Intorno ai precetti riduzionistici della poetica artistica
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Intorno ai precetti riduzionistici della poetica artistica
Intorno ai precetti riduzionistici della poetica artistica di François Morellet di Alessandro Gallicchio La prima regola che mi sono dato, ho iniziato a cercarla agli inizi degli anni Cinquanta, più precisamente nel 1952-53, quando ho deciso di oppormi all’operare dell’École de Paris. Non ero il solo ma eravamo in minoranza, volevamo fare delle opere prendendo il meno possibile di decisioni soggettive, rispondendo alla definizione di arte concreta che aveva dato van Doesburg nel 1930. L’opera deve essere concepita prima di essere realizzata e realizzata in una maniera precisa e neutra.1 È a partire dalla dottrina concretista di van Doesburg che François Morellet elabora il proprio linguaggio artistico, incentrato sui principi di sistematicità, processualità e neutralità. Negli anni Cinquanta l’artista si oppone alla cosiddetta École de Paris per rinnovare le strutture dello spazio pittorico attraverso l’utilizzo di sistemi matematici e composizioni geometriche, costituendo una rottura con quell’“arte del dipingere” che dominava ancora la scena artistica parigina.2 Alla base del nuovo corso della pittura vi era dunque l’intento di eliminare ogni traccia soggettiva o emozionale dell’artista per produrre un’opera autonoma, precisa e soprattutto neutra. Nel 1965 Morellet, sentendo l’esigenza di raccogliere le riflessioni che da circa un decennio lo ossessionavano riguardo al numero di scelte che era costretto a decretare per la realizzazione di un dipinto, aveva pubblicato Le choix dans l’art actuel, un saggio unicamente dedicato a tale problematica. L’artista costatava che così come, con l’invenzione della fotografia, alcuni pittori erano stati costretti a orientarsi verso la rappresentazione astratta del mondo fenomenico, all’epoca, con la nascita della progettazione industriale, molti artisti si rifiutavano di “fabbricare” delle opere per la realizzazione delle quali a ogni istante andava presa una scelta soggettiva, poiché i cervelli elettronici, dotati di un’intelligenza artificiale sviluppata, avrebbero potuto sostituire l’artista in tale procedimento.3 Il desiderio di reagire alla concezione tradizionale dell’artista “ispirato” e del “capolavoro”, in cui ogni dettaglio diveniva manifestazione del genio artistico, aveva portato Morellet a indicare, in modo sistematico (come era ed è tutt’oggi solito fare) una nuova via produttiva per le nascenti tendenze riduzionistiche: ogni lavoro avrebbe dovuto caratterizzarsi per realizzazione impersonale, movimento, serie programmate e gioco. L’artista sosteneva che all’esecuzione dell’opera potevano d’ora in poi concorrere anche i dispositivi meccanici, in quanto la produzione industriale consentiva la realizzazione di elementi eguali che, impiegati a fini artistici, permettevano di ridurre il numero di scelte dell’artista. Quest’ultimo così, se non reputava necessario delegare l’ideazione compositiva del dipinto a un cervello elettronico, si sarebbe potuto limitare unicamente a disporre delle forme seriali nello spazio. Il movimento reale inoltre avrebbe potuto sopprimere il carattere immutabile dell’opera, proponendo una serie di situazioni che si sarebbero sviluppate al di là dell’intervento dell’artista, così come l’ideazione di una serie programmata avrebbe mostrato una delle infinite possibilità che il sistema concepito autonomamente poteva proporre. Infine, la partecipazione attiva dello spettatore alla creazione o alla trasformazione dell’opera d’arte attraverso una pratica ludica, avrebbe permesso una relativizzazione della sacralità del capolavoro il quale, manipolato dal fruitore, avrebbe assunto un carattere mutevole.4 L’intento che si prefiggeva tale saggio non era quindi quello di redigere un manifesto del nuovo “pittore programmatico”, ma piuttosto quello di mostrare, attraverso delle possibili applicazioni pratiche, una nuova via creativa consacrata alla demistificazione della figura dell’artista. L’arte di Morellet parte dunque da tali presupposti per riformulare i postulati dell’astrattismo geometrico d’inizio Novecento. Il linguaggio plastico neutro e radicale, che l’artista inizia a utilizzare intorno al 1952, è il risultato di un’applicazione di sistemi formali programmati e aleatori volti alla limitazione dell’intervento soggettivo, sensibile e intuitivo dell’artista – caratteristiche, quest’ultime, che avevano contraddistinto le recenti ricerche espressioniste – per rinnovare l’interesse e, di conseguenza, la partecipazione attiva dello spettatore alla creazione dell’opera.5 Estremizzando tali intenti riduzionistici, nel 1953 Morellet realizza 16 carrées [fig. 1], un dipinto radicale e ambizioso: la superficie bianca viene divisa in sedici sezioni uguali grazie all’incrocio fra tre linee nere verticali e tre linee nere orizzontali. L’opera è stata analizzata dall’artista stesso, il quale ha calcolato il numero di scelte che è stato obbligato a prendere. Analizzando il processo di realizzazione, Morellet spiega che la prima tappa della concezione sta nella scelta del formato; ha scelto il quadrato perché è la figura che si definisce attraverso una sola decisione arbitraria: la lunghezza del lato, che in questo caso specifico è di 80 cm. La seconda scelta verte sugli elementi da raffigurare sulla superficie quadrata: l’artista precisa che ha optato per le linee perché esse, essendo rappresentate su un piano, sono definite esclusivamente dalla loro direzione e dal loro spessore (2 mm). Si passa poi alla scelta della distribuzione delle linee, che in questo caso segue un principio di uniformità, poiché ogni spazio fra di esse è di 20 cm. Ci sono infine da decidere i colori e il materiale: per i primi ha scelto i due estremi (per ciò che riguarda l’assorbimento e la rifrazione della luce solare), ovvero il bianco ed il nero, mentre per il secondo una superficie liscia.6 Ogni decisione ne implica altre, ma l’artista ammette che in totale è stato costretto a prenderne undici per la realizzazione di quest’opera, che rappresenta una svolta importante in una produzione incentrata sull’analisi dei processi creativi.7 Serge Lemoine, nell’unica monografia dedicata all’artista, stigmatizza l’abitudine di Morellet a considerare la superficie dei dipinti “aperta”, dimostrando come le sue costruzioni geometriche si sviluppino secondo uno spirito all over. L’occupazione omogenea dello spazio ad opera di un solo elemento, che nel caso di 16 carrées potrebbe essere la linea, sottolinea l’intento di produrre un lavoro antigerarchico in cui la struttura si espande oltre i limiti dettati dal quadro. 8 L’all over assume qui una valenza più ideologica che decorativa, dimostrando come l’autonomia di ogni struttura, che solo incidentalmente si trova costretta fra i quattro lati del dipinto, porta tutti gli elementi a estendersi infinitamente oltre il quadro. Erich Franz vede nelle qualità all over della produzione morellettiana il rifiuto della focalizzazione ottica e della funzione statica della pittura. Gli elementi identici e ripetitivi, secondo il critico, non si integrano all’interno del formato quadrato del dipinto secondo un piano di costruzione limitata - come avveniva nelle opere di Max Bill o in quelle costruttiviste - ma occupano la superficie in una maniera illimitata, indirizzando l’occhio dello spettatore verso l’esterno.9 Così come più possibilità percettive per una stessa struttura impediscono all’occhio di soffermarsi sul dettaglio e, per ciò che riguarda ad esempio 16 carrées, permettono di vedere o sedici quadrati, o sei linee, o tre orizzontali o tre verticali e così via. Il ruolo dell’artista è quindi ridotto ai minimi termini in quanto, se per ogni opera vi è un sistema geometrico-matematico che si sviluppa autonomamente, l’intervento di quest’ultimo si esaurisce nell’elaborazione di uno stile che lo rappresenti. Infatti, sempre Lemoine si sofferma su alcune costanti stilistiche dell’arte di Morellet, focalizzando l’attenzione su due caratteri principali: la linea e il bianco e nero. Lo stile inconfondibile dell’artista si caratterizza per l’utilizzo incessante di elementi lineari che si avvalgono di materiali differenti in relazione ai contesti di applicazione: si parte dalla linea dipinta, passando per il nastro adesivo, per poi arrivare, nel 1963, al neon e finire con acciaio inox, metallo, ceramica industriale, arbusti vegetali e altro ancora. 10 A tale proposito Morellet ha confessato, in maniera provocatoria, la sua predisposizione a utilizzare materiali economici: J’ai toujours été un grand adepte de “l’économie de moyens”, la plus belle conquête de l’art moderne. J’ai pratiqué cette économie de moyens d’abord dans le plan du tableau, puis, réalisant que je pouvait faire l’économie du tableau, je me suis servi directement du mur.11 Per ciò che concerne invece la scelta cromatica, il critico sottolinea principalmente la presenza incessante del bianco e nero [fig. 2], che si è imposto come componente fondamentale a discapito del colore che avrebbe, secondo Morellet, implicato una serie di decisioni soggettive dettate da intenti percettivo-emozionali troppo pericolose per una poetica votata alla neutralità.12 Se l’aura dell’artista, secondo tali concezioni, aveva perso tutto il suo splendore, il ruolo dello spettatore aveva assunto un’importanza fondamentale, se non addirittura determinante. Nel 1971, infatti, Morellet aveva pubblicato un testo dal titolo Du spectateur au spectateur ou l’art de déballer son pique-nique, in cui aveva analizzato il rapporto tra fruitore e opera d’arte. L’artista affermava che da più di un ventennio si era imposto ostinatamente di produrre lavori sistematici fondati sulla riduzione delle scelte arbitrarie per eliminare l’elemento sensibile nell’arte. Dopo aver soppresso la composizione e applicato rigorosamente dei sistemi semplici ed evidenti che si potevano sviluppare autonomamente, aveva deciso di delegare allo spettatore non solo il compito di decifrare ma anche quello di integrare l’opera attraverso il proprio contributo “poetico-filosofico”; da qui l’idea di picnic, ossia di un luogo, l’opera d’arte, in cui lo spettatore potesse riversare – e da un certo punto di vista far fruttare – il proprio bagaglio culturale, attraverso l’interpretazione soggettiva del “capolavoro”. 13 Se al pubblico spettava dunque il compito di conferire un significato all’opera, all’artista non rimaneva che accettare il giudizio di quest’ultimo. A tal proposito Morellet affermava: … c’est seulement le public qui, en acceptant ou non ce travail, lui donnera sa nature [...] Si le spectateur est donc seul juge pour discerner l’art du non art, le chef-d’œuvre de la croûte, il doit être aussi habilité pour trouver le vrai sens de ces œuvres.14 Rivalutare il ruolo dello spettatore nella relazione che instaura con l’artista e con la sua opera, contribuisce alla demolizione dei miti della “creazione intuitiva” e dell’“arte trascendentale” che Morellet stava conducendo sin dai primi anni Cinquanta.15 L’intento che si era prefisso, attraverso la creazione di opere appositamente concepite per non veicolare alcun messaggio, era quello di raggiungere una neutralità tale da donare al pubblico la totale libertà di interpretazione: Les arts plastiques doivent permettre au spectateur de trouver ce qu’il veut, c’est-àdire ce qu’il amène lui-même. Les œuvres d’art sont des coins à pique-nique, des auberges espagnoles où l’on consomme ce que l’on apporte soi- même. L’Art pur, l’Art pour l’Art, est fait pour ne rien dire (ou tout dire).16 È citando alcuni esempi tratti dalla storia dell’arte che Morellet cerca di avvalorare la sua tesi: Malevič, Duchamp, Mondrian, Yves Klein sono, secondo l’artista, i modelli di quell’arte “fourre-tout” che ha appassionato critici e amatori i cui scritti, intrisi di genio poetico, hanno riempito di senso i vari quadrati neri, ready-mades e trangoli blu. 17 Secondo Morellet, dunque, qualsiasi lavoro mai esposto prima come opera d’arte, se inserito in un contesto artistico dotato del “decorum” necessario, potrebbe assurgere a capolavoro e suscitare l’interesse di quella schiera di critici e storici in cerca di un “presque rien” sul quale riversare il proprio bagaglio di conoscenze.18 16 carrées, l’opera più minimalista e radicale di Morellet, – ma anche la più “vampirisée”, come sostiene l’artista – 19 è stata oggetto di numerose rivisitazioni in cui il ruolo del pubblico è risultato determinante. Nel 1964 infatti, in occasione dell’esposizione Nuovelle Tendance tenutasi presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi e nella quale Morellet presenziava come membro del G.R.A.V., l’artista aveva proposto Reflets dans l’eau (deformés par le spectateur), un’installazione composta da una parete dipinta di nero sulla quale erano stati affissi sei tubi di neon bianchi che andavano a ricomporre i sedici quadrati del 1953. Alla base della griglia vi era un recipiente contenente un liquido nero: lo spettatore, munito di un’asta, poteva agitare il liquido, il quale innescava una deformazione del riflesso della griglia sulla sua superficie. La composizione geometrica si dissolveva nelle forme organiche fluttuanti del recipiente, il quale diveniva così supporto per le nuove deformazioni dell’opera. Alcune fotografie che avevano immortalato tali riflessi [fig. 3] sono divenute, nel 2002, lavori al neon.20 Dopo aver delegato allo spettatore la responsabilità dell’atto creativo e essersi limitato a prelevare da una gamma infinita di possibilità riflettenti alcuni esempi, Morellet ha realizzato infatti una serie intitolata Après reflexions, in cui ha trascritto l’immagine riflessa modellando i tubi di neon secondo le forme figurative dettate dalla casualità motoria del liquido [fig. 4].21 Un decennio prima, intervenendo sullo stesso dipinto, aveva ideato RECREATIONS, opere derivate da alcuni disegni infantili rappresentanti la copia di 16 carrées. RECREATION n°2 (d’après Théo Barrault, 3 ans, d’après François Morellet, 27 ans) del 1994 [fig. 5] è infatti la trasposizione al neon del disegno del giovanissimo Théo Barrault che, invitato a ridisegnare a mano libera l’opera di Morellet, ha composto un 16 carrées cromatico e deformato.22 In questo caso, così come per la serie precedente, Morellet si limita a citare composizioni provocate o ideate da un fruitore, sia esso lo spettatore della mostra del 1964 o il bambino del 1994. Tale atteggiamento può essere giustificato da un lato dal desiderio, più volte evidenziato, di eliminare ogni elemento sensibile nell’opera d’arte, dall’altro dall’intento di spostare il centro dell’attenzione sulla fase concettuale piuttosto che su quella realizzativa del processo creativo. A tal proposito Morellet ha affermato: Ravel non era un pianista e non ci interessa, Le Corbusier non era un conoscitore del cemento e ce ne freghiamo, Paul Valéry è molto difficile da leggere e non ci importa, ma se Matisse o Picasso non avessero saputo disegnare sarebbe stato inconcepibile. Questa pittura dove tutto il fascino si trova nell’esecuzione, esiste, mi piace, ma è talmente eccitante prendere un’altra direzione, quella dei musicisti compositori, degli architetti, e vedere cosa si può fare, pur non avendo le caratteristiche di questi artisti “geniali”, sempre in adorazione delle Belle Arti.23 Anche la componente concettuale dell’opera di Morellet va quindi legittimata alla luce di un discorso più ampio, quello che vede l’artista impegnato nella ricerca rigorosa e sistematica di un linguaggio neutro e impersonale volto allo screditamento delle qualità “mistiche” del genio. IMMAGINI 1. François Morellet, 16 carrées, 1953. 2. François Morellet, Senile Lines, 2007. 3. Fotografia di Reflets dans l’eau (déformés par le spectateur), 1964. 4. François Morellet, Après réflexion n° 15, 2006. 5. François Morellet, RECREATION n°2 (d’après Théo Barrault, 3 ans, d’après François Morellet, 27 ans), 1994. François Morellet, intervista inedita a cura di Alessandro Gallicchio, 12 marzo 2008. Cfr. Jaqueline Lichtenstein e Jean-François Groulier, “Morellet ou les pouvoirs du neutre”, in Daniel Abadie (a cura di), François Morellet, (catalogo della mostra, Paris, Galerie nationale du Jeu de Paume, 28 novembre 2000-21 gennaio 2001), Éditions du Jeu de Paume/Réunion des musées nationaux, Paris, 2000, p. 29. 3 «On voit des artistes de plus en plus nombreux qui refusent dans la fabrication des œuvre d’art ce choix arbitraire de chaque instant, alors qu’au même moment apparaissent des machines, cerveux électroniques de plus en plus perfectionnés, qui pourraient remplacer l’artiste dans une grande partie de ses démarches». François Morellet, “Le choix dans l’art actuel” (1965), in Id., Mais comment taire mes commentaires, Beaux-Arts de Paris les éditions, Paris, 2011, p. 28. 4 Cfr. ivi, pp. 30-31. 5 Cfr. Domitille d’Orgeval, “François Morellet: les années 1950”, in Serge Lemoine e Alfred Pacquement (a cura di), François Morellet. Réinstallations, catalogo della mostra (Parigi, Centre national d’art et de culture Georges Pompidou, 2 marzo-4 luglio 2011), Paris, Éditions du Centre Pompidou, 2011, p. 131. 6 Cfr. François Morellet, “Porquoi ai-je été incapable d’écrire un article dans Quad ?” (1980), in Id., Mais comment taire mes commentaires, cit., pp. 76-84. 7 Morellet, parlando di 16 carrés, afferma: «Cette peinture uniforme qui n’avait pas de sens, dans tous les sens du terme, est-ce que c’était dans mon esprit une structure mystique ou une plaisanterie dada? Sans doute un peu les deux». Christian Besson, “Entretien avec François Morellet”, in Bernard Blistène (a cura di), François Morellet, (catalogo della mostra, Parigi, Centre national d’art et de culture Georges Pompidou, 4 marzo-11 maggio 1986; Amsterdam, Stedelijk Museum, 1 giugno-20 luglio 1986), Paris, Éditions du Centre Pompidou, 1986, p. 115. 8 Cfr. Serge Lemoine, François Morellet, Paris, Flammarion, 2011, pp. 87-90. 9 Cfr. Erich Franz, “L’impossible fixation du regard”, in Christine Besson e Patrick Le Nouën, François Morellet 1926-2006 etc... récentes fantaisies, (catalogo della mostra, Angers, Musée des Beaux-Arts, 25 giugno-12 novembre 2006), monografik éditions, Saumur (Blou), 2006, p. 26. L’opera di Morellet, per il suo carattere all over, può essere inserita all’interno dello studio svolto da Rosalind Krauss nel saggio dedicato all’analisi del movimento centrifugo del “sistema griglia”. Cfr. Rosalind Krauss, “Griglie” (1979), in Ead., L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Fazi Editore, Roma, 2007, pp. 13-27. 10 Cfr. Serge Lemoine, François Morellet, cit., p. 90. 11 Cfr. François Morellet, “Sur l’économie de moyens et les coins” (1986), in Id., Mais comment taire mes commentaires, cit., p. 110. 12 Cfr. ivi, p. 96. 13 Cfr. François Morellet, “Du spectateur au spectateur ou l’art de déballer son pique-nique” (1971), in Id., Mais comment taire mes commentaires, cit., pp. 52-53. 14 Ivi, p. 54. 15 Cfr. Arnauld Pierre, “Ce que devrait être le spectateur”, in Daniel Abadie (a cura di), François Morellet, cit., p. 17. 16 François Morellet, “Du spectateur au spectateur”, cit., p. 55. 1 2 Ivi, p. 57. Cfr. ivi, p. 58. 19 Cfr. Alice Fleury, “François Morellet: ligne de fuite”, in Blandine Chavanne e Ead. (a cura di), Ma musée. François Morellet, (catalogo della mostra, Nantes, Musée des Beaux-Arts, 8 novembre 2007-4 febbraio 2008), Fage éditions, Lyon, 2007, p. 29. 20 Cfr. Sonja Klee, “Le monde a survécu parce que le rire lui plaît”, in Ead. (a cura di), François Morellet. Raison et dérision, catalogo della mostra (Erstein, Musée Würth France, 3 ottobre 2008-1 febbraio 2009; Turnhout, Kunstforum Würth, 14 febbraio-14 giugno 2009), Künzelsau, Swiridoff, 2008, p. 49. 21 Cfr. Patrick Le Nouëne, “Les «récentes fantaisies» de François Morellet”, in Christine Besson e Id., François Morellet 1926-2006 etc..., cit., p. 40. 22 Cfr. Sonja Klee, “Le monde a survécu”, cit., p. 51. 23 François Morellet, intervista inedita a cura di Alessandro Gallicchio, 12 marzo 2008. 17 18