Israele e gli Stati Uniti dietro il colpo di stato dell`esercito - ISM

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Israele e gli Stati Uniti dietro il colpo di stato dell`esercito - ISM
Israele e gli Stati Uniti dietro il colpo di stato dell'esercito egiziano
Il pressappochismo degli islamofobici italiani
Dossier 2013/08/20/01
Indice
Premessa
IlSole24Ore20130814 Quando il golpe è rivoluzionario di Vittorio Emanuele Parsi
IlSole24Ore20130818 Gli interessi dietro l'ipocrisia dei valori di Vittorio Emanuele
Parsi
IlSole24Ore20130818 Gli errori da non fare per il futuro dell'Egitto di Giuliano
Amato
“Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l’umanità che hanno accompagnato il
conflitto israelo-palestinese e altri conflitti in questo passaggio d’epoca, saranno chiamati a
rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da
quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l’opportunismo.”
Alfredo Tradardi
ISM-Italia
Torino, 20 agosto 2013
www.ism-italia.org [email protected]
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Premessa
Siamo così adusi al cinismo, all'ipocrisia e alla menzogna di politici, intellettuali et similia che
potrebbe apparire una perdita di tempo occuparsi dei loro scritti e dei loro salti tripli con
avvitamento.
Ma non c'è limite al peggio e ora dopo aver tentato di convincerci che in Egitto si era
verificato un colpo di stato popolare, anzi democratico, un unicum nella storia
universale, ora ci vogliono vendere la favoletta ignobile di un colpo di stato rivoluzionario.
In Egitto c'è stato un colpo di stato (senza aggettivi) da parte dell'esercito egiziano,
preparato e realizzato con l'appoggio di Israele e degli Stati Uniti.
Abbiamo preso tre articoli tratti da Il Sole 24 ore, due dell'eccellente Vittorio Emanuele Parsi
e uno del noto, anzi notissimo, Giuliano Amato.
Il Parsi giudica eccessivo parlare di colpo di stato democratico perché “il colpo di Stato di alSisi sembra voler indirizzare la rivoluzione, piuttosto che fermarla (sic!)” e prosegue, colpito
da un colpo di sole ferragostano, “l'intervento di al-Sisi non ha alcun intento restaurativo del
vecchio ordine” (infatti sembra che Mubarak stia per essere liberato).
«In questo senso, la questione dirimente è se al-Sisi abbia "difeso" la rivoluzione, e se Morsi
la stesse "tradendo"». In altre parole al-Sisi = Nasser!!!
Che dire di un fritto misto, con olio assai scadente, di islamofobia, di orientalismo direbbe
Edward Said, di colonialismo e di presunzione della superiorità occidentale?.
Si accusa Morsi di incapacità di governo, dimentichi dei governi delle larghe intese, come se
errori di governo dovrebbero indurre e giustificare colpi di stato. Che cosa aspetta l'esercito
italiano? Quando arresterà il presidente Giorgio Napolitano per manomissione della
Costituzione Repubblicana? Letta e Berlusconi per concorso in associazione mafiosa?
Il Parsi, passati quattro giorni, il 18 agosto ribalta le sue convinzioni e scopre che dietro
l'ipocrisia dei valori ci sono gli interessi. La moglie o l'amante, stufe del velinaro, hanno preso
in mano la situazione e gli hanno fatto scrivere una banalità, ma una banalità progressista e
storica. Il barbutone, quello dello spettro che si aggirava in Europa, sorride.
Sono gli interessi che muovono il capitalismo e l'imperialismo!
Vi risparmiamo un articolo di un fascista, ospite del Manifesto, che, alla pari di Benny Morris
per quanto riguarda i palestinesi1, sostiene: “Mi spiace per i morti, ma sono terroristi”2.
Meritevole di un fugace cenno la Giuliana Sgrena che riporta all'attenzione l'importanza delle
75 vergini che attendono ogni kamikaze. Allah la abbia in gloria.
E infine che dire di Giuliano Amato.
Come dimostreremo in un altro dossier con articoli della stampa araba e anglosassone, in
Italia non vale più il detto, prima i fatti e poi le opinioni.
Nessuna indagine on the ground, ma un miscuglio di banalità a partire dal titolo: “Gli errori
da non fare per il futuro dell'Egitto”. L'Italia e l'Europa sono fuori, il due di picche conta molto
di più.
Siamo assai spiacenti ma il dottor sottile ha perso la sua “fiducia in una possibile
democrazia islamica”. “Ma prima di arrendersi all'apocalisse, la comunità
internazionale, l'Europa, la Turchia possono fare moltissimo per stringere la loro
pressione attorno alle parti in causa e spingerle verso quell'accordo, che esse di
sicuro oggi non vogliono”. Un classico caso in cui gli incendiari si mettono a fare anche i
pompieri. Mal gliene incolga. Ma il sottilissimo ha anche una proposta: un governo egiziano
di larghe intese. Ferragosto, cervello mio non ti conosco!
Nulla di nuovo sotto il sole 24 ore su 24.
1 “Al momento la società palestinese è nella condizione di essere un serial killer”, in Survival of the Fittest?
An Interview with Benny Morris By Ari Shavit, Ha’aretz, 9 january 2004
2 Il Manifesto, 15 agosto 2013, intervista di Giuseppe Acconcia a Ala al Aswani.
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IlSole24Ore20130814 Quando il golpe è rivoluzionario di Vittorio Emanuele Parsi
Continua a crescere la tensione in Egitto. Mentre si rincorrono le voci di un imminente sgombero
forzato delle piazze nelle quali i sostenitori dell'ex presidente Morsi sono accampati da settimane,
il governo ha destituito 20 governatori provinciali su 27, tutti appartenenti ai Fratelli Musulmani.
La continuazione di sit-in e manifestazioni di piazza è, secondo molti dei suoi dirigenti, l'ultima
carta alla quale la Fratellanza Musulmana sembra potersi affidare per cercare almeno di
riacquistare la centralità della scena politica.
Difficile quindi che la situazione possa spontaneamente "rientrare" in una sorta di normalità.
Alcuni settori minoritari della dirigenza islamista, d'altronde, stanno valutando in queste ore la
possibilità che la scelta di evitare la resistenza a oltranza possa essere "barattata" con la
riammissione nel processo politico, come adombrato ieri dal primo ministro. La sensazione che
vincano i falchi e, soprattutto, che quasi per l'inerzia delle cose si possa arrivare a uno scontro
violento rimane però prevalente. In vista di una tale prospettiva, non stupisce che ci si torni a
interrogare sulla natura del pronunciamento militare del 2 luglio, meno condivisibile che lo si
faccia argomentando circa la natura "democratica" del golpe.
Porsi un simile quesito non è soltanto ozioso ma anche fuorviante. Evidentemente nessun
intervento militare contro le autorità costituite può di per sé essere considerato "democratico".
Persino quando l'esercito interviene contro un regime autoritario, come nel caso della "Rivoluzione
dei garofani", che il 24 aprile 1974 pose fine alla dittatura in Portogallo, la democrazia sta
nell'esito (possibile) e non nella natura dell'intervento. Sostenere quindi l'impossibilità
dell'esistenza di un "golpe democratico" è un'ovvietà che però cela un più pericoloso e fuorviante
errore analitico. Nel valutare l'intervento militare egiziano del 2 luglio, la sola cosa che conta è
capire dove esso si collochi rispetto al processo rivoluzionario che, al suo esordio aveva portato
alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Così come ciò che va compreso del regime instaurato da
Morsi non è la presunta "democraticità" della sua elezione (che nulla dice circa la natura
democratica del regime) ma, ancora una volta, la sua collocazione all'interno di un processo
rivoluzionario tuttora in corso.
Frutto delle pressioni del movimento dei Tamarod (ribellione), che rifiutavano l'accentramento
nelle mani del presidente Morsi di alcune prerogative tipiche del potere giudiziario e che
contestavano l'aumento della corruzione, la disastrosa e incompetente gestione economica,
l'occupazione sistematica da parte della Fratellanza di ogni posizione di potere, centrale o
periferica, la crescente intolleranza nei confronti di quanti non intendessero conformarsi al nuovo
"puritanesimo ufficiale", e la natura settaria e illiberale della nuova Costituzione, il colpo di Stato
di al-Sisi sembra voler indirizzare la rivoluzione, piuttosto che fermarla.
È il "18 Brumaio" della rivoluzione egiziana, perché esattamente come quello di Bonaparte nel
lontano 1799, l'intervento di al-Sisi non ha alcun intento restaurativo del vecchio ordine
ma semmai è motivato dalla preoccupazione che il nuovo disordine possa mettere a rischio la
sopravvivenza stessa del Paese, trascinandolo nella spirale delle lotte settarie (pii contro laici).
In questo senso, la questione dirimente è se al-Sisi abbia "difeso" la rivoluzione, e se
Morsi la stesse "tradendo", se la Fratellanza (che non c'era in piazza Tahir a sfidare la polizia di
Mubarak) la stesse dirottando a suo uso e consumo oppure no. Che le rivoluzioni possano essere
innescate o punteggiate da pronunciamenti dell'esercito non è una novità, neppure restando alla
sola storia egiziana. Furono i militari a guidare la rivoluzione del 1952 che, partita come un colpo
di Stato, innalzò con Nasser la bandiera del panarabismo, allo scopo innanzitutto di riscattare
l'Egitto dalla profonda prostrazione in cui stava languendo da decenni. Le domande che oggi
dobbiamo porci rispetto al golpe di al-Sisi sono molto semplici e richiamano quelle dei tempi di
Nasser (che non per caso ebbe come acerrimi nemici i Fratelli Musulmani): esisteva una minaccia
puntuale alla rivoluzione e al futuro stesso del Paese tale da giustificarlo? E credo che la risposta
sia un doppio sì. Non solo Morsi stava progressivamente cercando di monopolizzare il potere in
modo assoluto (un'accusa mossagli pubblicamente due giorni or sono anche da Sherif Taha, figura
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di spicco dei salafiti egiziani). Ma, soprattutto, lo stava facendo attraverso decisioni che
rischiavano di coinvolgere l'Egitto nella guerra civile siriana, dimostrando di anteporre l'interesse
"dell'internazionale islamista" rispetto a quello nazionale dell'Egitto. Qualcosa di intollerabile per
l'esercito, pilastro dell'identità nazionale e custode della memoria di Nasser. Il quale, semmai, era
riuscito a piegare il panarabismo all'interesse egiziano (con l'esperienza della sostanziale
annessione della Siria ai tempi della Repubblica Araba Unita), e mai avrebbe potuto contemplare il
suo contrario.
Il golpe di al-Sisi non è, e non poteva essere, un golpe "democratico", ma è un golpe
"rivoluzionario", ovvero un tentativo di salvare e indirizzare la rivoluzione, evitando che
essa venga completamente dirottata e svuotata dalle pratiche totalitarie di Morsi e del
suo partito. Vedremo se riuscirà nel suo intento; ma occorre essere consapevoli che l'alternativa,
giunti a questo punto, potrebbe essere una devastante guerra civile di stile "algerino" o "siriano".
IlSole24Ore20130818 Gli interessi dietro l'ipocrisia dei valori Vittorio Emanuele Parsi
… interrogativo che occorre maneggiare con estrema cautela, per evitare la riproposizione delle
tesi "culturaliste" (e più ostili al mondo arabo), come quelle di Bernard Lewis o di Samuel
Huntington, poco o nulla utili in un simile frangente. Il punto in questione, semmai, dovrebbe
essere quello della compatibilità tra islamismo politico e democrazia: e non c'è dubbio che
osservando quando sta capitando dalla Tunisia all'Egitto, dalla Libia alla Siria e persino in Turchia,
la risposta a un simile dubbio dovrebbe essere risolutamente negativa. Dovunque raggiungono il
potere, sia pur attraverso elezioni corrette, i partiti islamisti tentano di realizzare un "golpe
bianco", cioè di sovvertire le regole e le procedure democratiche sfruttando i canali dell'
amministrazione pubblica e così ottenendo, "a suon di decreto", quello che altrimenti avrebbero
perseguito con la rivoluzione islamica. Quello su cui vorrei però invitare a riflettere è il repentino
cambio di atteggiamento rispetto alla questione della compatibilità tra islamismo politico e corretto
funzionamento delle regole democratiche da parte delle potenze occidentali e, in particolare da
parte degli Stati Uniti, che abbiamo visto compiersi nell'ultimo decennio. Che cosa ha fatto sì che
gli stessi Paesi che avevano appoggiato il golpe attuato dall'esercito algerino tra il primo e il
secondo turno delle elezioni del dicembre 1991 per evitare il trionfo del Fronte Islamico di
Salvezza, o che avevano "sospeso" le conseguenze politiche della vittoria di Hamas nelle elezioni
di Gaza nel gennaio 2006, abbiano invece concesso tanta fiducia alla Fratellanza Musulmana e al
governo del presidente Morsi? La mia risposta è che la "fede nei valori democratici" e il
convincimento che essi sarebbero stati ben custoditi nelle mani degli islamisti non c'entrano
niente. Un rovesciamento così plateale dell'atteggiamento occidentale, dall'ostilità alla fiducia, non
è stato il prodotto di un'attenta riflessione sull'evoluzione dell'islarnismo politico. Come al solito,
come per l'Algeria ne1 1991 o Gaza nel 2006, ciò che ha guidato le decisioni occidentali su un
tema così cruciale sono stati gli interessi e non certo i "valori": la paura che un governo del FIS
avrebbe messo in discussione i vitali contratti di fornitura di idrocarburi stipulati con il regime
precedente; la paura che un governo palestinese islamista avrebbe contribuito a far franare tutta
la fragile architettura della presenza Usa in Medio Oriente, basata sulla centralità degli accordi di
Camp David; la speranza che un Egitto guidato dalla diarchia "Fratellanza-esercito" sarebbe stato
un più stabile e miglior guardiano di quegli stessi accordi. In particolare, rimonta al dicembre 2005
l'inizio della strategia dell'attenzione da parte della seconda amministrazione di George W. Bush
nei confronti del cosiddetto "islamismo politico moderato" ed è legata, ancora una volta, a una
semplice questione di interesse: la necessità e l'urgenza di trovare exit strategies politiche al
fallimentare interventismo occidentale in Medio Oriente, riacutizzatosi dopo la fine Guerra Fredda
(guerra del Golfo, 1990-91), quando il sistema regionale mediorientale, non più compresso dalla
dinamica bipolare sovietico-americana, letteralmente iniziava ad implodere. È in nome della nostra
utilità e dei nostri interessi - e non in nome dei nostri valori - che abbiamo prima contestato ogni
plausibilità della relazione tra islamismo politico e democrazia e poi mutato radicalmente opinione.
Incidentalmente, la prima riflessione era corretta,la seconda infondata, ma tutto ciò, con le
decisioni adottate, non ha avuto quasi nessuna relazione. Ricordo solamente che in precedenza,
nel 2002, si era verificato un altro fatto che avrebbe influenzato lo slittamento delle posizioni
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occidentali sulla questione, ovvero la vittoria dell'Akp di Erdogan alle elezioni politiche turche, che
si sarebbe ripetuta, amplificata, nel 2006 e nel 2011. All'indomani dell'11 settembre il dossier
turco sembrava avvalorare l'ipotesi che la presenza al potere di un partito islamista "moderato"
non implicasse alcuna minaccia per la democrazia, né il venir meno dell' allineamento politicomilitare del Paese con l'Occidente. I fatti recenti indurrebbero oggi a maggior cautela. E da
sottolineare come l'amministrazione Obama non si sia discostata, in termini di apertura di credito
all'islam politico, da quella che l'aveva preceduta. Anzi, proprio la volontà di implementare più
rapidamente le exit strategies dai teatri afghano e iracheno e l'ampia libertà di manovra lasciata
alla Turchia, all'Arabia Saudita e al Qatar, hanno semmai accentuato la tendenza. È la politica del
doppio binario seguita da Obama ancor prima della caduta di Mubarak, che manteneva i legami
con l'esercito mentre intensificava i contatti con la Fratellanza, anche nell'illusione che l'islamismo
politico moderato rappresentasse un "alleato naturale" contro il jihadismo. È quella che, d'altra
parte, resta ben sintetizzata nel discorso che il presidente Obama tenne di fronte agli studenti del
Cairo il 4 giugno 2009, sulla necessità di «un nuovo inizio tra America e Islam». L'atteggiamento
americano (e occidentale) verso l'islamismo politico, così incoerente e ondivago alla
luce dei "valori", diventa invece ben più coerente, se letto, tradizionalmente, in termini
di interessi. Coerente ma non necessariamente vincente o lungimirante ...
Fratelli musulmani
Costituiscono una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali. Sulla carta il loro
approccio all'lslam è politico. Il movimento fu fondato nel 1928 da al-Hasan al Banna proprio in
Egitto, poco più di un decennio dopo il collasso dell'Impero ottomano. Le autorità militari egiziane
che hanno preso il controllo del Paese hanno dichiarato che intendono mettere al bando il
movimento.
IlSole24Ore20130818 Gli errori da non fare per il futuro dell'Egitto di Giuliano Amato
Delle vicende egiziane avevo scritto qui ai primi di luglio. Avevo concluso con la speranza che non
finisse in un bagno di sangue e con la fiducia che la democrazia islamica non dovesse rivelarsi
nulla più che un ossimoro. Ora la mia speranza è caduta, perché al bagno di sangue ci siamo
arrivati. Deve cadere anche la mia fiducia in una possibile democrazia islamica, perché siamo al
fallimento dell'islamismo moderato, come titolava un articolo di Roberto Toscano su La Stampa di
giovedì scorso.
È difficile non concordare oggi con quanto ha affermato il Presidente Obama, quando ha
denunciato tre giorni fa le violenze egiziane. È vero che Mohammed Morsi era stato eletto
Presidente con elezioni democratiche, ma è anche vero – ha aggiunto Obama – che il suo governo
non è riuscito ad essere inclusivo né ha impostato il rapporto con coloro che ne erano fuori su
binari rispettosi dei loro diritti. La democrazia si misura su questo terreno, non meno che su quello
delle elezioni, e qui - lo notavo io stesso nell'articolo ricordato all'inizio - i paradigmi non
democratici presenti nella cultura dei Fratelli Musulmani egiziani hanno giocato un ruolo vistoso.
C'è da chiedersi tuttavia se sia interamente dovuta alle loro colpe la reazione, anche popolare, che
ha posto fine al loro governo. E la durezza con la quale i militari li stanno trattando porta a una
lettura retrospettiva dei fatti non necessariamente a senso unico. Va intanto ricordato che il Morsi
iniziale non aveva manifestato intenti chiusi e integralisti. Ma si è trovato, da una parte una elite
liberal democratica che alle spalle non aveva alcuna vera organizzazione politica, ma quei tanti e
disparati filamenti utili a trovarsi anche più volte in piazza, non a formare il consenso politico che
deve assistere con continuità un governo. Dall'altra si è trovato forze armate molto legate, in
realtà, al vecchio establishment, che hanno assecondato e sostenuto l'ostilità e la resistenza da
questo messe in campo nei confronti di ogni cambiamento.
È ben vero che al proprio vertice supremo i militari hanno collocato un generale di notoria e
professa fede musulmana come Abdul Fattah al Sisi. Ma c'è da chiedersi oggi se lo hanno fatto per
suscitare la fiducia dei Fratelli Musulmani ovvero nell'aspettativa di soppiantarli nel rapporto
diretto con le masse islamiche. Certo si è che a un certo punto i Fratelli Musulmani possono
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essersi sentiti accerchiati e in pericolo e al loro interno è prevalsa l'ala più dura, che ha spinto
Morsi a far fuori gli altri prima che gli altri facessero fuori lui. Ne è uscita quella disgraziata
dichiarazione costituzionale mirante a subordinare al Presidente la stessa Corte Costituzionale, ne
è uscita la mano libera contro i copti, ne è uscita la persecuzione a tappeto degli oppositori.
Quando i militari hanno deciso che era tempo di reagire, venti milioni di egiziani erano già pronti a
sostenerli. Non so quanta realtà vi sia, e quanta fantapolitica, in questa ricostruzione, che devo
peraltro non alle mie personali deduzioni, ma a chi l'Egitto lo conosce assai meglio di me. Certo si
è che, a questo punto, i fatti sembrano dar ragione all'analisi appena pubblicata da Steven Cook
sul sito di Foreign Policy: i protagonisti della vita politico-istituzionale egiziana non si riconoscono
l'uno con l'altro e chi vince finisce per puntare a un assetto che gli garantisca il potere esclusivo.
Col che, alla lunga, soltanto i militari o i grandi dittatori ad essi legati riescono a farcela con
adeguata stabilità. È questo il destino dell'Egitto di domani, è l'incoronazione del generale Al-Sisi?
Ma si può restaurare il tempo di Nasser o del primo Mubarak in un mondo arabo nel quale già in
queste ore preme tutt'intorno la solidarietà per la Fratellanza, prefigurando quell'effetto domino di
cui ha scritto ieri Alberto Negri? Personalmente non lo credo e se il generale Al-Sisi ci dovesse
provare, il sangue di questi giorni lo accompagnerebbe per il resto del suo mandato. Io non
escludo che quella diversa parte del mondo arabo che oggi finanzia le forze armate egiziane con
dieci volte i miliardi di fonte americana, le voglia nel ruolo di braccio armato con il compito di
sterminare la Fratellanza.
Ma perseguire questo compito significa trasformare la stessa Fratellanza in un movimento sempre
più estremista, con frange e connessioni terroriste che finirebbero per dare all'Egitto un destino
peggiore di quello algerino, con attentati, sequestri, uccisioni. Generalizzata insicurezza ed elezioni
sempre più distanziate, o sempre più manipolate, per evitare sorprese. Non lo reggebbero i liberali
egiziani, non lo reggerebbe l'economia, che vive di turismo e ha assoluto bisogno di pacificità e
sicurezza, non lo reggerebbe il mondo circostante a partire da noi europei. Si può ancora evitare
uno scenario del genere? Si può cominciare, certo, con gli appelli a porre fine alla violenza e mi
rendo conto che in una prima reazione nè il Consiglio di Sicurezza né gli europei potevano andare
molto al di là. Ma è evidente che gli appelli non bastano e neppure le minacce di tagli agli aiuti, se
non sono accompagnate dalla promozione di prospettive di governo che creino robusti antidoti
contro la violenza. Ed oggi di prospettive del genere ce n'è una sola, quella -diremmo noi- di un
governo di larghe intese, perseguito, non con gli inviti rivolti dai militari alla Fratellanza dopo
l'arresto di Morsi (che li rendeva ovviamente inaccoglibili), ma con effettiva e credibile
determinazione, manifestata, fra l'altro dalla liberazione dello stesso Morsi.
Lucio Caracciolo ha scritto ieri su La Repubblica che non ci sono più pompieri per domare
l'incendio. Ma prima di arrendersi all'apocalisse, la comunità internazionale, l'Europa, la
Turchia possono fare moltissimo per stringere la loro pressione attorno alle parti in
causa e spingerle verso quell'accordo, che esse di sicuro oggi non vogliono. È a questo
fine che serve mettere in gioco da parte di ciascuno i rapporti che ha con l'Egitto, la continuità
della sua partecipazione a contesti internazionali che concorrono al suo ruolo, la reputazione di cui
godrà, che nel mondo di oggi è un fattore importantissimo e tanto più lo è per i paesi che vivono
offrendo agli altri il loro patrimonio culturale e turistico. Non avrebbe vita facile un governo
egiziano di larghe intese. Ma sarebbe per le sue componenti una scuola essenziale di
convivenza e di accettazione reciproca, una scuola sulla concezione stessa del potere democratico
che, in quanto tale, non può essere mai dimentico delle ragioni di chi non ne sia
temporaneamente investito. Sono idee e concezioni che albergano anche nella Fratellanza, certo
insieme ad altre che le contraddicono. Se si riesce a farle prevalere, e non invece a farle
distruggere, un filo della mia fiducia nella democrazia islamica rimarrà vivo.
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