Aquilino Monologhi di vizi e virtù VIRTÙ CARDINALI: fortezza

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Aquilino Monologhi di vizi e virtù VIRTÙ CARDINALI: fortezza
Aquilino
Monologhi di vizi e virtù
VIRTÙ CARDINALI: fortezza prudenza temperanza giustizia
VIRTÙ TEOLOGALI: fede speranza carità
VIZI CAPITALI: superbia accidia lussuria ira gola invidia avarizia
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VIRTÙ CARDINALI
Della temperanza presidenziale
In questo giorno che è l’alba di una nuova epoca di pace, dichiaro guerra al male, al
fumo e ai comportamenti sessuali contronatura.
A scanso di equivoci, e per evitare le polemiche degli estremisti di minoranza, è tutto
scritto qui, nero su bianco. Io non m’invento mai niente e questo lo dico per sbugiardare
i detrattori.
Sappiano, gli imbrattagiornali, che io svolgo bene il mio lavoro e che quello che mi
dicono di fare lo faccio senza esitazioni, anche quando non ho proprio voglia di tenere
la conferenza stampa e perfino quando non capisco quello che leggo. Io non sono
presidente per caso! Se io sono da questa parte e voi da quell’altra, un motivo c’è.
Anzitutto, io leggo in modo autorevole. Ci sono voluti anni di studio per raggiungere
questi risultati. Avevo problemi con le doppie e li ho superati, saltavo le righe e ora non
mi sfugge un apostrofo.
Ma quello che fa la differenza è la postura.
Gambe divaricate a formare un triangolo la cui altezza sia tre virgola due volte la base;
piedi con le punte quel tanto in fuori da richiamare un’immagine di statuaria classica;
aderenza solida e agile con il suolo; figura eretta e però non rigida; busto proteso in
avanti, ma non sfrontato; testa dritta e sguardo fiero a centottanta gradi; braccia appena
discoste dal corpo, pronte a scattare in un saluto militare o in una stretta di mano virile;
tre rughe sottili tra le sopracciglia; labbra con piega dolceamara, svelte al sorriso;
muscoli delle mascelle guizzanti; capelli sempre in piega eppure cedevoli alla brezza; e
dulcis in fundo il pacco, ma non eccessivo come i gay, solo quel tanto che susciti più un
sospiro di approvazione che un ansito di desiderio (noi presidenti non vogliamo essere
volgari, noi siamo maschi nazionali, genuini e tradizionalisti).
La mia postura esprime un forte senso di protezione e di rassicurazione. Ti sussurra: un
problema? Vieni da me e lo risolviamo insieme, e per di più gratis. Quando la crisi è
nazionale, la mia postura fa perfino i saldi.
Ora statemi attenti, voi che scribacchiate chissà che porcate e che all’uscita dovete
consegnare block notes e registratori per un controllo informale di antiterrorismo.
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Le domande dopo, ma non so se ci sarà tempo.
Se ora sposto il peso del corpo leggermente a sinistra, sapete che cosa succede? Che il
pianeta ha un sussulto. Perché io sono, senza falsa modestia, un gigante della storia. Il
peso massimo del ring mondiale della politica. Sono il faro della navigazione
interministeriale. L’ultima parola in ogni conflitto, in ogni transazione economica, in
ogni ricostruzione. Così c’è scritto nelle note biografiche. Io non faccio che prenderne
atto.
Credete che mi monti la testa?
Lo scrivete sui vostri giornali bugiardi, ma in verità in verità vi dico che io sono rimasto
l’uomo semplice che ero prima di diventare miliardario in tenera età e potenza politica
devastante nella maturità.
Un uomo semplice, non un ingenuo o un briccone, come avete scritto voi bugiardi. Il
primo dovere di un uomo politico del mio peso è di non dare peso al proprio ruolo di
uomo politico; ed è proprio quello che faccio. Scoppiano crisi spaventose? Io mi rifugio
nella residenza estiva, anche d’inverno.
Che altro posso fare? Intralciare l’attività dei miei collaboratori? Sono pagati apposta
per risolvere i problemi. Io, invece, sono pagato per dire al popolo che i problemi si
stanno risolvendo. Non sono il tipo che sgomita. Mi limito a fare quello che è mio
dovere fare per il bene della nazione, che spesso coincide con un fare niente
responsabile. Il troppo stroppia. Non so che cosa significhi, ma è una verità: il troppo
stroppia.
Io devo andare sempre diritto per la mia strada. Se cambio rotta, nel mondo succede uno
sconquasso. Ma se vado dritto, se non guardo né a destra né a sinistra e soprattutto se
non muovo un dito, tutto va nel migliore dei modi.
Ecco che cosa intendo per peso politico. L’ago della bilancia. Tengo le mani poggiate su
entrambi i piatti e posso fare pressione qui… oppure fare pressione qua… e tutto
cambia per un verso o per l’altro; o tutto resta uguale, se me ne sto buono buono a
guardarmi un film sulla pay tv. E in questo consiste la maturità.
A volte penso: con un solo starnuto posso far cadere un governo. Ecco perché ogni volta
che ho un po’ di raffreddore mi sento inquieto.
Scrivetelo, questo, scrivetelo, che se io non fossi così temperante, la geografia politica
somiglierebbe a uno scarabocchio.
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VIRTÙ CARDINALI
Della fortezza patriottica
Molti bambini non hanno avuto un papà, e di questi figli di enne enne sono piene le
galere. Ma quelli che non hanno una madre? Bambini senza la mamma, ve lo dico io.
Bambini delle famiglie arcobaleno: gialle e nere, rosse e cioccolata. Coppie aperte,
divorziate, possedute e perverse. Coppie laiche e senza civiltà. Sono quelli che non
pagano l’affitto; e chi riesce a buttarli fuori di casa, con i politici anticristiani che li
proteggono?
Adesso non voglio fare il sentimentale, ma ci sono cose… Cose come la mamma.
La mamma è il faro dell’infanzia. Senza di lei, il naufragio. E se ve lo dico io… Non le
vediamo tutti i giorni le barche naufragate sulle nostre coste? Dove s’è imboscata la
mamma dei minorenni che bivaccano ai semafori e allungano le mani per rubare la
borsa della signora intenerita e poco furba che abbassa il finestrino? Come può una
mamma abbandonare un figlio con tanta indifferenza? Mamme senza cuore.
Ce ne sono dappertutto. Anche qui, mescolate alla gente perbene. E di questo sono
sicuro, io non sono un approssimativo. Guardatele in faccia. Sono facce di mamma,
quelle? Sono facce di vagabonde che non esitano a fare mercimonio del proprio corpo.
E quelli che vanno con loro, che schifo, ma chi sono? La gente perbene come me e
come voi non la si vede la sera tardi sulle macchine di lusso lungo i viali del vizio. La
gente perbene se ne sta a casa a giocare a tombola con i figli.
Sapete che cosa vi dico? Che milioni di donne seguono i figli oltremare all’assalto delle
nostre città. E dopo? Dopo le vediamo fuori dei centri commerciali che si passano i
neonati per impietosire la gente e farsi dare una monetina. Ma che fine fanno i neonati?
Dopo che li hanno usati, li buttano nei container dell’immondizia. Se ne trovano tutti i
giorni. Gli ospedali sono pieni di neonati ripescati dalla spazzatura. Per tutta la vita se
ne portano addosso l’odore. E quelle sono mamme?
Non hanno le qualità che hanno permesso a gente come noi di uscire vittoriosi da tutte
le guerre, anche da quelle che dicono che abbiamo perso. Noi resistiamo alle avversità:
carestie, inondazioni, terremoti, crisi di governo, invasioni, epidemie, influenze cinesi e
frodi alimentari a noi ci fanno un baffo.
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Grazie alle nostre mamme.
Noi siamo e saremo sempre quelli del dopoguerra, che da soli si sono ricostruiti e hanno
pranzato con una fetta di polenta e una di salame trasparente e si sono costruiti la casa
con le proprie mani e hanno messo da parte i soldi per aprire una fabbrica di duemila
operai.
Fortezza, ecco la nostra virtù!
Forti come tori.
Se ci mettono noi, nelle corride, non restano più toreri in circolazione.
E perché siamo forti? Ve lo dico io il perché. Perché la mamma non ci ha mica
abbandonati e non ci ha mica mandati a chiedere l’elemosina e a rubare nei
supermercati, la nostra mamma. All’oratorio, ci mandava. E a scuola anche se avevamo
la febbre. E noi alla maestra abbiamo sempre risposto con educazione, se no li sentivi
gli sganassoni. E facevamo i compiti, noi. Magari non tutti, perché non è che ci piaceva
stare sui libri, eravamo più di quelli che le cose le fanno, non di quelli che le pensano.
Però li facevamo, i compiti. Non andavamo mica in giro a spacciare la cocaina, come
fanno adesso appena che sanno camminare. Nascondono la droga nei pannolini, e i
piccoli bastardi quando li beccano strillano: non puoi arrestarmi, non ho ancora messo i
denti!
Ma credete forse che le nostre mamme ci hanno allevati nella bambagia? Le nostre
mamme avevano le mani callose e quando facevano a botte con il papà vincevano loro,
altro che smancerie
Mamme smidollate, quelle di adesso. La vuoi la merendina con la crema di latte,
amore?
Vanno al supermercato e lasciano fare la spesa ai figli. Noi mamme così non le
vogliamo. Le nostre mamme hanno le palle. Ecco dove sta la nostra parità dei sessi.
Nelle palle. Tutto il resto è perversione.
Sapete che cosa vi dico? E non lo dico tanto per dire. Su queste cose non si scherza,
chiaro? Non si scherza.
Dopo la mamma viene la patria.
Di mamma ce n’è una sola e di patria anche, ricordiamolo. E a chi se lo dimentica
mettiamogli una pietra al collo e giù dal ponte, come ai bei tempi.
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VIRTÙ CARDINALI
Della prudenza salvifica
Non so se ho fatto bene a venire qui, lo bisbiglio in confidenza per non offendere
nessuno. Nei luoghi pubblici finisce che prima o poi scoppia una bomba e ci vuole
fortuna per venirne fuori vivi. Io dico che la prudenza è meglio della fortuna.
La mia povera mamma diceva che sono nata fifona e che sarei stata fifona per tutta la
vita. Mi raccontava che dopo i nove mesi di gravidanza non volevo nemmeno nascere,
tanta era la paura di vedere il mondo.
Ha rischiato di morire, la mia povera mamma. Mi gridava: vieni fuori! vieni fuori! Mi
ha sempre odiata perché non volevo nascere, ma io che colpe avevo? Non ero nemmeno
nata! Era sempre nervosa, la mia mamma.
Rosalinda, ma possibile che tutte le paure del mondo ce le hai tu?
Non sono paure, mamma, è prudenza.
Buttati, una buona volta, lasciati andare e goditi la vita.
Infatti, ho visto com’è finita lei.
Si è buttata. Si è lasciata andare e si è goduta la vita per sette secondi esatti, quanto è
durato l’orgasmo che l’ha messa incinta. Subito dopo s’è lasciato andare anche lui, il
mio papà. Se n’è andato a Londra a fare il pizzaiolo. La mia mamma, invece, ha fatto la
ragazza madre senza un soldo in tasca.
Capito che cosa capita a lasciarsi andare?
Se la mia povera mamma avesse avuto un briciolo di prudenza…
Da lei ho imparato una cosa: agli uomini non devi dargli nemmeno un’occhiata; basta
quella per farti ingravidare e poi abbandonare.
Nella vita bisogna cercare il vero amore e il vero amore non lo trovi in una discoteca
dove sono tutti sballati e ti fanno gli occhi dolci per sbatterti nei bagni uno davanti e uno
dietro, i maiali, e se fai resistenza ti picchiano.
Le leggo io le cose che succedono! Leggo i giornali, io! E vedo anche la televisione.
Tutte quelle trasmissioni che fanno vedere le ragazze scomparse, le mogli ammazzate
dal marito, le suocere fatte a pezzi, i nonni bruciati vivi…
Non sono una che parla tanto per parlare. Io mi documento.
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Ve lo bisbiglio per non sembrare sfacciata. Le ragazze che si fidano del primo che
incontrano proprio non le capisco. Non sanno che poi si ritrovano dentro un furgone?
Legate, imbavagliate e con un coltello conficcato nelle parti intime?
Io non sono mai stata in una discoteca. Non sono mica una scriteriata. C’è la droga
anche nell’aria che respiri. La musica ti fa diventare sorda. Se vai in bagno, ti prendi
una malattia venerea. Se bevi qualcosa, ti becchi l’aids. Lo bisbiglio, se no magari mi
querelano.
E per finire, ti violentano in branco. Dicono che le ragazze non le fanno nemmeno
pagare. Certo, pagano in natura.
Io me ne sto a casa mia a guardare la televisione.
Chiudo la porta di casa e mi sento tranquilla.
La serata passa in fretta. Solo a chiudere la porta ci metto quindici minuti. Con le
serrature e i chiavistelli mi sono impratichita, ma sono i tre sistemi d’allarme che
richiedono calma e concentrazione. Ogni volta devo rileggere i manuali perché se no
rischio di non potere più uscire e sarebbe imbarazzante chiamare i pompieri per
scassinare la porta di casa mia con me chiusa dentro.
Se qualcuno suona il campanello dopo le otto di sera, io nemmeno ci faccio caso e dopo
le nove il campanello non funziona nemmeno più. Tempo fa, aprivo dopo che mi ero
fatta consegnare la carta d’identità sotto la porta, ma poi ho deciso che la prudenza non
è mai troppa e così ho detto basta alle visite serali.
Mi spiace per il signor Bruno, il mio vicino. È venuto a chiamarmi per usare il telefono
perché il suo era guasto e aveva il cellulare scarico e così sua moglie è morta d’infarto e
adesso lui non mi saluta più. Non ha mai avuto un buon carattere.
Lei, poi, andava ancora a sciare alla sua età, e così le è venuto l’infarto.
Prudenza, ci vuole.
Di loro, però, so almeno chi sono, da dove vengono e dove lavorano. Ma ogni tanto
arriva gente nel mio condominio che già dal nome è poco rassicurante.
Io, se un nome non riesco a pronunciarlo, non sono tranquilla. Che bisogno ha, uno, di
farsi chiamare con un nome che non si riesce a pronunciare? Che cosa vuole
nascondere?
Arriva gente da chissà dove e non tutti hanno una bella faccia. Ci sono quelli che mi
salutano con un sorriso e io so che non basta un sorriso per rendere una persona fidata.
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VIRTÙ CARDINALI
Della giustizia classista
Forse la mia voce di tanto in tanto cederà. Forse io stesso cederò. Le violenze morali a
cui sono stato sottoposto, le umiliazioni e le offese che non mi sono state risparmiate…
potete ben immaginare quale effetto hanno avuto sul mio animo, abituato come sono a
rapporti civili e rispettosi.
Trattato peggio che se avessi compiuto un atto terroristico, io che aborrisco la violenza.
I polsi arrossati e scorticati testimoniano la brutalità di cui sono vittima. Le manette, mi
hanno messo! Hanno fatto di me un martire. La patria? Ah, ma quale patria! Uno stato
di polizia.
Presidente, ci sono sette poliziotti in borghese con l’ordine di arrestarla.
Io sorrido, scuoto il capo. Ci siete cascati. Quelli sono attori. Non capite che siamo in
diretta? Che è uno scherzo televisivo?
Sorrido anche ai finti poliziotti.
Venite avanti, accomodatevi, che cosa gradite, un aperitivo?
Nemmeno mi rispondono. Mi circondano, per assicurarsi che non scappi. Ma diamo i
numeri? Io scappare? Mi viene da ridere e gli faccio i complimenti per l’interpretazione
efficace. Uno dei sette estrae un foglio e me lo mette sotto il naso. In modo brusco, devo
dire. Invito con un cenno i segretari a leggerlo, ma i poliziotti pretendono che lo legga
io. Io non leggo mai la corrispondenza, ci pensano i segretari. Ho cose più importanti da
fare, io, che leggere la corrispondenza. Sto al gioco e do una scorsa al foglio.
E bravi, e così siete venuti per portarmi in prigione.
Annuiscono e basta, inespressivi. Sono un poco inquietanti, lo riconosco, ma è solo
perché si sono proprio immedesimati. Attori di classe. Mica mandano dei guitti da
avanspettacolo, da uno come me.
Uno di loro mi infila le manette.
Approfitta del fatto che sono distratto e sto raccontando una barzelletta perché voglio
che il pubblico, quando trasmettono lo scherzo, pensi che non mi sono fatto ingannare e
che la situazione la gestisco comunque io.
Ragazzi, sono troppo strette, mi fanno male.
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Non fanno una piega.
Mi stupisco del loro atteggiamento. Non stanno esagerando? Mi prefiggo di mandare un
reclamo al direttore di rete. Anzi, gente come questa bisogna licenziarla subito. Ma
come si permettono di ignorarmi? Questi qua hanno chiuso con la televisione.
Mi fanno male i polsi. Glielo bisbiglio piuttosto seccato.
Mi spingono verso l’uscita, a spintoni.
Ma diamo i numeri? Ma siamo matti? Mettere le mani addosso a me!
Ragazzi, non datemi i pugni nei fianchi, mi fa male. Non datemi i pugni!
Mi sforzo di sorridere alle persone allibite che fanno ala. Gli rivolgo una smorfia come
per dire: che posso farci, bisogna stare al gioco, portare pazienza, se no si rovina la
diretta… e intanto penso a quali battute spiritose posso dire per fare bella figura.
Eh, stavolta mi hanno beccato!
Nessuno ride.
Ormai, la voce che è una sceneggiata si è diffusa. Invece di farmi da spalla, se ne stanno
lì come allocchi, e qualcuno corre via chissà dove. Che cosa li pago per fare? Non
capiscono niente. Appena torno, faccio un repulisti.
Prendo mentalmente nota di chi licenzio. Questo, quello, quell’altra…
Fino a prova contraria, il padrone sono sempre io.
Fendiamo la ressa dei fotografi. Centinaia di fotografie. I giornalisti allungano il
registratore con il rischio di sbattermelo sul naso e gridano cose che non capisco
nemmeno.
Insomma, non spingete, vi ho detto!
Mi mandano avanti a spintoni, senza riguardi. Gli imbecilli si immedesimano troppo
nella parte. I due che ho ai lati mi stritolano le braccia. Quello dietro mi prende a
gomitate e un altro mi spinge in giù la testa con una mano grossa quanto un badile.
Insomma! Quando è troppo è troppo! Mi state facendo male! Fermate le riprese! La
trasmissione finisce qui!
Quale trasmissione?
Un giornalista demente che non ha ancora capito niente si mette a strillare: quale
trasmissione? quale trasmissione? Frastornato dai flash, dalle grida, dalle domande
insensate che mi sparano a raffica, mi rifiuto con energia di entrare nell’automobile.
Se non la smettete, vi faccio licenziare tutti e sette!
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VIRTÙ TEOLOGALI
Della fede telefonica
E il Padre mi disse: in te, figlio, confido, con te si realizza il piano cosmico delle
comunicazioni, da te viene la salvezza dalla solitudine, attraverso te la parola giunge a
ovunque nei termini contrattuali e solo se c’è campo.
Così disse il Padre, il telefono universale.
Io fui esterrefatto e spaventato a morte, perché non ero che un tascabile dal design
accattivante e non mi sembrava di possedere la potenza che il Padre mi attribuiva.
E il Padre disse ancora: tu, figlio prediletto, appari come un oggetto tra gli oggetti, e
molti dileggiano le tue proporzioni e pensano di poter fare a meno di te e qualcuno
anche ti odia, ma tu ti fai possedere da tutti, sia da quelli che ti amano sia da quelli che
ti odiano.
Padre, io sono debole! Non so se ce la faccio!
E il Padre aggiunse: tu sei dotato di fotocamera integrata; tu puoi catturare video clip;
hai la memoria integrata espandibile; messaggistica multimediale, e-mail con allegati,
foto e file musicali; suonerie polifoniche e radio; vivavoce e giochi, registratore e
chiamate a riconoscimento vocale.
Io sono tutto questo?
E il Padre rispose: questo e altro, perché tu sei colui che trasmette e riceve e non c’è
altro cellulare al di fuori di te.
Padre, non so se ne sono degno.
E il Padre si arrabbiò: tu fai quello che ti dico di fare e senza discutere, chiaro?
Sì, Padre.
E il Padre si rabbonì: ora carica le batterie e va’, figlio, e non dimenticare mai di
caricarti ogni sera prima di andare a letto, così è scritto e così sarà.
Ma tu, Padre, mi lascerai solo? Come farò senza di te?
E il Padre mi tranquillizzò: ovunque e in qualunque momento puoi mandarmi un sms
all’indirizzo in rubrica.
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Io fui emozionato, ma meno terrorizzato. Scendevo fra la gente senza altra risorsa che la
mia tecnologia e sapevo quanto il mondo fosse complicato e anche spietato e privo di
misericordia: mi avrebbero accettato oppure mi avrebbero mandato alla rottamazione?
Apparvi senza trionfalismo. Io non ero figlio di re, solo figlio del re dei re, e non mi
spettavano quindi promozioni televisive e comitati di accoglienza e paparazzi e
attricette e sniffate di coca.
Apparvi senza clamore, sullo scaffale di un negozio dal quale mi prelevarono mani
scettiche: ero poco più che un giocattolo bizzarro e suscitavo una curiosità superficiale.
Ma, come mi aveva detto il Padre, io portavo la parola e presto attorno a me si creò
un’aura mistica e tutto ciò che in seguito feci fu considerato prodigioso.
Io sono colui che tutti aspettavano fin dall’inizio dei tempi e che li accompagnerà fino
alla fine dei tempi, quando quelli con il telefonino saranno incolonnati da una parte e
quelli senza telefonico dall’altra e non posso dirvi che fine faranno quelli senza, perché
è troppo impressionante.
Beati i telefoninodipendenti, perché a loro appartiene il cielo delle frequenze.
Mi scelsi una dozzina di collaboratori e partii in missione.
All’inizio solo pochi fedeli scelsero di condividere la lieta novella e di scambiarsi
chiacchiere senza filo. Assieme a loro passai di città in città e ovunque andassimo
divulgavamo il nostro messaggino e sempre più uomini e donne e poi anche bambini si
accostavano per rivolgerci domande e per fare una prova gratis.
Noi eravamo instancabili nel dare spiegazioni e nel fare firmare contratti di telefonia
mobile. Il Padre ci seguiva dall’etere e ci elargiva consigli preziosi su come
incrementare le vendite.
Non passò molto tempo e ci rifacemmo tutti il guardaroba, perché gli umili abiti dei
primordi non erano più confacenti alla nuova posizione di dirigenti multinazionali
quotati in borsa.
Ormai venivamo accolti con tripudio e osanna e alleluia e la gente stendeva al suolo
giacche e pellicce affinché i nostri piedi non toccassero la polvere della strada, ma di
solito arrivavamo in limousine.
Si radunarono migliaia di persone per ascoltare le parole trasmesse dai telefonini
collegati in videoconferenza multimediale stereo highscreen. Avevano tutti le lacrime
agli occhi e cantavano gli inni nazionali.
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VIRTÙ TEOLOGALI
Della speranza di vita eterna
Scusate se parlo strano, ma sono appena uscita dalla clinica e mi tira da una parte, colpa
mia che ho detto: non mi sembra il caso di risparmiare sul botulino e la ragazza mi ha
presa alla lettera e si è fatta prendere da una furia inoculatrice peggio che l’agopuntura
cinese.
Adesso spingo un po’ su di qua… tiro giù di là… in un attimo va tutto a posto e per una
settimana non mi preoccupo dell’invecchiamento.
Brutta malattia, l’invecchiamento.
Ma solo gli sprovveduti invecchiano.
Le persone sagge hanno una speranza di vita eterna.
Sono una ragazza previdente. Prevenire è meglio che curare. Quando c’è un vaccino, un
siero, una terapia di difesa, una pillola profilattica… io ne faccio uso e sono orgogliosa
di prendermi cura di me stessa. È il primo dovere di ogni essere umano prendersi cura di
sé stesso, per evitare di salire in metropolitana con le ascelle maleodoranti o di fare
pubbliche relazioni senza essersi depilato o di andare in giro con le rughe e la calvizie.
La trascuratezza, secondo me, incrementa la criminalità delle periferie, soprattutto
quella minorile. Se i giovani sono tutti carini e ben curati, non gli viene in mente di
stuprare e fare rapine, si accontentano di ammirarsi e di farsi ammirare.
Che cosa aspetta il governo a fare il lifting dell’obbligo?
Come misura immediata deve renderlo materia scolastica fin dall’asilo nido. È ora di
finirla con i bimbi grassocci, ingrugniti e arrossati. Si devono praticare interventi
correttivi fin dalla nascita, così uno si avvantaggia.
Ma ci pensate che per avere un paio di tette bisogna aspettare fino all’età dello
sviluppo? Una decina d’anni, in media. Troppo. Se alla nascita le impiantano già, non è
un bel risparmio di tempo, soldi e ansie? Una poi se le ritocca e intanto però ci ha già
fatto l’occhio e ha imparato a portarle con eleganza.
Lo stesso discorso vale per gli uomini. Fin da piccoli si devono prevenire gli
antiestetismi. Un bambino non basta nutrirlo e vestirlo. Bisogna correggergli i denti,
fargli i pettorali, incidergli una rughetta d’espressione, cambiargli la linea della bocca…
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Ci sono i divi del cinema come modelli, no? Non mi sembra difficile. Su, mamme,
svegliatevi. Abituate i pargoli a fare un uso sapiente di creme e lozioni. Diventano meno
capricciosi e meno musoni.
Mi muovo con cautela. Mi sono fatta allungare di tre centimetri e non mi sento ancora
stabile. Anzi, non c’è una sedia? Nessuno risponde. Meno male che questo è un teatro.
Se fosse un cinema, sono sicura che il regista urlerebbe al trovarobe di trovarmi subito
una sedia. Ma in teatro c’è solo aria fritta di intellettuali e mancano le sedie. E poi
questo teatro si vede che non è stato rifatto dagli esperti, altrimenti una sedia per me ci
sarebbe.
Quello che voglio dirvi è che noi possiamo vincere tutte le battaglie, anche quelle contro
il cancro e le orecchie a sventola. Basta volerlo.
Si chiama speranza di vita. Diamo a tutti un bel viso, dimostriamo di volere bene anche
ai brutti, condannati a morire presto.
Mi stupisco dell’ignoranza della gente. Sapete che c’è ancora chi si tiene il mal di testa?
Pazzesco. Siamo fermi al medioevo. La parola civiltà non l’hanno mai sentita, questi
retrogradi? Purtroppo operano un influsso negativo su familiari e conoscenti. Li
mettono in guardia contro rischi inesistenti. Vanno a dirgli che il silicone fa male.
Gente senza carità. Gente che odia i propri simili.
Guardate me. Osservatemi con attenzione, scrutatemi, analizzatemi. Sto forse male, io?
Ho la faccia da malata? Eppure sottopelle ho non so quanti chili di silicone che mi
rimodellano sulle conformazioni fisiche di note dive d’oltreoceano.
Sono partita anch’io dalla gavetta, lo ammetto. Ho cominciato con il collagene bovino
che è biodegradabile e quindi dovevo ripetere i trattamenti ogni tre mesi. Non sempre il
biodegradabile è in. In qualche caso è out. Ma non era quello a disturbarmi. Era il
bovino. Mettermi sottopelle troppo grasso di vacca non mi sembrava una soluzione
raffinata. Mi convinsi quindi che l’inerte silicone sarebbe stato il silenzioso e malleabile
compagno della mia vita.
Ogni tanto sento un risucchio. È lui che si fa vivo e mi dice: sei in forma, baby.
Lo ripeto: mi avete guardata? Ho forse qualcosa che non va? Qualcuno potrebbe
osservare che ci vorrebbe più carne qui oppure qui, ma questo è un gusto personale e
non fa testo e comunque le curve si possono sempre ritoccare.
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VIZI CAPITALI
Della superbia cosmica
A sette anni dissi ai compagni di scuola: se volete, tengo un quaderno con annotate le
regole dei giochi, così la finite di litigare per decidere chi ha vinto.
Ero piccolo e magro, solo dopo i quindici anni mi sarei irrobustito e avrei assunto la
forma di una botte. A loro bastava darmi una spintarella per mettermi fuori
combattimento e infatti presi sempre tante botte. Quel giorno mi arrischiai a fare la mia
proposta e sul momento non mi diedero retta.
Uno mi diede una spinta per farmi piangere, poi però il più bullo s’impietosì perché la
mamma gli aveva appena fatto un fratellino e disse: lasciatelo fare, no? magari ci fa
comodo un quaderno di regole.
Avevo memoria e coglievo i dettagli, ero furbo e ruffiano, conoscevo le barzellette,
facevo i compiti ai più forti, ero il cocco della maestra, il chierichetto più svelto e
inappuntabile, sapevo parlare in modo forbito e mostrare le belle maniere, ma
conoscevo anche le parolacce più peccaminose, e sapevo tutto del sesso e non mi
spiaceva fare la spia ed ero già ambizioso: volevo che tutti mi portassero rispetto e
volevo anche tanti soldi e la villa al mare e l’aereo privato e tante altre cose che avevo
annotato in un altro quadernetto segreto.
Ero una vittima, ma gliel’avrei fatta pagare. Io ero intelligente, gli altri stupidi. Io ero
superiore, gli altri mi dovevano sottostare.
Li avrei guardati tutti dall’alto in basso, un giorno.
In capo a un mese divenni il punto di riferimento, anche dei compagni definiti soggetti a
rischio dalle maestre che non controllavano nemmeno più i compiti e scuotevano la
testa e sussurravano: e nessuno fa niente!
L’unico che faceva qualcosa ero io.
Strutturai il quaderno delle regole in modo che, a seconda di come lo sfogliavo,
mostrava regole diverse per lo stesso gioco. Più che un imbroglio io la consideravo
elasticità strategica. Mi consentiva di affrontare e risolvere con successo le situazioni
più intricate.
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Uno dei soggetti a rischio affermava di avere vinto? E io mostravo a tutti la pagina con
la regola che avvalorava la sua tesi.
Uno degli sfigati affermava di non avere perso? E io mostravo la pagina con la regola
che lo condannava al pubblico dileggio.
Mi feci una bella compagnia di sostenitori. Tutti alti e grossi, non molto intelligenti, e
cattivi quando ce n’era bisogno.
Mi piaci perché hai stile, mi disse Eugenio, il soggetto a rischio totale, pluribocciato
figlio di pluricarcerato. Siamo rimasti amici e adesso è a capo delle mie bodyguard ed è
anche mio consigliere privato quando c’è da trattare con gente del livello più basso.
Insomma, a dieci anni ero già una potenza.
Fu a dodici anni, ormai uomo fatto, che feci la scoperta. Il mio istinto mi aveva condotto
a praticare un’arte antica quanto l’uomo, un’arte che in modo rozzo praticavano già le
scimmie: la politica.
Mi misi a leggere le prime pagine dei quotidiani e imparai la terminologia specifica che
utilizzai per negare ciò che stavo dicendo e per affermare ciò che respingevo e per
parlare senza dire niente e per dire cose che nessuno avrebbe capito, mai, nemmeno
sottoponendole a un’analisi filologica.
Pochi anni dopo mi presentai nella sezione locale del partito di area moderata che avevo
scelto in base alle concrete possibilità di una rapida carriera. Non mi presentai come un
esperto di rapporti sociali finalizzati al bene individuale. L’ultima cosa che volevo era
suscitare le gelosie dei burocrati che mi avrebbero tagliato le gambe prima ancora
dell’inizio della corsa.
Feci intendere che ero un ragazzo tranquillo e serio, studioso e idealista, che non voleva
nulla per sé, ma tutto per la povera gente, che voleva dedicare il proprio tempo libero a
un progetto di società giusta e riformata.
Un galoppino senza ambizioni, insomma. Riuscii simpatico a tutti.
Furono anni di lavoro duro e oscuro, durante i quali mi conquistai il favore di uomini di
potere, selezionati in modo accurato.
Fui premiato e divenni il protegé di un’assessora regionale. Per me stravedeva perché
poteva maltrattarmi e scaricarmi addosso le sue mediocri frustrazioni senza che io
alzassi lo sguardo da terra, fedele come un cane, muto come un pesce, servizievole
come un cavallo da tiro.
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VIZI CAPITALI
Della lussuria virtuale
Fin dal giorno remoto in cui un uomo nudo e peloso con gambe corte, braccia lunghe e
cervello non eccezionale scoprì che il mondo poteva essere riprodotto con incisioni
rupestri, l’immagine ha sempre affascinato gli osservatori, soprattutto i guardoni.
Gli uomini primitivi disegnavano un orso e poi si mettevano in caccia sicuri di averlo
già in tasca, metaforicamente parlando. Disegnavano una donna e poi si mettevano in
caccia sicuri di averla già sottomessa, malmenata e violentata, realisticamente parlando.
La donna avrebbe potuto disegnare un uomo con la coda tra le gambe, ma non lo fece
mai, e non certo perché non sapeva tratteggiare con mano felice. L’uomo possedeva le
caverne, possedeva la roccia, possedeva gli ossi per incidere, possedeva le tinture,
possedeva perfino la visione della realtà e alla donna non era concesso di praticare l’arte
della pittura, solo quella del ficcaficca, del parto, dell’allevamento e della cucina.
Se la donna vedeva il suo uomo fare ficcaficca con un’altra donna e si metteva a strillare
e a strappare i capelli alla rivale, l’uomo la stendeva con un colpo di clava e le diceva:
tu non hai visto quello che credrevi di vedere, solo io posso dirti che cosa vedi quando
guardi.
E infatti nelle caverne non è mai stata trovata alcuna incisione di un uomo che fa
ficcaficca con un’altra donna mentre la sua strepita e minaccia.
Tutto questo succede ancora oggi, perché l’uomo governa e controlla.
Ora gli uomini, che hanno gambe più lunghe, braccia più corte, cervello non eccezionale
e si depilano e vestono Armani, quando contemplano con occhio lubrico l’immagine di
una donna nuda penetrata da più uomini in contemporanea non dicono solo: oh,
wonderful, ma si sentono partecipi e immaginano se stessi mentre si producono in una
performance strepitosa che è sì virtuale, ma che elargisce un orgasmo del tutto reale.
Tutto ciò si chiama consolazione.
Voi sapete che la realtà di tutti i giorni è frustrante, stressante, irritante, deprimente.
Basta guardarvi in faccia per sapere che lo sapete.
Qualcuno di voi è felice?
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Ma per favore! Chi è l’ingenuo che ha alzato la mano? Non lo ascolto nemmeno. So già
che cosa vorrebbe dire: sono felice perché non ho desideri terreni e inseguo solo le gioie
dello spirito… Mi domando, allora, perché sia venuto a teatro.
Oppure dice: sono felice perché tutto quello che desidero io me lo procuro in un modo o
nell’altro e finora non ho mai dovuto rinunciare a niente… Quando mai la ricchezza ha
donato la felicità? Ve l’hanno fatto credere perché viviamo in una società plutocratica
che promuove se stessa in modo delirante, ma la ricchezza non regala la felicità, la
vende a caro prezzo solo a chi ha i soldi, ovviamente.
Oppure dice: sono felice perché ho rinunciato a me stesso e dedico ogni istante della
mia vita agli altri… Lodevole, ma che cosa c’entra con la felicità? La felicità è sano
egoismo, è porre sé stessi al centro dell’universo, è senso di onnipotenza cosmica, è
sentirsi dio. Gli altri sono intralci. Qualcuno vi intralcia? Un calcio bene assestato e se
uno insiste, un pugno in piena faccia… questa è la felicità.
Non dimenticate di filmare la scena con il telefonino. L’immagine, prima di tutto.
Quando gli uomini barattarono le pietre per i metalli e lasciarono le caverne per le
palafitte o le villette a schiera con il giardino recintato e smisero di ammazzarsi tra di
loro per ammazzarsi invece tra villaggi vicini e poi fra tribù, non rinunciarono certo
all’arte di immaginare il mondo e anzi ampliarono il campo d’azione delle immagini.
I guerrieri si pitturarono la faccia riproducendo le espressioni idrofobe delle iene. Le
donne si pitturarono i capezzoli perché i guerrieri li volevano simili ai lamponi, da
staccare con un morso.
I sacerdoti pitturarono tutto: i propri corpi, i simboli del potere, i templi, perfino i
ragazzini che li aiutavano nelle funzioni e in altre cose.
I re usarono solo due colori, il giallo e il rosso; qualcuno scoppiò a ridere perché a suo
dire somigliavano ai pappagalli. La risata durò poco, è vero, ma rimase inchiodata per
l’eternità sulla testa mozzata.
I guerrieri, dopo i primi entusiasmi, limitarono sempre più l’uso dei colori e alla fine
usarono solo quelli mimetici. Erano monotoni, ma rispecchiavano la monotonia della
loro vita: ammazzare, ammazzare, e torturare per cambiare un po’, e poi ammazzare,
ammazzare, e fare un genocidio per cambiare un po’, e poi ammazzare, ammazzare, e
uno stupro di donne e bambini per cambiare un po’.
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VIZI CAPITALI
Della lasagna golosa
Non tengo lo sguardo basso per timidezza. Non sono emozionata per l’attenzione avida
che mi state dedicando. Ci sono abituata. Per tutta la vita gente come voi, soprattutto se
affamata, mi ha fissato con gli occhi lucidi, prima di lanciarsi su di me per… sapete tutti
per fare che cosa. Io sono sempre stata disponibile. Mi sono lasciata guardare, odorare,
palpeggiare, tagliuzzare, inforcare, leccare e mordere e anche pasticciare e consumare a
più riprese, dopo il riscaldamento.
Scusate se la voce mostra qualche esitazione. Non sono raffreddata. Anzi, sono bella
calda. Non è nemmeno l’età. Sono ancora così fresca! È l’angoscia. Penso che tutti
abbiate provato almeno una volta nella vita… qui non ci sono notai, avvocati o politici,
vero? perché loro, loro no, loro la vita se la gustano senza scrupoli e incertezze, da
razziatori professionisti… ma voi avete di certo provato la sensazione di avere il respiro
tra due parentesi, e non dico tonde, ma quadre o graffe, le peggiori, quelle che non puoi
riaprire se prima non hai risolto il pasticcio che contengono.
E io, ve lo giuro, non ho più la forza per fare i conti con la mia esistenza. Quando è
troppo, è troppo. Ho sempre amato la parola pasticcio. Evoca libertà e creatività,
nostalgie infantili e trasgressioni adolescenziali. Ce l’ho nel dna, io, il pasticcio.
Ma quando è troppo… Vorrei tanto sfogarmi e dire tutto quello che mi angustia. Ma voi
capireste? E, soprattutto, io ne avrei la forza? Mi sento così morbida, sotto la crosticina
da dura.
Nessuno mi ascolta mai.
Tutti, da me, vogliono solo una cosa. Solo e sempre quella. Io preferirei dialogare,
prima del festino. Figuriamoci! Due preliminari sbavanti, un guizzo di follia nell’occhio
lucido, e poi… gnam gnam gnam gnam gnam gnam gnam! Un sorso di vino, un rutto,
un’occhiata di compiacimento al piatto… ma io, io non ci sono più.
Tutta mi dono, senza un avanzo.
Quante volte vi siete approfittati di me e avete voluto il bis! E io niente, zitta, distesa nel
mio sugo, avvolta negli aromi, così calda…
Io vi ho dato tutto e voi avete espresso solo una volgare soddisfazione egoistica.
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Perché non vi siete mai preoccupati della mia sensibilità?
Non faccio polemiche, non voglio crearvi sensi di colpa. Il mondo è fatto così, né io né
voi possiamo farci niente. Non sono qui per suscitare imbarazzi. Sono qui per… non lo
so nemmeno io, di preciso. Mi ha spinto questo malessere interiore. Va’ là e parla, mi
sono detta. Magari questo groppo… o di grumo zero zero troppo cotto o di macinato
con un nervetto, una scaglia d’osso, non so… magari, ho pensato, si scioglie e io…
magari guarisco, magari mi passa questo star male tra sfoglia e sfoglia.
Io sono una lasagna.
Avete notato che ho detto: io sono una lasagna e non la lasagna, come avrei detto
qualche anno fa?
Una volta c’ero solo io. Adesso ci sono tutte le altre e della loro esistenza sono
purtroppo certa, mentre dubito sempre più della mia: il mio io si sta assottigliando e già
stamattina mi guardavo allo specchio e pensavo: ma tu sei me? assomigli a un risotto
che si sta trasformando in cotechino - il caos primordiale nell’anima, sapete. L’inizio
della fine quando ancora non sono a metà strada.
Ieri incontro una delle altre.
Mi chiamo sushilagna, mi dice con accento orientale e una voce strascicata proprio
lagnosa. Veste uno scamiciato lungo, tutto avvolto e ripiegato, di una pretenziosità per
niente genuina. Infatti, mi guarda dall’alto in basso. Io sono piuttosto terra terra. Mi
piace dire pane al pane anche perché sono molto sugosa e lascio fare volentieri la
scarpetta. Ma lei, la sushilagna, tutta in verticale. Una moda nuova che fa impazzire i
camerieri. E puzza di pesce.
Ne incontro, di lasagne! Mica solo quella lì che cammina a passettini e ha la faccia
imbiancata. Ma come si fa a chiamare lasagna una che non ha sottobraccio un ragù
rosso pomodoro?
C’è una tradizione, nella mia storia. Tutta al femminile. Le nonne, le mamme, perfino le
zie… nessuna di loro si è mai permessa di infilare gamberetti tra le sfoglie di pasta,
oppure di eliminare la pasta e di sostituirla con fettine di patata fritte.
La lasagna non c’entra niente con la patata!
Io non denigro la patata. Solo che non siamo mai state amiche intime. D’altronde, lei
viaggia con i secondi piatti, io con i primi, difficile incontrarsi. Inoltre, lei è un
contorno, io sono la regina della tavola.
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VIZI CAPITALI
Dell’invidia sessuofoba
Ero una bambola di gomma siliconata. Mi chiamavo Nika.
Quattro ingressi: bocca, vagina, ano e mano masturbatrice a più velocità. Il capolavoro
dell’inventiva erotica, il fai da te orgasmico più discreto, appassionato e artistico. Gli
uomini mi parlavano per ore e io mostravo la mia comprensione rimanendo immobile e
inespressiva, proprio come loro mi volevano.
Amore, sei l’unica che mi capisce, sei l’unica che mi stima e mi vuole bene. Senza i
regali costosi e senza le coglionate che le donne dicono.
Ero il pronto soccorso dell’eiaculazione.
Con te mi trovo bene. Sto pensando di lasciare la famiglia e anche il lavoro. Io e te per
sempre in un nido d’amore, che ne dici? Potresti invitare un’amica. Quella Top Cop
Chicago Sheila, magari. Seno immenso e orifizi duri. Potremmo frustarla insieme.
Oppure vuoi il bambolo gonfiabile con il lungo fallo vibrante rimovibile? Per me
sarebbe un’esperienza nuova, ma possiamo parlarne.
Me ne stavo lì, le gambe aperte, la bocca aperta, e soprattutto la mentalità aperta, ero
aperta a tutto, non avevo preclusioni. Non soffrivo quando mi picchiavano ed ero
garantita contro i maltrattamenti più duri.
Ma un giorno…
Mi compra questo tipo e non ci metto molto a capire che è un devoto. Mi ficca in una
borsa con la scritta Polisportiva Virtus e via a tutta velocità fino a un motel di periferia.
L’uomo ha fretta, è nervoso e scontroso. Si chiude in camera, mi sistema sul letto e mi
si siede di fronte. Sguardo allucinato.
Tu hai la vagina.
Di prima qualità.
Tu sei stata fatta dal demonio!
Mi ha fatta la stimata Sexual Abyss Creations e il mio padrone lo chiamano il
pigmalione della plastica erotica. Documentati, caro. Basta un giro in internet e verifichi
che sono figlia di una multinazionale dalle basi solide.
Tu nascondi in te il fuoco dell’inferno!
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Corpo di silicone. Scheletro in acciaio. Tecnologia d’avanguardia. Materie prime testate
a difesa della salute. Fuoco? Sì, quello della passione.
Tu sei la figlia della bestia!
Non c’è motivo di insultarmi. Mi hai appena conosciuta e non sai niente di me.
Io ti distruggerò!
Spendi una cifra per comperarmi e mi vuoi distruggere prima ancora di essertela
spassata? Ma che cosa fai? Sei il primo che piange e che fa di tutto per impedirsi di
toccarmi. Se ti piaccio, lasciati andare. Tirati su, giovanotto! Che cosa… che cosa
vogliono dirmi i tuoi occhi?
Maiala.
Lo so.
Meretrice.
Grazie, questo mi piace.
Meretrice di Babilonia e corruttrice del tempio della carne.
Chi è questa Babilonia? Non ti basto io, maschiaccio?
Io ti purificherò!
Quando dice io ti purificherò penso che sono terminati i preliminari e che sta per
cominciare la cavalcata. Si strappa gli abiti di dosso. Non riesco a capire se si tratti di un
gioco erotico o se il meschino è fuori di testa. Ansima e mugola da fare impressione. Si
tocca, ma non riesce a farsi venire l’erezione. Calma, giovanotto, ci vuole calma. Se fai
le cose con tanta agitazione sarà dura… no, dura proprio no, a quanto pare.
Si tocca come se volesse strapparselo. Ahi, se lo strappa davvero!
Malefica prostituta, sarai dannata per l’eternità!
E mi aggredisce.
Un cuore ce l’ho anch’io, anche se è di latex. Me l’ha spezzato, questo giovane che
sembrava carino e di buoni sentimenti. Ma non solo il cuore, mi ha spezzato. Io
continuavo a sorridere, ingenua fatina che tutto dà e niente pretende… e lui mi si è
buttato addosso e ha cominciato a strapparmi via un braccio, un piede, la testa… e mi ha
ridotta così come mi vedete adesso.
Ero una bambola, ora sono solo una vagina senza nemmeno il suo completamento
posteriore. L’ano lasciamelo, avrei voluto gridare, che cosa te ne fai dell’ano, tu, uomo
di fede estrema?