(per chi legge, non per chi scrive).

Transcript

(per chi legge, non per chi scrive).
OTTOBRE 2012,
NUMERO
UNO
periodico
quadriennale gratuito
(per chi legge, non
per chi scrive).
Direttore: S.E.Cav.
Amilcare Pachuco.
Reg.
Trib.
di
Sparta n. XX del
12/03/481
a.C.
previa corruzione
degli Efori. Serse è
grande, Serse è il
tuo Dio, Signore
del Cielo e della
Terra.
Ottobre 2012,
numero uno
1 La Copertina................................................................................. di Sgmnaff'o
2 Guarda in basso a sinistra... bravo!
3 Pachuco.................................................................................... di Davide Urgo
4 “Dell'amore e d'altri... no”
5 Correva............................................................................................ di Egestre
6 Pachuco.................................................................................................. di Pit.
7 Frammenti di un discorso amoroso.................................................... di Lady B.
10 Non può fare a amor riparo se non gente rozze e 'ngrate............. di Pit & Pallina
16 Ecco Gesù................................................................................. di Davide Urgo
17 La moglie cuscino..................................................................... di Schizzechéa
22 Violini e pollai, un amore lungo una vita (anteprima)........... di Gennaro Carbone
24 L'Editoriale.................... di S. E. il Cav. Amilcare Pachuco (responsabilità legale di Sgmnaff'o)
se anche tu vuoi insultarci [email protected]
2
oppure evitaci su facebook alla pagina Hey, Pachuco
3
Ok, facciamo chiarezza. Qualcuno, bello brutto o inguardabile o
interessante, t'è venuto vicino, t'ha detto qualcosa, e poi t'ha dato
quest'ammasso di fogli. Ecco, prima di scagarli e buttarli considera che ci si
è lavorato, e tanto: consideralo soltanto, poi sei liberissimo di scagobuttarlo il
giornale, tornare a casa e vagolare per i canali TV o su internet in cerca di
qualche obeso chiagnazzaro checelastamettendotuttaperperderepeso o troia
sbatticulo che ti risparmi la fatica di vivere l'ultimo pezzo di giornata. Oppure,
se proprio non ti costa niente, continua a girar pagine e guarda e leggi. Se ti
dà fastidio che siamo bravi, se è una minaccia per la tua autostima, sappi
che sì, è vero: siamo più bravi di te. Specialmente se hai fatto la Comics, o
hai già esposto, o hai già pubblicato.
palliiiiiina
L'importante, anche se non ci si riesce, è provarci. No, non è quello che hai capito, non sto
blabblando su noi e il nostro lavoro. Si vive per piacere a qualcuno, più che mai a noi stessi,
ancor più agli altri. Siamo, i più, pessimi interpreti di noi stessi. Quel che vorremmo essere,
quello che abbiam paura di diventare, e al
qqqqq
centro noi stessi – ego, ego, ego – pendolini
frenetici tra la paura e l'egoismo. Passiamo
una vita ad escogitare modi per creare
un'immagine di noi stessi che piaccia a noi e
agli altri, a tentare di non far schizzare fuori
ciò che siamo davvero dentro.
Ma, prima o poi, e non a tutti, la verità di
quello che siamo vien fuori, prepotente e
spiazzante, travolge quello che fingiamo di
essere, e il cuscino diventa bollente, il petto
s'apre. La maschera esplode.
PIT.
«Cosa canterò, piccolino, quando
Le nuvole diventeranno grandi
Grandissimi occhi di pianto?»
A questo slancio inutile e insaziabile, distruttore infame dell'edificio razionale,
controllato, quotidianizzante, bugiardo che
chiamiamo vita, abbiamo dato nome
4
AMORE
correva
Correva. Correva e correndo strusciava, macchiandosi. S’infastidiva come una gran dama e
si passava, gettando occhiatacce in giro, con forza una mano sul fianco. E riprendeva.
Riprendeva con una foga, con una lena da vecchia massaia, come un aratro tirato da buoi,
con la pazienza d’una nutrice, a offrire il suo fianco al su e al giù, avanti e dietro, senza cura
dell’ora, senza pensare a nessuna briglia.
Che pensi quando ci dai dentro?
Può sembrare nel darci dentro il momento in cui pensare?
Sei distratto, mi sembri lontano.
Sono sempre distratto.
E muti poi, muti nel rumore del letto e del materasso bianco che cigola.
Correva e le briglie le si erano rotte. Un diavolo, un diavolo questa donna. Armeggiava i più
segreti slanci in quelle gambe ora sudate. Sentivo scorrere dentro lei una tensione,
un’energia da staticizzare i peli delle braccia e da far incupidire l’entusiasmo d’un vecchio
amore che prendeva forza : non era lì la salvezza dalla gabbia, ma le gambe tremavano e i
corpi sudavano.
E questo a volte poteva bastare.
di Egestre
Correva, a lei non sembra potesse bastare niente. Era ingorda e voleva tutto il tempo, tutti i
pensieri, tutte le tue voglie, come una vera donna. E le tempie pulsavano e gli occhi
s’arrossavano mentre lei si prendeva tutto e lui sempre più vuoto, sempre più preso dal cielo
notturno. Lei aveva sempre la pretesa di poter dipingerlo quel cielo.
Buon dio, non puoi esserci solo tu. Perderò tutto.
Perderai tutto, è vero, ma ci sarò io. Ti basterò.
Correva, e doveva bastare? Correva e gli fischiavano le orecchie e gli occhi sfocavano il
soffitto. Lei sembrava rinforzarsi mentre correva, mentre poi lui sbiancava, cercando di
tenere il ritmo perdeva una serie di facce che non avrebbe dispiaciuto perdere, ma sapeva
che, prima o poi, se ne sarebbe pentito. Non riusciva a tenere il suo passo, con i suoi nervi
impoltriti nel tram-tram delle città e di tutte quelle strade in cui ci si poteva disarmare di tutte
le proprie idee.
Pazienza, tesoro, pazienta : camminiamo, teniamoci per mano.
Fai il finocchio adesso?
Correva e correndo strusciava sulle bianche lenzuola. Si sporcava e, semplicemente, non le
interessava, così come non interessava a lui, così come non interessava al lenzuolo, così
come non interessava a nessuno.
5
oscillazioni.
BAM.
mi fai male, cazzo. ti allontani ed inizi a scrivere mille poesie; ma ti dimentichi che alle
scuole medie ci ripetevano in continuazione di non essere retorici. allora prendi una enorme
gomma per cancellare, bianca; ma non ti accorgi che seppure le parole si cancellano,
rimangono trucioli scuri ed un po' di grigio sulla punta. c'è un sorriso, e tu provi a ricomporre
i versi; ma continui a farmi male. ti inizi a nascondere dietro una tenda scura; ma il sole la
consuma ed io riesco di nuovo a vedere quello che c'è dietro. stai zitto, provi a non
respirare. io vorrei tanto che tu urlassi, invece.
ripescando pensieri stupendi in un giorno d'inverno. fa freddo, fuori. anche un po' qui, su una torre distante dal mondo reale non più di trenta scalini. ma davvero distante. forse perché
la finestra lascia entrare un respiro d'aria gelida, mentre tubi blu (mai dipinti, è sempre stata
una promessa) provano a trasmettere calore. mi sa che la loro è un'altra piccola, inutile, impresa impossibile. trecento anni di storia letteraria d'Italia mi fanno compagnia. alla mia destra, fieri, in caratteri piccoli e neri. ho espresso un desiderio, pochi minuti fa. mentre una
fiamma colorata rendeva bruna cenere un foglio di plastica, portandolo verso il cielo per pochi secondi. poi è tornato giù, qualcuno lo ha preso poco prima che toccasse il suolo. in
quell'attimo ha innalzato le mie speranze. io voglio credere che le porti a chi di dovere; che
l'anidride carbonica fuoriuscita arrivi al suo (al mio) destinatario. e che quell'ora diventi tangibile. non posso dire cosa ho desiderato. romperebbe il segreto che tutti già conoscono.
au dessus de la ville.
sopra la città
vorrei volare sopra la città
ed essere più grande della città intera.
nel caos creato, spero di far disperdere questo senso di
delusione. nonseipiùquellapersonachecredevotufossi. ma non provo (per te) nulla di diverso
da prima.
mi fai giocare con la tua bambola? ti prego. voglio metterle la gonna. e la giacca, perché fa
freddo. ma non il cappotto, perché la temperatura è salita un po’. le farò indossare le scarpe
più belle. quelle nere, lucide, con la fibietta. poi giocherò. e la porterò a ballare. metterò la
musica, e ci ballerò insieme. sarà divertente. ti prego, mi fai giocare con la tua bambola?
prometto che la tratterò bene. meglio di come ho mai trattato le mie. è preziosa; ed io me ne
accorgo solo adesso.
non so cos' accadde o perché. da dove venisse tutto quel nulla, così intenso, non si sa. quel
senso di putrida solitudine era evanescente. il tempo occupato troppo portava quasi
tranquillità. non c'era armonia; ma quasi solo note stonate che però, messe insieme,
producevano qualcosa di così particolare da poter essere definito 'bello'. baroque. c'era
stato un incontro, di sguardi, di ricordi. ed adesso tutto scorreva più lento; malleabile. l'unica
vera necessità era non pensare più. tendere.
*
quanta schifosa retorica. scusa, ma io t'aspetto.
Frammenti di un discorso amoroso
di Lady B.
7
Firenze; città d’arte.
Solchi, con passo incerto, vie che hanno mill’anni diverse volte.
Multiculturalità d’occasione, che si concentra in poche strade ed in una piazza.
Un incrocio tra l’imponenza e la rigidità nordica e le cittadine frutto del processo di urbanizzazione del Suditalia; osservi seduto al tavolino di un bar che ti chiede soldi ed un’ironia
che non possiedi.
Vorrei vederti danzare, tra lo spazio e l’aria pulita; sorridere, mentre siedi in un intreccio di
pensieri; già quasi del tutto districato dalla linearità di ciò che hai intorno.
Ma non ti vedo.
Non ti sento; non ti ascolto.
Forse è perchè non ci sei; forse perchè non ho ancora deciso di incontrarti.
In questo momento basta l’aria non troppo calda, il sorriso e qualche sigaretta.
(Malinconia di una domenica pomeriggio d'inizio autunno, che porta con sé un vento
profumato ed il ricordo di fragorose risate. Insostenibile incomprensibilità.)
“Ho paura” disse. “Non devi aver paura” rispose. “Ho paura” ripeté. “Non ne avere, fidati”
rispose, di nuovo. Scivolìo di sensazioni; scivolano come potrebbe scivolare una mano
aperta sulla pelle di qualcun altro, stridendo. Occhi che si cercano di evitare; qualsiasi
incontro renderebbe le conseguenze troppo sconosciute, vestite d'ombra in cima ad una
scala. Rumore di organi; hanno tracciato stradicciole differenti e un po' tortuose, talvolta dimenticandosi di colorarle. “Sorridimi” disse. “Non posso” rispose. “Impara a convincerti che
puoi, promettimelo” disse, di nuovo. Rovinosa empatia; fa cadere dalle montagne più alte,
graffianti e grigie; ti lascia nudo a combattere contro te stesso. Richiesta d'aiuto; silenziosa
si fa intendere tra tende che non fanno passare la luce; ma è restia, spaventosa.
Si può. Nulla ci dev'essere proibito. Ma, spesso, la gente non lo ricorda.
c’è una donna in strada, che piange. seduta all’ombra di un albero solo, e solitario. nei suoi
occhi, se guardi bene, puoi scorgere il dolore. quello vero. è come se ognuna di quelle
lacrime che vedi scivolare sul suo viso spigoloso porti con sé la parola ‘aiuto’. e tu non riesci
a fare niente. se ti avvicini, la vedi allontanarsi. nei suoi occhi, se continui a guardare bene,
anche da una certa distanza, vedi altre due donne. innamorate. una folle d’un amore
impossibile. l’altra quieta, attenta. hanno entrambe mille dubbi. avvolte da acqua salata che
già è scorsa via. portando con sé tempo e ricordi. le vedi allontanarsi, eppure le continui a
sentire vicine. potresti sentire il loro respiro. vedere le loro bocche muoversi, parlandoti.
ognuna a suo modo. ognuna a modo suo. l’ineffabilità di ciò che pensano è irraggiungibile,
per te.
“E’ il tempo che scorre lungo i bordi
Il tempo che scorre lungo i bordi
Ascolta
ogni cosa qui dentro aspetta un segnale
Puoi leggerlo nelle linee della mano
o nei tuoi volti passati appesi intorno”
Lo sentivo scorrere in silenzio, tra un altoparlante gracchiante ed il rumore di rotelline di
plastica sul pavimento sconnesso. Ero immobile, ma tutto intorno a me vorticava come mille
uomini che - improvvisamente - fanno un passo e cadono giù, venti trenta cinquanta metri in
caduta libera con il solo sibilo dell’aria che urta contro il corpo a fargli compagnia. Quello,
però, era un silenzio dilaniante. Urtava contro ogni piccola mia parte; graffiava senza
lasciare segni. Dovevo prendere quel treno. Anche se non riuscivo ancora a muovermi.
Anche se ogni piccolo movimento richiedeva uno sforzo inimmaginabile. Era l’ora.
8
Rimisi il cappello di lana nera, un po’ troppo anni-che-furono. Scelsi il biglietto giusto nella
borsa a tracolla sempre troppo piccola. Tirai su, con uno scatto impercettibile, una valigia
consumata di un colore ben poco definibile. Rimasi a fissare quelle numerose lampadine
arancioni su uno sfondo nero, che per tutti significavano qualcosa, senza davvero mettere a
fuoco. Poche luci in più: binario 15. Da qualche tempo ero convinta che i numeri avessero
un significato, connettessero stati profondi della materia come una concreta analogia
decadente. Il quindici poteva significare l’inizio di tutto, come il più vuoto nulla. Ma non c’era
tempo per pensarci. La valigia e la forza di gravità trascinavano il mio braccio destro sempre
un po’ più in basso; ma era uno sforzo quasi piacevole da sostenere.
Click. Il tempo era definitivamente stampato sul rettangolo giallino che avevo in mano.
Quella data diveniva, così, incancellabile. Era un altro tassello di un mosaico senza forma,
con colori confusi ed immagini mutevoli. Avevo voglia di scappare. Prendere un treno non
me lo permetteva. La mia voglia non era di andare via - io volevo poter allontanarmi da ciò
che c’era. Non uno sguardo distaccato o superiore, non una consunta immanenza:
l’inesistenza. Ma le mie possibilità erano molto limitate, e la mia incapacità di trovare
possibili soluzioni mi rendeva inetta anche alla scelta più banale.
Salii sul treno senza l’aiuto di nessuno. Guardai i binari un’ultima volta, affacciata, sui
gradini in ferro. Sperai - ancora una volta - in un segnale, lasciandomi andare alle più banali
illusioni. Poi nulla; partii.
9
NON PUÒ FARE A
AMOR RIPARO
Attenzione alla sovrastruttura
Allora?! lo guarda, sorriso a metà, di sott' occhi, e non altro che un
altro Allora?! non rispose, ancora. Lo vedi??? frà – cioè... le tue sono
elucubrazioni, voli pindarici, strutture babeliche, tirate ciceroParole,
Micco, paroleho capìììto ma so' parole inconcludenti!! tu vuoi parlare
di aiutare la gente dentr' 'e quartiére, purtàrle ajùto, ma stai
sbagliando, fràààà! Chello ca facciàme nuje ha da riguarda' tutte
quante, amm' 'a piglia' 'o potere polìììtico e quèlle ca tu vuo' salva'je
nun voglio salva' 'nu sfaccette 'e nisciuno!! je vulesseho capìììto!!ma
si nunn aggio manco fernufràààà quello che tu vuoi fare è salvare
perzóne ca pe' mme andrébbere fucelàte... ca so' ttroppo inserite
dentr' 'o sistema!! llòre nun so' ppiù èssere umàne, 'a cultura,
ll'attività umane, 'a cuscienza civile ca tu vuo' purta'me fa schìfo 'a
cuscienza civileho capìììto ma quéste 'a scambiàsseno cu 'nu
motorino nuovo... ma d'altronde è normàle... tu vuoi cambiare le
cose partendo dalla sovrastruttura, sbagli SBAGLI in partèèèènza!!
tu vuo' offèndere a Marx!!senti... ma tuNO MO SENTI: hai ragione
guarda SU TUTTO. ma ti prego: un favore: SMETTILA DI PARLARE
NAPOLETANOma che ddìììììciNO, MI'... a te dà fastidio se uno dice
ma però?? se uno dice se io avrei???... ALLORA?!ma è normàààle... qui si insulta il linguaggio delle
persone che sono deposito della nostra culturae ALLORA, pe' ppiacere, 'nu 'nsurda' 'o pparla' de 'a ggente
ca ttengo 'into 'o coreCHE?!!non insultare il linguaggio delle persone che amo. Disse, e si trasformò in
un'enorme sovrastruttura. Per la precisione, un gazebo. Di Micco il rivoluzionario non abbiamo notizie se
non incerte, non sappiamo niente se non che la rivoluzione ancora non l'ha fatta.
SE NON GENTE
ROZZE E 'NGRATE
10
di Pit & Pallina
a spilinguacchiar girasoli
Ardeva, mercè, sospirava. Liturgicamente.
Viveva. Incazzava di
febbri mendìche, o più stente.
E si compiaceva dei
giochi, tristissima
vegliava a inceder tra stami (senza mai concedermi
partecipare) che spilinguacchiava
sui muri turchini, lugùbri, incuranti
'miei tremuli accenti. Pa
ùra schi
fósa mi sveglio mi
rilavo i denti, raccendo
la plastica del cellulare, rilavo
la guallera i piedi
le ascelle
bonsgiùr tulemònd. suona. il cellulare. solita: settembre è già qua, – Marco,
non sei venuto? – signo' non ho più avuto la telefonata, e perciò non ho
messo la sveglia, scusatemi, vi ho mandato un messaggio. – Ma non ti dovevo confermare se dovevi venire o no io ti dovevo avvisare se la
lezione
tu e Federica la facevate in ufficio vicino casa tua così non ti facevi un'
ora
di viaggio sotto al sole o venivi a casa mia Marco l'esame è tra pochissimo io non so come – signora ci vediamo oggi alle cinque? – sììì sì vabbèèène ma io adesso sto a casa mia e devi venire qua... con mezzi tuoi mi
dispiàààce... io ti avevo detto ieri s – va bene a più tardi buona giornata. clic, più o meno. stracazzo, ma
quanto mi sta sopra il cazzo ma scendile da cuóllo a 'sta figlia, fossile di una vacca in calore ma vivi.
'mmamìa fratacchió, malepanza. ouhà, 'sto cesso. 'n ci sta 'n dilandòg. no no no. senza, io non cago.
uuuno a caaso cazzo, a memoria lo so. dio cazzo, 'n c'è tempo va bene 'sto qui se no immerdo il quartiere
cazzazzazzazZZZZ – AOWUHUAAAH... cristo. sono solo. non sta più con me. mai ppiù mai ppiù
maippiooOUHWAUH... 'st' era grossa. non studio. non scrivo non rido. non suono... diocazzo... con te era
la balla che illudeva perché credeva a se stessa, era forte e perciò riusciva a straziare, a fare uscire il
sangue. il dolore della tua balla mi manteneva sveglio. al riparo da me stesso. potevo darti la colpa di tutto:
le mie sconfitte, le mie mancanze, i miei brufoli sul culo pallido. non ci sei più tu, a provare a uccidermi per
salvarmi dall'orrore della mia libertà senza speranze. al loro posto tu, falsa speranza, morbida e bianca,
hai cercato di bastare a me più che a te stessa senza neanche accorgerti di quello che stava succedendo.
senza volertene accorgere. addio, anima mia. siamo stati i peggiori attori di noi stessi. raccogli, per quanto
vuoi, puoi, sai, il tuo sangue. il mio, come ho sempre fatto, così come ti aspetti, te lo lascio lì, nella gola,
sotto le unghie. non voglio alzarmi, non voglio studiare, non voglio suonare scrivere lavorare la mia balla
non strazia perché lo sa che non è reale, lo sa che l'unico suo prodotto naturale è menzogna. è merda.
affanculo, non mi alzo, resto qua.
tutta la giornata a riprodurmi
nel cesso.
«Dasìdo» le uscì con il vezzo
di femmina, io le passai a cuore stretto
quanto rimaneva di me, e 'n fazzoletto
(guardo le gambe strette nel jeans stretto,
ma non come sempre... ma non come sempre...
le cosce. mi s'indura il pezzo
ma non come sempre – cioè: non sessualmente
la stringo, anelando 'l mio corpo 'l suo corpo
Cico e
quanto poté imprimere l'anima ai sensi
di sordo tremore, di flebil tormento
Claudia
e quanto strapparle potei dal vestito
quel torbido, torbido voler piacere
per forza
a qualcuno
gli disse Francesco mi dici che abbiamo sbagliato? A vivere, penF r a n
c e s c o...
sa, ma grida a provarci, cazzaccio di Dio, ma dov'è che... com'è
che 'ste cose l'hai tenute dentro per tutto 'sto tempo? e tutto 'sto
tempo tu m'hai... cioè – violenza m'hai fatto capito? Francesco
Francesco io non so, adesso, che devo dirti. E qui Cico capisce: ci
stiamo lasciando ci stiamo lasciando è sicuro non c'è un cazzo niente
che porti altri fatti e non questo Claudia, ma in che senso? Ma cosa
in che senso? Ridicola!!! tu tu TU MI STAI LASCIANDO!!! Francece... sco... calma... E chi vuole di' niente?!... ma no, Frànce, aspetta,
aspe', fammi parlare... ma non avéi detto 'on ho niente da dirti, non
avevi de-Frafrancesco checcazzo!! e falla parlare un pochino la gente
tu sei tu sei sempre tu l'inteliggènte? Io voglio soltanto che tu ed io
parliamo, che si smette con tutto 'sto... non capirsi, ecco... perché poi
io parlo e tu t'arrabbi e mi fai arrabbiare pure a me, e si finisce
Claudia!... cioè, Claudia io tu stavi dicendo una cosa precisa, è inutile
fa' 'sti preamboli così – dico... – sciacqui, tu... Francesco, vedi, lo vedi
come fai? Claudia è inutile, guarda, attaccarsi alla forma tu nella
sostanza stai dicendo BASTA CON LO STARE INSIEME, poi... se io
m'incazzo o mi faccio i balletti ma scusa che conta?! Cioè... vedi?!
non parli!! tu... non parli... ALLORA????
Non piangere, dai...
ma chi cazzo che piange??? ma
Francesco... basta. Se non parlo è perché ogni cosa che dico tu mi
salti addosso e non mi fai finire e poi piangi e nemmeno
ma
NON
STO
PIANGENDO!!!!
'sto cazzo di DIO!!!
12
Francesco FRANCESCO! sto dicendo che tu
nemmeno capisci in che senso io dico di
prenderci una pausa FRANCESCO!!! Lasciò
Claudia sopra a Bellini, sicuro esser niente e
voltarsi e restare. Guardava le cazzo di chiome
degli alberi, sì da costringersi a stare a test'
alta. E Claudia, non venire appresso,
nemmeno chiamava. Lui passa oltre l'angolo.
Manco chiamò.
13
Peppe
Oggi non mi metto a studiare per niente. Ma proprio col cazzo che l'apro 'sto libro. È inutile che ci si mette a
pressarmi il cervello, che poi – poi che fa? Quest'esame è sicuro, sicuro un giochetto. E pure se mi viene
male è impossibile proprio che va proprio il cesso. Che quello si può sempre poi rifiutare; male che mi vada
io lo faccio a settembre e in quel caso c'ho pure un bel mese di tempo e col cazzo col cazzo che mo mi ci
metto. Mi rompo mi scoccio che ci posso fare? il telefono? Il mio. Ma dove cazzo sta... porrrca! Ecco. Ma
e silenzio – un respiro nemmeno. Poi ma stai a telefono?
No... no. Dormivo – cioè... m'ero svegliato e poi stavo nel letto... ma
ué mo le tolgo il telefono a mamma e ti chiamo. Stai a casa?
Ma stavi dormendo?
No. Vabbuo' alla fine m'ero già svegliato non ti preoccupare, io
No ma se stavi dormendo ti chiamo più tardi davvero Giu
Gianna t'ho detto STAI A CASA?
No... e di nuovo zitta. Mi piglia madonna mi piglia 'na rogna: io lo so mo lo dice mo sto da Riccardo... porco
schifo mondo di merda!!
Ah...
14
e – vabbuo'...
dimmi.
Ci stava Vorzillo che voleva fare il lisìng. Porco dio, quant'è uguale.
e avevo un travone di cazzo, gonfio manco male, GO BABY GO-FUMME!! scoppiavo di sangue.
mi tenevo il medio all'inciuccio, lo straggo, poi là, tutto dentro nel bùcio, TAKE BITCH!!,
questa grida. fa male? che? dici di no? mo lo vedi, se urli, troione, hehé. mi ci ficco. ti ci vengo
dentro. manco te n'accorgi. non capirai un cazzo. avvicino il naso ad il bùcio due mani e le
stringo le afferro le pacche, stringo, apro, MADÒÒÒÒ!!!, ci do tanto di lingua e pure nel fetillo
di 'sto porco dio. ci sto. eccomi vai con il suka yessSSDEEENCH!! dai di nerchia, cumpà. ci
sto, baby, ci sto mo mi senti. troione. troione. mo vedi. un minuto. non capirai niente. puttana.
ti sbrodolo, che non ci credi? ma non te lo dico. te n'accorgerai quando per tanta sborra
piglierai l'ombrello. diocane, l'ombrello. ti sfondo. un minuto e... ti... cazzo d'un dio che t'ha
preso... che l'eri un drittone eri 'n albero DAAAIIII che si drizza di nuovo... TI SFONDO, TI!! 'n
attimo, che si ridrizza... o dio ma che fa, questa – che??? l'ha capito. l'acchiappo le reni «CHE
FFAII???» dio... più calmo, l'ho fatta zombare «OOooh... baby... ti giri proprio sul più meglio?
hweoùùff... c'era pronto un World-war paradisoooufff... tutto... nel tuo culo...» stop... stop. non
c'è fiato – devo... respirare... dio-cazzo d'un dio... lei sta lì, metà pecora e metà più barbie, col
culo qui a me ma la schiena incurvata a voltarsi e guardarmi. l'ho io bloccata così, così
sgraziata. così ridicola. due passi indietro di ginocchia, poi braccio sul letto. ma piano, però.
so' una vacca, dio cane. pie' a terra: sinistro, vai: destro. m'alzo, sorrido fintissimo, la guardo.
il guarda. lo guardo pur io: pare fottersi, lui, di noi due, lì a fissarlo due folks dell'old west
nella piazza-patibolo appena impiccato, attoniti, indifferenti: lì, pènzolo, sta e se ne fotte, se ne
fotte, se ne fotte.
[qui accadrebbe che Elvis si deprime, scazza, rottincula, piglia la coca e insorca la peggio
pippata della sua vita. infatti, ci muore. ma la situazione, la storia: è deprimente, insomma:
non ho più la forza né la fantasia di raccontarvelo.]
15
LA MOGLIE CUSCINO
di Schizzechéa
17
18
21
Violini e pollai, un amore lungo una vita
Anteprima, il racconto completo è su www.heypachuco2012.wordpress.com
di Gennaro Carbone
Prefazione
Francisco Malakjiev (Stoccolma
1902-Benares 2000) è passato
alla storia come lo scrittore più
sbadato di tutti i tempi. Dei suoi
lavori giovanili restano pochi
miseri raccontini adolescenziali
e, di ben altro spessore, i geniali
testi per tabelle oculistiche,
composti nell’ottobre del 1920.
Cosa dire invece di Violini e
pollai, un amore lungo una vita, il
mastodontico libro cui lavorò per
oltre sessant’anni e che avrebbe
dovuto consegnarlo al pantheon
dei migliori autori del
Novecento?
Malakjiev decise da subito di
lasciare inedito il suo capolavoro
sino a che non fosse stato
ultimato.
Mai scelta fu più infelice. Delle
oltre sedicimila pagine
manoscritte (Malakjiev odiava i
computer) ci sono giunti solo 5
minuscoli frammenti,
pregevolissimi certo, ma che
proprio per questo lasciano
l’amaro in bocca ai bibliofili come
Dell’Utri, i quali non possono non
pensare a cosa avrebbe potuto,
e anzi dovuto, essere l’intera
opera. Quasi tutto il materiale
perso andò in fumo nell’incendio
della casa di Benares appiccato
da un disgraziato fiammifero
dello stesso Malakjiev. 24
capitoli furono nascosti sotto
terra quando ancora l’autore
temeva la censura paterna e mai
più ritrovati dopo il 1999. Infine
tre capitoli furono divorati dal
primogenito di Francisco,
Bennihouana Malakjiev, che poi
sarebbe diventato il poeta che
noi tutti leggiamo e ammiriamo.
Nell’estenuante narrazione
diaristica dell’amore di Ciro e
Ivana avrebbero dovuto confluire
sia le banalità borghesi del
romanzo millefoglie stile
Arbasino sia la monotona epica
quotidiana di memoria
bertolucciana.
Purtroppo non ci rimane che
leggere i brani superstiti e
rammaricarci.
Eridano Garronzo
22
Cap. 2, pag. 157 e segg.
[…………]
Mezzogiorno. Il sole si imbucava fra le nubi
spesse con luce incerta e poco rassicurante
come il sorriso di un bancario alle prime armi
che tenta di spacciare bond argentini parlando
di Maradona.
Lungo la riviera del Volturno due sedicenni
eterosessuali, un maschio e una femmina,
entrambi un sesso alla volta, passeggiavano
mano nella mano. In alto, oltre le sbarre del
parapetto, il cielo era un lingotto satinato; privo
del consueto nitore, molestava la vista dei
giovani. In compenso però l’afa non difettava
affatto, ma soffiava forte sulle loro facce
affrante sferzando, fra infinite sofferenze,
perfino il fiato dei due fanciullini fraternamente
affiancati.
– Come hai detto che ti chiami? – chiese lei
tutto a un tratto.
– Uffa! Mi chiamo Smerdiakov, ma gli amici mi
chiamano Ciro, – rispose lui con tono
cantilenante.
– Smerdiakov?! Che nome bislacco! Com’è che
te l’hanno appioppato? E perché mai sbuffi?
– Aridàglie! Mi hanno chiamato così perché mio
padre adorava i Fratelli Karamazov ma aveva
gravi problemi di autostima. E sbuffo perché è
la terza volta che te lo ripeto.
– Ah, scusami. Ultimamente soffro di amnesie
temporanee di breve durata e oggi ho
dimenticato di prendere le mie pillole.
– Sì, l’hai già detto, –
ribatté laconico
Smerdiakov mentre adocchiava un sampietrino
divelto poco distante.
– Già... ehm, – la ragazza si guardò attorno
spaesata, poi parve riprendersi – comunque io
sono Sgualdrina. È colpa di mia madre se mi
chiamo così. Si supponeva che avesse
problemi di autostima, in realtà spasimava
semplicemente per il cazzo. Comunque chi mi
conosce mi chiama Ivana, suono il violino e
faccio volontariato.
– Sì sì, so anche questo, mio malgrado. – Ciro
Smerdiakov era ormai sconsolato.
– Ti ho mai detto che suono il violino?
– Oh, Cristo!
Lungo la riviera del Volturno due sedicenni
eterosessuali, un maschio e una femmina,
entrambi un sesso alla volta, passeggiavano
mano nella mano; la luce era grigia e il clima
afoso, se nel frattempo aveste avuto un’amnesia.
Non la giornata né la ragazza ideale, quindi, per
un appuntamento. Ciononostante Smerdiakov
non perse il suo proverbiale ottimismo bucolico.
– Tu mi piaci, Sgualdrina.
– Oddio, dimmelo ancora.
– Dirti cosa?
– Dammi dei nomignoli sconci, fammi sentire
sporca.
– Ma Sgualdrina è il tuo nome!
– Ah, già! Dicevi?
– Tu mi piaci. Mi piaci un sacco. Quando ti ho
visto a scuola per la prima volta ho pensato:
«Capperi, che tonno!» Poi mi sono vergognato,
ti giuro, mi sono vergognato tantissimo, perché
mi sono ricordato dei tuoi occhi: erano dolci
come quelli di Clementina, la mia bufalotta
preferita. In quell’istante ho capito che volevo
mungerti e avere tanti figli con te.
– Davvero? Lo sapevo che sotto quel broncio
bretone si nascondeva un cuore tenerissimo.
Abbracciami, vecchia canaglia! – disse con
occhi da cerbiatta Ivana che ancora non aveva
ben chiaro chi fosse quel tizio.
Allora Ciro, vincendo la sua atavica timidezza,
la strinse forte a sé. Forse un po’ troppo.
Ivana aveva il volto immerso nel torace di Ciro,
compresso fra le su possenti braccia abituate
più alle stalle che alle donne. Chissà se in
quell’eccessiva dimostrazione d’affetto ci fosse
anche una puntina del residuo risentimento per
le precedenti incomprensioni ma, cristiddio, era
come vedere un capibara nella morsa di un
anaconda. Sgualdrina rischiava di morire
soffocata.
– Ciro, rischio di morire soffocata, – biascicò lei
per l’appunto.
– Ah, scusami. Pensavo a Clementina; è così
che si abbracciamo i bufali: forte forte, altrimenti
si sentono presi in giro. So molte cose sui
bufali, sono molto più simili a noi di quanto si
creda. Scusami, sono molto nervoso, e quando
sono nervoso parlo di bufali.
Si guardarono a lungo e si sorrisero
imbarazzati. Avevano capito di avere molte
cose in comune.
Entrambi erano insicuri, come normale a
quell’età, entrambi minorati.
– Accidenti, s’è fatto tardi, – constatò
Smerdiakov/Ciro sul suo orologio, – cosa farai
oggi?
– Penso che mi eserciterò col violino. Sto
imparando a suonare Nella vecchia fattoria.
– La mia canzone preferita!
– Lo immaginavo! E tu, cosa farai?
– Beh, dalle due alle quattro pulisco il pollaio,
dalle quattro alle otto studio, dalle dieci a
mezzanotte mungo le vacche e da mezzanotte
alle due ti penso, te lo giuro.
– Sei dolcissimo!
[…………]
Cap. 38, pag. 1480 e segg.
Drin Drin! Squilla il telefono, risponde
Ciro.
– Pronto, chi è? Cosa? Non capisco
niente. Che? Quando? Oh santi numi,
parli più forte! Da quest’orecchio sono
quasi sordo! Oh, al diavolo!
Il solito Smerdiakov. Ivana invece
negli ultimi tempi si comportava in
modo insolito. Da quando era rimasta
incinta, specialmente dopo il parto
degli undici gemelli, voleva sempre
fare sesso. Sempre, non pensava ad
altro. A parte il violino ovviamente.
Sempre sesso e violino, sesso e
violino, scopava e suonava, suonava
e scopava. A volte suonava persino
mentre scopava. Sì, quando Ciro,
esausto dalle mille fatiche che si
sobbarcava per il bene della fattoria e
della famiglia, non riusciva a fotterla
con violenza, come lei ormai amava.
Ma il povero Ciro non aveva colpe.
Ivana era diventata insaziabile e certo
la sua stazza non facilitava le cose.
La
gravidanza
le
aveva
completamente sformato il corpo
moltiplicandone il volume. Pesava
132 kg e tutto l’immenso amore di
Ciro spesso non riusciva a farsi largo
fra quei prosciutti sudaticci e quelle
pieghe insidiose come sabbie mobili.
Con la voluttà era cresciuta anche
l’arroganza di Ivana.
– Vieni qui, pezzo di merda, sono le
sei e un quarto. Mi devi una scopata o
sbaglio?
– Ma ho finito di scoparti appena venti
minuti fa!
– Cos’è, il tuo uccello non regge più i
ritmi dei miei ormoni? Sarà meglio
che mi cerchi un altro. Sì, un amante,
un bel fustacchione cazzuto mi devo
trovare, – il che per altro non era
improbabile, almeno lì, a Pontelatone,
un paesino di campagna con più
bestie che uomini, ma in cui gli uomini
erano molto più bestiali delle bestie.
– Ti ho spompato, non è vero? –
proseguì.
– No, è solo che dovrei…
– Tu mi trovi grassa, è questa la
verità. Ti faccio schifo, non è vero? –
disse il piccolo cetaceo fingendo di
singhiozzare.
– Ti dico di no. È solo che…
– Ma vaffanculo, sei proprio uno
stronzo rottinculo, – e dicendo così gli
lanciò addosso un posacenere di
marmo che lo schivò per un soffio, –
adesso vieni qui e leccamela,
coglione!
– E va bene, te la lecco.
Ma un giorno Smerdiakov dopo
l’ennesima
angheria
decise
di
vendicarsi.
– Ciro! Ciruzzo caro! Stronzetto! Vieni
qui, raus! Sono le 8 e tu me lo ficchi
nel culo, ah ah ah, non è così?
– Ma sto cercando di fissare un
chiodo al muro delle scale per
appendere la foto.
– Quale foto?
– Quella in cui ci siamo io, tu, la prole
e la fattoria che fa da sfondo.
– Ma non dire stronzate! Vieni qui e
inculami. Subitooo!
– Oh, Cristo! Giuro sull’onore delle
mie anatre che oggi l’ammazzo, –
soliloquiò a mezza voce Ciro. Si recò
di corsa in camera da letto.
Ivana lo aspettava a pecorina col culo allargato
dalle mani, già pronta a farsi iniettare una
siringa di nefando e viscido piacere.
– Ce l’hai fatta! Forza, dacci dentro, maschione.
E mentre divaricava al massimo i turgidi quarti
di luna un pipistrello sbozzolò dal fetido ano
dove
si
era
improvvidamente
infilato
scambiandolo per una grotta. La misera
bestiola volò via impaurita a tutta velocità
picchiando più volte sulle pareti, su cui rimasero
impressi per sempre i lugubri calchi marron del
suo corpo smerdato. Alla fine riuscì a
imboccare la via della finestra e riacquisì la
passata libertà.
L’episodio non turbò Ciro né scompose la
bramosia di Ivana.
– Ho sentito un formicolio al culo. Me lo stai
leccando? Che stai facendo?! Sbrigati a
penetrarmi o mi metto a suonare!
– D’accordo, puttana.
Ciro estrasse con veemenza il creapopoli dalla
patta e profferì: – Adesso te lo faccio vedere io,
brutta mignotta!
– Oh sì, continua ad offendermi; mi fai arrapare
tantissimo!
– Ora ti sfondo, puttanone stronza zoccola
pompinara, ti sfondo!
Un ghigno mefistofelico allignava sulle guance
polpute di Ciro che cercava di incunearsi nei
meandri del laido sfintere.
– Oh, sì, sì, dammelo, dammelo! È tutto mio,
sì? È tutto mio! Oddio sfondami, sfondami,
disoppilami le viscere. Mi fai sentire una troia
quando mi sbatti e dici così. Sono un troione,
non è vero?
– Sì, sei una grandissima troia!
Anche Ciro si esaltava in momenti del genere.
Del resto come biasimarlo? Erano le uniche
occasioni che aveva per rispondere agli insulti
quotidiani senza doversi sorbire la ritorsione di
qualche canzoncina stonata che Ivana era
capace di strimpellare per ore intere sul suo
violino.
– Allora lo sai quello che sei tu? Sei una troia?
– Sì, sono una troia, scopami, sono una troia!
– Brava, ripetimelo ancora.
– Sono una troia!
– Dillo più forte!
– Sono una troia!!
– Più forte, cazzo!
– Sono una troiaaa!!!
– Non ti sento!
– Sono una troiaaaaaaa!!!!
– Non ti sento! Urla!!!
– Sono una troiaaaaaaaaa!!!!!!
– E adesso alza le mani e dici ò-oh! Dici ò-oh-ò!
– Cosa?! – Ivana si voltò di scatto sbigottita.
Anche Ciro però fu sorpreso dalle sue stesse
labbra. Per lui fu come cadere in un fosso e
trovarci una torta, avrebbe detto Alessandro
buon’anima. Tuttavia, impettitosi come non mai,
prese la palla al balzo: la vendetta è un piatto
che va servito freddo e Ciro non aspettava altri
commensali.
Trascinò Ivana per i capelli sino alle scale che
conducevano alla cantina, le fece scendere un
paio di gradini e le intimò di fermarsi proprio
all’altezza del chiodo che stava martellando
poco prima che la troia esigesse il suo pegno
anale. Un uomo tuttofare come Ciro non
dimentica mai il suo dovere. Afferrò Ivana per le
tempie e le adagiò la nuca sulla capocchia del
chiodo.
– Che cosa vuoi farmi, pazzo? – gridò la
sventurata.
– Taci, Sgualdrina! – rispose Ciro; la chiamava
Sgualdrina quando lo faceva arrabbiare, ma lei
non parve capire.
– Oh, sì! Insultami ancora, ti prego!
Ciro sfruttò l’equivoco per tranquillizzarla, le
bloccò entrambe le mani con le sue, si sollevò
sulla punta dei piedi e cominciò a scoparle la
bocca come un ossesso.
– Ti piace, eh, troia? Cos’è, ora non parli più? –
disse ridendo beffardo.
Ivana era terrorizzata. Non riusciva a respirare,
né intuiva quale strano disegno si celasse
dietro gli occhi pulsanti e infuocati del marito.
BANG- BANG- BANG- BANG!
Ad ogni colpo dell’incessante ventre di Ciro la
testa di Ivana martellava il chiodo facendolo
penetrare sempre più in profondità.
– Vengoooo! – Nitrì infine Ciro sborrando in
bocca alla moglie semisvenuta Poi, impassibile, la lasciò ruzzolare pesantemente giù per
le scale.
– Uhhh! Ben ti sta! – disse traendo un grosso
sospiro.
Ripresosi dalla colossale sborrata andò in
cucina e tracannò mezza bottiglia di vodka tutto
di un sorso.
– Ah, già! Il ritratto, – rammentò a se stesso.
Afferrò il quadro dal tavolo su cui l’aveva
lasciato e, finalmente, lo appese al chiodo.
– Ah, ora sì! Che bella! – Ciro era soddisfatto.
La foto era al suo posto, vendetta era stata fatta
e l’inedito martello nucale-penieno aveva
funzionato alla perfezione.
Poté quindi fumarsi una sigaretta in santa pace
e andare a dormire, sfinito, nel fienile.
[…………]
Cap. 233, pag. 15816 e segg.
[…………]
I due passeggiavano mano nella mano come
da ragazzi, ma senza amnesie. La crisi di
mezz’età era ormai un pallido ricordo. Le molte
gioie successive avevano cancellato gran parte
di quegli aspri battibecchi, l’arteriosclerosi
aveva fatto il resto. Il laghetto ameno alle spalle
del golf club di Grazzanise riverberava una luce
dolce come un unicorno rosa che mangia miele.
Lungo le sue sponde cinici e arzilli vecchietti si
divertivano a nutrire i piccioni. Gettavano loro
briciole di pane raffermo, prima più lontano poi
sempre più vicino alle panchine su cui stavano
seduti, aspettavano pazien-temente che i
pennuti si avvicinassero gradualmente e si
convincessero della bon-tà di quei rugosi
sconosciuti, e quando arri-vavano a portata di
sandalo POW! botte da orbi.
– Ehi, coglione! Nessuno dà niente per niente a
questo mondo. Prima lo capisci, meglio è per
te! – disse uno di quei deliziosi vecchietti
rampognando un piccione rintronato a cui
aveva appena scoperchiato il cranio.
– Oh, non sono adorabili?! – esclamò Ivana. –
Fra un paio d’anni vorrei stabilirmi qui anch’io e
imparare la loro saggezza. Insieme a te,
ovviamente. Ti piacerebbe?
Ciro era piegato in due dalle risate e dalla
gobba. Proprio in quel momento un piccolo
bolide, bianco e sibilante, si stampò nella sua
bocca spalancata.
– Bucaaaaaaaaa! – gridò Ivana. – Cioè voglio
dire: Ciroooooooooooo! – e in tutta fretta gli
praticò con successo la manovra Heimlich.
Ma la pallina da golf, sputata in alto da Ciro,
compì una strana traiettoria e finì nella gola
di Ivana.
– Agh, agh! – era blu, stava soffocando.
CONTINUA SU
www.heypachuco2012.wordpress.com