L`amore è un tempio

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L`amore è un tempio
L’AMORE E’ UN TEMPIO
di Angela Barresi
Era stato un viaggio lungo e colmo d’ansia quello che avevo appena terminato:
raggiungere Scilla dalla Corsica non era stato semplice, anche se era stato da me
programmato in modo minuzioso qualche mese prima. Ma non immaginavo che le
mie prime vacanze senza i miei genitori sarebbero state ricordate anche per un evento
tragico: nonna Angela si era aggravata e questa volta non si sarebbe mai più ripresa.
Che colpo al cuore! La mia adorata nonna mi stava lasciando per sempre; non mi
avrebbe mai più stretto forte, né mi avrebbe più sorriso. Da che ne ho memoria,
nonna non vedeva; aveva perso la vista in seguito ad un intervento agli occhi non
riuscito, ma aveva imparato a conviverci con grande dignità. Riconosceva ciascuno di
noi dalla voce, dalle mani che stringeva forte tra le sue. Io mi sono sempre chiesta
come facesse a riconoscere proprio me da un anno all’altro; io, la nipote che veniva a
trovarla ogni estate da Torino con papà Giuseppe, suo figlio, la moglie Agata ed il
nipote Nicola, mio fratello.
Quel pomeriggio di agosto non mi rendevo realmente conto di ciò che stava per
accadere. Con la mente chiedevo alla nonna di aspettare il mio arrivo a casa sua
prima di lasciarmi, volevo vederla almeno ancora una volta in questa vita; volevo che
le mie labbra baciassero la sua pelle morbida e calda, non quella di un cadavere.
Nonna aveva aspettato che il treno mi portasse da lei, ma non era stato facile per me
vederla distesa nel suo letto con la flebo attaccata al braccio, coperta da un freddo
lenzuolo bianco. Lì intorno c’erano i suoi figli e gli altri nipoti, tutti molto affezionati
ad una donna così forte e combattiva. Confesso di non essere riuscita a trattenere le
lacrime, anzi, più tentavo di contenerle, più loro bagnavano il mio volto, quasi a voler
lavare via il dolore che proveniva direttamente dal cuore.
Quella sera l’ho trascorsa insonne, pregando Dio di accogliere Angela e di
ricongiungerla al marito che aveva perso a soli trent’anni, perché a quei tempi
malattie come il diabete venivano scoperte troppo tardi, soprattutto se, come è
capitato al nonno, si era in tempi di guerra.
Nonna aveva cresciuto cinque figli da sola, con l’aiuto dei suoceri e non è stato facile,
anche perché non ha mai pensato di risposarsi. E così il suo primo figlio Sante è
diventato il capofamiglia e la figura di riferimento per gli altri quattro, che tutt’ora lo
venerano e lo rispettano come fosse il loro unico padre.
Nonna se ne stava andando e con lei se ne andava anche una parte importante della
mia storia di vita, dalla nascita ai miei primi vent’anni; quella parte che ha indirizzato
il mio cammino e che mi ha reso la donna che sono oggi.
Il mattino seguente papà era in forte agitazione, neanche lui aveva chiuso occhio e
l’ho ritrovato seduto in cucina mentre girava nervosamente il cucchiaino della tazzina
di caffè. Non è mai stato un uomo di grandi parole, non ha mai esternato i suoi
sentimenti con facilità; anche quella mattina era chiuso in se stesso, nel suo dolore ed
io non osavo disturbarlo, anche se avrei voluto dirgli che il suo dolore era forte come
il mio, sebbene Angela fosse mia nonna e non mia madre. Ma non c’è stato tempo: al
telefono lo zio ci chiedeva di correre velocemente a Villa San Giovanni perché la
situazione stava vertiginosamente precipitando. Quando arrivammo a destinazione,
nonna era sul letto, senza più il lenzuolo bianco che le copriva il corpo, ma indossava
un abito nero ed una sorta di foulard avvolto attorno alla testa le teneva le labbra
sigillate. Quella visione mi ha dato una fitta al cuore. Non avevo mai visto prima di
quel momento una scena simile; è stato talmente straziante da farmi perdere il respiro
e farmi scappare via dalla stanza. Una volta fuori, mi sono fermata sul muretto che
circonda la casa, dove ero solita sedermi nei pomeriggi estivi che trascorrevo con i
miei zii e i miei cugini. Lì iniziai a piangere senza sosta; non avrei voluto farmi
vedere in quello stato da nessun’altro, ma in quel momento non mi importava, il
dolore era troppo forte da non poterlo nascondere; faceva troppo male soffocarlo
dentro di me. Ad un certo punto mio fratello mi si è seduto accanto e con la mano,
delicatamente, ha cercato di fermare quel pianto inesorabile. E’ stato uno dei gesti più
dolci in assoluto che ricordi nei miei confronti. Nicola ed io non abbiamo mai avuto
un rapporto molto aperto; da fratello maggiore mi ha sempre trattata come la piccola
della famiglia, la “regina” di casa ed anche la più viziata. Sebbene vivessimo sotto lo
stesso tetto avevamo intrapreso strade diverse ma avevamo dimenticato di
comunicarcelo reciprocamente e di dirci che ci volevamo bene. Quel 6 Agosto 1997
aveva riunito la mia famiglia in un dolore comune, ma ci aveva anche fatto riscoprire
che ci amavamo moltissimo e che, anche senza parlare, sapevamo darci conforto.
Di ritorno a Scilla, dove soggiornavamo, mi fermai a casa della mia amica Michela,
che nel darmi le condoglianze mi convinse a passare la serata con lei ed altri amici,
perché, a suo giudizio, chiudermi nel mio dolore non mi avrebbe fatto bene. Così
decidemmo di andare a bere qualcosa in uno dei tanti locali sul lungomare, giusto per
far passare un po’ il tempo e per dare un po’ di sollievo alla mia mente ed agli occhi
che ormai avevano esaurito le lacrime. La birreria che avevamo scelto aveva
cambiato da poco proprietario ed era stata data in gestione ad un gruppo di ragazzi
del paese, già tutti esperti nel ramo della ristorazione. Ci sedemmo al tavolo e, un
cameriere, Piero, venne a prenderci l’ordinazione. C’era qualcosa di strano nel suo
sguardo quando mi vide, ma subito non prestai molta importanza alla cosa. Dopo
poco, dalle casse dello stereo sentii le prime note di una canzone a me
particolarmente cara: “Is it getting better or do you feel the same?”(…) erano le note
di “One”degli U2, e questo poteva voler dire una sola cosa, che Ago era nel locale.
Cercai di guardarmi bene intorno per capire cosa stesse accadendo ed all’improvviso
vidi Ago che stava lavorando dietro il bancone. Il cuore iniziò a battere forte, con un
ritmo tutto suo, incontrollabile, al punto che non sapevo se rimanere seduta, correre
via dal locale o semplicemente avvicinarmi al bancone. Optai per quest’ultima ipotesi
e così arrivai di fronte ad Ago che faceva finta di non vedermi. “Ciao Ago, come
stai?”, gli dissi; “Ciao, bene e tu? Quando sei arrivata e perché non mi hai avvisato
prima?”, mi rispose. “Purtroppo sono qui perché oggi è mancata mia nonna e, in
questi giorni non ero nelle condizioni per chiamarti”, aggiunsi. Capivo che ad Ago
creava imbarazzo parlarmi mentre stava lavorando, così mi disse che ci saremmo
potuti vedere a fine serata oppure il pomeriggio seguente quando aveva la pausa dal
locale.
Da come ci eravamo lasciati l’anno prima, non credevo che rivederlo mi avrebbe
creato tanta agitazione; mi piaceva da morire quel ragazzo, da diverso tempo ormai,
ma vivere in due città lontane rendeva complicato mantenere i contatti. Avrei voluto
abbracciarlo forte, sentire il calore del suo corpo avvolgere il mio. Proprio in un
giorno per me pieno di dolore, sentivo un sentimento d’amore scorrere nelle mie vene
al punto da farmi sentire agitata e felice allo stesso tempo.
Anche quella notte fu difficile chiudere occhio, però questa volta era diverso: nonna
se n’era andata lasciando un vuoto enorme nella mia vita, ma Ago era riapparso e con
lui era tornata in me la voglia di vivere un amore tanto desiderato da anni.
Il 7 Agosto era arrivato inesorabile: era giunto il momento di dare l’ultimo saluto alla
mia adorata nonna; da li a breve ci sarebbe stato il funerale, la bara sarebbe stata
portata al cimitero e poi via, sarei tornata alla vita di tutti i giorni, ma non sarebbe più
stata la stessa cosa..la Calabria per me non sarebbe più stata bella come ad allora,
avevo perso un legame fortissimo con quella terra; le mie radici erano state sradicate
e il grosso e forte cedro che rappresentava la mia famiglia, era stato privato del suo
nutrimento, della linfa vitale.
L’ultima immagine che ho impressa nella mente di quel giorno è una gerbera bianca
cadere dal carro funebre e raccoglierla come mi fosse stata donata dalla mia cara
Angela in suo ricordo. E’ strano, ma il cimitero di Villa San Giovanni non è mai stato
per me un luogo triste od ameno, anzi, è un posto dove trovo pace e serenità; quella
che in me stenta ad esserci in forma stabile. Sarà anche perché il cimitero si erge su
un piccolo promontorio da cui si vede lo stretto di Messina, un lembo di mare di
pochi chilometri che separa la Calabria dalla Sicilia; due terre bellissime ma anche
terribilmente complicate, soprattutto per chi vive al Nord. E’ come se i miei occhi non
vedessero tutte quelle tombe, ma fossero accecati dalla luce di un sole caldissimo e il
mio olfatto inebriato dal profumo dei fiori di gelsomino. Forse solo chi è
profondamente innamorato di questa terra può trovare dimora in un cimitero, o forse
capita a chi non riesce a trovare una propria dimora, a chi non si sente né
completamente figlio del Nord né completamente figlio del Sud come capita a me e a
chi cerca in altri luoghi la propria identità .
Quella sera decisi di non uscire, sebbene desiderassi rivedere Ago, sapevo che non
avrei potuto aspettarlo fino alla chiusura del Calypso per via del mio coprifuoco.
Mezzanotte, infatti, era l’orario stabilito da mio padre per rientrare a casa, e mai come
d’estate in vacanza era tanto rigoroso. Mi chiedevo se a vent’anni, per di più in
vacanza in un paese di poche anime, si potesse rientrare a dormire a quell’ora. Non
c’erano pericoli lì in Calabria se non quelli rappresentati dalle malelingue delle
vecchie megere che, più infallibili di un gazzettino meteo, riportavano per filo e per
segno gli spostamenti dei giovani scillesi e dei loro cugini e cugine “polentoni”, dalle
abitudini un po’ troppo libertine. Anche zio Pietro faceva parte dello staff del
Gazzettino, anzi, forse ne era addirittura il Presidente, dato che, in modo ancora oggi
inspiegabile, sapeva tutto ciò che accedeva a Scilla anche quando non usciva di casa
o trascorreva la sera in un altro luogo. Sapeva i dettagli delle storie personali di tutti
addirittura prima dei diretti interessati.
Mio padre ha sempre “sofferto” i pettegolezzi; è sempre stato un uomo molto
concreto e serio, per questo motivo temeva i commenti dello zio sul mio conto ed
ancora per questo mi dava il coprifuoco ad orari assurdi. Detestavo quella situazione,
quella sorta di circolo vizioso che non riuscivo a rompere perché con mio padre non
si poteva discutere; lui esercitava il suo potere di padre padrone ed io non avevo la
facoltà di esporre il mio punto di vista qualunque fosse l’argomento. Vivo di frasi mai
dette a mio padre. Vivo con il ricordo delle urla di un uomo infuriato con il mondo,
che, pur amandomi in modo incondizionato, non mi ha mai dato un bacio o
manifestato i suoi sentimenti con un abbraccio. Mi mancano gli abbracci che mio
padre non mi ha mai dato. Ancora oggi, quando provo ad avvicinarmi a lui per avere
un contatto, lui si ritrae, quasi avesse paura di ricevere una manifestazione d’affetto e
di essere colto in un momento di debolezza emotiva.
Trascorsi la sera nella mia camera avvolta nei miei pensieri e con la radio che
suonava la musica migliore, quella degli U2. C’era una canzone che non avrei mai
smesso di ascoltare:“One”:
Is it getting better
or do you feel the same (..)
you say
one love
one life
when it’s one need
in the night (..)
you say
love is a temple (..)
con queste parole credo di aver perso i sensi ed essermi addormentata.