La notte in cui ci siamo ascoltati
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La notte in cui ci siamo ascoltati
Albert Espinosa LA NOTTE IN CUI CI SIAMO ASCOLTATI Romanzo Traduzione di Sara Cavarero Mira www.salani.it facebook.com/AdrianoSalaniEditore @salanieditore Titolo dell’originale dani y david ISBN 978-88-6918-817-6 Copyright © Albert Espinosa, 2016 Copyright © 2016 Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Milano In copertina: Progetto grafico: Studio Dispari - Milano Immagine di copertina: Sabphoto/Shutterstock.com Foto autore: © David Ruano/TNC Prima edizione digitale 2016 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Dedicato a tutti i Dani e a tutti i David che sono riusciti a comprendere i Dani Il Viaggio. Ogni volta che parlo del viaggio, parlo del Grande Viaggio, quello che feci a diciassette anni nella Repubblica Dominicana. Fu una gita scolastica, per essere più precisi, avevo appena terminato la scuola dell’obbligo… Anni dopo ho fatto altri viaggi, reali e immaginari, ma nessuno può essere paragonato a quello… Il Viaggio… Il Grande Viaggio… Quando ero bambino mia madre mi avvertì di non guardare la lavatrice. Io ero molto piccolo e non le diedi retta. A distanza di anni, mi sono reso conto che aveva ragione. Non si può guardare la lavatrice da bambini e illudersi che questo non darà problemi in futuro. 1 L’aeroporto Ed eccoci lì, all’aeroporto di Barcellona, nelle nostre camicie azzurre con lo stemma del Saint James ricamato sopra… E intorno a noi, i parenti… Padri e madri in attesa della nostra partenza, fratelli e sorelle che non vedono l’ora e fantasticano di camerette vuote, stereo, telecomando… tutto per loro… Mi tirai fuori del tutto la camicia dai pantaloni. Cercavo sempre di tenere la camicia fuori, mi piaceva mostrarmi ribelle nelle piccole cose, in quelle grandi non avevo il coraggio, lì non era più questione di ribellione ma di avere le palle… «Dani, la chemise!!!» esclamò scandalizzata mia madre, guardandosi attorno. Nessuno ci badava, alla mia camicia, ma a lei non importava, mi ripeteva sempre: ‘Dani, ne fais pas ça’, ‘Dani, ne fais pas l’autre’, godeva a proibirmi le cose e lo faceva invariabilmente in francese: è francese, di Lione, e benché mi parlasse sempre in spagnolo, per sgridarmi usava il francese. Non ho mai capito perché, ma ho scoperto che sono tante le cose della vita su cui non bisogna farsi domande… 13 Attaccò: «Questo è il numero di telefono della zia, domani andremo da lei. Questo è quello della nonna, ci andremo domenica… Mi stai ascoltando?» Le piaceva trattarmi come un cretino, ‘Dani, ricordati questo’, ‘Dani, ricordati quello’... A me non importava: quando faceva così, la fissavo dritto negli occhi, annuivo e m’immaginavo dicesse tutt’altro. «Domani devi far fuori il pilota, domenica lo devi sotterrare... Mi stai ascoltando?» Mentre lei continuava a parlare, guardai i miei compagni e sorrisi. Era patetico, tutti fingevano di non avere niente a che fare con quegli adulti che gli parlavano e che in alcuni casi, quelli peggiori, addirittura li abbracciavano e baciavano… Ma c’era poco da sorridere, visto che in fondo anch’io stavo facendo lo stesso. Anch’io non avevo né madre né padre, ero nato orfano, senza legami, non avevo altri che me stesso e i miei grandi amici: Albert e Jandro. Guardai Albert vicino a me, la camicia incollata addosso. Era il ciccione della classe. In ogni classe ci sono un ciccione, un omosessuale e un secchione. Albert era il ciccione. Io gli dicevo sempre che era fortunato, sarebbe potuto essere l’omosessuale, e lui rideva, e il mangiare gli colava lungo la faccia. Non so come facesse, ma mangiava sempre, a qualsiasi ora. E quel giorno all’aeroporto non faceva eccezione, aveva la bocca piena e faceva segno di sì con la testa 14 a tutto quello che i suoi genitori, due ciccioni enormi, gli dicevano. Tesi l’orecchio, cercando di non staccare gli occhi da mia madre che adesso spiegava dove sarebbero stati il martedì della seconda settimana di agosto… «Al ritorno, compra al duty free tutto quello che ti diremo. Ti abbiamo dato i soldi giusti, per cui sta’ attento a non farti fregare dalla cassiera» disse il padre di Albert. Albert annuiva e ascoltava, o forse no, faceva come me, fingeva di ascoltare e annuiva... Io credevo fermamente che quel viaggio mi avrebbe cambiato la vita. Avrei smesso di essere un bambino, quante speranze riponevo in quel viaggio! Sono sempre stato un tipo da speranze e liste; faccio liste per tutto: liste di cose che mi piacerebbe fare… liste di cose che voglio smettere di fare… liste di cose che mi comprerò… adoro le liste, adoro darmi degli obiettivi e cercare di raggiungerli, e se non ci riesco, rifaccio la lista e risolvo il problema. Mia madre continuava a martellarmi le orecchie, così con lo sguardo andai a cercare l’altro mio grande amico, Jandro… anche lui era lì accanto. Era incredibile, a volte avevo la sensazione che la vita di quei due ragazzi ruotasse attorno alla mia. Ero il loro punto fermo, il loro faro. Jandro era magrolino, mangiava poco ed era perennemente malato. Tossì… Aveva sempre l’in15 fluenza. Vederlo così fiacco e verdognolo metteva tristezza. Di fianco a lui c’era sua madre; la chiamavamo ‘la pazza’. Ogni volta che andavamo a giocare a casa di Jandro, ci faceva togliere le scarpe dicendo che avevamo i batteri sotto le suole. Una volta ci costrinse persino a spogliarci, lasciandoci in mutande, mise i nostri vestiti in lavatrice e ci diede delle vestaglie. Era pazza, e lo diceva anche Jandro: «Mia madre è pazza, ma cosa ci posso fare? È mia madre». Jandro era proprio un bonaccione. E io lo ammiro: ammiro i ragazzi che non capiscono certe cose, che se ne restano lì imbambolati senza rendersi conto che la vita va avanti, la crudele vita va avanti… «Faccia attenzione: ha la congiuntivite, quindi ha con sé delle gocce, deve metterle ogni sei ore. E se dovesse vomitare in aereo, gli dia queste due pastiglie…» sentii la Pazza dire a Pol. Pol, non so se ve l’ho detto, era il professore di ginnastica, il professore più simpatico del Saint James. Io lo sapevo che sarebbe stato il prescelto e che ci avrebbe accompagnato nella Repubblica Dominicana. Lo avevo preannunciato a Jandro e ad Albert, che non mi avevano dato retta; avevamo scommesso un paio di sacchetti di patatine fritte e ovviamente avevo vinto io. Vincevo sempre, contro di loro. Era facile. 16 Guardai le facce di quei ragazzi, in campo totale, come si dice in linguaggio cinematografico. Non so se ve l’ho detto, ma voglio fare il regista e girare dei bei film, quindi spesso guardo la vita dietro la virtuale cinepresa dei miei occhi azzurri. Sì, gli occhi azzurri sono sempre stati il mio punto forte. Ero brutto e lo sapevo. Non avevo i muscoli di Bayo e nemmeno un culo perfetto come Domenech. Avevo soltanto degli occhi azzurri, molto azzurri. Una volta mi avevano detto che erano fantastici. Fu al campeggio in cui andavamo d’estate; giocavamo a ‘mi piace, non mi piace’… Per chi di voi non ci ha giocato, consiste nel criticare in malo modo le ragazze senza tette e i ragazzi con i brufoli… È molto divertente, a patto che non si parli di te… E poi, in qualsiasi campeggio ci sono un tipo con i brufoli e una tipa senza tette. E, detto tra noi, a La quercia e il salice, quello era lo stupido nome del campeggio, la tipa senza tette e il tizio con i brufoli erano fusi in un’unica persona: Lina Sottile. Quella poveraccia non solo doveva portarsi dietro quel nome da assorbente, ma in più era piatta come una tavola da surf e aveva brufoli purulenti su tutta la faccia. Lina Sottile, la tipa più brutta del campeggio. Al pensiero scoppiai a ridere, e improvvisamente sentii un gran dolore… «Écoute-moi, Dani!» Mia madre mi aveva appioppato un ceffone con la mano bella piatta, più piatta delle tette di Lina. 17 Risi di nuovo, e mi arrivò una seconda sberla. A casa mia sono sempre stati svelti di mano. Ricordo quella volta che non volevo prendere una pastiglia (non prendo mai pastiglie) e mia madre mi tirò una sberla talmente forte che andai a sbattere contro la porta e mi rimase in faccia il segno del pomello. Il giorno dopo a scuola c’era una partita di calcio e il padre di Colomer, un tizio che dicevano fosse avvocato, mi prese da parte e mi chiese se i miei genitori mi picchiavano, se abusavano di me, se mi colpivano con oggetti metallici… Fu così bello, che qualcuno si preoccupasse tanto per me… Cercai con lo sguardo l’avvocato, ma ricordai che era morto; dopo, ‘Colo’ non era stato più lo stesso. Mi arrivarono la terza sberla e il secondo «Dani, écoute». Mio padre mi accarezzò la guancia arrossata e sorrise in silenzio. Non disse niente, in casa era una specie di vice; be’, nemmeno quello, lui era un extra, uno di quegli extra che passano inosservati. Tornai al mio campo totale dei volti dei ragazzi. Sapevo che quel viaggio sarebbe stato l’ultimo in cui avrei visto molte di quelle facce. Ultimo anno al Saint James, poi bisognava cercarsi un’altra scuola e ci saremmo sparpagliati in istituti e collegi privati di Barcellona. Alcuni avevo proprio voglia di perderli di vista, come Esteban, un idiota che veniva subito dopo di me nell’ordine alfabetico della classe. Ah, cosa im18 portante: il mio cognome è Español. Sembra una stupidaggine, ma chiamarsi così è tutto fuorché una stupidaggine. Ho sopportato centinaia, ma che dico, migliaia di battute sul mio cognome, legate alla squadra di calcio dell’Español, alla Spagna, ai dizionari… «Español cretino» mi diceva quel demente di Esteban, io gli rispondevo «Non insultarmi» e lui ribatteva: «Non è un insulto, è il titolo di un dizionario: Español-Cretino». Esteban era un idiota, ma un idiota forzuto, il quinto nella classifica dei più forzuti della classe dopo Bayo, Mestres, Domenech e Colomer. Sua sorella era una vera gnocca, lo dicevano tutti, e un paio si erano persino fregati la sua foto quando erano andati a casa loro. Una foto in costume, dicevano che era materiale di prima qualità per farsi le seghe… Be’, stavamo dicendo: il mio odio verso Esteban è roba di vecchia data. Quando andavamo in piscina ci cambiavamo in cabine individuali – il Saint James è una scuola che ama darsi un certo tono – e un giorno la porta di quella di Esteban si ruppe. Lui era il tredici e la sua porta era rotta, io il dodici e la mia era perfetta. Ebbene, il primo giorno di scuola dell’ultimo anno delle Medie disse che da quel momento il numero tredici ero io e che la mia porta era rotta; gli risposi che non era giusto e lui disse: «Il tredici porta sfiga…» Io ho una regola d’oro, che dice: ‘non fare a botte con i forzuti della clas19 se’. Sono abbastanza intelligente da sapere che mi ritroverei con un occhio nero. A volte sarei tentato di contravvenire alla regola, perché un occhio nero rende molto affascinanti; quell’alone violaceo intorno all’occhio suggerisce coraggio, lotta... insomma, fa ‘vero maschio’. Non c’è bisogno di dire che trascorsi tutto l’anno usando quella cabina senza porta, mentre quell’idiota di Esteban si prese quella funzionante. Di quell’idiota non avrei sentito la mancanza, ma degli altri sì: le loro facce, i loro volti… La maggior parte sarebbe andata al Saint Joseph, che potrebbe essere considerato la logica prosecuzione del Saint James. Io invece sarei andato in una scuola di quartiere che non aveva nemmeno un nome di santo… E questo perché ero diverso dagli altri. So che dicono tutti così, di essere diversi, ma al Saint James io ero davvero diverso. Ero il ragazzo povero, avevo una borsa di studio e i miei genitori pagavano una miseria rispetto a quel che avrebbero dovuto. Gli altri erano tutti figli di papà… Ricordo che in prima media un professore ci fece compilare una scheda con i dati dei nostri genitori e la professione del padre, quasi tutta la classe scrisse capo, senza specificare di cosa, solo questo: capo. Io scrissi ‘falegname’, e quando lo raccontai a mia madre, lei mi sgridò in francese: «Tu es un imbécile», e aggiunse che mio padre era ‘ebanista’. 20