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numero speciale per Pronema srl zanzare il bimestrale culturale dei menestrelli di jorvik Arabica Fenice è strutturata intorno ad un tema e si articola in 13 sezioni: il Bicchiere d’Acqua è la citazione che determina il tema, e può essere di ispirazione letteraria, artistica, cinematografica, musicale. Il Piattino è un saggio, che spiega i presupposti su cui si fonda la trattazione del tema. La Tazzina è l’editoriale, con cui la Redazione presenta il proprio punto di vista. Il Chicco di Caffè è un testo in cui l’espressione letteraria si concentra in poesie, aforismi, brevi prose. La Polvere è un testo evocativo del passato. L’Aroma è il brano più poetico ed evanescente. Il Caffè è il racconto principale, che guida e determina tutti gli altri. La Correzione è un testo spiritoso e ironico. Il Latte non ha un taglio: è il testo scritto da un ospite. Il Cioccolatino approfondisce l’interpretazione del Caffè. Lo Zucchero è una vignetta. Il Cucchiaino è il rovesciamento del Caffè: lo rimescola trattando un punto di vista opposto. I Fondi di Caffè guardano al futuro. Foto di Diwellington Tiziani Zanzare Il bicchier d’acqua. Prepara il palato al gusto del caffè. “Animato rumor, tromba vagante, che solo per ferir talor ti posi, turbamento de l’ombre e de’ riposi, fremito alato e mormorio volante; per ciel notturno animaletto errante, pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi, invan ti sforzi tu ch’io non riposi: basta a non riposar l’esser amante. Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza vattene; e incontro a lei quanto più sai desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza. D’aver punta vantar sì ti potrai colei ch’Amor con sua dorata frezza pungere ed impiagar non poté mai.” Gian Francesco Maia Materdona (Ad una zanzara) Il piattino | A supporto e sostegno di tutto il resto. Il ronzio che risveglia di Andrea Collivignarelli 02 | Potrebbe sembrarvi un argomento sgradevole, soprattutto poi se trattato in questo periodo dell’anno. Forse proprio ora vi è tornata in mente l’ultima puntura, che vi aveva dato un po’ di tregua nelle ultime ore, e magari vi ricordate anche della grigliata serale dell’altro giorno: un’ottima occasione per offrire al popolo degli insetti una cena da Lucullo. Con l’ospite privilegiato delle notti d’estate: la zanzara. I. Noi definiamo zanzare un gruppo di insetti che la nostra mania ordinatrice e classificatoria distingue in famiglie, sottofamiglie, tribù, specie, sottospecie, areali, basandosi su una varietà di caratteristiche fisiche ed etologiche. Invece, nella semplice, ma efficace visione dell’uomo qualunque, le zanzare possono essere descritte con pochi dettagli. Volano. Depongono le uova in acqua. Si svegliano preferibilmente di sera, escluse quelle tigre, pungono e succhiano il sangue. Veicolano malattie. Sono inutili. II. Le zanzare sono state inevitabilmente vicine all’uomo nel corso della storia. Primo per il nutrimento: quella umana è sempre stata una specie diffusa, resistente, e numerosa. Ottima cacciagione. Secondo l’uomo, come la zanzara ama insediarsi presso fiumi, laghi, pozze e corsi d’acqua. Ed anche, a volte, i terreni paludosi, dove il pericolo della malaria s’annida nei fanghi e nelle uova pronte a schiudersi. L’uomo e la zanzara, quindi, hanno curiosamente condiviso le stesse case. Così, questa convivenza millenaria è stata edificata sulla lotta: su punture, sangue e cadaveri, nostri e loro. Ma, se da una parte questi insetti sono rimasti tali, noi abbiamo creato difese ed armi efficienti e mortali. Abbiamo bonificato le paludi, inventato zanzariere, zampironi, pesticidi, attuato lotte chimiche e biologiche. Spingendoci, con questi ultimi metodi, laddove il progresso impatta pesantemente contro la natura. III. Uomini e zanzare: diversi, apparentemente inconciliabili, ma sorprendentemente accostati nella storia come in una metafora barocca. Per questo abbiamo affidato proprio ad un poeta del Seicento, Giovan Francesco Maia Materdona, il compito di aprire questo numero. Il suo insetto, mai citato per nome, è crudele, e si ostina a tormentare il poeta, già insonne per le sofferenze d’amore. La zanzara meglio farebbe a rivolgere le sue attenzioni alla donna insensibile, che non soffre per amore e dorme serenamente. Ma c’è un testo ancor più curioso nella storia letteraria: il poemetto Culex nell’Appendix Vergiliana. Si tratta di un epillio, un breve poema epico, attribuito da sempre a Virgilio, anche se sono poche le possibilità che sia stato realmente lui l’autore. Qui la zanzara, seccatrice, risveglia un pastore dal sonno. L’uomo, istintivamente, uccide l’insetto, e solo in un secondo momento si accorge di un serpente che stava per morderlo col suo veleno. La zanzara diventa quindi una figura eroica, che appare poi al pastore dall’aldilà per rivendicare la sua azione salvatrice e per porgere all’umano ingrato le proprie riflessioni sulla vita e sulla morte. Una sola la sua colpa: quella di aver voluto risvegliare la mente. Molto più recentemente, precisamente nel 1945, gli studenti del Liceo Parini di Milano produssero un giornale e lo intitolarono La zanzara. Fece molto scalpore l’uscita del 14 febbraio 1966: si parlava di educazione sessuale, di ruolo delle donne nella società; e diversi erano i pareri delle ragazze stesse, anche minorenni. In un ambiente dominato ancora dalla DC e dalla morale cattolica, queste voci erano ronzii, disturbavano e pungevano. I ragazzi si ritrovarono in tribunale, la loro vicenda ebbe rilievo nazionale e fu una puntura che anticipava lo sciame del ‘68. IV. La zanzara ha vestito le forme che le abbiamo disegnato: una disturbatrice fastidiosa, che ci tormenta e ci punge, ma che, magari, similmente a quanto accaduto nell’Appendix Vergiliana o al Liceo Parini, ci risveglia con una rossa puntura dal torpore dell’animo. Proprio come una rinvigorente, bollente tazza di caffè. La tazzina | Il contenitore che unisce e raccoglie. Arabico Pronema Atelier di Menestrelli di Jorvik 04 | Facciamo chiarezza. Perché questo numero di Arabica Fenice è così diverso? Perché, sebbene vi siano somiglianze con le altre uscite della nostra piccola rivista, questa sembra scostarsi un poco dalla norma? Perché è un Numero Speciale, nato da un’idea e dalla volontà di una persona speciale. Fulvio Julita - esperto in comunicazione visiva, conoscitore di quello strano mondo che è il marketing ma, soprattutto, amico, - avendo visto tra le pagine di Arabica Fenice qualcosa di bello, ha pensato di dedicarne un numero a Pronema S.r.l. e, così, dopo aver coinvolto i Menestrelli di Jorvik, ha curato ognuna delle pagine che leggerete. «Ma... chi è Pronema?», vi starete chiedendo. Beh... è presto detto. È un’Azienda che produce una cosa importante quanto effimera: la protezione. E la forma che ha voluto dare alla protezione è quella intrecciata delle zanzariere (per difenderci da insetti, allergie, prurito, e tosse), ma anche quella serica e voluttuosa di tende eleganti e preziose (che, però, nascono sotto il nome di Doro, e percorrono altre strade, portatrici di altre storie delle quali - chissà - magari un giorno vi diremo...). Ecco spiegato, assai in breve, il perché di questo Numero Speciale che unisce, allo spirito di Arabica Fenice e dei suoi caffè narrativi, il ronzio delle zanzare, le trame (delle zanzariere), e la fantasia di un amico che lavora in un “Atelier di comunicazione visiva”. La firma dei testi che leggerete, come sempre, è quella dei Menestrelli di Jorvik. E speriamo che - almeno per un po’ - tutte queste favole di ali, zampette e pungiglioni possano ronzarvi nella testa. Il chicco | Concentra la nostra essenza. La zanzariera di Maura Rodi | Foto di Diwellington Tiziani Zecche, pidocchi, pulci, e parassiti A te s’inchinan come a lor sovrana: Nei tuoi ronzii tediosi e fra i pruriti Zampilla il sangue della razza umana. A difenderci dall’orrida puntura Risultan vani spray e zampirone. In questa guerra in mezzo alla calura Efficace è una sola protezione: Riposar puoi senza temer puntura Avendo sottil rete in sul verone. La polvere | Dove cercare i granelli del passato Il bisogno del sangue di Federico Di Leva | Foto di Marta Rizzato Era una scultura sinuosa, sfumata di penombra. Dormiva, sotto coperte soffici, eppure segnate da ombre nere, marcate, che parevano lame di buio nel marmo del cotone. Respirava piano, ed aveva pelle tiepida ed invitante. L’avvicinai, lentamente, cercando vanamente di trattenere il mio ronzante entusiasmo di zanzara affamata del suo sangue. Osai troppo. Passai troppo vicino all’orecchio di lei, pur di odorarle il collo, ed i capelli che scendevano su spalle nude. Mosse una mano nell’aria, e cambiò posizione, in una sonnolenta reazione di difesa. Per poco non mi colpì. Ed io ripiegai, per studiare un nuovo attacco. Fu posandomi per brevi istanti che io firmai la mia condanna, per un’eternità che sarebbe durata solo pochi giorni. Mi posai accanto a lei, sul comodino. Su di una tazzina di porcellana fredda. Su una tazzina che aveva bordi cosparsi di zucchero e caffè. Rimasi appiccicata lì, a morire. Fino al mattino. Fino alla fine. Stregata dal gusto di ciò che, per sempre, ebbe la forza di cancellare, in me, il bisogno del sangue. L’aroma | Il profumo che evoca senza mostrare. Cento ciliegie di Cecilia Forcherio | Foto di Marta Rizzato 08 | Arrivava l’estate. La si sentiva a pelle, nell’aria tiepida ed elettrizzante che ci spingeva a rimanere fino a tardi a giocare nei campi. Il sole sembrava aver perso il sonno e ridestava anche noi col solletico dei raggi sulle spalle bianche. La notte vestiva di panni cangianti le colline, e portava con sé rumori nuovi, dai quali ci lasciavamo spaventare ed eccitare. Il fiumiciattolo davanti a casa di Carlo ospitava rane di cui eravamo navigati cacciatori: il loro gracidare, sul sottofondo dell’acqua scrosciante, era la ninnananna che ancora oggi, ogni tanto, mi sorprendo a canticchiare. Una sera un profumo dolciastro si diffuse nell’aria. «Sono ciliegie» spiegò con aria da intenditore Carlo, nominato nostro esperto in materia da quando la maestra gli aveva dato dieci nella ricerca sugli alberi da frutto. Decidemmo così di organizzare una spedizione: avremmo saccheggiato l’albero del vicino di Pietro, che abitava vicino al vecchio pozzo. L’idea era perfino più emozionante della caccia alle rane. Ci faceva sentire grandi, coraggiosi, e nella schiena scorreva già un brivido nuovo: se le mamme lo avessero saputo, avrebbero certo ricompensato il nostro eroico atto con una pioggia di scapaccioni! Il pomeriggio seguente arrivammo agitati al luogo d’incontro. Non sapevamo esattamente in che cosa consistesse l’attrezzatura di un vero ladro di ciliegie, così ognuno aveva recuperato qualcosa che a suo parere sarebbe potuto tornare utile: due sacchetti di plastica, di cui uno bucato, un paio di guanti da giardino giganti, una cesoia con le lame consunte, uno spago, ed un paio di forbici. Carlo era in ritardo. Lo vedemmo giungere da lontano, trafelato: non era solo. Man mano che si avvicinava, la figura alla sua destra acquistava contorni più definiti. | 09 10 | Non ci volevamo credere. «Una femmina!» gridò Giuse indignato. «È mia cugina Maria.» si giustificò Carlo. «Mia madre non voleva che la lasciassi sola!». Ormai non c’era modo di salvare la situazione. Sbuffando, ci decidemmo a partire, con al seguito la nuova arrivata. La spedizione fu ovviamente un fallimento. Tornando verso casa, il silenzio calò sulla truppa. «Ma siete pieni di punture di zanzara!» squittì ad un tratto Maria. Ci guardammo a vicenda: punti rossi e gonfi - che ancora non prudevano ma che, lo sapevamo per esperienza, presto sarebbero diventati insopportabili - costellavano i nostri arti. «Sembrano proprio le vostre tanto amate ciliegie!» ci prese in giro lei, ispezionando il proprio avambraccio. «Facciamo a gara a chi ne ha di più!». Sembrava un’idea quantomeno idiota, ma in fondo non avevamo nulla di meglio da fare prima di cena. I risultati furono sorprendenti: Carlo 36, Giuse 41, io 38, Pietro 29... E Maria, quell’affarino irritante dai capelli biondi come l’oro, addirittura 46! «Ho vinto! Ho raccolto da sola più ciliegie di tutti!». Quel giorno imparammo molte cose. L’umiliazione della sconfitta ci costrinse a ridimensionare i nostri orizzonti e prendere in considerazione anche l’emisfero femminile della Terra. Ed in fondo, non ci dispiacque poi tanto. Capimmo che nella vita le sorprese giungono a sconvolgere anche gli eroi, anche nei momenti meno opportuni, ed hanno voci stridule ed occhi azzurro mare; esse sanno essere fastidiose, come punture di zanzara, ma anche inspiegabilmente adorabili, come le ciliegie che quel giorno, in fondo, ci eravamo guadagnati. Oggi, quando sento arrivare l’estate, prima di accendere zampironi e tendere zanzariere, mi assicuro che almeno una piccola puntura colori già il mio polso, o una caviglia, o un polpaccio. Chiamatemi pure sciocco, ma fino ad ora le zanzare mi hanno portato fortuna; anche se Maria a volte si lamenta perché mi comporto ancora come un bambino, in tutti questi anni non ha mai smesso di amarmi. Ed io so che mai potrò smettere di amare lei. Il caffè | L’anima dell’Arabica Fenice. Piergiorgio Fossi di Andrea Collivignarelli | Foto di Ardesia e di Marta Rizzato La vita di Piergiorgio era delle più normali, ma non delle più felici. Chissà, in altri tempi sarebbe potuto diventare famoso, importante, uno come Alessandro Magno. Immaginiamolo: lui, Piergiorgio, condottiero di soldati greci che fieramente avanzano, pronti alla battaglia, sugli altipiani della Persia. Piergiorgio Fossi, però, non viveva in Macedonia. Passava la sua esistenza, tranquillamente, come impiegato all’archivio comunale. Non che non cercasse altro; ma i suoi fallimenti non erano da imputare al coraggio, all’intraprendenza o all’intelligenza: la colpa era, probabilmente, del suo odore. Doveva essere un esemplare di uomo da studiare. Il suo sudore, a quanto pare, non attirava solo insetti, acari e il Servizio d’Igiene Pubblica, ma ogni genere immaginabile di situazioni. Per comprendere meglio la sua triste storia, eccovi un aneddoto. Questo accadde in un giorno come sempre. La mattina, mentre si recava al lavoro, Piergiorgio sul tram vide una donna. E la riconobbe: ai tempi dell’università si erano frequentati per qualche mese. Fu una gioia per entrambi ritrovarsi e, dopo che lei scese alla sua fermata, il pragmatico Piergiorgio, mollemente poggiato al corrimano, capì d’essersi innamorato. E fu terribile lavorare. Mentre sistemava registri anteguerra, recuperava Regi Decreti, appendeva ad asciugare fogli degli anni 70 bagnati dall’alluvione, nella sua mente si dipanava il piano. Uscito dal lavoro, sarebbe andato da lei e le avrebbe chiesto di uscire a cena. Nulla di più semplice, nulla di meno diretto. Timbrò il biglietto e varcò la porta del Comune. «Fossi!» fece una voce proveniente dall’interno. Piergiorgio si voltò. Il sindaco. «Oh, sindaco! Buongiorno!» mormorò Piergiorgio, indietreggiando e smorzando il sorriso. Erano le 13.02, così diceva il suo orologio a cipolla; lei sarebbe uscita dal lavoro alle 14.30. «Senta, Fossi...» e il sindaco iniziò a parlare. Alternava 12 | sguardi da tigre a proposte da codice penale; era periodo di elezioni e Piergiorgio doveva far sparire una certa delibera dalla storia del Comune. « ... e il bene pubblico e le voci malevole.» «Sarà fatto, sindaco; ora, mi perdoni... a domani, suo servo umilissimo.» e Piergiorgio, con un cenno, fuggì. 13.34. A passo affrettato si stava avvicinando alla fermata del tram; sorrise. Fortunatamente, pensava, il mezzo non era ancora giunto, a giudicare dalla gente sotto la pensilina. Sorrise e riprese a pensare a come porre la proposta alla donna. Un uomo si avvicinò a Piergiorgio, reggendo sottobraccio una cartelletta. «Scusi» domandò, con voce incerta, piegato in avanti e con occhi storti al nostro archivista «lei ha qualcosa contro i figli delle vittime di calvizie?» La questione, posta così a bruciapelo, lasciò interdetto Piergiorgio «No... cioè...» «Ecco, allora, una piccola offerta, noi realizziamo questi soprammobili...» e l’uomo estrasse un soprammobile chiaramente acquistato in un discount. Il tram arrivò. «Guardi, mi scusi, devo andare.» proruppe Piergiorgio, allontanandosi. Il tram spalancò le porte, la gente scendeva e saliva. «La calvizie è una malattia terribile!» esclamò l’uomo e acchiappò al braccio l’archivista che piagnucolò. «Mi lasci!» «Lei è senza cuore!» «Il tram!» il tram era ripartito con alcuni scossoni. Piergiorgio si divin- colò e scattò dietro al mezzo. Fortunatamente l’autista, e di norma gli autisti sono sadici, si fermò e Piergiorgio riuscì a salire. Cercò il biglietto, in tasca, e s’accorse dell’assenza del portafoglio. L’uomo con la cartelletta, sul marciapiede, lo salutava ridendo. 13.48. Sui tram è difficile trovare i controllori. Chiaramente, quel giorno, erano di pattuglia. Alle 14.07 scese tre fermate prima, causa deviazione; corse, con la multa nuova di zecca, venendo placcato da un amico d’infanzia. È inutile elencare tutto ciò che avvenne negli altri 23 minuti. Dai testimoni di Geova, al telegiornale, ad uno spacciatore, passando per un fornaio mai pagato, nerboruto ed irascibile, un numero enorme di persone gli ronzavano attorno, attirati, sicuro, dall’odore. Ovviamente, due ore più tardi Piergiorgio Fossi era ancora per la città, abbacchiato e punzecchiato fin sull’orlo di casa con proposte, richieste, questue, che, come ogni sera, chiuse fuori, sbarrando la porta, abbassando le tapparelle. Depresso, come ogni sera, si lasciò andare sul divano e rilasciò un lungo sospiro. Squillò il telefono. La correzione | Aggiunge una goccia di spirito al nostro caffè. Tutto in una goccia di Federico Di Leva | Foto di Marco Fiorina 16 | Il bello di quella casa – dall’aspetto classico e dalle numerose camere – stava nel fatto che, da molte di esse, era possibile uscire all’esterno. Quasi tutte, infatti, affacciavano sul verdissimo parco nel quale si alternavano, con grande equilibrio, il rigoglio di maestosi alberi, e la misurata eleganza di erbette smeraldine. Isacco, che abitava lì da sempre, adorava quel luogo che – nella stagione estiva in particolar modo – diventava contorno ideale per le sue passioni ed i suoi interessi. E così, come era solito fare, Isacco raccolse, dalla scrivania di legno scuro, alcuni tomi con la copertina di pelle, una penna, un calamaio, ed una risma squadernata di fogli scarabocchiati. Avrebbe adoperato – come sempre – la copertina di uno dei libri come sostegno sul quale adagiare i fogli che ancora dovevano essere scritti. Adorava il pensiero che i nuovi libri potessero, in qualche modo, nascere e crescere a partire da quelli già scritti, già letti e, perché no, anche già dimenticati... Isacco percorse alcuni passi nell’erba. Contemplò l’estensione del giardino, sino al punto in cui esso raggiungeva il suo limite estremo: un muricciolo di mattoni posati a secco. Amava considerare quel luogo come un sistema chiuso, poiché là poteva trovare posto alle sue congetture e alle sue meditazioni, senza che alcun fattore esterno potesse raggiungerle e turbarle, rovinarle, distruggerle... Poi, poiché vi era ancora un po’ di Sole, Isacco andò a sedere all’ombra di un albero, e lì aperse i suoi libri ed i suoi appunti. Lesse di filosofia e di religione, e di quelli che – con formule e teoremi – pretendevano di rendere ragione del mondo e del suo funzionamento. Poi dormì un poco. E dopo ancora, una volta risvegliatosi, annotò, sui fogli che aveva con sé, alcuni pensieri su Dio e sull’Esistenza... In fondo, poche cose sanno concedere all’uomo il coraggio di fermare il proprio esistere, per gettarlo nell’im- mobile e movimentato gorgo delle elucubrazioni teologiche. E sostare in un giardino, ai piedi di un albero, era sicuramente una di quelle attitudini mistiche per eccellenza. O, almeno, lo era per Isacco... che s’accorse che era giunto l’imbrunire soltanto perché, d’un tratto, i suoi occhi avevano cominciato a faticare di più nel decifrare le lettere – stampate o manoscritte – che si susseguivano sul biancore uniforme degli universi di carta che aveva in grembo. Un altro ciclo si era chiuso, ed il Sole calava ad Occidente, mentre la Terra ruotava su se stessa lungo armonie di costruzioni gravitazionali antiche quanto inesorabili. D’un tratto, poi, Isacco avvertì un dolore al braccio. Fu come una puntura fugace ed intensa. Abbassò lo sguardo. Una zanzara ronzava via, beffarda, con il suo bottino d’una goccia di sangue soltanto. «È ora di rientrare...», mormorò. S’alzò a fatica, intorpidito dall’immobilità prolungata. Si sgranchì, e se ne andò via. Alle sue spalle, dall’albero, una mela cadde al suolo, in un tonfo ovattato. E per colpa di una zanzara, la storia dell’Umanità cambiò rotta, per sempre... | 17 Il latte | Macchia il nostro caffè di un colore diverso. Più latte meno zanzare di Annaviola Picherio | Foto di Diwellington Tiziani Mia dilettissima, ti scrivo con il cuore ricolmo della prima immagine di te, quando ti ho vista, bella come non mai, in quella afosa serata di luglio, se possibile, ancor più calda del solito. La luce della luna ti accarezzava, le tue maglie argentate ammiccavano gioconde alle stelle. L’ondeggiare sinuoso suggerito dal vento mi ipnotizzava, guidava i miei movimenti in una danza studiata unicamente per attirare la tua attenzione. Era luglio, è vero. Ma il freddo granitico della tua indifferenza dissipava in me ogni tepore, mi lasciava svuotato di ogni speranza, cieco viandante del nulla, ebbro e malandato mendicante d’amore. Errando, nel vano tentativo di placare la mia sete, mi pareva di sentirti nel fruscio del fogliame; vedevo le tue care maglie nell’intreccio dei rami. Hai preso dimora nei miei sogni notturni: ti vedo danzare, agitata dalle spinte impetuose del vento, come in preda a chissà quale affanno. Sei linfa dei miei sogni diurni: chi altri all’alba si è potuto vantare di aver scorto tese corde d’arpa nella tua vaga, muta fissità, come di aver ornato il silenzio delle più dolci melodie al solo contemplarti? Stolti gli uomini, stolti tutti! Stolto io che li cercavo, stolto il mio bisogno di saziare una sete del tutto fisica, del tutto priva di poesia... L’appagamento dei sensi sembrava bastare, allora: la libertà e un ventre pieno costituivano il mio orizzonte ultimo, la superficie della gora oltre la quale non si può andare senza essere sopraffatti dall’incompatibilità di un elemento estraneo. La vita che scorreva tra il frullare delle mie ali e quello dei miei pensieri, non mi aveva dato alcun indizio su quanto in alto si potesse arrivare a volare, e senza staccare le zampe da terra... Poi è successo. Il genere umano è un amante capriccioso: ad un certo punto il suo odio sordo – che rendeva la mia caccia ancora più allettante, quando l’attrattiva di un assaggio fugace si scontrava con il rischio di abbandonare per sempre questo mondo - quell’odio che sino ad allora aveva resistito come astratta e ancestrale barriera, ha preso forma. I suoi fili penetranti si sono uniti per dividere, l’oscura tenebra della ragione si è fatta trasparente per svelare agli occhi senza smettere di celare ai cuori. E sei nata tu. Il genere umano ti ha voluta così, gelida barriera e muto confine. L’uomo mi ha voluto così, sordido predatore e illegittima creatura. Ma la natura ha ben di che beffarsi del volere degli uomini... Ciò che avrebbe dovuto suscitarmi repulsione e mancanza ha fatto nascere devozione, e i miei occhi ti hanno svestita del ruolo di feroce aguzzino per darti quello di tenera amante. Volevo sfiorarti, sentire il ruvido e distinto sussurro delle mie ali contro quella che già si preannunciava mia prigione e, allo stesso tempo, unica e tragica via di scampo. E tu? Perché mai un cenno, perché mai una parola, mia adorata? Donde tutta questa implacabile indifferenza? A grandi falcate percorrevo i sentieri della fantasia, foreste di fitte parole e cascate di arie notturne, per rendermi poi conto che, forse, solo il silenzio poteva arrivare a mostrare l’intrinseca natura di un sentimento così puro, così straniero e familiare, così incorruttibile... Ma quell’eterea perfezione non era di questo mondo, del mio mondo! M’illusi di poter vestire i panni del tuo fanatico fedele, del tuo devoto sacerdote e invece sono qui a compiangerti da fallito cantore. Sei scomparsa in una tiepida mattina di settembre: quei timidi raggi di sole non avrebbero più trovato riposo sui tuoi argentei crini, l’implacabile brezza non ti avrebbe più dolcemente viziata. Nulla mi rimaneva di te, se non la vaghezza di un ricordo impreciso, l’amarezza di sogni ancora addormentati e il conforto che almeno il mio nome facesse parte di te. 20 | | 21 Il cioccolatino | Esalta e rafforza il sapore del caffè. L’entomologo di Cecilia Forcherio 22 | Leonardo Ducchi era entomologo di fama mondiale. Laureato con il massimo dei voti in una prestigiosa università americana, autore di diversi articoli molto noti, aveva conseguito svariati riconoscimenti per l’encomiabile lavoro svolto durante la propria carriera. Settant’anni ben portati, andatura elegante ed aspetto distinto: l’uomo rispondeva perfettamente all’ideale dello studioso di successo che, dopo aver immolato gli anni migliori della propria vita sull’altare della scienza, si accingeva infine a godere il meritato riposo nella villa di campagna tanto amata dalla moglie. O almeno, questo era ciò di cui tutti, moglie compresa, erano convinti. C’era infatti un segreto, una piccola ed insignificante stonatura a guastare l’armonia della quale lo scienziato pareva essere effige vivente. Non l’aveva mai confidato a nessuno. Lui, Leonardo Ducchi, aveva paura delle zanzare. Era un terrore profondo, radicato nell’essere ed inscindibile da esso. Era ribrezzo, antipatia, rifiuto. Era fobia pura. Ducchi si era reso conto di questo problema già ben prima di confrontarvisi sui libri di scuola: da bambino aveva trascorso interminabili serate barricato in casa, e notti insonni con le orecchie tese ed il cuoricino a mille. Il restante mondo degli insetti lo aveva invece da sempre affascinato: crescendo, Leonardo aveva quindi dato seguito a quella passione, nutrendo la speranza che prima o poi il suo problema si sarebbe risolto. Purtroppo però, nonostante avesse provato qualunque rimedio esistente, la Culicida, dell’ordine dei Ditteri, il gruppo più numeroso della superfamiglia dei Culicoidea, era rimasta, negli anni, il suo incubo peggiore. Durante la carriera aveva cercato di evitare il contatto con quel fastidioso insetto, delegando ogni possibile occasione di vicinanza ad esso. Non sopportava la sciocca gerarchia secondo la quale il maschio, più grosso, non aveva facoltà di difendersi e pungere a sua volta gli altri esseri viventi; non tollerava la subdola astuzia, tipica del sesso femminile, con la quale quelle maledette ronzavano, inosservate, fino a posarsi sulla carne di un malcapitato, indisturbate la anestetizzavano e rubavano l’indispensabile nettare della vita. Ed ora, a settantatré anni, Ducchi si ritrovava a provare terrore all’idea di trascorrere un’estate in campagna, in mezzo a campi irrigati da acque stagnanti e stalle brulicanti di ronzii molesti. Arrivò la data ufficiale del “congedo”: venne organizzata una grande festa in onore del professore, alla quale parteciparono tutti i più importanti scienziati d’Europa. Per il brindisi ufficiale, con tanto di discorso e ringraziamenti in pompa magna, era stato allestito un palchetto esterno. Il professore era molto agitato: stava per prendere ufficialmente commiato da quel mondo che gli era appartenuto per tanto tempo, e non poteva permettersi alcun tipo di gaffe. «Ed ora, se il nostro caro professor Ducchi volesse farci l’onore di accomodarsi sul palco e brindare con noi alla sua salute...». Era giunto il momento. Con passo deciso, si accinse a raggiungere la postazione. All’improvviso, però, una voce lo bloccò: «Oh, professore, una zanzara!», e subito - sciaffff - , la mano di una delle tante comari presenti calò, forse con eccessivo zelo, sulla sua spalla sinistra. Fu un flash: Leonardo tornò d’improvviso ad avere quattro anni. Era la festa di compleanno della cugina, e tutti i bambini sedevano attorno ad un tavolo, in giardino, in attesa della torta. «Leo, attento, una zanzara!» aveva improvvisamente esclamato sua madre, che lo teneva in braccio, assestandogli un sonoro ceffone sulla guancia. I fiumi di lacrime versati quel pomeriggio ritornavano ora, come un ricordo ben definito, ad inumidire gli occhi del professore: lacrime di rabbia, frustrazione, per uno schiaffo non meritato, per un’ingiustizia che ancora bruciava, per un terrore che troppo a lungo era rimasto assopito tra le pieghe del ricordo. I presenti scambiarono quelle lacrime per commozione: subito forte scrosciò l’applauso per lo studioso che tanto aveva contribuito al conseguimento del sapere, ed, in realtà, per l’entomologo che aveva finalmente superato la paura delle zanzare. | 23 Lo zucchero | Attenua l’amaro e addolcisce il caffè. di Federica Miglio Il cucchiaino | Rimescola e ribalta il punto di vista. Zanzibar di Bruna De Battisti | Foto di Marta Rizzato Nel bar più famoso del centro il brusio era continuo ed intenso, come sempre. Del resto brulicava di giovani menti in fermento. Le ultime novità inquietanti, poi, che gli adulti volevano nascondere, ma che ormai erano di dominio pubblico, aumentavano l’agitazione. Nessuno di loro aveva vissuto né il dramma delle grandi opere di bonifica del 1933, né quello della guerra chimica operata ai danni della loro razza. Le loro famiglie si erano spostate costantemente, trovando nuove soluzioni per garantire l’incolumità delle future generazioni che, sopravvissute ai continui attacchi, avevano trovato pace abitando questa zona tranquilla. Qualcuno dei giovani però si avventurava nella zona di pericolo senza che ce ne fosse vera necessità, violando le regole. Avevano bisogno di sapere, purtroppo non sempre tutti tornavano. Xintia e Zara erano due splendide rappresentanti del sesso femminile di questa colonia, giovani e ribelli. «I vecchi non si rendono conto» sbottò Xintia, giocando distrattamente con l’acqua che aveva davanti a se, «Credono che sia finita, che essere sopravvissuti alla guerra chimica sia un segnale di pace, sono ciechi, non vogliono vedere e ci mandano allo sbaraglio» . Zara era strana, quella sera. Si preoccupava come sempre per il loro debutto in società, ma c’era qualcosa di più. Le due giovani stavano a debita distanza dai maschi presenti, che osservavano con profondo disappunto, mentre poco più in là schiamazzavano lanciandosi all’inseguimento di femmine più mature che emanavano tutta la loro disponibilità. Poi Zara continuò: «Io non voglio andarci al ballo, con tutti quei maschi inebetiti dalla nostra presenza. Ci costringono ad accoppiarci per il bene della nostra razza, già. Ma siamo nel XXI secolo, io voglio essere indipendente, vivere come meglio credo e non per forza avere come unica ragione di vita la procreazione. Dicono che quando sei stata con uno di loro poi, non sei | 25 26 | più la stessa, non ragioni più. L’unico pensiero che hai in mente è quello di nutrire i tuoi piccoli. Finisci con l’andarci di tua spontanea volontà là fuori». Xintia e Zara avevano uno spirito ribelle e non volevano piegarsi alle tradizioni della loro specie che permettevano a loro, in quanto femmine, di interpretare un unico ruolo: quello di genitrici. «Si, e poi non è come dicono i vecchi un volo spensierato di ragazze, no davvero». Zara sapeva esattamente di che cosa stava parlando ed era giunto il momento di rivelare il motivo della sua malcelata tensione: «Io ci sono stata, l’altra sera» disse tutto d’un fiato sorprendendo Xintia che, dopo un primo momento di silente incredulità, urlò: «Cosa? Ma sei pazza? Avevamo fatto un patto noi due: ci saremmo tenute lontane da certi ambienti oppure li avremmo esplorati assieme!». Zara era in evidente imbarazzo: gli altri le stavano guardando, Xintia, davvero infuriata, non si curava certo dell’opinione altrui, poi la curiosità di sapere che cosa ci fosse veramente là fuori fu più forte della rabbia, così cercò di calmarsi e chiese con tono di sfida: «Va bene, allora racconta, cos’hai visto? E’ così pericoloso?» Zara nel rivivere quell’esperienza rabbrividì: «Non ti puoi nemmeno immaginare l’umiliazione, Xintia, ci guardano con disprezzo, diffidenza, sono pronti ad usare violenza contro di noi, non curanti del fatto che siamo donne ed indifese. Hanno inventato di tutto per eliminarci.» Gli occhi di Zara si erano fatti tristi mentre proseguiva con il racconto, la voce si era fatta un filo: « Ci sono zone in cui senti un profumo delizioso, inebriante, ne sei attratta, ma, mentre ti avvicini, improvvisamente ti senti soffocare. È un miracolo se riesci a scappare via». Xintia ascoltava incredula, con lo sguardo perso. Sentiva la rabbia crescerle dentro, poi disse: «Continua Zara, voglio tutta la verità». «Sei sicura? Non sarà piacevole». Zara sospirò prima di proseguire: «Appena mi ripresi dal soffocamento, ero decisa a tornarmene a casa, mi sentivo in pericolo, ma fui colpita da una stupenda luce blu che mi attirò, ero come ipnotizzata. Mi muovevo felice nell’aria verso la luce, poi...» «Poi cosa? Dai, Zara, non tenermi sulle spine!» - «Poi, hai presente Suzi la vanitosa?» - «Certo. Simpatica, quella!». «Beh ora non lo è più. Mi è passata davanti con un ghigno di superiorità, voleva arrivare per prima alla luce: carbonizzata. Non c’è stato nulla da fare. La sua vanità mi ha salvato la vita.» «Ma questa è pulizia etnica» disse Xintia con voce spezzata. “Esatto, e il peggio deve ancora venire. Ci sono luoghi in cui senti quello stupendo odore di umano di cui tanto si sente parlare, nessun profumo killer ad intossicarti, nessuna luce assassina, ti credi al sicuro, vedi la tua meta, sei vicinissima, ma... più ti avvicini più ti si offusca la vista, non puoi raggiungere il tuo ospite, provi e riprovi, ma niente... alla fine sei esausta, non potrai nutrire i tuoi piccoli, e non avrai forse nemmeno la forza di tornare a casa. E’ un congegno diabolico, gli umani “lo chiamano zanzariera”. Zara e Xintia restarono in silenzio, le loro giovani menti in ribellione cercavano soluzioni, ma sapevano entrambe che non si sarebbero potute sottrarre al proprio destino, che presto avrebbero dovuto abbandonare le spensierate serate al bar. Sarebbero diventate impavide guerriere, zanzare adulte, che, per ottenere il proprio pasto di sangue da offrire alla progenie, lottano sino all’ultimo, sperando invano di trovare uno spiraglio tra le fitte maglie del diabolico congegno. I fondi di caffè | Dove cercare i segni del futuro. Risaie d’estate di Irene Piana 28 | Sono nata in una zona dove ti accorgi che l’estate sta arrivando non appena le risaie vengono riempite dall’acqua dei canali. E per diciannove anni l’allagamento dei campi di riso ha significato per me due cose: l’arrivo delle vacanze e l’imminente ondata di zanzare. Nessuno ama le zanzare, intendiamoci, ma, se sei nata in queste zone di campi allagati, il binomio puntureserate di luglio con gli amici è qualcosa di immancabile, un po’ come lo spray alla citronella infilato nella borsa prima di uscire. Io non le ho mai sopportate, le zanzare. Probabilmente dipende dal mio carattere nervoso, dal sonno leggero, dalla pelle delicata. Non saprei dire. Sta di fatto che, ai primi accenni di caldo, a casa mia scatta la strategia preventiva: attenzione maniacale all’acqua stagnante nei sottovasi dei fiori (rigorosamente quei gerani che profumano di limone e allontanano gli insetti), zampironi pestilenziali quando si sta sul balcone e zanzariere non solo ad ogni singola finestra, ma persino sul mio letto, a mo’ di scudo protettivo. Quest’anno però le cose sono un po’ diverse. Per motivi di studio ora vivo per buona parte della settimana in una grande città abbastanza lontana e, sì, ho visto comunque le risaie riempirsi, ma dal finestrino del treno. Quando sono in quella città, la sera, anche se è già giugno, tengo le porte e le finestre aperte senza preoccuparmi di tirare le tende, perché lì praticamente non ci sono zanzare. E sembrerà quasi ridicolo sentirlo dire, soprattutto da una che solo poche righe fa ha dichiarato la sua antipatia dei confronti di quei piccoli insettini fastidiosi, ma quasi ne sento la mancanza. Così, quando finalmente la domenica sera mi siedo al tavolino esterno di uno dei tanti locali che frequento da anni, guardo i miei amici sventolare le mani davanti al viso e grattare le punture rosse. E sorrido. Perché in fondo per me questi gesti hanno il sapore di casa. 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A loro va il nostro più sincero ringraziamento... Questo numero speciale di Arabica Fenice è stato pensato per... Pronema è la divisione zanzariere e tende tecniche di Pronema s.r.l. per informazioni: www.pronema.it «Arabica Fenice» Anno 1 - Registrazione Tribunale di Verbania n. 7 del 02/12/2009. Direttore Responsabile: Giovanni Lucini. Proprietario editore della testata: Federico Di Leva, via IV novembre 5, 28041 Arona (NO). Stampa Andersen S.p.A. Printed in Italy. © i testi e le foto sono di proprietà dei rispettivi autori e non possono essere adoperati senza il loro esplicito consenso. in collaborazione con per