5. ASPETTI SANITARI

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5. ASPETTI SANITARI
5. ASPETTI SANITARI
A. HIV - AIDS
1. Il virus
2. La diagnosi
Š Diagnosi sierologica
Š Diagnosi virologica
Š Diagnosi molecolare
3. Trasfusione di sangue e di emoderivati
4. Rischio occupazionale
B. EPATITE C e B
1. Epatite C
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Š
Eziopatogenesi
Epidemiologia
Modalità di trasmissione
Diagnosi
Caratteristiche cliniche
Manifestazioni extraepatiche
Prevenzione
Profilassi post-esposizione
Š
Š
Š
Š
Š
Eziopatogenesi
Epidemiologia
Caratteristiche cliniche
Diagnosi
Prevenzione
2. Epatite B
Ubaldo Baldi
Responsabile Unità Operativa Semplice
«Infezioni aerogene»
Malattie Infettive ASL Salerno 1
ha curato il paragrafo A del capitolo 5
Ruggiero Francavilla
Responsabile Unità Operativa Semplice
«Epatologia Infettiva»
Presidio Ospedaliero Bisceglie (BA)
ha curato il paragrafo B del capitolo 5
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A. HIV - AIDS
Risalgono all’estate del 1981 le prime segnalazioni a New York e San Francisco, in giovani omosessuali precedentemente sani, di un inusuale incremento di casi di alcune patologie rare quali il sarcoma di Kaposi, infezioni opportunistiche
come la pneumopatia da Pneumocystis carinii ed inoltre persistenti linfoadenopatie
di origine non spiegabile.
Nei mesi successivi diverse riviste specializzate pubblicarono rapporti su incerte
patologie che colpivano alcuni gruppi di individui in precedenza sani. Oltre che di
omosessuali si trattava comunque di gruppi di popolazione abbastanza omogenei:
tossicodipendenti, emofilici, consumatori di nitrito d’amile e portatori di malattie
sessualmente trasmesse.
Il filo che legava le suddette manifestazioni patologiche fu poi identificato in un
deficit dell’immunità cellulo-mediata, tanto che in considerazione di questo peculiare carattere, l’inquadramento nosologico adottato fu di Sindrome da Immuno
Deficienza Acquisita (AIDS).
L’agente causale fu poco dopo identificato da almeno due diversi gruppi di ricercatori, in Francia da Montaigner e negli USA da R. Gallo, in un agente virale le
cui caratteristiche erano tipiche dei retrovirus: a questo nuovo virus fu assegnato il
nome di Virus dell’Immunodeficienza Umana (HIV-1), trasmesso per via sessuale,
verticale ed ematica.
Successivamente , nel 1986 e sempre isolato da soggetti affetti da AIDS, fu identificato un altro virus, con caratteristiche simili ma non identiche al-l’HIV-1,
dotato però di più modesto potere patogeno cui fu assegnato il nome di HIV-2.
Dall’inizio dell’epidemia alla fine del 2003 si stima che la malattia da HIV abbia causato 20 milioni di morti e che siano oltre 40 milioni gli individui infettati dal
virus.
1. Il virus
L’HIV è un virus a RNA che appartiene alla famiglia dei retrovirus, nella cui
modalità replicativa del materiale genetico, vi è una fase di retrotrascrizione («trascrizione inversa») che avviene grazie ad un enzima detto appunto transcriptasi inversa. Questo in pratica significa che l’HIV nelle cellule ospiti dell’uomo, quali i
linfociti «helper» CD4, produce copie del proprio genoma in forma di DNA che si
integrano nel genoma del linfocito umano. L’RNA virale è costituito da oltre 9.700
nucleotidi che per la maggior parte corrispondono ai tre geni strutturali dei retrovirus, a partire dai quali vengono sintetizzate le proteine interne del virus (p17, p24,
ecc. ) i tre enzimi virali e le glicoproteine dell’envelope.
All’interno del citoplasma della cellula ospite si accumulano le proteine frutto
delle tappe della trascrizione, cui seguirà l’assemblaggio di proteine virali e
dell’RNA virale, che preludono alla formazione di nuovi virus che a loro volta fuoriescono dalla cellula parassitata attraverso una estroflessione che si produce sulla
superficie cellulare.
Fig 1. Rappresentazione schematica del virione
dell’HIV
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2. La diagnosi
La diagnosi di laboratorio dell’infezione da HIV si basa sia sulla determinazione degli anticorpi virus-specifici, sia sulla evidenziazione di antigeni virali e acidi
nucleici virali, nonché sull’isolamento del virus in coltura.
Š Diagnosi sierologica
Quando l’epidemia di AIDS raggiunse livelli sempre più preoccupanti si rese
necessario la messa a punto di sistemi diagnostici che consentissero lo screening
accurato e rapido di grandi quantità di sieri.
Š Le metodiche immunoenzimatiche (ELISA) quindi divennero il principale
strumento per la ricerca di anticorpi anti-HIV. Attualmente sono in uso saggi di
terza generazione che hanno permesso di ottenere risposte ad alto tasso di sensibilità e con specificità solo di poco inferiore.
Questi test sono utilizzati quali saggi di screening anche in sistemi automatici
che consentono l’analisi di un numero elevato di campioni di siero. A tal proposito, va sempre tenuto presente che la comparsa di anticorpi anti-HIV nel siero
del paziente infetto, richiede un certo intervallo di tempo dopo l’avvenuta infezione e, quindi, è necessario un certo tempo prima che questi siano dimostrabili
(finestra sierologica); in questa fase, l’approccio sierologico non è in grado di
documentare l’avvenuta infezione.
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Fig. 2. Andamento schematico dei marcatori virologici
nel corso di infezione primaria da HIV
Š Saggi di conferma. Nell’ambito della diagnostica sierologica, a fronte di una
possibile falsa positività del test di primo livello, si è reso necessario approntare
e ricorrere a saggi cosiddetti di conferma.
Quello più comunemente impiegato è il Western blot che consente di evidenziare la presenza di anticorpi diretti verso le singole proteine virali.
Di regola, un campione viene considerato negativo se non presenta alcuna positività per nessuna delle proteine virali presenti sulla striscia del test, mentre viene considerato indeterminato o dubbio se presenta una reattività che non rientra
nei criteri di positività richiesti dagli organismi internazionali. Ad es. i CDC
(Center Disease Control) degli USA richiedono positività per almeno due proteine tra p24, gp 41 e gp 120/160; mentre l’OMS richiede reattività per almeno
due glicoproteine dell’en-velope: gp 41, gp 120 e gp 160.
Š Diagnosi virologica
Š Isolamento virale. L’isolamento virale si ottiene seminando, su appositi terreni
di coltura, cellule mononucleate di sangue del paziente, aggiunte a una eguale
quantità di cellule mononucleate provenienti da un pool di donatori sani. Il terreno viene rimosso dalla coltura 2 volte a settimana e testato per valutare eventuale presenza di antigene p 24 come indice di attiva replica virale.
Due successive determinazioni affermative in tal senso saranno indice di positività o negatività in caso siano trascorse 4 settimane dall’inoculo con ripetuti test
negativi all’antigene p 24.
Š Antigenemia p24. Questo test, sempre con metodica ELISA, rivela la proteina p
24 del core che viene liberata nel sangue del paziente nelle prime fasi
dell’infezione. Questa metodica è però scarsamente sensibile, limitandone la sua
utilità nella pratica clinica.
Š Diagnosi molecolare
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Š PCR e diagnosi precoce. La metodica che rileva il DNA provirale, basata sulla
cosiddetta amplificazione genica mediante reazione a catena della polimerasi
(polymerase chain reaction PCR) o l’RNA virale attraverso l’amplificazione
della reverse transcripatase-polymerase chain reaction (RT-PCR), è quella più
sensibile e rileva il più precocemente una infezione in soggetti sieronegativi.
Š Dosaggio carica virale. Basata sempre su metodica PCR permette la determinazione quantitativa della carica virale (viral load). Questo trova utilità pratica nel
controllo e monitoraggio della terapia.
Š Diagnosi di resistenza. Sono tecniche complesse, utilizzabili in pochi laboratori specializzati, ed impiegate attualmente per la determinazione di resistenza
sia fenotipica che genotipica dell’HIV ai farmaci antiretrovirali.
Š Tecniche di amplificazione degli acidi nucleici (NAT). I test diagnostici per lo
screening di sangue e tessuti basati sulla tecnologia brevettata della PCR (polymerase chain reaction technology), sono ormai divenuti uno standard mondiale
nell’ambito della riproduzione di minuscole quantità di materiale genetico.
Questa tecnica consente l’individuazione diretta del materiale genetico degli agenti infettivi, permettendo così la diagnosi di infezioni ad uno stadio del ciclo
infettivo più precoce, prima che non lo consentano le analisi immunologiche. I
test basati sulla NAT di più facile esecuzione, rispetto alla PCR tradizionale, ed
eseguibili su vasta scala, possono ridurre il «periodo finestra» della diagnosi,
per l’HIV-1 da 22 giorni a 13-15 giorni, e per l’HCV (virus dell’epatite C) da
82 giorni a 32-22 giorni. Questa riduzione del «periodo finestra» consente ai laboratori di aumentare ulteriormente il livello di sicurezza dei tessuti impiegati in
numerose terapie e nelle donazioni di sangue.
3. Trasfusione di sangue e di emoderivati
Prima della precisa identificazione delle caratteristiche infettanti del virus e dei
test identificativi correlati, si sono verificati casi di contagio attraverso la via trasfusionale, pur in un breve periodo degli anni ’80.
Il primo caso di AIDS riconosciuto associato ad emotrasfusioni fu in un bambino di 14 mesi, exsanguinotrasfuso alla nascita per una malattia emolitica del neonato.
Purtroppo tra le prime segnalazioni di possibile contagio emotrasfusionale e il
1985 – anno di introduzione dei primi test anticorpali anti-HIV per i donatori di
sangue – la frequenza di infezione associata a tale pratica clinica aumentò. Inoltre
dato il lungo periodo che è frapposto tra infezione e comparsa di sintomi clinici di
malattia conclamata, vi fu un aumento dei casi tra i riceventi trasfusioni anche dopo
il 1985.
Nel 1991 negli USA, l’incidenza relativa ai casi trasfusionali sul totale dei casi
notificati era del 3,1%, ed in particolare, per i casi pediatrici del 13,6%.
Naturalmente i pazienti trasfusione-dipendenti furono quelli più colpiti.
In Italia nel 1984, tra i talassemici, la frequenza dell’infezione raggiunse il 12%
con un tasso di mortalità in 5 anni del 25%.
Con la messa a punto dei primi test anticorpali, e quindi con la identificazione
dei donatori con positività anticorpale e correlata potenziale trasmissibilità del virus, il rischio trasfusionale è andato drammaticamente calando.
Il problema residuo a tal proposito, era ed è della fase temporale in cui una e-
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ventuale infezione fosse indimostrabile attraverso le metodiche usuali, occorrendo
infatti un intervallo temporale variabile tra momento 0 (zero) del contagio e momento in cui il livello anticorpale anti-HIV nel siero raggiunga valori tali da dare
risultato positivo certo: questo intervallo è denominato, come già detto, fase finestra.
Nei primi anni 80 il rischio di contrarre l’infezione attraverso l’emotra-sfusione
era alto (circa 1 caso ogni 100 unità di sangue trasfuso); nel nostro Paese nel 96 le
stime erano calate a circa 2 casi per milione di unità di sangue trasfuso.
Il rischio residuo in Italia per HCV e per HIV, dopo l’introduzione dei test
NAT, è ulteriormente diminuito e si conferma su valori molto ridotti e comparabile
a quello di altri Paesi del Sud Europa, ove i tassi di incidenza sono simili a quelli
italiani.
Tabella 1
Virus
Rischio Residuo/106
con test EIA (IC
95%)
Casi attesi con
test NAT/106 (IC
95%)
Casi osservati
dopo test
NAT/106
HCV
2.7 (1.1-4.2)
2.2 (0.9-3.5)
3.1
0.5 (0.1-0.9)
HIV
2.2 (1.4-2.9)
1.1 (0.7-1.4)
1.8
1.1 (0.7-1.4)
Rischio Residuo
dopo EIA e
NAT/106 (IC 95%)
Dati tratti da: Rapporto annuale sulle infezioni trasmissibili con la trasfusione in Regione Lombardia per gli anni 1996-2003.
Attualmente quindi i tempi della fase finestra a seconda delle metodiche in uso
sono i seguenti:
Tabella 2
Marcatori
Tempo medio
Metodica
Anticorpi anti proteine
virali
22 giorni
ELISA
Western blot
Antigene p24
16 giorni
ELISA
DNA provirale
16 giorni
PCR
RNA virale
11 giorni
RT-PCR NASBA,
ibridazione molecolare
RNA virale
13 giorni
NAT
Il problema della trasmissibilità dell’HIV con il sangue, naturalmente, comprende anche gli emoderivati; abbiamo già detto del rilievo di casi tra gli emofilici
che ricevevano concentrati di fattore VIII. Infatti i plasmaderivati per uso clinico
vengono prodotti da pool di plasma di oltre 60.000 singole donazioni; si calcola
che circa un pool ogni 10 possa contenere una unità di sangue HIV-RNA positiva
raccolta in fase finestra. Pertanto è fondamentale sottoporre questo sangue, durante
il processo di produzione industriale, ad efficaci procedure di inattivazione virale.
Va infatti precisato che dal 1987, anno in cui tali procedure sono state introdotte nei
processi produttivi degli emoderivati, gli studi sierologici non hanno evidenziato
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alcun caso di sieroconversione tra i pazienti emofilici sottoposti a trattamento.
Anche i dati relativi ad altri emoderivati sono rassicuranti: ad esempio per
l’Albumina il trattamento cui vengono sottoposte le preparazioni, inattivate al calore, è sufficiente ad eliminare le concentrazioni di HIV eventualmente presenti.
I soggetti eventualmente colpiti da tale patologia in seguito ad emotrafusione o
somministrazione di emoderivati possono far ricorso ai benefici della legge 210/92
(art. 1) che prevede un riconoscimento economico a favore di soggetti danneggiati
irreversibilmente da complicazioni insorte a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati, che ne facciano richiesta.
4. Rischio occupazionale
Il rischio occupazionale (parliamo quindi in generale dei soggetti addetti professionalmente alla gestione dei pazienti HIV positivi), inteso come probabilità di
contrarre l’infezione, dipende da tre fattori:
a. Prevalenza di soggetti infetti
b. Frequenza di esposizioni a rischio
c. Efficacia di trasmissione
A metà degli anni ’90, studi controllati a livello mondiale sancirono l’ef-ficacia
della cosiddetta «triplice terapia» o HAART (Highly Active Antiretroviral
Treatment); l’impatto di tale schema terapeutico nella pratica clinica ha cambiato la
storia naturale della malattia con consequenziali ricadute epidemiologiche che hanno inciso anche specificamente nel settore del rischio occupazionale.
Modificandosi i tre parametri suddetti, anche la probabilità di contrarre
l’infezione da HIV in operatori sanitari è cambiata. Infatti i dati dello Studio Italiano
Rischio Occupazionale HIV (SIROH) dal 1994 al 2000 mostrano che la quota di esposizioni a fonte HIV-positiva è diminuita dal 4,3% al 2,2%.
Questo è dovuto essenzialmente ad una minore ospedalizzazione e intensità
dell’assistenza negli HIV-positivi; inoltre, per quel che riguarda l’ef-ficacia di trasmissione, la validità delle terapie HAART, riducendo la viremia, comporta una
diminuita contagiosità del paziente HIV.
Questo però non deve indurre a troppo ottimistiche conclusioni. Studi casocontrollo multinazionali mostrano che vi è possibilità che il tasso di infezione possa
essere in realtà superiore a quello medio stimato dagli studi di incidenza, fino a
raggiungere in determinate situazioni circa il 5%. In particolare l’elemento che
provoca un incremento del tasso di infezione è la contemporanea presenza di più
fattori di rischio, quali: la maggiore gravità delle lesioni, la presenza di sangue visibile sul presidio in uso e la puntura con ago usato direttamente in vena/arteria.
Sempre dal SIROH l’analisi del rischio occupazionale specifico per categorie e
area di lavoro ha mostrato questi dati (tab. 3):
Tabella 3
CATEGORIA
PROFESSIONALE
AREA
Tasso per cento A-P
HIV PC HIV MC HIV complessivo
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Medico/chirurgo
Medicina generale
Malattie infettive
Chirurgia generale
Laboratorio
0.03
0.9
0.5
0.1
0.03
1.0
0.4
0
0.06
1.9
0.9
0.1
Infermiere
Medicina generale
Malattie infettive
Chirurgia generale
Laboratorio
0.2
4.3
0.1
0
0.2
3.5
0.2
0.1
0.4
7.8
0.3
0.1
Ausiliario
Medicina generale
Malattie infettive
Chirurgia generale
Laboratorio
0
0.1
0
0
0.05
0.7
0.05
0
0.05
0.8
0.06
0
Ostetrica
Spec. Chirurg.
0.1
0.4
0.5
Tecnico
Laboratorio
0.1
0.4
0.5
A-P (anni persona lavoro di operatori sanitari a tempo pieno).
PC( esposizioni percutanee).
MC ( esposizioni mucocutanee).
Questi dati però, pur rigorosi nella loro gestione statistica, risentono del fatto
che gli eventi segnalati sono sottostimati rispetto a quelli che realmente avvengono.
Infatti i tassi di sottonotifica variano dal 70-80% dei medici al 30-35% degli infermieri.
Gli eventi potenzialmente dannosi si verificano nella maggior parte dei casi di
esposizione percutanea, durante l’uso di aghi, cateteri per accesso vascolare, somministrazione di farmaci per via parenterale, prelievi venosi; mentre, per
l’esposizione mucocutanea, si verificano, durante la manipolazione di sangue o liquidi biologici, spandimento da linea endovenosa, ecc.
L’osservanza delle precauzioni standard, l’effettiva disponibilità e conseguente
utilizzo di DPI, l’uso di aghi o taglienti maggiormente protetti da dispositivi di sicurezza, uniti sempre ad una adeguata formazione/informa-zione del personale,
rappresentano gli strumenti per una ulteriore riduzione del rischio.
B. EPATITE C e B
1. Epatite C
Š Eziopatogenesi
Il virus dell’epatite C (HCV) è un flavivirus a RNA identificato nel 1989 e principale responsabile delle epatiti che venivano precedentemente definite non-A non-B.
L’HCV è costituito da una particella sferica, provvista di un rivestimento esterno di
circa 50 nm di diametro. Il genoma virale è costituito da una molecola di RNA lineare ad elica singola in grado di codificare la sintesi di proteine strutturali (una
proteina del nucleocapside e due proteine dell’envelope) e di proteine nonstrutturali, importanti per la replicazione virale (una proteasi virale, una elicasi e
una RNA-polimerasi).
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La caratteristica forse più importante dell’HCV è la grande variabilità della sequenza genomica. Proprio sulla base di questa eterogeneità genetica sono stati individuati dei genotipi. All’interno di ogni genotipo sono stati successivamente raggruppati numerosi «sottotipi». Secondo la classificazione proposta da Simmonds
nel 1993, i diversi isolati di HCV dovrebbero essere compresi in uno dei sei genotipi (indicati con numeri arabi) che sono stati individuati e, all’interno di ciascun
genotipo, in uno dei diversi sottotipi (indicati con lettere, minuscole,
dell’alfabeto).La distribuzione geografica dei diversi genotipi dell’HCV è ampiamente variabile. In Italia ed in Europa vi è una netta prevalenza del genotipo 1, ed
in particolare del genotipo 1b.
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Il genotipo 4 sembra essere diffuso principalmente nel continente Africano, ed
in particolare in Zaire ed Egitto, mentre il genotipo 5 è quello più diffuso in Sud
Africa; il genotipo 6 e i suoi sottotipi, invece, hanno la loro maggiore diffusione in
Asia. Rimane da definire quali genotipi hanno maggiore significato clinico: i genotipi 1a, 1b e 4 sembrano essere meno responsivi alla terapia con interferone. Secondo dati recenti, proprio la natura di quasispecie dell’HCV potrebbe costituire un
fattore di grande importanza nella storia naturale dell’infezione da HCV. La quasispecie è definita come una popolazione eterogenea di virioni ciascuno dei quali può
differire dall’altro anche solo per una mutazione puntiforme del genoma. Solitamente, in un singolo soggetto con infezione primaria predomina una popolazione di
virus omogenea dal punto di vista genetico; tuttavia essa può, probabilmente sotto
la pressione della risposta immunitaria dell’ospite, modificarsi nel corso del tempo,
portando all’emergenza di una o più popolazioni virali. La conseguenza
dell’eterogeneità genica dell’HCV e della sua capacità di mutazione genetica e
quindi fenotipica sono probabilmente alla base dell’elevata frequenza di cronicizzazione dell’infezione (il virus sfugge al sistema immunitario dell’ospite), della
possibile reinfezione anche con ceppi virali di genotipo diverso, della non soddisfacente efficacia della terapia con interferone e, da ultimo, ma non per questo meno importante, della difficoltà di allestire vaccini.
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Š Epidemiologia
La diffusione dell’HCV è elevata in tutto il mondo. L’HCV è responsabile di circa
il 70% di tutte le epatiti croniche.
Diffusione nel mondo: stimati circa
150 milioni di portatori.
Diffusione in Italia: stimati
circa 2 milioni di portatori.
Secondo stime recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno il 3%
della popolazione mondiale ha un’infezione cronica da HCV, e si ritiene che l’12% della popolazione residente in Europa occidentale e nel Nord America sia portatore cronico dell’HCV. L’epatite C, con 4 milioni di individui infetti negli Stati
Uniti d’America e più di 1 milione in Italia, è quindi diventata anche nel mondo
occidentale una delle più diffuse ed importanti cause di malattia cronica del fegato.
Š Modalità di trasmissione
Il virus si trasmette prevalentemente con il sangue:
Š Post-trasfusionale: l’HCV è risultato il principale responsabile delle epatiti
post-trasfusionali, molto frequenti prima della sua scoperta.
Dopo il 1985 l’incidenza delle epatiti C post-tra-sfusionali si era praticamente dimezzata mediante l’esclusione dalla donazione di sangue delle persone HIV positive, molti delle quali erano poi risultate coinfettate anche dall’HCV. Da giugno
1990 l’introduzione dello screening dei donatori per la ricerca dell’HCV ha ulteriormente ridotto i casi di infezione fino allo 0,02% per unità di sangue trasfusa.
Dal 1993 la disponibilità di test più sensibili ha portato questa percentuale allo
0,001%. Pertanto il rischio di contagio trasfusionale attualmente può essere stimato
in 1 caso ogni 100.000 unità di sangue trasfuso.
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Chiunque abbia ricevuto una trasfusione di sangue
prima del 1992, anche se non ha alcun sintomo o segno clinico di malattia, dovrebbe eseguire il test per la
ricerca dell’infezione da HCV.
Š Tossicodipendenza: il virus HCV è molto diffuso in questa popolazione di pazienti, nei quali è anche molto frequente la coinfezione con l’HIV (il virus
dell’AIDS). La tossicodipendenza è il fattore di rischio prevalente per la trasmissione dell’HCV, sia in Europa che negli Stati Uniti. Nella figura in basso
sono riportati i fattori di rischio principali nei casi di epatite acuta da HCV osservati negli Stati Uniti nel periodo 1983-1996, e dal grafico risulta evidente il
ruolo principale della trasmissione mediante tossicodipendenza.
Š Esposizione professionale: l’HCV rappresenta un rischio anche per gli operatori
sanitari; dopo una contaminazione accidentale con materiale infetto vari studi
hanno riportato dall’1 al 10% di possibilità di contrarre l’infezione. In Europa
comunque la prevalenza dell’infezione negli operatori sanitari è dell’1%, e
quindi non superiore a quella della popolazione generale.
Š Trasmissione parenterale inapparente: questa modalità di trasmissione assume
una notevole importanza e giustifica la diffusione dell’infezione anche in persone che non hanno avuto nessun tipo di esposizione nota al virus. Occorre comunque una quantità di sangue contenente non meno di 100 virioni perché si
abbia infezione.
Š Trasmissione sessuale: è possibile, ma risulta molto meno frequente rispetto
all’HBV (circa l’1%), e non sembra proprio che questa via di trasmissione sia
rilevante per la diffusione del virus.
Š Strumenti chirurgici non ben sterilizzati:
– dentista;
– agopuntura;
– estetista;
– barbiere;
– tatuaggi, piercing;
– oggetti da toilette taglienti o abrasivi (rasoi, lamette, spazzolini da denti).
5. ASPETTI SANITARI
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Š Trasmissione verticale: mediamente la percentuale di neonati da madri HCV
positive che hanno contratto l’infezione è di circa il 4%. Questa percentuale
aumenta notevolmente nel caso la madre abbia la coinfezione HCV+HIV (1417%). Contrariamente a quanto osservato per la trasmissione dell’HIV, nel caso
dell’HCV l’esecuzione del parto con taglio cesareo non si è dimostrata utile nel
ridurre il rischio di infezione neonatale, così come non è stata dimostrata la trasmissione dell’infezione mediante l’allattamento, che pertanto non è controindicato.
Š Diagnosi
La dimostrazione dell’infezione da HCV si basa sulla ricerca degli anticorpi specifici contro il virus. Il test attualmente utilizzato per lo screening utilizza una metodica immunoenzimatica (test EIA o ELISA, Enzyme Linked ImmunoSorbent Assay) di terza generazione, in grado di identificare anticorpi diretti contro antigeni
strutturali e non strutturali del virus, con una sensibilità di circa il 97%; se il test
ELISA risulta positivo, per la conferma viene utilizzata una metodica ancora più
specifica
l’HCV-RNA
qualitativo.
Per stabilire invece il grado di replicazione virale, e quindi il grado di attività
dell’infezione, viene misurata nel sangue la quantità di genoma del virus (HCVRNA, concettualmente simile all’HBV-DNA del virus dell’epatite B). Tale test
viene eseguito con metodiche di PCR o di bDNA (branched DNA signal amplification Assay).
Nella tabella a seguire sono riassunti i marcatori diagnostici attualmente disponibili.
marcatori diagnostici
Test
Applicazione Commento
HCV-Ab (EIA) Metodica
di screening
Indica infezione attiva o pregressa, ma non è
in grado di distinguere tra forma acuta, cronica o risolta.
Sensibilità 97%
HCV-RNA
(PCR)
Rileva la presenza di RNA
virale nel
sangue
Utile per il monitoraggio della risposta alla terapia e per stabilire le probabilità di risposta in
base al valore iniziale.
Positivo dopo 1-2 sett. dal contagio.
Un valore negativo non indica assenza del virus, per cui non può essere utilizzato per escludere la presenza di infezione.
Genotipizzazione
Identifica il
genotipo del
virus, distinguendo tra 6
genotipi e più
Utile per stabilire la durata del trattamento,
più lungo per alcuni genotipi.
Il Genotipo 1 è il più frequente, sia in Europa
che negli Stati Uniti, ed è quello associato ad
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di 90 sottotipi
una percentuale più bassa di
risposta alla terapia.
Nella tabella a seguire viene illustrato un semplice schema interpretativo di tali
test.
schema interpretativo
Interpretazione
Test ELISA
Test RIBA
HCV-RNA
Transaminasi
Epatite cronica
+
+
+
Alterate
Infezione asintomatica
+
+
+
Normali
Infezione pregressa o latente (*)
+
+/-
-
Normali
Falsa positività
+
-
-
Normali
(*) Per esempio dopo risposta completa alla terapia.
La biopsia epatica è poi di fondamentale importanza nel definire il danno istologico,
stabilendo il grado (livello di infiammazione) e lo stadio (livello di fibrosi) del danno
epatico. In soggetti con infezione cronica da HCV la biopsia epatica trova indicazione dopo un periodo di osservazione di almeno 6-8 mesi, in presenza di un persistente, oppure intermittente o anche solo episodico, aumento delle transaminasi.
Meno chiaro è il ruolo della biopsia in soggetti con transaminasi persistentemente
normali. Infatti, benché gran parte di questi soggetti abbiano una evidenza istopatologica di epatite cronica, il danno epatico è spesso modesto ed ancora incerto è
l’atteggiamento terapeutico in questi casi.
Š Caratteristiche cliniche
L’infezione acuta da HCV è solitamente asintomatica o paucisintomatica e solo
raramente si manifesta con una epatite acuta (circa il 5% dei casi), mentre non è
quasi mai causa di epatite fulminante. L’infezione ha però una elevata tendenza ad
evolvere verso la cronicità (70%).
5. ASPETTI SANITARI
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Ciò è probabilmente dovuto alla variabilità genetica del virus che gli permette di
sfuggire al controllo del sistema immunitario, il quale non è quindi in grado di eliminarlo.
La malattia epatica resta asintomatica per molto tempo (in alcuni casi anche per
sempre), per cui la maggior parte dei soggetti con l’infezione scopre casualmente il
proprio stato, solitamente in seguito a indagini ematochimiche effettuate per altre
ragioni, che mettono in evidenza un aumento (spesso modesto) degli indicatori di
citolisi epatica, cioè le transaminasi (SGOT/SGPT, AST/ALT). In generale, i soggetti con epatite cronica hanno livelli di transaminasi persistentemente, ma anche
saltuariamente, elevati; è stata tuttavia dimostrata la presenza di un quadro di epatite cronica istologicamente documentata anche in pazienti con transaminasi normali
per periodi prolungati.
L’evoluzione a lungo termine dell’infezione è molto variabile. Complessivamente, il 10-20% dei soggetti con epatite cronica da HCV potrà sviluppare, in un
periodo di 20-30 anni, la cirrosi epatica.
Una volta che la cirrosi si è manifestata, il rischio di sviluppare un epatocarcinoma (tumore maligno primitivo del fegato) è di 1-4% all’anno. La stessa cirrosi,
quando sia di grado severo, ha una mortalità di circa il 50% in 5 anni.
5. ASPETTI SANITARI
87
Alcuni fattori possono essere valutati come indicatori del rischio di progressione della epatite cronica da HCV:
Fattori virali:
Š Genotipo: il genotipo 1, e in particolare il tipo 1b, sembra essere associato ad
una evoluzione più severa;
Š Presenza di quasispecie: un numero più elevato di quasispecie virali è stato associato a forme più severe di epatite cronica.
Fattori dell’ospite:
Š Età al momento dell’infezione: persone più anziane sembrano avere una evoluzione peggiore;
Š Sesso e razza, anche se non vi sono ancora dati certi sulla influenza di questi
fattori sulla evoluzione dell’infezione da HCV.
Altri fattori:
Š Consumo di alcol: la presenza di un elevato consumo di alcolici peggiora nettamente l’evoluzione dell’epatite cronica da HCV, aumentando la velocità di
progressione verso la cirrosi e l’incidenza dell’epatocarci-noma;
Š Coinfezione da HBV: la presenza della duplice infezione C + B incrementa la
severità della malattia e il rischio di sviluppo dell’epatocarci-noma.
Š Manifestazioni extraepatiche
L’HCV può essere responsabile anche di manifestazioni cliniche extraepatiche, essenzialmente legate a disturbi del sistema immunitario indotti dallo stesso virus.
Tali manifestazioni comprendono principalmente:
Š Crioglobulinemia mista: la crioglobulinemia mista è una sindrome clinica provocata dalla formazione di immunocomplessi formati dal virus e da anticorpi
anomali, che precipitano in modo reversibile a basse temperature. È caratterizzata da vari sintomi e segni, tra i quali principalmente astenia, dolori artromuscolari, artrite, porpora cutanea e vasculite. A volte si possono associare anche neuropatia periferica sensitivo-motoria e glomerulonefrite. È stato dimostrato che l’infezione da HCV è la causa principale di crioglobulinemia; la genesi di
questa sindrome sarebbe dovuta sia alla partecipazione diretta dell’HCV nella
formazione degli immunocomplessi, sia al disordine del sistema linfoproliferativo che può essere provocato dal virus stesso. La relazione tra l’HCV e la crioglobulinemia sarebbe confermata anche dalla riduzione dei sintomi secondari
alla crioglobulinemia nei pazienti che rispondono alla terapia con l’In-terferone.
La presenza di crioglobuline è rilevabile in circa un terzo dei pazienti affetti da
infezione da HCV, ma le manifestazioni cliniche compaiono solo nell’1-2% dei
casi.
Š Patologie tiroidee: l’infezione da HCV può associarsi a patologie della tiroide
quali ipo- o ipertiroidismo, o la tiroidite di Hashimoto. In questi casi è solitamente presente una positività per gli autoanticorpi anti-tiroide; tale manifestazione è più frequente nelle donne.
È quindi importante il monitoraggio della funzionalità tiroidea e degli autoanticorpi anti-tiroide prima di iniziare una terapia con interferone, poiché questo
5. ASPETTI SANITARI
88
farmaco potrebbe peggiorare la situazione tiroidea.
Š Sindrome di Sjogren: una correlazione tra questa patologia e l’infezione da
HCV è stata riscontrata in percentuali variabili dal 10 al 50% dei casi. Anche in
questo caso il virus eserciterebbe un ruolo indiretto tramite la stimolazione cronica del sistema immunitario. Come per la crioglobulinemia, anche per la Sindrome di Sjogren sono stati osservati miglioramenti in corso di terapia con interferone.
Š Glomerulonefriti: questa forma di patologia renale osservata in corso di infezione da HCV sembra essere riconducibile alla presenza di una crioglobulinemia mista.
Š Porfiria cutanea tarda: è una malattia provocata da un deficit enzimatico (la uroporfobilinogeno-decarbossilasi epatica) e si manifesta con fragilità della cute,
con formazione di vescicole e bolle. L’associazione con l’in-fezione da HCV è
stata riscontrata in oltre un terzo dei pazienti affetti da porfiria cutanea tarda.
Š Prevenzione
Un vaccino efficace nei confronti dell’infezione da HCV non è disponibile. I problemi relativi alla sua messa a punto sono molti: la grande variabilità genomica e la
natura quasispecie dell’HCV, la difficoltà di individuare se esiste, e quale eventualmente sia, la risposta anticorpale protettiva e, più in generale, le scarse conoscenze sulla patogenesi dell’epatite C, nonché la limitatezza del modello sperimentale.
Pertanto, le uniche forme di prevenzione possibili sono quelle di tipo comportamentale e di igiene sanitaria, quali:
Š evitare l’uso in comune di strumenti taglienti o abrasivi (aghi, siringhe, rasoi,
spazzolini, forbicine, ecc.);
Š evitare pratiche quali tatuaggi e body piercing se effettuate da personale non
preparato;
Š sterilizzare adeguatamente i presidi medico-chirurgici;
Š effettuare un adeguato controllo dei donatori di sangue.
Proprio quest’ultimo aspetto ha consentito di ridurre drasticamente il numero
delle epatiti post-trasfusionali.
Š Profilassi post-esposizione
È stata dimostrata la non efficacia della somministrazione di immunoglobuline e
non vi è alcuna evidenza di beneficio clinico mediante l’impiego di farmaci antivirali o di interferone dopo un’esposizione a rischio.
Tuttavia è importante che una persona esposta al rischio di contagio venga adeguatamente controllata nel tempo, in modo da avere la possibilità di effettuare una
diagnosi precoce in caso di avvenuto contagio.
2. Epatite B
Š Eziopatogenesi
5. ASPETTI SANITARI
89
Il virus dell’epatite B, conosciuto già dagli anni ’60, è un virus con genoma a
DNA, appartenente alla famiglia degli Hepadnavirus. È formato da una parte interna, denominata core, contenente il genoma e strutture proteiche, e da un involucro
esterno, denominato envelope. Nel core sono identificabili due diversi antigeni,
l’HBcAg e l’HBeAg, mentre dell’envelope fa parte l’antigene di superficie HBsAg
(il significato di questi antigeni è illustrato in seguito).
Il danno sugli epatociti non è provocato direttamente dall’HBV, ma si verifica in
seguito alla reazione del sistema immunitario che si attiva nel tentativo di eliminare
il virus, come illustrato nella parte generale.
Š Epidemiologia
L’HBV è un virus molto diffuso in tutto il mondo, con una prevalenza maggiore
in Cina e nell’Asia del Sud (8-20%) e minore nell’America del Nord e nell’Europa
Centrale (0,2-2%), mentre nell’Europa Occidentale ha una prevalenza di circa il 27%. In Italia la prevalenza media è del 3% circa. Il virus deve la sua notevole diffusione
anche
alla
sua
particolare
resistenza
ambientale.
Diffusione nel mondo:
circa 300 milioni di portatori.
Diffusione in Italia:
circa 2 milioni di portatori.
Resistenza:
– 20 ° C
Resiste per
15 anni
21 ° C
Resiste per
6 mesi
60 ° C
Resiste per
4 ore
5. ASPETTI SANITARI
90
La trasmissione del virus può avvenire nei seguenti modi:
Š Mediante scambio di sangue (tossicodipendenti, emotrasfusioni con sangue non
controllato, emodializzati, lesioni accidentali con materiali contaminati).
Š Per via parenterale inapparente:
– Strumenti chirurgici non ben sterilizzati:
- dentista;
- agopuntura;
- ecc.
– Altri strumenti non ben sterilizzati:
- estetista;
- barbiere;
- tatuaggi, piercing;
- ecc.
– Oggetti da toilette taglienti o abrasivi (rasoi, lamette, spazzolini da denti).
Š Per via sessuale: recenti studi epidemiologici hanno evidenziato che circa il
60% delle infezioni da HBV acquisite negli Stati Uniti sono state contratte per
via sessuale.
Š Per trasmissione verticale: da madre a figlio durante la gravidanza.
Š Caratteristiche cliniche
L’infezione da HBV decorre solitamente in modo asintomatico, ma nel 10% circa
dei casi si può manifestare con una epatite acuta; l’infezione può quindi evolvere
verso la guarigione, con o senza immunizzazione (cioè con o senza la formazione
degli anticorpi protettivi, l’HBsAb), quando il virus viene eliminato
dall’organismo, oppure può evolvere verso la forma cronica (circa il 10% dei casi
nell’adulto sano, mentre tale percentuale è molto più elevata nel neonato che contrae l’infezione dalla madre, fino al 90% quando il virus permane nell’organismo.
In questo caso si può avere la persistenza di una infezione asintomatica (situazione
del cosiddetto «portatore sano») oppure l’evoluzione verso l’epatite cronica.
Š Diagnosi
5. ASPETTI SANITARI
91
La diagnosi di infezione da HBV viene posta mediante la ricerca nel sangue del
paziente dei marcatori virali, costituiti da antigeni (Ag) e da anticorpi (Ab):
Š HBsAg: è l’antigene di superficie del virus. La sua presenza indica lo stato di
infezione, e tutte le persone che risultano HBsAg positive sono da considerarsi
potenzialmente infettanti.
Š HBsAb: è l’anticorpo contro l’antigene di superficie. La sua presenza indica
protezione dall’infezione (immunizzazione). Si riscontra dopo guarigione da
una infezione, oppure dopo la vaccinazione.
Š HBcAg: è un antigene della parte centrale del virus (core) ed è l’unico marcatore che non si riscontra mai nel sangue, ma solo nelle cellule del fegato.
Š HBcAb-IgM: questo anticorpo si riscontra solo nelle fasi di attiva replicazione
del virus, per cui risulta positivo nelle forme acute e nelle forme croniche riacutizzate.
Š HBcAb-IgG: dopo un contatto con il virus, indipendentemente dall’esito
dell’infezione, questo anticorpo rimane positivo per tutta la vita, per cui la sua
presenza indica l’avvenuto contatto con il virus.
Š HBeAg: è l’antigene del nucleocapside del virus (core), e la sua presenza indica
attiva replicazione virale. Lo si riscontra nella fase iniziale delle epatiti acute e
in alcune forme di epatite cronica.
Š HBeAb: è l’anticorpo diretto contro l’HBeAg; la sua presenza non impedisce
tuttavia l’evoluzione verso la forma cronica.
Š HBV-DNA: è il genoma del virus, ed è l’indicatore più sensibile della replicazione virale. La sua presenza indica sempre attività dell’infezione. Per definizione il portatore sano sarà sempre HBV-DNA negativo.
In base all’assetto di tali marcatori, unitamente allo studio degli indici di infiammazione epatica (transaminasi), è quindi possibile stabilire con esattezza lo
stato dell’infezione.
schema interpretativo
HBsA
g
HBsAb
HBcAbIgG
HBcAbIgM
HBVDNA
Transaminasi
Epatite acuta
+
-
+
+
+
Alterate
Guarigione
-
-
+
-
-
Normali
Guarigione con
immunizzazione
-
+
+
-
-
Normali
Persistenza di infezione: epatite
cronica
+
-
+
-/+
-/+
Alterate
Persistenza di infezione: portatore sano
+
-
+
-
-
Normali
Infezione pregressa
-
-
+
-
-
Normali
Immunizzazione
-
+
-
-
-
Normali
Interpretazione
5. ASPETTI SANITARI
92
postvaccinazione
La tabella in alto mostra l’andamento dei marcatori e delle transaminasi dopo una
epatite acuta in caso di guarigione; nella figura in basso è invece rappresentata
l’evoluzione verso la forma cronica.
Š Prevenzione
Si basa su misure di carattere generale volte a limitare la trasmissione del virus e,
principalmente, su misure di immunoprofilassi:
Š Profilassi generale: un ruolo molto importante è rivestito dalla educazione sanitaria, rivolta sia ai portatori del virus (consapevolezza delle modalità di trasmissione), sia alle persone che sono a rischio per l’acquisizione dell’infezione, per
motivi professionali (operatori sanitari) o per fattori comportamentali (tossicodipendenza, promiscuità sessuale). Notevole importanza assume anche
l’adeguato controllo dei donatori di sangue, per la prevenzione della diffusione
del virus mediante trasfusioni di sangue o di emoderivati.
Š Immunoprofilassi attiva: contro l’HBV è attualmente disponibile un vaccino,
costituito da particelle di HBsAg preparate artificialmente con la tecnica del DNA
ricombinante (ingegneria genetica), la quale consente di ottenere un preparato sicuro, efficace ed a basso costo. Dal 1991 la vaccinazione è obbligatoria in Italia
per tutti i nuovi nati e per i bambini al 12° anno di età, mentre viene particolarmente consigliata alle persone a rischio, in particolare ai conviventi dei portatori
e agli operatori sanitari.
Modalità di vaccinazione
Š Ciclo vaccinale iniziale:
– 1a dose: tempo 0;
– 2a dose: dopo 1 mese;
– 3a dose: dopo 6 mesi.
5. ASPETTI SANITARI
93
Š Richiami:
Recenti studi sostengono però che non sia necessario eseguire una dose di richiamo quando il primo ciclo vaccinale abbia provocato una buona risposta anticorpale.
Š Protezione:
– il vaccino risulta efficace in oltre il 90% dei casi;
– l’efficacia viene dimostrata con la presenza di anticorpi protettivi (HBsAb)
alla fine del ciclo vaccinale. Anche la loro assenza non esclude una risposta
a basso titolo, non detectabile dalle nostre metodiche di misura.
Š Immunoprofilassi passiva: in caso di esposizione accidentale (es. puntura accidentale con ago contaminato) è possibile somministrare immunoglobuline umane specifiche contro l’HBV, entro 2-4 ore dall’esposizione. La protezione fornita dalle immunoglobuline ha una durata di 2-3 settimane. Le immunoglobuline
vengono inoltre somministrate al momento della nascita ai neonati da madri
HBsAg positive, per ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione. Deve seguire ovviamente la vaccinazione dell’infortunato.