ANDAR PER MOSTRE IN PRIMO PIANO DOSSIER

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Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410
Anno XXXXV - N. 1 - marzo 2012 • Abbonamento annuo euro 20,00 - Sostenitore euro 26,00
IN PRIMO PIANO
Novecento forlivese
ANDAR PER MOSTRE
Giovanni Pini: il colore vale più del segno
DOSSIER
Wildt, l’anima e le forme da Michelangelo a Klimt
Questa la frase con cui Il poeta Giosuè Carducci definì Villa Pandolfa e
Paola Piscopo, attuale proprietaria, ha raccolto quest’eredità contribuendo
con grande passione a mantenerne il fascino e la seduzione agreste del
passato. Il suo impegno nel conservare le splendide sale, gli affreschi,
l’ampio scalone, con una sapiente opera di restauro, rendono sicuramente
La Pandolfa una delle residenze d’epoca più significative della Romagna.
1941
Merlot IGT 2009
Via Pandolfa, 35 - 47016 Fiumana di Predappio (FC)
Tel +39 0543 940073 - Fax +39 0543 940909 - [email protected] - www.pandolfa.it
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Villa Pandolfa
SOMMARIO
IN PRIMO PIANO
editoriale
04
Novecento forlivese
di Marino Mambelli
MUSICA08
Forlì “capitale” del 150°:
un percorso di cultura e identità
La chitarra eclettica di Andrea Benzoni
di Stefania Navacchia
La stagione musicale 2012
del Teatro Diego Fabbri
di Rosanna Ricci
BELCANTO10
Ines Lidelba: da contessa meldolese
a cantante di fama mondiale
di Roberta Paganelli
DOSSIER12
Wildt, l’anima e le forme
da Michelangelo a Klimt
a cura di Paolo Rambelli
ANDAR PER MOSTRE
18
Giovanni Pini: il colore vale più del segno
di Rosanna Ricci
RICORRENZE22
La scienza e l’arte di Pellegrino Artusi
di Mario Proli
Forlì underground24
Le quattro stagioni dell’uomo nutria
di Mario Proli
in cauda venenum26
Impressioni non oggettive
su un viaggio a Roma
di Ivano Arcangeloni
«IL MELOZZO»
Che la storia di Forlì abbia fra i connotati
principali la passione per l’amor di patria
è un elemento consolidato della tradizione
culturale. La città ha dato idee, sangue e
sacrifici per affermare l’indipendenza e l’identità italiana, in una prospettiva forgiata
anche dai valori di libertà, partecipazione
e uguaglianza. Ciò detto, con lo sguardo
rivolto al passato, era difficile immaginare che una tale tradizione potesse essere
così fortemente attualizzata dalle iniziative
tenute per il 150° anniversario dell’Unità nazionale. E, per di più, che grazie a
questa ritrovata consapevolezza Forlì potesse affermarsi sulla scena italiana, conquistando un ruolo di primo piano grazie
all’assegnazione da parte del Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano di un
riconoscimento speciale alla Città. La consegna è avvenuta in occasione della cerimonia solenne in Quirinale di sabato 17
marzo 2012, ad un anno esatto di distanza dal giorno in cui tutta l’Italia si è stretta
al Tricolore per lo straordinario compleanno. Il prestigioso encomio è stato conferito
dal Capo dello Stato al Sindaco Roberto
Balzani, al quale è riconosciuto il merito di
aver contribuito a rilanciare, a livello locale
e anche nazionale, un confronto sui temi
dell’identità italiana. Vivo in tutti noi è il
ricordo della visita ufficiale del Presidente
della Repubblica, avvenuta il 7 e 8 gennaio 2011, quando aprì il programma delle
celebrazioni. In quell’occasione il Sindaco
Balzani, come rappresentante di Forlì e in
qualità di professore universitario di storia
contemporanea, propose al Teatro “Diego
Fabbri” una lettura del Risorgimento in ambito romagnolo e internazionale che portò
il Presidente Napolitano ad indicare la nostra Città quale esempio di come coltivare
il confronto con la memoria. Dopo quella
visita, Forlì ha vissuto con grande intensità l’anno del 150°, mettendo in campo un
programma ricco d’iniziative ed eventi che
ha avuto come momenti culminati “L’alba
della nazione” in piazza Saffi, il 17 marzo, e il “Pranzo Patriottico” del 4 giugno
(entrambi ricordati nello scorso numero del
Melozzo). Chi ha seguito in diretta su Rai
Uno la cerimonia in Quirinale, durante la
quale è stato consegnato il riconoscimento, avrà colto il fatto che il sindaco di Forlì
sedesse accanto a quelli delle tre capitali
(Torino, Firenze e Roma), alla città natale
di Mazzini e punto di partenza dei Mille
(Genova), al porto d’approdo delle navi
dei Garibaldini (Marsala) e alla città dove
nacque il Tricolore (Reggio Emilia). In tutto
pochissime città. Perché Forlì? Certamente
per i tanti patrioti e per i personaggi autorevoli come Saffi e Maroncelli. Ma, soprattutto, per il contributo offerto oggi all’opera
di attualizzazione di valori e ideali che non
devono essere considerati reliquie del passato ma energie per il presente e il futuro.
Un concetto fondamentale che quella stessa mattina è stato rimarcato dal Presidente
Napolitano e, a modo suo, anche da Roberto Benigni, con interventi molto diversi
che hanno animato passioni e sentimenti
come solo la vera cultura sa fare.
Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì
Primo numero 14 marzo 1968
Direttore: Rosanna Ricci
Edizioni In Magazine srl
via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì
tel. 0543 798463 - fax 0543 774044
Stampa: Grafiche MDM - Forlì
Uscita trimestrale.
Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410
Redazione:
Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli,
Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli
In copertina “Acquasantiera” di Adolfo Wildt
Foto di Giorgio Sabatini
Hanno collaborato a questo numero:
Ivano Arcangeloni, Marino Mambelli,
Stefania Navacchia, Roberta Paganelli
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IN PRIMO PIANO
NOVECENTO FORLIVESE
4
Viale della stazione, vetrina
forlivese del regime. Cartolina
illustrata spedita nel 1936.
di Marino Mambelli
ADDIO VECCHIE TRACCE
Novecento, il secolo imprevedibile. Il più
veloce, il più contraddittorio. Il più straordinario.
C’è un’azienda storica forlivese di interesse
internazionale che incarna l’evoluzione del
‘900, è la Bartoletti, azienda leader nella
carrozzeria e nei rimorchi. Nata a Carpinello nel 1873, fu per lungo tempo costruttrice di carri, calessi e attrezzature agricole.
Il Museo etnografico “Benedetto Pergoli” di
Forlì possiede un prezioso “biroccio” costruito proprio dai Bartoletti (i Carradori) nel
lontano 1905.
Lo sviluppo e l’economia suggerirono il trasferimento dell’azienda in città, vicino alla
ferrovia, ed ecco che negli anni ’30 nacque in via Andrea Costa un nuovo stabilimento capace di rispondere a importanti
commesse dell’Esercito, della Fiat, delle
Ferrovie... Ma poi di nuovo tutto cambiò. I
piani regolatori trasformarono le zone industriali del centro in aree di riqualificazione
e le aziende, quelle in grado di sostenersi,
se ne andarono in periferia, vicino all’autostrada. A Forlì, come in tutt’Italia, quelle
aree dismesse oggi sono oggetto di nuova
urbanizzazione o, nei casi più importanti,
di interesse archeologico industriale. Che
storia, quella dell’archeologia industriale:
archeologia significa antico, industria manifesta il moderno. Un termine coniato appositamente per rappresentare le contraddizioni del XX secolo e forse per suggerire
qualche ripensamento.
Ma torniamo al Museo etnografico “Benedetto Pergoli”. Nei suoi depositi c’è un
pannello fotografico che ritrae un prodotto
degli ex Carradori realizzato qualche anno
dopo quel 1905. Era il 1983 e l’Italia intera stava vivendo il grande mito popolare
di Azzurra, del forlivese Cino Ricci e della
Coppa America. Il viaggio verso Newport
(USA) dello scafo simbolo dell’intelligenza
italiana fu realizzato utilizzando un rimorchio Bartoletti. Ora Newport e Carpinello
sono affratellate da una stessa insegna, da
uno stesso museo, da uno stesso secolo, il
più bizzarro.
Il ‘900 forlivese in una parola? Emblematico. Erano i primi anni del secolo quando
ebbe inizio la demolizione delle antiche
mura fortificate forlivesi. Un percorso che
ogni città italiana affrontò nella corsa verso
lo status di città moderna, senza più divisione tra città e campagna, aperta. La nascita
dei viali e delle aree di ampliamento urbano
fu una conseguenza quasi irrinunciabile, ma
la ragione degli abbattimenti non fu sempre
quella legata alla necessità vera. A Forlì giocò una parte importante la cosiddetta modernità.
Una legge del 1930 decretò la fine del Dazio e di conseguenza le barriere subirono
ogni sorta di destinazione. Nelle loro stanze trovarono spazio banche, uffici pubblici,
negozi, la biglietteria del tranvaj, i gruppi
rionali fascisti, abitazioni. Poi servì altro spazio: per costruire, come nel caso di porta
Cotogni, o semplicemente per liberarsi del
vecchio, come in piazzale Ravaldino.
Addio anche a sorpassate strutture come lo
Sferisterio che nella nostra città costeggiava viale Corridoni. Si giocava il pallone a
bracciale e il campo era uno dei più lunghi
d’Italia. I lavatoi pubblici di via Andrelini e
via Don Bosco seguirono il destino del vecchio da eliminare e così i vespasiani: decine e decine in tutta la città, in via delle
Torri, in piazzetta San Crispino, in piazza
del Duomo, in piazza Saffi. Oggi in tutta la
penisola si rimpiangono i vespasiani.
LA MADONNA DEL FUOCO
Quando Mussolini istigò la folla alla distruzione della colonna secentesca della Madonna del Fuoco in piazza Vittorio Emanuele a Forlì, lo fece sulle pagine dell’organo
ufficiale socialista locale Lotta di classe di
cui era direttore. L’assalto a quello che venne definito il monumento della superstizione
portò alla rimozione dello stesso monumento
nell’ottobre del 1909. Qualche anno dopo,
in perfetta linea con il carattere instabile del
‘900, qualcosa era profondamente cambia-
5
IN PRIMO PIANO
Il biroccio costruito dai Bartoletti
a Carpinello nel 1905.
Forlì, Museo etnografico
“Benedetto Pergoli”.
Un vespasiano in piazza
del Duomo. Cartolina illustrata
degli anni ’20.
to. La statua, nascosta per anni, fu collocata
su di una nuova colonna marmorea in piazza del Duomo. Tra i promotori c’era un certo
Benito Mussolini che su Lotta di classe non
scriveva decisamente più. Era il 1928, il regime aveva disegnato una nuova Forlì sia
dentro che fuori dal centro storico. Soprattutto fuori. Il viale della stazione diventerà la
vetrina dell’architettura del ‘900.
LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
Da un po’ di tempo, in una scuola elementare di un quartiere popolare di Forlì, il maestro
Fratti si stava lamentando perché l’inchiostro
dei calamai era letteralmente agli sgoccioli.
Abbiate pazienza, aveva risposto più volte,
seccato, il direttore. Ma l’inchiostro non arrivava e il maestro un giorno alzò la voce. L’anziana bidella cercò di calmarlo e poi sparì
verso la porta del direttore sospirando una frase indimenticabile: stavolta e fa e geval (questa volta diventerà furibondo). Tornò dopo due
soli minuti. Aveva una curiosa espressione. Si
piazzò davanti al maestro e con tono ufficiale
dichiarò: Il direttore ha detto di usare la birra.
La birra? Ripeté il maestro.
Sì, la birra! Girò i tacchi e uscì dall’aula
lasciando all’insegnante il problema da
risolvere. Ridemmo tutti, soprattutto per la
goffa immobilità del maestro. Cos’ha detto?
– pensammo noi bambini – Il direttore è matto. La birra è trasparente... Non può essere
usata come inchiostro. Capimmo solo in seguito che il temuto direttore non aveva detto
di usare la birra, ma la biro, la sconosciuta
penna biro, la moderna penna a sfera inventata dall’ungherese Laszlo Birò.
L’anziana bidella forlivese era rimasta simpaticamente vittima di una delle tante rivoluzioni che il ‘900 ha riversato silenziosamente sulla nostra vita trasformandola. Non
avremmo mai più abbandonato la penna a
sfera. Geniale. Geniale chi? L’inventore Birò
o il francese nato a Torino Marcel Bich che
comprò il brevetto e invase il mondo con la
penna Bic diventando ricco e famoso?
Geniale il ‘900. Geniale, imprevedibile.
Unico.
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Marino Mambelli.
Marino Mambelli è uno scrittore e giornalista, profondo conoscitore di Forlì e della sua
storia. Funzionario responsabile della conservazione immobiliare del Comune di Forlì,
ha curato anche mostre, donazioni e cataloghi. La sua ultima fatica data alle stampe è
“900 forlivese anzi italiano”, corposa raccolta di storie e immagini della città edita da
La Mandragora, che si presenta come un saggio dal taglio giornalistico in cui convivono
aneddoti e documenti ufficiali, costruzioni e devastazioni, sorrisi e paure.
Il tutto raccontato con uno sguardo attento e appassionato, capace di cogliere le tante
sfaccettature di questo formidabile secolo.
Il secondo volume delle
“52 domenIche In Romagna”
Un nuovo viaggio in un territorio che non smette di stupire
le cIttà e I boRghI, la natuRa e la stoRIa, la costa e l’entRoteRRa
Le “52 domeniche in Romagna” tornano con un secondo volume che narra
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MUSICA
La chitarra eclettica
di Andrea Benzoni
Andrea Benzoni durante
una performance alla chitarra.
di Stefania Navacchia
Entrare in un mondo come quello della musica spesso significa perdersi in fiumi, canali e
rivoli che si incrociano, si intrecciano, si avvicinano, si separano, formando idealmente
i disegni più impensati, che sono la rappresentazione più autentica dell’esperienza di un
artista che vuole immergersi in toto nell’universo musicale. Con queste premesse vogliamo
cercare di descrivere il “disegno” del forlivese
Andrea Benzoni che ha iniziato a studiare
musica quasi per gioco. Durante le lezione
private sentì la necessità di andare oltre gli
schemi rigidi del suo primo insegnante, non
troppo aperto alle soluzioni non convenzionali
dell’allievo. Presto sentì l’esigenza di unire formazione e lavoro concreto con la musica: a
sedici anni cominciò a suonar in varie orchestre da ballo e a diciotto si diplomò alla High
School in Oregon, dove conobbe Howard
Roberts, da cui fu introdotto agli studi jazzistici. Ventenne risiedette circa un anno a Parigi
per eseguire la musica dello “Hot Club de
France” (Grappelli-Reinhardt). Tornato in Italia,
frequentò il conservatorio dedicandosi anche
allo studio della chitarra classica, del pianoforte e della composizione. Nel suo vagare in
questo universo in continua espansione Benzoni trovò “guide” importanti come G. Haus,
con cui approfondì lo studio della musica elettronica, Tomaso Lama per il jazz e Giovanni
Unterberger per il fingerstyle. Il suo rapporto
con l’estero continuò frequentando diverse sessioni presso la Berklee College of Music e Boston e vari seminari con artisti come Jim Hall,
John Abercrombie, Joe Pass. Parallelamente lo
studio proseguì anche in Italia sia a Bologna
con la laurea in Musica d’uso e in Musica
elettronica (composizione moderna ad indirizzo multimediale), sia a Milano studiando
direzione d’orchestra con Maurizio Dones.
Grazie a questa formazione multiforme il rapporto “ad ampio raggio” che Benzoni ha con
la musica gli consente di affrontare i più diversi generi. Se da un lato questo eclettismo è
difficile da gestire perché costringe ad affrontare situazioni complesse, dall’altro propone
sfide sempre affascinanti, nuove, profonde e
ricche. Un simile approccio multidirezionale al
mondo della musica si traduce concretamente
8
in una molteplicità di impegni lavorativi e di
ruoli che Benzoni può assumere: si crea una
situazione che egli considera nello stesso tempo “fortuna” e “dannazione”, ma in ogni caso
gli offre occasioni di “giocare con la musica”,
o meglio “giocare con il suono”. È interessante
qui ricordare che nella lingua inglese il verbo
“to play” ha il doppio significato di “suonare”
e “giocare” e proprio questa duplice valenza
si avverte ascoltando Benzoni: questo “giocare con il suono” appare evidente in alcuni
suoi brani come Guitara, dall’omonimo cd del
2011, completamente costruito sul suono di
una corda della chitarra elaborata elettronica-
mente in diversi modi. Questo atteggiamento
eclettico lo ha portato a collaborare con artisti
provenienti dalla musica colta come Danilo
Rossi e Giuseppe Ettorre, rispettivamente prima viola e primo contrabbasso dell’Orchestra
Filarmonica della Scala, con i quali nel 2003
ha realizzato il cd Amico Mio. Come solista
ha partecipato a numerosi Festival ed è stato scelto per una raccolta della Mel Bay. Sta
lavorando a una nuova performace, già
presentata in Repubblica Ceca, dove è sul
palco da solo con le sue chitarre e spera di
portarla anche a Forlì per renderci partecipi
delle sue esplorazioni degli universi musicali.
La stagione musicale 2012
del teatro Diego Fabbri
Il violinista Paolo Chiavacci
(in alto) e l’Orchestra Maderna
(in basso).
di Rosanna Ricci
Una partenza col botto è la stagione musicale del 2012 al teatro Diego Fabbri di
Forlì. La rassegna è stata aperta il 31 gennaio con un nome di eccellenza: il grande violinista Uto Ughi, nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1944 e considerato tra i
maggiori violinisti del nostro tempo con un
percorso musicale che lo ha visto presente in tutto il mondo. A Forlì Uto Ughi viene
volentieri “perché mi piace la spontaneità
e la partecipazione emotiva del pubblico”,
spiega il violinista. Poi, riferendosi all’attuale situazione musicale in Italia aggiunge:
“C’è da salvare la tradizione della cultura
musicale italiana. Oggi in Italia sono state
chiuse oltre 200 associazioni musicali e 4
grandi orchestre sinfoniche, per mancanza
di fondi. Ce n’è rimasta una sola, mentre,
ad esempio, la sola Berlino ne ha dieci”.
Ughi suona due splendidi strumenti: un violino Guarneri del Gesù del 1744 e uno
Stradivari del 1701 ma, secondo il musicista, gli strumenti sono solo “un mezzo per
trasmettere un messaggio che va al di là
delle note e raggiunge il cuore. In questo
caso i cuori dell’ascoltatore e del musicista
battono assieme”. Assieme ad Uto Ughi
sul palco c’era anche la forlivese Orchestra Maderna con Paolo Chiavacci (violino
concertatore). Questa orchestra ha vinto,
assieme all’Associazione Amici dell’Arte, il
bando per organizzare gli eventi musicali
al Diego Fabbri. A loro si è poi associato
l’Istituto Musicale Masini con tre concerti
fuori abbonamento da tenersi nella Sala
Sangiorgi dell’Istituto.
Molto attesa la serata del 2 aprile con
“Rien De Rien”, le canzoni di Edith Piaf interpretate dalla voce della forlivese Daniela
Piccari con interventi di danza di Giorgia
Maddamma, concertatore ed arrangiamenti di Valentino Corvino. Il 21 aprile il musicologo e critico Angelo Foletto converserà
sul concerto “La viola romantica” che verrà
interpretato da Danilo Rossi (prima viola
della Scala) e Stefano Bezziccheri (pianoforte). I brani scelti sono di Glinka, Schubert, Schumann. Il concerto del 23 aprile
si terrà all’Abbazia di San Mercuriale e ve-
drà la presenza di Paolo Chiavacci, Alfredo Persichilli e Pier Narciso Masi che eseguiranno un concerto e sinfonia “Eroica” di
Beethoven.
Seguono due appuntamenti di jazz: il 4
maggio “Beatles in jazz” con Danilo Rea,
Ellade Bandini e Ares Tavolazzi; il 17 maggio Enrico Pieranunzi (pianoforte), Fabio
Petretti e Paolo Silvestri con la Italian jazz
orchestra saranno gli autori di “Per piano
e orchestra”. I concerti fuori abbonamento
realizzati in collaborazione con l’Istituto musicale “Masini” si sono tenuti il 1° marzo
con Ombretta Macchi (soprano) e Filippo
Bulfamante (pianoforte) che eseguiranno
melodie russe. Il 24 marzo il duo pianistico
di Firenze (Sara Bartolucci e Rodolfo Alessandrini, considerati il duo pianistico fra i
più originali ed eclettici degli ultimi tempi)
ha eseguito brani di Czerny, Piazzolla, Addinsell, Rossini. Il 13 aprile concluderà la
rassegna, alla Sala Sangiorgi, il chitarrista
Claudio Marcotulli con musiche di Sor, Tarrega, Mangore, Ponce.
Per prenotazioni e informazioni:
tel. 0543712168, 054362821
cell. 3284604732.
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Belcanto
Ines Lidelba: da contessa meldolese
a cantante di fama mondiale
di Roberta Paganelli
Proseguendo nel mio itinerario romagnolo di
riscoperta delle voci che hanno dato lustro
alla Romagna, ho ritenuto doveroso rievocare la raffinata soubrette forlivese Ines Lidelba (Forlì 1893 - Bologna 1961), perché era
stata ingiustamente dimenticata. In occasione
del cinquantenario della morte ho dato alle
stampe la lunga ricerca, che ha messo in
luce le rare doti artistiche e gli altissimi livelli
di gradimento raggiunti, la popolarità insomma. Il volume Ines Lidelba, la contessa soubrette (Ed. Risguardi, Forlì) è stato presentato
il 16 dicembre 2011 nella Biblioteca “A.
Saffi” di Forlì, dove ha avuto luogo anche
la commemorazione alla presenza dell’Assessore alla Cultura Patrick Leech. Il titolo
vuole rispecchiare volutamente i nobili natali
della famiglia di origine meldolese, i Conti
Fronticelli Baldelli. L’artista aveva adottato lo
pseudonimo di Lidelba ricavandolo dall’anagramma imperfetto del secondo cognome,
Baldelli, per evitare situazioni di spiacevole
imbarazzo ai suoi genitori che non condividevano la scelta artistica intrapresa, in quanto, come lei stessa dichiarò nell’autobiografia, per la loro rigida formazione cattolica
non potevano approvare che frequentasse un
mondo così effimero e pieno di tentazioni.
Non si deve però dimenticare che anche se
la Lidelba fece parte della “lirica minore”,
considerata a torto un genere inferiore, per
la grazia, l’eleganza, l’aspetto aristocratico
si distinse sempre tra le altre interpreti coeve,
quali Nanda Primavera, Isa Bluette, Nella Regini, artiste di quel mondo sfavillante di lustrini,
di piume e di ricercate toilettes che si erano
pienamente affermate quando il genere stava
ormai avviandosi al tramonto. Dalla ricerca
emergono non solo un ritratto e uno spicchio
di storia e di costume, ma il modello di una
femminilità signorile, altera, sensuale e insieme
luminosa nel brio e nella comunicativa.
La quartina del poeta romanesco Umberto
Asquini dedicata alla Lidelba compendia i
plurimi talenti della soubrette:
Nobile, bella, brava, seducente,
fiore sbocciato in tera romagnola,
lei sa fa’ tutto in modo sorprennente:
recita, canta, balla, scrive e vola!
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Un ritratto fotografico di Ines
Lidelba in abiti di scena (a sinistra).
Si sono pure rintracciati gli autografi di illustri
compositori, come Franz Lehár, colui che
ha legato il nome in particolare al successo
trionfale dell’Operetta par excellence, ovvero
La Vedova Allegra: A Ines Lidelba, deliziosa
Clo-Clo, Gigolette suggestiva, Sonia vibrante di passione e di umanità, felice di averla
finalmente conosciuta; con ammirazione per
il suo fascino e la sua viva sensibilità d’artista,
con l’augurio di tanti nuovi trionfi come questo
dello Zarevich, con simpatia vivissima e gratitudine affettuosa.
Persino il celebre cartellonista triestino Marcello Dudovich disegnò per lei un bozzetto e un
bellissimo manifesto nel 1926-’27, che la ritrae
altera, imponente, immersa tra le piume morbide di un boa ed esaltata tra stoffe rigonfie,
mosse dal vento. Lidelba ebbe un’intensa e
splendida carriera, ricca di soddisfazioni e di
applausi, conseguiti in Italia e in lunghe e favolose tournée in America del Sud nel 1924
e nel 1925, cui fece seguito il precoce abbandono delle scene nel 1933 quando l’artista era ancora in forma smagliante, poiché
privilegiò al momento giusto - proprio come
l’altra diva dell’operetta Gea della Garisenda
- la sfera privata al pubblico successo. Imboccò allora malinconicamente il viale del tramonto, che le risultò difficile da percorrere, perché,
com’era avvenuto anche a qualche altra famosa artista, non riusciva a vivere lontana dal
teatro, che “era stato tutta la sua vita”.
Nonostante l’inadeguatezza della fonografia
di quegli anni e la consunzione degli storici e
fragili settantotto giri, faticosamente rintracciati
presso alcuni collezionisti, riaffiora la voce di
un soprano lirico-leggero di eccellente gusto
nel “porgere”, nel fraseggio, nella mezzatinta,
nell’articolazione espressiva, nel brio che cerca di trasmettere al microfono l’illusione della
scena. “Ma deliziosi nella vocalità limpida e
sensuale sono anche i brani dalla Bajadera
e dalla Duchessa di Chicago di Kálmán: Un
dolce slow fox con Mary è incantevole anche
sotto la polvere del tempo. Sono poche istantanee di musica, ma bastano a capire perché
la Lidelba “fosse la Lidelba”, come scrive il
noto critico triestino Gianni Gori nella prefazione del volume. Forlì, la sua città natale, le
ha dedicato una saletta nel Museo Romagnolo del Teatro, sito nel Palazzo Gaddi, dove
si conservano alcuni significativi ricordi legati
alla splendida ed intensa carriera della soubrette che ben volentieri accettò di fare una
donazione, come attesta la lettera di risposta
inviata il 30 ottobre 1952 ad Antenore Colonnelli che le aveva scritto: “Ella, che ebbe
e conservò intera la notorietà acquisita con
un’arte inimitabile nel campo operettistico,
vorrà certo incoraggiare con l’adesione l’iniziativa partita da concittadini che si onorano
Il ritratto ad olio di Ines Lidelba
realizzato da Amilcare Casati
e conservato nel Museo
Romagnolo del Teatro (sotto).
Foto Giorgio Sabatini.
di Lei, come uno degli astri maggiori apparsi
sulla scena di ogni parte del mondo”. Nella “saletta Lidelba” si possono ancora oggi
ammirare alcune interessanti foto, due grandi
bauli da viaggio, un ritratto ad olio del pittore
forlivese Amilcare Casati, un album contenente varie recensioni delle gratificanti esibizioni e
la sua autobiografia, La mia vita nell’operetta,
uscita in un numero così ridotto di copie da
essere oggi quasi introvabile.
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DOSSIER
WILDT, L’ANIMA E LE FORME
DA MICHELANGELO A KLIMT
a cura di Paolo Rambelli
La mostra su Adolfo Wildt (Milano 1868 –
1931) è stata realizzata partendo dall’eccezionale numero di opere donate a Forlì
dal marchese Raniero Paulucci di Calboli
che fu amico e mecenate del grande scultore, vero genio dimenticato del Novecento
italiano. Dopo la grande fama raggiunta in
vita, quando venne celebrato alle Biennali
di Venezia e nominato Accademico d’Italia,
Wildt è stato cancellato per molto tempo, a
partire dalla seconda guerra mondiale, dalla storia dell’arte italiana.
Ai suoi tempi la sua fortuna fu controversa,
tra gli ammiratori colpiti dalla sua grande
tecnica e i detrattori, che li criticavano per
i suoi contenuti ritenuti oscuri e le sue scelte
formali considerate altrettanto eccentriche.
Oggi torna ad affascinarci per la sua solitaria grandezza, fuori dal suo tempo e
proiettata in un eccezionale dialogo con
il passato che questa mostra restituisce. La
mostra in San Domenico non è una rassegna semplicemente monografica, anche se
sono presenti tutte le opere fondamentali
(tranne quelle non trasportabili), ma pone in
relazione le sue sculture e i suoi disegni con
le opere degli artisti, pittori e scultori antichi
cui si è ispirato, come i greci, Donatello,
Ghirlandaio, Bramante, Bramantino, Dürer,
Bambaia, Bronzino, Michelangelo, Bernini,
Canova, e con quelle dei contemporanei,
come Klimt, Previati, Casorati, De Chirico,
Morandi, con cui si è confrontato. O, ancora, gli artisti che lui stesso ha influenzato,
come Fontana e Melotti, suoi allievi all’Accademia di Brera.
ADOLFO WILDT. LA VITA
1868. Nasce a Milano, primogenito dei sei
figli di Adamo Wildt, portinaio a Palazzo
Marino.
1877 – 1890. Dopo essere entrato a undici
anni come garzone nello studio di Giuseppe
Grandi, lavora, a partire dal 1888, per i
più noti scultori lombardi del tempo. Segue
all’Accademia di Brera la Scuola Superiore
d’Arte Applicata.
12
La “Venere di Milo” e
il “Galata morente”
nell’interpretazione di Wildt,
poste nella sala delle quattro
colonne del Museo San Domenico.
Foto Giorgio Sabatini.
13
DOSSIER
“Santa Lucia” (1927), opera di
Wildt della Pinacoteca Civica
di Forlì. Foto Giorgio Sabatini.
1891 – 1893. Nel 1891 sposa Dina Borghi e nel 1892 nasce la primogenita Artemia. La vedova del 1892, ritratto della moglie, viene esposta nel 1893 alla Società
per le Belle Arti a Milano e acquistata nel
1894 dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
1894 – 1912. Sottoscrive con il collezionista prussiano Franz Rose un contratto di
esclusiva durato diciotto anni, sino alla mor-
14
te del suo mecenate, cui doveva assicurare il primo esemplare di ogni sua scultura,
per uno stipendio annuo di quattromila lire.
Viaggia ed espone a Monaco, Zurigo, Berlino, Dresda, partecipando solo episodicamente alle mostre milanesi. Lavorando solo
per collezionisti tedeschi, invia in Germania
più di cinquanta sculture in marmo. Dopo
avere attraversato, dal 1906 al 1909, una
grave crisi depressiva e creativa, ne esce re-
alizzando Maschera del dolore, il proprio
autoritratto siglato con tre croci. Il Vir temporis acti del 1911 e Carattere fiero – Anima
gentile del 1912 caratterizzano una fase
violentemente espressionistica della sua poetica. Dal 1900 lavora ad una monumentale
fontana con tre figure la Trilogia, destinata
a Rose, terminata ed esposta a Milano nel
1912, dove vince il prestigioso premio Principe Umberto.
1913 – 1918. Con il Prigione del 1915
chiude la sua prima fase, caratterizzata da
un tragico eroismo virile, per inaugurare con
L’anima e la sua veste del 1916, Madre
adottiva e Un rosario, entrambi del 1917,
Maria dà luce ai pargoli cristiani del 1918
una nuova stagione creativa caratterizzata
dalla ricerca di una intensa spiritualità, rappresentata in diafane figure femminili.
1919 – 1925. Dopo il successo della sua
personale alla Galleria Pesaro di Milano
nel 1919, dove presenta la straordinaria
Vittoria, si apre un periodo felice, caratterizzato da un grande estro creativo e da una
produttività favorita anche dal rapporto con
Giuseppe Chierichetti, un facoltoso industriale che gli procurò numerose commissioni.
Nel 1925 viene premiato all’Esposizione
Internazionale delle Arti Decorative di Parigi.
Tra il 1923 e il 1924 esegue i celebri ritratti
di Mussolini e di Toscanini.
1926 - 1931. Dopo aver realizzato il busto
colossale di Pio XI, partecipa nel 1926 con
l’erma di Nicola Bonservizi alla I Mostra del
Novecento Italiano a Milano organizzata
da Margherita Sarfatti, che favorirà l’esposizione delle sue opere alle mostre itineranti
del gruppo in tutto il mondo. Nel 1928 vengono collocate le erme eroiche di Filzi, Battisti e Chiesa nel Monumento alla Vittoria di
Marcello Piacentini a Bolzano e il colossale
Sant’Ambrogio di bronzo nel Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale
a Milano. Nel 1929 è nominato membro
dell’Accademia d’Italia presieduta da Guglielmo Marconi e partecipa alla II Mostra
del Novecento Italiano. Nel 1931, dopo
l’importante retrospettiva dedicatagli dalla
I Quadriennale romana, muore a un mese
di distanza dalla scomparsa dell’amatissima
moglie Dina.
Il busto di Mussolini (1923)
(in alto). Foto Giorgio Sabatini.
“Vir temporis acti” (1911)
(in basso a sinistra).
“Il Prigione” (1915)
(in basso a destra).
UOMO DI DOLORE
L’IMMAGINE DELL’ARTISTA
Tra le tante testimonianze del fascino che
suscitava l’aspetto ascetico, nervoso e la
personalità inquieta di Wildt, resta indimenticabile quella di Ugo Ojetti, il potente critico
che fu un sostenitore dell’artista, cui dedicò
nel 1926 un bellissimo saggio pubblicato
su “Dedalo”. “La sua voce ha alti e bassi
improvvisi: o grida o bisbiglia. Di corpo è
piccolo e lieve, agile a cinquantasett’anni quanto un adolescente. I capelli sono
radi, grigi, corti e ritti. Sul volto raso, ossuto
quanto un teschio, la pelle elastica e bruna
si distende e si raggrinza in smorfie eccessive […] Tutto è mobile, occhi, sopracciglia,
palpebre, narici, labbra, orecchie, e tutto
si sposta su quella faccia cubica a distanze
inaspettate. Le sopracciglia, ecco, si congiungono ad angolo ottuso sul mezzo della
fronte, componendo una maschera tragica e
plorante, che tien del giapponese”.
Wildt stesso si era rappresentato come una
Maschera del dolore nel celebre Autroritratto
del 1909, eseguito alla fine di quei tre terribili anni di profonda crisi depressiva e di
impotenza creativa. Sempre come “uomo di
dolore” Wildt si è rappresentato in altri autoritratti, come quelli a carboncino del 1916
o quello, inquietante, tracciato con una semplice linea di inchiostro nel 1928. Altrettanto
drammatici appaiono gli straordinari ritratti
fotografici eseguiti dal suo fotografo prediletto Emilio Sommariva.
Alla domanda: “Quali professori ebbe? Frequentò l’Accademia o è un autodidatta?”,
Wildt rispose secco: “Autodidatta”. Egli considerava i suoi veri maestri tutti quegli artisti
da lui studiati sulle riproduzioni fotografiche
di cui faceva gran uso. Queste furono i veri
strumenti del suo lavoro e il veicolo per la
formazione di quello straordinario universo
visivo, esteso dall’arte egizia al Novecento,
che affiora nelle sue opere.
In una lunga lettera autobiografica inviata
a Carlo Siviero nel 1915, troviamo questa rivelazione: “Fin da ragazzo, anche da
semplice esecutore di marmi, studiai con selvaggia intensità i nostri maestri antichi per i
15
DOSSIER
Monumento funebre
ad Aroldo Bonzagni (1919).
quali mi formai un vero culto. Anatomizzai
con stragrande spasimo ogni piccola parte
del patrimonio artistico italiano e straniero,
analizzai ogni cosa e seppi trovare elementi
che ancora si ignorano. È questo studio lungo e faticoso l’unica fonte della mia arte e
a questo aggiungo il mio potente bisogno di
sincerità”.
Per raggiungere questi effetti Wildt studiò a
lungo, come confermano le sue fotografie e
le sue dichiarazioni, le opere a tale proposito più congeniali per la loro straordinaria
esecuzione, come la scultura decorativa bizantina o rinascimentale, ad esempio il lombardo Bambaia definito nel trattato L’arte del
marmo (1922) “quel peritissimo, anzi irraggiungibile lavoratore del marmo”.
LE MASCHERE E IL VOLTO
DA GHIRLANDAIO A CASORATI
Il tema della maschera, della maschera e il
volto, il rapporto cioè tra l’essere e l’apparire, molto diffuso anche nella letteratura del
Novecento (pensiamo a Pirandello, Bontempelli, Rosso di San Secondo), ha avuto sempre un ruolo dominante nella poetica e nella
ricerca formale di Wildt, consentendogli di
sperimentare nuove soluzioni che lo fanno
entrare in sintonia con la pittura del tempo.
Basti pensare alle analoghe ricerche di Casorati.
Già nel suo primo periodo questo motivo
sembra affiorare nel gioco del doppio che
caratterizza Carattere fiero-Anima gentile e
del resto la Maschera dell’idiota, una delle sue opere più note e replicate è derivata da un lavabo oggi perduto, realizzato
nel 1903 per Franz Rose, intitolato Spirito
e Materia, da cui nel 1918 lo scultore ha
ritagliato il solo motivo della maschera che,
segandone via il mento, ha reso più inquietante.
Ma l’opera in cui il motivo assume maggior ampiezza è l’eccentrico Monumento
funebre ad Aroldo Bonzagni, in origine nel
Cimitero Monumentale di Milano, dove le
tre maschere alludono ai diversi registri della
pittura del defunto, ma rappresentano anche
16
“Carattere fiero, anima gentile” (1912)
(in alto). Foto Giorgio Sabatini.
“San Francesco” (1926)
(in basso a sinistra).
Ritratto di Fulcieri Paolucci
de Calboli (1921)
(in basso a destra).
Foto Giorgio Sabatini.
i topoi dell’estetica di Wildt: il Dolore ha il
volto contratto dell’espressionismo, la Commedia il sorriso enigmatico della scultura
etrusca o di quella della Grecia arcaica, la
Satira richiama le maschere del teatro romano. Wildt ha saputo muoversi in una gamma estesa di riferimenti, tra l’antichità classica, il Rinascimento, come nel caso delle
maschere che servivano per coprire un ritratto, celare cioè il volto, e il contemporaneo
Casorati. Anche nei ritratti Wildt riesce ad
affrancarsi dalle convenzioni, trasfigurando i
volti con raffinati riferimenti al passato. Nelle due teste incantate di bambini, Augusto
Solari e Julia Alberta Planet, ritroviamo echi
dalla scultura e dalla pittura del Quattrocento, e di Dürer. Mentre il giovane martire
della grande Guerra Fulcieri Paulucci de’
Calboli sorride enigmatico come un kouros
greco, e ci fissa dal fondo d’oro delle sue
occhiaie vuote.
RANIERO PAULUCCI DI CALBOLI
AMICO E MECENATE DI WILDT
Il marchese Raniero Paulucci di Calboli,
uomo di vasta cultura sociale e artistica, già
ambasciatore in Spagna, esponente dei “da
Calboli” ricordati da Dante nel XIV Canto
del Purgatorio, muore il 12 febbraio 1931,
un mese prima di Wildt. I rapporti tra i due
datano 1919, quando ex combattenti amici
di Fulcieri, figlio di Raniero, commissionano
a Wildt il ritratto in marmo dell’eroe, medaglia d’oro, simbolo della resistenza civile
dopo Caporetto, mancato in febbraio.
Di quel ritratto, esposto nel ’21, Raniero Paulucci vorrà un altro esemplare per la “casa
di Fulcieri” che intende donare alla città di
Forlì. Quando da Giacomo Barone, capo
gabinetto Esteri, e da sua figlia Camilla, nascerà un nipotino, chiamato Fulcieri, cambierà però idea: la casa resterà all’erede, ed il
genero otterrà per decreto reale il nome Paulucci ed il titolo nobiliare. Raniero destina
così, nel nome di Fulcieri, un lascito importante alla città, comprendente le sette amate
opere commissionate negli anni a Wildt e
tutte esposte in mostra.
17
ANDAR PER MOSTRE
Giovanni Pini:
il colore vale più del segno
di Rosanna Ricci
Le belle sale del Palazzo del Monte di Pietà (Corso Garibaldi, Forlì) ospitano fino al
7 aprile una mostra di opere pittoriche e
collage di Giovanni Pini, nato a Bologna
nel 1929 e residente a Solarolo (Ravenna).
Noto soprattutto come docente di latino e
greco per circa quarant’anni al Liceo Classico di varie città, Pini ha sempre coltivato,
in parallelo con le materie classiche, un
profondo amore per la pittura. Conoscendo questa qualità “nascosta” del docente
i suoi ex allievi, ammirati dalla sua ampia
cultura e forte sensibilità, hanno voluto organizzare l’attuale mostra.
Giovanni Pini ha legato il suo nome di
grecista all’unica traduzione in italiano del
“Panarion” di Epifanio. L’aspetto invece che
è rimasto in ombra è stato il suo carattere
riservato, quel “silenzio” che compare nelle
sue opere. Non si creda però che tale silenzio significhi tristezza, fuga dal mondo,
indagine inquieta di sé. Al contrario, è un
modo dolcissimo per sentirsi a proprio agio
fra colori, toni e timbri, creati manualmente
polverizzando elementi naturali come sassi, pietre, erba o foglie, poi costruendo pastelli o conservando le polveri e la sabbia
dentro vasetti graduati in base alle tonalità.
In pittura Pini è autodidatta. Quel che desidera è trasmettere con colori e composizioni, sempre molto essenziali, il suo stato
d’animo, le sue emozioni. E tutto questo
appare nel suo studio. Accanto a numerose
tele accatastate, ai pennelli e alla carta per
collage, aleggia un’atmosfera di sogno, di
equilibrio, di vita che emerge da tutti gli
oggetti.
Collage, ecco la parola in cui la creatività
di Pini si evidenzia con maggior naturalezza e capacità. In genere è carta stropicciata, trovata in terra per strada. Carta di
nessun pregio, pagine strappate da giornali, carta da pacchi usata: questo materiale da riciclo si trasforma, sotto le mani
dell’artista, in un paesaggio, in un albero,
nei fiori o in una natura morta. Lo stesso
avviene con le polveri e le sabbie a loro
volta incollate sulla tela seguendo con intransigente discrezione le forme di un vaso
18
o di una zucca. Certo, quel che conta è la
pazienza e a quanto pare Pini ne ha tanta
e l’ha dimostrato anche quando era in cattedra ad insegnare a classi formate da 36
alunni. L’artista aggiunge alla pazienza, il
rigore, l’equilibrio e il piacere della sperimentazione.
I suoi temi sono quasi tutti ispirati alla Romagna: nei paesaggi c’è la poesia e la
luce delle atmosfere mattutine o serali. “Se
qualcuno, osservando i miei quadri, prova
qualche emozione, anche se modesta, io
sono contento”. Pini è infatti come si presenta nei suoi dipinti: umile e sincero, completamente avvolto nei suoi “sogni colorati”
in cui “riesce a trasfigurare - come ha scritto
Franco Basile - poeticamente sia la realtà
sia il dato culturale”.
Tre opere di Giovanni Pini che
illustrano le tecniche predilette
dall’artista: collage, pittura ad olio,
utilizzo di polveri e sabbie.
Foto Giorgio Liverani.
19
ANDAR PER MOSTRE
I tre artisti che compongono
la “squadra” dei Grovignani
(a sinistra).
Due opere dei Grovignani:
“Vola vola” (in alto a destra)
e “Poi rimetti tutto in ordine”
(in basso a destra).
I GROVIGNANI
Sempre sulla breccia e sempre pieni di idee
e di entusiasmo, i Grovignani sono i protagonisti della mostra allestita, fino al 31 marzo, fra gli antichi tini nel ristorante La Vëcia
Cantêna d’la Prè di Predappio Alta.
Partiamo dal nome: Grovignani è l’acronimo
dei cognomi dei tre artisti romagnoli Franco Gianelli in arte Grota, Paolo Vignali e
Vanni Perpignani. L’idea, nata inizialmente
quasi per gioco, è quella di realizzare quadri con l’apporto nella stessa opera, come
idee e come tecnica, di ciascuno di loro. In
pratica il quadro trova una sua definizione
20
man mano si procede nella sua realizzazione: un percorso, dunque, sempre in fieri. Il
tema iniziale “si forma e si deforma”, nel
suo svolgersi sulla tela, perché ogni pennellata suggerisce continue modifiche a una
fantasia sempre in fermento e pronta a cogliere stimoli e a rilanciarli agli altri facendo
dell’imprevedibilità la molla efficace degli interventi sulla tela. In questo modo i tre artisti
mettono in atto una creatività che si rigenera
continuamente secondo modalità ispirate da
ciascun componente ma mediate secondo
una forma rigorosa e ben definita. I colori
sono sempre molto vivaci e l’emozione si
avverte fin dal primo impatto con l’opera.
Poi ci sono i simboli: ogni tela è una metafora del quotidiano visto semmai con
gli occhi di una sorridente ironia. La stessa
ironia dichiarata dal titolo della mostra: “In
braghe di Tele Rattoppate”. In altre parole
sono “quadri nuovi e tele dal tempo trascurate, rispolverate e rivitalizzate, rattoppate di
sentimenti, - dicono gli artisti - ricostruite in
nuove storie e rammendate d’emozioni che
avranno nuova vita e regaleranno una nuova visione”.
RICORRENZE
La scienza e l’arte
di Pellegrino Artusi
Le copertine di varie edizioni
dell’opera di Pellegrino Artusi.
di Mario Proli
Tra le tante ricorrenze il 2011 ha ricordato anche un grande romagnolo e un grande italiano: Pellegrino Artusi. Perché di anniversari che
intarsiano la memoria dello “scienziato del
buon gusto” se ne contano ben tre. L’occasione di carattere biografico è rappresentata dal
centesimo anniversario della morte, avvenuta
esattamente il 30 marzo 1911, pochi mesi prima del novantunesimo compleanno. Insieme
al doveroso omaggio alla data della scomparsa, però, è altrettanto importante rendere
riconoscimento ai 120 anni dell’opera che lo
ha reso immortale e cioè “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.
Pubblicato inizialmente nel 1891, il libro è
letteralmente esploso in termini di capacità
seduttiva e di tirature. Ad oggi conta numerosissime ristampe (il conto ha oltrepassato
quota 110), con traduzioni in varie lingue e,
soprattutto, una presenza autorevole sulle
mensole di cucina di tantissime case anche oltre la soglia del terzo millennio. Per definizione
dell’autore si trattava di un “Manuale pratico
per famiglie”, con attenzione a condividere
con i lettori l’accuratezza per l’igiene, l’economia e la valorizzazione dei sapori, partendo
da una base di ricette (dalle 475 della prima
copia si passò all’assetto di 790 nella versione definitiva), con corredo di menù stagionali
e per le festività, un’appendice dedicata agli
“stomaci deboli”, consigli e commenti.
In queste pagine, l’Italia post unitaria che tentava di mettere in contatto pezzi di territorio
prima separati da frontiere e barriere militari,
trovò una dimensione familiare stufe, fuochi di
cucina e tavole imbandite. Da qui un terzo
motivo di riflessione, che si interfaccia direttamente con il 150° anniversario della nascita
della nazione italiana e che riconosce l’importanza di Artusi nel processo di creazione di
una nuova identità nazionale, non solo gastronomica ma anche linguistica.
Lui, nato nell’agosto 1820 a Forlimpopoli, fu
protagonista di un ponte permanente fra la
Romagna, Bologna, Firenze e la Toscana,
e attraversò le vicende risorgimentali al pari
dei suoi coetanei (un anno solo lo separava
dall’età di Aurelio Saffi, classe 1819) in luoghi
in cui l’amor di patria era divenuto energia del
22
rinnovato tessuto sociale. Di quegli ambienti
progressisti presenti nella Legazione pontificia
forlivese e nel Granducato dei Lorena aveva
conosciuto i personaggi e gli umori. Celebre
è il ricordo dell’incontro con Felice Orsini, consumato ai tavoli della trattoria dei “Tre Re” a
Bologna nel 1850 che viene raccontato nella
ricetta n.235 “Maccheroni col pangrattato”.
Un racconto che rievoca lo spirito rivoluzionario dei commensali e che, con una ironia
efficace quanto cinica, ricorda il fallito attentato di Orsini a Napoleone III e la successiva
esecuzione capitale, riportando subito dopo
l’attenzione sugli alimenti con la definizione
“Torniamo a bomba!”. Di Firenze conobbe i
momenti esaltanti del periodo rivoluzionario
1848-49, poi, in seguito, all’Unità visse i fasti
degli anni in cui fu capitale del Regno, proseguendo quindi il suo percorso umano e di
letterato-gastronomo a contatto con la straordinario patrimonio artistico e culturale che contraddistinse la città bagnata dall’Arno anche
dopo il trasferimento della capitale a Roma.
Le amicizie, da quella con lo scienziato (lombardo di nascita e fiorentino d’adozione) Paolo Mantegazza allo scrittore romagnolo Olindo Guerrini (con lo pseudonimo di Lorenzo
Stecchetti), evidenziarono l’alto livello dei suoi
interlocutori, mentre grazie all’esponenziale
diffusione de “La scienza in cucina”, Artusi cominciò a parlare a milioni di italiani in modo
amichevole e con tono da educatore. “Non
vorrei però che per essermi occupato di cu-
linaria mi gabellaste per un ghiottone o per
un gran pappatore - scrisse in una prefazione
- protesto, se mai, contro questa taccia poco
onorevole, perché non sono né l’una né l’altra
cosa. Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come
sul dirsi, la grazia di Dio”. Fra gli studi che
ne hanno rilanciato il profilo culturale spiccano le ricerche del professor Piero Camporesi,
affermato filologo e storico, che ha dimostrato
il ruolo dell’opera artusiana nella promozione dell’uso della lingua comune fra gli strati
della popolazione ancora poco coinvolti nel
processo unitario. Scritto con abilità narrativa
e stile letterario, il libro è stato uno inatteso veicolo di diffusione dell’italiano negli ambienti
condizionati da bassi livelli di istruzione e di
inflessioni straniere o dialettali.
La misura, l’attenzione alla bontà abbinata
alla salute, l’equilibro, il rispetto del cibo, la
qualità della vita furono i punti di riferimento
che guidarono una particolare azione pedagogica e che lo “scienziato del buon gusto”
trasferì nelle case della giovane nazione unita
dal tricolore prima di renderli concetti portanti
del ruolo di ambasciatore della moderna cucina italiana in Europa e nel mondo. Per tutto
questo ricordiamo Pellegrino Artusi, personaggio di rilievo del nostro passato ma, grazie
alle iniziative che Forlimpopoli e le città vicine
stanno portando avanti nel suo nome e con
il suo esempio, anche simbolo importante e
vitale per il futuro della Romagna.
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FORLì UNDERGROUND
Le quattro stagioni
dell’uomo nutria
di Mario Proli
tam tam della rete animalista
diramò la notizia in pochi
minuti: “Mobilitazione - rastrellamento nutrie parco urbano uomini con fucili”. Sms, email,
messaggi su Facebook e Twitter alimentarono un circuito ancora assonnato,
mentre il sole timido di marzo stentava a irraggiarsi sulla città. In un battibaleno la squadra
di selezionatori armati di carabine si trovò di
fronte un drappello di militanti salva nutrie. Secondo le autorità sanitarie, i baffuti roditori con
muso da castoro e coda da ratto s’erano iperprolificati e il loro esubero metteva a rischio le
altre specie animali presenti nel laghetto oltre
a paventare possibili rischi igienici. Cordelle
di nastro bianco e rosso delimitavano un’area
talmente vasta da impedire a chiunque - curiosi, mamme con passeggino o pensionati - di
assistere a scene raccapriccianti. All’inizio della selezione mancava l’arrivo del veterinario e
nell’attesa cresceva il numero dei partecipanti
alla protesta che ebbe un sussulto d’azione
col tentativo di forzare il cordone di sicurezza
sorvegliato da una guardia. “Se andate là in
mezzo sparano anche a voi” ammonì l’uomo.
Le parole bloccarono il tentativo dei rivoltosi
sul confine della cordella mentre da colpi di
clacson si capì che era giunto il veterinario.
Ad accoglierlo fu una raffica di improperi:
“Vergogna! Assassino!” e così via. Poi s’alzò
un coro ritmato: “Siamo - tutti - figli della nutria.
Siamo - tutti - figli della nutria”.
Gli orologi segnavano le ore 8.08 di quell’intirizzito mattino di marzo. Per i contestatori tutto
sembrava perduto. Gli uomini con carabina
si incamminarono verso le loro postazioni.
La battuta stava per avere inizio… quando,
come una fucilata, piombò sulla piccola folla
un pazzo a cavallo di una bici. Guidava in
maniera scalcagnata, portava ai piedi baffute
pantofole che s’abbinavano al pelo del cappuccio di un eschimo. Sui pedali s’agitavano
imbarazzanti gambe nude. Il folle sfondò il
cordone di guardia e travolse il nastro biancorosso che si impigliò alle ruote e accompagnò la corsa come la coda di una cometa.
La bicicletta ondeggiò sul tappeto di ghiaino
e dopo circa duecento metri, col nastro av-
24
continuano SUL MELOZZO le storie SURREALI
AMBIENTATE NELLA forlì CONTEMPORANEA.
vinghiato alla catena, inchiodò brutalmente,
catapultando in aria il conducente. L’uomo in
eschimo cadde malamente. Si rialzò e sotto lo
sguardo dei cecchini, raggiunse ciondolando
la recinzione del laghetto. Superò la rete con
affanno e si trovò all’interno della recinzione
accanto a germani reali e altri tipi di anatre,
cigni, uccelli, tartarughe e, ovviamente, alle
indifese nutrie. Adesso era diventato uno scudo umano. L’azione venne seguita con stupore
dai presenti e il raggiungimento dell’obiettivo
fu salutato dal fragore di esclamazioni. Chi
era il pazzo?
“Lo riconosco, è Agoardo!” urlò una ragazza.
“Ago chi?” chiese la guardia, mentre un coro
scandiva il nome dell’eroe.
Agoardo era un architetto in pensione che
dedicava ogni minuto del proprio tempo alla
difesa degli animali. L’allarme ricevuto quella
mattina intercettò esattamente lo scopo della
sua vita. Per quello aveva infilato le babbucce, agguantato l’eschimo e s’era precipitato
in bici verso il parco così com’era, incurante
dell’ora e della stagione. Sentiva il dovere di
adempiere a una missione vitale.
“Venga fuori di lì” ordinò una voce nasale
amplificata da megafono. Agoardo la ignorò
con fierezza e rimase in silenzio, guardandosi intorno come per cercare qualcosa. Intanto
la schiera dei tifosi andava infoltendosi. Sulle
dieci arrivarono fotografi e giornalisti, poi i cameraman. A mezzogiorno sui siti internet spopolavano i filmati dell’uomo-nutria e una radio
locale attivò una diretta. “Scommetto che uscirà prima di sera” esclamò la guardia. Perse.
Approfittando della luce del giorno, il silenzioso Agoardo scavò un buco in terra accanto a
una siepe di arbusti. Lo imbottì con scampoli
di gomma e blocchi di torba pressata rinvenuti lì attorno. Gli animali lo lasciarono lavorare
rimanendo alla larga, comprese le nutrie che
gli dovevano la vita. Quando le tenebre avvolsero la Romagna, qualcuno notò un’ombra
ritirarsi nella tana, mentre al di là della recinzione i sostenitori inscenarono una fiaccolata di solidarietà. Fu uno scroscio di applausi
quello che, all’indomani, salutò il risveglio
dell’uomo-nutria. Fin dalle prime luci centinaia di curiosi e inviati di media da tutta Italia
avevano preso posto sulla vicina collinetta. Fra
gli alberi campeggiavano striscioni scritti con
lo spray mentre ai presenti venivano distribuiti
palloncini decorati con ciuffi di baffi. Quando
la testa di Agoardo spuntò fuori dal buco l’euforia dei presenti esplose in un boato, come
per un gol allo stadio. L’architetto abbottonò
l’eschimo e liberò il capo dal cappello peloso. Lentamente raggiunse il bordo del laghetto
per lavarsi. Si voltò verso le tante persone e
le salutò, ricevendo applausi. Poi cominciò un
inaspettato lancio di cose verso di lui: cibo,
coperte, sapone biodegradabile, libri. Gli animali furono spaventati dalla pioggia di oggetti
ma quando compresero che si trattava anche
di cibo, i pennuti abbandonarono ogni timore
e piombarono sul mangiare. Molto più tardi
arrivarono le tartarughe. Solo le nutrie continuarono a mostrarsi diffidenti. Le cronache
di quello e dei tanti giorni a seguire raccontarono l’incredibile vicenda di Forlì, dell’eroe
silenzioso che aveva salvato i castorini, del
simbolo di un nuovo impegno ambientale.
Per vederlo giunsero gite scolastiche e tour del
dopolavoro. La primavera passò il testimone
all’estate e stando alle statistiche del turismo,
quell’anno il parco urbano e la città registrarono un picco assoluto di visite. Dati di rilievo
nazionale. Uno dopo l’altro aprirono chioschi
che vendevano magliette dell’uomo nutria,
babbucce baffute, eskimi e anche panini vegetariani. La moglie e la figlia di Agoardo ottennero come diritto di aprire una pizzeria che
chiamarono “Le quattro stagioni”. Non mancarono cartoline bizzarre, come quella con
l’uomo nutria e i castorini vicino ai Musei San
Domenico. Gli incassi di alberghi, bar e ristoranti schizzarono in alto. Dopo una fase d’ambientamento, Agoardo mostrò dimestichezza
con la notorietà e pure la convivenza con gli
animali risultò buona. Le uniche creature che
continuavano a tenersi distanti da lui rimanevano le nutrie. Il fatto venne sottaciuto per
non danneggiare l’immagine turistica. In gran
segreto fu però consultato un etologo che ne
spiegò le ragioni. Il problema risiedeva nel
fatto che alle nutrie quell’essere faceva schifo.
Troppo grande, invadente, vorace, spropositata la dimensione dei suoi bisogni. E poi,
di notte, russava. Per un animale socialmente
evoluto, come la nutria, la convivenza risultava
impossibile. Ciò che l’esperto temeva si avverò: le nutrie abbandonarono il Parco urbano.
Le immagini sono state
appositamente realizzate
da Grota per illustrare il racconto.
Il giorno di Ferragosto, quando da tempo non
si vedeva più l’ombra di un roditore, Agoardo annunciò: “Missione compiuta, tornerò alla
vita di sempre”. Il fatto venne riferito a chi di
dovere e mentre l’architetto stava prelevando
le cose dalla tana arrivarono auto a sirene
spiegate. Portavano un’ordinanza che intimava
ad Agoardo l’obbligo di rimanere nel recinto,
pena una serie spropositata di contravvenzioni. La presenza dell’uomo-nutria era considerata fondamentale per l’economia del territorio,
soprattutto in tempi di crisi, e non gli veniva
riconosciuto il diritto a un “capriccio personale
- così era scritto - che avrebbe recato danno
a tante persone”. Persino la sua famiglia lo implorò di rimanere perché temeva ripercussioni
sull’attività della pizzeria. Agoardo rimase. Insieme all’autunno e ai suoi colori arrivarono i
primi freddi. Le cose cambiarono. Il clamore
si affievolì, la curiosità scemò, l’assenza delle
nutrie privò di significato morale la situazione.
Attaccato alla rete del laghetto l’uomo nutria
osservò le gelate di dicembre, i prati cristallizzati dalla brina, i tronchi spogli e i radi visitatori ormai disinteressati al lui. Una sera nel cielo
plumbeo s’accesero riverberi rossi e prese a
scendere fiocchi leggeri. Si rintanò. Nevicò
per tre giorni, dalla vigilia di Natale a Santo
Stefano. “Chissà come starà il babbo…” disse
la figlia. Dal registratore di cassa la madre la
rincuorò: “Appena finiscono le feste lo andiamo a trovare”. Ci andarono ma non videro
nulla perché la neve ghiacciata sulla tana la
rendeva simile a un igloo. Tornarono con un
manovale che iniziò a scavare, ma quella che
credevano una cupola in realtà non lo era.
Dentro alla tana scoprirono solo neve compatta e, in mezzo, un corpo assiderato. Moglie e
figlia rimasero senza parole, stordite dalla terribile fine. Piansero e si disperarono. Da quel
giorno tutto tornò come prima dell’ingresso
di Agoardo nel recinto: nessuna bancarella,
niente stand, zero gadget. Sopravvisse solo la
pizzeria. “Nell’eredità di Agoardo - commentò
un giornale locale - vanno rintracciati coerenza e coraggio ma anche l’efficacia del servizio alla collettività per aver liberato il parco
dai roditori”. A custodirne la memoria rimasero
le pantofole baffute espose all’entrata della
pizzeria, proprio sotto al menù. I clienti che si
fermavano al cospetto di quegli strani oggetti
venivano prontamente raggiunti da un addetto
che raccontava l’incredibile storia dell’uomonutria di Forlì.
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In cauda venenum
Impressioni non oggettive
su un viaggio a Roma
di Ivano Arcangeloni
La prima domanda potrebbe essere questa:
ma cosa sei andato a fare a Roma con questo tempo? È vero, è stato un azzardo. Ma
ho voluto fare questo viaggio, perché l’avevo
programmato mesi fa, avevo prenotato e pagato tutto in anticipo, e perché c’erano validissime ragioni per partire comunque.
La parte più difficile del viaggio è stata quella della partenza, in una Forlì siberiana,
senza taxi disponibili, ho camminato piano
piano fino alla stazione, suggestionato da
un paesaggio da romanzo russo. Un treno è
arrivato, ma il treno che avevo prenotato per
Roma da Bologna era stato annullato. Dopo
una coda di un’ora alla biglietteria sono stato “ammesso” su un altro treno, che venendo
da Venezia, andava.
Alle 14 di giovedì 2 febbraio, minuto più minuto meno, sono a Roma. Neve non ce n’è:
le strade sono linde e la circolazione regolare. Raggiungo l’albergo e alla reception mi
dicono che per l’indomani è attesa neve, e
che il sindaco ha disposto la chiusura delle
scuole sia per due giorni. Penso alla nostra
Forlì, al mercoledì mattina in classe con pochi eroici studenti a guardare la tempesta di
neve fuori dalle finestre. A Roma no, a Roma
le scuole le chiudono “preventivamente”.
Il giorno dopo, alle 13, sono ai Musei Capitolini. Mi concedo una pausa al caffè sulla terrazza del Campidoglio. E nevica. Sì,
nevica forte. Ma, temprato dalle nevi forlivesi, non mi sembra preoccupante. Arrivano alcuni romani che dicono che la città è
paralizzata. Come, già? Se non ha ancora
attaccato. Proseguo la visita del museo, ma
un vigile mi informa che ne è stata disposta la chiusura. Perché? Ordine del Prefetto:
musei e uffici pubblici sono stati chiusi per
motivi di sicurezza. Per questa poca neve?
Sì, vede, mi spiega il vigile, a Roma non ci
siamo abituati, e anche questa sembra molta
neve. Così devo uscire. Mi ritrovo in piazza Venezia. La neve è una poltiglia molle, il
piazzale è un ingorgo di automobili bloccate e clacson impazziti. Gli autobus sono stati
fermati. Su molti c’è la scritta DEPOSITO. Il
sindaco ha disposto che ne circoli solo un
quinto. E i romani come ci arrivano a case
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nell’immensa periferia romana? Mah. Proseguo a piedi. Il traffico è effettivamente in tilt.
E non si sa perché. Mi pare solo un’ondata
collettiva di panico. Sì, ci sono le salitine e le
discesine della capitale, e le auto non hanno
le gomme termiche, però la neve è solo una
spolveratina bianca sui monumenti, niente di
più. Come si spiega tutto ciò? Il problema
è che la città dipende quasi esclusivamente
dalle auto, i metrò di Roma servono praticamente solo il centro , e se fermi gli autobus
cosa puoi sperare? Chi può scappa temendo il peggio, tutti in auto, tutti verso casa, tutti
bloccati per ore nel traffico. La neve invece ci
può insegnare questo: che le auto non sono
così essenziali, anche noi forlivesi ne siamo un po’ troppo dipendenti, e queste strade bianche di neve, finalmente di nuovo in
mano a chi cammina, a me piacciono molto.
Dopo poche ore, a Roma smette di nevicare. Vado in piazza di Spagna. La poca
neve comincia a gelare, e la scalinata di
Trinità dei Monti è inaccessibile. Molti bar
e ristoranti sono chiusi, e nessuno ha pulito
i marciapiedi. Di auto ormai se ne vedono
pochissime. Ma non nevica più. E sabato 4
febbraio a Roma c’è un bel sole invernale,
un cielo azzurro terso, e i monumenti ador-
nati di quel po’ di candida neve. Ma tutti i
musei sono chiusi. Ordine del Prefetto. Un turista americano mi chiede di un autobus, gli
spiego che molte corse sono state annullati,
e lui mi guarda incredulo indicando i pochi
centimetri di neve ed esclama: because of
the snow? Sì, sono stupito quanto lui, anch’io
mi sento straniero. Vado al Colosseo, si sta
bene, al sole non sembra nemmeno freddo.
La via dei Fori Imperiali è una fiumana festante di gente, niente auto, niente bus. Al
Colosseo qualcuno ha portato lo slittino, ma
solo per la gioia delle cineprese dei vari tigì
del mondo, si deve scivolare sulla nuda terra, sugli aghi di pino, di neve ce n’è qualche
chiazza in qua e in là. E domenica? Ancora
sole. Eppure il sindaco ha disposto la chiusura delle scuole anche per lunedì. Al tigì raccontavano un’altra Roma, una Roma che io
non ho visto. Forse nella periferia romana è
nevicato di più. Ma di certo non è nevicato
da nessuna parte come qui a Forlì. Quando sono rientrato sono ripiombato in un altro
mondo. Il viaggio Bologna-Forlì sembrava
quello tra Mosca e Minsk, e a Forlì, di nuovo
nessun taxi disponibile, si camminava tra cumuli di neve, in un paesaggio irreale, che ci
riporta però al piacere della Lentezza.