ancora un ringraziamento ai dipendenti della Soprintendenza BSAE della Calabria che hanno affiancato il personale addetto alla vigilanza per assicurare l’apertura delle sale espositive di Palazzo Arnone Fotografia Francesco Martorelli Installazioni sonore Roberto Musolino Post-Produzione Videolab DIREZIONE REGIONALE BENI CULTURALI E PAESSAGGISTICI DELLA CALABRIA SOPRINTENDENZA BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLA CALABRIA indice Presentazione di Francesco Prosperetti p. 7 Presentazione di Fabio De Chirico p. 8 Materia e paesaggio. Arte e immedesimazione nella ricerca di Angelo Aligia di Fabio De Chirico p. 9 Angelo Aligia al Chiostro di Sant’Ivo di Christoph Bertsch p. 14 Le parole su pietra di Angelo Aligia di Giancarlo Cauteruccio p. 16 Il cielo in terra di Patrizia Ferri p. 17 Angelo Aligia, ricordare con le mani di Andrea Romoli Barberini p. 19 Angelo Aligia - In attesa del vento di Angela Sanna p. 21 Angelo Aligia di Lara Vinca Masini p. 23 A studio da Angelo Aligia a cura di Andrea Romoli Barberini p. 24 opere p. 29 apparati p. 57 L’allestimento nella suggestiva cornice del rinascimentale Palazzo Arnone di una mostra di installazioni e sculture a parete del calabrese Angelo Aligia, si inserisce in quel programma di valorizzazione e promozione dell’arte contemporanea che rappresenta, da qualche anno, una scelta vincente della politica culturale promossa dalla Istituti calabresi del MiBAC in collaborazione con il Governo regionale e gli Enti locali. Nel 2004 la realizzazione della prima mostra “Intersezioni”, oggi giunta alla sua quinta edizione, e realizzata nel Parco archeologico della Roccelletta, luogo simbolo del patrimonio archeologico regionale, avviava un dialogo, o meglio una singolare quanto suggestiva contaminazione, tra scultura contemporanea ed archeologia, avvicinando al grande pubblico calabrese artisti di fama internazionale, da Mimmo Paladino a Tony Cragg, da Jan Fabre a Dennis Oppenheim a Michelangelo Pistoletto. A quel lontano esordio segue oggi, per iniziativa del soprintendente al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico della Calabria, Fabio De Chirico, un nuovo evento di cui sono protagoniste le opere di uno stimato ed apprezzato maestro calabrese, anch’egli interprete di un linguaggio che ha attraversato, pur con declinazioni differenti, tutta la ricerca artistica del secolo appena trascorso, rivoluzionando i ruoli tradizionalmente intesi, quello dell’ artista e quello del fruitore dell’opera d’arte, dal momento che proprio quest’ultimo da spettatore diviene – diremmo – compartecipe del fare creativo. Evento, quindi, non episodico la mostra di Palazzo Arnone, ma tassello di una politica culturale condivisa, intesa a promuovere i “luoghi dell’arte” e valorizzarne il portato ideologico attraverso suggestive aperture ai linguaggi della contemporaneità. Francesco Prosperetti Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria 7 Materia e paesaggio. Arte e immedesimazione nella ricerca di Angelo Aligia Fabio De Chirico 8 Per la sesta giornata del Contemporaneo, in collaborazione con l’AMACI, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria ha scelto di presentare negli spazi per le esposizioni temporanee della Galleria Nazionale di Cosenza il lavoro di Angelo Aligia, artista di origine calabrese che opera spesso tra Roma e la sua terra d’origine. Si tratta di opere realizzate nell’ultimo decennio ma anche di installazioni progettate specificamente per gli spazi di Palazzo Arnone. Tale scelta si inserisce nell’attività di programmazione della Soprintendenza che intende dar voce non solo alle più significative esperienze prodotte in ambito regionale ma anche a tutti quegli ambiti di ricerca del contemporaneo che abbiano una rilevante connotazione nazionale ed internazionale. Gli spazi, da poco acquisiti, saranno utilizzati sia come possibile campo di indagine e di documentazione di quanto prodotto sinora e ormai storicizzato – l’ultima mostra di grande rilievo, conclusasi a gennaio 2010, è stata l’omaggio a Umberto Boccioni, in collaborazione col Museo di Lugano e con il MAON di Rende, nel centenario del Futurismo – sia come laboratorio sperimentale di nuove ed emergenti realtà visive, come nel caso degli eventi realizzati per la Notte dei Musei, che hanno consentito a giovani realtà culturali operanti nel territorio di presentare una selezione dei loro lavori, indicando i percorsi e gli indirizzi che segneranno i passaggi da conseguire. Aligia presenta non solo le sue opere e installazioni già prodotte e costituenti il nucleo emblematico del suo percorso artistico – i pannelli materici e le installazioni realizzate per precedenti mostre a Sant’Ivo alla Sapienza e al Vittoriano – ma anche dei site specific works: una caratteristica precisa e puntuale della sua ricerca visiva, infatti, è quella di scegliere moduli espressivi e raggiungere esiti formali che si connotano nello stretto rapporto che istituiscono con il contesto per cui sono realizzati, sia esso un sito museale o il paesaggio nel senso più complessivo del termine. L’aver scelto questo artista e queste opere, infine, se da un lato rappresenta l’esigenza di presentare un lavoro che si ritiene di forte impatto espressivo e di importante testimonianza culturale, nel suo essere pienamente ascrivibile all’ambito più rappresentativo dell’arte dell’ultimo secolo, dall’altro consente di proporre un repertorio che pur prodotto in ambito regionale, si apre ad un respiro veramente europeo. Fabio De Chirico Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantopologici della Calabria Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere. Giovanni Anselmo Il vento che stasera suona attento - ricorda un forte scotere di lame gli strumenti dei fitti alberi e spazza l’orizzonte di lame dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba… e il mare che scaglia a scaglia, livido, muta colore, lancia a terra una tromba di schiume intorte… Eugenio Montale La produzione artistica di Angelo Aligia nasce da un rapporto di immersione totale, di immedesimazione con il contesto e direi con il paesaggio in cui da sempre è inserito. Non si può pensare ad un suo lavoro, anche quello più apparentemente astratto, senza comprendere che gli esiti di questa ricerca sono il risultato di un processo di scavo interiore, di ricerca di sé, che trova motivazioni e dunque stilemi espressivi nell’appartenenza, nell’essere parte di un tutto, e più specificamente di un ambito culturale preciso: quello che si potrebbe definire in termini a mio avviso limitanti, calabrese, ma che sarebbe più corretto definire ‘mediterraneo’. In quanto riflesso di una condizione umana più generale, e dunque paradigmatica. Eracliteo il suo senso di percepire le cose, cercare la materia, fissarla in un’apparenza consapevole. La terra, i suoi orizzonti, l’aria e il vento, le pietre e le piante, tutto questo, oltre la luce e il suono e gli odori di un paesaggio straordinario sono materia vivente delle sue opere, che condensano, come un concentrato o un processo di riduzione chimica, la storia e la memoria, lo spazio e lo sguardo di un uomo che si rapporta in termini percettivi ma anche interrogativi verso il contesto in cui è immerso. Credo che il suo lavoro non esisterebbe senza il paesaggio, nella fattispecie quello calabrese, che si fa paesaggio nell’accezione più totalizzante, culturalmente e antropologicamente, quando diviene una dimensione dell’anima, un modo di esistere, anzi l’unico, attraverso cui comunicare in mancanza delle parole, o meglio nella convinzione che le parole siano insufficienti ad esprimere l’essenza di un rapporto, di una relazione, di una interazione. L’arte di Aligia ha un che di montaliano, nel suo disvelare segreti che possa cogliere solo chi è in una sorta di sintonia cosmica, chi si sintonizzi sulla stessa lunghezza d’onda. <<Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe….io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto>>. Tocca l’essenza delle cose e degli esseri e la reinterpreta. Senza l’assurda pretesa di rivelare magiche formule o denunciare e svelare chiavi di lettura univoche e totalizzanti. La sua è un’arte dell’astanza, come avrebbe detto Cesare Brandi, ossia un modo di produrre icone che riassumono storia e sostanza dell’essere, nella forma. Le sue opere sono, non rappresentano. Le sue installazioni, le sue tavole murali, non si potrebbero comprendere altrimenti. Certamente si tratta di un dono, un carisma che non è da tutti possedere: quando progetta un lavoro lui respira tutto ciò che lo circonda, assorbe come una spugna gli umori del luogo, e condensa infine in un’idea che si fa forma ed espressione compiuta il senso di un rapporto quasi sciamanico con quel contesto, distillando la storia e la cultura, le emozioni e il sen- 9 10 tire, attraverso un dialogo fisico ed empatico con le cose: tutto viene come asciugato in una forma compiuta, in cui anche la scelta materica ha il suo perché, in un processo che è di sottrazione e riduzione all’essenza. Vissuto personale e storia collettiva, paesaggio e materia, tutto confluisce attraverso un percorso quasi da cortocircuito intellettivo-emozionale, in una scelta espressiva che sembra essere l’unica possibile tra le tante. Un dono, appunto. Ma il suo esprimersi definisce un raffronto che è insieme la sintesi del fare arte nel paesaggio e col paesaggio stesso. Non sarebbe comprensibile alcuna sua installazione o lavoro al di fuori del contesto in cui egli è vissuto, vive ed opera, ma è altrettanto importante il fatto che egli poi utilizzi questo contesto stesso, il paesaggio come materia del suo fare, e del suo fare arte. Utilizza la materia per parlare ma di fatto è la materia che parla attraverso le sue opere. Non credo a quanti ritengono questo processo un processo sapientemente artigianale. Artigianale, nel senso dell’artifex, della sapienza nell’uso della materia e delle tecniche è il suo medium, il suo modo di selezionare, prelevare e riformulare la materia; ma arte nel senso pieno è il raggiungimento, l’esito di questo percorso, il significato ultimo della sua ricerca. Troppo deprezzata e sminuita dall’accezione artigianale, si rivela grande nella sua capacità di confluire in una sintesi formale unica e personale, in cui la materia finisce per essere solo il dato di partenza. Nei percorsi critici che lo hanno riguardato frequente è il richiamo alle forme di espressività più arcaiche, quelle che evocano i totem e i menhir, antichi segnacoli posti a calcare la scena di un sentire simbiotico l’essenza dell’essere, e dell’essere tutt’uno tra l’uomo e gli elementi del cosmo. Credo invece – ed è questa la forza e la capacità che meglio definiscono il suo linguaggio in termini di discorso sull’essere – che tutto il suo percorso e il suo procedere sia nella direzione della riduzione, del prosciugare e togliere tutto ciò che è superfetazione, ridondanza, eccesso visivo. Ciò che lo conduce a definire forme e materie è una sorta di asciuttezza verbale, verso una strada che porta all’essenza delle cose. Senza per questo rinunciare all’espressione più urgente e violenta, alla passione materica e cromatica, che traduce nelle opere le contraddizioni e i conflitti, spesso violenti, ma con la consapevolezza della reductio ad unum: razionale e irrazionale, passione e ragione, vita e morte, dolore e felicità si traducono nella raffinata configurazione di forme compiute e serene, matericamente vibranti, ma sempre racchiuse e circoscritte come per essere dominate e infine domate. Aligia potrebbe essere inserito a pieno titolo nell’ambito della generazione che fa capo ai migliori interpreti di quella che Germano Celant ha definito ‘arte povera’, principalmente per l’utilizzo di materiali semplici e per una sorta di rivendicazione di un rapporto più stringente e reale tra uomo e natura, non più viziato dalle logiche della mercificazione, che hanno invaso anche il sistema dell’arte, come sistema di produzione. In questa accezione la sua arte è un’arte tutta del Novecento, nel senso che si colloca pienamente nell’alveo di un rapporto consapevole con la tradizione senza rinunciare alla sperimentazione, ma con piena fiducia e dominio dei propri mezzi espressivi. Senza la rinuncia, la protesta verso la tradizione intesa come portato culturale e tecnico di un saper fare. Aligia è uomo del Novecento, non mediato, non gli interessa la sperimentazione linguistica come ricerca di un preciso luogo espressivo, fine a se stessa. Sa qual è la sua strada, indirizza in quella direzione la sua ricerca, non gli importa comuni- care con i mezzi più vicini al contesto contemporaneo, gli interessa fare il suo discorso migliorando gli strumenti linguistici che sono a lui consoni. È un artista del Novecento, inoltre, nel seguire il necessario espandersi delle potenzialità espressive allo spazio con cui interagisce, nella convinzione che l’arte non sia solo espressione ma interpretazione. Dopo Cezanne e le neo-avanguardie utilizza la tradizione come un dato, un assunto scontato, una materia alla stregua delle altre; e in questo è molto post-moderno. Proprio relativamente alla materia il suo eloquio si connota come una possibile lettura del paesaggio non solo in termini di dato o di assunto irrinunciabile, ma come strumento: la sua arte è nel paesaggio ma è fatta e realizzata col paesaggio. Sarebbero incomprensibili le sue installazioni avulse dal contesto, nel senso che esse nascono come rapporto e relazione con il luogo: antropologicamente la sua arte relazionale vive del raffronto, sia in senso spaziale che temporale. La memoria e la geografia si inverano nelle sue forme, mai accademiche, mai intellettualistiche, bensì reali. In questa accezione egli utilizza il paesaggio come una riserva, una dispensa cui attingere, da cui prelevare materiali e segni da fare propri: le pietre, le terre, le piante, tutto può concorrere a delineare un ‘paesaggio altro’, un orizzonte attraverso cui riproporre il consueto utilizzo della materia per la configurazione di un orizzonte diverso, più rappresentativo dello stato delle cose ma anche del disagio verso una tecnologia disumanizzante e straniante. Credo calzante per le sue opere quanto afferma Rosalind Krauss nell’analisi sulla scultura moderna, quando sostiene che <<ogni organizzazione spaziale contiene un’asserzione implicita sulla natura dell’esperienza temporale>>, ossia che il termine di raffronto nel rapporto di reciprocità tra l’osservatore e l’opera non è mai la forma o lo spazio, ma l’uomo stesso, implicando ogni opera in sé una dimensione temporale. Con lui si ritorna alla natura, ma con una consapevolezza diversa, più attenta e sorvegliata. Nel senso che Aligia non rinuncia alla tecnica più avanzata, purché questa serva per enfatizzare la dichiarazione di partenza: che l’arte è un modo, per lui l’unico, per attraversare l’esistente, per racchiudere e rivelare, all’occorrenza, il senso del vivere. L’ambiente, la natura, il paesaggio, nella sua poliedricità diventano così la materia da plasmare e riproporre, utilizzando anche conformazioni abusate, come i pagliericci destinati all’essiccazione di ortaggi o frutti, purché si sappia che l’arte è un’occasione, un’opportunità. Da non perdere, o da scoprire. Ma che serva anche a farci riconsiderare quelle materie povere, a farcene riscoprire le potenzialità e i mille aspetti segreti, perché così la materia diviene metafora dell’essere umano, delle sue multiformi dimensioni di crescita e raffronto. Se il paesaggio e l’arte che da esso deriva non esiste senza la cultura e la storia che lo rendono tale – il concetto di paesaggio nasce con la storia dell’arte, come mediazione tra l’uomo e la natura attraverso la cultura – le sue installazioni acquistano senso dal dialogo col contesto. Si condensa nel suo lavoro l’idea di una interrelazione tra l’uomo e natura intesa in termini di fusione, ma anche di consapevole utilizzazione. Le sue opere, per quanto progettate all’interno dell’atelier, vivono nell’interrelazione con un contesto, per il contesto per cui sono state immaginate, pensate, realizzate. Il percorso di Angelo Aliga inizia dal contesto e si conclude ritornando al contesto stesso: la materia informe e multipla, in stato di caos, viene reimpie- 11 12 gata e riorganizzata in un discorso visivo per cui essa assume nuove valenze e nuovi percorsi semantici. La ricontestualizzazione tra architetture o nello spazio di un museo crea dunque nuovi percorsi interpretativi, riattivati dal processo di fruizione. La materia è quella, ha la sua riconoscibilità, ma non è più quella che inizialmente è stata adoperata perché nuove forme creano per essa nuovi sguardi e nuovi pensieri. Trovo assolutamente interessante l’utilizzo che egli fa delle pietre all’interno delle forme e strutture in cui le racchiude, come a tenerle a freno: evocando la terra riarsa dei cretti di Burri, assumono valenze cromatiche e vibrazioni luminose che variano al variare della posizione del sole. La pietra si fa scultura, si fa pittura senza rinunciare al suo essere pietra, ma anche il singolo elemento acquista valenza estetica ed espressiva diversa dal suo essere inserito in una trama, in un fitto dialogo silenzioso. Il comporre a secco è il corrispettivo di una frantumazione tonale che rimanda al mosaico, al pointillisme, alla traduzione tattile e corporea di un assunto visivo. Ciò che resta è l’aridità, l’asciuttezza scarna e ossea delle pietre come metafora di un percorso terreno, come l’interrogarsi sul senso ultimo delle cose. Qui alla Galleria Nazionale di Cosenza Aligia presenta un percorso che racconta la sua produzione dell’ultimo decennio: Geometrie della materia, che è l’insieme delle installazioni realizzate in esterno, le sue tavole materiche Senza titolo, e altre due installazioni, In attesa del vento, nel salone e un’altra opera realizzata per la mostra, In/Oltre. Con l’insieme delle installazioni all’esterno, alcune delle quali già realizzate per un precedente progetto nell’atrio borrominiano di Sant’Ivo alla Sapienza nel 2005, l’artista propone una variazione site specific in cui l’arco a tutto sesto dialoga e si interfaccia con le architetture e gli spazi di Palazzo Arnone, nella ricerca di un confronto, di un serrato raffronto di forme, di idee, come a ritrovare nelle forme del passato la certezza del presente. È anche un gioco di specchi, che slitta lentamente verso lo spiazzamento visivo, il rimando ludico e straniante degli archi rossi, di terra, di lance, di pietre, che evocano ed alludono a forme archetipiche ma anche un richiamo verso uno sguardo più attento al contesto. La circolarità rasserenante dell’arco, quasi materna e passionale nel rosso vivo costretto in forzate geometrie, si libera nelle acuminate lance inflitte alla terra in un gesto reiterato che richiama il dolore e la rinuncia come dimensione abusata, ma orgogliosamente rivendicata. Ecco, un altro elemento specifico del suo lavoro, è proprio la dignità e la fierezza come modi di assunzione ed espressione del dolore. Nelle tavole materiche si sviluppa invece la storia di un costante dialogo con la materia e con la sua vita, che attraverso l’arte si incontrano, e che la cultura riesce a far convivere nello sguardo. Il recupero di forme consuete, reinterpretate e riassunte dal quotidiano, nel prelievo di un’operazione duchampiana, appare come un raffinato gioco pop, che utilizza nell’opera non più la consunta bandiera U.S.A., l’etichetta abrasa della Coca, ma attrezzi semplici del quotidiano contadino di una volta, diventate icone quasi per sbaglio. Ecco in questo recupero si coglie il senso del suo rapporto con la tradizione, con l’immaginario di chi ancora non era frastornato dall’intermittenza straniante dei mass media. Anche in questo vi è un elemento di grande specificità: nell’attingere ad un repertorio assolutamente personale, quasi proustiano, ad una gestualità ormai perduta e come si direbbe vintage. Nel mercatino della nostra memoria, nel paesaggio delle cose ferme e desuete, ecco riaffiorare elementi di straordinaria vivacità formale e di grande potenzia- lità espressiva. In attesa del vento presenta poi, in un paesaggio ormai straniante e difficile da connotare, il replicante e mutevole ripetersi di figure, plasmate attraverso il calco dell’artista stesso, come fossero indicative di una condizione condivisa: l’artista, come chiunque, stenta a riconoscersi in una realtà in cui nulla è facilmente individuabile, in cui anche il traliccio di canne si trasforma in una barriera metropolitana. Anche se il suono evoca una natura incontaminata, nulla riesce a cancellare il senso di alienazione, di annullamento di sé, di sperdimento. L’ultimo lavoro In/Oltre realizzato utilizzando una sedia come evocazione di una presenza diventa, nella sua enfasi, quasi emblematico e stigmatizzante della condizione e del ruolo dell’artista: la sedia da sempre rappresenta nella storia dell’arte un elemento di transizione, tra il mondo dell’artista e l’osservatore, tra l’espressione e la sua interpretazione, tra significato e significante: da Van Gogh a Rauschenberg. La sedia è un elemento fisico che invita a partecipare, ad entrare e sostare all’interno di un mondo spesso inaccessibile. Sul confine la sedia è una sollecitazione, una provocazione, un elemento tra due mondi, tra due codici. Anche nel caso di questa installazione si fa proiezione di un modo di interagire, una richiesta di confronto e dialogo. Sta ad ognuno di noi accettare la sfida. 13 Angelo Aligia al Chiostro di Sant’Ivo di Christoph Bertsch … La pietra, che aveva parte nella vita della montagna, nella molteplicità della sua materia e della sua struttura, una volta da lei separata, diventava un elemento morto in attesa del proprio perfezionamento. Giuseppe Penone, 1995 14 Nel gennaio del 2005 il cortile del già chiostro di Sant’Ivo a Roma, sede dell’università romana fino al 1935, è il luogo di un emozionante dialogo tra l’architettura e la scultura. Angelo Aligia, interverrà, avvalendosi dell’architettura del cortile interno, modificandolo e completandolo, entrando in dialogo con la storia e il presente. La materia viva e dinamica della pietra a secco si inoltra negli elementi architettonici e ne assume la forma, spazio preesistente e intervento artistico si compenetrano. Il cortile del palazzo della Sapienza, ubicato nel centro di Roma in prossimità di Piazza Navona e del Pantheon, con la chiesa di Sant’Ivo di Francesco Borromini, meta di ogni visitatore della città eterna, fu costruito in diverse fasi. Il sistema del cortile fu concepito dall’architetto Giulietto Guidetti, l’esedra dal suo successore Pietro Ligorio, mentre tra il 1577 e il 1602, sotto il papato di Sisto V, Giacomo della Porta eseguì i principali elementi costruttivi. La costruzione della chiesa, capolavoro del Borromini, la cui pianta si sviluppa attorno a un esagono, iniziò nel 1642. L’architetto realizza la sua idea guida di creare una continuità verticale lasciando invariata la pianta fino alla cupola. In questo Borromini crea una delle strutture più omogenee della storia dell’architettura, uno spazio centrale di carattere assai dinamico. Il cortile da tre lati è circondato da due piani di arcate con pilastri sporgenti, mentre il quarto lato confina con la facciata della chiesa. La struttura della facciata forma la base architettonica dell’intervento artistico di Aligia. Questa sua opera più recente è frutto del dialogo con la facciata e diventa parte dello spazio circondato da costruzioni. La percezione dello spazio è sempre parte integrata di un’opera architettonica. L’artista, con i suoi interventi sobri, riesce ad articolarla, analizzarla criticamente e modificarla prudentemente. Con pietra reale e riprodotta fotograficamente mette in risalto l’es- senza dell’architettura, fatto che porta a un affascinante dialogo di materie e superfici. Da ormai tanti anni la pietra è la materia principale dei lavori di Angelo Aligia. Le sue sculture, nonché le sue linee di pietre e terra, che segnano allineamenti affini alla Land Art, disegni primordiali eseguiti sul suolo, ci affascinano per la loro chiarezza e semplicità. La pietra come materia dell’arte figurativa ha una lunga tradizione ed è ancora spesso usata nell’arte contemporanea. Sarà stata l’idea del primitivo, del rudimentale, dell’ancestrale insito nella pietra naturale, il suo attaccamento alla terra, a ispirare questi artisti, indipendentemente dai mezzi espressivi formali. Nel caso di Aligia a questo si aggiunge il fatto che nella sua regione di provenienza, la Calabria, come in molte altre aree rurali, la pietra a secco da secoli è onnipresente nell’architettura di chiese, masi e stalle, ma anche come delimitazione del territorio. La pietra stessa nel corso dei millenni della sua formazione memorizza delle esperienze. La pietra è storia, il suo utilizzo come materia artistica significa resistenza, è un elemento emblematico della sfida; dall’altro, già dai tempi arcaici decretò il primo concetto di limite territoriale e recinzione, protegge, delimita e conferisce sicurezza. Aligia si rende conto che con le sue pietre si avvale di un linguaggio arcaico che viene sempre riarticolato. I suoi lavori sono strettamente legati alla storia della sua regione di provenienza, il Sud d’Italia, e comunicano attaccamento alla terra, solidità e senso d’ordine. Sono pervasi da una profonda umanità e, nonostante la loro pesantezza e le dimensioni a volte enormi, possiedono forza cosmica, leggerezza e poesia. Sono il frutto dell’ambiente in cui l’artista vive, della sua regione, del suo stile di vita, del silenzio del Sud, raggiungendo in questo modo la loro autenticità impressionante. Aligia vede se stesso come costruttore, organizzatore della materia inerte della pietra, assume il ruolo di osservatore della stessa nel contesto naturale. Parla di una creatività ingenua, necessaria, per riconoscere i misteri della natura. La pietra non è quindi soltanto intesa come oggetto con proprietà materiali, ma anche come dotata di caratteristiche intellettuali, come memoria della nostra terra. Oltre agli artisti della Land Art sono soprattutto i protagonisti dell’Arte Povera quali Jannis Kounellis, Giovanni Anselmo o Giuseppe Penone che spesso nelle proprie opere impiegano materie naturali e intendono la terra come memoria culturale, un’idea che non è estranea neanche ad artisti come Joseph Beuys e Lois Weinberger e domina numerose delle loro opere. Nel cortile del Palazzo della Sapienza, Aligia realizza una scultura-architettura in cui confluiscono le due discipline. Lo spazio preesistente del cortile con il suo ritmo dominante, al contempo recitato in modo misurato, diviene il protagonista dell’azione artistica. La materia viva e dinamica della pietra a secco si inoltra negli elementi fondamentali del linguaggio delle forme architettoniche, spazio preesistente e azione artistica si compenetrano. Per la sua installazione Aligia utilizza grandi pannelli fotografici che riproducono muri di pietra a secco. Questi saranno incastonati in un arco su ogni piano, “il ribaltamento di un arco in proiezione ortogonale sulla pavimentazione del chiostro, e un piano andrà ad intersecare l’interno del loggiato con la pavimentazione attraversando obliquamente uno degli archi del chiostro” (A. Aligia). Ogni intervento sarà caratterizzato dalla presenza della materia reale e della materia riprodotta. Aligia lavora con pietra reale e finzione, impiega diverse dimensioni della realtà, discute i concetti dell’”aperto” e del “chiuso”. In questo modo la superficie immaginaria di un’arcata, leggermente spostata, come parete purpurea viene posta davanti all’arcata reale, diventando un segno, l’elemento decisivo dell’architettura del cortile con riferimento al committente ecclesiastico. Con questo progetto Angelo Aligia riesce a combinare in modo straordinario la sua personalissima arte di lavorare la pietra con le attuali strategie artistiche. La sua opera nel cortile del palazo della Sapienza affascina sia per l’approccio concettuale stringente che per il gioco sottile tra l’architettura preesistente e l’intervento artistico. 15 Le parole su pietra di Angelo Aligia Il cielo in terra di Giancarlo Cauteruccio 16 Il percorso artistico di Aligia nasce dalla materia scultorea. Dal segno al metallo, alla pietra lavorata, al cemento armato, inseguendo una linea operatva che nel corso degli anni invece che svilupparsi per accumulazione ed elaborazione dell’azione scultorea conduce a un processo di sottrazione. Da una condizione di manipolatore della materia, l’artista assume il ruolo di osservatore della materia nel suo contesto naturale. Non più il creatore plastico nel senso tradizionale del termine ma costruttore/organizzatore del modulo materico inerte, così come la natura offre, per un maggior senso di appartenenza alla realtà. Un immaginario, dunque, che non si risolve unicamente nell’oggetto bensì nel rapporto tra segno e ambiente. In ultima analisi una forma di SCULTURA-ARCHITETTURA, nella quale la pietra come elemento primario diviene modulo dell’archetipo. Da una parte porta con sé tutta intera la tradizione arcaica della costruzione con il sistema del muro a secco, tipico degli insediamenti del Sud italiano, dall’altra sviluppa un procedimento tecnico ingegneristico che permette di attuare operazioni complesse sul piano costruttivo per generare un concreto dialogo tra il “costruito”, la potenza del paesaggio e la forza dell’architettura organica. Ecco dunque il viaggio dentro l’universo del fuori scala, dentro un carattere immaginifico e, perché no, giustamente ironico come segno di leggerezza e consapevolezza nell’offrire un gesto naturale, quasi ingenuo, intendendo l’ingenuità viatico di una creatività necessaria per la conoscenza dei misteri della natura. Non è casuale dunque che di fronte alla bellezza, all’equilibrio e all’imponenza architettonica del chiostro di Sant’Ivo in Roma, il progetto di Aligia consista nell’utilizzazione dello spazio come contenitore passivo di oggetti scultorei, bensì come luo- di Patrizia Ferri go protagonista dell’intervento artistico. Sarà dunque la specificità morfologica del luogo architettonico a guidare il processo scultoreo e non viceversa, le sculture altrove modellate a sottomettere lo spazio alla loro presenza. Ecco quindi l’opera che scaturisce dall’architettura divenendo essa stesa architettura. Ecco la materia viva e dinamica della pietra a secco che si inoltra negli elementi della geometria e ne assume la forma. Spazio preesistente e azione scultorea si compenetrano e convivono in un disegno dinamico e esteticamente forte tanto da cortocircuitare e dialogare al tempo stesso. L’ancestralità cruda dell’operazione di Angelo Aligia è ispirata da un’idea di primitivo e originario: un qualcosa che va oltre la sua valenza estetica e culturale all’interno di quella linea moderna di ricerca elaborata da Picasso e Brancusi che passa per certe declinazioni di Land Art e Arte Povera spingendosi fino a Long e Kapoor. La ricerca di Aligia trasuda di un’umanità profonda che risiede in quell’aspetto di manufatto artistico dalla pregevole tecnica e dalla sapienza manuale, che ne fa un particolare oggetto di poesia radicale frutto di un esercizio visionario a cui l’artista si abbandona, mantenendo altresì un forte contatto con la realtà del mondo. Il suo significato pertanto sta nell’affidare al gesto e alla corporalità, tutta nei suoi termini empirici e pragmatici, la possibilità di ristabilire una relazione piena con il contesto naturale, agendo direttamente in esso, prelevando e ricontestualizzando frammenti di rocce e pietre di varia provenienza: un qualcosa di simile a quel gesto umano primordiale che collocando la prima pietra stabiliva anche il primo concetto di limite nell’appropriazione dello spazio secondo un principio di esistenza. I materiali sono scelti e assunti come veicoli di concettualità primordiale articolata e complessa come fattore biologico unificante, che rimanda all’ipotesi affascinante di originarie radici comuni che tracciano le caratteristiche universali della memoria collettiva sommersa. La capacità di sondare il sommerso ridandogli nuova vitalità fuori dagli ambiti circoscritti dell’intellettualizzazione, è la peculiarità espressiva centrale dell’artista, che ci indica come la riscoperta di paradigmi e archetipi vada letta secondo una dinamica dell’intelletto che, come quella tecnologica, non può che essere all’interno dell’evoluzione globale dell’uomo. Le sculture-installazioni di Aligia – dove la pietra è assunta nella sua peculiarità originaria che ricorda in alcuni casi i cosiddetti “pebble drawing”, quei disegni eseguiti sul suolo con ciottoli allineati – rimandano a un principio creativo attraverso il quale si riprende coscienza dei meccanismi che presiedono alcuni processi fondamentali del nostro modo di essere, simbolizzare e sintetizzare, per cui l’arte non è rappresentazione o sublimazione quanto quintessenza dell’esperienza personale e relazionale, metafora della vita. Per comprenderne interamente l’autenticità è indispensabile conoscere il contesto in cui tutto questo si realizza, una realtà territoriale e culturale di cui è una sorta di prodotto spontaneo, come una di quelle protoarchitetture o quei frammenti di muri a secco che delimitano i campi di un aspro e profondo Sud, quelle edificazioni agresti di pietra locale che emanano l’aura arcaica della notte dei tempi che riluce del riverbero accecante che brucia e riduce all’osso e all’anima delle cose radicalizzando e intensificando sentimenti, pensieri e atti decantati in un silenzio intenso e pesante. La scultura rurale di Aligia, declinata in piccole architetture arcadiche semplici e misteriose, o in monumentali mobili fuori scala, impenetrabili eppure così immediati, assertivi e familiari, è una vera e propria figura icastica carica di una singolare energia, una specie di forza cosmica, quella che lega l’essere umano al modello primordiale di unitarietà che l’ambiente naturale rappresenta, suggerendo in questo senso una sana riflessione. Un qualcosa da intendersi non tanto come atto polemico di contrapposizione netta ai modelli di reificazione, simulazione e artificialità della società telematica, quanto nel tentativo di instaurare un’interagenza di quelle parti del patrimonio visuale originario, recuperate insieme ai meccanismi profondi dei processi fondamentali all’interno dell’attuale sistema di comunicazione, per ripristinare un linguaggio comune in una positiva globalizzazione. 17 Angelo Aligia, ricordare con le mani di Andrea Romoli Barberini 18 Un messaggio non decrittabile interamente per una pienamente proponibile attuazione e pianificazione, ma più che altro valido per le sue potenzialità, più che per la sua luce utopica, per quell’ombra problematica di cui si fa portatore, rispetto a una densità significante che non va interamente spiegata: proprio la stessa, in questo caso, che emerge dalla filigrana complessa che salda la forma al mondo del suo autore, alla sua realtà di artista e di persona e al tempo stesso a quella di ognuno di noi. Geometrie della memoria, ovvero Il cielo in terra è l’ultimo lavoro di Angelo Aligia progettato per il chiostro di Sant’Ivo alla Sapienza, uno dei capolavori della Roma barocca, dove il contrasto di forze e tensioni che fa da nucleo generatore delle architetture di Borromini, condensato nella straordinaria continuità strutturale e dinamica che culmina nello slancio verticale della guglia vertiginosa, viene in qualche modo assorbito e contemporaneamente rilanciato dall’installazione che scompone la complessità geometrica della pianta dell’edificio attraverso la figura dell’arco riprodotto e riempito di materia vera e simulata, rimandando così al principio barocco di coesistenza di realtà e artificio che anticipa di gran lunga la visione contemporanea. Ancora nel nobile solco del recupero del primario, dopo le suggestive sperimentazioni con pietra e terra, Angelo Aligia continua a interrogare e interrogarsi sui temi eterni: l’uomo, lo spazio, il tempo. La ricerca artistica, nella sua prassi, resta per lui il prezioso strumento di riflessione e conoscenza. Da sempre, il suo, è un fare, quasi senza progetto, ma non senza intenzione, che nelle sue fasi di avvio, e solo in queste, presenta più di qualche affinità con certe dinamiche dell’informel decantate e alleggerite della gestualità più violenta e viscerale. Qui, convivono drammaticamente, quasi a contendersi la supremazia l’uno sull’altra, istinto ed esperienza fino a quando, a questo primo approccio, per così dire, magmatico e pieno di incognite, subentra una sorta di blank, un vuoto d’azione che è silenzio, stasi, richiamo alla riflessione dell’artista. E’, quest’ultimo, il momento del pensiero che, se disarmato dell’analisi, rischia il naufragio nella sospensione del giudizio, ma che nel caso contrario può suscitare quelle ipotesi di significato e forma che accompagneranno l’azione dell’artefice, solo ora pienamente cosciente e consapevole, fino alla completa esecuzione dell’opera. Questo percorso, in cui istinto e razionalità concorrono, in fasi diverse, alla realizzazione dei manufatti, proprio per la successione dei momenti esecutivi, sembra dimostrare l’incrollabile fede di questo artista nella virtuosa forza del fare. Un fare, s’è detto, in cui istinto ed esperienza interpretano un ruolo chiave e dettano, tra le altre cose, la scelta del medium espressivo, i materiali, le tecniche. Ed il fare di Aligia, da sempre, coincide con l’appropriazione e la manipolazione degli elementi e della cultura dei luoghi in cui è nato e vissuto. Lo dimostrano le grandi sculture in pietra che recuperano ad un tempo le schegge di roccia e la tecnica tradizionale dei costruttori dei muri a secco, sebbene con varianti imposte da esigenze statiche, o ancora le straordinarie opere bidimensionali, vere e proprie pittosculture, realizzate con le terre dai diversi colori, che Aligia trova nelle colline a ridosso del suo studio e setaccia pazientemente. Un processo di appropriazione, quindi, questo dell’artista calabrese che, come visto, corre sul doppio binario della natura (la pietra, la terra) e dell’artificio (la tecnica dei muri a secco). E che proprio per ciò si presenta ricco di senso ancor prima che venga chiamata in causa la razionalità del manipolatore che pure interviene nella fase, per così dire, conclusiva dell’inerzia del fare, per “dirottare” la forma verso i significati concepiti nella pausa del “vuoto d’azione”. E questo dato, così rilevante, fa resistere alla tentazione di affermare che nelle opere di questo artista manchi un significato a priori perché invece c’è, a priori, un’intenzione di senso rilevabile dalla scelta delle tecniche e dei materiali adottati attraverso cui l’opera si realizzerà. Aligia, non rifiuta i suggerimenti degli automatismi ispirati dal fare e cerca, attraverso la prassi, un ulteriore e più complesso livello di significato che si aggiunge e spesso eclissa quello basilare che risiede nella deliberata volontà di risemantizzare e nobilitare i materiali e le tecniche che utilizza, proiettandoli nella sfera dell’arte. Le sue opere, difficilmente inseribili nei comodi clichè della critica d’arte, vanno pertanto a collocarsi in un territorio ibrido, ma di estremo fascino, una sorta di terra di nessuno in cui convergono e si contaminano processi creativi diversi che richiamano tanto il Surrealismo quanto l’arte Concettuale. In altri termini è come se l’appropriazione duchampiana del ready-made svolgesse il compito di anticipare e preparare il campo alla bretoniana azione senza controllo razionale. Quest’ultima da spendere come ulteriore bacino di possibili forme significanti. Al pari di quanto era avvenuto in passato con 19 Angelo Aligia - In attesa del vento di Angela Sanna 20 la pietra e la tecnica del muro a secco, ora l’appropriazione di Aligia, o se si preferisce l’a priori di senso, chiama in causa la canna e l’antica tecnica dell’intreccio. La scelta, a ben vedere, è coerente con il percorso sin qui condotto perché ricalca l’idea di celebrare la memoria di qualcosa di scomparso (i contenitori di canne intrecciate e la tecnica artigianale dell’intreccio) che apparteneva a una remota quotidianità che fu sua e dei suoi luoghi di origine. Aligia, quindi, recupera e si appropria, rivivendoli direttamente, di tutti i momenti della lavorazione della canna, dalla ricerca delle piante mature nelle zone più impervie, alla pulizia e al taglio delle fibre, via via fino all’intreccio che utilizza non già per creare ceste e canestre ma per realizzare pannelli rettangolari, piani sostanzialmente modulari, facilmente assemblabili per costruire semplici e imponenti volumi regolari. Quanto sin qui detto basterebbe a connotare l’azione dell’artista di un’intenzionalità estetica, ma è proprio a partire da questo momento che inizia, se così si può dire, il travaglio della sperimentazione che si fonda, nel caso in esame, sulla manipolazione dei materiali prodotti con il processo dell’appropriazione. Nell’installazione proposta in questa mostra, il travaglio si è concluso, dopo numerosi esperimenti, grazie a quella sorta di folgorazione che ha colpito l’autore quando, lavorando sull’idea di disseminazione dei volumi realizzati con pannelli di canne intrecciate, nel sistemare le luci, ha fortuitamente colto nella dialettica tra gli oggetti e le loro ombre quell’ipotesi di significato che ha dettato tutti i passi successivi fino al completo compimento del testo visivo. L’opera necessita di un ambiente suo proprio. Lo invade per intero senza ammettere null’altro che la propria presenza e quella di chi ne fruisce che, a sua volta, si troverà come interrogato da una sinestesia in cui immagini e suoni sembrano concorrere alla composizione di un rebus. Il quesito è dato dalla compresenza, in uno spazio comune e praticabile, di oggetti dalla tangibile fisicità (le costruzioni con pannelli di canne), da giochi di luce e ombra (ottenuti con le stesse costruzioni), che evocano una metropoli contemporanea illusoria, e dal fruscio del vento attraverso un canneto. Completano l’opera alcune sedie. Su una di esse siede il calco in gesso di un uomo, il simulacro dell’artista che ad un tempo contempla e partecipa all’enigma, quasi invitando l’osservatore a fare altrettanto, prendendo posto sulle sedie vuote. La rete, complessa e fittissima, di relazioni tra gli oggetti, le luci, i suoni suscita una riflessione quasi circolarmente tautologica sul tempo, sul suo scorrere impalpabile, come il vento di cui si sente il sibilo. Tempo che divide il presente della metropoli, evocata dalle luci, dal passato più lontano, preindustriale, delle costruzioni a canne intrecciate. Una divisione naturale e temibile, questa tra presente e passato, che precede la scomparsa, la rimozione e la perdita di ciò che è più lontano e che pertanto va esorcizzata con l’esercizio della memoria, la riflessione. Memoria che non è solo azione del pensiero ma anche prassi, tecnica che si fonda su saperi antichi. Proprio come quel ricordare con le mani, quel fare virtuoso, che Aligia coltiva quando intreccia le canne. Con l’installazione In attesa del vento Angelo Aligia introduce a Firenze un suggestivo lavoro che rappresenta, secondo lo stesso artista, <<una riflessione sul tempo, sulle corrispondenze, le affinità e le discontinuità tra il passato più remoto e il presente; tra l’arcaico e il contemporaneo>> .1 Aligia, natio della Calabria e residente a Diamante, antica tappa della via istmica battuta un tempo dai greci per giungere da Sybaris alla scomparsa città di Laos, ci fa rivivere queste sue riflessioni, strettamente collegate con la propria terra, attraverso un ricordo d’infanzia radicato nella sua memoria. Quello che lo vede, da ragazzo, concentrarsi sull’attesa del vento, del suo improvviso passaggio tra i canneti, per coglierne i suoni, il fruscio e le manifestazioni più pregnanti. Questa sensibilità verso la natura, ancora oggi intatta e densa di valori antropologici e primari, si materializza nell’ambiente qui presentato, costituito da strutture longitudinali, edificate con pareti di canna pazientemente elaborate e intrecciate dall’artista. Soffusi di luce artificiale, questi edifici formano una città notturna e virtuale che esprime le meditazioni di Aligia sul rapporto fra l’uomo contemporaneo e il proprio territorio. Le canne costituiscono il simbolo più esplicito di questa dicotomia: esili, flessibili e apparentemente fragili, alla mercé del vento e della natura, esse possiedono nondimeno una forza tale da sopraffare anche quella del cemento, disgregandolo sotto la spinta delle loro radici. Nella loro parvenza di grattacieli, primitivi e al tempo stesso metropolitani, queste costruzioni evocano il mutamento e la manipolazione che l’uomo tecnologico impone alla natura piegandola alle proprie esigenze. Lungi dal formulare una critica radicale nei confronti del progresso, di per sé inarrestabile e, per molti versi, necessario, Aligia tende piuttosto a in- terrogarsi sul limite invalicabile oltre il quale l’uomo potrebbe spezzare l’equilibrio, già molto compromesso, tra evoluzione e natura. Il suo impegno sociale, culturale e politico rivela un’attenzione costante a questa problematica, che sottende anche la propria indagine artistica. Nell’ottica di una riconciliazione ideale con l’ambiente, Aligia sottopone le proprie opere all’osservazione e alla partecipazione del visitatore che nell’installazione è invitato a sedersi su uno scanno vuoto, in prossimità di altri, occupati a loro volta da individui, come manichini seriali dal volto di gesso, identificabili con l’artista. Il contatto diretto con questa realtà, insieme arcaica e urbana, primitiva ed elaborata, diventa apparizione tangibile di uno scenario naturale appartato che si risveglia attraverso il suono del vento, dell’acqua, delle cicale, significativamente scelte a evocare la brevità del ciclo vitale. L’uomo seduto e immobile diviene allora parte attiva di quell’attesa del vento vissuta da Aligia da bambino, riavvicinandosi, in un’atmosfera di stupore, alle proprie origini. All’importanza di questo legame con la natura riconduce anche l’homo faber che rivive attraverso l’artista nel video dell’installazione, e che mediante la prassi artistica e artigianale assume valenze di artefice, contadino, costruttore. Al lavoratore del mondo contemporaneo che produce in una dimensione accelerata si contrappone quello che rielabora la materia naturale secondo un lento rituale tramandato nei secoli, pregno di ricordi ancestrali a tratti perfino religiosi. L’artista si introduce totalmente in questo contesto, ricorrendo ad elementi ben noti all’agricoltura – la canna, appunto, usata come sostegno di vegetali o come supporto per l’essiccazione di frutti – e sperimentando appieno le varie fasi di lavorazione della materia prima. 21 Angelo Aligia di Lara Vinca Masini 22 Le operazioni cui si assiste nel video sono pertanto parte fondante dell’opera d’arte, integrandosi ad essa come fatica, manualità, concentrazione, precisione, sapere antico. Aligia sfronda le canne, le incide, le apre, le assembla, le intreccia, le assetta fino a trasformarle nelle strutture che compongono la sua città virtuale. Di questo procedimento serba la memoria, nell’ambientazione ricostruita dall’artista, anche lo scanno, oggetto spoglio e umile da cui si diparte un lungo cumulo di foglie, residuo e scarto naturale delle canne. La semplicità solo apparentemente bucolica di questo insieme invita alla riscoperta di memorie primordiali, verità sommerse, saperi perduti, svelando così diversi riferimenti alla terra d’origine dell’artista, dai miti alle tradizioni popolari e arcaiche. Altrettanti elementi, questi, che potrebbero anche ricondurci alla cultura letteraria amata da Angelo, come quella del suo conterraneo Corrado Alvaro, di cui sembra altresì condividere la denuncia delle costrizioni imposte dalla società dei consumi o da quella, ancora più attuale, della tecnocrazia. Su questa scia, Aligia arricchisce la propria ricerca di riflessioni su varie esperienze culturali che possono incontrare le sue preoccupazioni e sperimentazioni, da Beuys all’arte ambientale, dall’informale materico all’arte povera, fino alla scenografia per il teatro sperimentale, altra tappa estremamente formativa del suo percorso. Tutto il lavoro di Angelo, unito ai procedimenti da cui nasce, sembra del resto costituire il frutto di una performance spontanea e vitale, come indicano, anche, altre numerose opere dell’artista, scabre, materiche e pazientemente elaborate con terra cruda e cemento, bronzo e resina, legno e foglia d’oro. La vicenda artistica di Aligia è dunque il risultato di un impegno dinamico, costante e sincero, in creativa tensione tra memoria e contemporaneità, arte e artigianato, spinta interiore e mondo esterno. Aligia. In attesa del vento, cat. mostra, a cura di Andrea Romoli Barberini, Complesso del Vittoriano, Roma, Gangemi Editore 2009, p. 16. 1 Angelo Questo è un momento particolare per l’arte, dominato da una continua “contaminazione”, da un trascorrere da una disciplina artistica ad un’altra, da un confuso, ma straordinariamente felice fermento, dovuti anche al momento di crisi provocato da un Postmoderno che si è distinto per un nomadismo culturale rivolto a modelli del passato, ripresi troppo spesso in maniera acritica e non riconsiderati in un contesto di attualità. Mi sembra che il nomadismo, nei giovani, si sia trasformato, da quello nel tempo e nella memoria del passato, in fughe attraverso discipline diverse, in una sorta di “memoria del futuro”, così che vediamo, oggi, artisti, architetti, designers, operatori teatrali, ma anche scrittori, poeti, musicisti, scambiarsi, con felice leggerezza, i ruoli, senza, peraltro, venir meno alla propria specificità. Lo si è constatato nei lavori presenti alle due ultime Biennali veneziane, di arti visive e di architettura. Anche la scultura ha seguito un po’ questa routine, perfino quando, come quella di Angelo Aligia, calabrese, è ostinatamente e antropologicamente legata alla tradizione della sua regione, ad una immagine di scultura fatta di solidità, di compattezza, di attaccamento alla terra, di memorie ancestrali, che parlano della difficoltà del vivere in una terra bellissima ma aspra e difficile, da sempre da conquistare con fatica, dolore, tenacia... Egli usa frammenti di roccia, dagli splendidi colori del sole locale, della vegetazione, della terra bruciata, tagliati grossolanamente in forme di una geometria irregolare, scheggiati, naturali, che assembla nella stesso modo col quale si costruiscono i muretti a secco, tra i primi segni dell’uomo a definire lo spazio. Ne derivano i suoi lavori di carattere primario, grandi sfere, quasi analogie di pianeti dispersi, e che ci aspetteremmo di vedere, pur nella loro pesantezza, sospesi in orbite nello spazio infinito, nuovi pianeti deserti; ne derivano anche le sue colonne pesanti, rastremate come colonne doriche, pronte a sostenere enormi trabeazioni. Paolo Balmas, in un suo testo, paragona il lavoro di Aligia a quello di Richard Long, che pure usa frammenti di roccia prelevati dai luoghi nei quali “segna” le sue linee, che sono, peraltro, linee di viaggio, segni di un cammino, di un continuo “altrove”. Aligia non mira, mi sembra, ad un “altrove”, ma ad una stabilità, all’evocazione di un luogo, che è, da sempre, il suo. Già con queste sue opere Aligia “contamina” la scultura, entrando nell’ambito dello spazio architettonico. Ma ancor più egli vi entra, in chiave con le linee inquiete dell’arte di oggi, quando realizza “oggetti”, che apparterrebbero allo spazio domestico, al design di interni (tavoli, poltrone in pietra...). C’è stato un altro artista, lo scultore americano Scott Burton che realizzava, negli anni Settanta, contaminando il concetto di design con quello di scultura e usando materiali per antonomasia “scultorei” (marmi diversi, pietra...), mobili quali Tavolo di onice (con luce fluorescente all’interno), Sedia di roccia, una sedia-poltrona scavata direttamente nel blocco, sconvolgendo il significato di specificità, mantenendo peraltro, ai suoi “mobili”, le dimensioni consuete all’uso. Aligia, invece – e questo, a mio avviso, è il portato più creativo della sua intuizione – realizza i suoi mobili “fuori scala”, per giganti fruitori, provocando un impatto di notevole forza espressiva. Ed è nella sua visione dilatata, anomala, inquietante, di un mondo “altro”, che sta il segno più autonomo e promettente del suo lavoro. Con questo non intendo certo proporgli una linea di operazione preordinata; ma il lavoro che ha svolto fino ad oggi mi fa pensare che sarà capace di portare avanti un suo iter creativo autonomo e aperto, ricco di sfaccettature e di nuove possibilità. 23 A studio da Angelo Aligia a cura di Andrea Romoli Barberini 24 Uno studio immerso nel profumo di un agrumeto posto sul versante meridionale della collina di Vrasi che domina, a Sud, la valle di Buonvicino e, a Ovest, il blu cobalto del mare. Siamo nel cuore della Riviera dei Cedri, sull’antica via istmica tracciata dai greci per collegare il Tirreno allo Ionio, a un passo da Diamante, in Calabria. Angelo Aligia, scultore, è nato qui e dalla sua terra antica, ricca di memorie, leggende e tradizioni da sempre trae spunto per le sue opere, suggestivamente calate in una dimensione di arcaico mistero. Mi accoglie, venendomi incontro lungo la strada stretta e ripida che conduce alla sua casa e al suo atelier, con il calore e la cordialità dell’autentico uomo del Sud. Lo studio colpisce già dall’esterno per la bellezza pittoresca di una costruzione che fa pensare alla casa delle fate. All’interno, oltre ai mille strumenti del mestiere, pietre bianche, non di quelle tonde, levigate dal mare o dal fiume vicino, ma aguzze, spigolose e taglienti come quelle buone per tirar su muri a secco. Completano lo scenario cumuli di terra finissima, passata pazientemente al setaccio: hanno colori che variano dal rosso ruggine al bianco sporco dell’argilla; i colori della terra di quei luoghi e delle sue opere. “Sono le materie prime per i miei lavori – spiega con una punta di orgoglio – le mie sculture a tuttotondo e quelle a parete nascono qui, con i materiali di queste zone che cerco e recupero personalmente. Da queste parti, nel raggio di pochi chilometri puoi trovare terre dai colori diversissimi, quelle più rosse sono le più ricche di ferro. Cercarle è per me una specie di caccia al tesoro che mi porta negli angoli più remoti di queste colline che ormai conosco palmo a palmo”. Aligia si muove nello studio con passi sicuri, nonostante opere e materiali, disseminati un po’ ovunque, complichino gli spostamenti. Da uno scaffale estrae e mi mostra una cartella con schizzi e fotografie. “Si tratta di un progetto importante, su cui ho lavorato sodo e che avevo già in mente da un po’. E’ un’installazione che ho esposto a Roma, al Vittoriano, un lavoro complesso, perfettamente coerente con il percorso della mia ricerca. Dall’inorganico di pietre e terre, come vedi, sono passato all’organico delle canne. Anche se, in realtà, già da tempo sto sperimentando questo materiale”. Il tuo percorso, dai lavori in pietra, che sono per così dire “scultura pura”, è passato a una bidimensionalità che di fatto realizza opere pittoriche con materiali scultorei. Due percorsi, per così dire, tradizionali. Come è nata l’idea di misurarti con l’installazione? “E’ stato il normale sviluppo della mia ricerca. Devo dire che personalmente non bado molto a certi confini disciplinari. Per me l’importante è comunicare il messaggio che ho in mente attraverso i materiali e le forme che sento più mie, che mi appartengono quasi geneticamente. Comunque se vuoi sapere cosa mi ha spinto a realizzare un’installazione, devo risponderti che è stata la necessità di imporre un approccio, una fruizione diversa. Quindi ho dovuto creare un ambiente diverso, più complesso e praticabile dall’osservatore”. Anche in questa tua opera c’è, mi pare evidente, una centralità del concetto di memoria. “Sì, senza dubbio. In tutto il mio lavoro l’idea della memoria ha una grande rilevanza. Questa installazione con le canne è nata dal recupero di un materiale semplice, che si usava molto nel mondo contadino, specialmente nel Sud: la canna appunto. Intrecciandole secondo una tecnica antica ho voluto celebrare un’idea di lavoro che non c’è più. Gli oggetti sapientemente realizzati con canne intrecciate erano molto pratici, leggeri e servivano per tante cose: potevano contenere alimenti come il pane, la frutta e la verdura, agevolavano l’essiccazione dei fichi... Erano di un artigianato semplice ma utilissimo. Ho cominciato a sperimentare l’uso delle canne in diverse situazioni: in opere bidimensionali e tridimensionali, arrivando addirittura a farne delle scenografie teatrali come quella per “Femmina, Fuoco” messa in scena, due anni fa, al Teatro Festival della Magna Grecia, con Ornella Vanoni per la regìa di Giancarlo Cauteruccio. In tutte queste sperimentazioni ho voluto combinare questo mestiere artigianale con l’arte. Anzi, la mia intenzione è stata quella di sdoganare questo materiale dall’ambito artigianale per inserirlo nella sfera dell’arte. La canna mi stimola anche come elemento per affrontare un discorso ambientale. Pochi sanno, per esempio, che questa pianta è in grado di distruggere il cemento, disgregandolo con le sue radici. Sono stati fatti degli esperimenti in tal senso ed è risultato che, dopo aver gettato degli elementi in cemento nel bel mezzo di un canneto, in tempi relativamente brevi le piante riescono a polverizzare e disgregare quanto si presentava in forma solida e coerente. Anche Beuys, negli anni Settanta, aveva iniziato un discorso straordinario in questo senso”. Quali sono state e come si sono sviluppate le diverse fasi che hanno portato alla realizzazione di questo lavoro? “I momenti che portano alla realizzazione di un’opera sono molteplici e può accadere che la sistematicità della ricerca risulti meno efficace dell’intuizione fortuita. Nei vari esperimenti che ho fatto con le canne mi sono accorto che, con un particolare uso delle luci, per certi versi scenografico, si riuscivano ad ottenere degli effetti sorprendentemente spettacolari con le ombre. Sono arrivato, quindi, dopo numerosi tentativi, a trovare qualcosa di interessante. Quell’effetto particolare, trovato quasi per caso, era come se mi parlasse, mi dicesse qualcosa di importante ma che non riuscivo a decifrare pienamente. Intuitivamente avvertivo l’importanza di quella soluzione, ma volevo penetrarne il senso fino in fondo. Ho iniziato a ragionarci sopra, a sviluppare attraverso le canne e le luci delle situazioni quasi contraddittorie. Le strutture di canne intrecciate evocano infatti un senso d’antico, di primordiale, mentre i giochi d’ombra che proiettano sul muro, all’opposto, fanno pensare ai grattacieli di una metropoli contemporanea illuminati di notte. Questa dialettica giocata sulla tangibile fisicità di una semplice e artigianale costruzione e l’illusoria seduzione di una metropoli modernissima, riprodotta dalle ombre delle canne, mi ha sedotto per tutte le possibili riflessioni che suscita al di là delle indiscutibili suggestioni visive che alimenta. Si tratta, in sintesi, di qualcosa che va oltre il facile effetto, del gioco di luce e dell’illusione ottica”. L’installazione, a sorpresa, presenta anche più calchi umani in gesso vestiti con abiti veri… “Sì, oltre ai volumi più o meno regolari realizzati con le canne intrecciate, l’opera comprende tre figure sedute, sono tre calchi miei che ho voluto vestire con i panni che indosso normalmente, l’abito di tutti i giorni per intenderci. Anche la figura ha una postura vagamente arcaica che partecipa all’incredibile salto cronologico che si legge tra la fisicità antichissima delle strutture vegetali e l’attualità metropolitana delle ombre. La figura, il calco, quindi, rappresenta me stesso, l’artista calato nel suo presente che coglie la distanza, di questi due momenti espressi in unico ambiente e fatica a trovare non tanto una via di compromesso senza contraddizioni, quanto la sua giusta collocazione tra le due polarità. Il calco si ripete tre volte, ma questa ripetizione non nasconde significati simbolici, misteriosi”. E’ quindi casuale che ai tre calchi umani corrispondano nove elementi, tre volte tre, costruiti con le canne? 25 26 “E’ una pura esigenza compositiva. L’installazione, di fatto, è una riflessone sul tempo, sulle corrispondenze, le affinità e le discontinuità tra il passato più remoto e il presente; tra l’arcaico e il contemporaneo. Tornando al materiale di base di questo lavoro, che trovo straordinario, posso dirti che per la sua forza e la sua fragilità, la canna può essere interpretata come metafora dell’uomo. Gli oggetti realizzati con questa pianta spontanea, se lasciati alle intemperie non possono durare più di un anno. In passato si utilizzava molto in architettura, era preziosa per i tetti delle abitazioni e ora in molti paesi dell’Est, e non soltanto lì, sta tornando di grande attualità per le architetture ecocompatibili”. A giudicare dalla quantità di foto scattate nelle diverse fasi di lavorazione di queste strutture vegetali, mi sembra di leggere l’intenzione di integrare all’opera, l‘installazione vera e propria, anche il momento esecutivo. Quasi a voler sottolineare con la documentazione videofotografica l’unità indissolubile dell’opera che si compone di una performance che ha nell’installazione il suo esito finale. “E’ proprio così! Devi sapere che la stessa lavorazione della canna si compone di diversi momenti. Tutto inizia dal reperimento delle piante utili per eseguire gli intrecci. Poi c’è il taglio, che deve avvenire quando la luna è calante e il tessuto ha minore quantità di acqua e si deteriora più lentamente. Sono gli stessi saperi che vengono utilizzati dai boscaioli nel taglio del legname. Anche loro seguono le fasi lunari e certe stagioni dell’anno. Per le canne il periodo migliore per il taglio è gennaio o febbraio, con luna calante. Di fatto, lo hai ben colto, si tratta di una performance attraverso cui si crea l’installazione. Per motivi pratici alla mostra esporrò solo il risultato finale e un video con le fasi della lavorazione. Nel catalogo intendo documentare tutti i passaggi della realizzazione di queste strutture. Lo ritengo necessario perché in quella prassi c’è la memoria di antichi saperi artigianali perduti. Quasi un documento antropologico. Questo è il senso delle foto: testimoniare quei gesti, che sono l’opera nel suo farsi, nella sua fase esecutiva. Alla mostra, l’installazione sarà accompagnata da un rumore di fondo che creerà una sinestesia. Si sentirà il suono, il fruscio del vento attraverso le canne. E poi si avvertirà il rumore delle canne secche schiacciate dai passi, quello del taglio e quello, più delicato, provocato dalle mani che le selezionano e le intrecciano per farle diventare l’ambiente semplice e complesso, sospeso tra passato e futuro, in cui ci si trova nel momento, un po’ spaesante, della fruizione”. Per la mostra in programma a Palazzo Arnone, a Cosenza, tornerai a proporre opere in pietra… “Forse è più corretto dire che a Palazzo Arnone presenterò anche opere in pietra, insieme a tanti altri lavori che documentano la mia ricerca degli ultimi cinque o sei anni. Non amo il concetto di mostra antologica, odora di incenso, di celebrazione alla memoria, però non posso negare che a Cosenza ci saranno buona parte dei miei lavori recenti più significativi”. Qualche esempio? “Esporrò, e questa forse sarà la vera sorpresa della mostra, una grande installazione molto simile a quella che presentai al chiostro di Sant’Ivo alla Sapienza, a Roma, nel 2005. Si tratta di un’opera unica e complessa, sostanzialmente una disseminazione formata da più elementi che inserirò nel cortile monumentale di Palazzo Arnone. Questa installazione, Geometrie della materia, nasce dall’intenzione di cercare un dialogo reale con l’architettura. Ti accorgerai subito che le analogie con il lavoro esposto a Roma sono meno evidenti delle differenze per ovvie ragioni legate alle diversità strutturali dei due ambienti. L’obiettivo dell’installazione, a Cosenza come a Roma, è certamente quello di cercare una interazione, per così dire, totale e, nei limiti del possibile, organica, con la struttura del cortile. Per troppo tempo si è interpretata la scultura come una sorta di orpello decorativo dell’architettura, sostanzialmente accessorio. Per operare una integrazione tra le due discipline, giocherò con gli elementi architettonici del palazzo. Farò, per così dire, il verso ai suoi archi, invertirò certi vuoti in pieni, utilizzando i miei materiali di sempre: la terra, la pietra, il legno, l’aggressività allarmante del rosso. Tutto questo creerà degli imprevisti visivi in qualche modo connotanti, pur nella loro provvisorietà. Mi piace immaginare la mia installazione come l’incontro imprevisto di epoche diverse in cui il passato ospita il presente accettandone bonariamente anche l’ironia e l’apparente irriverenza”. Cos’altro andrà in scena a Cosenza? “Un cospicuo numero di opere a parete, quelle del ciclo Terra madre per intenderci. Molte le ho realizzate appositamente per la mostra e presenteranno significative varianti che stanno aprendo nuovi fronti per la mia ricerca. Poi ci sarà l’installazione In attesa del vento, quella presentata al Complesso Monumentale del Vittoriano, a Roma. La presenterò con il suo video, in cui molti potranno riconoscere i luoghi, le atmosfere e i gesti che appartengono alla nostra terra e alla nostra tradizione”. 27 OPERE (pagina precedente) GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 34 GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 36 GEOMETRIE DELLA MATERIA installazione - materiali vari anno 2010 38 39 SENZA TITOLO 180x120 cm - tecnica mista anno 2010 SENZA TITOLO 210x120x19 cm - tecnica mista anno 2007 40 41 SENZA TITOLO 220x140 cm - tecnica mista anno 2009 SENZA TITOLO 220x140 cm - tecnica mista anno 2009 42 43 SENZA TITOLO 180x120 cm - tecnica mista anno 2010 SENZA TITOLO 180x120 cm - tecnica mista anno 2008 45 (pagina precedente) SENZA TITOLO 150x150 cm - tecnica mista anno 2010 SENZA TITOLO 180x120 cm - tecnica mista anno 2010 46 47 SENZA TITOLO 179x111 cm - tecnica mista anno 2010 SENZA TITOLO 197x120x13 cm - tecnica mista anno 2010 (pagina successiva) dal video: IN ATTESA DEL VENTO (pagina precedente) IN ATTESA DEL VENTO installazione - materiali vari anno 2010 IN ATTESA DEL VENTO, particolare installazione - materiali vari anno 2010 IN ATTESA DEL VENTO, particolare installazione - materiali vari anno 2010 54 IN ATTESA DEL VENTO, particolare installazione - materiali vari anno 2010 (pagina successiva) IN ATTESA DEL VENTO installazione - materiali vari anno 2010 56 APPARATI IN/OLTRE installazione anno 2010 ANTOLOGIA CRITICA 58 “[…] Raccogliere delle pietre e disporle secondo forme di ordine che il puro caso non avrebbe mai potuto produrre è un gesto che, se compiuto con intenti estetici entro un contesto adeguato, trascende immancabilmente la sua materiale immediatezza per caricarsi di una certa elementare solennità, una sorta di fattiva evidenza a sfondo rituale capace di evocare insieme l’aurora del pensiero simbolico e quella di ogni reale azione trasformatrice. In questo senso il lavoro di Angelo Aligia si pone indubbiamente sulla scia della asciutta eppure umanissima lezione che ci proviene da un maestro riconosciuto come Richard Long. Con un procedimento simile a quello seguito dall’artista inglese, infatti, anche Aligia preleva dal territorio in cui opera i frammenti di materiale roccioso che poi, senza alcuna alterazione, compone in modo tale da dar vita a configurazioni primarie inequivocabilmente ascrivibili all’“intervento” umano: una parola quest’ultima da intendersi qui nella sua doppia valenza di agire fisico e di proiezione di contenuti mentali. Se quanto detto risulta innegabile è tuttavia altrettanto vero che solo una riflessione su ciò che fa divergere la ricerca del nostro artista da quella del suo celebrato referente può servire a introdurci al suo mondo e meglio comprendere, al di là di una prima impressione, pure piuttosto diretta e pregnante, le motivazioni della sua poetica. Converrà allora, in questa ottica, procedere in maniera per così dire “concentrica”, e considerare i fattori in gioco a partire da quelli di significato più vasto e meno specifico per stringere poi dappresso gli oggetti ben determinati che ci troviamo di fronte, il che equivale poi a dire seguendo l’ordine discendente che va dall’ambiente (il territorio), alla materia (la pietra), alla forma (la geometria dei solidi euclidei) per giungere fino alle installazioni effettivamente realizzate ed esposte. Bene, il territorio cui pensa Aligia, va detto subito, non è un’estensione geografica ancora incontaminata che in qualche modo possa essere fatta coincidere con il concetto di natura, ovvero con quella polarità dialettica che opposta al complementare concetto di cultura sta alla base del pensiero antropologico moderno, è piuttosto una precisa regione non urbanizzata sulla quale l’uomo agisce da tempo immemorabile per mitigarne l’asprezza e ricavarne qualche ausilio alle attività con cui si garantisce la sopravvivenza. In maniera omologa le pietre che il nostro artista utilizza non sono elementi caratteristici di un nobile paesaggio da restituire a esso subito dopo essersene rispettosamente serviti per materializzare i principali archetipi del pensiero visivo e simbolico di tutti i tempi e tutte le latitudini, sono sempre spesso e volentieri ciò che resta al termine di una necessaria fatica come ad esempio dissodare un campo, il preparare il terreno per tirare su una casa o l’estrarre qualcosa di più pregiato da una cava. Le forme geometriche assunte come riferimento ideale, infine, sono sì forme elementari, ma per via della loro tridimensionalità, del loro stare erette, accamparsi nello spazio e relazionarsi con chi lo abita, rappresentano già delle affermazioni di natura architettonica se non addirittura della protoarchitettura. Eccoci dunque dinanzi ai coni, alle piramidi e parallelepipedi di pietre grezze e ineguali che si sarebbero comunque imposti al nostro sguardo e alla nostra stessa fisicità senza altre spiegazioni, ma eccoci anche in grado di apprezzare più a fondo il fascino insolito e quasi commovente della loro modestia tettonica, della loro approssimazione formale, della loro estraneità a ogni ammiccamento seduttivo. Un fascino che non va confuso con la semplice capacità di evocare una vita più povera e sana, ma va riguardato come riprova del contatto che in qualche modo è stato ristabilito tra il nostro sentire e una catena di pensieri, emozioni ed esperienze che ha unito per secoli, all’insegna di un fare concreto e astraente a un tempo, generazioni di uomini semplici e pieni di dignità”. PAOLO BALMAS, 1997 “[…] Una necessità di tipo ordinatore e costruttivo anima il lavoro di Angelo Aligia, il quale preleva anonime pietre collocate nella casualità disordinata, ma pur sempre armoniosa dell’ambiente naturale, per costruire forme come edifici, che non possono essere percorsi o abitati, ma che assolvono all’unico compito di stare nel tempo e nello spazio. Esattamente come le opere d’arte le edificazioni di Aligia stanno e possiedono la forza antica e la semplicità misteriosa di quei muretti a secco nel Sud dell’Italia, che evocano trazzere bianche, confini di proprietà persi nel tempo, caldo asciutto, sole a picco e cicale infaticabili […]”. BARBARA TOSI, 1998 “[…] Angelo Aligia. Scultore che utilizza pietre, con cui realizza frastagliate figure geometriche. Andando in giro per il nostro Bel Paese, vi sarà capitato più di una volta di vedere muretti a secco, segnali di confine fatti con sassi accatastati. Chiaro che proprio questo è il primo riferimento del lavoro di Aligia. L’elaborazione concettuale di questo dato originario, è in quel nuovo ordine geometrico con cui sono disposti gli elementi, e altresì nella nuova contestualizzazione spaziale, che viene determinata con il passaggio dallo spazio aperto e dalla dimensione rurale, a quella generalmente asettica dello spazio espositivo […]”. RAFFAELE GAVARRO, 1999 “[…] Non mi capita spesso di scrivere di un artista che pone la materia (e in questo caso si tratta di qualcosa di primigenio, la sostanza stessa di cui è fatto il pianeta) al centro della propria ricerca. Tuttavia trovo che Angelo Aligia sia inventore di un linguaggio non del tutto estraneo alla cultura delle tecnologie contemporanee. Le pietre di Aligia hanno un fascino che si imparenta con il lirismo muto dei monoliti preistorici, con gli obelischi egiziani e con l’armonia matematica dell’architetturta mediterranea. Il parallelo con le esperienze della Land Art è fin troppo immediato, cosi come il riferimento a una sesibilità terrena, fatta di materia, peso, superfici scabre e luce, che è quanto l’immaginario collettivo trascina, banalmente, con sè nella visione delle regioni del Sud: bellezza e fatica. Mi piace, però, individuare un’ulteriore possibilità di interpretazione nell’impaginato scultoreo delle opere di Aligia, ed è la sua aderenza al tempo presente. Si tratta di un’attitudine mentale che si sviluppa in due direzioni diverse e, solo apparentemente, antitetiche. Con grande plauso dei romantici c’è il senso dell’immanenza, ereditato senza filtri della cultura greca, e assunto da ogni calabrese assieme al latte materno: è quella particolare inclinazione estetica per cui una pietra al sole racconta se stessa, e parla di un presente, continuo e nuovo in ogni momento (le pietre invecchiano straordinariamente bene). La concretezza solare delle sculture di Aligia indica, come il dito di una divinità antichissima, che il momento corrente è l’unico che valga la pena di vivere. […]”. PIETRO GAGLIANÓ, 2006 […] Due grandi pannelli si fronteggiano, dialogano a breve distanza l’uno dall’altro, imponendo al fruitore un punto di osservazione obbligato, a metà strada tra i due elaborati che definiscono l’area di una vera e propria installazione dissimulata dietro la regolarità di un allestimento apparentemente ordinario. Angelo Aligia li ha realizzati entrambi attraverso una prassi che si colloca nel nobile solco delle poetiche basate sul recupero del primario grazie a una acuta, sofisticata manipolazione di quanto appartiene alla memoria dei suoi luoghi di origine. La terra, grigia, argillosa o ancora rossa e ferrosa diventa supporto, sfondo pittorico come solcato, in verticale, dai segni del tempo su cui si adagiano, fusi in bronzo, spinosi e monumentali, ora i rami e il frutto del cedro, ora giganteschi cucchiai di legno dalle forme morbide e rassicuranti, caldi e accoglienti come un utero materno. L’osservatore si troverà al centro di questa suggestiva contesa della memoria tradotta in immagini, ad un tempo attratto e respinto dalla opposte forze, uguali e contrarie, delle polarità del concavo e del convesso (il cucchiaio ligneo e la spina aggettante), del freddo e del caldo (il bronzo e il legno), del dolce e dell’amaro (l’evocazione del miele nel colore del legno e il gusto aspro del cedro, usato in tale accezione anche nella tradizione ebraica in ricordo della schiavitù d’Egitto), in una coinvolgente e insospettabile celebrazione tra reminiscenza e identità. ANDREA ROMOLI BARBERINI, 2010 BIOGRAFIA Angelo Aligia è nato a Maierà (Cs) nel 1959. Giovanissimo, dotato di una spiccata inclinazione per il disegno, si dedica alla scultura, in cui trasferisce l’esigenza di un rapporto con un principio originale e antropologico, come condizione autentica vitale dell’essere umano oltre le differenze individuali e storiche. Le sue sculture precedenti gli anni Ottanta, riconducibili ad alcune esperienze dell’avanguardia storica, si sono sviluppate nel tempo in composizioni più libere e sperimentali. L’area della sua ricerca si colloca sin dagli esordi nell’ambito poetico del recupero del primario cui aggiunge una sensibilità architettonica che lo ha portato a indagare nel mondo delle forme geometriche solide regolari. Nei suoi lavori più recenti, la sua vena di rinnovato lirismo lo ha indotto a sperimentare nel rilievo e nella pura bidimensionalità l’innato senso della natura che ne connota gli interessi poetici sin dagli esordi. Ha preso parte a numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e gallerie private, in Italia e all’estero, realizzando numerose sculture per centri urbani. Vive e opera a Diamante (Cs). 59