PDF - Mario Monicelli

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VERSO LA COMMEDIA.
Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile
PREMESSA
Prima di iniziare quest'assunto, credo sia doveroso spendere due parole sui motivi che
mi hanno indotto ad occuparmi di questi tre registi. In un'epoca in cui tutti i favori della
critica "ufficiale" vanno a coloro che si professano "autori" e in cui il cinema di genere
sembra esistere solo in quanto americano, si è sviluppata in questi ultimi anni, come
un'enorme escrescenza della critica maggiore, una fitta rete di fanatici adoratori di quei
registi dallo stile fortemente barocco ed esasperato, facitori di film zeppi di situazioni
estreme, che ha portato, guarnendola con la locuzione inglese di "trash-film", anche alla
rivalutazione del cosiddetto cinema spazzatura. Lo stesso genere campione della nostra
cinematografia, quello che insieme al neorealismo ci ha reso famosi in tutto il mondo, la
"commedia all'italiana", è stato travolto da questo duplice movimento uguale e contrario.
Così, se da un lato la critica francese ha promosso al rango di grande cinema i registi
tipici della commedia - Monicelli, Risi, Scola -, dall'altro la fitta rete di riviste "fanzines"
ha portato alla luce, rivalutandolo con accenti encomiastici ed a volte esaltati, quel
sottobosco della nostrana cinematografia comprendente registi come Laurenti, Cicero,
Tarantini, Lenzi. Il risultato è stato
quello di promuovere quei registi che, pur qualitativamente agli antipodi, hanno portato
avanti un discorso lineare e coerente: sia quello di un Monicelli, cantore di eroi miserabili
(«poveracci condannati a restare poveracci»1) eternamente esclusi da una società
indifferente
se
non
ostile;
sia
quello
di
un
Laurenti,
osservatore
del
comico
comportamento dei maschi italiani, quotidianamente eccitati dalla visione di una bella
donna (preferibilmente nuda, mentre fa una doccia, da scorgere dietro il buco di una
serratura: «In mezzo alla comicità nei miei film c’era la scena della doccia…ma era
così…un contentino»2, dichiarò lo stesso Laurenti).
Tutte e due le correnti critiche hanno perciò escluso dalle loro considerazioni non solo
quei registi che, alla prova dei fatti, avevano una loro precisa personalità, ma non sono
riusciti a svilupparla con coerenza, per difetti di stile o per compromessi troppo frequenti
con i produttori (è il caso di un regista importante come Luigi Zampa, la cui
considerazione critica, col progredire del tempo, è come svanita), ma soprattutto quei
registi che, non portando mai avanti, all'apparenza, un discorso personale, hanno messo
1
Fernaldo Di Gianmatteo, Cristina Bragaglia, Dizionario del cinema: cento grandi registi,
Newton Compton, Roma, 1995, p.62
3
Igor Molino Padovan, Matteo Norcini, Quell’ultima doccia-Intervista a Mariano Laurenti, in
Amarcord, n. 8-9, mag.-ago. 1997, p.69
1
le loro capacità di costruzione narrativa al servizio del divo di turno: cineasti come Sergio
Corbucci, Luciano Salce, Pasquale Festa Campanile, Steno.
Proprio questi ultimi tre
saranno al centro dell’analisi di questa tesi, convinto com'è, chi scrive, che siano stati
loro a dare nerbo e consistenza al genere. Nel cercare il denominatore comune delle
rispettive sterminate filmografie, si cercherà di evidenziare la loro coerenza: sia essa un
tratto di stile, una tematica narrativa od uno scorcio critico.
Un regista teatrale, sporadicamente anche cinematografico, Luciano Lucignani, ha
recentemente e, dati i tempi, sorprendentemente, dichiarato3 che l'attuale crisi
espressiva del cinema italiano è dovuta alla mancanza di quello strato di registi medi che
ha operato nel nostro cinema fino alla fine degli anni '80. Osservando le carriere di attori
comici come Troisi, Verdone, Benigni e soprattutto Nuti che hanno preferito dirigersi da
soli pur non avendone spesso le capacità, ed immaginando quale avrebbe potuto essere
la loro strada espressiva sotto le abili mani di uno Steno o di un Salce, non si può non
dare
3
al
sagace
regista
altro
che
ragione.
Luciano Lucignani, La Repubblica, 1995
2
INTRODUZIONE. LA COMMEDIA ITALIANA: UN GENERE RICCO DI VARIANTI
Per molto tempo la commedia italiana è stata identificata con la “commedia
all’italiana”. Non è possibile operare questa identificazione, come ricorda il critico Enrico
Giacovelli:
Ci sono ancora oggi vari testi che identificano con questo termine (“commedia all’italiana”, nda)
l’intera produzione comica italiana, perlomeno a partire dal 1945; e altri che rifiutano per stima o
per disistima di usare il complemento di qualità e parlano soltanto, genericamente, di “commedia
italiana” . A noi sembra che entrambe le posizioni finiscano per generare confusione: è vero che i
confini non sono sempre facili da stabilire, ma è innegabile che una certa scuola o corrente o
quanto meno tendenza porti a distinguere un certo numero di commedie dal corpus più vasto e
onnicomprensivo della commedia cinematografica italiana.1
Molti critici italiani (oltre a quelli francesi2), si sono dedicati ad una definizione precisa
delle coordinate della “commedia all’italiana”; ma soltanto dagli anni ’80 le è stata
dedicata qualche opera monografica: quelle di Ernesto G. Laura3, di Masolino D’Amico4 e
di Aldo Viganò5, le raccolte di saggi a cura di Riccardo Napolitano6 e Pietro Pintus7 e il
riepilogo di Enrico Giacovelli, che con La commedia all’italiana8 e, recentemente, Non ci
resta che ridere ha tentato una sistemazione delle diverse teorie sul genere.
Che cosa differenzia la “commedia all’italiana” dalla rimanente commedia italiana?
Poiché il libro di Masolino D’Amico, pubblicato cinque anni prima dell’opera di Giacovelli,
benché abbia molti meriti (primo fra tutti, quello di riepilogare storicamente quarant’anni
di produzione comica italiana e di rintracciarne l’origine nelle rappresentazioni di
avanspettacolo), fa confusione tra film di genere comico e commedie, analizzando la
produzione in funzione delle carriere degli attori e non dei registi, terminando un po’
incongruamente la propria analisi al 1975,
sarà opportuno riferirsi al saggio La
commedia all’italiana di Giacovelli per ricercare una definizione del genere:
A caratterizzare la commedia all’italiana e a distinguerla dalla commedia tradizionale è,
dunque, per prima cosa, la presenza di elementi drammatici. Naturalmente non ce ne devono
essere troppi, altrimenti non si tratterebbe più di commedia, bensì appunto di film drammatico; ma
ce ne sono comunque più che in una normale commedia. E’ una presenza frequente, ad esempio,
la morte, ignota invece alla commedia tradizionale, che può permettersi di ignorarla o addirittura di
irriderla. In alcune commedie all’italiana tra le più celebri e riuscite, da La grande guerra al
1
Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Lindau,
Torino, 1999, p. 77
2
Jean Gili, Arrivano i mostri-I volti della commedia italiana, Cappelli, Bologna, 1980; Jean Gili,
La comédie italienne, Henry Veyrier, Parigi, 1983; Lorenzo Codelli, La partie cachée de
l’iceberg (la comédie italienne aujourd’hui, in Positif, n.129, julliet-aout 1971; Alain Garel, La
comédie italienne et la critique, in La Revue du cinema, n.316, avril 1977.
3
Ernesto G. Laura, Comedy Italian Style, A.N.I.C.A., Roma, 1981
4
Masolino D’Amico, La commedia all’italiana, Mondadori, Milano, 1985
5
Aldo Viganò, Commedia italiana in 100 film, Le Mani, Recco, 1995
6
Riccardo Napolitano (a cura di), Commedia all’italiana. Angolazioni, controcampi, Gangemi,
Roma, 1986
7
Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana. Parlano i protagonisti, Gangemi, Roma, 1986
8
Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana,Gremese, Roma, 1990
1
Sorpasso, da Divorzio all’italiana a Dramma della gelosia, la morte è in scena, rappresentata in
modo crudo, realistico [...] Di conseguenza viene meno anche l’altra grande e riposante certezza
della commedia di tutti i tempi e luoghi: il lieto fine.
[…] E’ abitudine dei personaggi della commedia all’italiana fare di ogni caso personale una
questione universale [...] Ecco qual è il tema-guida, il chiodo fisso di questa commedia dai continui
agganci con la realtà contemporanea: la solitudine dell’individuo nella società dei consumi, alle
soglie del duemila. La commedia all’italiana è tutta in questo contrasto, narrativo, ma anche
figurativo, fra un “solo” (l’individuo) e un “tutti” (la società).9
Se, a questo punto, confrontassimo la produzione di Steno, Salce e Festa Campanile
con le definizioni di Giacovelli e ci interrogassimo su una piena appartenenza al genere di
questi registi, la risposta sarebbe inequivocabilmente negativa. Passi per la produzione
iniziale di Salce, ma cosa c’entrano con la commedia all’italiana le farse di Steno e le
commedie d’ambientazione storica di Festa Campanile, così apparentemente lontane «dai
continui agganci con la realtà contemporanea» ?
In realtà, come sempre più chiaramente si manifesta nelle pagine seguenti, per
Giacovelli, sono ascrivibili al genere della commedia all’italiana soprattutto le opere di
Risi, Monicelli, Scola, Germi e Comencini: è nei loro film che il genere mostra uno stile
inconfondibile e compatto. Può accadere, così, che Signore e signori, buonanotte (1976),
film collettivo (diretto proprio da Monicelli, Scola e Comencini con Loy e Magni), in cui gli
episodi non sono firmati per motivi sindacali, abbia, come tratto distintivo,
proprio
l’indistinguibilità dello stile.
Scorrendo la filmografia di questi autori, ci si può accorgere che l’argomento
principale delle loro pellicole è la classe borghese, indagata nelle sue meschinità morali,
economiche e civili. Il tono è indignato ma, spesso, solo apparentemente: c’è sovente un
residuo di complicità negli autori di queste pellicole verso l’ambiente rappresentato, di cui
pur fanno parte. Una complicità evidente sin nella scelta degli attori che interpretano i
ruoli dei protagonisti, i quali portano nei loro personaggi un bagaglio personale di
ammiccamenti e ambiguità, complicando il gioco attoriale con un continuo scambio tra il
loro essere-attori ed essere-interpreti. Tognazzi rende credibili – rimanendo «sempre in
mezzo al guado tra una natura fondamentalmente buona e una vocazione forzata alla
mostruosità»10 - i suoi ruoli di uomo maturo, gretto moralmente, alle prese con i
problemi del sesso; Gassman, capace di esaltare e nobilitare «quelli che in genere sono
considerati i vizi peggiori della recitazione: il birignao e gli eccessi gestuali»11, è perfetto
per i ruoli di borghese arrivato, ma insoddisfatto e fallito moralmente.
La stessa struttura narrativa delle storie nasconde nelle pieghe del racconto lo
sguardo complice degli autori, la cui apoteosi troviamo nei risvolti finali, quando il
9
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., pp. 10-11
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, pp.296-7
11
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., pp. 294-5
10
2
protagonista fin lì criticamente analizzato viene ricondotto sulla retta via del perdono
morale. E’ questa la valenza etica e sociale delle frequenti conclusioni luttuose delle
commedie all’italiana: il protagonista ha accumulato su di sé tante connotazioni negative,
durante lo svolgimento dell’intreccio, che gli autori, per riscattarlo agli occhi degli
spettatori, non hanno altra scelta che metterlo al confronto con la morte, estrema
occasione di riabilitazione. Ecco il senso di finali come quello de La grande guerra (1959,
Monicelli), in cui i due «antieroi-tipo, sgangherati, vigliacchetti»12 si sacrificano in un atto
di coraggio incongruo per il loro carattere, ma che permette allo spettatore di potersi
infine riconoscere in essi, ritrovando un sottofondo di onestà morale che salva,
ipocritamente, una vita spesa male; o come quello de Il sorpasso (1962, Risi), in cui il
protagonista deve provocare la morte dell’amico per riconoscere il fallimento della propria
esistenza e mostrare al pubblico, che pur nell’arrivista più incallito alberga un sentimento
puro.
Eliminando dalla definizione qualunque sfumatura negativa ed evidenziando come la
commedia sia un genere per sua natura ottimista e, dunque, conciliatorio, si potrebbe
definire “commedia all’italiana” tutta quella produzione comica in cui lo sguardo sulla
realtà sia angolato secondo un’ottica borghese. «La commedia all’italiana – afferma
Fernaldo Di Gianmatteo – è la manifestazione primaria di un atteggiamento di sfida e di
rifiuto, di compiacimento e di timore che i nuovi ceti emergenti della società vanno
assumendo mentre il paese esce dall’indigenza e si affaccia incredulo a un mondo
intravvisto solo nei sogni più temerari»13. E, dunque, non tanto un genere, uno stile,
quanto una posizione ideologica che sottende l’analisi sociale di queste commedie.
Si spiegherebbe così molto bene la voluminosa fioritura del genere negli anni ’60,
quando la società borghese è rampante e i movimenti e gli atteggiamenti della classe,
per occupare le posizioni di potere, vengono criticati nei suoi aspetti più alienanti, ma
sempre in una prospettiva di ottimismo. Tra il 1958 e il 1964 si esaurisce la «breve e
illusoria stagione del miracolo economico»14: in questo periodo proliferano le commedie
del “boom”, le commedie all’italiana per eccellenza, delle cui caratteristiche Giacovelli
propone questo riepilogo:
Protagonista di questa fase è dunque quel miracolo economico il cui effetto risulta più o meno lo
stesso di un gas esilarante: un’ondata di euforia artificiale che inebria, ubriaca, stordisce e fa
perdere il senso della realtà. La commedia di questi anni è essenzialmente estiva; nonostante il
dilagare dei palazzi (che vediamo spesso in costruzione o appena costruiti), si svolge
principalmente all’aria aperta, nei luoghi fondamentali della nascente civiltà dei consumi:
l’automobile e la spiaggia. Il nuovo paese è così ricco di allettamenti, di status-symbol, che
l’interesse per i problemi privati diviene marginale, almeno al Nord, dove l’effetto del “miracolo” si
sente meglio (al Sud sussitono ancora gli antichi problemi onore, corna e gelosia: il “boom” giunge
solo di rimbalzo, come un’eco). In realtà, dietro il trionfalismo, è anche l’epoca del contrasto
12
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.44
Fernaldo Di Gianmatteo, Lo sguardo inquieto, La nuova Italia, Firenze, 1994, p.278
14
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.40
13
3
sempre più evidente, perché amplificato dai mass-media, fra le crescente ricchezza media e la sua
inadeguata e ingiusta distribuzione: epoca di forti opposizioni, infatti la commedia di questi anni è
quasi esclusivamente in bianco e nero, per rendere meglio il contrasto, bianco su nero, tra
l’individuo-simbolo e la società dei consumi. Dietro gli strombettamenti, è una commedia triste,
drammatica, piena di presentimenti, che ritrae al tempo stesso l’euforia e la consapevolezza della
sua fragilità. […] L’idea che ci si fa di questa società è abbastanza drammatica, ci vuol poco a
capire che dietro gli orpelli cova la decadenza, che tanto ottimismo non può durare. Eppure, anche
per via dell’entusiasmo trascinante di certe descrizioni, si finisce per avvertire una nostalgia
anticipata per il sapore irripetibile, per la vitalità e l’esuberanza di quest’epoca dorata.15
Quando negli anni ’70, in piena epoca di contestazioni giovanili, i registi della
commedia si accorgono che la società borghese ha generato mostri come il terrorismo, il
genere si trova spiazzato, il clima di queste opere si fa plumbeo, anche più del
necessario, in una prospettiva ora lugubre e luttuosa. Il sogno riformatore di questi
registi si è infranto e così la loro capacità critica: il tono delle pellicole di questo decennio
si fa sarcastico ed, a volte, aspramente moralistico (Caro papà di Risi, Il mostro di
Zampa, Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, «una commedia incarognita dal fatto di
dover fare i conti con tempi in cui è sempre più difficile vivere»16).
Si spiega così anche il tono esageratamente grottesco che acquista lo stile di quegli
autori del genere che gettano uno sguardo sulle classi extraborghesi: l’aristocrazia, poco
frequentata, è vista come una classe putrefatta, arretrata culturalmente, stordita
ideologicamente (vedere gli esempi in Vogliamo i colonnelli di Monicelli o in Il secondo
tragico Fantozzi di Salce) e frequentemente confusa con l’alta borghesia; del proletariato
viene sottolineato l’analfabetismo culturale, la primitività sentimentale, l’arretratezza
civile: con tratti pesantemente caricati, come le pose artefatte da fotoromanzo e il
linguaggio maccheronico di tanti film scritti da Age e Scarpelli (Straziami ma di baci
saziami di Risi, Dramma della gelosia di Scola, L’armata Brancaleone e Brancaleone alle
crociate di Monicelli). Sono culture che vengono confrontate con quella borghese e se ne
nota la completa estraneità dai suoi modelli comportamentali: da qui gli sbeffeggiamenti
che attirarono gli strali di registi come Steno che contestò «...la contraddizione politica
di molti miei colleghi che, con la commedia all’italiana, malgrado fossero di sinistra,
hanno sfottuto i poveracci, ma proprio di brutto, e questa è una cosa che non mi è mai
andata giù. A spese di questi disgraziati hanno fatto ridere l’italia»17.
Ma se la commedia è il genere borghese per eccellenza (già a partire da Aristotele,
secondo cui non doveva interessarsi né di eventi e personaggi di statura superiore a
quella dell’uomo medio, né di quelli inferiori), cosa distingue la commedia
all’italiana
dalla commedia tout-court? Per circoscrivere maggiormente il genere, possiamo trovare
un altro motivo di distinzione nell’attenzione che i registi italiani hanno verso il realismo
15
Ibidem.
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.160
17
Angelo Olivieri, L’imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1983, p. 17-18
16
4
del contesto ambientale. Proprio perché preceduti, nei loro intenti realizzativi, da una
volontà ideologica, questi autori non amano costruire artificiali meccanismi di astratta
comicità, ma sono attenti ad analizzare le situazioni ambientali e sociali in cui agiscono i
personaggi delle loro storie.
Se confrontiamo una commedia all’italiana con una qualunque sofisticata commedia
americana, o una nostrana del periodo dei “telefoni bianchi” (gli anni ’30), ci accorgiamo
immediatamente che c’è un elemento incongruo in quelle perfette partiture di comicità:
l’irrealismo
dell’ambientazione.
Luoghi
spropositati
rispetto
alla
condizione
dei
protagonisti, fanno da cornice, in questo genere di storie, alle loro azioni. Così come la
condizione divistica degli interpreti emerge nei confronti del realismo della recitazione: è
la vittoria del trucco sulla verosimiglianza. Basterebbe ripercorrere con la mente qualche
gaio collegio rivisitato dalle opere dell’epoca, per chiederci dove siamo finiti: possibile che
ai quei tempi queste austere istituzioni fossero
professori
compiacenti e
gremite di
allieve
cinguettanti,
di
di presidi
repressive (e represse)? Tra i titoli: Susanna (1939) e Il magnifico scherzo (1952) di
Hawks, tutte le commedie di Cukor, tra i film americani; Maddalena: zero in condotta
(1940) e Teresa Venerdì (1943) di Vittorio De Sica e tutte le commedie degli anni ’30 di
Mattoli, Bragaglia e Neufeld tra i nostri.
Quale differenza di stile, se si confronta questo genere di film con Un giorno in pretura
o I soliti ignoti, in cui personaggi popolari come ladri, vagabondi, prostitute e poliziotti, si
muovono in ambienti adeguati: vecchie e malmesse catapecchie, luna-park, orfanotrofi,
aule di tribunali dall’aria spoglia e avvizzita, fiumiciattoli inquinati e maleodoranti come le
“marrane”. E’ evidente in quest’attenzione al dato reale, non soltanto contemporaneo –
la stessa attenzione c’è nella ricostruzione storica, mai fine a se stessa, delle commedie
di Magni, Lattuada e Festa Campanile – il retaggio del neorealismo, di cui la commedia
all’italiana, secondo i nostri critici, sarebbe un’involuzione - attraverso il passaggio del
“neorealismo rosa” - mentre secondo i propri autori ne sarebbe la giusta evoluzione.
“Neorealismo rosa” è una «formula un po’ dispregiativa»18 che venne coniata a
proposito del film Due soldi di speranza di Renato Castellani che, nel 1952, aveva vinto il
Festival di Cannes: «L’ammirazione degli stranieri per la componente folkloristica, e
quello che ad alcuni parve, al solito, qualunquismo politico […] nocquero al film presso la
critica impegnata , da cui fu accusato di aver privilegiato il privato sul sociale,
corrompendo la funzione civile della scuola da cui proveniva»19. L’opera di Castellani
stimolò una produzione (Don Camillo, Pane, amore e fantasia, Giovani mariti) che, per
l’ambientazione bucolica e la leggerezza del racconto, non piaceva e dava discredito ai
18
19
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 73
Ivi, p. 74
5
suoi registi: si arrivò al caso limite «del fallimentare Giorni d’amore (1955) di Giuseppe
De Santis, con Mastroianni e Marina Vlady: impacciata e fasulla farsa paesana per la
quale il regista comunista aveva paticamente chiesto l’assoluzione al critico Guido
Aristarco, con una lunga lettera aperta in cui rivendicava il diritto al “piacere di
raccontare per il bisogno schietto e sincero di raccontare”»20.
Nelle commedie all’italiana non ritroviamo la poesia del “documento” del neorealismo,
ma personaggi concreti e reali si muovono in ambienti altrettanto concreti e reali: gli
intrecci che essi sviluppano si allontanano fortemente dalla verità, ma si mantengono
sempre nel rispetto assoluto della verosimiglianza. E’ il lato più gustoso di queste opere:
il riconoscimento di personaggi e ambienti quotidiani, messi in burla e deformati, che
consentono allo spettatore di ritrovarsi (o meglio di ritrovare gli altri) in essi.
Il rischio di tali operazioni, ovviamente, è quello di rinchiudersi nella localizzazione di
fatti e personaggi, fissandosi nel provincialismo e sprofondando, così, nel regionalismo,
nel dialettalismo, cioè, in ultima analisi, nella macchietta e nel bozzetto. I personaggi si
semplificano troppo, si fanno approssimativi, bastano pochi tratti (spesso ripetuti di film
in film), qualche battuta per fissare uno stereotipo difficile da espellere nella storia del
genere: il siciliano mafioso con coppola, lupara e baffi neri, il milanese laborioso, grasso
e petulante; il giovane romano scansafatiche e millantatore, di buon cuore. Sono i
retaggi dell’avanspettacolo che la commedia accoglie così volentieri tra i suoi tratti di
stile e punteggiano il genere
con una funzione liberatoria che supplisce alla mancanza di idee di uno sceneggiatore ed
assicura la risata. Sono difetti tipici dei sottoprodotti della commedia all’italiana, che
infarciscono le storie di battute e personaggi ripetitivi, ma vengono regolarmente
superati nei migliori esemplari del genere.
Ci sono abbastanza elementi adesso per tracciare una definizione della commedia
all’italiana: un genere che mischia parti comiche e parti drammatiche, in cui confluiscono
le istanze stilistiche del neorealismo e dell’avanspettacolo, tutto sotteso da un’ideologia
borghese riformista e, insieme, un po’ compiacente, in cui ruoli decisvi hanno giocato
quegli umoristi fuoriusciti dai giornali satirici pubblicati sotto il fascismo – come il
Marc’Aurelio e il Bertoldo – che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno portato nelle
opere il loro scetticismo corrosivo e un po’ cinico.
Le coordinate della “commedia all’italiana” sono precise, ma le linee labili, facilmente
confondibili con la restante produzione della commedia. Come Maccari, Scola, Zapponi,
Age e Scarpelli, lo stesso Steno proveniva dalla redazione del Marc’Aurelio, ma nella sua
carriera si è dedicato maggiormente alla realizzazione di film comici e commedie
20
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 77
6
sofisticate. L’analoga formazione umoristica è evidente soprattutto nella caratterizzazione
dei personaggi nelle sue commedie sofisticate degli anni ’80: figure ben radicate nel
costume italiano, di un realismo molto fisico, al limite della macchietta, agiscono
all’interno di intrecci astratti. Ugualmente, Pasquale Festa Campanile, dopo aver dato un
indirizzo preciso alla commedia all’italiana, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, se ne è
disinteressato, seguendo un’ispirazione personale, a volte troppo sfruttata dai produttori.
La differenza tra la “commedia all’italiana” e quella italiana sta nella diversa importanza
data, nell’intreccio, al rapporto dei personaggi con la società contemporanea, che nella
prima è preponderante, nella seconda subordinata all’architettura del racconto.
Ricondurre la commedia italiana soltanto alla “commedia all’italiana” sarebbe riduttivo.
Non si valuterebbe con la giusta obiettività la commedia popolare, quella politica, quella
sofisticata o neosofisticata. Si commetterebbe lo stesso errore in cui incorsero quei
«critici italiani che snobbarono il fenomeno più importante del nostro cinema assieme al
neorealismo: quelli che usavano ad ogni recensione il famigerato ritornello “pur nei limiti
della commedia” (ma allora si potrebbe anche dire, a proposito dell’Avventura, dei Pugni
in tasca, e di molti altri film di valore privi però di umorismo e leggerezza: “Pur nei limiti
del film serio”)»21. Si analizzerebbe la produzione estranea alla “commedia all’italiana”
con superficialità, si incorrerebbe nel rischio di schematizzare e di ricorrere a definizioni
disonorevoli. Come quelle dello stesso Giacovelli che assegna, ad una parte della
produzione comica degli anni 70, la definizione di «commedia del disimpegno»22, un
«tentativo di restaurazione volto a riportare il cinema cosiddetto leggero alla sua
leggerezza naturale, o innaturale che dir si voglia»23. In questo modo, con questi
pregiudizi, non è più possibile analizzare questo tipo di film ricercandone le qualità
peculiari: di ritmo, organizzazione narrativa, ambientazione, disegno dei personaggi.
Infatti, sinora questo tipo di produzione è ancora da analizzare compiutamente.
La commedia italiana, quindi, non si presenta compatta, ma, al contrario, ricca di
varianti e di stili. C’è il critico della classe borghese (Risi), il cantore dei personaggi
emarginati (Monicelli), il moralista indignato (Zampa). C’è chi è più attento all’aspetto
tecnico (Comencini, Risi, Mogherini), chi cerca lo stile nel tratteggio psicologico dei
personaggi (Monicelli, Zampa) e chi si appoggia alla recitazione degli attori (Rossi,
Verdone). Ma tutti questi registi si sostengono sui copioni di sceneggiatori che hanno
ricercato nella loro carriera un continuo perfezionamento del genere: sono Age &
Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Scola e Maccari, Sonego e Amidei, Castellano &
21
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.13
Ivi, p. 83
23
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.128
22
7
Pipolo. Di norma lavorano in coppia ed alcuni si dedicano a far lievitare la carriera di un
attore, diventando suoi sceneggiatori di fiducia (è il caso di Sonego con Sordi).
In un panorama così vasto e cangiante, rientrano a pieno titolo anche le carriere di
Steno, Salce e Festa Campanile, benché il loro interesse si sia rivolto anche ad altri
generi: il poliziesco e lo storico, per esempio . La critica considera il loro cinema
interessato soprattutto all’aspetto merceologico e non artistico della produzione. In effetti
questi tre registi hanno goduto a lungo dei favori del pubblico, hanno girato film che sono
stati più volte campioni d’incasso – tanto che Festa Campanile fu soprannominato “il
regista miliardo” – ma vedere tutto questo come una colpa è profondamente ingiusto.
In realtà questi tre registi sono dotati di una forte personalità - che ha i suoi
fondamenti al di fuori delle esperienze cinematografiche - la quale ha consentito loro di
muoversi nel cinema commerciale mantenendo sempre una propria distinzione stilistica.
Steno proveniva dal Marc’Aurelio; Salce si era diplomato in regia all’Accademia di arte
drammatica ed aveva interessi anche nel campo radiotelevisivo; Festa Campanile,
redattore de La fiera letteraria, era un narratore di successo: tutti e tre portarono nel
genere una grande professionalità nel costruire storie che fossero popolari ed insieme
originali.
Erano insomma perfetti esemplari di quel settore cinematografico comunemente
definito «cinema medio»: una produzione di non grande ambizione, popolare ma non
triviale, tecnicamente decorosa, modesta ma non mediocre, che sapesse utilizzare i
talenti che aveva a propria disposizione (attoriali, ma anche tecnici, come scenografi ed
operatori), proponendo una produzione economicamente vincente e, qualche volta,
anche artisticamente persuasiva. Una produzione all’epoca assolutamente ignorata, ma di
cui adesso si sente la mancanza.
Anche questa inclusione è però restrittiva: Steno, Salce e Festa Campanile furono ben
altro (o comunque andarono ben oltre) che dignitosi organizzatori di prodotti di successo.
La loro efficienza tecnica nascondeva un talento non comune di acuti ed ironici
osservatori dei comportamenti sociali: questo talento non fu affatto inespresso, ma si
incarnò in alcune realizzazioni così nitide e precise da avere la valenza di modelli
culturali. Dalla macchina da presa di Steno sono nati personaggi come Nando Moriconi e
Piedone, da quella di Salce Fantozzi (oltre che i primi personaggi di costume di Ugo
Tognazzi), da quella di Festa Campanile Rugantino. Pochissimi sono i registi italiani che
possono vantarsi, come loro, di avere inciso in modo così rilevante sull’immaginario degli
spettatori. Pochi sono i registi del cinema più commerciale che possono vantarsi, come
loro, di avere imposto il proprio gusto al pubblico e non di essersene fatti influenzare.
Il motivo della loro relativa sottovalutazione è allora da ricercare nella perifericità del
loro lavoro nei confronti dei canoni riconosciuti del genere: i tre possono rientrare nei
8
confini della commedia italiana solo se diamo a questa l’accezione molto ampia sopra
esplicitata. I film dei tre registi non appartengono, tranne poche eccezioni, al filone della
“commedia all’italiana”.
L’estro di Steno, infatti, è prevalentemente comico, incline alla stilizzazione farsesca,
pungente nelle sue caricature, fortemente aggressivo e piuttosto scomposto, ma esclude
quasi totalmente presenze drammatiche o scansioni satirico-politiche nei suoi snodi
narrativi: le allusioni politiche sono, in Steno, sempre molto dirette, memori delle
esperienze della rivista e dell’avanspettacolo.
Quella di Salce, invece, è una comicità caustica, irridente e svagata, attenta a
satireggiare epidermicamente i comportamenti umani, capace di delineare con un solo
tratto un carattere e di farlo con precisione chirurgica, ma poco disposta ad avventurarsi,
se non marginalmente, nei terreni dell’analisi di costume: la sua è una comicità
fenomenologica, più che sociologica. D’altronde anche i suoi film più facilmente
riconducibili al filone della “commedia all’italiana”, come la trilogia con Tognazzi, sono
analisi di personaggi più che di strutture o istituzioni sociali.
Quanto a Pasquale Festa Campanile, basterà riportare una sua dichiarazione, per
comprendere la sua lucida posizione rispetto al genere:
Le mie non sono commedie di costume, ma commedie. Cioè io non ho mai amato il contesto
sociale italiano al punto di fare la commedia di costume. Proprio per questa ragione anzi, i miei film
sono passati per film evasivi. E questo non è vero, io preferisco esprimermi attraverso paradossi
piuttosto che attraverso la riproduzione della realtà.24
Una dichiarazione che può valere anche per Steno e Salce, soprattutto per quanto
riguarda l’accusa, ricevuta dalla critica, di girare film evasivi. La sfortuna
avuta dai tre è stata quella di vivere ed operare in un momento in cui la critica era più
interessata agli aspetti sociali e politici delle opere che al loro reale valore tecnico. Le loro
pellicole, anche nei momenti di minor vena, conservano una pulizia tecnica, un’
asciuttezza espressiva ammirevole, degna di chi, lavorando esplicitamente per il successo
popolare, ha sempre avuto rispetto del pubblico. Una dichiarazione di Pasquale Festa
Campanile è, ancora una volta, esemplare e riassuntiva della condizione dei tre:
Vorrei che fosse riconosciuto che il mio è un cinema professionale che merita, se non altro, un
maggiore rispetto [...] Mi rimproverano di fare un cinema troppo popolare, ma sono io che scelgo
di farlo: un cinema con un linguaggio molto semplice, lo stesso che uso in letteratura, che arrivi
immediatamente alla gente25.
Naturalmente, come detto, c’è molto più che professionalità nelle opere dei tre:
l’inveterata e ingiustificata ottusità critica nei loro confronti, non poteva non provocare
qualche giustificabile dubbio sul proprio lavoro.
24
25
Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano 1970-1984, Milano, Feltrinelli, 1984, p.164
Maria Pia Fusco, La Repubblica, 26.2.1986
9
Ma i dubbi erano superati con grande ironia. In uno dei suoi film meno visti, Colpo di
stato, Luciano Salce mette in scena se stesso, nei panni molto autoironici del regista di
successo, a cui viene rubato un prezioso dipinto. Intervistato, dichiarava, con sarcasmo a
doppio taglio, che trovava molto strano che ci fosse gente disposta ad interessarsi di lui.
Un’ironia così sottile, capace di acquistare tanta allusività con un minimo di sforzo
espressivo, è proprio la testimonianza diretta del reale talento comico di questi registi.
Per trovare equivalenti registi nel nostro cinema, capaci di sintonizzarsi sugli umori
popolari con uguale facilità, probabilmente, bisognerà risalire ai nomi di Mattoli, Bragaglia
e Mastrocinque, anche loro bravi nel creare storie e personaggi, prevalentemente comici,
capaci di insediarsi agilmente nell’immaginario collettivo. La loro diretta influenza sulle
esperienze cinematografiche di Steno e Salce avvalora questa tesi.
Descritti finora come un corpo unico, sarebbe un errore, però, credere che i tre registi
avessero uno stile quasi coincidente. La loro equiparazione vale fintanto che ci si
mantiene sulle linee generali: una loro eccentricità rispetto alla linea più frequentata della
commedia italiana, ma comunque una piena appartenenza al genere; la capacità di
esprimere sentimenti popolari ed il conseguente successo di pubblico; la stessa bravura
nel saper utilizzare, plasmare e talvolta creare gli attori; la stessa conoscenza
approfondita della tecnica cinematografica che consentiva loro un’utilizzazione lineare dei
materiali espressivi: il loro linguaggio è sempre molto semplice, ma certo non
convenzionale,
semplicemente
essenziale.
Le
uguaglianze
finiscono
qui.
La
loro
concezione del comico è profondamente diversa. Steno e Salce sono più attenti
all’osservazione sarcastica dei personaggi; Festa Campanile maggiormente interessato ad
uno scavo psicologico. Steno e Salce costruiscono le loro storie sui personaggi
protagonisti (e sugli attori che li interpretano) e sui loro comportamenti, sovente facendo
di un personaggio il mattatore assoluto del film; Festa Campanile costruisce trame a più
personaggi, intrecciando le storie a mosaico. Steno e Salce preferiscono infarcire la trama
del film di gag e macchiette, l’intreccio è spesso piuttosto labile, pretesto per mostrare i
comportamenti dei personaggi, lo sviluppo narrativo è lineare, una situazione si succede
all’altra; Festa Campanile costruisce intrecci di ferro, manipola la scansione dell’intreccio
su diversi piani narrativi e la sviluppa non linearmente, ma, frequentemente, per
contrappunto. Già a una prima analisi sono evidenti le differenze nella costruzione dei
film da parte di chi proviene dal mondo dello spettacolo e di chi, invece, da quello
letterario. Ma anche tra Steno e Salce c’è qualche differenza stilistica: il primo per
esempio è più attento all’organizzazione del meccanismo comico, alla tecnica di
costruzione di una gag; mentre il secondo privilegia l’analisi, la descrizione: i suoi film
sono quasi del tutto privi di spunti propriamente narrativi e quando ci sono non sono le
parti più felici.
10
Ma per essere più chiari e persuasivi bisognerà scendere nel dettaglio ed analizzare
approfonditamente il “corpus” dei tre registi, dedicando ad ognuno una parte del libro e
rintracciando,
all’interno
delle
rispettive
carriere,
le
coordinate
stilistiche.
11
PARTE PRIMA. STENO
Capitolo 1. Una vita dedicata alla comicità.
Il 19-1-1917 nasce a Roma, dal giornalista Alberto e Giulia Boggio, sposatisi due anni
prima in Argentina, Stefano Vanzina, che di lì a vent’anni sarà conosciuto, nel mondo
dello spettacolo, con il nome d’arte di Steno. Scrivere su Steno e di Steno comporta,
obbligatoriamente,
un
interrogativo
sul
perché
di
questo
pseudonimo,
usato
pervicacemente in cinquant’anni di carriera e mai lasciato, se non in un paio di
significative eccezioni. A una diretta domanda di chi scrive, sui motivi che portarono
Vanzina a camuffare la sua identità, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, stretto
collaboratore di Steno negli ultimi vent’anni di carriera, risponde facendo riferimento al
carattere
oggettivamente
schivo
e
pudico
dell’uomo,
che
ritiene
«una persona
eccezionalmente corretta: l’unico vero signore del nostro cinema». Nobilmente misurato
lo deve essere sempre stato, Steno, se per tutta la carriera ha evitato di mostrare il
proprio nome in un mondo esibizionista come il nostro: un evento unico nell’ambiente del
cinema, in cui i nomi dei grandi autori occupano nei cartelloni pubblicitari il massimo
dello spazio consentito, spesso ripetuti più volte.
Lo pseudonimo non ha sicuramente la funzione di mascherare imbarazzi: Steno era
fiero di quello che aveva compiuto in vita. Una fierezza mitigata da ironia, esplicita nella
frase che spesso ripeteva, rispondendo ai critici che lo contestavano, a volte
ferocemente: «L’unico progetto che non sono riuscito a realizzare è un film dalla
Recherche (sic) di Proust: lo dicono tutti»1.
Vanzina adoperò lo pseudonimo quando cominciò a scrivere sul Marc’Aurelio e,
soprattutto a disegnare vignette: è noto come i vignettisti preferiscano firmare i propri
lavori abbreviando il nome o utilizzando una sigla fittizia. E’ proprio quello che fece Steno
e il suo pseudonimo riecheggiava, tra l’altro, quello di un altro celebre umorista e
disegnatore, Sergio Tofano, che si firmava come Sto.
Come vignettista, Steno era un disegnatore dal tratto puntuto ed angolare (sul
modello del futurista Garretto): fu così, per sua stessa ammissione2, che esercitò le
prime
tecniche
di
costruzione
di
un’inquadratura. Famosa fu
la sua serie
sul
“Raccomandato di ferro”, in cui satireggiava il malcostume del mondo dello spettacolo e i
triti luoghi comuni delle conversazioni.
Ma ben presto, Vanzina comprese che la sua strada era un’altra e cominciò a scrivere
eleganti
1
articoli
umoristici.
La
sua
satira
era
mirata
verso
i
luoghi
comuni
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit. p.179
1
comportamentistici e culturali, intrisa di «battute fulminanti in uno stile caustico tipico di
un certo caffè letterario ormai scomparso nell’epoca delle hamburgherie»3 che ambiva
ad avvicinare l’ironia di Oscar Wilde. La frase puntava all’effetto comico
leggero, mai greve, tramite l’accostamento sintattico degli elementi più incongrui. Gli
articoli ebbero un notevole successo e, a meno di vent’anni, Steno era già uno degli
intellettuali più importanti del tempo.
Il suo ambiente erano i caffè letterari, quelli in cui si ritrovavano letterati borghesi
ostili alla
massificazione sociale, le cui discussioni volgevano sulla qualità della
produzione letteraria, con atteggiamenti snob, il cui distacco dalla quotidianità rasentava
il disprezzo; era il mondo dei Baldini, Pannunzio, Savinio, Longanesi, Marchesi, Flaiano,
Soldati, Freda. Lo spirito e la verve intellettuale del ragazzo erano apprezzati soprattutto
da Leo Longanesi, ma c’era un rapporto di grande stima anche con Zavattini. Se ne trova
conferma nel ritratto che lo stesso Longanesi diede di lui nel diario di guerra Parliamo
dell’elefante4, in cui l’intellettuale romano rievocò la sua fuga da Roma verso il meridione,
occupato dagli Alleati, accompagnato da Riccardo Freda, Enzo Fiermonte e Steno. La
figura di quest’ultimo è vispa, aggressiva: un intellettuale dalla lingua acuminata, ostile
alla cultura fascista e, particolarmente, allo “Strapaese” di Malaparte.
Nel Marc’Aurelio, Steno, nonostante la giovane età, aveva mansioni di vero e proprio
direttore culturale. Fu lui a dare fiducia nel febbraio del 1939 a un giovane giunto dalla
provincia romagnola fino a Roma, alla sede del giornale, in via Regina Elena (ora via
Barberini): Federico Fellini. E fu sempre il giovane umorista ad etichettare con disprezzo,
con la locuzione di “telefoni bianchi”, quella produzione comica italiana, artefatta e
spensierata, degli anni ’30 che, in un’ambientazione più asettica possibile, di norma in
Ungheria (nazione da cui proveniva la maggior parte delle commedie teatrali poi
trasposte in film), metteva in scena vicende intricate, schermaglie amorose, moralistiche
e correntemente prive di riferimenti politici e d’attualità, ornate da un dialogo elegante e
da lussuose scenografie, inadeguate, nel loro sfarzo, alle vicende piccolo-borghesi cui
facevano da sfondo: «I film italiani mi facevano schifo, i “telefoni bianchi” non mi
piacevano per niente, anche perché c’era quel senso autarchico, si doveva sempre
parlare dell’Ungheria, mai dell’Italia, e io non potevo accettare queste cose»5.
2
Steno dichiarò in un’intervista ad Angelo Olivieri: «Le battute non erano altro che progetti di
vignette. Il fatto di doverle visualizzare già era un’operazione cinematografica non
trascurabile.» (Angelo Olivieri, L’imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1984, p. 9)
3
Tullio Kezich, Cercare due, tre, molti Flaiano, in Steno, Sotto le stelle del ’44, Sellerio,
Palermo, 1994, p. 194
4
Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi, Milano, 1947. Su
questo argomento cfr. anche Mario Soldati, Fuga in Italia, Longanesi, Milano, 1947.
5
Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p.8
2
Quando nello stesso 1939, il regista Mario Mattoli convocò numerosi umoristi del
Marc’Aurelio e del Bertoldo (Metz, Marchesi, Guareschi, Mosca) e, tra essi, Steno, per
scrivere un film interamente costruito su gag, ottenne un risultato estraneo alla logica
corrente della produzione contemporanea. Imputato, alzatevi!, questo il titolo del film
che costituì il lancio cinematografico del comico Erminio Macario, era una storia dal
sapore surreale, in cui erano piuttosto evidenti anche gli accenni ad una satira politica
che costrinse gli sceneggiatori a spostare l’ambientazione in Francia.
Il successo della pellicola, ancora oggi molto valida – ha introdotto «un tipo
d’umorismo che sa unire una mimica alla Harry Langdon con un uso della parola che
gioca sui registri dell’assurdo e del surreale»6 ed è stato, come ricorda lo stesso Steno,
per la sua comicità stralunata, «il precursore di Hellzapoppin»7 di Henry C.Potter convinse Mattoli ad avvalersi stabilmente dell’aiuto di Steno come sceneggiatore.
A ventidue anni, Vanzina esordisce nell’industria cinematografica, manifestando un
interesse precoce: «Per me […] il cinema è sempre stata la passione numero uno. Sì,
facevo l’umorista ma in realtà volevo fare il cinema. Mi ero pure iscritto al centro
sperimentale – a diciassette anni, nda – e devo dire che sono stato uno dei primi cinefili
in Italia, il cineclub allora era uno spazio d’elite»8.
Durante i dieci anni della collaborazione con Mattoli , Steno si dedicò soprattutto
al genere comico: scrisse gag ancora per Macario ed ebbe l’occasione, scrivendo la
sceneggiatura de I due orfanelli (1947), di fare il secondo decisivo incontro della sua
carriera, quello con Totò, cui si legò, con indissolubile amicizia, fino alla morte dell’attore
napoletano. Le sceneggiature che scriveva, sovente con gli altri umoristi dei giornali
satirici (i più stretti collaboratori erano Vittorio Metz e Marcello Marchesi), erano molto
professionali: tentava la via di una comicità nostrana – con toni tra la farsa e la comica
finale – senza perdere di vista l’efficienza americana nella rifinitura del gag. Il livello delle
trovate non era sempre eccellente – la produzione avviatasi era sterminata e le cadute di
tono fisiologiche - ma cominciava a rivelarsi un gusto originalmente italiano per la
comicità tra il grottesco e il surreale. Tanto che l’apporto degli sceneggiatori provenienti
dal Marc’Aurelio può considerarsi decisivo per la nascita della commedia all’italiana, non
foss’altro per l’impegno e la professionalità che immisero nel settore.
Nel 1946, grazie al regista Riccardo Freda, Steno fece il terzo importante incontro
della sua vita: ad affiancarlo, per la stesura della sceneggiatura di Aquila nera, Freda
chiamò Mario Monicelli. Con lui Steno formò una coppia armonica di cineasti. Furono
sceneggiatori di film di successo – per Freda scrissero ancora Il cavaliere misterioso
6
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 2, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 262
Francesco Savio, Cinecittà anni ’30, Bulzoni, Roma, 1979, p.1062
8
Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p.7
7
3
(1948), dinamico film d’avventura, punto di partenza per un mai realizzato «progetto per
il rinnovamento del cinema italiano molto diverso da quello del neorealismo»9; per
Borghesio, Come persi la guerra (1947), un prototipo della commedia all’italiana che fece
rinascere
la
carriera
cinematografica
di
Macario
–
rappresentando,
afferma
lo
sceneggiatore Franco Solinas, «la nave scuola di mezzo
cinema italiano. Dovevano fare sette-otto sceneggiature all’anno, e si circondavano di
negri, ma con tutta chiarezza di rapporti, collaborando a certi film soprattutto comici.
Erano una specie d’industria, allora, di lavoro in serie»10.
Ma, soprattutto, come registi, trovarono una corrispondenza che rese possibile una
regia in coppia, ricevendo l’ammirazione di Mario Soldati: «Non è possibile fare un film in
due. Non è possibile. Steno e Monicelli ci sono riusciti, non so come abbiano fatto»11.
L’incontro dell’umorista romano, con la sua scettica ironia, e il cineasta toscano, con il
suo aggressivo sarcasmo, fornì un amalgama così perfetto da poter analizzare il corpus
dei film girati in coppia come se fossero firmati da un unico autore. Ad unirli c’era una
forte visione ironico-critica della realtà, non disgiunta da un interesse molto sentito per le
fasce sociali più deboli, osservate nei loro comportamenti particolari di piccola gente in
difficoltà, ma ricca di risorse e solidarietà. Quando i due esordirono alla regia nel 1949
con Al diavolo la celebrità, mostrarono una professionalità ed un’inventiva che
permetteva loro la frequentazione del neorealismo (Guardie e ladri, Vita da cani), del
cinema comico (Totò cerca casa, E’ arrivato il cavaliere) e di mostrare interesse verso il
grottesco di ispirazione letteraria (Totò e i re di Roma) e finanche il fantastico (Al diavolo
la celebrità).
Le carriere dei due cineasti si divisero nel 1952: per questioni contrattuali firmarono in
coppia ancora due film, Le infedeli e Totò le donne, ma in realtà si spartirono le regie:
Monicelli diresse Le infedeli e Steno fece l’esordio in prima persona con Totò e le donne,
dedicandosi subito alla produzione comica. La sua attività fu lucida ed appassionata: il
temperamento scettico gli permetteva di avere il giusto distacco dalla materia trattata,
così come l’autentico amore per il cinema gli consentì approcci originali a generi diversi.
Nell’opera
di
Steno,
si
possono
distinguere
quattro
periodi
differenti,
che
schematizzando , coincidono con i quattro decenni del secondo dopoguerra in cui fu
attivo il regista. Una periodizzazione che deriva soprattutto dall’attenzione
rivolta dal
regista verso le mode, i gusti e l’evoluzione sociale della popolazione italiana: ogni
mutamento di stile cinematografico coincide con un mutamento dello stile di vita
nazionale.
9
Stefano Della Casa, Riccardo Freda, Bulzoni, Roma, 1999, p. 32
Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, Roma,
1981, p.341
10
4
Il primo periodo, quello degli anni ’50, è caratterizzato da una precisa coerenza
stilistica, che potremmo definire realistica, tale da formare un blocco compatto di opere:
una predilezione per una comicità semplice, popolare, direttamente ispirata alla rivista ed
all’avanspettacolo12 . In questo periodo il regista si muove nell’ambito della produzione
comica, talvolta preannunciando una commedia all’italiana che, ufficialmente, ancora non
esiste (Un giorno in pretura, 1954), talaltra cercando nuove vie, su di un terreno
qualitativamente
letterario
(L’uomo,la
bestia
e
la
virtù,
1953)
o
tecnicamente
sperimentale, dirigendo il primo film a colori (Totò a colori, 1952). Concedendosi una
sola, parziale, eccezione: Le avventure e gli amori di Giacomo Casanova (1954), in cui
riprende un argomento già affrontato ne Il cavaliere misterioso di Freda, concedendo
all’attore Gabriele Ferzetti una scattante interpretazione giovanile ed ottenendo risultati
di buona eleganza figurativa e compositiva. Annullati dalle incredibili vicende censorie del
film13, che venne ritenuto scandaloso dall’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro
e tolto dalle sale cinematografiche. «Fu massacrato dalla censura democristiana»14 che lo
mutilò di scene e dialoghi (venne tagliata, tra le altre, una sequenza che mostrava il letto
di un adultera) e lo ripresentò in sala, dopo due anni, con un titolo diverso: Le avventure
di Giacomo Casanova.
Mio figlio Nerone (1956) rappresenta un fondamentale punto di non ritorno tra la
prima e la seconda parte della carriera di Steno. Esponente di un genere – il film storico
– molto praticato dalla nostra cinematografia ai tempi del muto (Cabiria, 1913, di
Pastrone, è l’esponente più famoso di una produzione molto estesa, che influenzò tutto il
cinema contemporaneo, ad iniziare dall’americano Griffith), ma, in tempi di neorealismo,
ormai abbandonato, Mio figlio Nerone illumina, nel particolare, una tendenza storica
generale. La superproduzione di Franco Cristaldi - che annovera la fotografia di Mario
Bava, il montaggio di Mario Serandrei, le scenografie di Piero Filippone e la
partecipazione di due dive straniere, rispettivamente all’inizio ed alla fine di una luminosa
carriera, Brigitte Bardot e Gloria Swanson – uscita nell’anno 1956, l’anno di maggiore
crisi del cinema italiano, partecipa della fine del cinema neorealista e costituisce il
prototipo di un fortunato genere popolare.
La conclusione del cinema neorealista avvenne contemporaneamente a livello autoriale
e popolare (anche il cinema popolare partecipò del neorealismo: il melodramma di
11
Francesco Savio, Cinecittà…, cit., p. 1036
Nel 1944 il regista aveva scritto con Renato Castellani una rivista satirica, Il suo cavallo, con
Paolo Stoppa, Sergio Tofano, Paola Borboni, Carlo Campanini e Vittorio Caprioli.
13
La persecuzione censoria del film di Steno è riportata ampiamente in Tatti Sanguineti,
Italiataglia, Transeuropa, Ancona, 1999
14
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini.Dizionario dei film 1999, Zanichelli, Bologna,
1998, p. 115
5
12
Matarazzo derivò «dal neorealismo la cura per la verisimiglianza ambientale»15). Nel
1957 usciranno I sogni nel cassetto di Renato Castellani, Il grido di Michelangelo
Antonioni, Le notti bianche di Luchino Visconti, Le notti di Cabiria di Federico Fellini, i
“film della crisi”, secondo una celebre e fortunata definizione di Renzo Renzi, che
consolidavano «la stagione di quello che sarebbe stato chiamato cinema d’autore»16.
Mentre il 1958 è l’anno delle Fatiche di Ercole di Piero Francisci che, decretando la fine
del melodramma matarazziano, inaugurò il genere mitologico, ottenne un incredibile
successo di pubblico e, secondo Mario Bava, «salvò il cinema italiano»17.
Anche nel cinema di Steno avviene la stessa frattura. Il blocco di film degli anni ‘60
comprende una nutrita serie di farse stilizzate: il realismo viene quasi completamente
prosciugato nell’attenzione esclusiva al funzionamento del puro meccanismo comico. Gli
intrecci di queste pellicole, avulsi da qualunque critica sociale, rispecchiano l’euforia
edonistica della popolazione italiana durante lo sviluppo economico: il pubblico voleva
divertirsi e non riflettere sui lati più oscuri del “boom” e Steno, che cerca il successo
commerciale, vi si adegua perfettamente.
Negli anni ’70, con La polizia ringrazia (1972), c’è una nuova svolta: una produzione
maggiormente attenta all’analisi sociale ed ai risvolti psicologici dei personaggi, in cui per
la prima volta Steno si dedica alla creazione di vere e proprie commedie all’italiana. Sono
gli anni del terrorismo e del dilagare della “piccola delinquenza” (quella dei furti, degli
scippi, degli omicidi accidentali): nel 1972 venne assassinato il commissario Calabresi,
nel 1974 avvenne la strage dell’Italicus, nel 1975 fu assassinto Pier Paolo Pasolini, nel
1978
venne
rapito
e
assassinato
dalle
Brigate
Rosse
Aldo
Moro,
nel
1980
un’organizzazione neofascista compì l’attentato alla stazione di Bologna.
Il maggior impegno sociale è comune a tutta la cinematografia italiana: un’eredità
delle istanze politiche del ’68 ed una reazione alla criminalità dilagante, come ricorda Lino
Miccichè:
Molti fra gli autori del cinema medio e medio-alto anni ’60 proseguono lungo le prime stagioni
degli anni ’70, praticando, sia nell’ambito della “commedia” che nel cosiddetto genere
“drammatico”, un vistoso rinnovamento contenutistico, con trame e personaggi impregnati di eco
problematiche civili, sociali, storiche, politiche: è il cosiddetto “cinema civile” (o, come qualcuno
scrisse, all’epoca, di “consumo impegnato”) che non a caso viene all’indomani del ’68, che non
sempre si limita a una semplice sostituzione degli ingredienti, che dà talora alta testimonianza delle
tensioni del momento. Abbiamo già trovato traccia del fenomeno nelle filmografie dell’epoca di
Dino Risi […] e perfino di Steno (La polizia ringrazia, 1972, firmato con il vero nome di Stefano
Vanzina, il migliore della trentina di film diretti da Steno dal ’70 in poi, e forse anche
dell’abbondante quarantina che li precede: e comunque, nonostante la esplicità ambiguità politicaideologica, un film notevole e molto sintomatico).18
15
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.556
Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Bari, 1994, p.108
17
AA.VV., La città del cinema, Napoleone, Roma, 1981, p.85
18
Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p. 346
18
Ivi, p. 349
16
6
[…] Da notare che questa tendenza fortemente politicizzata di molti film coincide, non
casualmente, con il periodo delle grandi stragi a matrice “nera” (complessivamente: 47 morti e 293
feriti), che si verificano nel paese tra il 1969 (12 dicembre: piazza Fontana) e il 1974 (4 agosto,
attentato al treno Italicus), costituendo dunque un dato oggettivo di positiva reazione democratica
(di fronte alle trame di “destra) del cinema italiano.19
Negli anni ’80, Steno ritorna ad una comicità di tipo disimpegnato, con una ripresa
letterale, addirittura, dei moduli narrativi dei precedentemente osteggiati “telefoni
bianchi”, inseriti in un ambiente molto provinciale: non è un caso che la società stia
vivendo un periodo di apparente felicità economica, simile a quello degli anni ’60.
Nella sua multiforme efficienza, il regista, trova in questi anni anche il tempo di
dedicarsi alla produzione televisiva: L’ombra nera del Vesuvio (1985) non ha alcun
proposito di sperimentazione linguistica, ma con una grande carica narrativa ed
ideologica: lo sceneggiato di Steno scatenerà un putiferio di polemiche ed una relativa
interrogazione parlamentare.
La professionalità sembra aprire a Steno una nuova fortunata stagione produttiva, ora
che il successo cinematografico sembra affievolito: un po’ quello che accadde al suo
amico Alessandro Blasetti che, settantenne, si dedicò alla televisione. Ma proprio mentre
sta lavorando ad un serial televisivo con Bud Spencer (Big man, in cui riprende il
prototipo di Piedone), il pomeriggio di sabato 12-3-1988 viene improvvisamente colto da
malore. Morirà per ictus cerebrale il mattino del giorno dopo.
Settantadue film, di cui sette diretti in collaborazione (sei con Monicelli ed uno con
Sergio Corbucci), almeno un centinaio di sceneggiature, due film televisivi, una serie di
sei telefilm sono il risultato dei suoi quasi cinquant’anni di attività. Scrivere di Steno e su
Steno equivale a scrivere sul cinema italiano: il suo apporto, sia su un livello
strettamente cinematografico (per la regia, la sceneggiatura e la critica iniziale sulle
pagine del Marc’Aurelio), sia su quello del costume, è stato importante nella storia della
nostra cultura novecentesca.
Eppure l’approccio della critica nei suoi confronti è ancora superficiale. La voce del
Dizionario universale del cinema dedicata a Steno, curata da Guido Di Falco, lo presenta
come un «regista del cinema di confezione e di consumo, di intonazione leggera, di sicura
professionalità [...] (dotato di) un umorismo facile e un poco plateale, privo di
raffinatezze e lontano da ogni doppiosenso o metafora»20. In questa analisi Guido Di
Falco ignora l’importanza de La polizia ringrazia – che tratta insieme agli altri film comici:
«(Steno) guarda ai nuovi attori emergenti – con Mariangela Melato gira La polizia
ringrazia (1972) e La poliziotta (1974) – porta alla ribalta Enrico Montesano e Renato
20
Guido Di Falco, Steno, in Fernaldo Di Gianmatteo, Nuovo Dizionario universale del cinema,
Editori Riuniti, Roma, 1996, p.1274
7
Pozzetto»21 – e sorvola perciò sul punto di rottura provocato da questo film nella carriera
del
21
regista.
Guido Di Falco, ibidem.
8
Capitolo 2. Una comicità solo apparentemente realistica
L’attività produttiva di Steno negli anni ’50 la possiamo ricondurre, come detto, ad un
tipo di commedia realistica chiaramente discendente dal neorealismo. Considerando che
«vi sono più poetiche e progetti che si muovono, per qualche tempo, entro lo stesso
campo significante»1, Gian Piero Brunetta tenta un riepilogo degli elementi costitutivi
della poetica neorealista:
1) Un tentativo di controllo materiale del film e di invenzione di tutte le condizioni produttive
[…] capace di rendere il più possibile diretta sia la scrittura cinematografuica che la
comunicazione tra opera e spettatore. Nel momento in cui vengono a mancare i processi di
finzione e di mediazione tra il lavoro della macchina da presa e la realtà, è la realtà stessa a
riaffermare potenzialmente il proprio potere sull’immagine.
2) Rientra nel campo visivo della macchina da presa tutto ciò che il fascismo aveva tentato di
occultare.
3) Sono promessi a soggetti centrali della narrazione personaggi e ambienti finora esclusi dalla
scena cinematografica.
4) Si rinuncia in parte alle regole della sintassi narrativa tradizionale e si lascia che la
narrazione per via di una drammaticità naturale, altamente probabile e verisimile, e d’altra
parte ci si richiama alla tradizione narrativa del romanzo ottocentesco, senza voler del tutto
recidere il cordone ombelicale con questa tradizione (“la trasgressione neorealista non
elimina completamente la norma, ma le si oppone all’interno di una coesistenza irrisolta”, è
stato giustamente osservato).
5) Si stabilisce una comunicazione diretta e interpersonale tra i protagonisti e il pubblico sia
descrivendo situazioni comuni, sia ricorrendo a moduli linguistici e gestuali iscritti nel più
corrente sistema di comunicazione.
6) Si ritrova un rapporto visivo con la realtà, di pieno rispetto per ambienti, cose e personaggi:
al centro della visione non ci sono più personaggi convenzionali, ma, in molti casi, sono le
stesse cose, gli ambienti tradizionalmente facenti parte dello sfondo, a essere promossi a
testimoni, protagonisti di storia, soggetti della narrazione. Non esiste più sfondo: tutto ciò
che entra nell’immagine è in grado di raccontare e di trasmettere una quantità di
informazioni impensabile nella produzione cinematografica precedente.
7) Ci si fa interpreti della nascita di un italiano nuovo, prodotto di molte contraddizioni, senza
verità o incertezze, che guarda al futuro in modo tutt’altro che sicuro, e che per il momento
ha saputo riscattarsi dalla sua adesione al fascismo attraverso la sofferenza della guerra.
8) Non si vuole, in fondo, offrire alcun messaggio troppo facile né servirsi del cinema per
saldare
immediatamente i conti col passato (solo in un secondo tempo si comincia ad
assoggettare il materiale visivo a un messaggio precostituito). […]2
Alle
caratteristiche
formali
del
neorealismo
s’ispirarono
anche
le
commedie,
nonostante talvolta l’ideologia che le sottintendeva fosse differente:
Sulle ceneri del neorealismo si sviluppò poco per volta la commedia di costume: tenendone
peraltro ben presenti certi insegnamenti: l’attenzione quasi morbosa alla realtà, l’uso del dialetto,
l’estrema disinvoltura nell’alternare e fondere comico e tragico, la capacità di sintetizzare in una
battuta o in una macchietta
un’intera situazione sociale. La commedia all’italiana non
rappresenterà un tradimento, ma un’evoluzione spettacolare del neorealismo; d’altronde se si
voleva educare il grande pubblico, bisognava educarlo coi film che andava a vedere, non con quelli
che non andava a vedere (quanti videro La terra trema o Umberto D.?). Ha ragione Marco Ferreri
quando afferma che «la commedia è il neorealismo riveduto e corretto per mandare la gente al
cinema».3
1
2
3
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., p. 345
Ivi, p. 365-6-7
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.22
1
L’umorismo e il neorealismo erano spesso combinati insieme, come ricorda Masolino
D’Amico:
[…] Il cinema italiano della rinascita […] conquistò una sua identità anche, e forse soprattutto,
grazie all’aver giocato fin dall’inizio la carta dell’umorismo; e di un umorismo aderente ai fatti, nato
dalla cronaca, in una parola, verosimile, molto diverso da quello “surreale”, stralunato, fantastico,
della commedia più o meno sentimentale “fascista”. Questo umorismo compare talvolta come
pietanza principale, e di rado manca almeno come contorno; ha grande importanza nell’economia
di tutti i migliori film neorealisti […]. Un minuto prima dell’immortale sequenza in cui le SS falciano
con una raffica di mitra Anna Magnani lanciata all’inseguimento della camionetta che si porta via il
suo uomo, il prete Aldo Fabrizi ha trasformato a fin di bene un malato scorbutico in finto moribondo
assestandogli una sonora padellata in testa: in altre parole c’è in Roma città aperta un passaggio
dal comico al tragico degno del teatro elisabettiano.4
Tutti i film girati da Steno tra il 1949 e il 1957 (cioè tra Totò cerca casa e Susanna
tutta panna) presentano queste caratteristiche: una disposizione narrativa non lineare (la
struttura più utilizzata dal regista è quella episodica, presente, tra gli altri, in Vita da
cani, Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Piccola posta), un uso frequente del
dialetto (soprattutto romanesco), e, innanzi tutto, un’attenzione molto pronunciata verso
gli ambienti popolari, anche
in
quelle
pellicole
che,
in potenza,
sembrerebbero
estranee al neorealismo. Un film come L’uomo, la bestia e la virtù (1953), ad esempio,
prende la farsa grottesca di Pirandello e, rifiutandone l’astrazione di un’ambientazione
non specificata, la inserisce in una cornice ambientale molto fisica, come quella della
costiera amalfitana, trasformando la parabola pirandelliana in una pochade popolaresca.
L’ambientazione di queste storie è frequentemente in esterni: non solo perché, in
questo modo, i costi di produzione si abbassavano, ma anche per poter cogliere con
maggior naturalezza gli accadimenti e le reazioni della realtà quotidiana. In mezzo allo
svolgimento di intrecci costruiti a tavolino, in queste opere entra improvvisamente la vita
reale: sta all’occhio del regista cogliere questi momenti e saperli amalgamare con la
finzione delle storie.
Si prenda ad esempio la sequenza forse più famosa di Guardie e ladri (1951):
l’inseguimento tra il ladro Totò e la guardia Aldo Fabrizi. La struttura di base è ancora
quella dell’avanspettacolo: il gioco a due tra Totò e Fabrizi è «modulato sui toni e sui
ritmi tradizionali della comicità rivistaiola»5, con tutti i duetti, i battibecchi, gli scambi di
battute del caso. La regia, però, fa emergere «un’attenzione maggiore del solito per i
personaggi. Lo sketch comico, cioè, rivela uno spessore inedito»6.
Prima di tutto i
personaggi in scena non sono due, ma quattro: a rincorrere il ladro ci sono anche il
tassista, ignaro complice, ed il derubato. I protagonisti sono presentati nella loro dimessa
quotidianità: il ladro è un delinquente di piccolo cabotaggio - uno spacciatore di monete
4
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., pp.36-7
Aldo Viganò, Commedia italiana…, cit., p. 43
6
Ibidem.
5
2
false, un "pataccaro”, come si dice a Roma e nel film: «con una recitazione semplice e al
tempo stesso piena di fantasia, Totò regge da maestro un personaggio triste, con gli abiti
lisi e la barba di tre giorni, un personaggio tipico delle cronache italiane e dei banconi di
pretura»7 - la guardia è un agente maturo e grasso, con sulle spalle un’anzianità di
servizio trentennale. E’ l’americano, tuttavia, l’elemento che
ci
porta in
pieno
neorealismo, sul piano narrativo e su quello spettacolare. Il personaggio, infatti, è una
grande personalità americana, giunta in Italia a portare sostentamenti (pacchi di viveri)
che allevieranno, temporaneamente, le tribolazioni del dopoguerra allo strato di
popolazione più indigente: un rappresentante di quell’ «umanità che ha poco lavoro ma
molta ostentazione di beneficenza»8. Ad interpretarlo è stato chiamato Bill Tubbs, uno dei
protagonisti, nelle vesti di un sacerdote protestante, dell’episodio “emiliano” di Paisà
(1947) di Rossellini.
La lunga fuga si svolge tutta “en plen air”: partiti dal centro di Roma, procedendo, i
tre si trovano a correre in aperta campagna. Lo stesso sguardo della regia, prima stretto
sui personaggi, ora si allarga in campi lunghi che permettono al paesaggio di entrare con
prepotenza nell’inquadratura: la strada sterrata e infangata, i campi brulli e soleggiati,
una fattoria, con un pozzo, un pollaio e un feroce cane da guardia. Non è
un’ambientazione oleografica, tutti gli elementi paesaggistici concorrono all’azione: sul
terreno scivoloso cade la goffa guardia, che deve anche difendersi dal cane, aizzato dal
ladro; il pozzo delimita il territorio, spartendo i raggi d’azione dei protagonisti.
Durante l’inseguimento, i quattro si imbattono in un gruppo di ragazzi che gioca a
pallone e si confondono con essi. L’inquadratura della partita di pallone è un’immagine
neorealista: i ragazzi, con i vestiti sudici e infangati, si rincorrono affannosamente, ma
con alacrità, inseguendo il pallone che rotola su un terreno fangoso, brullo, lontano dal
centro abitato. Ma non è un’inquadratura interlocutoria, fruibile come testimonianza del
realismo del racconto. La regia la inserisce nello sviluppo dell’azione: Fabrizi, intralciato
dai ragazzi che giocano e costituiscono un ostacolo inconsapevole, estrae il fischietto e
lancia un sibilo irritato, per richiamare all’ordine il ladro e i ragazzi che impediscono la
cattura del reprobo; i giocatori, ignari, hanno compreso tutt’altro: hanno confuso il
fischio della guardia con quello dell’arbitro e si chiedono, sorpresi, che infrazione è stata
commessa.
E’ il punto centrale della sequenza ed ha una sotterranea valenza metaforica: la
finzione (l’inseguimento) irrompe nella realtà (la partità) e se ne appropria. Tutti gli
7
Lamberto Sechi, La settimana Incom Illustrata, Milano, 23.12.1951, in Orio Caldiron,Totò,
Gremese, Roma, 1980, p.120
8
Corrado Alvaro, Il Mondo, IV, 1, Roma, 5.1.1952, in Orio Caldiron, Totò, cit., p.122
3
elementi
di
verità
presenti
in
Guardie
e
ladri,
pur
rilevanti,
sono
funzionali
all’organizzazione narrativa.
Volendo rendere più manifesta la differenza che corre tra neorealismo e commedia
all’italiana, la si può esemplificare con una formula: a rendere diversi i due generi è
l’opposto schema mentale che governa la visione degli autori. Mentre
i registi e gli
sceneggiatori neorealisti analizzano la realtà, quelli di commedie ne propongono una
sintesi. Più che ricorrendo a discorsi generici e astratti, il discorso sarà più chiaro con
esempi diretti e a tal proposito analizzeremo qualche film di Steno.
Un giorno in pretura è forse il caso più eclatante di superamento del neorealismo.
Girato tra il 1953 e il 1954, quando il genere è già entrato in crisi, sembra all’apparenza
rispettarne tutti i canoni. Già a partire dalla sequenza iniziale, che sembra giungere
direttamente da Ladri di biciclette: un giovane ruba una cassetta di frutta a due
scaricatori, viene inseguito, perde la refurtiva durante la fuga, ed infine è arrestato e
condotto in pretura. Gli stilemi sono quelli neorealisti: ambientazione in esterni,
scenografie e costumi molto poveri, utilizzo di un linguaggio gergale da parte dei
personaggi. C’è però qualche sfasatura: i movimenti della macchina da presa (d’ora in
poi mdp) sono solo apparentemente casuali, in realtà stanno “scrivendo”, stanno
organizzando gli elementi del racconto, liberi e casuali, seguendo uno schema
preordinato.
Il
movimento
della
cinepresa
è
sempre
lo
stesso:
si
parte
con
un’inquadratura fissa e si prosegue con una panoramica, verticale e orizzontale, che
scopre una nuova situazione e inserisce nuovi elementi del racconto. Fin dall’inizio: la
prima inquadratura – un paio di gambe maschili vestite di calzoni sdruciti – è seguita da
una panoramica verticale verso l’alto, che ci rivela come il padrone di quelle gambe sia
una persona povera, il cui sguardo corrucciato rivela intenzioni poco raccomandabili.
Un’altra panoramica, stavolta orizzontale, verso destra, mostra un furgoncino, pieno di
cassette di frutta e due uomini che le scaricano più in là, lasciando il resto
temporaneamente incustodito: lo sguardo del tizio era rivolto, dunque, verso le cassette
lasciate incustodite. Abbiamo appena il tempo di individuarlo come ladro, che il tizio,
fulmineamente, entra nell’inquadratura, prende una cassetta e fugge al galoppo,
inseguito dai due uomini che sono tornati in tempo per accorgersi del furto. Una nuova
panoramica orizzontale, stavolta verso sinistra, mostra l’inserimento nella fuga di due
carabinieri: c’è una colluttazione ed il ladro, che nel frattempo ha perso la cassetta,
riesce e fuggire verso il fiume. Ancora una panoramica a sinistra, che segue la direzione
della fuga, mostra però nuovi rinforzi a favore degli uomini di legge: il ladro è preso e
costretto all’immobilità. Un’altro movimento panoramico, prima verticale, poi orizzontale
verso destra, segna la fine della fuga ed il ritorno all’ordine, e scopre due testimoni della
vicenda: il più anziano dice all’altro che ora porteranno quel ladro in pretura. Il regista ha
4
organizzato visivamente la sequenza in modo circolare, utilizzando un montaggio
invisibile che ci fa credere di aver assistito ad un lungo piano-sequenza: la circolarità, col
suo percorso definito, è nemica della casualità. Una forte impronta stilizzatrice s’è
sovrimpressa sul materiale realistico. La fuga del ladro aveva una fine già prescritta,
doveva concludersi con un arresto per poter introdurre l'argomento del film: la
descrizione di un giorno in pretura.
I sospetti e i dubbi di stare assistendo ad un’opera che non sia più neorealista,
affacciatisi già dopo la prima sequenza, si fanno certezza subito dopo, all’apparire di una
didascalia esplicativa della posizione ideologica degli autori (Steno, Fulci, Continenza, in
sede di sceneggiatura) e del loro interesse per la cronaca spicciola:
Questo film è dedicato ai “soliti ignoti”, ai ladri di galline, e di portafogli alle fermate del tram, ai
loro difensori, ai cancellieri, ai litiganti in autobus e agli sfrattati. A tutti coloro che si sono trovati
un giorno come personaggi della quotidiana vicenda della piccola giustizia. Gli autori del film
ringraziano questi personaggi che molto spesso senza accorgersene, dalle colonne della piccola
cronaca dei giornali, hanno collaborato con loro.
L’alterità del film con il neorealismo è evidente. Gli intenti realistici sono ripiegati nella
ricerca di un quadro attendibile ma minimo della realtà: non c’è nessun proposito di
universalizzare le storie che s’intrecciano nella trama del racconto. La critica di allora
lanciò accuse di provincialismo e di qualunquismo, vi vide «le cause non secondarie del
processo di degrado irreversibile della lezione neorealista»9. Accusa senza fondamento: il
film evita qualsiasi denuncia generica sui mali dell’Italia contemporanea, non accenna ad
assumere toni di supponente paternalismo e, soprattutto, evita assolutamente di
giudicare; Un giorno in pretura racconta piccole storie, curiose ed interessanti per lo
spettatore, riuscendo a scorgere anche i minimi cambiamenti sociali:
Nell’affabulazione cinematografica di questi cantastorie e cantafavole il benessere con le sue
contraddizioni, i suoi costi in termini sociali e morali, hanno un ruolo primario. La compresenza di
difformità nei comportamenti, il mutare dei consumi, il rovesciamento delle regole, la perdità della
stabilità dei principi e degli ideali, il capovolgimento delle gerarchie meritocratiche e la rapida
obsolescenza dei modelli per la vita civile, si ripresentano in maniera ininterrotta e ossessiva:
«Deve dirigere – si dice in Un giorno in pretura del lavoro del pretore – venti cause al giorno per
settantamila lire al mese. Aveva un figlio che non voleva studiare; è diventato centravanti della
Lazio e guadagna 300.000 lire al mese, mentre lui sta per andare in pensione a 30.000 lire al
mese».10
In Un giorno in pretura Steno adopera la struttura narrativa della commedia ad episodi
intrecciati, ambientata in un unico luogo – in Italia c’era già stato l’esempio di Una
domenica d’agosto (1949, Emmer). Può così inserire nella struttura della storia episodi
veritieri ma stravaganti (come l’episodio dell’affamato che ruba e mangia gatti),
osservazioni di costume (l’onorevole illibato e represso) e toccare la farsa da
9
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p.148
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p. 49
10
5
avanspettacolo (il celebre episodio di Nando Moriconi). Fino ad operare una vera e
propria parodia del neorealismo, utilizzando il suddetto processo della “sintesi”,
nell’episodio del prete e della prostituta.
Il fondamento narrativo di questo episodio è eminentemente neorealista: la storia di
un prete che accompagna a Roma, dall’Italia settentrionale, un gruppo di boy-scouts.
Arrivato nella città, viene subito derubato di tutti i soldi della spedizione. Disperato,
poiché tra quei denari c’erano anche quelli dei ragazzi, rintraccia l’autrice del furto, che è
una prostituta,
a cui i soldi
servivano
per affrancarsi finalmente dal suo protettore.
Durante una lite, quest’ultimo ruba, a sua volta, alla ragazza quei soldi: al prete, che
ormai ha preso in simpatia la prostituta, non rimane che tentare di recuperare il bottino
sfidando il protettore a biliardo. Il progetto riesce, anche con l’intervento dei ragazzi, ma
ne nasce una rissa che porta il prete in prigione. Questo episodio di Un giorno in pretura
è cristallino: se ogni situazione narrativa è di per sé realistica, l’accostamento di tante
diverse situazioni provoca un invalidamento del senso reale. Le circonvoluzioni
dell’intreccio sono così tante, tra inseguimenti e colpi di scena, che la materia narrativa
sarebbe bastata per un lungometraggio: qui il regista la condensa in un episodio di una
decina di minuti, tenendo fede a quella che è una delle regole fondamentali del comico:
l’accelerazione narrativa. Steno cambia così di tono ad un intreccio melodrammatico
tipico di Raffello Matarazzo: il riferimento a questo regista non è affatto casuale, poiché
la struttura dei suoi melodrammi è simile a quella di quest’episodio e si pone anch’essa
come evoluzione del neorealismo.
Un giorno in pretura si allontana dal neorealismo soprattutto nella scelta e nella
direzione degli attori: gli interpreti sono tutti professionisti, non c’è il tentativo di
ricercare la verità anche nell’adesione fisica di un attore al personaggio. Anzi,
caratteristica di questo film e di tutti quelli di Steno è una presenza attoriale molto forte,
cui il regista si appoggia in modo decisivo per sostenere la storia. Gli interpreti principali
di Un giorno in pretura - Peppino De Filippo, Silvana Pampanini, Alberto Sordi, Walter
Chiari, Sophia Loren e Leopoldo Trieste – sono quanto di meglio si potesse trovare nel
cinema comico dell’epoca ed ognuno di loro riproduce, nel personaggio che interpreta,
una propria quantità di vezzi e di tic: se osserviamo attentamente il duetto tra Peppino
De Filippo ed Alberto Sordi, la sovrapposizione della personalità dei due attori sui
rispettivi personaggi di Salomone Lo Russo e Nando Moriconi è cosi prepotente da
precludere allo spettatore qualsiasi immedesimazione in una vicenda realistica. Il pretore
Lo Russo non è interpretato da Peppino: è Peppino, con la sua apparente docilità che
nasconde un carattere bizzoso e permaloso, sempre pronto a scattare in una battuta
fulminea; così come Moriconi è Sordi e l’idiozia ed insieme l’astuzia del personaggio sono
diretta espressione dell’aggressività dell’attore. Il risultato non è un resoconto veritiero di
6
un fatto reale, ma un gioco a due di botte e risposte, di tormentoni – i continui “Vostro
Onore” di Sordi, le piccate repliche di Peppino “io questo lo mando in galera” – in cui i
due attori non si calano nei rispettivi personaggi, ma sintetizzano, con la loro recitazione,
due tipi: il pretore è un uomo d’altri tempi, un “conservatore” saggio e dignitoso, leale e
di buoni sentimenti (a questo proposito Steno gli dedica un intero episodio, quello
dell’incontro con un vecchio mancato amore, Silvana Pampanini), offeso dalla mancanza
di educazione della nuova generazione; Moriconi è il bullo romano, esibizionista e
logorroico, aggiornato alle nuove mode esterofiliache e filoamericane: si vede come un
nostrano Tarzan e fa il bagno nudo nella Marrana, combattendo con un tronco d’albero,
mentre crede di essere nella giungla a lottare con i coccodrilli. E’ proprio nel lavoro sugli
attori che si nota la capacità del regista di sintetizzare, in una macchietta o in una
scenetta, un tipo o una situazione, che è poi la distanza maggiore dal neorealismo.
E’ evidente, in Un giorno in pretura, come gli elementi neorealistici siano puramente
formali: la narrazione policentrica, l’ambientazione periferica, il linguaggio dialettale. In
realtà queste modalità espressive sono unificate da una visione di scorcio, che come
detto, non cerca l’universalità, ma tende a far emergere le caratteristiche più salienti per
un’osservazione di costume: lo stesso uso del dialetto non avviene in funzione
descrittiva, ma espressionista. La lingua italiana
viene deformata, contaminata dal
dialetto e, nel caso di Sordi, anche da un inglese immaginario e assurdo – «Un drink ?
Come nel Kansas City!» è una delle sue battute.
Alla funzione della contaminazione linguistica tra l’italiano e l’inglese in alcuni film di
Steno, Gian Piero Brunetta ha dedicato queste considerazioni:
[…] Alberto Sordi, in Un giorno in pretura e in Un americano a Roma, mostra gli effetti di una
totale colonizzazione linguistica e culturale. L’americano di Sordi è, in verità, una sorta di
grammelot in cui ritorna, in forma di leit-motiv, un sintagma del tipo «Auanaghenà», che dovrebbe
servire a stabilre un’immediata comunicazione sia con gli italiani che con gli americani. Nando
Mericoni, figlio di un postino, rifiuta la sua nazionalità italiana e si dichiara «americaco di Kansas
City» e in arte, per le sue esibizioni di ballerino di tip-tap, si fa chiamare Santi Bailor (il Gene Kelly
italiano). Quando va alla «marrana» a nuotare al ritmo di Yankee Doodle Dandy lo stile che adotta
è il «cron». Altri suoi modi di parlare sono: «Hallo girls, con rispetto siete un macello», «Hallo
papy».
Il fenomeno dell’americanizzazione del ragazzo di Trastevere ha un ruolo molto importante nel
quadro che si è cercato di delineare. In una realtà frantumata dalla difesa delle autonomie
dialettali, e dove la rappresentazione delle classi popolari parlanti in italiano era dovuta ad un
compromesso produttivo e non certo a una di mimesi pertinente con la poetica generale del
neorealismo, il bisogno della lingua inglese, quasi superiore a quello della lingua nazionale, è un
segnale […] di raggiungimento dei propri obbiettivi nell’immaginario popolarre da parte della
cultura di massa americana. E non soltanto popolare: parodiando discorsi più sofisticati, Franca
Valeri, che costruisce i suoi personaggi osservandoli dal vivo e isolandone con molta efficacia i tic,
coniuga, in Piccola posta, coppie di sostantivi inglesi creando neoformazioni linguistiche: «A noi
donne intelletuali piacciono questi Brando-Type, questi Muscle-Boys». I nuovi comici […] fanno
emergere il parlato di nuovi soggetti sociali, inventando una lingua che mescola liberamente il
dialetto e le forme letterarie alte e interseca, in modo ostentato, i richiami alle metodologie
straniere.11
11
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, pp. 336-7
7
Se Un giorno in pretura rappresenta il passaggio dal neorealismo alla commedia, Totò
cerca casa (1949, diretto con Monicelli) ne rappresenta la parodia. Correntemente
quest’ultimo film viene accostato al neorealismo12, anzi è definito un esemplare di
neorealismo comico: il motivo è dovuto alla situazione narrativa di partenza, esplicitata
già nel titolo, tipica nel secondo dopoguerra, in epoca di crisi degli alloggi. In realtà la
rappresentazione realistica si ferma alle situazioni di partenza: Totò va ad abitare, con la
sua famiglia, in un’aula scolastica, in un cimitero, nello studio di un pittore, al Colosseo,
in un appartamento affittato a più persone ed, infine, al manicomio. Ogni episodio, però,
è in seguito sviluppato con una progressione comica scatenata e surreale, assolutamente
irridente nei confronti del neorealismo: il modello sono le farse slapstick alla Mack
Sennett, come dimostra la lunga corsa finale di Totò nell’automobile che non può frenare.
E’ una comicità che si avvale addirittura dell’uso di allusioni indirette e metafore:
l’intenzione dei due registi è satirica ed intende colpire la burocrazia e il regresso
compiuto dalle forze politiche uscite vittoriose dal dopoguerra, le cui promesse di
“rinascita nazionale” sono ridotte ad un mero esercizio retorico, ad un gioco di parole
vacuo, pomposo, retorico, perbenista e polveroso. Ad evidenziare questi intenti ed a
punteggiare tutti gli episodi, intervengono, così, tutti gli scontri di Totò con il sindaco,
fino alla sublimazione finale in cui Totò, alla guida di un’automobile senza controllo,
distrugge il monumento alla ricostruzione appena presentato dal sindaco.
Il sarcasmo, a volte così aggressivo del film (in una sequenza Totò, stordito
dall’alienazione del lavoro d’ufficio, timbra il fondoschiena al sindaco), testimonia la
diretta discendenza del film dall’umorismo del Marc’Aurelio: «una cifra comica che voleva
sfruttare umoristicamente certi atteggiamenti e peculiarità, come i poveracci, i panni
sporchi, i cessi, che così facendo il neorealismo offriva su un piatto d’argento a dei satirici
per natura pronti a saltare su qualsiasi cosa, figuriamoci su quelle lì»13. Dal giornale
umoristico, non a caso, oltre a Steno, provenivano anche gli altri sceneggiatori di Totò
cerca casa, Age e Scarpelli.
La fonte più diretta del film di Steno e Monicelli è una serie di vignette, intitolata “La
famiglia Sfollatini”, disegnata da Attalo sulle pagine del Marc’Aurelio e volta proprio a
satireggiare gli schemi formali neorealistici. I registi non riprendono soltanto il tema,
dalle vignette di Attalo, ma la stessa costruzione formale: ricreano le strisce a fumetti,
stipando fino all’inverosimile l’inquadratura di oggetti dimessi, poveri, di uso quotidiano.
Una scenografia che non ha la funzione di sfondo, ma è la protagonista drammaturgica
delle immagini: l’arredamento gotico-macabro che turba la pace di Totò nella sua casa
12
13
Cfr. Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 43
Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p. 16
8
accanto al
cimitero (lo scheletro come
lampadario, il
quadro fosco
del
turpe
predecessore, l’orologio a cucù, con il gufo al posto del cuculo); la scarpa che il figlio di
Totò trasforma in barchetta; il quadro, nello studio del pittore, che, spolverato, si rivela
uno specchio e svela la tresca di sua figlia con il fidanzato; le valigie che si moltiplicano e
scompaiono alternativamente, provocando al
protagonista accuse di visionarietà.
Un’ambientazione che supera il realismo per approdare al fantastico, a quella zona di
non-detto che consente a Totò cerca casa di superare l’occasione parodistica ed
approdare al genere comico tout-court.
La sostanza di quest’opera, dietro la brillantezza comica, è soprattutto politica: non
intesa come schieramento a favore di una o l’altra delle contrapposte fazioni ideologiche,
ma come sguardo attento al vivere civile. Un’ affermazione che vale per tutti i film di
Steno del periodo: sono presenti, negli intrecci di queste storie, molti personaggi politici
ufficiali ed onorevoli, ed ogni volta dimostrano il loro perbenismo morale, l’intendere il
proprio posto di potere come posizione privilegiata e prestigiosa da mantenere, anche se
la loro autorità è del tutto relativa: l’onorevole Borgiani, in Un americano a Roma,
svegliato a tarda notte da Nando Moriconi che vuole parlare con la sua fidanzata,
cameriera in casa dell’onorevole, mentre questo protesta che la mattina dopo deve
partecipare ad un’importante seduta ed ha bisogno di dormire; il figlio dell’onorevole di
Un giorno in pretura, così gretto nel suo moralismo da essere lasciato dalla propria
fidanzata; il celebre onorevole Cosimo Trombetta di Totò a colori, distrutto nella sua
dignità da Totò.
Questi politici sono costretti a subire l’atteggiamento ostile dei protagonisti: il loro
falso perbenismo, la loro ipocrisia, la loro distanza dal vivere comune sono dilaniati dalla
violenta vis comica di attori come Totò e Sordi, accaniti e funambolici antagonisti
dell’ordine costituito. L’anarchia del comportamento è una caratteristica congenita del
comico. Tuttavia è avallata dalla posizione ideologica di Steno, che «appartiene
irrimediabilmente alla “congregazione degli apoti” di prezzoliniana memoria, cioè
all’esigua schiera di “coloro che non la bevono”»14. Per questo motivo, il regista ebbe
problemi durante il fascismo:
Sul Marc’Aurelio una volta scrissi di Luigi Freddi (numero uno del cinema fascista) “Ipse dixit”,
più o meno quello che dice Freddi è legge, ironicamente. Lui se la legò al dito in maniera tremenda.
Una mattina, quando abitavo in via del Vicario con Marchesi, vidi entrare Blasetti col suo pelliccione
e i suoi stivali che mi disse: «Ma che hai fatto a Freddi? Ieri sera mi ha detto certe cose sul tuo
conto». A Freddi dava fastidio questo ragazzino che rompeva le balle sul cinema […].15
14
16
Tullio Kezich, Creare due, tre…., cit., p.195
Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p. 8
9
Il sarcasmo politico di questi film è una differenza profonda di queste opere dal coevo
neorealismo, in cui i registi avevano un approccio alla realtà entusiasta ed ottimista (era
il caso soprattutto di Zavattini), sicuri di poterla conoscere per poi cambiarla.
In realtà non sono molti i film di Steno del periodo che si avvicinano ad una commedia
realistica: forse solo Vita da cani, Guardie e ladri e Un giorno in pretura. Quelle di Steno
sono commedie comiche che utilizzano elementi formali del neorealismo, della commedia
e della farsa e li impastano in un genere estraneo ai canoni restrittivi dei generi. Nelle
sue opere c’è l’osservazione di costume, ma manca, tranne nei casi sopra citati, rispetto
alla commedia all’italiana, la commistione di elementi comici e drammatici, la presenza di
momenti
narrativi
che
possano essere
sviluppati, drammaturgicamente, secondo
un’ottica indifferentemente comica o drammatica. Nelle sue opere c’è una struttura
narrativa policentrica, ma a differenza del neorealismo, l’organizzazione dell’intreccio è
tutt’altro che libera: il racconto è costruito in modo da possedere un alto grado di
esemplarità. I suoi film hanno una struttura episodica poiché ambiscono ad avere la
funzione di quadri di costume: molte opere di questo periodo (Un giorno in pretura, Un
americano a Roma, Totò e le donne, Piccola posta) hanno un prologo esemplificativo.
In queste pellicole all’attore comico mattatore (soprattutto Totò e Sordi, in questo
periodo) sono affidati personaggi che sono astrazioni satiriche, privi di progressione
psicologica, lenti di ingrandimento attraverso cui criticare la rinascita italiana (Totò cerca
casa), la burocrazia (Totò e i re di Roma), le donne (Totò e le donne), l’americanismo
(Un americano a Roma). E’ il maggior punto di contatto che questi film hanno con la
farsa.
Non sono elementi presenti occasionalmente o separatamente nelle opere di questo
periodo: sono ingredienti perfettamente uniti e amalgamati fra loro a formare uno stile
coerente. Uno stile che Steno usa anche per girare storie apparentemente estranee ad
una logica realista, come la rievocazione ironica e affettuosa del cinema muto di Cinema
d’altri tempi (1953) o la parodia storica di Mio figlio Nerone (1956). Troveremo anche qui
una struttura narrativa complessa che intreccia diverse storie, linguaggio gergale (in
Cinema d’altri tempi c’è un curioso linguaggio maccheronico che rivela la presenza degli
sceneggiatori Age e Scarpelli), forte presenza attoriale (in Mio figlio Nerone, accanto ad
Alberto Sordi e Vittorio De Sica, ci sono addirittura Gloria Swanson e Brigitte Bardot),
attenzione all’ambientazione (in Cinema d’altri tempi, Steno ricostruisce filologicamente
antichi modelli cinematografici muti, come la comica e il melodramma strappalacrime; in
Mio figlio Nerone, approfittando della superproduzione di Cristaldi, c’è un’accurata
ricostruzione
scenografica
dell’epoca
romana).
10
Capitolo 3. La stilizzazione comica degli anni ’60 e ’80
Suddividendo in fasce temporali l’estensione cronologica della carriera di Steno,
noteremo come la media della sua produzione sia uniforme: circa diciotto film diretti in
ognuno dei quattro decenni interessati (gli anni ’50,’60,’70 e ’80). Un’analisi più
approfondita, tuttavia, ci pone di fronte ad un evidente dato di fatto: l’operosità del
regista trova il punto massimo di concentrazione nel decennio ‘57-’67, in cui Steno
realizza ventisei lungometraggi; e, in questo periodo, è nel 1959 che appaiono ben
quattro pellicole (Totò, Eva e il pennello proibito, I tartassati, Tempi duri per i vampiri e
Un
militare
e
mezzo).
Nel
quadriennio
‘68-’71,
però,
il
regista
gira
solo
un
lungometraggio (Il trapianto, 1969) ed un episodio (Il mostro della domenica) per un film
collettivo (Capriccio all’italiana, 1968). Allo stesso modo, il ritmo calmo e tranquillo degli
anni ’70 (due film l’anno, ogni anno), s’increspa all’inizio degli anni ’80: un’accelerazione
(tre film nel 1982: Sballato, gasato, completamente fuso, Banana Joe, Dio li fa poi li
accoppia) e poi una brusca frenata dopo il 1984, quando Steno si rivolge alla televisione
e per il suo ultimo film – Animali metropolitani, 1987 – ha grossi problemi distributivi.
I periodi in cui la stilizzazione comica si fa più accentuata sono già preventivabili
scorrendo la filmografia del regista. Più l’attività si intensifica, maggiore è il ricorso, da
parte del regista, nel mettere in scena le proprie opere, ad artifici comici usuali, ad effetti
schematici; minori sono le notazioni personali. I film degli anni '60 e ’80, sono come
scarnificati:
le
personalità
dei
protagonisti
sono
schematiche,
il
realismo
delle
ambientazioni è solo illusorio, le situazioni del racconto hanno, talvolta, un parossismo
che tocca l’assurdo. L’interesse del regista è rivolto al funzionamento del dispositivo
comico. La geometria delle entrate e delle uscite dei personaggi, dei loro movimenti per
raggiungere un sicuro effetto comico, è calcolata capillarmente, tanto che il critico Tullio
Kezich scrisse: «Aveva un metronomo in testa, non sbagliava un effetto, sapeva sempre
quello che si doveva fare: a tavolino, sul set e in moviola»1. In una sequenza di Totò, Eva
e il pennello proibito, una parete girevole, in un locale d’appuntamenti galanti, scandisce
con i suoi ribaltamenti, la rappresentazione di due tradimenti amorosi contemporanei, ma
opposti di segno: attarverso i movimenti della parete, l’uno non viene perpetrato e l’altro
non viene scoperto. La scansione geometrica degli effetti comici prevale sugli altri
elementi della struttura narrativa .
Susanna tutta panna (1957) rappresenta quasi didascalicamente il passaggio da una
comicità realistica ad una più stilizzata. La pellicola nasce occasionalmente per sfruttare il
successo ottenuto da Marisa Allasio in Poveri ma belli (1956, Risi); una giovane attrice
che viene descritta da Masolino D’Amico come:
1
Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988
1
[...] una spiritosa venere tascabile dalle forme dilatate fino alla parodia, con occhi vispi, sorriso
allegro e soprattutto un lunghissimo collo che salvandolo dal ridicolo, in qualche modo conferiva
eleganza al suo fisico altrimenti quasi assurdo.2
[...] sapeva prendere in giro il proprio fisico pneumatico e volgere in riso la torva sensualità che
retrospettivamente sembra aver dominato quei tempi frustrati dalla morale vigente; in questo
risultando più moderna e simpatica della sua contemporanea Brigitte Bardot.3
Il lavoro che gli sceneggiatori Metz e Marchesi e il regista Steno compiono in Susanna
tutta panna è proprio quello di evidenziare la fisicità brillante e spensierata che emana il
corpo della Allasio con frequenti piani medi descrittivi che presentano
l’attrice nei suoi
vestiti succinti, tolti facilmente con qualche pretesto (è vittima di un’aggressione, si
confonde tra gli attori di una messinscena teatrale).
La fisicità prepotente di Marisa Allasio non è inserita, come in Poveri ma belli, «sul
realistico sfondo di una società che cambia, trascinando con sé anche nuove forme di
comportamento, e con in primo piano l’esuberante vitalità di una gioventù alla
inconsapevole ricerca di un proprio ruolo esistenziale»4.
La struttura narrativa di Susanna tutta panna è riconducibile a quella di un vaudeville
senza musiche, anche se non ancora una pochade: il referente cinematografico pù
prossimo al film di Steno è Il milione di René Clair.
Del vaudeville conserva «il suo procedimento di fondo, quell’”effetto cascata” o “palla
di neve”, come lo definisce Bergson nel saggio Il riso5, che funziona come elemento
unificante delle varie azioni e situazioni che si sviluppano nel racconto»6.
Susanna tutta panna adopera il procedimento a “palla di neve” sia nella sua struttura
generale, sia nell’organizzazione narrativa dei singoli episodi.
Il
tempo
della
narrazione,
chiuso
in
una
giornata,
è
scandito
dalle
tappe
dell’inseguimento affannoso, per le strade di Milano, da parte di Susanna e del suo
avversario Arturo della ricetta segreta di una torta, finita casualmente in una serie di
dolci già spediti agli ignari destinatari: un marito vessato dalla moglie e dal cognato, un
amante spagnolo di mezz’età, una famiglia di barboni arricchiti, una banda di ladri, una
compagnia teatrale.
La stessa corrispondenza del procedimento si ritrova, per esempio, nell’episodio della
compagnia teatrale che mette in scena l’Amleto, dove l’inseguimento alla torta
2
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 86
Ivi, p. 105
4
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.66
5
L’effetto “palla di neve” per Bergson è «un effetto che si propaghi aggiungendosi a sé stesso, di
modo che la causa, insignificante all’origine, raggiunge per un progresso necessario un risultato
tanto più importante quanto inatteso. […] Ecco per esempio un visitatore che entra
precipitosamente in un salotto: urta una signora, che rovescia la sua tazza di tè su un vecchio
signore, il quale scivola contro il vetro, che cade nella strada sulla testa di un agente, il quale
mette in movimento la polizia,ecc.» (Henri Bergson, Il riso, Rizzoli, Milano, 1991, p. 83)
6
Giovanna Grignaffini, René Clair, Il castoro cinema, Firenze, 1995, p. 54
2
3
interferisce con le liti tra i tre attori, gelosi dei rispettivi meriti: Susanna fugge con la
torta passando sul palcoscenico, si scontra con Arturo che le prende la torta e torna in
scena, il dolce gli cade in terra, lo prende Massimo che interpreta Amleto e ordina ad un
paggio di portarlo a Gianluca che, in scena, interpreta Laerte, Gianluca si vendica
sostituendo il teschio di Yorick con la torta e Massimo, allibito dal ritrovamento è
costretto a modificare il proprio monologo:
Forse non è uno scherzo, ma una parola...Una parola che Yorick mi invia dall’aldilà per farmi
comprendere che la morte è dolce. Dolce come questa torta, Susanna tutta panna, conosciuta in
tutta Milano. Credi tu che Alessandro il grande avesse quest’aspetto sottoterra?...Alessandro tornò
alla polvere. La polvere è terra. La terra produce l’erbetta. L’erbetta viene mangiata dalle mucche.
Le mucche producono il latte. Il latte si trasforma in panna. Per questo Alessandro si è trasformato
in panna.
Anche il disegno dei personaggi richiama le modalità del vaudeville:
Di ogni personaggio emerge e permane nel corso del film il gesto in cui è stato fissato all’inizio;
di ogni carattere emerge e permane nel corso del film il gesto o l’atteggiamento in cui è stato
fissato all’inizio; di ogni carattere emerge e permane il tic o la deformazione in grado, sostituendo
alla flessibilità viva della persona la rigidità meccanica della marionetta. Sono tante istantanee
ripetute infinite volte nel film, sottratte alla vita e al movimento che dava loro spessore e
riconsegnateci puntualmente nell’immobilità di un gesto, nello schematismo di una maschera.7
Tutti i personaggi di Susanna tutta panna sono unidimensionali, dotati di una
caratteristica saliente che ne ispira il comprortamento e li spinge all’azione. Nella
compagnia teatrale, i tre attori sono spinti all’azione dalla gelosia professionale; e tra
loro, Rossella, rivela anche una predisposizione alla volgarità nascosta dietro modi leziosi
(«Ringrazia Dio che so’ ‘na signora, l’animaccia tua!»). Sono caratterizzazioni che
rientrano in una rappresentazione schematica del mondo dello spettacolo, in cui i
comportamenti sono eccessivi, leggermente isterici (nella compagnia teatrale c’è anche
un regista, interpretato da Francesco Mulè, in preda a continue crisi di nervi) e talvolta
visionari: come il critico (interpretato da Lucio Fulci) che scambia una rappresentazione
fallita per una messinscena d’avanguardia.
Nel disegno dei personaggi, Steno inserisce nei meccanismi del vaudeville i moduli del
realismo quotidiano, rappresentando alcuni stereotipi regionali facilmente riconoscibili da
parte del pubblico: il milanese operoso, loquace e petulante; il napoletano disincantato e
rassegnato, il siciliano geloso. Sono macchiette che acquistano spessore grazie alla
recitazione degli attori e ad una regia che riesce visualizzarne le caratteristiche, come
accade per il personaggio di Romoletto (Nino Manfredi), la cui personalità è definita fin
dalla prima apparizione. E’ il terzo membro di una banda di ladri che vorrebbe rapinare
una gioielleria ispirandosi a Rififi (1955) di Dassin; Steno sottolinea la sua estraneità al
gruppo con una differente disposizione del personaggio nel piano dell’inquadratura:
7
Giovanna Grignaffini, René…, cit., p.55
3
Piano medio.
Interno di un appartamento. Due uomini, uno più vicino all’obiettivo (Gianni Bonagura), l’altro
dietro di lui Tao (Paolo Ferrari), accanto ad una finestra con la tapparella abbassata. Il primo ladro
guarda l’orologio.
Ladro: - Sabato, ore 17.45. Tutto procede secondo i piani. Il gioielliere è partito adesso per i
laghi.
Il fioraio ?
Tao: - Ha chiuso alle 17.05.
Ladro: - Il lattaio ?
Tao: - Parte adesso per l’ultimo giro.
Ladro: - La vecchietta ?
Tao: - La vecchietta ?
Dietro ad essi, piegato verso la finestra e nascosto finora da Tao, c’è Romoletto. Si alza e si
volta verso i due.
Romoletto: - La vecchietta...la vecchietta non s’è vista, forse starà male poveretta.
Tao e il complice, all’unisono: - Allora, tranne la vecchietta, tutto procede come in Rififi.
Come il disegno dei personaggi, anche l’ambientazione è funzionale all’azione.
Susanna tutta panna è
ambientato a Milano, ma la vicenda si
svolge
quasi
completamente in interni, con rari accenni ad una realtà sociale riconoscibile: una grossa
impresa dolciaria, di proprietà del comm. Botta (il cui cognome adombra il riferimento
alla ditta dolciaria della Motta), è la rivale della famiglia di artigianali pasticceri. L’unica
sequenza realistica ha una funzione parodistica ed una valenza satirica.
In una baraccopoli di periferia vivono tre barboni di diverse generazioni (nonno, padre,
figlio) che, elemosinando, sono diventati milionari (hanno il forno a gas, il frigorifero, la
televisione, soldi nascosti in posti impensati), ma continuano a fingersi poveri perché,
come afferma il figlio (Memmo Carotenuto): «Più siamo poveri e più siamo ricchi». I
poveri hanno diritto ad elargizioni, aiuti, elemosine; i ricchi invece sono aiutati da
nessuno, anzi sono loro a dover aiutare i poveri: «La miseria organizzata è un’industria».
In questa sequenza Steno lavora sul tempo dell’azione - grazie al montaggio che
alterna pause e momenti parossistici – e combina l’ambientazione realistica con i moduli
del vaudeville: la costruzione delle gag segue il principio della “palla di neve”. All’esterno
della baracca una donna anziana pettina una donna più giovane che pettina una
bambina; quando i barboni sono scoperti dalla polizia tributaria, rivelano la propria
identità con un rapido movimento di propagazione (da una chitarra escono pacchi di
banconote, il nonno finto cieco vede istantaneamente, il pollo nel forno si brucia) che li
costringe ad esclamare: «Miracolo a Milano!».
Susanna tutta panna esibisce molti riferimenti cinematografici. Steno scherza con i
generi, fa la parodia del neorealismo e del poliziesco. Nell’episodio della rapina alla
gioielleria il regista impernia le gag giocando sul doppio significato che assume ogni gesto
dei protagonisti, tangibile e, contemporaneamente, parodistico: l’effetto comico nasce dal
riconoscimento delle situazioni classiche del poliziesco e dall’osservzione delle reazioni
inadeguate dei protagonisti rispetto ad esse.
4
Legata e imbavagliata dai tre ladri, Susanna, per liberarsi, si finge una donna fatale
(come in un “noir” americano) e seduce Romoletto, promettendogli di fuggire con lui,
dopo la conquista del bottino: il dialogo tra i due è composto da citazioni dei titoli di altri
film “noir” (“Gioventù bruciata”, “Gioventù ribelle”, “Siamo tutti assassini”, “Grisbi”). Allo
stesso modo, la rapina è descritta dettagliatamente, ma ogni dettaglio è rivoltato in
farsa: la panna, che dovrebbe neutralizzare l’allarme, è spruzzata da Tao sul volto di
Romoletto; la mano di quest’ultimo, inserita all’interno della cassaforte per aprirla, è
schiacciata dalla manopola che dovrebbe manomettere; infine, il tanto sospirato bottino
non c’è: al suo posto un beffardo biglietto - «Avete visto Rififi? L’ho visto anch’io. E i
gioielli la sera me li porto a casa mia» - che chiude circolarmente l’episodio e consente
l’affermazione di Romoletto che sigilla il tono parodistico: «Diavolacci, stasera ve ce porto
io a vede’ un film: Bernadette, al cinema della parrocchia».
In Susanna tutta panna, Steno evidenzia come Marisa Allasio sia l’oggetto del
desiderio nella finzione, così come nella realtà mentale dello spettatore. E gioca su
questo doppio binario per tutta la durata dell’intreccio, confondendo le piste narrative: la
torta si chiama Susanna come la protagonista e la locuzione “tutta panna” è riferibile,
allora, ad ambedue; per i suoi reiterati inseguimenti, la ragazza utilizza un taxi, nel cui
interno
si
cambia
frequentemente
d’abito,
mostrando
le
sue
generose
forme
all’imbarazzatissimo ed eccitato tassista, che rischia più volte l’incidente per osservarla:
l’analogia tassista-spettatore è molto evidente (la regia assume il suo punto di vista);
l’uso dello specchio retrovisore da parte del tassista, per spiare Susanna, raddoppia la
valenza voyeuristica della sequenza; narrativamente, è il personaggio di Susanna, con le
azioni, ma anche con la sola presenza a produrre una trasformazione8 della realtà,
svelandonde la doppia natura,
rivelando le ipocrisie della quotidianità: dopo ogni suo
passaggio, niente sarà più come prima (l’intervento durante la rappresentazione teatrale
rivela le sotterranee gelosie della compagnia).
D’altronde, Steno rivela subito la natura metafilmica dell’operazione, già dalla prima
sequenza: da una visione notturna di Milano, con una lunghissima carrellata, la regia ci
conduce nell’appartamento di Susanna, proprio mentre questa si sta facendo un bagno;
la ragazza sembra scandalizzata e si rivolge scocciata, ma anche un po’ maliziosa, alla
regia per farla allontanare; la mdp la segue, invece, passo passo, ostacolata dall’attrice,
che le pone mille intralci sul suo cammino: sugli ostacoli che, progressivamente, ci si
pongono davanti, leggiamo i titoli di testa. L’analogia spettatore cinematografico-voyeur
è chiara e ben evidenziata è l’invadenza del suo sguardo. Per realizzarla, Steno profonde
8
Una «connessione fitta degli accadimenti produce inevitabilmente, anche a partire dalla più
insignificante delle azioni, un cambiamento di scenario, una modifica della situazione di
5
numerose soluzioni azzardate:
ogni
segno
ha
quantomeno
tre
significati
( gli
sguardi in macchina dell’attrice rimandano alla finzione narrativa e, nello stesso tempo,
sono rivolti direttamente alla regia ed allo spettatore)9, i titoli di testa sono integrati nel
corpo del film (come nel recente, 1991, Delicatessen, di Jeunet e Caro) , c’è una
dichiarazione esplicita degli intenti degli autori e delle aspettative degli spettatori
(mostrare il corpo della Allasio).
La molteplicità dei piani del film (narrativo, parodistico, metafilmico) non ha stimolato
nessun interesse critico: come molti film di Steno, Susanna tutta panna è stato ignorato,
allora («Il film non è gran cosa, anche se non manca di discrete risorse comiche»10)
come oggi («un film a episodi mimetizzato di desolante fasullagine con bravi
caratteristi»11).
La stilizzazione narrativa caratterizza, tranne un’eccezione (I tartassati, 1959), la
produzione comica successiva a Susanna tutta panna, fino al 1971. Disinteressandosi
degli aspetti realistici del racconto, il regista contamina generi differenti, sotto il segno
della comicità; l’azione è talmente astratta da permettere incontrollati “excursus” spaziotemporali:
i
protagonisti
possono
essere
borsaneristi
impegnati
(più
o
meno
volontariamente) nella resistenza antinazista (Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in A
noi…piace freddo, 1960); personaggi incongrui in un west rielaborato grottescamente
(Walter Chiari e Raimondo Vianello in Gli eroi del West, e I gemelli del Texas, entrambi
del 1964); uomini comuni fantascientificamente proiettati sulla Luna (Totò e Ugo
Tognazzi in Totò nella Luna, 1958); soddisfatti protagonisti di esotiche avventure (Sylva
Koscina, Paolo Ferrari e Walter Chiari in Copacabana Palace, 1962).
Gli elementi costitutivi sono ancora quelli del vaudeville (direttamente riproposto in La
ragazza di mille mesi, 1960, tratto da Le rayon de jouets di Jacques Deval): un ritmo
forsennato e matematico, travestimenti (anche in abiti muliebri, come in A noi…piace
freddo), scambi di persona, equivoci sentimentali e sessuali, personaggi-marionette.
Questi moduli sono contaminati con quelli del teatro di rivista e dell’avanspettacolo,
evidenti nel citazionismo parodistico (A noi…piace freddo è una parodia di A qualcuno
piace caldo; Totò Diabolicus riprende Sangue blu di Robert Hamer; La feldmarescialla
contamina La grande fuga di John Sturges con Tre uomini in fuga di Gerard Oury), nei
doppisensi (Il trapianto, 1969, «su un argomento allora messo in voga dagli esperimenti
fondo: da una situazione si passa a un’altra situazione, attraverso un processo di trasformazione
(Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1994, p. 192)
9
In Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, cit., p. 246, questa configurazione
dello sguardo è detta “interpellazione”: «una sorta di “Ehi, tu!” rivolto direttamente allo
spettatore».
10
A.Albertazzi, Intermezzo, 18, 30.9.1957, in R.Chiti, R.Poppi, Dizionario del cinema…, I film,
vol. 2, p. 352
11
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1301
6
di Christian Barnaard […] ma nel film l’organo da trapiantare non era il cuore»12): la
«struttura narrativa si modella prevalentemente sui ritmi di un collage di sketches, la
comicità riposa sul tipico contrasto tra l’agitazione e la flemmaticità della spalla»13.
Film come Femmine tre volte (1957), Mia nonna poliziotto (1958), Copacabana Palace
(1962), Totò contro i quattro (1963) rivelano evidentemente la loro trasandatezza
narrativa (le sequenze si giustappongono come tanti diversi episodi): sono produzioni di
serie B, realizzate velocemente per sfruttare un improvviso filone cinematografico
(Femmine tre volte utilizza lo stesso cast di Susanna tutta panna; Guardia, ladro e
cameriera, 1958, «convenzionale ma garbato»14, si ispira al modello de I soliti ignoti;
Totò, Eva e il pennello proibito, 1959, «è stato fatto utilizzando gli ambienti de La Maja
desnuda – ricorda Steno – un film che la Titanus aveva fatto con Ava Gardner e Tony
Franciosa, come era avvenuto altre volte»15) o il successo che attori o caratteristi hanno
già ottenuto - a teatro, alla radio, o in televisione – e che ha permesso il loro debutto
cinematografico: gli sceneggiatori ripropongono senza grossa fantasia, ma con gran
godimento dello spettatore, gli sketch e le macchiette che li hanno resi famosi.
Questa produzione minore sembra precludere a Steno uno sviluppo della propria
carriera: i titoli nel quadriennio 1968-71 si rarefanno - Il mostro della domenica (1968,
episodio di Capriccio all’italiana), Il trapianto (1969), Cose di Cosa Nostra (1971) perché anche il pubblico si disinteressa dei suoi film. Con Il vichingo venuto dal Sud
(1971) il regista ritroverà il successo mondiale («Qualche anno fa a Manila, tutti
parlavano di una commedia italiana divertente e irresistibile, che tra i filippini aveva
avuto un grande successo: era Il vichingo venuto dal Sud»16), tornando alla satira di
costume, mettendo a confronto la retriva morale del meridionale italiano con quella più
disinibita degli scandinavi. La produzione degli anni ’70 seguirà questo indirizzo realistico,
rinvigorito dalla realizzazione de La polizia ringrazia, che condurrà il regista alla
realizzazione delle sue uniche commedie all’italiana.
Negli anni ‘80 il regista ritorna alla comicità maggiormente stilizzata. Una produzione
che si apparenta a quella degli anni ’60 anche a causa di affini coordinate contestuali: nei
primi anni del decennio c’è una nuova evoluzione sociale nazionale, sembra esserci un
ritorno delle antiche promesse di espansione economica. Soprattutto, nasce un nuovo
fenomeno sociale: lo “yuppismo”, ovvero la connotazione manageriale della classe
borghese, anelante ad un carrierismo senza scrupoli. E’ un intreccio complesso di
edonismo morale, atteggiamento intellettuale e ideologia politica (sono gli anni del
12
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 167
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80
14
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 583
15
Orio Caldiron, Totò, cit., p. 71
16
Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988
13
7
successo politico del Psi di Bettino Craxi): la caduta rovinosa di questo mondo, con lo
svelamento dei compromessi e della corruzione morale che lo governavano, aprirà,
all’inizio degli anni ’90, un nuovo mutamento sociale ancora oggi incompiuto17.
Il nostro cinema sembra non avere gli strumenti adatti per indagare su questo
momento sociale. I giovani registi – e, tra questi, proprio i figli di Steno, Carlo ed Enrico
Vanzina che dirigono Yuppies (1986), Via Montenapoleone (1987), Le finte bionde (1989)
– ne accolgono solo gli aspetti più epidermici e dirigono opere, le quali, più che far
riflettere su quella società, ne sono lo specchio spettacolare: «l’alta e vuota società degli
status-symbol e delle erre mosce non viene sbeffeggiata come potrebbe sembrare a
prima vista, ma assecondata, blandita, accarezzata: come negli spot pubblicitari da cui
questi film, emuli dei peggiori telefoni bianchi, stentano a distinguersi nei loro infiniti
passaggi televisivi»18. Sia i registi che gli attori usuali della commedia all’italiana sono
incapaci di interpretare l’evoluzione sociale e si arriva ad un’impasse: i registi hanno
avuto sempre bisogno, per le loro osservazioni satiriche, di maschere attoriali che ne
filtrassero le intenzioni con le loro qualità interpretative e le proponessero con successo
al pubblico. Gli attori, cosiddetti “colonnelli” (Sordi, Manfredi, Gassman e Tognazzi), sono
troppo compromessi con la precedente situazione sociale e, forse, anche troppo vecchi,
per assumere nuovi ruoli paradigmatici. Quelli della cosiddetta età di mezzo (Montesano,
Pozzetto, Dorelli) sono stati schiacciati dai “colonnelli”, che prendevano loro tutto lo
spazio disponibile e li relegavano a ruoli marginali: ora sono in posizione defilata. Mentre
i giovani comici, quelli più dotati (Benigni, Verdone, Troisi, Nuti), preferiscono dirigersi da
soli, con risultati modesti ed, a volte, penosi. La commedia all’italiana entra in crisi.
Steno si rivolge ai meccanismi tradizionali della commedia.
La distanza generazionale, tra Steno e la realtà, è troppo estesa per risolversi in una
piena comprensione reciproca. Il regista cerca un approdo sicuro, appoggiandosi su
canoni comici conosciuti. Si spiega così l’utilizzo degli schemi della “pochade” (Quando la
coppia scoppia, 1981), della commedia sofisticata (Amori miei, 1978) e, addirittura, la
riproposta diretta degli anticamente osteggiati “telefoni bianchi” (Il tango della gelosia,
1981, da Aldo De Benedetti): donne divise tra due amori, travestimenti dei protagonisti,
porte che si aprono e si chiudono su situazioni compromettenti, accelerazione del ritmo.
Nei meccanismi astratti della commedia, Steno commette l’errore di inserire la satira
di costume: non più i personaggi-marionette riferibili al vaudeville, ma caratterizzazioni
grottesche, modulate sugli schemi della commedia all’italiana. I prodotti risentono di
questo ibridismo: nel contesto asettico e sofisticato de Il tango della gelosia viene
17
Cfr. Giampaolo Pansa, Lo sfascio, Sperling & Kupfer, Milano, 1987; Giampaolo Pansa,
L’intrigo, Sperling & Kupfer, Milano, 1990; Giampaolo Pansa, Il regime, Sperling & Kupfer,
Milano, 1991
8
inserito, incongruamente, il personaggio del “terrunciello” interpretato da Diego
Abatantuono; commedie
come Fico d’India (1980) e Dio li fa poi li accoppia (1982)
tentano la combinazione dei moduli della satira di costume (l’ambientazione provinciale)
e quelli della pochade (nel primo film «un grande Maccione, volgarissimo, si piazza in
casa di Pozzetto per soffiargli la moglie Gloria Guida»19 ma è colto da infarto ed è
costretto a rimanere, infermo, in casa del marito tradito; nel secondo un prete, Don
Celeste, è violentato da una ragazza disadattata che rimane incinta), gli intenti sono
buoni, la struttura è adeguata (i pettegolezzi degli abitanti diventano, con i loro intrighi e
movimenti incrociati, in queste storie, da elemento contenutistico, vero e proprio
elemento formale), ma i risultati sono convenzionali: una lunga sfilata di macchiette.
Mani di fata (1983), invece, si propone di analizzare il fenomeno dello “yuppismo”: la
combinazione tra la stilizzazione comica e la satira di costume riesce, perché
l’ambientazione borghese è più adeguata di quella popolare. Il protagonista Andrea
(Renato Pozzetto) perde il posto di lavoro (è architetto in una società di costruzioni)
proprio il giorno in cui chiede un aumento di stipendio; la moglie, Franca (Eleonora
Giorgi), nello stesso giorno, ha avuto un importante incarico nella casa di moda in cui
lavora. I ruoli si invertono (lei è una donna-manager, lui fa il casalingo), fino a mettere in
dubbio la rispettiva identità sessuale. Il finale segna un ritorno all’ordine: l’architetto
riesce a vendere un suo progetto e diventa miliardario, ristabilendo la pace in famiglia.
Per rappresentare la morale del film – la perdita d’identità a cui porta il carrierismo – il
regista utilizza una stilizzazione geometrica che dà a Mani di fata un andamento
meccanico. Il tema del doppio, del raddoppiamento, dello sdoppiamento e del
ribaltamento della personalità, è fin troppo rimarcato: ai due coniugi corrispondono due
“alter ego” omosessuali, che sembrano voler rivoltare la loro identità sessuale; Pozzetto
ha due datori di lavoro gemelli,
da
uno
specchio;
la
cui visione, in un’inquadratura, è raddoppiata
le sequenze alternate sono montate attraverso i dialoghi dei
protagonisti, per cui i discorsi, con diversi interlocutori, dei due coniugi si intersecano tra
di loro con precise corrispondenze. In queste simmetrie narrative, la progressione comica
dell’intreccio accelera progressivamente, fino a terminare, logicamente, sui ritmi
farseschi da “pochade” dell’ultima sequenza, quando tutti i rapporti trovano soluzione in
una camera da letto, come nelle classiche commedie degli equivoci (con grande
profusione di porte che si aprono e si chiudono su situazioni compromettenti). Il racconto
procede per ellissi (nelle sequenze in cui Pozzetto si dedica ai lavori di casa, nel finale), le
inquadrature presentano ritagli spaziali interni che ne raddoppiano il livello: sono porte,
finestre attraverso cui alcuni personaggi osservano agire altri personaggi, a loro volta
18
19
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.151
Marco Giusti, Dizionario del cinema italiano stracult, Sperling & Kupfer,,Milano, 1999, p. 284
9
osservati dall’occhio del regista e degli spettatori. E’ una proiezione ripetitiva che ha
qualcosa d’ipnotico e che rimanda a quei meccanismi primordiali della costruzione di un
gag comico (la ripetizione, la meccanicità, la reificazione del corpo), che interessarono
tanto Ejzenstejn per le sue meditazioni sull’estasi artistica20.
20
Sergej M. Eijzenstejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1992
10
Capitolo 4. Tecniche narrative del comico
Al centro di questa parte dedicata a Steno, è opportuno rilevare le tecniche utilizzate
dal regista per ottenere l’effetto comico. Sono modi di produzione del comico che
accomunano i film più stilizzati e quelli più realisti, che ritroviamo in tutto l’arco
cronologico della carriera del regista, da Al diavolo la celebrità ad Animali metropolitani.
Si possono raggruppare in un elenco puramente nominale: sfasatura suono-immagine,
ellisse narrativa, effetto sorpresa (le reazioni dei protagonisti), ritmo, montaggio
metronomico, recitazione degli attori (Totò e Sordi, Villaggio, Fenech).
La sfasatura tra il suono e l’immagine è, tra tutte, la tecnica più ricorrente: l’immagine
dell’inquadratura non si accorda con le parole dei protagonisti o con il commento
musicale. Artificio tipico della commedia che trova il suo apogeo, nella filmografia di
Steno, nella sequenza di Piccola posta (giustamente considerata da Giacovelli «prototipo
per molte situazioni della futura commedia all’italiana»1) in cui la presunta Lady Eva, in
realtà signora Cangiullo, «donnetta da due soldi che si finge importante senza crederci
troppo, racconta alle lettrici un duello aristocratico da romanzo ottocentesco mentre la
macchina da presa inquadra una lite di piazza tra un fruttivendolo e un veterinario di
borgata»2. E’ un meccanismo utile per svelare ipocrisie comportamentali, inganni sociali,
storture e mediocrità quotidiane: esemplare in questo senso la ricostruzione dei film muti
in Cinema d’altri tempi, in cui registi, attori e maestranze, liberi dal sonoro in presa
diretta, si scambiavano insulti e male parole, mentre giravano inquadrature che sullo
schermo sarebbero risultate intensamente drammatiche.
Il modo di raccontare per ellissi è una marca stilistica che il regista eredita dalla
narrazione cinematografica americana. L’ellissi narrativa è congiunta al ritmo ed al lavoro
di montaggio: il racconto procede spedito, senza tempi morti. Il montaggio permette di
accostare blocchi narrativi distanti tra loro sia secondo le direttrici spaziali che temporali,
di prosciugare le pause del racconto ed aprire scorci che suggeriscono nuove
interpretazioni. C’è una condensazione degli effetti che sta alla base del metodo
“sintetico” di produzione del comico. Rimane esemplare la sequenza della decisione di
Gianna di partecipare al concorso dei vigili urbani, ne La poliziotta. La ragazza è in attesa
sul marciapiede della stazione ferroviaria di Ravedrate del treno per Milano, quando
sente due studenti parlare tra loro della possibilità offerta anche alle donne di arruolarsi
nei vigili urbani. Quando arriva il treno, la mdp sposta il suo obiettivo all’esterno del
convoglio. Quando il treno riparte, ci accorgiamo, così che Gianna non è partita con esso,
ma sta osservando con interesse il manifesto del concorso. Si allontana con passo sicuro,
1
2
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 33
Ibidem.
1
dopo aver preso una decisione: quale sia ce la mostra la dissolvenza che confonde i passi
di Gianna con quelli regolari degli aspiranti vigili.
Direttamente collegato all’ellissi narrativa è quello che si potrebbe definire l’effettosorpresa: la mdp non racconta il momento culminante dell’azione comica, ma soltanto i
preliminari, per poi porre lo spettatore di fronte al fatto compiuto. La regia sfasa i tempi
di reazione dei personaggi (che non vediamo quasi mai agire nel momento culminante
del racconto, ma soltanto prima e dopo), distanziando lo spettatore dalle loro emozioni,
per consentirgli la risata, anche quando la situazione è potenzialmente drammatica (e
per il protagonista tragica). Piccola posta è un piccolo campionario di queste situazioni
comiche. Nella seconda parte del film, assistiamo agli sforzi vani del barone Rodolfo di
assassinare la sua ricchissima “anima buona”, per ereditarne il patrimonio milionario. Il
racconto dei tentati omicidi si interrompe al momento di massima tensione, quando gli
sforzi del barone sembrano orientarsi verso una buona riuscita. Saranno le inquadrature
successive a svelare la sorprendente cattiva riuscita degli attentati.
L’effetto-sorpresa punteggia tutti i film di Steno: è il meccanismo che consente di
rappresentare l’ambiguità emozionale delle situazioni. Ne svela il fondo drammatico
dietro l’apparenza comica, come nella sequenza de La patata bollente, in cui gli amici
operai vanno a trovare l’amico Mambelli di ritorno dal viaggio in Urss, dove l’avevano
mandato per preservarlo da tentazioni omosessuali, e se lo ritrovano davanti truccato da
donna: al momento dell’incontro, la prima inquadratura della mdp, è riservata totalmente
ai volti degli amici ed alle espressioni di sorpresa, sbigottimento, rabbia e disgusto che si
dipingono su di essi. Ingiuste, sappiamo noi spettatori, che siamo consapevoli come quel
trucco sia del
tutto involontario:
l’inquadratura concentra le
reazioni prima di
divertimento e poi di rabbia che scaturiscono da essa, rispettando quella concezione di
suspense comica, di cui si darà una definizione più precisa all’interno del capitolo sul
genere poliziesco.
In questo momento è più opportuno ricordare come il distacco emotivo e l’ambiguità
della situazione umoristica, ritrovati negli esempi precedenti, rispettano pienamente le
massime di Bergson e di Pirandello per la costruzione del meccanismo comico.
Per Bergson, infatti:
Sembra che il comico non possa produrre la sua scossa se non a condizione di cadere su una
superficie d’anima molto calma e uniforme. L’indifferenza è il suo centro naturale. Il più grande
nemico del riso è l’emozione. Non voglio dire che noi non possiamo ridere di una persona che ci
ispiri pietà per esempio, o anche affetto: soltanto che per qualche istante, dovremmo dimenticare
questo affetto, far tacere questa pietà.3
Mentre, secondo Pirandello:
3
Henri Bergson, Il riso, cit., p. 39
2
Noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non
resta invisibile, non resta cioè una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si
rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine;
da quest’analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che
potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo, Il sentimento del contrario.4
Le tecniche narrative del comico utilizzate da Steno trovano piena giustificazione nei
massimi teorici filosofici del genere.
Che la narrazione del comico sia soprattutto una questione di ritmo, è un’affermazione
che troviamo esemplarmente attualizzata in tutte le opere di Steno.
Le opere che più dimostrano la validità di questa asserzione sono le farse, i film comici
degli anni ’60 e quelli sofisticati degli anni ’80, quando la stilizzazione del meccanismo
aveva molta più importanza del contenuto del racconto. I tempi di entrata e uscita dei
personaggi dalle inquadrature, in questi film (i titoli sono quelli già menzionati nel
capitolo precedente: Susanna tutta panna, Totò, Eva e il pennello proibito, La ragazza di
mille mesi, etc…) sono calcolati al centesimo di secondo. Ma forse non è stata messa
abbastanza in rilievo l’importanza del montaggio. Che assume livelli virtuosistici in
un’opera come I tartassati (1959), un film con Totò (in contrasto con chi, come Gian
Piero Brunetta, asserisce che nei film con l’attore napoletano «non esiste montaggio delle
sequenze»5). C’è ne I tartassati una sequenza che è un esempio di montaggio articolato
seguendo il principio del domino, procedendo per transitività e per contrasto6. La
sequenza segue in parallelo il riflesso privato dello scontro pubblico tra il negoziante
Pezzella, che ha frodato il fisco, e il maresciallo Topponi, che ha avviato un indagine su di
lui. Lo spunto narrativo è comune alle sue storie parallele: il pranzo in famiglia. Il
montaggio fa in modo che alle battute di Pezzella rispondano quelle di Topponi,
definendo, in un’unica sequenza gli stati d’animo dei personaggi. Ad esempio,
all’esclamazione di Topponi (rivolta ai figli che non apprezzano il pasto frugale ed
economico): «E pensa che oggi c’è gente che non mangia», c’è uno stacco, l’inquadratura
successiva mostra l’interno di casa Pezzella e quest’ultimo che, di fronte ad una tavola
riccamente imbandita (c’è anche un fagiano), sbotta, immerso in tristi pensieri: «Oggi
non ho fame».
Tra le opere di Steno, quella che maggiormente mostra il livello raggiunto dal regista
nell’affinamento degli effetti è Amori miei (1978). Tratto da una commedia con musiche
di Iaia Fiastri, Amori miei esibisce formalmente ad ogni inquadratura il perfetto
4
Luigi Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 125-6
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p. 550
6
Associazione per transitività: Questo tipo di nesso si ha quando la situazione presentata
nell’inquadratura A trova il suo prolungamento e completamento nell’inquadratura B.
Associazione per contrasto: in due immagini contigue sono rinvenibili elementi marcatamente
differenti ma la cui stessa differenza diviene fonte di correlazione. (F.Casetti, F.Di Chio, Analisi
del film, cit., p. 97-98)
3
5
meccanismo
ad
orologeria
dell’intreccio.
Il
divertimento
nasce
dalla
vertiginosa
impalcatura di equivoci che la protagonista costruisce progressivamente e in modo
consequenziale: la regia ne asseconda ogni movimento. Alla scansione geometrica
dell’intreccio in fase di sceneggiatura (è la storia di un insolito triangolo amoroso, una
donna con due mariti, ed ogni blocco narrativo è risolto nel modo triadico di azione,
reazione, risoluzione), corrisponde quella delle inquadrature (anche queste ripartite
triangolarmente, con un vertice alto: il modello è quello della partenza di Annalisa dalla
stazione ferroviaria, con il treno che, posto al centro dell’inquadratura, divide come una
quinta teatrale lo spazio scenico di Marco da quello del prof. Antonio) e del montaggio
(l’inseguimento di Annalisa a Marco, per impedirgli di sentire il messaggio lasciato sul
registatore, realizzato con un monteggio parallelo delle azioni dei due personaggi, ripresi
in piani dalla durata progressivamente ridotta). La stilizzazione è così forte (anche i
personaggi sono poco più di segni e lo dimostrano i loro nomi: Marco Rossi, Antonio
Bianchi, Anna, Lisa) che il realismo della rappresentazione è annullato.
Le tecniche di produzione comica sopra elencate sono quelle utilizzate da Steno per
permettere ai comici che recitano nelle sue pellicole di esprimersi compiutamente.
Come detto, gli autori della commedia all’italiana hanno avuto bisogno di una forte
collaborazione attoriale, per esprimere al meglio le proprie doti comico-satiriche. Spesso,
in questo lavoro, alla parola “attore” è stata affiancata la qualificazione di “maschera”: la
ragione di questo abbinamento, valido per tutti i registi del genere, ma soprattutto per
Steno, è che le interpretazioni degli attori non sono costruite in virtù di un’introspezione
psicologica. I protagonisti delle numerose storie non sono veri personaggi, che seguono
uno sviluppo logico coerente, che lottano contro le avversità della vita, fino ad esserne
modificati nella loro coscienza interiore. I protagonisti delle pellicole di Steno, sono
simboli, “caratteri” che aggiornano l’antico modello di costruzione dei personaggi da
commedia, sintetizzando, e fissando in pochi tratti, un aspetto del costume sociale:
Dipingere caratteri, cioè tipi generali, ecco dunque il fine della commedia. […] Non solo, infatti,
la commedia ci presenta tipi generali, ma, a nostro parere, essa è l’unica tra tutte le arti che miri al
generale.
La commedia dipinge dei caratteri che noi abbiamo incontrato e incontreremo ancora sul nostro
cammino. Essa nota delle rassomiglianze. Mira a mettere sotto i nostri occhi dei tipi. Creerà anche,
all’occorrenza, dei tipi.7
I protagonisti dei film di Steno esasperano, nei loro atteggiamenti, i segni, i codici, le
mode della società italiana: sono caricature che, rapportate con la società stessa, la
mandano in crisi, rispecchiandone, in modo deformato, tic e manie. E’ il caso
dell’americano di Roma, Nando Moriconi, il bullo romano maniaco degli Stati Uniti
(Alberto Sordi in Un giorno in pretura e Un americano a Roma); della signorina snob Lady
7
Henri Bergson, Il riso, cit., p.123
4
Eva, che sogna di essere una nobile polacca, ma vive in un casermone romano e si
chiama Cangiullo (Franca Valeri in Piccola posta), del negoziante Pezzella, che evade le
tasse e tenta di corrompere la forza pubblica (Totò ne I tartassati). Anche quei
personaggi che mostrano un’introspezione psicologica e che popolano le pellicole degli
anni ’70, non sono alieni da un “surplus” simbolico nella loro rappresentazione. Salvatore
Anastasia, protagonista di Anastasia mio fratello (1973) è un personaggio realmente
esistito – la sceneggiatura del film è tratta da un suo memoriale – eppure la recitazione
estroversa di Sordi sovraccarica la connotazione del personaggio, trasformandolo nel
simbolo della solitudine dell’individuo in un mondo che gli è estraneo.
A causa della loro funzione simbolica, i protagonisti di queste storie, non sono mai
“positivi”, per abnormità fisiche, mentali o caratteriali.
La struttura episodica dei film di Steno reclama la presenza di un cospicuo numero di
attori. Le case di produzione avevano sotto contratto attori da sfruttare commercialmente
e registi come Steno si adeguavano alle direttive, modellando gli intrecci su di loro.
Nonostante nascano da propositi commerciali, queste pellicole rivelano il talento comico
del regista.
E’ accaduto che Steno dovesse dirigere delle superproduzioni: Dino De
Laurentiis tentò il lancio internazionale di Totò in L’uomo, la bestia e la virtù (1953),
affiancandogli Orson Welles e Viviane Romance; Franco Cristaldi procurò Brigitte Bardot e
Gloria Swanson per la ricostruzione storico-parodistica di Mio figlio Nerone(1956). In
questi casi si nota la qualità maggiore del regista, l’unica da sempre riconosciutagli:
quella di far esprimere ad un attore le sue doti peculiari e di saper amalgamare le diverse
recitazioni degli interpreti («a cui sapeva lasciare il giusto spazio»8). Il suo segreto stava
nello scegliere subito il tono da accordare ad una storia ed utilizzarlo come punto di
riferimento per gli attori. Ne L’uomo, la bestia e la virtù, la recitazione di Totò viene
smorzata e quella di Orson Welles caricata, accomunandole in un tratto grottesco che ne
deforma l’aspetto fisico e le reazioni mentali. Mentre in Mio figlio Nerone, la scelta di un
tono comico comporta nella recitazione degli attori l’accentuazione dei gesti, consentendo
di poter inserire, senza difficoltà, la recitazione caricata di Gloria Swanson, fortemente
debitrice dei canoni del cinema muto.
Il rapporto del regista con gli attori non fu sempre allo stesso livello. L’affinità tra
l’interprete e il regista poteva essere maggiore o minore e si ripercuoteva sul valore delle
pellicole. La regia di Steno può essere a volte di pura confezione, neutra.
Accade spesso nelle farse girate frettolosamente negli anni ’60: non poteva esserci
grande intesa con attrici come Tina Pica (protagonista nel 1958 di Mia nonna poliziotto),
8
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.179
5
giunta al ruolo di protagonista per motivi squisitamente commerciali; forse soltanto la
soddisfazione di effettuare una nuova esperienza.
Altre volte, notiamo che tra il regista e gli attori c’è affiatamento: è il caso del
rapporto tra Steno e Raimondo Vianello. C’è una grande sintonia tra i due, che travalica
la normale collaborazione tra l’attore e il regista. Sono molte le pellicole interpretate da
Vianello: all’inizio della carriera in coppia con Ugo Tognazzi, con il quale replica, al
cinema, i successi televisivi (A noi…piace freddo, Psycosissimo, La ragazza di mille mesi);
quindi in coppia con Walter Chiari (Gli eroi del West, I gemelli del Texas, Amore
all’italiana) e con Totò (Totò Diabolicus); infine da protagonista assoluto (00-sexy
missione bionda platino, episodio di Letti sbagliati). Negli anni ’70, Vianello decide di
abbandonare la recitazione e di dedicarsi al mestiere di sceneggiatore: a testimonianza di
un intesa sempre accesa, diventa stretto collaboratore di Steno, scrivendo per il regista
numerosi copioni comici – Il vichingo venuto dal Sud e L’uccello migratore con Lando
Buzzanca; Il terrore con gli occhi storti con Noschese e Montesano; Fico d’India con
Pozzetto e Maccione. Sono risultati divertenti, ma non memorabili come, a fronte di tanta
empatia culturale, avrebbero potuto essere. La comicità che nasce dal loro rapporto mira
alla costruzione della gag, a volte demenziale, spesso surreale, sempre con gusto
sorvegliato, in ossequio alla logica umoristica inglese che governa la comicità di Vianello.
Non sempre, però, la gag riesce a superare la dimensione di uno sketch, spesso si adagia
su modi convenzionali, in attesa della fulminante risoluzione finale (è il caso dei venti
episodi di Amore all’italiana). Il motivo è da ricercare, paradossalmente, proprio nella
perfetta intesa tra Steno e Vianello: il temperamento scettico, caratteristico di entrambi,
impedì un approfondimento tecnico che approdasse ad una comicità italiana originale, sul
modello di quella degli inglesi Monty Python. Si accontentarono del livello raggiunto, che
aveva un buon successo di pubblico e permetteva una discreta resa commerciale. C’è da
rimpiangere la mancata attuazione, per la morte di Steno, del progetto di Vianello di un
film imperniato su soli gag visivi: sarebbero forse riusciti a realizzare, liberi da ogni
condizionamento commerciale, il progetto più conforme al loro tipo di comicità.
Steno, che è stato uno svezzatore di talenti comici (a tanti ha concesso i primi
successi commerciali da Tognazzi a Spencer, da Manfredi a Proietti a Montesano), ha
creato con alcuni di essi un rapporto tale da superare la formalità professionale, per
tramutarsi in amicizia. L’incontro con Totò e Alberto Sordi, ha segnato, per quantità e
qualità, le rispettive filmografie. Nel loro caso, il regista non si è limitato ad amministare
il loro talento comico, ma a modellarlo, esibirlo, mostrarlo sotto aspetti originali.
6
A
Totò
ha
9
«indemoniato»
consentito, negli
anni ’50,
di
variare
il
tono
10
folletto in Totò cerca casa, attore «universale»
delle
espressioni:
in Guardie e ladri,
«patetico»11 travet in Totò e i re di Roma, ironico «oratore»12 in Totò e le donne. Fino a
confrontare l’attore napoletano con i classici della letteratura russa (Totò e i re di Roma,
da Cecov) e italiana (L’uomo, la bestia e la virtù, da Pirandello) e a dedicargli un
affettuoso omaggio in Totò a colori, primo film italiano a colori e «summa e apoteosi»13
della sua recitazione. Negli anni ’60 la loro collaborazione ha prodotto titoli che iterano i
temi e gli stili di quelli del decennio precedente.
Sotto la guida di Steno, Totò è lo strumento con cui si manifestano i differenti stili
comici dei film: i suoi gesti acquistano valenze grottesche, assurde, farsesche, ora
riducendosi alla pura meccanicità (la marionetta di Pinocchio in Totò a colori), ora
debordando nella caricatura (il pittore Scorcelletti in Totò, Eva e il pennello proibito). La
mdp sceglie il modo migliore per valorizzare l’attore: si ferma quando Totò mette in atto
le sue capacità. D’altronde la moderazione dei movimenti della mdp è un artificio usuale
per il genere comico, come afferma lo stesso Steno:
Quelli che hanno lavorato di più con Totò sapevano che ci si doveva adattare a Totò, si doveva
valorizzare Totò, i film erano fatti per Totò. Non so neppure se si può parlare di regia, bisognava
tenere la macchina fissa, bisognava fare i film valorizzando la comicità di totò e non indulgendo alle
bellurie della regia, bisognava seguire Totò e il suo estro. Non è vero che i film erano sciatti, erano
dei film fatti su misura per Totò. Non si potevano fare troppi carrelli, bisognava tenere la macchina
fissa, come si era sempre fatto nel cinema comico, come faceva anche Chaplin, non era una
novità.14
La dichiarazione sembra avere il valore di una scusante: Steno tendeva, per la propria
modestia a minimizzare il suo contributo. In realtà, il suo apporto di regista era notevole.
Sapeva quando era il caso di assecondare l’attore, di lasciarlo libero di improvvisare a
briglia sciolta, consapevole che
Totò era anomalo: ora seguiva il copione, ora inventava e ti trascinava dove voleva lui. Ora
aveva un metodo e ora la negazione di questo metodo. Fino alla fine non sapevi mai bene quale
sarebbe stato il punto della vis comica di Totò. Ma questo solo con lui io l’ho provato.15
Poteva accadere perciò che la regia rimanesse incantata ad osservare le evoluzioni del
protagonista, come in Letto a tre piazze, in cui Totò era in coppia con Peppino De Filippo.
Lo ammette lo stesso Steno:
In Letto a tre piazze c’è una scena in cui Totò e Peppino vanno a letto insieme, perché nessuno
stia con la loro comune moglie. Facevamo la presa diretta, con dei rulli in macchina di trecento
metri, e abbiamo avuto la sensazione che Totò sarebbe andato avanti. Peppino si doveva
addormentare e lui guardarlo. Poi dovevamo dare lo stop. Ma lui continuava a guardarlo, e non
sentendo lo stop, Peppino ha riaperto gli occhi e Totò ha improvvisato: «Ma sa che più la guardo e
9
Arturo Lanocita, Il Nuovo Corriere della Sera, 15.12.1949 in Orio Caldiron, Totò, cit., p. 95
Lamberto Sechi, La settimana Incom…, cit., p. 120
11
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 19.10.1952 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.125
12
Filippo Sacchi, Epoca, 17.1.1953 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.127
13
Orio Caldiron, Totò, cit., p.20
14
Ivi, p.70
15
Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 194
10
7
più mi piace?» e da lì è nato tutto un altro pezzo, Totò ha fatto delle cose terribili e divertentissime
coadiuvato mirabilmente da Peppino. Tra Totò e Peppino c’era un’intesa di tempi che veniva dal
teatro napoletano. Tempi che oggi non ci sono più. Inquadrature che andavano avanti per metri e
metri senza un minuto di sospensione, e tutte improvvisate, senza perdere un tempo.16
Più spesso, la regia di Steno era creativa, contribuiva alla costruzione delle sequenze
con il proprio senso del ritmo. Il riscontro, paradossalmente, lo ritroviamo in quello che è
il film più personale di Totò, Totò a colori: un collage di sketch e macchiette del
repertorio rivistaiolo dell’attore napoletano, in cui la regia sembra assente («…non era il
caso di stare a fare della regia. Fu come se avessi dato la macchina da presa in mano a
Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il
pubblico»17 dichiarò Steno). Sembra, ma non lo è. Basta prendere ad esempio la celebre
sequenza del vagone-letto, in cui Totò-Antonio Scannagatti aggredisce e disintegra la
rispettabilità di Mario Castellani-onorevole Cosimo Trombetta, fino a consegnarlo alla
polizia come individuo sospetto. La scenetta è stata ripresa anche in altri film con Totò
(Totò a Parigi, 1958, di Camillo Mastrocinque, ed il televisivo Premio Nobel, 1967 di
Daniele D’Anza), ma non ha mai avuto la stessa forza comica. E’ la testimonianza, sia
pure indiretta dell’apporto di Steno e del suo senso del ritmo.
La regia usa, in questa sequenza, come tecnica di ripresa, dei piani-sequenza molto
lunghi (tutti di una durata di circa tre minuti) in cui lo spazio è “statico mobile”18. I
personaggi si fronteggiano nell’inquadratura, rivelando i rapporti di forza, sorretti anche
da un uso espressivo della scenografia: un cappello, appeso all’appendiabiti, divide a
metà la scena e delimita il campo d’azione di Scannagatti e Trombetta, ostili tra di loro
(«Questi li chiamano topi di treno» sussurra Scannagatti, indicando l’onorevole): quando
l’onorevole decide di presentarsi, supera la linea immaginaria definita dal cappello e
provoca la reazione scomposta e impaurita di Scannagatti.
Essendo l’immagine così statica, ogni cambiamento di inquadratura, ogni movimento
di macchina acquista maggiore espressività. Il lungo piano frontale iniziale, che riprende
il colloquio acceso tra Scannagatti e il capotreno («Io ho il biglietto per questo carrozzone
qui», «Lei ha il biglietto per il Wagon Lit», «Ma perché mi vuol mandare lì se ho il
biglietto per qui»), è interrotto da un piano laterale che introduce sullo sfondo
dell’inquadratura la figura di Trombetta, che, in seguito, risolverà la situazione,
spiegando a Scannagatti cos’è il Wagon Lit. I movimenti di macchina sono “dinamici-
16
Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 184
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1351
18
«Lo spazio statico mobile è definito da staticità della macchina da presa e movimento delle
figure entro i bordi fissi dell’immagine» (F.Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, cit., p. 135)
19
«Lo spazio dinamico-descrittivo è definito dal movimento della macchina da presa in diretta
relazione con quello delle figure» (Ivi, p.136)
17
8
descrittivi”19 (con l’eccezione del carrello all’indietro che da Trombetta conduce nello
scompartimento, che disegna lo spazio dell’azione): come la veloce panoramica laterale
verso destra, a seguire il movimento di Scannagatti, corrispondente alle battute che sta
pronunciando, in cui è implicito un movimento dell’oggetto del discorso («Mio fratello,
oddio, e si nasconde la trombetta dietro»).
I movimenti ed i cambiamenti del piano dell’inquadratura intervengono quando
l’azione raggiunge il suo climax: in questo modo Steno riesce a dare ritmo alla sequenza,
a rappresentare l’azione senza tempi morti.
Con Alberto Sordi, negli stessi anni ’50 (ci sarà un nuovo incontro tra i due, a quasi
vent’anni di distanza, con Anastasia mio fratello, ma i modi saranno totalmente diversi),
Steno, grazie anche all’apporto dello sceneggiatore Lucio Fulci, creerà uno dei personaggi
memorabili del cinema italiano, Nando Moriconi. «Clamorosa macchietta trasteverina,
immediatamente riconosciuta dal pubblico “basso” di quartiere, ma anche dagli
intellettuali che ne ripetevano le battute con autentico divertimento»20.
Lo presenteranno in un episodio di Un giorno in pretura, quando, novello Tarzan,
s’immerge nudo nella “marrana” e, privato, in seguito, degli abiti da un vigile, è costretto
a tornare a casa «come un lumacone». Il successo del personaggio consigliò agli autori di
ripresentarlo in un film in cui fosse protagonista unico, Un americano a Roma, dove
Ritornò il buffo gergo misto di romanesco e di slang, si ripropose l’abbigliamento yankee
(maglietta bianca da marine, cappelluccio da cowboy), si rifece il verso a generi ed eroi
hollywoodiani: il musical di Gene Kelly, i bicipiti di Muscle Power, la minaccia suicida di 14° ora
(come grattacielo il Colosseo), le esplosioni belliche (scavando buche per la Todt tedesca), la
rombante Harley Davidson del policeman (da caricarci la fidanzata), la mazza del campione di
baseball (da brandire alla discobolo), il cinismo da Asso nella manica. Ma esemplarmente all’italiana
si ripeté la disavventura nudista col poveretto in corsa per le terrazze della bohème capitolina,
inghirlandato d’alloro (da Nerone con la cetra sulle pudenda) e captato in diretta televisiva tra
l’angoscia del presentatore e il disgusto delle vecchiette.
E poi, costante come un tormentone, quella mania d’esser sceriffo “del” Kansas City nella mente
colonizzata del bullo di Trastevere promosso Superman, del manzo proletario alimentato a fumetti.
Che però mai, per nulla al mondo, e tanto meno per un sogno che metterebbe in crisi il suo
egoistico equilibrio e la sua innata vigliaccheria, mai si allontanerebbe dalle strade e piazze deserte
di notte, da percorrere con andatura da gangster; e mai, soprattutto, rinuncerebbe al piattone di
spaghetti all’amatriciana.
E proprio questa la sequenza da antologia […] Momento magico non previsto nel testo e
(racconta Sordi) sbocciato sul set. Così ci si arriva.
Reduce dal cinematografo rionale dove, ingozzandosi di popcorn, si è immedesimato nel
protagonista western, il tanghero si pone all’agguato di una guardia notturna piuttosto in età, che
non ha parole – non per paura, ma per lo sbalordimento – di fronte al giovinastro sbucato
dall’ombra a minacciarlo, a guisa di pistola, con le dita di una mano («arma permessa dalla legge»,
spiega). Dalla finestra il padre asmatico, da ore in attesa nella camera da letto, inveisce contro il
figlio deficiente. Il quale finalmente entra in cucina, scorge sul tavolo la pastasciutta lasciatagli da
mammà e il fiasco di vino del “papi”, e li scosta con fastidio. Ora si accinge lui ad allestirsi una bella
cenetta all’americana, a base di sani ingredienti come yogurt e mostarda, soprattutto mostarda. Ma
al primo assaggio, prorompe in un inequivocabile «ammazza che zozzeria!». Non gli rimane che
20
Ugo Casiraghi, presentazione del film Un americano a Roma, L’Unità, 24.6.1995
9
rinsavire, buttandosi alla disperata sul cibo domestico, senza però rinunciare al tono minaccioso:
«Macarone…m’hai provocato, e io ti distruggo…io me te magno!».21
Nonostante la struttura narrativa frammentaria, costruita su lunghi flashback che
ripercorrono l’esistenza di Nando, la regia di Steno, stimolata dalla presenza di Sordi
(«Non avvertivo la sua invadenza, forse perché mi piaceva talmente che mi facevo
plagiare da lui senza oppormi minimamente
[…] In fase di lavorazione Sordi dava un
grandissimo apporto, era una esplosione continua di battute e sapeva tenere fronte a
chiunque, persino a Totò»22) riesce a visualizzare un’esperienza popolare collettiva e a
lanciare la carriera dell’attore:
Concentrando tutta l’attenzione sullo schizofrenico vitalismo di Nando, la regia di Steno si
propone come modello praticabile di un nuovo divismo «all’italiana». Alberto Sordi sta diventando
qualcosa di molto diverso dal «vitellone felliniano». La formazione definitiva del suo personaggio
cinematografico è prossima ad attuarsi. Già ora restano assolutamnente ammirevoli il suo sguardo
rotondo da eterno bambino (bello il confronto con il bambino che siede dietro di lui al cinema dove
si proietta un film con Hopalong Cassidy), la sua folle gestualità durante il notturno rientro a casa
(«Gatto mammone fai finta di leggere il giornale, mi sono accorto sai, sei una spia…ti devo
sopprimere, ti devo!») […], la sua fulminante battuta all’indirizzo dello spettatore che gli ha fatto la
pernacchia («Ormai hai vent’anni, è tempo che tu sappia di chi sei figlio»). 23
21
Ugo Casiraghi, Presentazione…, cit.
Steno, in Presentazione…, cit.
23
Aldo Viganò, Commedia…, cit., pp. 56-7
22
10
Capitolo 5. Un abile manipolatore dei generi
(Tempi duri per i vampiri, Un mostro e mezzo, Dottor Jekyll e gentile signora)
Enrico Giacovelli scrive nella sua rassegna sui registi della commedia all’italiana che
Steno fu «regista di quantità: 73 film in quarant’anni, tutti comici meno due»1.
Affermazione inesatta, soprattutto per quel che riguarda la seconda parte. Al regista
piaceva sperimentare e fare cose nuove e durante la sua attività ha spaziato in quasi tutti
i generi, dall’avventura (I moschettieri del mare e Rose rosse per Angelica) al bellico (I
due colonnelli), al musical (La feldmarescialla), all’horror (Tempi duri per i vampiri, Un
mostro e mezzo e Dottor Jekyll e gentile signora), agli episodi di Amore all’italiana, Letti
sbagliati e Tre tigri contro tre tigri, al poliziesco (cui sarà dedicato un capitolo a parte),
alla fantascienza (Totò nella Luna, Animali metropolitani).
Nel volume Delitto per delitto c’è una definizione schematica dei generi cinematografici
(il corsivo appartiene al testo): «Un genere è un sistema codificato di effetti, ovvero una
macchina (tanto astratta e immateriale quanto efficiente) in grado di produrre
determinate emozioni, in una determinata serie, mediante determinate forme»2. Il
cinema di genere è il cinema popolare per eccellenza, quello maggiormente usufruibile
dallo spettatore che non ha difficoltà a riconoscere i codici espressivi e dunque ad
assimilare la logica del racconto – come ben ricorda lo storico Gian Piero Brunetta: «i film
popolari dell’immediato dopoguerra si rivolgono a un pubblico a cui propongono modelli,
forme e valori ben radicati nella cultura e memoria collettiva»3.
Non a caso la cinematografia nel mondo che ha fondato la propria evoluzione sulla
diversificazione dei generi è stata quella statunitense, la cui produzione, dominata dalle
grandi case “majors” (Paramount, MGM, Warner, Rko) e “minors” (Universal, Columbia
Picture), è industrializzata ed alla ricerca del maggior riscontro popolare possibile.
A seconda dei temi affrontati, dello stile della regia, della tecnica di ripresa, della recitazione
degli attori, dell’allestimento delle scenografie e non in ultimo del progetto fondamentale
dell’opera, ogni film veniva definendosi all’interno di un genere, tanto per la sua rassomiglianza con
altre opere che per la distanza che lo separava dalle altre. Così, a poco a poco, lo spettatore
cominciò a capire in anticipo, in base agli attori presenti nel cast, osservando il manifesto,
leggendo il titolo, e a volte solo dal nome della casa di produzione del film, a che genere di
spettacolo avrebbe assistito.4
Quest’affermazione, fatta a proposito del cinema americano, è valida per il cinema di
genere di tutte le nazioni. Soprattutto per il nostro che, più di ogni altro nel cinema
1
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.179
Mario Sebastiani, Mario Sesti, Delitto per delitto, Lindau, Torino, 1998, p.8
3
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.543
4
Philippe Paraire, Il cinema di Hollywood, Gremese, Roma, 1990, p.40
2
1
mondiale, dopo quello hollywoodiano, ha praticato il cinema di genere. Sempre (fino agli
anni ’70) nel silenzio inquietante della critica, che quando ha affrontato il cinema
popolare lo ha fatto secondo «un’ottica di tipo valutativo ideologico»5. Ma neanche un
critico attento ai meccanismi della narrazione popolare, come Brunetta, sembra aver
afferrato completamente il senso del cinema di genere, poiché è convinto che
Non il metro estetico o qualitativo è pertanto l’unità di misura più adatta, mentre vanno resi
operativi quei procedimenti e categorie che privilegiano i modelli culturali e ideologici, che
verificano fenomeni di persistenza e variazione all’interno del cinema popolare.6
E più oltre:
I film popolari annullano la nozione di autore e spingono tutta la loro azione in direzione del
pubblico. Il successo di alcuni film consente di illuminare anche la figura dell’autore, con un effetto
di ritorno. 7
La
posizione
del
regista
di
genere
sembra
essere,
in
queste
affermazioni,
sostanzialmente passiva, ma è già illuminante della personalità di un autore l’aver scelto
un campo narrativo (un genere) piuttosto che un altro. E se esistono registi che hanno
rispettato le convenzioni dei generi senza mai discostarsene (in Italia si possono
ricordare i registi di film mitologici Guido Malatesta, Domenico Paolella, Fernando
Cerchio), più sovente è il caso di autori che hanno rivoluzionato le regole di un genere
(Bava, Argento e Fulci per l’horror; Cottafavi per il mitologico e l’avventuroso, Leone per
il western) o ne hanno riprodotto e personalizzato gli schemi (è il caso di Tessari, che ha
riunificato sotto il segno dell’iperbole parodistica e picaresca ogni genere affrontato dal
western allo spionaggio al poliziesco).
La valutazione del rapporto tra un regista ed il genere che ha praticato mette in gioco
l’apporto personale del primo sugli schemi del secondo, l’analisi deve orientarsi sugli
sfasamenti, le deviazioni impercettibili o eclatanti operati dal regista sui codici espressivi
del genere.
L’approccio di Steno ai diversi schemi narrativi è uniforme: a guidarlo è quel suo
temperamento ironico e scettico che gli consente di non prendere nulla sul serio. Se nel
caso dei film comici l’ironia era contenutistica, diretta ai personaggi, esasperati e tirati
fino alla caricatura, nel caso dei film di genere, l’ironia si rivolge ai moduli narrativi,
diventa formale, ne forza le convenzioni espressive, adoperando il modo parodistico,
ma mai allontanandosi del tutto dai canoni codificati. E’ per questo che anche i suoi film
di genere vengono considerati da Giacovelli come comici: nei congegni del racconto, la
parodia prende il sopravvento sul resto dell’intreccio. Ma gli schemi narrativi, ribaltati,
5
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.540
Ivi, p. 541
7
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.542
6
2
stropicciati senza requie, svuotati del loro senso, vengono comunque sempre tenuti
presenti.
Il fatto di dedicarsi ad una cinematografia di genere ci ricorda che Steno è uno di quei
registi italiani (come Germi, Comencini, De Santis) cresciuti studiando ed ammirando il
cinema americano. Come ricorda Carlo Vanzina: «Fin da piccolo mio padre mi ha
cresciuto nel mito dei grandi (John Ford, Alfred Hitchcock, Howard Hawks) e dei piccoli
(Eugene Pallette, Edward Everett Horton, Donald Meek)»8.
Nei film di genere Steno può rivelare il proprio gusto per il racconto dinamico e
picaresco, come nei film d’avventura, ricordati dal regista con soddisfazione:
Un film che mi sono divertito molto a fare, anche se nessuno se lo ricorda o se ne è accorto,
proprio perché era molto diverso dai miei soliti, fu Rose rosse per Angelica, in Spagna. Un film di
cappa e spada, che si svolge all’epoca della Rivoluzione francese. Il protagonista era Jacques
Perrin, un ottimo attore che è anche produttore (ha fatto come produttore i film di Costa-Gravas, di
Zurlini), bravissimo attore. La protagonista femminile era nientedimeno che Raffaella Carrà, reduce
dal film che aveva fatto con Sinatra. Il mio era uno di quei film che hanno un loro iter commerciale
ridotto, ma solido. Un altro film strano, molto tempo prima, era stato un film di corsari, I
moschettieri del mare, con Aldo Ray e la Pierangeli. Giravamo sul Garda, e avemmo terribili
vicissitudini di riprese. Ci sono dei duelli bellissimi, ma c’erano degli specialisti ad aiutarmi. La
Pierangeli era una donna molto simpatica ma molto fragile, scossa emotivamente, parlava sempre
di James Dean un po’ a ruota libera. Pronta al pianto. Le presentai io Trovajoli. Ma lei ormai era
una persona senza più equilibrio.9
Questa produzione eccentrica è interessante perché, in questi film, è possibile
ritrovare alcuni dei rari momenti di satira politica presenti nel cinema di Steno, che
possono, indirettamente, permettere di risalire alle convinzioni politiche del regista. Nel
musical bellico La feldmarescialla (1967) il repertorio musicale - costituito da canzoni
d’epoca come “Rosamunda”, “Camminando sotto la pioggia” (di Macario), “Non
dimenticar (le mie parole)”, “Pippo non lo sa” e da due canzoni contemporanee, “Il
geghegè” e “Un due, tre, se marci insieme a me” scritta appositamente per la
protagonista del film Rita Pavone dagli sceneggiatori Castellano e Pipolo – è utilizzato in
funzione satirica, contro il nazismo e, per metonimia, contro ogni forma di dittatura e di
arroganza politica: la canzone “Rosamunda”, intonata da Rita Pavone, si spande per le
radio tedesche al momento del discorso del Führer; con un meccanismo da Blob, ci
vengono mostrati, nelle immagini di repertorio, Hitler e Mussolini, nelle pose più tronfie e
veementi, mentre con una iconoclastia sfrontata, le parole dei loro terribili discorsi sono
sostituite dalle note scatenate dello “Geghegè” di Rita Pavone.
Nell’avventuroso Banana Joe (1982), con Bud Spencer, soffia invece, «una brezza
leggera e cauta di allegro anarchismo»10. Banana Joe è un bianco che vive allegramente
nella selvaggia Amazzonia, ad Amantido (un flebile richiamo al mito di Tarzan), con una
8
Carlo Vanzina in Film Tv, 31.12.1995/6.01.1996
Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 211
10
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 130
9
3
prole numerosa, senza pensieri, senza contatti con il mondo civile, se non quelli fugaci e
obbligatori con un venditore di banane, con il quale commercia per sostentarsi
economicamente. Quando si scontra con una grande organizzazione economica a
carattere mafioso, che vuole colonizzare l’Amazzonia, togliendo agli indigeni il commercio
delle banane, Banana Joe, costretto a misurarsi con la “civiltà”, non sa raccapezzarcisi:
gestione burocratica della realtà quotidiana (per lo stato Banana Joe non esiste, perché
non è stato iscritto all’anagrafe, non possiede certificato di nascita e carta d’identità e
senza il primo non può ottenere il secondo e viceversa), corruzione negli ambienti politici
ed economici, distanziamento e formalizzazione nei rapporti interpersonali sono le
deviazioni del mondo civile che emergono a contatto con la sua primitiva ingenuità. Cerca
di risolverle allora a modo suo: aggredisce il ministro degli Interni e si sostituisce a lui,
ma viene arrestato («Perché sto qui dentro?», «E me lo chiedi pure?…Hai attaccato al
muro un ministro.», «Perché, non si può?», «No, non si può.»). E’ costretto a fare il
servizio militare, per ottenere un documento che gli procuri la licenza per il commercio.
Non si adatta al mondo civile. Ritorna, allora, sull’isola, debella l’organizzazione
malavitosa (a suon di botte) e torna alla pace di prima, trovando anche l’amore di una
bella tedesca del mondo “civile”. Ma il mito del “buon selvaggio” funziona a metà:
Banana Joe ha capito che, per muoversi nel caotico mondo contemporaneo, ci vuole
almeno la bussola dell’istruzione e così costruisce una scuola ad Amantido, dove la sua
donna insegnerà ai piccoli le regole elementari dell’educazione, a cominciare da quelle
grammaticali.
La
satira
politica
di
Mio
figlio
Nerone
(1956)
segue,
invece,
i
moduli
dell’avanspettacolo: la macchietta di Nerone era un successo di Ettore Petrolini, e fu
immortalata per sempre da Alessandro Blasetti, con la sua trasposizione cinematografica
di Nerone (1930). Alberto Sordi, nel ruolo di Nerone, si rifà anche fisicamente a Petrolini,
ornando il suo volto della stessa barbetta e degli stessi riccioli biondi. La figura
dell’imperatore romano, tiranno che ambiva alla trasformazione del principato augusteo
in una monarchia centralizzata, esautorando i senatori del loro potere, figura capricciosa
con pretese artistiche (si dilettava nel bel canto) si prestava, già all’epoca di Petrolini, a
fungere da bersaglio fantoccio per una satira della dittatura fascista. Mio figlio Nerone
esibisce i riferimenti all’avanspettacolo e alle riviste umoristiche nella sua satira politica
diretta: il film seleziona gli aneddoti più tipici, gli spunti più facili e li esaspera fino al
grottesco. Così gli aneddoti di Caligola che fece senatore un cavallo e quello di Nerone
aspirante musicista, sono presi alla lettera, uniti e caricati fino alla buffoneria: Nerone,
nel film di Steno, compone un’orchestrina con maiali, conigli e gufi e rampogna gli
animali perché non vanno a tempo. I modi ed i personaggi del vivere civico sono caricati
fino al ridicolo, secondo uno sprezzo che talvolta perde carica per foga eccessiva. Ma
4
almeno il personaggio di Seneca, che predica tanto la moralità e decanta le virtù della
morte, salvo istigare Nerone al matricidio ed avere tanta cura della propria vita, ha
precise attinenze con la politica contemporanea. Ha le caratteristiche fisiologiche di
quegli onorevoli democristiani che popolano con sicumera i film di Steno, ridicolizzati e
distrutti con scherno feroce e disarmante, la cui sintesi è il già ricordato onorevole
Trombetta.
Nella lunga carriera di Steno, occupa un posto non indifferente la trilogia di parodie
horror, distesa in un arco cronologico di vent’anni esatti (il primo film è del 1959, l’ultimo
del 1979) e, per questo, molto dissimile nello stile e nella fattura, negli intenti e nelle
ambizioni, ma collegata dall’argomento: la rivisitazione parodistica dei miti storici
dell’horror. Tempi duri per i vampiri (1959) affronta il mito di Dracula, Un mostro e
mezzo (1965) quello della creatura di Frankenstein, Dottor Jekyll e gentile signora (1979)
quello del Dottor Jekyll (e più in generale dei mutanti, cioè uno di quegli individui che «è
essenzialmente un diverso, un deviante, uno che non sta bene nella propria pelle; come
tale si pone, e pone agli altri, dei problemi di identità»11).
A legare tra loro le tre opere è la struttura del racconto, costruita intorno ad un comico
(o ad una coppia di comici), lontanissimo, iconograficamente, dalle atmosfere nere e
inquietanti dei personaggi e delle situazioni del genere horror. Renato Rascel in Tempi
duri per i vampiri, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia in Un mostro e mezzo, Paolo
Villaggio in Dottor Jekyll e gentile signora sono gli elementi incongrui che dissacrano, con
la loro sola presenza, tutti i canoni del genere.
Vedere aggirarsi tra le stanze di un castello tenebroso il piccolo Rascel, avvolto in un
tenebroso mantello che, quando si lancia sulle prede, si scosta, mostrando sotto di esso
le bretelle ed una maglia di lana, è già un abbassamento di tono che getta nel ridicolo
tutti i canoni del genere, azzerandolo nelle premesse (l’eroe e soprattutto il “mostro” non
devono essere ridicoli). Analogo significato ha la sequenza di Un mostro e mezzo, in cui
Ciccio Ingrassia – novello dottor Frankenstein – crea nel laboratorio la sua creatura,
prima muovendosi tra storte ed alambicchi, poi lavorando attorno ad un pentolone, in cui
aggiunge ingredienti sempre più improbabili, fino a gettarci dentro un maiale e ad
assaggiare con soddisfazione la mistura ottenuta, evidentemente un brodo.
Sembra esserci disomogeneità anche sulle occasioni che hanno permesso la nascita
dei tre film. Tempi duri per i vampiri, infatti, può essere considerato un film su
commissione, un’idea azzardata del produttore Mario Cecchi Gori: la parodia di un
genere, l’horror, che in Italia non aveva tradizione (c’era stato Malombra, di Soldati, nel
11
Daniela Catelli, Ciak si trema. Guida al cinema horror, Theoria, Roma-Napoli, 1996, p.191
5
1942, ed un primo tentativo di Riccardo Freda, I vampiri, nel 1957). L’idea venne al
produttore per sfruttare il grande successo ottenuto da Dracula il vampiro (1958, Fisher).
Prodotto dagli inglesi della Hammer, il film di Terence Fisher aveva rilanciato un genere in
coma, aggiornandolo a gusti moderni, grazie ad un paradossale ritorno alle radici sette e
ottocentesche del gotico, alla concretezza “realistica” delle descrizioni di Lewis Maturin, Stoker,
Mary Shelley, prodighe di inquietanti paesaggi sepolcrali e di dettagli raccapriccianti e sanguigni.
L’orrore non (è) più soltanto metafisico, ma platealmente fisico, personificato e incombente persino
nella compassata solidità domestica vittoriana.12
I film della Hammer (che rivisiteranno tutta la mitologia gotica da La maschera di
Frankenstein a L’implacabile condanna) avevano rivoluzionato non soltanto i contenuti
del genere, ma anche i moduli formali. Come spiega Antonello Sarno:
Punto di rottura con «l’orrore suggerito» di ogni tempo ed età […] il periodo del gotico inglese
vide anche una crescita dal punto di vista formale nell’uso cromatico della fotografia, con una serie
di tonalità accese, specie sul rosso, che caratterizzarono la scenografia in senso barocco (e perfino
pre-psichedelico) spazzando via il vecchio bianco e nero fino ad allora dominante.13
In un genere ancora fermo all’impostazione visiva post-espressionista datagli da Tod
Browning (Dracula, 1931), destò impressione l’insistenza ossessiva di Fisher sulla
carnalità del vampiro sulla sua carica sensuale. Puntuale è la precisazione di Daniela
Catelli:
I film della Hammer sono anche i primi ad evidenziare il dettaglio grafico dei canini che
penetrano nella carne: il colore brillante porta il sangue in primo piano e l’atto mostrato a tutto
schermo è il primo passo verso una pornografia dell’orrore per l’epoca scioccante, ed efficace anche
ad una visione contemporanea. 14
Ad evidenziare quest’aspetto concorre la presenza dell’attore che incarna Dracula,
l’altissimo Christopher Lee, quasi animalesco nelle sue fattezze.
Sono elementi, questi, che Steno tiene presenti nel girare Tempi duri per i vampiri: la
brillantezza fotografica (con predominanza dei rossi), la scenografia barocca (un castello
sul mare, pieno di scale che non portano a nulla, di camminatoie, di passaggi segreti e
trabocchetti) e la fisicità della storia. A tal proposito Mario Cecchi Gori chiama proprio
Christopher Lee ad interpretare il ruolo del vampiro e sulla differenza d’altezza tra Lee e
Rascel (ripresi sempre insieme nelle inquadrature, a distanza scalare dal centro) la
parodia gioca gran parte delle sue carte.
La storia del barone spiantato che ha uno zio transilvano vampiro che lo contagia,
segue tutti i canoni del mito dei vampiri. Un mito di origine slava che «assomma in sé la
paura […] di un ritorno dei morti dall’aldilà, associato in genere al desiderio di continuare
12
Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990, Marsilio, Venezia, 1991, p.235
Antonello Sarno, Il cinema dell’orrore, Newton Compton, Roma, 1996, p.49
14
Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p.191
13
6
ad assaporare i piaceri terreni, in particolare il cibo e il sesso»15. Fissati i canoni in
letteratura nel racconto di Polidori16 e nel romanzo epistolare di Stoker17,
il vampiro è una figura di confine, che vive tra le ombre notturne e sta a metà tra due mondi e
due stati: è morto ma vive in eterno, è legato alla sua bara e ha dei limiti precisi (non sopporta
l’aglio, la vista della croce, non può attraversare l’acqua corrente, l’ostia consacrata lo ferma, deve
essere invitato per entrare in una casa) ma al tempo stesso ha potere sulle creature del mondo
vivente come i lupi e i topi.18
In Tempi duri per i vampiri, lo zio del barone arriva su un treno, trasportato in una
cassa (che il nipote crede essere il bagaglio, ma il bagaglio è lo zio stesso), fugge di
fronte alla vista di un palo a forma di croce e vampirizza il nipote con un morso sul collo.
La parodia apporta una modifica decisiva: l’aggiornamento della vicenda all’epoca
contemporanea al film. Un aggiornamento che provoca variazioni sul piano narrativo. Il
barone è un nobile spiantato costretto a vendere il suo castello ad una società che lo
trasformerà in un albergo e farà del barone uno dei camerieri; l’arrivo dello zio vampiro
consentirà, al termine della vicenda, la riappropriazione, da parte del barone, dei suoi
beni: un ritorno all’ordine segnato da un intervento del passato rispetto alla volgare e
consumistica società moderna. La donna, poi, non è più soltanto una vittima inerme del
vampiro: sarà proprio il bacio di una vergine ad interrompere la stregoneria.
Il ritorno all’horror, a distanza di sei anni, con Un mostro e mezzo, nascerà sotto un
segno diverso. Steno e Sandro Continenza (suo abituale collaboratore) preparano un
soggetto ricco di riferimenti al cinema americano: dovrebbe essere interpretato da Totò e
Boris Karloff, allora in Italia per girare I tre volti della paura di Mario Bava. Ma il progetto
ha difficoltà a procedere. Per Continenza la colpa, indiretta, fu di Boris Karloff:
Scrivemmo con Steno questo soggetto, la storia di uno strano collezionista di cadaveri che
trovava Totò, ma il film abortì perché, quando lo vedemmo, Boris Karloff era proprio vecchio.19
Per Steno, invece, fu colpa del mercato, che non richiedeva più Totò:
I suoi film facevano meno cassetta. Ne ebbi una prova e ne rimasi allibito. Io avevo preparato
un film che si chiamava Il mostro di Roma, che si doveva fare per Buffardi, con Totò e Boris
Karloff, e Gianni non riuscì a chiuderlo. Lo feci poi con Franchi e Ingrassia, che allora andavano per
la maggiore, e si chiamò Un mostro e mezzo. La stessa sceneggiatura. Non si combinò per Totò e
si combinò per Franchi e Ingrassia!20
Le citazioni di Un mostro e mezzo, se fosse stato interpretato da Boris Karloff,
sarebbero state molto più significative. In primo luogo, la parodia avrebbe ruotato
intorno ad un ribaltamento di ruoli: Boris Karloff, segnato per tutta la carriera dalla sua
15
Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p.185
John William Polidori, Il vampiro, 1816
17
Bram Stoker, Dracula, 1897
18
Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p. 185-6
19
Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p.187
16
7
interpretazione della creatura di Frankenstein (Frankenstein, 1931, La sposa di
Frankenstein, 1935 di James Whale) avrebbe interpretato il ruolo dello scienziato. Non
solo, il fatto che il professore del film fosse anche un ladro di cadaveri riconduceva ad
un’altra classica interpretazione di Karloff, quella di La jena (1945, Robert Wise). La
parodia avrebbe esibito la sua caratteristica di omaggio ad un attore e a tutto un genere
del cinema americano.
La presenza di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia provoca un duplice adeguamento,
degli attori alla storia e della storia agli attori. La natura della comicità della coppia è
stata esemplarmente analizzata da Alberto Castellano e Vincenzo Nucci:
Franchi e Ingrassia come molte altre coppie del cinema comico sottolineano una diversità
immediatamente significante: basso, tozzo, sbozzato nel legno ma con giuste proporzioni delle
membra è Franco; alto, allampanato, filiforme ed emaciato, con gli arti più lunghi rispetto al busto
è Ciccio. Quella che è una differenza puramente anatomica è suscettibile di volta in volta di
accentuazioni e diminuzioni. La struttura elastica apparentemente munita di altezza regolabile
dell’uno e quella anelastica attestata su una rigidità monolitica sempre al limite dello sgretolamento
dell’altro, ne rimarcano ulteriormente il dislivello. Dislivello che si traduce sul versante comicoespressivo in una compensazione mimico-gestuale: alla snodabilità, ai fulminei mutamenti di
espressione, alle trasigurazioni al limite dell’impossibile, allo sfrenato fregolismo di Franco, fanno
da contraltare la graniticità, la fissità della maschera, la legnosità generata dal ruolo, il personaggio
unidimensionale di Ciccio.21
Dopo averli paragonati alle altre celebri coppie dello schermo (Stanlio e Ollio, Gianni e
Pinotto, Jerry Lewis e Dean Martin) ed aver ritrovato in Totò e Jerry Lewis i modelli della
comicità di Franco Franchi, Castellano e Nucci affrontano un’analisi delle loro gag:
E’ il “qui pro quo” , il doppio senso, l’equivoco verbale a suggerire la gag visiva. Di solito è
Ciccio, preesistendo a un dislivello intellettivo, non tanto marcato come potrebbe apparire, ad
offrire la nota giusta al partner. Le sue affermazioni, dettate da un buon senso comune e
morfologicamente elementari, si scontrano con una ostentata assenza di ricettività e di sforzo
riflessivo di Franco, ricoprendo involontariamente il ruolo di “saggio”. Il suo equilibrio psicologico e
la rassicurante essenzialità controllano e al tempo stesso cozzano contro l’incontenibile
intemperanza verbale ed una afasia disarmata e disarmante di Franchi […].22
Anche Un mostro e mezzo contiene la tipica comicità della coppia. L’intento di Steno è
però quello di storicizzare e rendere manifesti i meccanismi delle gag. Di dare alla
comicità popolare di Franchi e Ingrassia precisi riferimenti culturali, rivelando al pubblico
i modi di costruzione delle gag, isolandole ed evidenziandole all’interno del tessuto
narrativo o costruendole su citazioni.
All’incredibile mobilità facciale e corporea di Franco, è riservata un’intera sequenza:
quella della simulazione di un cadavere pronto per essere esaminato anatomicamente da
un chirurgo universitario (il prof. Carogni). L’attore muove il suo corpo come se le
20
Ibidem.
Alberto Castellano-Franco Nucci, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia: due matti al servizio del
pubblico, in Nico Cirasola (a cura di), Da Angelo Musco a Massimo Troisi: il comico nel cinema
meridionale, Dedalo, Bari, 1982, p.102
22
Alberto Castellano, Franco Nucci, Franco Franchi…, cit., p. 107
8
21
articolazioni fossero snodate e le membra indipendenti, in una tensione espressiva che
varia dalla estrema rigidità alla mobilità gommosa di organi che sembrerebbe impossibile
muovere.
La totale impermeabilità di Franco alla logica comune è alla base delle gag con il
direttore del carcere in Francia. La regia di Steno sottolinea la sua estraneità ad un
qualunque
comportamento
razionale,
accentuando
parossisticamente
le
smorfie
dell’attore siciliano in un controcanto recitativo che ha la valenza degli “a parte” teatrali:
le inquadrature tagliano a metà lo spazio scenico, pongono in spazi opposti i due
personaggi e, mentre l’uno tenta di utilizzare tutte le armi della logica, mostrano le
reazioni sorde dell’altro.
Sono soprattutto le citazioni a costituire il tessuto connettivo di Un mostro e mezzo.
Oltre al ribaltamento parodistico dei codici dell’”horror” (i ricordati riferimenti a
Frankenstein e La jena), sono presenti citazioni da Crimen (1960, di Camerini: il
cadavere tagliato a pezzi nella valigia), dal Mafioso (1962, di Lattuada: il viaggio dalla
Francia in Italia dei due attori in due casse di legno) e c’è un funerale accelerato che si
trasforma in un inseguimento scatenato sulle note di Garibaldi fu ferito, che è insieme un
omaggio al René Clair di Entr’acte (1924) ed a Totò (e a Steno stesso: l’inseguimento
finale di Totò a colori).
Il tentativo di conformare culturalmente la loro comicità, obbligò Franchi e Ingrassia
ad evitare tutto quello che vi era di superfluo e di ridondante nella loro recitazione.
Rinunciarono all’improvvisazione e si affidarono al regista. Che elaborò uno stile
composito che riuscisse a coniugare i riferimenti cinematografici, l’iconografia dell’horror
e le gag di Franchi e Ingrassia.
C’è in Un mostro e mezzo un’attenzione formale insolita per questo genere di film. La
fotografia di Tino Santoni, attenta a tutte le gradazioni del bianco e del nero, ed il taglio
delle inquadrature ricreano un clima espressionista (filtrato dalla lezione del cinema
americano) e rarefatto. Lunghe ombre si proiettano sui muri, i corpi di oggetti e persone
acquistano una consistenza plastica stagliandosi, isolati, nelle inquadrature (come la
ghigliottina nel cortile del carcere), un clima brumoso invade il paesaggio francese,
stanze e corridoi esibiscono le loro consistenti dimensioni, silenziosamente vuote nella
loro architettura geometrica. La vicenda assume una connotazione sempre più astratta:
strade, ospedali, case sembrano, a volte, non rivelare un’esistenza umana ulteriore a
quella dei protagonisti: in questi momenti Un mostro e mezzo raggiunge i più evidenti
punti di contatto con il genere “horror”.
Il ribaltamento di questi momenti inquietanti e fantastici avviene con repentini e voluti
cambi di tono, fratture del ritmo eseguite con un preciso lavoro di montaggio. Elaborati
movimenti di macchina (carrellate e panoramiche laterali che definiscono gli spazi
9
dell’azione) e primi piani dei personaggi, preparatori della costruzione della gag, lasciano
spazio ad un alternarsi di totali, piani americani, piani medi che, con un ritmo sempre più
serrato (la durata delle inquadrature montate progressivamente diminuisce) definiscono
l’azione e si concludono improvvisamente.
L’elaborazione dello stile è evidente in quelle che sono le due sequenze narrative più
calibrate del film: il funerale ed il risveglio di Franco dopo la fuga dal carcere. La prima è
costruita con un montaggio che accelera il ritmo lento iniziale (il feretro marcia
lentamente con il seguito dei parenti a piedi) in un balletto che assume progressivamente
cadenze di marcia militare: i protagonisti entrano ed escono dalle inquadrature dai lati
opposti in cui ci si aspetterebbe che entrassero ed uscissero. La musica è decisiva
nell’accompagnare l’accelerazione progressiva della sequenza.
La seconda sequenza è costruita, all’opposto, con i movimenti di macchina. La mdp
prepara, e mostra allo spettatore, ad uno ad uno tutti i segni che, con la loro polisemia,
provocheranno l’enorme equivoco che è alla base della gag: scampato dalla condanna a
morte grazie all’aiuto di Ciccio, Franco non regge all’emozione
(l’amico aveva sabotato la ghigliottina con una zeppa di legno, che aveva fermato la
lama ad un palmo dal suo collo) e sviene. Ciccio lo deposita in un campo, che si rivela
l’aia di una fattoria. C’è un uomo con i capelli lunghi bianchi e una veste da notte: si è
evidentemente appena alzato dal letto, ha con sé una radio per ascoltare la messa, si
dirige verso la stalla con un’enorme chiave in mano per aprirla. Scorto Franco svenuto,
sale su un carro in disuso, una ruota del quale, rotta, è ritta in aria. Quando il povero
Franco rinviene, si ritrova davanti, torreggiante, un tizio vestito di bianco, dalla chioma
candida fluente, barba lunga e bianca, con l’aureola (è la ruota dietro alla sua testa) ed
una chiave in mano, mentre nell’aria si spandono note angeliche. Fa presto ad
identificarlo con S.Pietro ed a confidargli i suoi peccati: figurarsi la sua sorpresa, quando
quest’uomo imponente gli risponde: «E a me che me frega?».
La trilogia si conclude quattordici anni dopo con Dottor Jekyll e gentile signora. Il
tempo intercorso tra un film e l’altro è decisivo per modificare modi, intenti ed ambizioni
della parodia. Tratto da un soggetto di Castellano e Pipolo, che capovolge lo schema del
romanzo di Stevenson, Dottor Jekyll e gentile signora, dietro i moduli narrativi del thriller
e dell’horror, è un grottesco di satira politica e di costume. Costruito sulla comicità del
protagonista Villaggio, presenta una forte escursione stilistica tra il tema di fondo (la
satira della società capitalistica, comandata da un potere economico sovranazionale e
dalle sembianze mafiose) ed il modo in cui è raccontato: con una comicità elementare
che punteggia le sequenze con cascatoni, botte in testa, schiaffi.
E’ il modo di costruire le gag tipico di Paolo Villaggio, con iperboli grottesche che
trovano la loro origine in un piacere sadomasochistico del dolore. E’ tipica di Villaggio la
10
ripetizione delle gag, l’allusione, la citazione fino al plagio delle situazioni comiche (la gag
delle parallele viene da La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau, 1978, di Blake
Edwards). Ma è tipica di Villaggio anche la satira anticapitalistica del film, nonostante,
ufficialmente, l’attore genovese non abbia partecuipato alla stesura della sceneggiatura
(gli autori sono Steno, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi).
La rappresentazione grottesca del potere economico-politico di Fantozzi, in Dottor
Jekyll e gentile signora acquista una consapevolezza ed un’icasticità brechtiane. Anche
qui, come in Fantozzi, il punto di vista è interno ad un’azienda, di cui gli autori rivelano
una conduzione disumana. I dipendenti della multinazionale P.A.N.T.A.C. di Dottor Jekyll
e gentile signora sono cinici quanto i padroni. L’esponente di punta è il dottor Jekyll,
docente di arrivismo politico che insegna ai suoi allievi le tecniche dell’eversione e mira
ad immettere sul mercato un chewing-gum che provochi la piorrea in tutti i suoi
consumatori (così da fornir loro protesi P.A.N.T.A.C.), sponsorizzato direttamente dalla
regina d’Inghilterra, dopo un adeguato ricatto. I problemi per il terribile dottore giungono
quando comincia a mostrare segni di umanità (scrive bacioni al termine di una lettera,
chiama poveretti i braccianti). Per risolverli si allena ad essere cattivo (simula sul trenino
elettrico un incidente ferroviario) e sembra risolvere i problemi una sera, quando scopre
nella sua casa vittoriana un passaggio segreto che lo conduce nel laboratorio del suo
antenato, Mr. Hyde, ancora vivo («grazie ai diritti d’autore dei film»!). L’antenato infatti
gli consiglia di bere il siero del male, distruggendo l’antidoto, per raggiungere la
cattiveria assoluta. Il dottor Jekyll esegue e si accorge troppo tardi di aver subito l’ultima
malefatta di Mr. Hyde (morto nel frattempo): è divenuto un cherubino dai riccioli biondi e
la parlata veneta. Sotto queste spoglie si precipita a sabotare tutti i piani orditi dalla sua
precedente malvagia personalità. Rende angelica anche la sua perfida segretaria e, dopo
aver combattuto con i ritorni dell’antica personalità, tenta la grande missione: rendere
buona tutta la popolazione mondiale («perché gavemo el ben nel bon del cuore e le
campane fan din don»). I dirigenti della P.A.N.T.A.C. sembrano sconfitti, ma riescono ad
evitare di essere angelicati e possono sfruttare la popolazione mondiale resa innocua
(«Per noi i buoni saranno buoni clienti e buoni dipendenti»).
Il lungo riassunto della trama è doveroso per rendere esplicito come la satira politica
sia aliena da alcuna parvenza di qualunquismo. Il capitalismo viene mostrato come un
sistema sociale ed economico senza scrupoli, in cui i poteri politici sono succubi di società
economiche multinazionali. Il riferimento a Brecht non è forzoso: c’è nel film di Steno lo
stesso uso di un linguaggio che porta allo scoperto le pulsioni reali che governano i
personaggi. Il linguaggio non nasconde più la coscienza, ma la svela.
Viene altresì condannato un sistema sociale basato sull’etica della bontà perfetta.
Jeeves, il maggiordomo del dottor Jekyll, ammonisce il professore sui rischi di una tale
11
operazione: «La sua bontà ha l’età di quel secolo. Data 1886. Una bontà vittoriana,
bigotta, puritana. Noiosissima». Ma il dottor Jekyll insiste nella sua missione, col risultato
di arrivare ad un mondo pacificato, piacevolmente assoggettato al capitalismo, senza più
spirito di ribellione, omologato fino alla perdita di identità. Il dottor Jekyll, una volta
terminata l’operazione, viene spedito dalla P.A.N.T.A.C. «dove finiscono quelli che vuoi
levarti dai piedi dandogli uno stipendio. L’ho sbattuto in televisione, lui e la sua gentile
signora». Leggerà notiziari di questo tipo: «Politica interna: niente. Notizie dall’estero:
niente. Sport, campionato nazionale di calcio divisione nazionale: tutti pareggi»,
inframmezzati da spot della sua segretaria reclamizzanti prodotti P.A.N.T.A.C.. L’ultima
sequenza, terribile e beffarda, chiosa emblematicamente il film: immagini di repertorio di
giovani contestatori (alcune riprese sono quelle del concerto di Woodstock) che intonano
questi slogan: «Cari padroni, siete troppo buoni. Le paghe che ci date vanno dimezzate.
Vogliam fare lo straordinario senza perdere il salario. Vogliamo lavorare a Pasqua e a
Natale. Cari padroni siete troppo buoni…».
Ancora una volta, come per La feldmarescialla, il disimpegno apparente del cinema di
genere, nasconde in Steno i punti di maggior esibizione dell’ideologia politica.
La frammentazione comica dell’intreccio, anche troppo ricco di spunti narrativi,
comporta un forte squilibrio strutturale che ha impedito alla critica di accostarsi a Dottor
Jekyll e gentile signora con acume analitico. Il film è stato stroncato («…il film è talmente
brutto e fasullo da superare ogni limite del possibile»23) o ignorato (Viganò ha
banalmente parlato di «superficiale meccanismo farsesco, cui Paolo Villaggio presta tutta
le risorse della sua recitazione fatta di smorfie e ammiccamenti spesso a doppio
senso»24), anche fra i cultori di Villaggio, che lo hanno considerato una semplice
appendice di Fantozzi. A mostrare interesse sono stati, oltre Enrico Giacovelli («Dottor
Jekyll e gentile signora di Steno ha delle punte di genialità per il modo in cui trasforma il
protagonista del romanzo di Stevenson nel dirigente di una multinazionale con licenza di
inquinare»25), recentemente, i sostenitori del genere “horror”26: il film di Steno, infatti,
mostra una perfetta conoscenza dei meccanismi del genere. Come per Un mostro e
mezzo, vengono valorizzati la scenografia e la fotografia (di Ennio Guarnieri): la casa del
dottor Jekyll è ricostruita nel tipico modo vittoriano, con le pareti di legno, i tappeti rossi,
i mobili d’epoca, scale interne, camini che celano passaggi segreti. La fotografia di
Guarnieri è livida negli esterni e dominata dai rossi negli interni. Ci sono citazioni di altri
23
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.236
Aldo Viganò, Il secolo XIX, 30.9.1979, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema
italiano…, cit., vol.4-II, p. 256
25
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.135
26
Luca M.Palmerini, Gaetano Mistretta, Spaghetti Nightmares, M & P Edizioni, Roma, 1998,
p.316
24
12
film (la scoperta del laboratorio segreto del dottor Jekyll è identica a quella del dottor
Frankenstein di Frankenstein junior di Mel Brooks: l’inquadratura obliqua di una scala che
conduce nel buio; c’è un ritratto di Spencer Tracy nei panni del dottor Jekyll, nel film di
Fleming del 1941, Dottor Jekyll e Mister Hyde) e, ovviamente le sequenze della
mutazione del dottor Jekyll, che capovolgono la normale iconografia: da essere
eccezionalmente peloso si trasforma in cherubino, senza mostrare il passaggio con
trucchi ed effetti ottici.
La combinazione tra l’umorismo nero ed il grottesco, tra il taglio visivo gotico e la gag,
non è insolito in Steno. In un episodio di Amore all’italiana (Cortesia ferroviaria), il
protagonista, Walter Chiari, getta dal finestrino del treno un nano che non sopportava il
fumo del suo sigaro. Mio figlio Nerone e la seconda parte di Piccola posta mettono in
scena un grottesco che la stilizzazione della regia approssima al sadismo dei fumetti e
delle fiabe. Gli intrighi concitati di Mio figlio Nerone, che nascondono un rovello
psicanalitico (la ribellione violenta di Nerone ai tentativi di assoggettamento della madre
Agrippina), riprendono formalmente il sadismo delle situazioni dei fumetti (grazie anche
ad una fotografia dai toni molto accesi, gialli, rossi, verdi, blu) nei reiterati tentativi di
Nerone di sopprimere sua madre: i personaggi di Mio figlio Nerone si muovono agilmente
tra vipere, bevande avvelenate, affondamenti navali, schiacciamenti, superando indenni
ogni prova, secondo un crescendo iperbolico tanto maggiore tanto più è evidente
l’immortalità di chi è assuefatto al pericolo.
Il grottesco di Piccola posta è prossimo alla terribile levità delle fiabe, ricche di
truculenza e di effettacci, ma in cui l’orco cattivo sempre soccombe all’ingenua e
primigenia bontà dei fanciulleschi protagonisti (sarà l’incolumità fisica dell’attentatore
stesso ad essere progressivamente in pericolo, tanto da rischiare la morte nell’ultimo
tentativo). In questo film l’orco è Alberto Sordi, la cui recitazione tesa fino al grottesco
(con la voce impostata, i gesti ridondanti), caratterizza fino alla paranoia il suo
personaggio del «falso barone (che) attira una signora benestante in un ospizio per
vecchiette che dirige con sadismo, onde farla fuori ed ereditarne i quattrini»27. La regia di
Steno si adegua alla sua recitazione: i primi piani diventano abnormi, la fotografia
contrastata, le inquadrature si dividono a metà (Sordi si trova sempre nelle parti buie,
dove nasconde i suoi malvagi progetti), così come la struttura del racconto (basato sulle
coppie di opposti azione/reazione, progetto/risoluzione).
Le situazioni
si
fanno
stravaganti fino al surreale («Volete le vecchie? Ve do tutto lo stock…» implora il
disperato Sordi ai suoi creditori) e raggiungono l’apice nel coro di vecchine, che si
reificano fino ad assumere la consistenza di strumenti musicali. L’andatura del racconto si
27
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.105
13
fa sempre più espressionista, sino a culminare consapevolmente nella sequenza
dell’agguato di Sordi alle vecchine questuanti, risolta con un gioco di ombre.
Per comprendere come a spingere Steno al cinema di genere fosse l’autentica
passione che l’animava, è significativo Cinema d’altri tempi (1953). Film molto personale,
«sorridente rivisitazione del film muto e delle torte in faccia»28 (quel cinema infantile,
arrangiato e provvisorio che non aveva presunzioni autoriali, ma mirava al puro
divertimento: quasi una ricerca del regista dei propri antenati cinematografici), sul
modello di Il silenzio è d’oro (1947, Clair), scritto con Age e Scarpelli, smitizzando gli
spunti potenzialmente patetici.
Questa pellicola si distingue per le capacità mimetiche di Steno, abile a ricreare
filologicamente i generi in voga all’epoca. Riprese a quadri fissi, recitazione gestuale
caricata, languide pose della primattrice, fotografia virata al colore seppia distinguono i
melodrammi liberty interpretati dalla diva Ausonia (Lea Padovani), ricalcati sui moduli
stilistici dei film interpretati da Francesca Bertini o Lyda Borelli. Comicità facile e banale,
ricca di cascatoni infantili e di torte in faccia, dai ritmi accelerati, distinge le comiche di
Kretinoski, evidente riferimento al vecchio comico Cretinetti.
Quella di Steno è una ricerca inesausta di modelli, forme e meccanismi del comico,
delle
sue
origini,
di
una
sua
possibile
concordanza
con
codici
diversi.
Capitolo 6. Il gioco di specchi dei film polizieschi: (auto)riflessioni sul
racconto giallo.
(Guardie e ladri, Totò Diabolicus, Arriva Dorellik, La polizia ringrazia, Piedone
lo sbirro, Doppio delitto)
Il giallo è un genere poliedrico, i cui tanti modi di nominarlo (“mistery”, “thriller”,
“hard-boiled”, “crime-story”, “spy-story”) definiscono aspetti narrativi diversi, ma tutti
fondati su un unico, preciso meccanismo. Che la narrazione metta in gioco le indagini su
un delitto misterioso, o faccia un resoconto di una rapina “quasi” perfetta, che sottolinei
gli aspetti violenti della sua scansione, o rilevi l’enigmaticità di arcane situazioni, il
motore del giallo è sempre uno: la struttura dualistica. Una struttura così scandita
formalmente, così esteticamente geometrica da risultare perfetta per la rappresentazione
di quelle pulsioni primarie che governano la vita mondana e permeano le aspettative dei
suoi fruitori. La forma dualistica può esprimere contenuti metafisici (la lotta eterna tra il
Bene e il Male), psicanalitici (la scissione tra la parte emersa e quella sepolta e oscura
28
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.105
14
della nostra coscienza), sociali (il contrasto tra l’onestà e la corruzione della nostra
società): l’importante è che li esprima sotto forma di lotta e con uno stile tanto più
razionale e geometrico, quanto più irrazionale, scomposta, oscura e indicibile è la materia
narrativa del racconto.
Se denudiamo il poliziesco dalla sua prodigiosa mole di testi e scritture, del territorio, del suo
immaginario e della sua armatura formale, vi ritroviamo la pulsazione di investimenti psichici senza
una possibile storia (la pura insondabile, l’ansia, la tensione, il senso di minaccia, l’orrore e
l’attrazione per la violenza), il fantasioso lavoro del testo in grado di maneggiarle senza privarle
della loro forza distruttiva. C’è sempre un complicato rituale del plotting dietro un delitto o
un’azione di spionaggio (lo smascheramento del colpevole o il mascheramento di un io che si
traveste da nemico), una rapina o un’evasione (la preparazione, l’esecuzione, il fallimento), un
processo o un’operazione di polizia. Non è proprio questo il “mistery”? Il racconto di un omicidio in
sua assenza (la “detective story”), la presentazione di una violenza in grado di mettere
profondamente in crisi la legalità ma mai di sotituirla, l’ossessione della soluzione di un mistero o
dell’aberrazione testimoniata dall’accanimento di un comportamento nevrotico (la vendetta,
l’ambizione, la gelosia, l’avidità, la passione) in quanti implicano la mobilitazione sociale e
istituzionale, fisica e mentale provocati dal crimine.1
C’è differenza tra il giallo letterario e quello cinematografico (che consolida il dicrimine
«attraverso il quale passa dalla classicità aIla modernità, dall’armonia logico-deduttiva
dell’indagine di stampo anglosassone allo stress psicofisico del nero americano, dalla
restaurazione rituale dell’ordine alla sanzione puntuale e infinita del caos, sociale e
morale, sotto le spoglie del ripristino della legalità»2):
Il mito narrativo, sociologico, estetico, della lotta al crimine è una struttura straordinariamente
versatile, plastica, duttile entro la quale il genere cinematografico ha disegnato uno spazio
multiforme e autonomo.3
Il fatto che il giallo sia nato come genere letterario anglosassone, che l’Inghilterra e gli
Stati Uniti ne abbiano tracciato le linee conduttrici per decenni – la prima stilizzandolo
come un gioco da tavolo o un indovinello, approfondendo pervicacemente le sue strutture
enigmatiche (a farlo sono autori come Arthur Conan Doyle, Freeman Wills Crofts, Richard
Austin Freeman, Agatha Christie, Nicholas Blake, Dorothy Leigh Sayers, Anthony
Berkeley, ed anche gli americani S.S. Van Dine4, Ellery Queen e John Dickson Carr); i
secondi donandogli un apparente realismo, riportandolo nella quotidianità da cui si era
allontanato in Inghilterra (autori esemplari sono Dashiell Hammett, Raymond Chandler,
Ross MacDonald, Fredric Brown) – e che sempre le due nazioni se ne siano
cinematograficamente
appropriate,
dominando
la
produzione
gialla
mondiale,
ha
impedito per anni (almeno fino agli anni ’60), in Italia, una corretta disposizione al
1
Mario Sesti, Mario Sebastiani, Delitto per…, cit., p.15
Ivi, p.9
3
Ivi, p.13.
4
S.S. Van Dine, pseudonimo di Willard Huntington Wright (1888-1939) ha formulato Venti
regole cui gli scrittori di mistery dovevano attenersi per non inficiare il gioco intellettuale con il
lettore.
2
2
genere, con la convinzione, da parte dei critici (letterari e cinematografici) che il giallo
non fosse frequentabile ai nostri scrittori e registi.
In realtà la frequentazione italiana del genere è sempre stata assidua5: ed i continui
riferimenti al poliziesco da parte di Steno le testimoniano. La sua esperienza nel genere è
misconosciuta, essendo la nutrita serie di titoli gialli comunque inferiore alla produzione
comica; nelle sue storie, il meccanismo giallo è spesso legato a quello comico, secondo
un’ottica di demitizzazione parodiante.
Parodistici o rispettosi dei codici, i gialli di Steno elaborano consistenti variazioni su
quasi tutti i sottotemi polizieschi (“mistery”, “thriller”, “whodunit”, “poliziesco”) ed è
giallo-poliziesca una delle sue opere principali, La polizia ringrazia (1972), titolo
fondamentale per tutto il cinema italiano, poiché diede il via ad un nuovo genere,
originalmente italiano, il “poliziottesco”.
Il primo contatto col genere poliziesco avvenne già nel 1951, quando il regista ancora
collaborava con Monicelli: Guardie e ladri (1951) che – nonostante l’apparenza comica
causata dalla presenza dei due protagonisti Totò ed Aldo Fabrizi e dalle osservazioni di
costume della regia – rivela l’appartenenza al genere già nella scansione narrativa: il
furto iniziale (la moneta falsa che Esposito rifila all’americano), l’inseguimento, l’arresto
del ladro, la sua fuga, le indagini, gli appostamenti della guardia ed il nuovo, definitivo,
arresto finale.
La struttura dualistica del giallo è evidente. Il racconto si snoda alternando i due
diversi punti di vista: le indagini della guardia Bottoni e i tentativi di fuga del ladro
Esposito. La regia impedisce che il parallelismo e l’alternanza dei due piani dell’intrigo
divengano meccanici. Col procedere della storia, il personaggio di Esposito sembra
progressivamente scivolare fuori dalla logica del racconto: il punto di vista della regia (e
così anche quello dello spettatore) sembra identificarsi con quello della guardia. Si fa in
modo che lo spettatore sappia più di quanto sa il personaggio del ladro, creando
quell’autentica suspense che si scioglierà nella delicata sequenza finale quando Esposito
scoprirà che il signor Bottoni, benefattore della sua famiglia, altri non è che la sua
guardia persecutrice. Questo sfasamento della logica del racconto permette allo
spettatore di tracciarsi un quadro della situazione, di distanziarsi dai personaggi, di
metterne in gioco i valori: la guardia è dalla parte della ragione, ma, per raggiungere il
lecito fine, si serve di un mezzo subdolo; allo stesso tempo, il pubblico comprende che,
5
Cfr. Stefano Benvenuti-Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo, Mondadori, Milano, 1979; Roberto Di
Vanni-Franco Fossati, Guida al giallo, Gammalibri, Milano, 1980; Franco Fossati, Dizionario del
poliziesco, Vallardi, Milano,1994; Maurizio Colombo-Antonio Tentori, Lo schermo
insanguinato, Solfanelli, Chieti, 1990; Luca Palmerini, Gaetano Mistretta, Spaghetti
nightmares, M & P, Roma, 1998; Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente, Tarab,
Firenze, 1998; Luca Rea, I colori del buio, Igor Molino Editore, Firenze,1999.
3
nel racconto, non è più rappresentato l’astratto rispetto di una Legge, ma il concreto
modo di vita di due personaggi comuni nell’Italia del secondo dopoguerra: due proletari
separati da una divisa, ma accomunati dalla stessa disagiata condizione economica e
sociale, che «stabiliscono un contatto umano proprio attraverso queste tare dell’età, della
vita affannosa e dura a tutti e due»6. L’indagine di costume diventa un giallo morale,
superando il canone del genere, pur rispettandone tutte le regole.
La lunga serie di appostamenti, nella prima parte di Guardie e ladri, quando i due
personaggi incrociano i loro percorsi senza mai toccarsi, è un vero poliziesco “en
plen air”, in cui la contrastata fotografia in bianco e nero di Mario Bava si rifà ai codici
del genere: grandi piazze assolate e nere zone d’ombra si alternano, ora rivelando, ora
nascondendo i due personaggi in gioco. E’ in sequenze come queste (gli appostamenti di
Bottoni nel negozio di un barbiere; la fuga di Esposito, che avviene in un poco nobile
gabinetto di osteria) che combinano il genere del poliziesco e quello della commedia,
tentando la smitizzazione del racconto.
Lo si nota nella sequenza in cui per la seconda volta Bottoni entra nel salone del
barbiere, senza accorgersi che vi si trova già Esposito. I due registi usano la profondità di
campo per muovere il meccanismo degli equivoci, che scatta facendo in modo che i due
personaggi non si accorgano di trovarsi insieme nello stesso luogo, mentre lo spettatore,
consapevole, aspetta il momento dello scontro. La suspense è costruita in modo
hitchcockiano (lo spettatore sa più dei personaggi)7, ma l’inseguimento di Bottoni ad
Esposito, con la faccia sporca di schiuma da barba («Avete visto un uomo col sapone in
faccia?», «Sì, te») è una notazione comica che travolge la scena in modo parodistico.
Sarebbe bastato comunque togliere questi momenti comici dal racconto per fare di
Guardie e ladri un’anticipazione italiana del Braccio violento della legge (1971, Friedkin).
Anche se alcune opere successive, come Guardia, ladro e cameriera (1958) e Mia
nonna poliziotto (id.) si fondavano su intrecci labilmente polizieschi ( il primo, è il
racconto di un colpo tentato da tre ladruncoli l’ultimo giorno dell’anno; il secondo, segue
le indagini di un’estrosa vecchietta, alla ricerca del suo medaglione rubato, che
sgominerà una banda di criminali), non si possono ritenere tali perché rivelavano la
natura farsesca, nel ritmo accelerato e nella struttura a sketch.
Steno ritornerà al giallo nel 1960, esercitandosi stavolta con il sottogenere del thriller,
secondo un’angolazione parodistica, come evidenzia già il titolo: Psycosissimo. In realtà,
Psycosissimo, non ha molti contatti con lo Psyco (1960) di Hitchcock: molto più evidenti
quelli con un altro film del regista inglese, Delitto per delitto (1951). In ambedue le
opere, l’intrigo mette in scena uno scambio di delitti. Nel thriller di Steno, però, a
6
7
Corrado Alvaro, Il Mondo…, cit., p.122
Cfr. François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrici, Roma, 1994
4
differenza di quello di Hitchcock, l’incrocio dei delitti mette in gioco i protagonisti stessi
che, ognuno ignaro dei propositi dell’altro, vogliono eliminarsi a vicenda (come accadrà
ne L’onore dei Prizzi, girato venticinque anni dopo da Huston) e assoldano a tale scopo
due killers. L’inconsapevolezza delle due parti in causa e la natura ottusa dei due sicari
assoldati (interpretati da Tognazzi e Vianello) spostano il racconto sul terreno della farsa.
Ma l’ambientazione prevalentemente notturna, le giravolte concitate dell’intreccio e una
sequenza iniziale di forte impatto, ambientata lungo i binari di una linea ferroviaria,
indicano come la struttura thriller del film sia tutt’altro che effimera. Tanto che Giusti
ricorda come Psycosissimo «al tempo faceva comunque paura. Ricordo con terrore
soprattutto il finale con i nostri due eroi trasformati in salsicce»8.
Steno mostra di trovarsi a suo agio nel genere e prosegue su questa strada con altre
due parodie: Totò Diabolicus (1962) e Arrriva Dorellik (1967), nei quali, fin dal titolo, è
esplicito il riferimento al genere dei fumetti e ad uno dei suoi eroi, Diabolik, personaggio
creato dalle sorelle Giussani, protagonista di una lunga serie di storie sadico-criminose.
Entrambi i film ne riprendono l’iconografia: i criminali Diabolicus e Dorellik si aggirano
nelle rispettive storie, infatti, in calzamaglia nera. Il gioco parodistico è, però più
complesso di quanto non appaia superficialmente.
Steno tenta, in queste operazioni, la parodia del giallo a enigma, rifacendosi,
cinematograficamente, ad un classico della comicità macabra inglese, Sangue blu (1949,
Robert Hamer). Il film di Hamer metteva in scena un intrigo canonico del poliziesco
anglosassone: lo sterminio cadenzato di tutti i membri di un’antica e nobile famiglia,
effettuato, per questioni di eredità, da un parente illegittimo. Sangue blu aveva due
peculiarità: il racconto era messo in scena dal punto di vista dell’assassino; tutti i membri
della famiglia - «compreso quello di una suffragetta in crinolina»9 - erano interpretati da
un unico attore, Alec Guinness,. Steno svilupperà i due spunti separatamente: Totò
Diabolicus ed Arriva Dorellik, si presentano, perciò, come una duplice variazione sullo
stesso tema.
In Totò Diabolicus, il regista articola l’impianto narrativo intorno alla camaleontica
interpretazione di Totò che interpreta i sei membri della famiglia Torrealta (perseguitati e
uccisi da un misterioso Diabolicus), risultando credibile e comico anche in abiti muliebri.
Dopo un iniziale accanimento critico nei suoi confronti – Valentino De Carlo osservò
che nel film si trovavano «[…] trovate e battute da avanspettacolo cacciate a martellate
in una vicenda sgangherata più del lecito […]»10 - Totò Diabolicus è stato debitamente
rivalutato, ma sempre mettendo in luce il multiforme talento di Totò («l’ultimo grande
8
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.608
Claude Beylie, I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990, p.166
10
Valentino De Carlo, La notte, Milano, 30.4.1962 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.206
9
5
film comico di Totò da solo»11). In realtà questa ben congegnata farsa, anche
prescindendo da Totò, ha valore nella sua struttura da thriller.
La sceneggiatura – scritta, tra gli altri, da Marcello Fondato, da sempre interessato ai
meccanismi poliziesco-orrorifici in chiave ironica : Il fornaretto di Venezia (1963, Duccio
Tessari), Sei donne per l’assassino(1964, Mario Bava), I tre volti della paura (1965,
Mario Bava), Ad ogni costo (1967, Giuliano Montaldo) – costruisce una ferrea storia di
delitti ed agnizioni, con una soluzione sorprendente degna dei classici del genere (il
riferimento è un romanzo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani) e tutti gli elementi
canonici: le indagini, gli interrogatori, gli alibi, gli indizi.
Steno concerta i momenti della sceneggiatura senza scarti di tono, nonostante la
contaminazione parodistica. I due poliziotti che conducono le indagini (un commissario e
il suo vice, interpretati da Luigi Pavese e Mario Castellani) sono raffigurati secondo
l’iconografia burlesca dell’investigatore razionale e del suo aiutante: il commissario,
accompagnato da una fedele pipa (come Maigret), analizza i fatti e fa le sue deduzioni e,
mentre i morti si moltiplicano, continua ad affermare: «Il cerchio si stringe»; il suo vice
indossa un impermeabile (come il tenente Sheridan) e, come un coscienzioso Watson,
subisce passivamente le deduzioni del superiore, traendolo d’impaccio nelle situazioni più
scabrose (come nell’interrogatorio del generale nostalgico del fascismo).
Anche un “topos” tipicamente americano, come l’interrogatorio, è svelato nei suoi
meccanismi convenzionali e superato in una situazione comica. L’interrogatorio del
postino, scambiato da Pasquale Buonocore e dai suoi investigatori privati per l’assassino,
attraverso l’esasperazione grafica dell’aggressività e della violenza dei suoi interlocutoripersecutori (Buonocore tortura il postino avvitandogli il naso, prendendolo a testate,
sputandogli in un occhio, torcendogli un piede di centottanta gradi), diventa un esempio
di sadismo comico e ricongiunge il film al fumetto di partenza.
Sul piano della scrittura cinematografica, Steno dimostra di destreggiarsi abilmente
anche con un artificio tipico del poliziesco come il “flashback”, a cui affida la messinscena
dei momenti pregnanti del racconto (la preparazione del delitto iniziale, lo scioglimento
finale), introducendolo con una panoramica orizzontale (ad uno scarto spaziale
corrisponde uno scarto temporale).
Tutto il film si presenta come un esercizio virtuosistico da parte di Steno e Totò.
L’interpretazione, da parte dell’attore napoletano, dei sei Torrealta, risolve il punto
debole dei gialli fondati sul puro intrigo, in cui il meccanismo travolge la caratterizzazione
dei personaggi. Lasciato libero di improvvisare tic e macchiette, Totò mostra di divertirsi
realmente nel disegnare i personaggi del barone gaudente, del generale nostalgico in
11
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.104
6
camicia nera, del chirurgo miope, della baronessa fanatica della perfezione giovanile,
dell’esimio cardinale e, infine, di Pasquale Buonocore, figlio illegittimo, in cui acquista una
valenza di maschera il suo consueto personaggio di saggio miserabile, dall’atavico
scettiscismo. Gli scambi di identità sono evidenziati dal regista nella sua messinscena: in
ogni sequenza sono distribuiti falsi indizi; tutta la struttura del racconto si fonda su un
film nel film (la pellicola inviata da Diabolicus al barone Torrealta, preannunciante la sua
prossima morte) che, infine, si rivelerà falso, annullando tutte le certezze. Una “myseen-abyme” che tocca i suoi vertici nella presenza dello stesso Steno nel ruolo di attore (è
Angelo, il giardiniere deforme e ritardato) e nella vertiginosa soluzione finale, in cui un
fratello Torrealta si rivela un personaggio travestito: la regia si sofferma sulla creazione
della sua falsa personalità che è anche, con evidenza metafilmica, la costruzione di una
maschera da parte di Totò e ci svela che l’ultimo assassinato non è affatto Pasquale
Buonocore, ma un uomo che ne indossava la maschera (e che, di conseguenza,
indossava la maschera di Totò). Steno manipola i meccanismi del giallo, costruendo un
discorso personale in cui i complicati giochi agnitivi divengono anche una riflessione
formale sui diversi gradi di verità della rappresentazione cinematografica.
La stessa logica governa anche Arrriva Dorellik, in cui Steno utilizza l’altra
caratteristica di Sangue blu, la narrazione in soggettiva da parte dell’assassino.
L’elaborazione di Arrriva Dorellik è molto complessa: nato per sfruttare il grande
successo televisivo che Johnny Dorelli aveva ottenuto con il suo Dorellik («un Diabolik
scalcagnato che non spaventerebbe una mosca»12), il progetto si sviluppò grazie
all’ambizione degli sceneggiatori Castellano & Pipolo di rifarsi, oltre che a Sangue blu, alla
commedia americana ed in particolare a La pantera rosa (1964). Il risultato è che il
thriller si trasforma in una commedia dell’assurdo a causa della buffoneria del
personaggio del commissario Green, nemico giurato di Dorellik (si ripropone la rivalità di
un’antica e famosa coppia della letteratura poliziesca: quella tra Fantomas e l’ispettore
Juve, protagonisti dei romanzi di Allain e Souvestre) ed agli esiti catastrofici con cui si
risolvono i suoi tentativi di impedire all’assassino
mascherato di sterminare gli ottocentocinquantadue membri della famiglia Dupont.
L’assurdità del racconto tocca livelli abissali, analoghi a quelli di Totò Diabolicus, nel
finale, quando Green e Dorellik si tolgono vicendevolmente la maschera, rivelando
ognuno le fattezze dell’altro: i due rivali sono le due facce della stessa personalità.
L’inventività del film ha trovato il sostegno di Enrico Giacovelli:
…Gustoso […] Arrriva Dorellik di Steno, dove le tre “r” del titolo non sono un errore, ma una
dichiarazione di poetica, e dove Johnny Dorelli appare più spassoso che mai nel ruolo del
malvivente geniale e scalognato da lui messo a punto nel varietà televisivo “Johnny 7”: il film
vorticoso e ricco di trovate è una sorta di Pantera rosa all’italiana, concluso da un impagabile
12
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.199
7
inseguimento alla fine del quale criminale e poliziotto si tolgono la maschera e uno scopre di essere
l’altro. Ci sono più idee in questo filmetto che in tanti film cosiddetti di serie A.13
Una sorta di appendice è, l’anno dopo, Il mostro della domenica, episodio del polittico
Capriccio all’italiana e ultima interpretazione di Totò, in cui un vecchio moralista
s’immagina giustiziere mascherato in calzamaglia e ripulisce letteralmente la nuova
generazione dei “capelloni”, usando mille travestimenti per adescarli. La storia è un
apologo farsesco, leggero e sorridente, ma Steno la costruisce come un giallo, con uno
stile ellittico che provoca un discreto senso del mistero, e numerose inquadrature a mano
che conferiscono dinamicità al racconto.
Nel 1972, passati i quattro anni di crisi creativa, Steno tornerà al giallo con La polizia
ringrazia, progenitore di un genere, il poliziesco all’italiana, che si svilupperà nella
seconda metà degli anni ’70. Il regista racconta come il progetto nacque casualmente :
Un giorno che avevo deciso di non andare in macchina, perché mi ero stufato di dover stare
sempre al volante, tornai in centro a piedi, nella zona di Piazza Colonna, dove avevo abitato per
anni. E incontrai un amico, Lucio De Caro, che non vedevo da tempo. Ci siamo messi a parlare e
subito abbiamo pensato ad una cosa da fare insieme, ma una cosa un po’ diversa, e tra le varie
idee pensammo stranamente agli squadroni della morte in Brasile. E da lì è nato La polizia
ringrazia, un film che ha precorso tutto, non solo un filone, ma anche purtroppo, tanti fatti
drammatici della nostra società. 14
L’operazione di Steno ha connotazioni originali sia rispetto al poliziesco che a quello
dei film politici, a cui pure evidentemente si approssima. Rispetto ad alcuni precedenti
tentativi di cinema poliziesco italiano, La polizia ringrazia presenta una sostanziale e
decisiva novità: la presenza della polizia. La critica ha ricercato i suoi riferimenti nei film
di Siegel e Sturges; ma il film di Steno ha maggiori affinità con il contemporaneo I nuovi
centurioni di Richard Fleischer, di cui condivide, oltre allo sguardo interno alle forze di
polizia, l’ideologia, che individua le cause del declino della società nel «permissivismo dei
costumi»15 (lassismo morale, uso di stupefacenti, sessualità dirompente e mercenaria).
Rispetto ad esso, comunque, La polizia ringrazia traccia coordinate differenti: per la
prima volta, infatti, accostandosi al poliziesco, Steno non riprende o rielabora dei canoni,
ma li crea ex-novo, stabilendo i punti di riferimento per gli epigoni del genere. In primo
luogo, all’interno dell’approccio totalizzante e cronachistico nei confronti del materiale
narrativo – quasi un diario degli arresti, inseguimenti, pedinamenti effettuati dalla
questura romana – ritaglia la figura di un individuo solitario, un commissario che si
ritrova in conflitto con la polizia, poiché non ne accetta i metodi di condotta, e vi scopre
un’incancrenita corruzione.
13
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 108
Goffredo Fofi-Franca Faldini, Il cinema italiano…, cit., Mondadori, Milano, 1984, p.451
15
Renato Venturelli, Poliziesco americano in 100 film, Le Mani, Recco, 1995, p.158
14
8
L’equazione poliziesco-western è stata ben messa in luce da Tentori e Bruschini, nel
loro saggio Città violente, quando ricordano che «c’era la necessità di un altro genere
ben preciso e caratterizzato che sostituisse il western nei favori del pubblico»16: i
poliziotti protagonisti del poliziesco italiano sono molto simili agli eroi solitari di tanti
western, di cui conservano soprattutto la loro estraneità ad una società ostile.
In questo contesto è, forse, più interessante ricordare che il disaccordo dell’”uno”
contro “tutti” nel poliziesco (nel caso de La polizia ringrazia, il commissario Bertone
contro i suoi colleghi) verte sui modi con cui reprimere la violenta situazione sociale,
sviluppatasi negli anni ’70, in cui la microcriminalità (scippi, furti, stupri, omicidi colposi)
comincia ad assumere aspetti molto rilevanti. Bertone (e i suoi epigoni ancora di più, nei
film successivi) prospetta, come soluzione, un irrigidimento nell’applicazione della
giustizia
e,
soprattutto,
maggiore
potere
alla
polizia,
limitata
nelle
sue
azioni
dall’ossequioso rispetto delle leggi.
La prima parte de La polizia ringrazia è un «efficace e preciso ritratto di un’epoca della
vita italiana, con le sue contraddizioni e i suoi drammi, in cui traspare la tensione e la
paura di quegli anni»17 ed una corretta rappresentazione comportamentistica di Bertone
nella sua lotta alla microcriminalità: vengono seguiti alcuni casi esemplari come la rapina
ad una gioielleria operata da due balordi che, nella fuga, uccidono un passante; la fuga di
uno dei due ladri, con una ragazza come ostaggio, che ucciderà, quando si sentirà
accerchiato dai poliziotti, gettandola letteralmente sotto le ruote delle volanti; i rapporti
tra Bertone ed un criminale riconosciuto, Bettarini, che entra ed esce dalle patrie galere,
sviluppando il risentimento del commissario («…noi diamo la caccia ai delinquenti e la
procura dà la caccia a noi!», «Moderi i termini, commissario, siamo nel palazzo di
giustizia!», «Quale giuistizia? Quella che ha assolto Bettarini quando tutti sanno che è
colpevole?»).
La seconda parte del film, di tono nettamente differente dalla prima, mette in scena la
lotta di Bertone contro una misteriosa organizzazione Anticrimine che comincia ad
uccidere, o, meglio, giustiziare, alcuni delinquenti (un ladro, una prostituta, un
omosessuale) con ritmo cadenzato. Bertone ne scoprirà i capi all’interno della stessa
polizia (anche all’interno del governo, e dell’alta finanza), trovando il movente nella
volontà di ripulire la società dagli aspetti più decadenti, per acquistare credenziali tali da
poter effettuare un colpo di stato, con cui rovesciare la democrazia. Bertone verrà ucciso,
ma l’inchiesta verrà proseguita dal sostituto procuratore Ricchiuti, fino ad allora ostile al
commissario ed ai suoi modi giustizialisti.
16
17
Antonio Bruschin, Antonio Tentori, Città violente, cit., p.7
Ivi, p.27
9
La seconda parte, insomma, sviluppa i fili della prima e mostra le conseguenze cui
condurrebbe un comportamento reazionario come quello di Bertone, se portato fino in
fondo: alla fine della democrazia. L’organizzazione Anticrimine, infatti, non fa altro che
attualizzare, esasperandoli, i propositi del commissario. La morte di quest’ultimo è la più
potente risposta a chi accusò il film18 (e il regista) di reazionarietà: la sua uccisione finale
è la sconfitta di chi non crede nelle istituzioni, nella loro forza sociale, pur se debilitata
dalla corruzione.
Il punto di vista di Steno corrisponde con quello del personaggio del procuratore
Ricchiuti: un uomo che conserva la propria onestà e il rigore morale pur all’interno di un
ambiente corrotto e di una situazione sociale esasperatamente violenta. Non a caso sarà
lui a condurre l’inchiesta sull’Anticrimine: il regista è profondamente fiducioso nella
facoltà delle istituzioni di potersi riformare dall’interno.
La forza de La polizia ringrazia sta, comunque, nel modo semplice con cui racconta
una storia complessa ed ambigua. La dialettica politica è messa in scena raffigurando i
tre versanti dello schieramento politico (sinistra, centro, destra) in altrettanti personaggi:
Bertone (destra), Ricchiuti (centro) e la giornalista Sandra (sinistra). E’ un metodo un po’
didascalico (i personaggi del racconto sembrano non avere sentimenti privati), ma
estremamente chiarificatore che rileva le forze in campo con evidenza ideologica. La
didascalicità è superata, allo stesso tempo, dalla definizione psicologica dei personaggi,
spiccia, ma nitida.
Il commissario è un tipo d’azione, ma di poca riflessione, con una visione manichea
della realtà: la regia lo inquadra sempre in movimento, anche nei rari momenti riflessivi.
Sandra è disegnata come una passionale, attenta a non confondere la grande con la
piccola delinquenza (come fa invece il suo amico commissario), ma ha il difetto di
esprimersi per luoghi comuni. Ricchiuti è un idealista senza eccessi, un onesto
funzionario dell’apparato statale.
A dare evidenza ai tre personaggi sono, come sempre in Steno, le prestazioni degli
attori, senza sfumature, ma con molta grinta: Mario Adorf (Ricchiuti), Mariangela Melato
(Sandra) e, soprattutto, Enrico Maria Salerno, «straordinario»19 nel tratteggiare il
commissario violento ed esasperato.
Anche la regia contribuisce ad alleggerire una struttura narrativa potenzialmente
pesante e statica: la
posizione
ideologica
di
Bertone
è visualizzata in una
conferenza-stampa che il commissario tiene su un autobus, facendo da cicerone ai
giornalisti, in un lungo viaggio nella notte tra prostitute e spacciatori, affiancando esempi
18
19
Cfr. Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.994
Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente…, cit., p.26
10
concreti ai suoi discorsi astratti. La verbosità della sequenza è annullata dalla grinta della
rappresentazione.
La forza delle immagini raggiunge l’apice nella seconda parte, quando il film acquista
le cadenze di un thriller ed i delitti sono impaginati secondo una coreografia della morte
che rimanda a Dario Argento: per l’ambientazione, prevalentemente, notturna e
periferica (strade fangose, capannoni abbandonati), il gusto per i dettagli beffardi e
stranianti (i cadaveri vengono scaricati sotto manifesti che recano scritto: «Roma è
anche tua. Aiutaci a mantenerla pulita»), la violenza eccessiva e barocca (un rapinatore è
legato ad un palo elettrico e folgorato; un ladro legato ad una catena di ferro e poi
giustiziato a colpi di pistola).
Con il procedere della storia, il regista aumenta l’atmosfera di inquietudine e
ambiguità, toccando l’apice della tensione nella sarcastica sequenza della cattura del
secondo rapinatore della gioielleria, stretto, contemporaneamente dalla polizia e
dall’organizzazione Anticrimine.
Tecnicamente, il regista si serve di un montaggio rapido e serrato di dettagli, primi
piani e campi lunghi. E’ un modo di condurre la narrazione evidente soprattutto negli
inseguimenti e in quella che è la scena più feroce e violenta del film: l’omicidio della
ragazza-ostaggio, gettata sotto le ruote dell’auto della polizia dal suo rapitore. Il
montaggio di un inquadratura fulminea, il primo piano del corpo, che finisce sotto le
ruote dell’auto, con il lungo totale che pone, in primo piano, il rapitore che fugge in moto,
e, sullo sfondo, ormai lontanissime, le volanti della polizia, lo rende quasi insostenibile. E’
resa evidente, dalla pausa che interviene dopo l’azione sfrenata dell’inseguimento,
l’inutilità dell’azione, ben espressa dall’immobilità dei poliziotti, rimasti basiti sul luogo
dello scempio, in un campo lungo che li raffigura come tanti automi.
La polizia ringrazia non mostra il colpevole caricandone i tratti fisici e psicologici. Lo
smascheramento della sua identità nascosta, prima del colpo di scena finale, sotto le
spoglie di un’onesta e perbenista rispettabilità, comporta un radicale ribaltamento delle
convinzioni dello spettatore. La testimonianza del valore del film, girato con «un’abilità
registica che nulla ha da invidiare ai polizieschi americani, avvalendosi di un ritmo
mozzafiato e di sequenze d’azione dal grande impatto visivo»20.
Lo stesso Steno era consapevole di aver realizzato un’opera diversa, tanto da
firmarla,per la prima volta, con il suo vero nome, poiché non voleva che il pubblico
pensasse di assistere al solito film comico di Steno.
La polizia ringrazia non reca nel racconto tracce di commedia. Nonostante tutto,
influenzerà la successiva produzione comica del regista. Per tutti gli anni ’70 Steno si
20
Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente…, cit., p. 27
11
dedicherà ad un tipo di commedie in cui l’indagine ambientale e psicologica sarà molto
approfondita; talune conserveranno anche una struttura più o meno aderente ai canoni
del poliziesco.
A cominciare dall’immediatamente successivo Anastasia mio fratello – in cui, però, il
ritratto a tutto tondo di un uomo, estraneo al contesto sociale in cui vive, prevale sui
meccanismi del gangster-movie, che pure sono molto evidenti (l’ascesa
e la caduta di un boss mafioso, la lotta tra cosche rivali, la descrizione dei sindacati
mafiosi portuali americani) – e, soprattutto, Piedone lo sbirro, epigono semi-burlesco de
La polizia ringrazia.
Piedone lo sbirro (1973) è un curioso caso di poliziesco realistico a tesi. Ambientato a
Napoli, espone il convincimento, attendibile e pragmatico, ma non necessariamente
condivisibile, che, per tenere sotto controllo la malavita, bisogna collaborare e dialogare
con essa. In particolare, con i cosiddetti “uomini d’onore”, che impegnati a governare una
realtà parallela a quella istituzionale ed a mantenerla in uno stato d’ordine: il film li
distingue dalla nuova malavita, quella che maneggia la droga e la prostituzione con
eguale, disinvolta, mancanza di scrupoli. Quella prospettata in Piedone lo sbirro è la
stessa soluzione che si augurava, ventiquattro anni prima, Pietro Germi, nella sequenza
finale di In nome della legge. Uguale l’ideologia dei due registi, opposta la realizzazione
dei due film: tanto vigoroso ed enfatico quello di Germi, quanto leggero e brillante quello
di Steno.
Piedone lo sbirro presenta la stessa scansione narrativa de La polizia ringrazia: un
racconto cronachistico che isola, progressivamente, una storia in particolare. In questo
caso, la lotta tra una malavita d’origine straniera e la camorra, per il controllo del
mercato degli stupefacenti, e la lunga catena di delitti cui essa dà inizio.
Tra i suoi profili narrativi c’è sicuramente quello didattico: l’ammonimento ai giovani a
sfuggire dai pericoli della tossicodipendenza. Nel film, infatti, gli stupefacenti sembrano
circolare soprattutto nell’ambiente scolastico: sono i ragazzi i soggetti più indifesi della
società, afferma Piedone lo sbirro. Lo afferma, però, con uno stile altamente
spettacolare, impiegando tutti i codici del poliziesco: inseguimenti in auto, scippi, rapine,
fughe, delitti, interrogatori e tante scazzottature che portano immediatamente il film sul
piano della parodia.
L’originalità del racconto è quella di rendere protagonista un poliziotto che sembra
l’antitesi del commissario Bertone de La polizia ringrazia: il commissario Rizzo, detto
Piedone. Tanto il primo era intransigente con i delinquenti, tanto Rizzo è accomodante
con loro e duttile nell’applicare le leggi. Soprattutto, a differenza degli altri investigatori o
poliziotti, non usa armi: per difendersi ed attaccare usa le proprie mani che, chiuse a
pugno, fanno più male di qualsiasi proiettile. Una soluzione narrativa che mette
12
interamente a suo agio l’attore che l’interpreta, Bud Spencer, quasi una maschera
popolare: quella del buono che risolve le ingiustizie e protegge i deboli, grazie ad una
bontà pari quasi alla sua forza. L’attore - reduce dai successi dei western comici con
Terence Hill (Lo chiamavano Trinità, Continuavano a chiamarlo Trinità di Enzo Barboni) e
da un poliziesco di Lizzani, Torino nera, privo di ironia - è bravo ad evidenziare la sua
migliore qualità: quella di nascondere, dietro una recitazione sorniona ed impigrita,
un’ironia ed una vigoria insospettabili.
Steno definisce le caratteristiche fisiche e psicologiche del personaggio di Piedone già
dalla prima sequenza, in cui dispiega il suo stile fatto di rapide e precise annotazioni.
A Napoli, un marinaio negro americano, salito sul tetto di una casa vicino al porto,
minaccia con una pistola i passanti. La polizia, schierata tutt’intorno al palazzo,
impotente nei suoi confronti, decide di eliminarlo fisicamente. Un cecchino ha già preso la
mira dalla sua carabina, quando interviene Piedone. La sua entrata in scena avviene in
un’inquadratura in contro-plongée, in dettaglio, del suo piede, che assume proporzioni
gigantesche, mentre abbassa la carabina del cecchino. Sempre in contro-plongée, la mdp
passa ad inquadrare
la figura intera del
commissario, che
riempie totalmente
l’inquadratura: ha una folta barba nera che gli copre interamente la metà inferiore del
volto, ma due occhi neri buoni e profondi che annullano l’apparenza malvagia. Dopo
averlo descritto fisicamente, la regia segue Piedone in azione, mentre costringe alla resa
il marinaio grazie alla sua straripante forza fisica, ma anche ad una notevole dose
d’astuzia (si presenta al cospetto dell’americano solo dopo che costui ha scaricato tutti i
proiettili della pistola): lo fa con un montaggio alternato di campi lunghi che ritagliano lo
spazio dell’azione e primi piani che sottolineano lo sforzo dei due uomini in lotta. Salvata
la vita all’uomo, il commissario torna dai poliziotti, come fosse un eroe antico al ritorno a
casa dopo una battaglia impossibile e decisiva: la mdp lo isola dagli altri funzionari ed
agenti, mentre il suo amico, il brigadiere Caputo, gli gira intorno felice. Rifiutato il
passaggio dagli agenti, Piedone torna al commissariato a piedi, immergendosi tra i vicoli
affollati della Napoli popolare: quella è la sua gente. Avverte un’anziana contrabbandiera
di sigarette dell’arrivo imminente della polizia, s’incontra con un vecchio informatore,
gobbo e miserabile, e lo paga, nonostante s’inventi i fatti, perché porta fortuna.
Concentrati nei dieci minuti iniziali, ci sono tutti i temi narrativi di Piedone lo sbirro: la
figura dell’investigatore, forte, buono, generoso, amico dei miserabili; la tensione delle
scene d’azione; la vivacità delle scene popolari, costruite attorno a personaggi curiosi e
stravaganti, tratteggiati secondo lo stile tipico della commedia: proseguendo, il film
presenterà un capoparanza con la mano sinistra mutilata, detto “Manomozza”,
Gennarino, ladro sfortunato con famiglia a carico, che ruba oggetti inutili («Ho rubato
13
due copertoni, senza camera d’aria e col battistrada a zero») e vive ospite nella casa del
commissario.
«Nella sua tessitura appaiono motivi efficaci per un racconto su Napoli tenendo
d’occhio il modulo che usò Francesco Rosi al tempo de La sfida»21: Piedone lo sbirro lo si
può considerare come l’ultima parte di una trilogia poliziesca che, cominciata con La
polizia ringrazia e proseguita con Anastasia mio fratello, è la rappresentazione di tre
metropoli moderne soffocate dalla criminalità: rispettivamente Roma, New York e,
appunto, Napoli.
La città partenopea è ben più di uno sfondo: motiva e giustifica azioni e reazioni dei
personaggi del film. A cominciare dallo scontro ideologico tra Piedone ed il commissario
capo Tabassi, che non approva la condotta del suo sottoposto ed arriva a sospettarlo di
essere colluso con l’ambiente camorristico. Tabassi, uomo freddo ed ironico, viene dal
Nord e non riesce ad interpretare la mentalità napoletana, troppo convinto di
un’applicazione letterale della legalità, possibile teoricamente, ma non sul piano pratico.
Tabassi sospende Piedone dall’incarico ed il commissario si trova ad indagare
privatamente sul traffico di stupefacenti, organizzando una propria banda parapoliziesca.
Una situazione a metà tra il poliziotto ufficiale e l’investigatore privato che gli autori (De
Caro, Badalucco e Vincenzoni, che torna a collaborare con Steno a dieci anni di distanza
da Copacabana Palace) rappresentano ingegnosamente anche sul piano privato: Piedone
non è sposato, ma vive a pigione in casa di una vedova con figlio. Non ha perciò,
formalmente, una famiglia, come un investigatore privato (personaggio individualista e
solitario), ma è come se l’avesse (s’interessa alle vicende del ragazzo drogato come se
fosse suo figlio), come un classico poliziotto (come Maigret, ad esempio).
Il personaggio di Piedone è talmente convincente sotto il profilo psicologico ed ha una
presenza così incisiva che il film ebbe un successo enorme e diede il via d una vera e
propria saga cinematografica, comprendente altri tre film nei successivi otto anni,
sempre sotto il controllo registico di Steno: Piedone a Hong-Kong (1975), Piedone
l’Africano (1977), Piedone d’Egitto (1980). Il personaggio assumerà contorni così definiti
da divenire quasi proverbiali, tanto da permetterne una totale identificazione con l’attore
Spencer.
Già a cominciare da Piedone ad Hong-Kong, la serie ebbe degli spostamenti narrativi
che la caratterizzarono sotto un segno diverso rispetto a quello del prototipo. Eliminati gli
agganci sociali e di costume, affiancato un bambino all’attore napoletano – accentuando
quella «retorica deamicisiana»22 che il critico Pietro Bianchi aveva già individuato in
21
Pietro Bianchi, Il Giorno, 27.10.1973, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema italiano…, cit.,
vol.4, p. 151
22
Pietro Bianchi, Il Giorno…, cit., p.151
14
Piedone lo sbirro – assunsero primaria importanza la figura del brigadiere Caputo (Enzo
Cannavale, spalla estrosa di Bud Spencer) e l’utilizzo della violenza manesca del
protagonista, sottolineando il lato comico-patetico delle storie.
Piedone sarà portato, dal caso o dai suoi superiori, ad indagare in luoghi esotici come
l’Estremo Oriente e l’Africa. La serie si connoterà così sotto il segno del giallo comicoavventuroso, ricco di gag, scazzottature, suspense e splendidi paesaggi, utilizzati da
Steno in ariose immagini turistico-documentarie. Fu lo stesso regista a definire
perfettamente la natura di questi prodotti:
[…]Mi sono divertito anche a fare un tipo di film alla 007, che per un regista è molto piacevole:
giri il mondo, fai cose avventurose in un genere completamente diverso dalla commedia. Sono film
che prendono dalle sette alle nove settimane, perché c’è molta azione. Ma gli americani ci
metterebbero cinque mesi, costerebbero milioni e milioni di dollari! 23
Nel periodo del riflusso economico, in un epoca angustiata dal terrorismo, la serie
permetteva allo spettatore di distrarsi garbatamente, rassicurandolo con la sua violenza
ridanciana e liberatoria, sorprendendolo con immagini di mondi sconosciuti. Con il suo
rifiuto programmatico della volgarità allora imperante nel cinema medio italiano, con la
sagace capacità di costruire un nuovo eroe popolare, la serie risultò l’unico, vero, felice,
approdo della ricerca, da parte del cinema nostrano di un genere per ragazzi o per
famiglie. Grazie alla professionalità e personalità del regista, si riuscì a coniugare
spettacolo e buoni sentimenti, senza scadere nella melassa sentimentale o nel
dilettantismo tecnico. Questi film erano storie ben congegnate, dalla suspense calibrata,
con un dosato equilibrio tra comicità ed avventura: avevano tutto per avere successo ed
infatti lo ebbero, dando via ad un genere che dominò gli incassi tra gli anni ’70 e ‘80.
Nel frattempo Steno aveva girato una parodia del thriller argentiano, Il terrore con gli
occhi storti (1972), in cui due sprovveduti mettevano in scena un finto omicidio, per poi
scoprirne la sua effettiva realizzazione ed ingaggiare una lotta contro il tempo per
scoprire il vero assassino ed evitare l’arresto. Impostato intorno alla coppia Alighiero
Noschese-Enrico Montesano, articolato «abbastanza vivacemente in virtù del movimento
impresso
al racconto
da una
filza di fughe e inseguimenti»24, secondo il critico
Leonardo Autera, il fim era pieno di «amenità (che) non esulano dal gusto corrivo delle
farse alla Franchi e Ingrassia, che restano, a conti fatti, il modello più prossimo della
coppia Noschese-Montesano, come della disadorna confezione adottata dal regista»25. In
effetti, Il terrore con gli occhi storti sembra girato in economia ed è quasi sprovvisto di
attori caratteristi (ci sono Lino Banfi agli esordi e Francis Blanche). Ma è il primo passo
verso il giallo a enigma, cui il regista approderà nel 1977.
23
Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano…, cit., p.435
Leonardo Autera, Corriere della Sera, 3.9.1972, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema
italiano…, cit., vol.4, p.336
24
15
Doppio delitto, questo il titolo dell’opera, è la trascrizione cinematografica del romanzo
Doppia morte al Governo Vecchio26, di Ugo Moretti, che aveva esordito nel genere nel
1956, con Nuda corre la morte, ed aveva proseguito la sua carriera di giallista con titoli
come Un cadavere da mezzo miliardo, Assassinio per appuntamento, Un demonio corre a
Brooklyn27. Il film si inserisce in quel filone che combina “mistery”, giallo di indagine e
commedia all’italiana, avviato già nel 1960 da Crimen di Mario Camerini e poi consolidato
dal rilevante successo (£ 1.216.000.000 all’epoca) di La donna della domenica (1975) di
Luigi Comencini. Doppio delitto nasce, produttivamente, proprio per sfruttare il successo
di quest’ultimo film: ne riprende l’attore protagonista, Marcello Mastroianni; il cast “all
stars” ed internazionale (nel film di Steno ci sono Agostina Belli, Peter Ustinov, Ursula
Andress, Jean-Claude Brialy, Mario Scaccia) e, soprattutto, la coppia di sceneggiatori,
Age
e
Scarpelli, tornata a lavorare
con
Steno a ventiquattro anni dall’ultima
collaborazione (Cinema d’altri tempi).
Insieme al film di Comencini (tratto dal best-seller omonimo di Fruttero e Lucentini28),
Doppio delitto inaugurerà una breve moda (esauritasi nell’arco di un quinquennio), quella
dei gialli d’indagine e di costume tratti da romanzi di nuovi scrittori italiani di polizieschi,
che
sono
altrettanti
ritratti
ambientali
di
nostre
realtà,
non
necessariamente
metropolitane: si possono ricordare anche Al piacere di rivederla (1977, Marco Leto da
Levi29),
La
mazzetta
(1978,
Sergio
Corbucci
da
Veraldi30),
Agenzia
Riccardo
31
Finzi…praticamente detective (1979, Bruno Corbucci da Secchi ), Fantasma d’amore
(1981, Dino Risi da Milani32).
La città di Torino de La donna della domenica e quella di Bologna di Al piacere di
rivederla sono molto simili a Pavia in Fantasma d’amore: Torino e Bologna sono le
metropoli più provinciali della nostra nazione, quelle in cui lo stile di vita è «falsamente
cosmopolita e distaccato»33. Ciò consente agli autori di questi film, di scavare dietro la
facciata perbenista, di «far saltare il ben munito meccanismo difensivo»34, di rivelare una
società marcia e corrotta nei costumi.
Curiosamente questo discorso vale anche per la città di Roma in Doppio delitto,
totalmente diversa dalla città tentacolare e soffocata dalla microcriminalità di La polizia
25
Ibidem.
Ugo Moretti, Doppia morte al Governo Vecchio, Longanesi, Roma, 1960, poi Bariletti, Roma,
1990
27
Cfr. R.Di Vanni-F.Fossati, Guida al giallo, cit.
28
Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La donna della domenica, Mondadori, Milano, 1975
29
Paolo Levi, Ritratto di provincia in rosso, Rizzoli, Milano,1975
30
Attilio Veraldi, La mazzetta, Rizzoli, Milano, 1976
31
Luciano Secchi, Agenzia Riccardo Finzi detective, Editoriale Corno
32
Mino Milani, Fantasma d’amore, Mondadori, Milano, 1977
33
Giorgio Gosetti, Luigi Comencini, La nuova Italia, Firenze, 1988, p.85
34
Ibidem.
16
26
ringrazia. L’ambientazione nella Roma rionale consente di ritagliare e definire pochi
personaggi in un ambiente chiuso: tutta la vita sembra svolgersi attorno ad una strada e
ad un palazzo, nella zona del Governo Vecchio, omologa in questo senso
ai
villaggi
inglesi dei gialli di Agatha Christie. Quei luoghi che il critico anglosassone Colin
Watson ha schematizzato in un villaggio ideale, cui ha dato il nome di Mayhem Parva35:
«[…]nessuno lavora a Mayhem Parva, anche perché non esistono fabbriche; tutt’al più si
esercitano le libere professioni, ma più come diversivo per rendere sopportabile
l’esistenza che non per autentica necessità. […] A Mayhem Parva è presente la caricatura
dello spionaggio che è il pettegolezzo»36.
A Mayhem Parva sembrano appartenere gran parte dei personaggi di Doppio delitto,
quelli eccentrici e stravaganti, rappresentanti del mondo artistico e cinematografico: la
disinvolta moglie del principe, ex-attrice sul viale del tramonto; il suo amico, lo
sceneggiatore, un tempo famoso, chiacchierone e fuori dal tempo; lo scultore con la
moglie pazza; il nipote del principe, musicista ambiguo e misterioso; e soprattutto il
libraio, detto Sorcio, il più vicino ai personaggi di Mayhem Parva, pettegolo impenitente,
che è, al contempo, il rappresentante più tipico di quella romanità popolaresca, sarcastica
e logorroica, punto di fusione delle tendenze anglosassoni ed italiane del film.
«La sceneggiatura (firmata Age & Scarpelli) segue così due binari distinti: c’è da
scoprire ragione e modo di un duplice omicidio […] e c’è da comporre un affresco di tipi e
snodi del pensiero che ha come sfondo una ben singolare metropoli»37: questa
affermazione, riferita a La donna della domenica, può tranquillamente essere presa in
considerazione anche per analizzare la struttura del racconto di Doppio delitto. Al coro di
personaggi da giallo inglese, alla puntualizzazzione ambientale essenziale nel genere
(«[…]occorre che una casa, il luogo in cui la gente vive, sia interessante […] è necessario
che si tratti di luoghi in cui la gente sta insieme»38), gli autori aggiungono caratteri e
situazioni che personalizzano il racconto.
Così, il personaggio di Teresa (nipote dell’elettricista ucciso insieme ad un principe da
un falso temporale), ragazza ribelle e contestatrice, ostile alle convenzioni borghesi fino
alla cavillosità, ma dal carattere dolce, acquista sfumature assenti perfino nel romanzo di
Moretti (scritto nel 1960, mentre il film, del 1977, ha già conosciuto i movimenti del ’68
e, ovviamente, del ’77). Ma è soprattutto l’investigatore del film, il commissario
Baldassarre, a proporsi come antitesi degli infallibili detective del giallo classico.
35
Colin watson, Snobbery with violence, Eyre Nethuen, 1979, p. 165
Mauro Boncompagni, Prefazione a Agatha Christie, Macabro Quiz, Mondadori, Milano, 1987,
p.7-8
37
Giorgio Gosetti, Luigi Comencini, cit., p.7-8
38
Agatha Christie in un’intervista di Francis Wyndham, Sunday Times, 27.2.1966
17
36
Costretto a lavorare nell’ Archivio dei corpi di reato, edificio enorme e solitario, dopo
aver commesso un errore clamoroso (aveva facilitato la fuga di un assassino, sia pur
involontariamente), Dindo Baldassarre ottiene il caso del duplice omicidio del Governo
Vecchio, come occasione ultima di riscatto. Sfruttata, perché il caso lo risolve, ma solo
con la tenacia, senza un minimo di genio. Caso unico di investigatore nella storia del
giallo, il commissario Baldassarre, per le sue indagini non sembra usare il metodo
abduttivo di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot - metodo fondato sulla serendipità: da
“serendipity”, neologismo coniato da Horace Walpole «per descrivere la capacità di fare
trovate geniali e apparentemente gratuite, in base a dati scarsissimi e quasi
insignificanti»39 - né quello intuitivo di Nero Wolfe. Baldassarre è un investigatore che
non sa investigare: si aggira sul luogo del delitto senza saper cosa fare; non sa condurre
un interrogatorio: aspetta che i sospettati facciano volontariamente le rivelazioni, mentre
invece riferiscono soltanto quello che voglionio riferire. Ha un assistente, il brigadiere
Cantalamessa, degno di lui: scivola dal tetto durante un sopralluogo, si ripara dalla
pioggia con un sacco per la pattumiera, deve orinare durante un inseguimento e, mentre
si compie il terzo omicidio, conduce il commissario su una scala sbarrata, da dove
assistono impotenti al delitto.
I due poliziotti, nonostante le numerose trovate farsesche, non sono macchiette:
Baldassarre e Cantalamessa sono due uomini comuni alle prese con eventi inestricabili,
nei confronti dei quali hanno difficoltà ad opporsi. Gli autori tolgono all’investigatore la
sua aura di infallibilità. Baldassarre è un sognatore, un adulto con la mente di un ragazzo
(si appassiona per i racconti di Nick Carter), a disagio anche con le donne: la moglie lo
ha lasciato, la giovane Teresa, di cui s’è innamorato, lo rifiuta perché troppo maturo.
Ad interpretare il personaggio del commissario è «un Mastroianni superbo, così bravo
da dettare da solo il ritmo delle inquadrature»40. Con i capelli leggermente ritti e
l’ombrello sottobraccio, percorre con aria stupita e svagata tutte le inquadrature: Steno
lo pone al centro di ognuna di esse, pronto a cogliere tutte le sfumature delle sue
espressioni e costruisce intorno a lui ogni sequenza.
Come quella iniziale, costruita con un ritmo musicale: su un tema conduttore (la
presentazione del commissario) se ne innestano molti altri a richiamo: descrizione
ambientale, presentazione dei personaggi e loro definizione psicologica, spargimento di
indizi. Lo spunto narrativo è il viaggio di Baldassarre per raggiungere il luogo di lavoro.
Lungo il percorso, effettuato a piedi tra i vicoli di Roma, ha tanti
39
Luigi Calcerano-Giuseppe Fiori, Guida alla lettura di Agatha Christie, Mondadori, Milano,
1990, p.41
40
Pietro Bianchi, L’Europeo, 20.1.1978
18
piccoli incontri che sembrano casuali, ma sono in realtà in rapporto con l’intreccio: alcuni
capelloni che suonano la chitarra seduti sulla fontana di Piazza Farnese, due hippies
appollaiati sul rosone di una chiesa, che, insieme agli sgargianti murales che coprono le
facciate delle case (fa bella mostra di sé soprattutto quello che reca scritto “Prendiamoci
la nostra città”), rendono il clima ambientale e sociale del racconto; l’operaio che, in
controluce, aggiusta l’antenna su un tetto, la ragazza col megafono che arringa una
piccola folla, il libraio pettegolo, che snocciola fatti e descrive persone del palazzo in cui
lavora, li scopriremo in seguito come protagonisti della storia; alcune gag e notazioni
stravaganti - come quelle dei due anziani suonatori ambulanti che interrompono la loro
esecuzione nel ristorante per fare pubblicità («Miopi, presbiti, semiciecati: solo al
supermercato dell’occhiale in Via dei Banchi vecchi. Lenti a contatto flessibili a prezzi
imbattibili. Affrettarsi! Affrettarsi! Offerta speciale»), della macchinetta automatica
dell’Archivio che invece del caffè cala nel bicchiere la moneta, del brigadiere
Cantalamessa, che per vivacizzare le soporifere giornate nell’Archivio, redige sui cartellini
dei reperti dei racconti in linguaggio burocratico – non sono fini a se stesse, ma
arricchiscono lo spessore della vicenda.
A differenza degli altri gialli italiani del periodo, a cominciare da La donna della
domenica, il disegno dei personaggi non prevarica sulla logica del racconto. La loro
caratterizzazione, ad esclusione di quella del commissario, non è diretta ad un
approfondimento psicologico. Semmai
è
volta a tipizzarli, a renderli facilmente
riconoscibili e muoverli come pedine su una scacchiera narrativa che sembra posta
davanti a uno specchio: ogni personaggio si comporta con la consapevolezza di far parte
di un gioco, di una rappresentazione, di essere un congegno di un meccanismo narrativo
abusato e perciò ormai logoro. Tutti i personaggi principali fanno parte del mondo
artistico e due di essi di quello cinematografico. Sono proprio questi ultimi due, la
principessa attrice e lo sceneggiatore regista americano, che rivelano, nelle loro parole e
negli atteggiamenti, la consapevolezza di star recitando un gioco delle parti in cui si
muovono perfettamente a loro agio, svelando allo spettatore le convenzioni del
poliziesco. Durante il suo interrogatorio, ad esempio, lo sceneggiatore si rivolge al
commissario con queste parole, che ne anticipano il comportamento canonico:
L’ispettore si guarda un po’ intorno. Dopodiché si siede. Nel frattempo lo scrittore, con gesto
disinvolto, prende un sigaro e lo accende. Lo scrittore scruta attentamente l’ispettore e tra sé
pensa: chissà a cosa devo l’onore di questa visita.
Poco prima, riferendosi al copione che sta scrivendo, aveva affermato che «una buona
scena, in un buon film, deve avere un buon finale o una sorpresa»: una massima che
vale anche per la costruzione di Doppio delitto.
19
Il film di Steno effettua una continua autoriflessione sul genere. Ogni personaggio è
conscio di far parte di una rappresentazione. Si giunge così ad una piena teatralizzazione
della vicenda: il palazzo del Governo Vecchio ne è il palcoscenico, il cortile è il centro
d’attrazione (inquadrato sempre dallo stesso lato dalla mdp), i personaggi sono gli attori
ed il libraio detto “Sorcio” riunisce in sé le caratteristiche del coro e del servo intrigante
delle commedie plautine e rinascimentali (come lui «[…] è il solo che, stando sulla scena,
può controllare, influenzare, commentare con ironia e
41
avvenimenti» ).
E’
lui
a
presentare
tutti
lucidità
lo
sviluppo
degli
i personaggi della vicenda, inserendoli
disinvoltamente nelle sue conversazioni con il commissario, analogamente alla Domenica
di Una delle ultime sere di Carnovale42 di Carlo Goldoni, che il critico Aldo Viganò,
d’altronde, considera uno dei punti di riferimento della commedia all’italiana43. Così il
Sorcio presenta la moglie dello scultore belga:
- Moglie scultore belga: matta aggravata dal vino […] Atarassia retromotoria: la pazza di
Chaillot.
Siamo in piena commedia popolare. Il libraio esprime il disagio per un’estate insolita
sgambettando per il cortile sotto la pioggia, cantando un antico detto:
Quando piove e brilla il sole, qualche vecchia fa l’amore. Quando il tempo è così strano solo il
diavolo è sovrano…solo il diavolo è sovrano.
La sua personalità è definita puntualmente dallo sceneggiatore americano: «E’ un
grande attore. Guitto sì, ma come se ne vedono pochi al giorno d’oggi». Un’affermazione
che cristallizza il gioco di specchi del film.
Un gioco che sottintende la produzione poliziesca del regista. Lo slittamento dei ruoli
sociali di Guardie e ladri, la giostra di travestimenti di Totò Diabolicus, lo scambio di
identità di Arriva Dorellik, la messinscena del falso delitto di Il terrore con gli occhi storti,
la teatralizzazione del racconto di Doppio delitto e, anche se in misura minore, la
conferenza-stampa di La polizia ringrazia e il coro dei personaggi popolari di Piedone lo
sbirro sono la sublimazione formale dei codici stilistici del giallo. Attraverso di essi, quello
che è il fondamento del congegno narrativo del poliziesco, lo svelamento di una realtà
nascosta, diventa, nelle mani del regista, occasione per una riflessione sui meccanismi
della visione e del racconto cinematografico. Le convenzioni sono smascherate (gli
investigatori dei gialli di Steno sono fallibili, incapaci e sfortunati), i codici sono
esasperati. I canoni del genere sono toccati e subito superati, spesso sotto il segno della
parodia, comunque sempre demitizzati, secondo quel temperamento scettico che sempre
41
G.B.Conte-e.Pianezzola, Storia e testi della letteratura latina, Le Monnier, Firenze, 1988,
p.68
42
Carlo Goldoni,,Una delle ultime sere di Carnovale, Marsilio, Venezia, 1993,
43
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.5
20
lo ha guidato e che, secondo Kezich, ha influenzato i modi di fare spettacolo in Italia, fino
ai
44
giorni
nostri.44
Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988
21
Capitolo 7. Anni di piombo, anni di commedia: gli anni ’70 di Steno.
Quando sembrava che l’ispirazione di Steno fosse tutta dispiegata, giunsero
improvvise le opere degli anni ’70, che s’inserirono pienamente nel genere della
commedia all’italiana e costrinsero la critica – che lo aveva già catalogato come regista
«di prodigiosa efficienza […] sempre a disposizione anche (seppure non esclusivamente)
dei prodotti di minori pretese»1 - a rivedere il proprio giudizio.
Anastasia mio fratello (1973), La poliziotta (1974), Il padrone e l’operaio (1975),
Febbre da cavallo e L’Italia s’è rotta (1976), La patata bollente (1979) possono essere
analizzati come sei capitoli di uno stesso romanzo, tale è la compattezza stilistica ed
ideologica
che
li
permea.
La
loro
apparizione
non
è
improvvisa
(poiché
contemporaneamente Steno continua a dedicarsi ad una produzione di genere), né
immotivata. Giungono dopo il film della svolta, La polizia ringrazia, nel decennio che
segna la crisi della commedia all’italiana, almeno nei suoi autori principali.
Enrico Giacovelli sembra elencare esaurientemente le cause di questa crisi:
[…] Nella seconda metà degli anni ’70 la società italiana piomba nel buio e si trova di fronte
nuovi problemi, alcuni dei quali non possono essere trattati in forma di commedia: crisi economica,
crisi energetica, delusioni politiche e sociali, e fin qui passi, si può ancora abbozzare un sorriso tra i
denti; ma anche terrorismo, incubi nucleari, catastrofi ecologiche, e qui scherzare diventa più
difficile. Molte battute di questi film sono comiche ma non fanno nemmeno più ridere, rimangono in
gola come un groppo. Soltanto i produttori continuano ad esigere il riso, per loro è l’unica via di
approccio alla realtà. Ed ecco allora che a quest’epoca triste restano due sole alternative: o la
risata epidermica, disimpegnata, preferibilmente volgare; o quella malinconica, velata, quasi una
riflessione su se stessa.
C’è poi da tenere in conto un altro fattore: l’età degli autori e degli attori. Se diamo uno sguardo
ai loro dati anagrafici, ci accorgiamo che alla fine degli anni ’70 Pietrangeli, Germi e De Sica sono
morti, Comencini e Monicelli vanno per i settanta, e quasi tutti gli altri attori e registi hanno
passato o stanno per passare la soglia dei sessanta (il solo Scola ha una decina d’anni di meno).
[…] Questo significa che le
commedie dell’epoca raccontano perlopiù storie di vecchi; quando invece i giovani, che alla fine
degli anni ’70 costituiscono la stragrande maggioranza del pubblico cinematografico, vogliono
vedere sullo schermo storie di coetanei, preferibilmente raccontate da coetanei2.
Lo sguardo di Steno, non compromesso precedentemente con il genere, si avvicina ai
personaggi di questa età di crisi con una freschezza ed un candore che rasentano
l’ingenuità. La drammatica condotta di vita di quegli anni entra a volte con tutta la sua
tragicità (Anastasia mio fratello), ma più spesso ha spazio l’utopia (La patata bollente) e
la sicurezza in un’ottimistica pacificazione dei conflitti e delle classi (Febbre da cavallo).
Nel periodo in cui la commedia all’italiana sta lentamente esaurendosi, Steno
ricomincia da zero, disinteressandosi della preesistenza di un intero genere, dei suoi
codici, delle sue strutture.
1
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 137
1
Si lega a sceneggiatori importanti che hanno frequentato generi diversi dalla
commedia: Sergio Amidei e Alberto Bevilacqua (Anastasia mio fratello), Alfredo Giannetti
(Febbre da cavallo), Giorgio Arlorik (La patata bollente) e, soprattutto, Luciano
Vincenzoni (Piedone lo sbirro, La poliziotta, Il padrone e l’operaio, L’Italia s’è rotta). Sono
tutti sceneggiatori impegnati politicamente a sinistra (seppur con diverse gradazioni: i
comunisti Amidei ed Arlorio sono ben diversi dall’anarchico Vincenzoni): l’autore del
soggetto di L’Italia s’è rotta è addirittura Giulio Questi, sceneggiatore e regista
contestatore e d’avanguardia3.
Non è un caso allora che le tematiche di queste opere si presentino come progressiste
e civili. La patata bollente, e lo rileva il critico Tullio Kezich, «è una macchina da risate
che pretende di macinare un tema serio, le contraddizioni della sinistra tradizionale tra
pubblico e privato. Però sul personaggio di Pozzetto, descritto all’inizio con originali tratti
di operaismo sono calamitate troppe operazioni contraddittorie: è spontaneista e tiene in
cornice il ritratto di Berlinguer, si proclama eurocomunista e va in estasi per un viaggio
premio a Mosca»4. Evidentemente il critico non tiene presente che il personaggio di
Mambelli non è quello di un intellettuale di sinistra criticamente coerente, ma di un
operaio visceralmente attaccato alle idee comuniste. Da questo punto di vista
l’inquadramento sociologico è sicuramente molto più fedele di quanto pensasse Kezich.
C’è da aggiungere che molte annotazioni lampo (come la falce e il martello attaccati sulla
porta del bagno di casa Mambelli) sono state aggiunte da Steno e suo figlio Enrico per
sdrammatizzare una sceneggiatura precedente di Arlorio molto più politica e destinata a
Loy, che ne avrebbe dovuto fare uso per un futuro film a due episodi (l’altro sarebbe
stato Cafè express)5. Il padrone e l’operaio è una metafora politica sotto forma di
paradosso. L’Italia s’è rotta è la storia di tre sottoproletari in un Italia corrotta e pervasa
dalla delinquenza.
Il regista utilizza la generazione di nuovi comici (Renato Pozzetto, Enrico Montesano,
Luigi Proietti), si concede il lancio di una protagonista femminile (Mariangela Melato, che
vincerà il David di Donatello per la sua interpetazione de La poliziotta) e prova, con
notevole successo, il talento comico di un giovane attore drammatico (Massimo Ranieri).
Attua una rivoluzione formale, rispetto a sé stesso, ma anche rispetto al genere, che
gli consente di affrontare temi inediti per la commedia. Come l’analisi della condizione
operaia (Il padrone e l’operaio) e dei suoi rapporti con il partito e tutta la cultura
comunista (La patata bollente); l’omosessualità (La patata bollente: «Steno non spinge
fino alle sue estreme conseguenze la situazione, non sono ancora i tempi, ma già vedere
2
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 74-5
L’autore di La morte ha fatto l’uovo(1967), Se sei vivo, spara! (1969), Arcana (1971)
4
Tullio Kezich, Il novissimo Millefilm, Mondadori,. Milano, 1982
3
2
le reazioni dell’operaio medio di fronte alla diversità non è male, anche perché in fondo
Pozzetto è molto preso da Ranieri»6); l’ambiente ippico e degli scommettitori (Febbre da
cavallo). Tenta di aggiornare ai tempi moderni l’indignazione moralistica di un vecchio
maestro come Luigi Zampa, proponendo un rifacimento di un suo precedente successo (Il
vigile, 1960), coniugandolo con il moderno tema dell’emancipazione femminile (La
poliziotta, 1974, «ottima parodia al femminile dei poliziotteschi, nati proprio da Steno»7).
Il punto di vista del regista, si avvicina e coincide con quello dei protagonisti di questi
film, non più ingranaggi di un meccanismo narrativo, ma con una risonanza psicologica
ed un’esemplarità sociale che la regia si sforza continuamente di rilevare.
Pur nella differente progressione psicologica e definizione ideologica, i protagonisti di
questo gruppo di film, presentano caratteristiche comuni che consentono di raggrupparli
in unica categoria. Sono degli esclusi, persone rifiutate dalla società per la loro
condizione di classe, non necessariamente subalterna. Se, infatti, sono in condizioni di
subalternità sociale Gianna Abbastanzi ne La poliziotta (la sua colpa è quella di essere
donna: «Fan tutti finta che sono un tavolo. Non sono mica un tavolo io! Non sono mica di
legno! Che sono io: due tette che camminano, un culo da toccare? Devo sorridere
sempre. Fare il caffè. Comprare le linguine…»), i tre fanatici scommettitori spiantati di
Febbre da cavallo - Bruno Fioretti, detto “Mandrake”, Armandino Felici, detto “Pomata”,
Felice Rovesi, rifiutati dalla società perché tarati dalla follia del gioco (dice Fioretti nel film
«Il giocatore di cavalli è un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un
fregnone, è un milionario pure se 'n c'ha 'na lira e uno che 'n c'ha 'na lira pure se è un
milionario, un fanatico, un credulone, un bugiardo, un pollo, uno che passa sopra a tutto
e sotto a tutto; è uno che 'mpiccia, traffica, ‘mbrojia, more, azzarda, spera, rimore e
tutto pe' pote' di': HO VINTOOO!!!») - l’omosessuale Claudio di La patata bollente (la sua
colpa, evidente, è quella di essere un “diverso” ed il suo amico Mambelli, detto Gandhi,
verrà accusato di essere amico di un “diverso”) e, soprattutto, i tre sottoproletari
Domenica, Peppe, Antonio di L’Italia s’è rotta, non altrettanto si può dire dei due
protagonisti di Anastasia mio fratello e Il padrone e l’operaio. Sono però anch’essi degli
esclusi, anzi la loro esclusione è metaforizzata nello stesso tessuto narrativo: Don
Salvatore Anastasia, modesto parroco calabrese, si trova catapultato in una società a lui
completamente estranea, quella di New York; il protagonsita della parabola de Il padrone
e l’operaio, Gianluca Tosi detto Giangi, è escluso dalla normalità del vivere quotidiano, al
contrario, dalla sua condizione di superiorità: è un padrone (un industriale), ma è
impotente e lo è a causa dello stress di essere padrone («Perché a Carminati gli tira
5
Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano…, cit., pp. 213-4
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 553
7
Ivi, p.583
6
3
sempre e a me no?», «Perché, sintetizzando la tesi di Sigmund Freud e come dicono i
napoletani: “’O cazzo nun vuole pensieri»); tenta di camuffarsi da operaio, ma
l’estraneità è congenita.
La condizione di esclusi di questi personaggi non impedisce loro di combattere per
riscattarsi con la società. Non ce la faranno quasi mai e se ce la faranno la vittoria sarà
soltanto parziale ed amara (La patata bollente). Quel che conta è la lotta, la voglia di
ribellarsi, a volte cieca, a volte consapevolmente impotente. Il mezzo che hanno questi
personaggi per tentare il riscatto è quello del viaggio, che è anche lo strumento di misura
della loro forza di ribellione. Tutti questi film sono popolati da viaggi, tentati, falliti,
riusciti, metaforici: sono atti mancati, miraggi utopistici o fughe obbligate.
Il viaggio di Salvatore Anastasia a New York è un viaggio reale e, insieme, metaforico.
Porterà il piccolo, mediocre parroco a misurarsi con una realtà smisurata rispetto alle
sue possibilità. Il contatto con Little Italy di New York, la sua realtà di emarginazione e
malavita, svilupperanno in lui una carica ottimistica, una vitalità organizzatriche di
possibili realtà felici. Ma gli sveleranno anche la terribile verità sulla sua fortuna: quella di
essere il fratello di un boss mafioso. «Ecco allora che questi viaggi sono anche viaggi
verso una presa di coscienza, proprio com’era quello attraverso l’Italia del Sorpasso»8. Il
viaggio di ritorno in Italia suggellerà questo viaggio nella coscienza.
Il viaggio dei tre sottoproletari de L’italia s’è rotta ha le cadenze del “road-movie”
americano, la sua avventurosità, la stessa capacità di ricezione e libera ricerca di ogni
tipo di esperienza. E’ un viaggio di emigrazione al contrario: i tre sottoproletari
meridionali, partiti per il Nord (Torino) in cerca di fortuna, si sono ritrovati a vivere
dentro un tubo di cemento ed hanno deciso di cercare la fortuna al Sud. Ma questo
viaggio verso il basso, avrà il significato di un viaggio nell’Inferno. La società si stringe
su di loro mostrando la reazionarietà, la corruzione, la repressività delle sue parti che,
con un crescendo da incubo, sembrano intrappolare i tre e concedere il solo spazio
possibile: quello della loro eliminazione (è il senso dell’ultimo incontro, quello
con
il
potere mafioso, nel profondo dell’Italia). Scampati al pericolo, sono pronti a ripartire,
ma rifiutata la realtà settentrionale e meridionale, sono disorientati: «Dove andiamo ?
Nord, Sud, Est, Ovest, dovunque andiamo è sempre un grandissimo casino».
Il viaggio de La patata bollente è quello del protagonista Gandhi, in Urss. Non è un
viaggio volontario, benché graditissimo: viene spedito in quel lontano paese dai suoi
compagni del partito comunista, per dimenticare l’amicizia con l’omosessuale Claudio, da
cui temono possa essere traviato. E’ anche il viaggio finale di Claudio in Olanda, il paese
straniero dove fugge, sacrificandosi, per trovare la felicità e lasciare libero il suo amico
8
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.59
4
Gandhi. L’unico viaggio che sembra concludersi felicemente di questi film allontana
definitivamente il protagonista dalla sua realtà sociale: è una vera e propria fuga.
Ne Il padrone e l’operaio Giangi Tosi organizza un viaggio in barca con i suoi amici
industriali, per vincere la nevrosi provocatagli da Carminati, ma il potenziale trionfo si
rivela una catastrofe (Carminati conquista la moglie di Tosi).
Ci sono poi i viaggi de La poliziotta. Quello mancato della protagonista Gianna, che
vuole fuggire, per emanciparsi dal suo paese Ravedrate, ma rinuncia, arruolandosi nella
polizia urbana. Quello obbligato, alla fine del racconto, della stessa Gianna e del pretore
Patanè, sbattuti in «un’isola a Sud della Sicilia» perché troppo ligi al loro dovere. Sono
viaggi che collimano con le illusioni, trovate e poi perdute, ma sempre nel rispetto di una
forte coerenza morale.
C’è un viaggio pure all’interno di Febbre da cavallo, anche qui foriero di felicità, ma
molto prosaica, rispetto a quella dei film precedenti. I tre scommettitori vanno ad Agnano
a tentare la vincita milionaria al concorso ippico, ma, come solitamente accade, perdono
quasi tutto. Rimane loro soltanto il denaro per i biglietti di ritorno, ma lungo la strada per
la stazione di Napoli rimangono folgorati da una bancarella in cui si scommette sul gioco
delle tre carte: la tentazione è troppo forte per rinunciare, ma anche qui giunge puntuale
la sconfitta. Il viaggio sul treno di ritorno lo faranno tutto di corsa per sfuggire ai
controllori ferroviari, ma nonostante l’ennesima sconfitta, rimane invariata quella che è la
loro principale dote: la vitalità.
L’attenzione al dato psicologico costringe Steno ad una costruzione più meditata
dell’intero schema narrativo: ogni sequenza, in questi film, deve definire un momento
psicologico dei protagonisti. L’inizio è sempre un momento forte, poiché condensa in
pochi ma pregnanti tratti tutta la sostanza dell’intreccio. In tal senso, è esemplare quello
di La poliziotta, forse tra tutti il più elaborato.
Come fosse una buffa parodia della sequenza iniziale di Senso di Visconti, anche qui la
mdp ci conduce all’interno di un teatro, dove sta avendo luogo una rappresentazione. A
differenza di Senso, siamo in un teatro di provincia (lì eravamo a Venezia, qui a
Ravedrate) ed il dramma rappresentato ne è una conseguente espressione. E’ messa in
scena, infatti, una Giovanna D’Arco scritta da un poetucolo locale, gloria della cittadina,
con uno stile enfatico, retorico e pomposo, evidentemente travisato dal drammaturgo
come unico adatto alla tragedia. Gli attori si impegnano, ma sembrano declamare i versi
rotondi e polverosi con la stessa neutralità di un bollettino meteorologico. Il pubblico è
contento, soprattutto la giovane Gianna Abbastanzi, che sembra immedesimarsi con
l’eroina della tragedia. Non altrettanto lo è il fidanzato Claudio, che tenta inutili approcci.
In un’unica sequenza sono presentati così tutti i temi del film: l’angolazione
provinciale del racconto, la mediocrità intellettuale e culturale della classe dirigente di
5
Ravedrate, la solitudine – con connotati eroici - di Gianna nei confronti di un paese che
non ama e, di riflesso, l’ostilità e la sordità del paese, che non sa che farsene di una
donna leale e intelligente come lei. Le reazioni di Claudio e Gianna alla visione della
tragedia, esplicitano l’aridità intellettuale dell’uno e l’ingenuità e, insieme, l’altezza
morale dell’altra:
Claudio: - A me quella Giovanna D’Arco lì non mi piace per niente. Fa venir sonno. –
rivolgendosi ad un gruppo di amici all’uscita del teatro – Come è andata la partita? Porca…io lì a
guardar la Giovanna Ralli. Una storia inverosimile. La storia di un incendio. Una roba moderna: non
si capisce niente. A un certo punto arriva la Giovanna Ralli e gli tira le stelle filanti.
Gianna (rivolta ad una sua amica): - Una storia bellissima. Ho pianto tutto il tempo. Una
ragazza proprio come noi, che poi alla fine per le sue idee viene bruciata.
La psicologia dei personaggi di questi film è tutt’altro che elementare. L’introspezione
è molto ricca e spiazzante. Chi prova a definirne i contorni, come il giudice di Febbre da
cavallo è imbrigliato dalla stessa complessità, fino all’inestricabile:
-L’imputato Fioretti Bruno […] vorrebbe forse negare che il provato raggiro per far perdere
Bernadette si è concluso con la vittoria di Bernadette? No, voglio dire che volendo far perdere, cioè
vincere, Bernadette che invece ha perso, cioè ha vinto. Allora…come si spiega questa faccenda.
“Pomata”: - Nun se po’ spiegà, nun se po’. Ma che nelle corse dei cavalli ce sta quarcosa che se
po’ spiegà?
Fioretti: - E va bè, ma spieghejelo un po’ tu.
“Pomata”: - Uno se crede de poté spiegà, ma nun se spiega.
In realtà, è intervenuto, nelle fila del racconto di Febbre da cavallo, uno spostamento
psicologico nei personaggi che stravolge l’intreccio. La quotidiana routine di sconfitte di
scommettitori,
cavalli
(Soldatino),
proprietari
di
cavalli
(l’avvocato
De
Marchis,
proprietario di Soldatino) è interrotta dalla folgorante, inaspettata, vittoria del cavallo
Soldatino ad un gran premio. Una vittoria che provoca, per la prima volta, nei
protagonisti, l’ansia di vittoria. Anche a costo dell’onestà. Così Felice, Armando, Bruno e
l’avvocato De Marchis, cercano il raggiro ai danni del conte Dallara e della sua cavalla
Bernadette: Bruno sostituirà il fantino dell’invincibile Bernadette, per far perdere la
cavalla e vincere Soldatino ed incassare i conseguenti ricavi delle scommesse. Tutto
sembra riuscire, Bruno sotituisce il fantino, ma invece di perdere, vince lo stesso la
corsa. Perché, come spiega lo stesso protagonista: «M’aveva preso l’ebbrezza della
vittoria. Dopo ave’ perduto per tutta la vita, ho voluto vince. Essere primo. Primoo!!!»
Sacrificando un successo totale ad uno parziale, risolvendo una grande vittoria in una
tragicomica sconfitta. Poiché il destino di questi personaggi è quello di giocarsi tutto
nell’immediato, risolvere la vita in un eterno presente, in un “carpe diem” sbilenco e
illusorio. Ma tant’è: la materia della loro (dei protagonisti di Febbre da cavallo, ma anche
di tutti gli altri film qui analizzati) vita è fatta di sogni.
6
La definizione psicologica, in questo ciclo di film, è affidata all’azione congiunta della
mdp e dei dialoghi. Gli scarti emotivi, i balbettii mentali, lo spaesamento della coscienza
sono esemplarmente amplificati dalle corrispettive deviazioni linguistiche.
Così, ad esempio, ne La patata bollente, la confusione del Mambelli, di fronte al
dichiarato ménage omosessuale del suo amico Claudio in terra olandese, è svelata da
questa battuta di dialogo insensata fino al surreale: «Amsterdam mi piace: sembra
Venezia. Quanti chilometri ci saranno da qui a Padova?», in cui la figura retorica della
similitudine è recepita letteralmente. Sempre il Mambelli, imbarazzato di fronte alla
portinaia che sembra essersi accorta della sua amicizia con un omosessuale, così
descrive alla donna, con una punta di sarcasmo, l’organizzazione della Digos: «Come una
portineria. Solo più in grande, ma segreta. Dove tutti sanno tutto di tutti, ma nessuno lo
deve sapere».
Anche ne La poliziotta, il dialogo svela la coscienza dei personaggi. Così, l’assessore
Monti, politico con ambizioni intellettuali, autore della tragedia su Giovanna D’Arco, rivela
il suo animo artefatto e manierato nel discorso che tiene a Gianna dopo la sua vittoria nel
concorso dei vigili urbani: «Che sia per te come una spada di giustizia – declama
mostrando il diploma – Che sia per te come una fiaccola di verità. Tienila alta Gianna
Abbastanzi. Siine degna…Abbastanzi Gianna». Nello stesso film, si risolve in una
questione di ritmo lo spaventato comando del cavalier Brembani di far sparire i residui
nocivi delle sue produzioni industriali. L’elenco progredisce di intensità all’aggiunta di
ciascuna voce, fino a delineare un quadro di apocalittica putrefazione: «Fate sparire tutto
quello che non è in regola, avanti: i nitrati, i solfati, gli azotati, i coloranti, i conservanti,
gli antiumidificanti, il latte inacidito, la farina ammuffita, le uova marce».
L’organizzazione del discorso, l’utilizzo della sintassi rivelano i pensieri nascosti dei
protagonisti (il merito è anche dello sceneggiatore Vincenzoni): l’impacciato pretore
Patanè, nella Poliziotta, che dichiara il suo amore a Gianna con il condizionale
(«Signorina Gianna, io l’amerei. Uso il condizionale, non osavo il presente»); l’altrettanto
imbarazzato Giangi Tosi, nel Padrone e l’operaio, timoroso della propria potenza
sessuale, declama all’amante di una notte, questi versi: «Quando ti vedo, amore/ oggi
come oggi/ mi rapisce la poesia/ tu diventi una nube d’amore…/ e mi piace il tuo culo»;
mentre sul lettino dello psicanalista, l’inconscio rivela l’ossessione per Carmenati in
questo sogno surreale: «Me lo sogno tutte le notti. Stanotte ho sognato che stava con
Tarzan e due vallette di Pippo Baudo».
La società è rappresentata nella sua brutalità, che appartiene sia alle classi proletarie,
che a quelle abbienti: ne L’Italia s’è rotta, Peppe e Antonio devono sfuggire alla pallottole
di una sparatoria a Roma, Domenica alle attenzioni particolari di uno zio scultore; bande
di teppisti neonazisti assaliscono Massimo e distruggono la libreria gay in cui lavora, nella
7
Patata bollente; in Febbre da cavallo, Pomata deve sfuggire ad un usuraio manesco
(Ventresca). Una solidarietà bellicosa si instaura tra gli oppressi, cui non rimangono che
gli sfoghi, come quello di Gianna Abbastanzi, nella Poliziotta, che si gioca il posto e la
carriera, stilando un verbale falso, lei integerrima e ligia alle regole, quando si ritrova a
dover fare il censimento di una numerosa famiglia di emigrati che vive miserabilmente in
una baracca: «Sono venuti su al Nord a cercare fortuna. A cercare lavoro…E già. Prima
gli operai ci servivano, ci hanno fatto comodo. Adesso non ci servono più: avanti,
marsch! Li rimandiamo indietro. Ma indietro dove?. Ma dove vanno quei poveri cristi con
tutta la miseria che c’è giu. Noi dobbiamo aiutarli. Li mettiamo lì a vivere nei tuguri che
peggio dei topi. E adesso, no, neanche lì li facciamo più stare»; e quello di Massimo nella
Patata bollente, che di fronte all’ipocrisia morale, sbotta: «Anche tu parli di noi come se
fossimo degli scarrafoni. Bacarozzi, scarafaggi, insetti schifosi da schiacciare con lo
scopettone. Volete fare un campo di concentramento? Fatelo. E a noi rimetteteci tutti
nelle camere a gas».
8
Capitolo 8. L’ombra nera del Vesuvio: un affare di stato
Lucio De Caro: «Era molto tempo che pensavamo di tornare a lavorare insieme. Avevamo il
progetto di un Tristano e Isotta, ambientato ai giorni nostri. Ne avevamo discusso con Lombardo
della Titanus, ma la cosa non andò mai in porto per problemi di costi. Pensammo così a una storia
di malavita meridionale ispirata all’Horace di Pierre Corneille. Ci interessava raccontare la città e
riscoprire i volti, i talenti, gli attori nascosti di Napoli. La stessa operazione che De Simone aveva
fatto col canto. Steno e io continuavamo a coltivare una seria amicizia peripatetica. Giravamo i
bar, le osterie, le strade in cerca di quella Roma dove avevamo cominciato a lavorare ed era
scomparsa per sempre».
Steno: «Quando il film uscirà ci sarà sicuramente qualcuno che ci accuserà di avere copiato la
realtà. E questo è alquanto frustrante. Perché un tempo il cinema italiano aveva l’abitudine di
raccontare storie che facevano parte della vita di tutti i giorni, si occupava dei fatti, insomma. Non
era infrequente il caso che i film risultassero anticipatori, premonitori, oltre che documenti di
denuncia».
«Un regista oggi non può ignorare l’alternatività dei generi, e, soprattutto, la chance della
televisione, in particolare della RAI, di poter fare opere ricche di contenuto mentre i distributori
cinematografici si intestardiscono nella preferenza di filmetti d’evasione. Una sola serata in
televisione consente un’audience riscontrabile in una sala cinematografica nell’arco di un anno,
anche a prescindere dalla crisi, sulla quale ci sarebbe da discutere.
E’ una saga sulla camorra con personaggi centrali e tanti attori napoletani straordinari, cui basta
una battuta per caratterizzare un ruolo di contorno. E’ un intreccio molto complesso, così
complesso che in un film avrebbe dovuto essere troppo semplificato. I tempi della televisione,
invece, mi hanno consentito di tenerli tutti dentro, come in una grande epopea».
Lo sceneggiato in quattro parti, per una durata complessiva di sei ore, è girato da Steno
nel 1985, è programmato in televisione per il 1986 e viene trasmesso su Raiuno a partire
da domenica 22 febbraio 1987, dopo aver cambiato titolo per due volte: da I clan a Cuori
di pietra, fino al titolo attuale. Per la stesura della scenggiatura, Steno e De Caro si sono
ispirati ad un vecchio romanzo di Francesco Mastriani, I vermi, considerato una Bibbia
della camorra. La loro intenzione è quella di compiere un grande affresco sulla camorra
napoletana, tenendo come codici di riferimento quelli dei film gangster americani, dei
polizieschi italiani (memori della loro precedente sceneggiatura de La polizia ringrazia),
non disdegnano i moduli canonici della cultura popolare napoletana, quelli della
sceneggiata.
La prima puntata ottiene un grande successo di pubblico, risultando di gran lunga il
programma più visto della serata televisiva. Ma, imprevedibilmente, scatena un cumulo
di polemiche mai visto. A reagire nei confronti dell’immagine che Steno dà di Napoli sono
politici, sindacalisti, intellettuali. Si accusa il regista di fare del “colore nero”, di mostrare
una Napoli arretrata che non corrisponde al vero. Un parlamentare democristiano, Ugo
Grippo, rivolge un’interrogazione a tre ministri, Gava, Capria, Darida. Protestano anche
gli operatori marittimi per la rappresentazione dell’ambiente portuale.
Si arriva all’intervento censorio. La RAI taglia quattro minuti della seconda puntata
(giovedì 26 Febbraio 1987): contenevano accenni alla connivenza tra camorra e politica.
9
Rivela l’attore Carlo Giuffrè che la battuta scandalosa era: «La giustizia non mi preoccupa
molto perché lì abbiamo molte amicizie».
Steno e De Caro protestano, affermando: «I dirigenti di Raiuno hanno unilateralmente
deciso e attuato la manomissione della seconda puntata, amputando una scenda
fondamentale per la definizione dei caratteri dei personaggi e, a nostro parere, per il
significato generale di tutta l’opera».
La risposta del capo ufficio stampa RAI, Saverio Barbati, sembra tratta da un film di
Steno per quanto è comicamente ipocrita: «Il direttore di Raiuno, Emmanuele Milano, ha
invano tentato di mettersi in contatto con gli autori della decisione di operare un taglio.
Poi li ha avvertiti con un telegramma. La scena conteneva giudizi e valutazioni sulla
classe politica e sulla magistratura pensati e scritti tre anni fa. E in tre anni la sensibilità
dell’opinione pubblica è mutata: non sembrava più il caso di formulare una pesante
accusa generica, considerando la lodevole lotta di molti giudici».
L’evoluzione sociale del nostro paese è stata così rapida da rivoluzionare costumi e
atteggiamenti in soli tre anni, senza passare per nessun sconvolgimento politico: detta
da chi controllava l’opinione pubblica sotto l’egida dei detentori del potere, questa
considerazione ha una valenza inconsapevole di micidiale autoironia.
10
PARTE SECONDA: LUCIANO SALCE
Capitolo 1. Un’immersione totale nello spettacolo.
«Gli avrebbero dovuto assegnare l’Oscar dell’incomprensione. Perché, sebbene si sia
talora piegato a compromessi e su tanti film ne abbia diretti anche di mediocri […] è pur
vero che è stato uno degli uomini di spettacolo più acuti e intelligenti degli anni ’60, e
almeno una mezza dozzina dei suoi film sono da annoverare fra i risultati più significativi
della commedia all’italiana».1
Questa affermazione di Enrico Giacovelli merita di introdurre la parte dedicata a
Luciano Salce: ne definisce l’autorevolezza nel mondo dello spettacolo e la sua (s)fortuna
critica. Non esiste nel nostro secolo, nel nostro mondo culturale, una personalità così
piena, completa, coerente e consapevole come quella di Luciano Salce, capace di
attraversare o, meglio, di perforare con il suo stile sarcastico e svagato, ogni territorio
dello spettacolo, come autore e come attore, con tono brillante e pettegolo: dalla prosa al
cabaret, dal cinema alla radio alla televisione, sotto il segno di un umorismo nato
dall’osservazione di costume e quindi satirico.
Nato a Roma il 25 settembre del 1922, dopo aver compiuto studi classici e frequentato
la Facoltà di Legge, fu costretto a due anni di prigionia in Germania, evento che
certamente fu alla base delle successive frequenti caricature burlesche dei tedeschi che
impersonò come attore (Piccola posta, Il federale, Il giorno più corto). Nell’immediato
dopoguerra debuttò al cinema (il piccolo ruolo del soldato americano, accanto all’amico
Adolfo Celi, in Un americano in vacanza, 1945, di Luigi Zampa) e nel teatro di rivista (E
lui dice… di Oreste Biancoli). Iscrittosi all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, si
diplomò in regia nel 1947, presentando come saggio la messinscena de Il ballo dei ladri,
una delle “pièces roses” di Jean Anouilh, autore dal dialogo graffiante e dalla tecnica
raffinata, indicativa delle inclinazioni di Salce. Anzi, l’affinità con Anouilh è tale che
questo autore brillante di inizio secolo, che aveva aggiornato e modernizzato in chiave
borghese la lezione di Marivaux e Labiche, è da considerare il suo primo maestro. La
brillantezza e la costruzione geometrica delle pochade francesi, intrise di umori sulfurei,
saranno un punto di riferimento per tutta la produzione successiva di Salce.
Non a caso esordirà nella compagnia Evi Maltagliati-Vittorio Gassman dirigendo e
interpretando Un giovane frettoloso, proprio di Labiche. Seguiranno, improntate secondo
un gusto umoristico classico, le regie di George Dandin e de L’avaro (1949, Teatro
Ateneo di Roma, con Antonio Gandusio) da Molière e quella de L’innocenza di Camilla
(1948), farsa della gelosia, scritta da Massimo Bontempelli.
1
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.175
1
Parallelamente portava avanti la propria carriera di attore: Arlecchino ne La famiglia
dell’antiquario (1949, regia di Orazio Costa) e nella Figlia obbediente (1949, di Gerardo
Guerrieri), si dedicò all’adattamento, con Luigi Squarzina, di alcuni canovacci della
Commedia dell’Arte per lo spettacolo La fiera delle maschere, presentato a Praga, al
Festival della Gioventù. Quindi recitò per Luchino Visconti (Rosalinda, 1948, al Teatro
Eliseo di Roma), Luciano Lucignani (fu Bergetto in Peccato che sia una sgualdrina, 1949)
e Giorgio Strehler (Il corvo, da Carlo Gozzi, nella parte di Tartaglia).
Nel 1949 si trasferì a Parigi e con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli creò il gruppo dei
Tre Gobbi, «allestendo un funambolico spettacolo di “sketches”, al cabaret “La rose
rouge”»2. I tre anticiparono un nuovo tipo di spettacolo, fatto di scenette brevi e
fulminanti, dalla risoluzione surreale, in cui dialoghi e gesti erano tesi verso l’assurdo e il
non-sense. Il nome del gruppo lo scelse Caprioli: «Gobbo in gergo teatrale è un epiteto,
un insulto che vuol dire mascalzone, disgraziato, guitto, morto di fame, è un soprannome
spregiativo con il quale si era rivolto a loro un impresario teatrale che si rifiutava di
pagare le giornate di prova e che, ovviamente piantato in asso, li aveva inseguiti per gli
Champs-Elysées urlando: ”Gobbi che non siete altro, gobbi maledetti!”. Al momento di
dare un nome al nuovo sodalizio Vittorio, ricordandosi dell’episodio, aveva voluto che così
si chiamasse»3. La stampa francese lodò molto gli spettacoli, definendo «Teatro allo stato
puro»4 quello dei tre italiani «che si presentavano in scena senza scene, solo con un
paravento o al massimo due, senza costumi»5. Silvio D’Amico – nelle pagine dei ricordi di
Virginia Caprioli – tentò di spiegare in che cosa consistesse questo nuovo tipo di
spettacolo, estraneo al cabaret francese e tedesco, alla rivista, alla commedia borghese:
[…]Un quid di mezzo fra la satira del nostro tempo e la parodia dell’arte nostra. Raccolta, e
moltiplicazione, d’echi d’ogni sorta: morale, politica, letteratura, teatro, moda, pubblicità,
guerra e pace: il tutto attraverso spiragli bizzarri, istantanee grottesche, sintesi fulminee…La
prima ed eccezionale caratteristica dei Gobbi è precisamente qui: nella loro informata,
provvedutissima intelligenza. C’è in questi giochi, ironici e parodistici, una misura, un gusto,
un’eleganza, una straordinaria finezza cui fino ad oggi non eravamo affatto abituati.»6
Bonucci e Caprioli ripresero la formula successivamente, dando vita al Teatro dei
Gobbi, con l’avvento anche di Franca Valeri, ma senza più Salce, nel frattempo, 1950,
trasvolato in Brasile. A San Paolo tenne corsi di regia all’Accademia di Arte Drammatica e
assunse la vice-direzione artistica del Teatro Brasileiro de Comédia, mettendo in scena,
come primo spettacolo, A importancia de ser prudente di Oscar Wilde. Sempre nel 1950
organizzò, con G. De Almeida, il Teatro de Segunda Feira, appendice sperimentale del
2
E.G.L. e C.A.P., Luciano Salce, in Filmlexicon degli autori e delle opere, p. 58
Virginia Caprioli, Vittorio e io, Marsilio, Venezia, 1997, p. 180
4
Ivi, p.181
5
Ibidem.
6
Ivi, p. 184
3
2
Teatro Brasileriro, dove rappresentò commedie di Pirandello, Williams e, soprattutto,
L’inventore del cavallo di Achille Campanile.
Dopo aver raggiunto il più grande successo con la messinscena di Convito ao baile di
Jean Anouilh, Salce, finalmente, tornò a dedicarsi al cinema. Prima in qualità di attore,
recitando un ruolo di “vilain” in Angela (1952, di Tom Payne e Abilio Pereira De Almeida)
e, infine, debuttando nella regia con due film, prodotti dalla società Vera Cruz, la stessa
che aveva favorito il debutto di Adolfo Celi (Tico-Tico no fubà, 1952).
Il primo film, Uma pulga na balança (1953), è una spiritosa commedia sofisticata,
scritta con Fabio Carpi, «basata su un popolare personaggio brasiliano di piccolo
borghese».7 Il secondo, Floradas na serra (1953) è un melodramma sofisticato tratto da
un romanzo di Silveira de Queiroz.
Tornato, dopo quattro anni, dall’intensa esperienza brasiliana, Salce riprese con
immutata solerzia l’attività teatrale e cinematografica. In campo teatrale non si limitò
soltanto alla produzione di prosa (con I tromboni di Federico Zardi concesse, nel 1956, a
Vittorio Gassman il primo ruolo comico, anticipando, nella struttura della
commedia, il futuro Mattatore cinematografico), ma si dedicò alla rivista (Sexophone,
1955, di Curzio Malaparte, e Uno scandalo per Lilì, 1957, di Scarnicci eTarabusi, con
Tognazzi) e all’opera buffa (Le trame amorose, 1959, da Domenico Cimarosa). Quindi
rientrò nel Teatro dei Gobbi e con Vittorio Caprioli e Franca Valeri scrisse e interpretò
L’arcisopolo, nel 1955: «qui la loro satira prese di mira la falsa cultura nel campo artistico
e nello Spettacolo»8.
Questa collaborazione lo convinse a scrivere da sé un paio di commedie, rivelando una
vena ispirativa che coltivava fin dagli anni giovanili, come testimonia la raccolta di
racconti Cattivi soggetti (1981), che riunisce diverse pagine (racconti umoristici, ma
anche psicologici e sentimentali) scritte in diversi periodi.
Don Jack e Il lieto fine mostrano l’influsso dei suoi autori più cari, ne rivelano lo stile
autonomo affermatosi già a livello registico ed anticipano la successiva produzione
cinematografica.
Don Jack (atto unico rappresentato da Vittorio Gassman al Teatro Quirino di Roma nel
1958) è una commedia d’ambiente cinematografico, il cui titolo a doppio taglio esplicita
già le intenzioni. In un set cinematografico, il grande attore Andrea Falco, sta girando un
film su Don Giovanni, mostrando egli stesso spiccate doti per recitare nella vita privata
un ruolo analogo. I suoi tentativi di sedurre l’attricetta veneta Iris De Zan verranno però
stornati dalla sua furba compagna Laura, che costringerà Iris ad accettare un contratto
con un produttore meridionale, l’on. Bra. Don Jack è perciò il Don Giovanni dei giorni
7
8
E.G.L. e C.A.P., Luciano Salce…, cit., p.58
Virginia Caprioli, Vittorio e io, cit., p. 186
3
nostri, privato della sua aura poetica, involgarito dalla mancanza, nei nostri tempi, del
senso del peccato.
Basato su un dialogato rapido e sarcastico, totalmente privo di velleità letterarie, Don
Jack presenta temi e moduli tipici della futura commedia all’italiana e, soprattutto di
Salce. I personaggi presentano già il taglio tipico del genere. L’aspirante attrice è una
giovane servetta veneta, prosperosa e solo apparentemente ingenua.
Il produttore è un politico retorico e semianalfabeta, dal linguaggio involuto ed
autocompiaciuto. Si presenta così: «Mi è anzi gradito porgerle il benvenuto, per questo
suo spirito ineguagliabile di risultati artistici e morali». Si lancia in seguito in un’accorata
perorazione culturale: «Questo momento di battaglia e di lotta, dove cinema, teatro e
radiotelevisione devono coalizzarsi contro il comune nemico, mi è soddisfazione rilevare
la sua aderenza, anche in paesi stranieri, per la vera arte italica, nel segno più alto del
perdono, della comprensione universale, della pace tra i popoli». Infine, saluta l’attore
Falco con queste parole: «E’ mio dovere e piacere esprimere anzitutto i sensi della sua
grande arte culla di civiltà in questa terra madre».
Il regista bulgaro è un povero spiantato, alla ricerca di un posto di lavoro (si offre per
aiutare a dirigere il film e finisce con l’accettare il ruolo di comparsa che regge
l’alabarda), che parla come i personaggi tedeschi interpretati da Salce: «Zimento. Qui
troppo di legno. Sempre può bruciare. Italiano in zinema ancora molto di arretrato. Idee,
sì, questo, ma non tecnico. Molto bisogno tecnico», dice cercando di convincere il regista
ad accettarlo.
C’è infine il protagonista sicuro di sé, inaffidabile, ma solo apparentemente vincente,
che profetizza i futuri personaggi di Gassman al cinema, «spacconi, superuomini, (che)
vanno incontro alle loro sconfitte»9. E ci sono i momenti topici della futura commedia
cinematografica: il regista nevrotico che strilla a tutto e tutti, il produttore amico che lo
consiglia, il caos degli studi: Falco tenta di sedurre la De Zan, mentre, come niente fosse,
un’infermiera gli sta facendo un’iniezione.
Il
lieto
fine
è
un’altra
commedia
sul
mondo
dello
spettacolo,
d’ambiente
cinematografico, ma di ambizioni maggiori. Dietro la brillantezza dei dialoghi, il gioco
degli equivoci, le situazioni umoristiche, si nasconde un’amarezza di fondo che,
annunciata da zone nere nel primo atto, si diffonde nell’atmosfera funerea del secondo,
in cui il sarcasmo si volge in cinismo, entra in scena la morte e, nonostante il titolo, non
c’è lieto fine. Nella storia di Ornella, giovane e bella ragazza di provincia (anche questa,
come la De Zan di Don Jack, veneta) che la madre vuol condurre al successo a tutti i
9
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.202
4
costi e che cerca una parte nel cinema, emerge la consapevolezza della nascita di una
società consumistica, in cui i valori morali sono sacrificati al guadagno economico.
Una constatazione che Salce, dietro lo stile brillante di un dialogo secco e conciso,
affida a una teoria di personaggi grotteschi e patetici. Il vecchio divo fallito, le attricette
che si prostituiscono, gli avvocati intrallazzatori, i registi grossolani e volgari: figurine
pirandelliane più o meno consapevoli di star recitando un ruolo non solo sulla scena, ma
anche nella vita. Conta più l’apparire dell’essere: quando si rifiuta questa regola è la
rovina, come dimostra il vecchio attore Romeo, che si suicida quando si accorge del
proprio fallimento, costretto a recitare nei fotoromanzi, lui che un tempo si credeva
Rodolfo Valentino.
La coscienza critica è affidata al personaggio del giornalista Gianni Berti, evidente alter
ego dell’autore, che osserva esternamente le vicende dei personaggi, s’innamora di
Ornella, ne ottiene come risposta un cortese rifiuto da parte di chi si considera ormai
persa. La morale è affidata a queste poche battute di Gianni, rivolte ad Ornella, senza
sottolineature didascaliche: «I fumetti vi insegnano l’eccezione e la vita non v’insegna
niente. Così siete tranquille, beate voi! Perché per quante disgrazie e contrarietà vi
possano capitare, i fumetti vi garantiscono il lieto fine. Beh, disilludetevi. Nella vita il lieto
fine non c’è mai. – Ornella lo bacia – Quasi mai»10.
Quel quasi è la nota di speranza, di ottimismo che ritorna nelle ultime battute della
commedia, rivelata da Gianni, che rifiuta di arrendersi alla disumanità della vita reale ed
il lieto fine decide di reclamarlo lui, con forza: «Cercherò di farle capire che il lieto fine,
quello che ha sempre cercato...era magari dietro l'angolo...ma che, a volte, per arrivare
all’angolo, si sbaglia direzione e si fa il giro del mondo. Non importa. In ogni caso si
ritorna. Io sono all’angolo, e non ho fretta. Aspetterò»11.
Questa commedia di grandi ambizioni, impegna fortemente Salce anche sul piano
formale. All’interno degli atti, le scene si moltiplicano (nove nel primo, cinque nel
secondo), frantumando l’azione principale, comunque sempre in primo piano, in una serie
di quadri atti a dare una definizione globale (e negativa) del mondo cinematografico.
Volta a volta, l’autore conduce lettore e spettatore all’interno del set cinematografico,
nelle pensioncine dove abitano gli attori, negli studi dove si elaborano i progetti, nelle
feste dei produttori, rilevando la grossolanità e la volgarità di quel mondo. Un modo di
fare teatro in modo narrativo, in cui l’autore evidenzia il suo ruolo, superando la
neutralità del genere teatrale. Nel secondo atto, una scena (l’incontro contemporaneo di
due coppie, in due luoghi differenti: Gianni/Ornella – Rosita/Romeo) è risolta con la
soluzione
10
11
formale
del
montaggio,
richiamando
Luciano Salce, Il lieto fine, dattiloscritto, 1958, p.113
Ivi, p. 158
analoghi
tentativi
del
teatro
5
contemporaneo, come quello di Bruckner per I criminali, che Szondi spiegò così: «Le
scene non si generano da sé come nel dramma, in una successione dinamica e coerente,
ma sono opera dell’io epico, che dirige la luce del suo riflettore alternativamente sull’uno
o sull’altro vano della casa d’affitto. Lo spettatore coglie solo frammenti di dialogo;
quando ne ha inteso il senso ed è in grado di immaginare da sé ciò che avverrà, il
riflettore si sposta ed illumina un’altra scena»12.
Nel Lieto fine, la soluzione formale è la medesima: la scena è divisa in due zone,
visivamente
omologhe (le
due
coppie
sono disposte
allo stesso modo, sedute
frontalmente ad un tavolino, sorseggiando una bibita, ascoltando la stessa musica alla
radio), che la luce illumina alternativamente, lasciando nell’ombra quella che non richiede
l’attenzione. Un esempio di
montaggio parallelo, per raccontare
due eventi
in
contemporanea, che annuncia le soluzioni cinematografiche.
La complessità della commedia trova uno dei suoi momenti forti, in una scena un po’
periferica: quella del balletto ideologico che si scatena nei confronti dello scrittore
Malinverni, in fin di vita. Salce fa riferimento allo scrittore Curzio Malaparte (che il nome
di Malinverni rievoca, così come il suo viaggio in Cina), la cui grave malattia, conclusasi
con la morte, l’anno precedente la stesura della commedia, aveva scatenato, come
ricorda Fulci, «intorno al suo letto l’ignobile gazzarra ideologica. Con preti e comunisti a
contendersi la professione di fede di uno dei pochi che non l’aveva mai espressa. Dopo
molti ne scrissero, Salce addirittura una commedia. Patetici erano i parenti. Erano anni
che non lo vedevano e adesso erano preoccupati solo che non fosse eseguito un lascito
testamentario: quello della villa di Capri ai cinesi»13. Salce trasferì l’accadimento nella
commedia quasi senza forzarlo: era già di per sé una farsa grottesca14. Aggiunse, di suo,
una nota di estremo sarcasmo: Malinverni è strumentalizzato da Ornella, che si fa
fotografare piangente sul suo letto di morte, per lanciarsi nella carriera di attrice.
Contemporaneamente alla scrittura di queste due commedie, si dedica ancora alle
regie teatrali e s’avvicina ai nuovi mezzi radiotelevisivi. Per la radio conduce con Franca
Valeri e Vittorio Caprioli la rubrica Chi li ha visti? e scrive l’originale La zuccheriera,
sempre con la loro collaborazione. Per la televisione è autore, con Ettore Scola, del
programma Le canzoni di tutti (1958), regista de L’orso e il pascià, da Scribe, con Monica
Vitti e «ospite in decine di spettacoli di varietà (Studio Uno, Senza rete), portando un
genere nuovo di comicità: ironica, caustica, graffiante»15.
12
Peter Szondi, Teorie del dramma moderno, Einaudi, Torino, 1962, pp. 104-105
Lucio Fulci, Miei mostri adorati, Pendragon, Bologna, 1995, p. 138
14
Cfr. Appendice: Il lieto fine, atto I, scena 4.
15
Roberto Poppi, Luciano Salce, in Dizionario del cinema italiano, Gremese, Roma, 1998, Gli
attori, p. 437.
13
6
Nel 1960, al culmine di una copiosa attività che ha sperimentato tutti i campi dello
spettacolo, seguendo la direttrice coerente dell’umorismo, Luciano Salce si sente pronto
per debuttare nel cinema italiano ed accetta la proposta di dirigere Le pillole di Ercole.
Film su commissione, perciò, ma molto personale, perché indicativo delle propensioni del
regista, e vera ricapitolazione di primi quindici anni della carriera artistica di Salce. Le
pillole di Ercole è infatti la trasposizione sullo schermo di una “pochade” francese
e
contiene in sé le marche stilistiche del regista: il gusto per i personaggi sbozzati
caricaturalmente, il dialogo brillante, il ritmo matematico stilizzato fino al balletto. Salce
affronta la prima esperienza con grande entusiasmo e, nonostante la disavventura
occorsagli (fu costretto, in pratica, a girare il film su una lettiga), con idee chiare e
precise (mise subito in difficoltà il direttore della fotografia Menczer, chiedendogli di
effettuare tutti gli stacchi e gli attacchi in movimento). Ne rimase soddisfatto: nelle sue
dichiarazioni ricorda il film con affetto:
Avrei dovuto debuttare con Il federale ma non si riusciva a chiudere la produzione e così feci un
film meno impegnativo, Le pillole di Ercole, una farsa per Manfredi, grazie a Manfredi che insisté
perché lo dirigessi io contro il parere di De Laurentiis. Come debutto era pieno di attori e di
movimento e il canovaccio era a tutta prova. Fu un successo, e dimostrai che sapevo dirigere un
film.16
Infatti, l’anno seguente, la dimostrata professionalità della sua regia per Le pillole di
Ercole sarà decisiva per condurre a termine il progetto de Il federale. Ricorda Ugo
Tognazzi che, avendo tra le mani il copione di Castellano e Pipolo, cercava di convincere i
produttori Broggi e Libassi
Affinché a dirigere e a coordinare questo film anche in fase di sceneggiatura intervenisse un
regista ambizioso, giovane, con il quale poter parlare, perché sapevo già che cosa potevano
predisporre in partenza i due produttori. Loro mi dicono: «Va bene, fai tu un nome!». Io conoscevo
Salce perché aveva fatto la regia della mia ultima commedia musicale, Uno scandalo per Lilì, e mi
sembrava una persona con cui si poteva avere un dialogo, e Salce aveva fatto come primo film un
film alla Mattoli o alla Mastrocinque, che si chiamava Le pillole di Ercole. Insomma ho agito
d’astuzia, perché se Salce avesse fatto prima un film più impegnativo e avessi mandato i due
produttori a vederlo, mi avrebbero detto senz’altro di no, invece videro Le pillole di Ercole, una
vecchia pochade, e trovarono quel che loro cecavano, un film d’assoluta evasione, e dissero di sì.
Allora vidi Salce e gli dissi: «Mi sembra che questa sia l’occasione per fare qualcosa di diverso,
per avere un personaggio, anziché un pretesto meccanico di commedia o parodia». Salce fu
d’accordo, lavorò con Castellano e Pipolo e si fece il film.17
Nacque così una stretta collaborazione tra Salce (regista), Tognazzi (attore) e
Castellano e Pipolo (sceneggiatori) che, grazie a tre film consecutivi (Il federale, La voglia
matta, Le ore dell’amore), raggiunse il successo cinematografico di pubblico e critica e
rinnovò dall’interno la commedia all’italiana.
Le ore dell’amore conferì a Salce i massimi riconoscimenti critici, ma dopo questo film,
nonostante la sua carriera proseguisse con coerenza e volontà di rinnovamento,
16
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 70
7
l’interesse per la sua opera scemò: la sua «morale del senso comune» venne tacciata di
«qualunquismo»18, la sua leggerezza scambiata per superficialità, il suo sarcasmo per
cinismo.
Il film che segnò il distacco dell’interesse critico nei suoi confronti fu Come imparai ad
amare le donne (1966), in cui Salce intendeva «fare una commedia di sentimenti e di
caratteri, lasciando in pace una volta tanto la satira di costume ed altri impegni più o
meno abusati»19. Invece la critica affermò che si trattava di «opera che infastidisce per
quel continuo porsi sul piano della speculazione. […] Satiricamente inconcludente,
umoristicamente fiacco, il film si raccomanda unicamente per il suo erotismo di bassa
lega»20, tanto da ridefinire riduzionisticamente tutta la sua opera: «In realtà su quale
basi poggia il “mito” Salce? Su basi assai incerte e traballanti, invero, ché solo Il federale
e La voglia matta son meritevoli di una certa attenzione, mentre tutte le altre opere, e in
particolare le ultime, lo stiracchiato Slalom e il mediocrissimo El Greco, sono tutt’altro
che probanti e nel loro insieme fanno apparire i due film validi come le classiche eccezioni
che confermano la regola»21. Tre anni dopo, Colpo di stato, segnerà il punto di massima
divergenza tra l’impegno artistico (notevole) di Salce e l’interesse critico nei suoi
confronti.
Nonostante tutto, la sua carriera procedeva spedita, anche se ormai quasi
completamente dedicata al cinema. Al teatro aveva rinunciato, ma non alla televisione,
dove fu frequentemente ospite di numerosi spettacoli (presentò con Lelio Luttazzi la
Biblioteca di Studio Uno), ed alla radio, dove, per molti anni, ha condotto trasmissioni
ricorrenti (tra le tante si ricorda I malalingua, del 1974), «di solito nelle ore
antimeridiane, dove commentava i fatti del giorno, introduceva macchiette più o meno
divertenti e qua e là affrontava una bonaria critica (di tipo salottiero) delle magagne del
costume nazionale»22.
Al cinema proseguì la strada del perfezionamento e del rinnovamento dei moduli della
commedia all’italiana. Si dedicò alla trasposizione di commedie e farse teatrali (Ti ho
sposato per allegria, L’anatra all’arancia, La presidentessa), tentò la strada della
commedia politica (La pecora nera, Colpo di stato, Il sindacalista), coniugò l’acredine
della commedia nostrana con l’umorismo nero spagnolo (Alla mia cara mamma nel giorno
del suo compleanno), ottenne eclatanti successi di pubblico (Il Prof. Dott. Guido Tersilli
17
Ivi, p.113
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.4, p.393
19
Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, in Cinema ’60, n. 57, mar. 1966, p.
57
20
G.Ciaccio, Amare le donne, Rivista del cinematografo, a. 39, n.12, dic. 1966, p. 774
21
G.Ciaccio, Amare …, cit., p. 774
18
8
primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue), continuando ad allineare,
senza soluzione di continuità, «i profili dell’italiano “senza qualità”»23.
Fino a quando l’incontro con Paolo Villaggio non segnò la seconda grande svolta
della sua carriera. Il successo di Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976)
riaccese l’interesse critico nei confronti dei suoi film, ma, e qui sta il segno dei tempi
cambiati, con il dubbio che la felice riuscita dei film fosse «merito del regista o
dell’attore-autore Paolo Villaggio».24 Il sodalizio con Villaggio proseguì per tutta la
seconda metà degli anni '70, con un progressivo disinteresse di pubblico e critica.
Gli anni ’80 furono anni difficili, segnati dalla malattia (una paralisi facciale lo colpì
dopo le riprese di Gli innocenti vanno all’estero, 1983) e dalle scarse possibilità di lavoro.
Salce, comunque, riuscì a trovare l’entusiasmo per ottenere ancora un grande successo
commerciale (Vieni avanti cretino, 1982) e chiudere la carriera con una commedia
giovanilistica, Quelli del casco (1988), in cui recuperò le atmosfere de La voglia matta
(1962), mostrando come lo stile, leggero e brillante, fosse rimasto invariato, così come il
modo di osservare i fenomeni di costume.
Afflitto da un male incurabile, Luciano Salce si spense a Roma, per crisi cardiaca,
l’anno dopo, il 17 dicembre del 1989.
Capitolo 2. La commedia trova il suo linguaggio cinematografico
(Il federale, La voglia matta, Le ore dell’amore)
22
Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Guido Di Falco, Luciano Salce, in Fernaldo Di
Gianmatteo, Nuovo dizionario universale del cinema, Gli autori, Editori Riuniti, Roma, 1996, p.
1169
23
Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.393
24
Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.394
9
«Si può dire che la commedia cinematografica all’italiana sta trovando un suo
linguaggio cinematografico, una sua dignità senza precedenti…e ha trovato i suoi
interpreti»1: è questa l’affermazione di Tullio Kezich, rilasciata nella recensione al film Le
ore dell’amore, che consegna a Luciano Salce «la patente d’autore»2.
Con Il federale, La voglia matta, Le ore dell’amore, Salce-Tognazzi-Castellano e Pipolo
creano una trilogia compatta che, per la prima volta, all’interno della nascente commedia
all’italiana, pone al centro del racconto l’”uomo senza qualità”, uno di quei «piccoli eroi
negativi, travolti nel loro privato dalle illusioni della Storia, passata o recente che sia»3.
Ad incarnare i protagonisti delle tre storie è sempre Ugo Tognazzi, che «tra tutti gli
attori del dopoguerra è quello che guarda con più intelligenza alla mostruosità dell’uomo
comune, ne denuncia la pericolosità sociale e, in parallelo, sa far vibrare
di corde
sentimentali di ricchezza inimmaginabile personaggi dall’apparenza mostruosa e far
vedere gli individui nella loro nudità fisica e morale, una volta caduti i sistemi difensivi»4.
Le mostruosità della vita moderna, gli autori di questi film, le individuano nella classe
borghese. Gli uomini senza qualità sono uomini borghesi, che nella vita hanno raggiunto
un livello sociale di benestanza, a scapito però del calpestamento
dei valori morali, provocando un senso di insoddisfazione che mina la possibile
tranquillità della loro vita. I ritratti di questi protagonisti hanno un’estensione cronologica
(dal fascismo all’epoca contemporanea) e sociale (tra pubblico e privato) che consente di
attribuire un alto grado di esemplarità alle loro storie. Sempre i tre protagonisti hanno
un’attribuzione di relativo potere (Primo Arcovazzi, ne Il Federale, è una camicia nera;
Antonio Berlinghieri, ne La voglia matta, è un ingegnere che sbandiera la propria tessera
di probiviro dell’Aci; Gianni è un professionista benestante), che consente loro una
supremazia parziale nei confronti dei più stretti interlocutori, ma nel frattempo ne limita
una totale e soddisfacente realizzazione sociale. C’è sempre qualcosa, nel momento in cui
sembrano raggiungere l’obiettivo, che si rivolta loro contro e ne provoca la rovina. La
causa sembra essere esterna, mentre invece si rivela insita in essi: è una ristrettezza di
vedute – sociali, morali, politiche – che si mostra nel momento decisivo, quando
dovrebbero esprimere le proprie qualità.
Primo Arcovazzi viene linciato dai partigiani, proprio perché è riuscito ad indossare
l’agognata divisa da federale, rimanendo ottuso di fronte alla terribile stupidità del
fascismo e non accorgendosi della presa di coscienza dei suoi connazionali. Antonio
Berlinghieri perde la giovane Francesca, proprio quando è convinto di averla conquistata:
1
Tullio Kezich, Il filmsessanta, Mondadori, Milano, p.177
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, p. 321
3
Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Il federale, in Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario
del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995, p.134
4
Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4., p.150
2
2
la differenza di età non è decisiva quanto la differenza di vedute. La sua rispettabilità,
paravento dietro cui nascondere ogni cialtronaggine, verrà ridicolizzata nel finale
tragicomico. Infine, Gianni fallisce il rapporto con Maretta, proprio nel momento della
definitiva consacrazione della relazione borghese, quella del matrimonio. Gli egoismi dei
due coniugi, a contatto con una realtà rituale e nevrotica, si scontrano fino ad impedire
qualsiasi contatto tra le due personalità. La risoluzione, amara, sarà quella di tornare ad
essere amanti.
Una testimonianza di Luigi Zampa, che, contemporaneamente a Salce, girava una
commedia sul fascismo, Anni Ruggenti (1962), richiama l’attenzione sui guasti provocati
dalla borghesia: «I maggiori guai dei nostri tempi sono sempre dipesi da una borghesia
inetta, profittatrice, corrotta. Del resto chi è che ha fatto il fascismo? La borghesia, non
l’hanno mica fatto le masse popolari! Le masse popolari ricevevano la cartolina rossa e le
obbligavano ad andare a Piazza Venezia a urlare “Duce-Duce”, altrimenti finivano male. Il
fascismo non era un fatto popolare, ma un fatto di coercizione. Quelli che lo seguivano
spontaneamente erano i borghesi, per conservare i loro privilegi. E sono stati i borghesi
fascisti a seminare delitti e rovine per l’Europa»5.
Il federale (1961) si inserisce in un filone di film comici sulla Resistenza, che proprio in
quegli anni stava nascendo, sulla scia di Tutti a casa (1960, Comencini). «Sembrò uno
dei sintomi più salienti della rinascita del cinema italiano il fatto che, dopo il torpore degli
anni ’50, trovasse un ruolo non secondario quella tematica che nel corso del decennio
precedente era rientrata tra gli argomenti tabù e che, quando sfiorata, era stata oggetto
di vessazioni , censure, impedimenti»6. Il critico Miccichè ne depreca però la carenza
ideologica: «In buona parte dei film, la rievocazione e la rappresentazione della notte
fascista, e dei giorni di furore con cui si era conclusa, assunse non a caso connotazioni da
“commedia”, oscillando tra la satira e la farsa, con un’esplicita rinuncia a ogni saldo
approfondimento analitico» 7.
Micciché non si accorge che le potenzialità critiche della commedia sono tutt’altro che
carenti, sono soltanto differenti da quelle analitiche dei film drammatici e psicologici. La
commedia usa la caricatura, la deformazione, l’irrigidimento grottesco, il non-sense per
rappresentare i propri pensieri ideologici. Basta saperli trovare. La politica degli
opportunisti, che alla caduta del fascismo hanno tranquillamente cambiato bandiera,
trasferendosi subito dalla parte del vincitore è, proprio ne Il federale, sintetizzata nella
figura del poeta Arcangelo Baldacci. Poeta ufficiale del regime, cantore della gesta del
fascismo in questi eroici versi:
5
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.116-117
Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 1996, p.47
7
Ibidem.
6
3
Chi, sfidando la mitraglia,
nel fragor della battaglia,
all’assalto ci conduce ?
E’ il mio duce.
Chi, tra labari e bandiere,
guida le camicie nere,
al trionfo del partito?
E’ Benito.
Chi, sprezzando Francia e Albione,
col germanico e il nippone,
marcia verso ogni destini?
Mussolini.
Appena Baldacci ha il sentore della prossima caduta del regime, si adegua alle nuove
idee: cambia genere di poesia, ma non la struttura formale:
Chi scacciato l’Alamanno,
dalla lotta e dall’affanno,
alla pace ci trarrà?
Libertà.
La pregnanza sintetica e la validità della metafora, non didascalica, ma satirica è
evidente. Non per Micciché, che attacca furiosamente film e regista:
Un capitolo tra i più degradati del sottofilone comico sul fascismo lo firma comunque Luciano
Salce che – dopo un lontano e oscuro esordio registico in Brasile […] ed una prima irruzione nel
cinema alimentare (Le pillole di Ercole, 1960) – dirige Il federale (1961), dove una quantità di
sberleffi equanimemente distribuiti tra fascisti e antifascisti si conclude con una sorta di
fraternizzazione vittimistica tra “italiani brava gente”, in camicia nera o in cravatta borghese.8
La cieca requisitoria di Micciché travisa completamente il senso del film. La migliore
risposta al critico la dà lo stesso Salce:
Il fascista de Il federale è il frutto di una scuola di ottusità e imbecillità, giocato dai suoi stessi
capi furbacchioni. Uno che non capisce perché gli hanno insegnato a non capire. D’altra parte il
professore dal solido e chiaro antifascismo ha delle grettezze umane che non ha il suo antagonista.
Il film è tutto in questo scontro di caratteri. Fare satira è sempre un esercizio difficilissimo, in un
paese dotato di così poco senso dell’umorismo come il nostro, e fa rischiare l’impopolarità. […]
Qualcuno rimproverò il film di essere qualunquista, perché si vedeva con occhio umano il
personaggio del fascista ottuso e imbecille. L’accusa, d’altronde, mi è stata fatta spesso. Il
professore poi, non è che lo considerassi come un buono, era un antifascista storico, vecchio tipo,
alla Bonomi, Sforza, visto anche lui criticamente.9
La chiave di lettura del film sta nella frase che un gerarca dice a proposito di
Arcovazzi: «Ha messo vent’anni per imparare tutto questo, ce ne vorrebbero altri venti
per farglielo dimenticare», sottolineando così la sua attitudine all’obbedienza.
Il personaggio di Arcovazzi è osservato dagli autori nelle sue sfumature umane, non è
l’incarnazione del Male in camicia nera. La tesi di Salce (e di Castellano e Pipolo) è che gli
uomini comuni che aderirono al fascismo non lo fecero perché costretti o per libera
scelta, ma perché non avevano altra possibilità: erano abituati a vivere in una società
repressiva, che non faceva pensare e non erano capaci di distinguere l’errore della loro
8
9
Lino Micciché, Cinema italiano…, cit., p.49
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.112-113
4
scelta. Arcovazzi vive la sua fede politica come «unica possibilità di riscatto sociale»10. Il
suo eloquio e il suo pensiero sono riempiti di frasi fatte (le nazioni democratiche
diventano nei suoi discorsi «le forze demoplutocratiche»), di slogan politici (le poesie di
Baldacci) ma è capace di slanci generosi (si tuffa tra gli aerei di bombardamento per
salvare due fanciulli).
Anche a contatto con il nobilissimo pensiero del prof. Erminio Bonafè, la sua fede
politica non cambia: nemmeno i lucidi aforismi del professore sulla guerra («la guerra è
una parentesi bestiale e solo quando è finita ci si accorge della sua inutilità»), sul
fascismo («Ai miei tempi mi insegnarono che un buon voto in latino valeva più di un buon
voto in ginnastica. In seguito per conquistare un buon posto al governo ci volle
soprattutto la salita alla pertica. L’Italia non fu più maestra d’arti, ma maestra di
ginnastica»), le sue parabole (come quella economica sull’affamato a cui il dittatore dà il
necessario, ma il democratico la possibilità di acquistarselo) feriscono la sorda ottusità di
Arcovazzi.
La differenza dei due personaggi trova riscontro nella differenza di recitazione degli
attori che li interpretano: Ugo Tognazzi e Georges Wilson. Tanto il primo è «sanguigno,
istintivo, corposo»11, tanto il secondo è «distaccato e pieno di finezze»12. Il gioco a due di
botta e risposta è uno degli elementi più efficaci del film. Ma, nonostante il parere
contrario di Viganò, non si riduce al «contrasto tra l’agitazione del capocomico e la
flemma della spalla»13, tipica del teatro di rivista. Wilson non è affatto la spalla di
Tognazzi, ne è un contraltare: non è possibile considerarli una coppia comica. Lo affermò
lo stesso Salce, che lottò per non inserire nel film anche Vianello:
Il difficile fu staccarlo (Tognazzi, nda) da Vianello. Automaticamente tutti dissero: il secondo, il
professore, lo fa Vianello! Ma con tutta la mia simpatia e ammirazione per Vianello non mi pareva
un film da coppia, e ci voleva un attore adeguato a quel ruolo, che poi trovammo in Georges
Wilson.14
Non c’è nel film una costruzione della gag apposita per la coppia comica: non c’è un
rapporto di subalternità tra una personaggio (un attore) e l’altro, come nei film con
Laurel e Hardy, Franchi e Ingrassia. Ognuno ha una posizione di superiorità rispetto
all’altro: se Bonafè è superiore ad Arcovazzi sul piano intellettuale, quest’ultimo è l’uomo
che detiene il potere. Non c’è neanche nelle gag del film quella violenza grafica affine al
sadismo di tanti film imperniati sulle coppie comiche.
Il federale è un film di viaggio a due personaggi. Non c’è neanche una protagonista
femminile, cosa che spiacque ai produttori. E’ un lungo viaggio dei due protagonisti verso
10
Aldo Viganò, La commedia…, cit., p. 80
Ermanno Comuzio, Presentazione de “Il Federale”, Cinecittà, 1990
12
Ibidem
13
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80
11
5
un traguardo che sarà anche un regolamento di conti con la Storia: Arcovazzi sconterà
con l’aggressione la sua scelta sbagliata, la sua incapacità di comprendere la giustezza di
un’ideologia, di orientarsi nella vita. Anche nel finale, dopo essere stato picchiato senza
capire il perché, si trova a vagare in una Roma ridotta in macerie. Il viaggio stavolta non
è un viaggio di conoscenza: la sua ottusità sarà senza redenzione, non ci sarà
conversione nella propria coscienza. Il che implica un giudizio molto negativo degli autori
sul personaggio, al di là delle proteste dei «critici di partito»15.
Il racconto di questa mancata presa di coscienza procede sul piano stilistico senza
intenerimenti: il tono del film è satirico, con qualche accensione lirica (il personaggio di
Donna Eleonora) che non scade mai nel sentimentalismo. La regia e la sceneggiatura
procedono all’unisono nel caricare di significati i dettagli, attraverso cui
illuminare
personaggi e situazioni. Già in questo film Salce mette a punto le sue doti peculiari di
ritmo e costruzione dell’inquadratura, sostenute da una sceneggiatura di Castellano e
Pipolo ricca di battute incisive e rivelatorie.
E’ rivelatoria della concentrazione degli effetti attuata dagli autori la trovata del
libriccino di poesie di Leopardi che il professore porta con sé. In primo luogo, infatti,
definisce più ampiamente le coordinate psicologiche di Bonafè: la lettura dei versi di
Leopardi gli consente di distaccarsi dalla realtà concreta e, rapportandola ad essi, di
commentarla. D’altro canto, aumenta l’analisi del carattere di Arcovazzi, sordo (una volta
di più) di fronte ai versi di Leopardi, sprezzantemente definito, valutandolo con la virilità
fascista, «il gobbetto». Infine segna il punto d’incontro tra i due, quando le pagine del
libro verranno progressivamente strappate per farne cartine di sigarette ed anche la
cultura si mostrerà impotente di fronte alle necessità della vita quotidiana.
La sequenza di Arcovazzi e Bonafè in viaggio sul sidecar sulla strada sterrata di
campagna, con Arcovazzi che, sguardo fisso di fronte a sé, insensibile alle parole del
professore, annuncia ogni ostacolo che si para davanti («Buca!», «Buca con acqua!»,
«Buca con fango!») finendoci puntualmente in mezzo, è quella più celebre per dimostrare
l’icasticità delle soluzioni narrative (e realmente sarebbe stato impossibile mostrare in
miglior modo l’ottusità del fascista).
In tutto il film Salce dimostra la capacità di cogliere il nocciolo di ogni situazione del
racconto. C’è un grande senso del paesaggio ne Il federale: i due protagonisti vi sono
immersi nelle frequenti inquadrature in totali e campi lunghi (e lunghissimi, come quello
della rincorsa tra i due in controluce, sulla linea dell’orizzonte, sul far della sera). La
natura si fa sempre più brulla, procedendo verso Roma, e rivela la pericolosità nascosta
dietro la bellezza. Le ampie distese pianeggianti della campagna pontina, con le stradine
14
15
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.113
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.45
6
bianche impolverate, sono facile bersaglio degli aerei di bombardamento; i campi di
grano sono minati (anche se poi il cartello di avviso si rivela falso, messo lì da un villico
che non voleva far rovinare le colture dal passaggio di soldati e civili in fuga); i paesi,
come Rocca Sabina, sono ridotti in mucchi di mattoni tritati e case sbilenche; i treni che
tornano dal fronte sono carichi di feriti e mutilati (Arcovazzi li saluta orgoglioso e
festante); le Case del Fascio, simboli del potere, dimostrano la portata della rovina: sono
occupate da ragazzi imberbi che giocano alla guerra.
L’umanità che popola questa natura è sbandata, disorientata e fa mostra delle proprie
peggiori qualità: siamo nel 1944, l’Italia è divisa in due. Il poeta di regime Arcangelo
Baldacci si rifugia nella soffitta della sua casa, dopo aver fatto annunciare dalla propria
moglie, la sua morte eroica nei cieli d’Albania. La famiglia di contadini abruzzesi che
scambia l’affamato prof. Bonafè per un ufficiale tedesco prima lo vuole uccidere a
tradimento, poi, dopo la spiegazione del professore, lo caccia via senza un briciolo di
pietà (e, soprattutto, senza rifocillarlo). La zia di Bonafè e la sua vecchia fiamma
denunciano involontariamente il professore, rivelando il suo nascondiglio ad Arcovazzi,
perché non hanno assolutamente compreso la situazione creatasi in Italia: «Se ti
cercano, vuol dire che hanno bisogno di te», sentenzia la zia, prima di consegnare ad
Arcovazzi una maglia di lana per il professore. I compaesani di Bonafè, poi, vedendolo in
sidecar con il fascista, credono che abbia tradito e sia passato con le camicie nere.
Proliferano borsari neri, nascosti dietro facciate insospettabili (uno di essi porta l’olio
dentro la statua di un beato) e astute ladruncole: regnano l’indifferenza e l’istinto di
conservazione, laddove si è permessa la nascita del fascismo.
Tra queste figure di vigliacchi, egoisti, ottusi uomini comuni Bonafé e Arcovazzi
incontrano lo sguardo allucinato del Matto «che non sa niente di niente»16. Estrema
incarnazione dell’uomo comune che per salvare la propria vita si disinteressa di tutto e di
tutti, non si espone a nessun rischio ed accetta di essere insultato e calpestato:
Arcovazzi: - Ma allora sei deficiente!
Matto: - Deficiente a chi?
Arcovazzi: - A te!
Matto: - Ah, beh, beh…basta spiegasse…
La mdp di Salce è mobile, rifiuta la fissità neutra dell’occhio: i piani non sono mai fissi,
i dialoghi sono risolti con movimenti e scarti della mdp, con la scomposizione dei piani
dell’inquadratura. Come nella scena dell’incontro con i soldati tedeschi: in primo piano il
professore immobile (diffondendo una sensazione di ostilità), in fondo il tedesco immobile
(stavolta la sensazione è di superiorità), al centro Tognazzi che fa la spola tra l’uno e
l’altro (servile ed ingenuo). Emergono già ne Il federale, e con compiutezza, quelle che
16
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80
7
saranno le doti del regista: «senso del ritmo, rapidità di osservazione, leggerezza di
tocco, paragonabili alla commedia sofisticata americana degli anni ‘30»17, ma anche
originalità nel taglio delle inquadrature (senza eccessivi barocchismi), impaginazione
scenografica adeguata dei momenti del racconto, capacità di rivelare i dettagli psicologici
tramite situazioni comiche.
Sarà quest’ultima caratteristica ad emergere nel successivo La voglia matta (1962). Il
quale riporta all’epoca contemporanea l’analisi sull’uomo borghese: Antonio Berlinghieri è
un ingegnere milanese di 39 anni, sposato, con un figlio, un’amante, soddisfatto e sicuro
di sé, tanto nei rapporti di lavoro che in quelli sessuali («Mai mettere la donna sul piano
sentimentale, sempre su quello orizzontale»). Col procedere del racconto, scopriamo
però che la sicurezza e la soddisfazione sono solo apparenti: la moglie lo ha lasciato, il
figlio è rinchiuso in un collegio monacale e, soprattutto, aleggia sulla sua esistenza la
preoccupazione di star vivendo una fase di passaggio della propria vita. L’arrivo dei
quarant’anni avvicina quello della vecchiaia e, quindi, della morte: come acutamente ha
osservato Aldo Viganò, «il film mette in scena la paura della fine di tutto. A trentanove
anni, spesso costretto a mantenersi sveglio con la simpamina, l’industriale Berlinghieri
deve per la prima volta, fare i conti con la morte. La teme, allorché il medico lo visita
scuotendo
la
testa;
la
immagina, mentre
Francesca
lo
costringe
a
correre
a
centocinquanta all’ora sulla provinciale; se ne sente aggredito quando fa il bagno in mare
dopo mangiato; se la trova improvvisamente nelle sembianze del cecchino inglese ucciso
casualmente in guerra, nel corso della passeggiata notturna nel cimitero. Per reazione
allora egli si attacca morbosamente a quella maliziosa teen-ager che dispensa baci a tutti
e chiama “matusa” i genitori che hanno la sua età»18.
L’impostazione psicologica ha una valutazione ideologica: Berlinghieri sembra una
vittima, niente affatto innocente, di «quel mito della giovinezza perenne, che proprio in
quegli anni stava nascendo, imposto dall’industria culturale»19.
La voglia matta è una
delle grandi commedie del “boom”, girata all’inizio degli anni ’60, quando «gli autori
colgono magistralmente il boom nella sua doppia componente di ostentata euforia e
sotterranei presentimenti»20. Salce si inserisce a pieno titolo nel gruppo di questi autori.
E’ critico verso la società nata in questi anni. Per lui il consumismo conseguente al
miracolo economico assoggetta ogni componente, privata e pubblica, del vivere, anche
quella sessuale: «la “voglia matta”, naturalmente insoddisfatta, è quella del sesso,
17
Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.393
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86
19
Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, La voglia matta, in Fernaldo Di Gianmatteo,
Dizionario del cinema italiano, Editori Riunti, Roma, 1995, p.384
20
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.47
21
Ivi, p.48
18
8
anch’esso un allettamento consumistico fra i tanti, anch’esso in fondo uno statussymbol»21.
A contatto con una realtà estranea, per motivi temporali, quella del mondo giovanile,
Berlinghieri mostra il lato ridicolo del proprio perbenismo. Vuole sfidare i giovani sul loro
terreno, quello atletico, e ne esce sconfitto in modo quasi letale (la già ricordata nuotata
del dopopranzo). Vuole mostrare il proprio senso dell’umorismo, ma racconta malamente
una barzelletta, si dimentica la battuta finale, la ripete più volte e viene ridicolizzato:
Berlinghieri: - Se permettete ne racconto una io. Però la mia ha un difetto: fa ridere. Dunque come
faceva? Flashback, con inquadratura di Berlinghieri che scende da un aereo, accompagnato da
Alberghetti, verso cui si rivolge:
Berlinghieri: - Alberghetti la sa quella della marmellata?
Alberghetti: - No, no, dica…
Berlinghieri: E’ carina…Un signore entra dal droghiere e dice: «Mi dia un barattolo di marmellata
Arrigoni». «Mi dispiace – risponde il droghiere – a rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo solo a tinta
unita».
Risata di Alberghetti. Fine del flashback. Berlinghieri in primo piano, rivolto ai ragazzi:
Berlinghieri: - Dal droghiere: un signore entra e chiede un barattolo di marmellata. E l’altro
risponde: «L’abbiamo soltanto a strisce»…Ah, no, no, ho dimenticato la cosa più importante. Un
signore entra dal droghiere e chiede un barattolo di marmellata Arrigoni. Al che il droghiere
risponde: «A rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo soltanto a strisce.
Controcampo dei ragazzi attoniti.
Ancora Berlinghieri: - Ah, no, no…fate conto di non averla sentita. Un signore entra dal droghiere e
chiede un barattolo di marmellata Arrigoni e il droghiere gli risponde…sì, sì, sì…il droghiere gli
risponde: «A rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo soltanto a strisce».
Controcampo dei ragazzi sbalorditi.
Berlinghieri (alterato): - Un signore entra dal droghiere: «Per favore, avete un barattolo di
marmellata Arrigoni?», ah…l’abbiamo a tinta unita, a tinta unita…
Il ragazzo biondo: - Però…fa proprio schifo, è pure vecchia.
L’altro ragazzo: - Questa l’hanno raccontata a Goffredo di Buglione e lui ha deciso di partire per
le crociate e non è più tornato.
La sequenza risponde pienamente alle caratteristiche stilistiche di Salce ricordate
precedentemente: la capacità di definire le psicologie attraverso le situazioni comiche. In
una scena molto crudele, Berlinghieri viene assediato dalla mdp di Salce. La superiorità
intellettuale che il protagonista voleva mostrare gli si ritorce contro: i balbettii, i
tentennamenti, le alterazioni del personaggio fanno montare un’insostenibile tensione
psicologica che sfocia nella risata ridicolizzante. Il disagio per una risata che non viene
riscossa, si tramuta in oggetto di risate altrui: dello spettatore e dei personaggi della
storia, omologhi dello spettatore.
Il soggetto non è più il motore dell’azione, ma la subisce, ne diviene l’oggetto.
L’ingegnere Berlinghieri vorrebbe controllare gli altri personaggi, ma se con i suoi
coetanei ci riesce (Alberghetti è un suo servile compagno), con i ragazzi non ha
altrettanta fortuna, nonostante si creda a loro superiore, per cultura ed esperienza. Forse
lo è - «il gruppo dei ragazzi impressiona per la sua svagata crudeltà, per il suo
9
aggiornato conformismo»22 - ma la distanza tra i due mondi è tanta che non c’è
possibilità di comunicazione: i tentativi di Berlinghieri di mostrare la propria superiorità
scivolano sui ragazzi come l’acqua sul marmo e gli sforzi per farsi sentire ottengono
l’effetto di ridicolizzarlo.
Il movimento psicologico dei
personaggi
si
riflette
sulla struttura stessa del
racconto, che sembra non progredire mai. I movimenti della narrazione, dopo lo spunto
iniziale, si arrestano, si soffermano sulla situazione e poi si ribaltano: è un movimento a
quattro tempi. Coincidendo con le azioni di Berlinghieri, atti mancati che aumentano la
sua insofferenza, è necessario che sia così. Come nella sequenza
della
barzelletta,
basta un controcampo a capovolgere la situazione narrativa; o un elemento della
scenografia: la tendina scostata, durante la dichiarazione di Berlinghieri a Francesca,
teatralizza la scena e distrugge l’intimità della sequenza; o un momento della colonna
sonora: la canzone Sassi di Gino Paoli trasforma l’atmosfera del ballo di Antonio e
Francesca: dalla sensualità dell’approccio ad una malinconia commossa: le mani si
stringono, i volti si toccano, i corpi si allacciano, in un improvviso bisogno di affetto. La
regia di Luciano Salce si fa rigorosa, la sintesi stilistica dà ritmo cinematografico al
racconto: si succedono le inquadrature di campi e controcampi che visualizzano il
dualismo della storia.
Gli approcci di Antonio verso Francesca non hanno successo, così come i suoi tentativi
di rivaleggiare con i ragazzi del gruppo, nonostante le promettenti fasi d’avvio: non c’è
progressione drammaturgica ne La voglia matta. Le sequenze si allineano l’una accanto
all’altra, senza intrecciarsi tra di esse: non potrebbero, perché i momenti narrativi sono
fittizi, l’azione non modifica la situazione di partenza. Tutto intero, il racconto de La
voglia matta, è un solo momento narrativo: i movimenti interni, la ripetizione degli atti
mancati provocano l’umiliazione della supposta superiorità dell’uomo borghese.
La sequenza finale è molto significativa: dopo l’estrema illusione («la possibilità di
portarsi a letto una bella sedicenne»23) sulla spiaggia, di notte, la mattina Berlinghieri si
risveglia, solo, con un’acconciatura indiana sulla testa. Così abbigliato, sale in auto e si
reimmette nella vita quotidiana, nel traffico stradale, tra i dileggi dei passanti, mentre la
mdp si alza in un dolly all’indietro. Il giorno di gloria termina ingloriosamente, i tentativi
di superare i limiti della morale borghese subiscono uno scacco esistenziale: il ritorno alla
quotidianità di Berlinghieri segna la fine della domenica, la fine dell’estate («Che rabbia,
l’estate è finita» mormora tra i denti Catherine Spaak, prima della partenza), la fine delle
illusioni e di una stagione della propria vita: ritorniamo al film sulla paura della fine di
tutto.
22
23
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.47
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit.,, p.102
10
Non solo il personaggio del borghese Berlinghieri ha tratti negativi; anche il gruppo di
ragazzi, l’altro polo del racconto, è rappresentato in modo impietoso. In fondo anche loro
sono dei borghesi. E della loro classe hanno ereditato l’ignavia ideologica («Lei lo sa che
il baffo denota poca personalità?», «E allora Stalin?», «Caso mai Hitler», «Uffa sempre
Stalin e Hitler, parliamo un po’ di Sinatra»; «Io invece vorrei essere a Nairobi. Laralalala,
parapapapà…», «Cosa canti?», «L’inno delle S.S.»), l’amnesia storica («Mussolini chi? Il
padre del pianista?» esclama Francesca), la superficialità mascherata dalla brillantezza.
La preparazione culturale l’hanno ereditata a frammenti, riducendola a vuoti aforismi e
slogan dalle ambizioni esistenziali: «Sono stufa di questa vita. Voglio partire domani,
voglio partire per il Congo…A curare i lebbrosi da quel dottore coi baffi», sospira una
ragazza che poco prima aveva esclamato: «Ma no, una rabbia! Vorrei i supplì. E’ una
vergogna che non ci siano i supplì. Manco fossimo in Congo, ma veramente»,
dimostrando una precisa cognizione della geografia africana, ma non altrettanto sincero
spirito umanitario. I problemi esistenziali concernono prevalentemente la sfera sessuale
ed anche qui la volontà è quella di dimostrare un’esperienza maggiore di quella reale:
«Ho avuto tutte le esperienze, ho provato donne di tutte le razze e di tutte le età. Ho
provato tutte le esperienze. Ho provato tutte le sensazioni e adesso mi sa che sto
diventando un po’ frigido».
Questi giovani rifiutano e irridono tutti i miti e la retorica delle generazioni precedenti, persino
quello del gallismo più o meno romanticamente camuffato; il loro libertinaggio è, però, più di forma
che di sostanza, la loro spregiudicatezza è in fondo soltanto verbale. Ma che cosa c’è dietro? Si può
dire che il loro sia un neopaganesimo? In che misura la rappresentazione del film coincide con la
realtà? 24
Gli
interrogativi
di
Morandini
preannunciano la critica odierna, che
tende
a
ridimensionare il valore della rappresentazione che La voglia matta dà del mondo
giovanile. Viganò afferma che «ciò che intriga, infatti, non è […] il ritratto di una
“gioventù” bruciata, già allora un po’ di maniera a causa dei molti precedenti
cinematografici e giornalistici»25 , così come una decina d’anni prima, Masolino D’Amico
aveva riconosciuto che «dietro l’ostentata naturalezza dei ragazzi si sente la maniera»26.
Nonostante tutto, la veridicità di fondo della rappresentazione di Salce è innegabile. Se
il linguaggio dei giovani è ovviamente sorpassato, se il loro anticonformismo di facciata è
certamente derivante dall’ottica generazionale (Salce, Castellano, Pipolo e Tognazzi
avevano all’epoca la stessa età di Berlinghieri, dunque era facile per loro autoidentificarsi
con il personaggio), certe notazioni sociologiche, psicologiche e psicanalitiche sono
profonde e trovano riscontro nella realtà odierna.
24
Morando Morandini, Stasera, 16.3.1962
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86
26
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.116
25
11
L’utilizzo disinvolto della cultura, il rifiuto programmatico delle tensioni ideologiche
anticipano il quadro giovanile odierno. La scarsa propensione per l’impegno politicoideologico di questa generazione succede ad un periodo di grande temperie politica, di
sommovimenti ideologici che lasciano disorientati (la generazione post-sessantottina, il
rinnegamento delle ideologie comuniste, il crollo dei partiti al potere italiani), oggi come
allora (allora il periodo di temperie politico-culturale era stato quello del fascismo, della
guerra, dell’antifascismo e della conseguente nascita della repubblica).
Uguale valore hanno alcune notazioni sull’esibizionismo giovanile, sulla volontà di
compiere un’azione clamorosa per dimostrare la propria esistenza nel mondo. Sulla
identificazione delle pulsioni sessuali con quelle emotive che si scatenano nelle condizioni
di pericolo. Senza far riferimenti alla cronaca spicciola, ma ad un autore cinematografico
distantissimo da Salce, come David Cronenberg, come non notare le somiglianze tra gli
scontri automobilistici di Crash (1996), e la conseguente tesi dell’erotizzazione degli
scontri, e il brivido sensuale che si sprigiona tra Antonio e Francesca durante la loro folle
corsa in automobile ne La voglia matta? I punti di contatto con questo film, simbolo
dell’evoluzione postmoderna del cinema, sono la testimonianza dell’attualità del discorso
di Salce.
Il personaggio di Francesca, interpretato da Catherine Spaak, emerge tra tutti: il suo
ritratto è così memorabile da segnare per sempre la carriera dell’attrice, identificatasi con
la trasgressività sbadata di questo personaggio. La sua presenza è così provocante da far
perdere la testa a Tognazzi, non solo sulla scena. Ricorda l’attrice che «con Tognazzi […]
c’era un po’ di frizione perché…insomma per via della voglia matta! Però così, in
superficie, senza danni per nessuno»27. In effetti, «la Francesca della Spaak è un
personaggio
indimenticabile:
immagine
in
carne
ed
ossa
di
un
qualcosa
di
indefinitamente desiderabile e sempre sfuggente»28. L’attrice e il regista sono bravi a
sfruttare il repertorio di mosse, vezzi tipici dell’età adolescenziale del personaggio, senza
cadere nella leziosità o nel ridicolo. I lunghi piani ravvicinati – dovuti anche dal fatto che
il film è girato quasi interamente in interni, in uno chalet ricostruito nei pressi della
spiaggia di Sabaudia – si soffermano sulla testa sempre leggermente inclinata,
l’espressione un po’ imbronciata, gli occhi maliziosi, il corpo androgino dalle lunghe
gambe affusolate. La regia le pone spesso accanto Tognazzi nella stessa inquadratura: il
gioco di sguardi dei due attori definisce i passaggi psicologici. Come nel primo incontro,
quando gli sguardi obliqui, in tralice, di Tognazzi, gettati quasi casualmente sulla
ragazza, ma in realtà con sempre maggiore insistenza, rivelano un interesse molto
coinvolto del personaggio.
27
28
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 141
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86
12
La forza delle immagini è tale da rendere pleonastici, o comunque ridondanti, i
monologhi interiori con cui Berlinghieri commenta le situazioni. Così come, più in
generale, i rapidi flashback e flashforward che punteggiano comicamente la vicenda
(sono ricordi e premonizioni di Berlinghieri) rispondono più alla moda dell’epoca e ad un
intento di modernizzare la struttura narrativa, che ad una reale esigenza espressiva del
film.
Sono difetti che scompariranno ne Le ore dell’amore (1963), con cui Salce chiude la
trilogia sul borghese senza qualità. Dopo i rapporti pubblici tra l’uomo comune e gli
accadimenti della Storia (Il federale), dopo
la
crisi esistenziale susseguente ad uno
scontro generazionale (La voglia matta), gli autori analizzano stavolta l’istituzione
matrimoniale, ripiegando ancora di più sul privato. Lo stesso Salce ricapitolò i tre
momenti della trilogia, evidenziandone il lato autobiografico:
Le ore dell’amore, terzo film della trilogia con Tognazzi, era anche questo una storia del boom,
rappresentativa di quegli anni. In Tognazzi avevo trovato una sorta di alter-ego mio come attore,
così come Fellini l’aveva trovato in Mastroianni. In tre film ho raccontato la guerra, le mie pene
d’amore di quarantenne per le ragazze più giovani, e infine l’esperienza matrimoniale. C’era un
fondo autobiografico in tutti questi tre film. Le ore dell’amore è stato accettato solo sulla fiducia dei
due precedenti successi. Lo stesso Tognazzi non lo sentiva molto, lo vedeva molto difficile per lui.
La Riva era un eccellente attrice, ma scostante nella vita, e quindi, nonostante gli sforzi di
Tognazzi, non quadrò molto col film. Ci voleva un’attrice più estroversa, tipo la Vitti. […] Le ore
dell’amore era un film difficile, un film di osservazione, lineare, due che stanno insieme e decidono
di sposarsi ma la convivenza uccide l’amore e decidono di tornare a vivere da amanti. E’ un film di
poche concessioni, con poche scene facili, un film rigoroso.29
Infatti ebbe poco successo, soprattutto se rapportato a due film contemporanei di
Germi (Divorzio all’italiana, 1961 e Sedotta e abbandonata, 1963), che criticavano
analogamente l’istituzione matrimoniale. Ma, a convalidare quanto affermato nel primo
capitolo, il genere della commedia all’italiana è tanto univoco ideologicamente quanto
frammentato stilisticamente. Se le opere di Germi e di Salce sono affini sul piano
ideologico, sono distantissime su quello stilistico: Divorzio all’italiana e Sedotta e
abbandonata sono barocchi, il regista «preme il pedale del grottesco30», con «grande
violenza di stile»31, con un montaggio «vicino alla “nouvelle vague”»32; Le ore dell’amore
contiene «debiti alla commedia americana degli anni ’30 e echi felliniani nella lunga
sequenza del sogno»33.
La regia in Le ore dell’amore è lieve. Tratteggia personaggi caricaturali (l’americana
Leila, che balla sotto la pioggia) o potenzialmente volgari (Ottavio, l’amico di Gianni,
scapolo incallito), scene forti dal latente cattivo gusto (l’incubo di Gianni, l’orgia), con
29
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.143-144
Enrico Giacovelli, Pietro Germi, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 86
31
Ibidem.
32
Ibidem.
33
Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Le ore dell’amore, in Fernaldo Di Gianmatteo,
Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995, p.236
30
13
delicatezza di tocco, con una brillantezza di dialogo che si avvicina alla commedia
sofisticata.
I due protagonisti, Gianni e Maretta, sono presentati, fin dall’incipit (un ricevimento
serale in un lussuoso interno borghese) con coordinate che ricordano i personaggi
interpretati da Cary Grant e Katherine Hepburn. Le loro schermaglie amorose sono un po’
fatue, gli atteggiamenti sarcastici, il linguaggio artefatto. Abbondano i vezzeggiativi nei
loro dialoghi, i diminutivi un po’ sciocchi: «la signora Cretinetti», «il signor De
Presuntuosis», «la signora Elegantini». I loro amici sono dei conversatori particolarmente
brillanti, come il cinico Ottavio o la fedele Mimma, oppure degli intellettuali educatamente
noiosi, come Cipriani. L’idea di unirsi in matrimonio nasce in questo clima brillante e un
po’ superficiale, dove i sentimenti sembrano elementi secondari di un gioco di società.
Mimma e Ottavio si prodigano, con i rispettivi amici, nello sconsigliare il matrimonio, che
seppellirà le loro personalità. La madre di Maretta, arrabbiata per le uscite notturne della
ragazza che destano pettegolezzi tra i vicini, dopo aver appreso la notizia della futura
unione, protesta perché verrà lasciata sola.
Gianni e Maretta sono assaliti dai dubbi, ma infine decidono di sposarsi. Il racconto
adesso sparge elementi premonitori. Giunti a casa dopo il viaggio di nozze, si accorgono
di aver perso la chiave dell’appartamento e rimangono, Maretta nelle braccia di Gianni,
davanti alla porta chiusa. Ancora, mentre si lava le mani, Gianni perde le fede, che cade
nello
scolo
del
lavandino.
L’entusiasmo
per
i
primi
momenti
d’intimità
viene
progressivamente sopraffatto dalla routine del quotidiano: la conversazione langue
davanti alla televisione, Gianni torna imbronciato dal lavoro, Maretta passa più tempo dal
parrucchiere che in casa. La mdp, mentre i due sono a tavola, con una rapida carrellata
all’indietro, per la prima volta prende le distanze dai personaggi. D’ora in poi l’obiettivo si
allontanerà progressivamente, inquadrerà i protagonisti nascosto dietro porte, finestre,
ponendo sempre maggiori ostacoli e maggiore distanza tra i due. Mentre fa l’amore con
Maretta, Gianni scopre di non prestarvi attenzione: «Devo,devo…devo rinnovare
l’abbonamento a Selezione». La sequenza dell’incubo di Gianni, susseguente ad una sua
solitaria partecipazione ad una festa stravagante, segna l’inizio del distacco tra i due.
Gianni è sul letto. Il suono del campanello alla porta lo sveglia. Apre l’uscio. Sulla
soglia una donna di colore, già vista al ricevimento: «Che noiosa quella festa! Ho pensato
di venire qua. Facciamo festa qui?». Entra in casa. La seguono altre donne discinte.
Gianni chiede di fare silenzio e cerca Maretta. La camera è vuota, il letto rifatto. Le donne
danzano in mezzo alla casa, muovendo i veli. Maretta è nel salotto: Cipriani la sta
baciando Quando vede Gianni, sussurra quattro volte: «Alla faccia tua!». Gianni tenta di
colpirlo, ma gli cadono i calzoni del pigiama. Ora il salotto è pieno di gente. Maretta
brucia manciate di banconote nel camino. Gianni, urla: «Adesso basta Maretta». Alza la
14
mano per schiaffeggiarla, ma stavolta a fermarlo è Ottavio, con una bottiglia di whisky in
mano. Presenta a Gianni una sedicenne. I due ballano insieme. Quattro ragazze
osservano. Ottavio esclama ossessivamente: «Sei stufo!…Là sotto la doccia, lucida come
una cavalla». Maretta continua a bruciare il denaro, ridendo istericamente. Gianni
continua a ballare. Gli ospiti sono immobili come statue. Entra un uomo su un go-kart e
porta via la sedicenne. Maretta adesso lancia le banconote addosso agli ospiti immobili.
Ottavio esclama ancora: «Sei stufo». Gianni osserva la donna di colore mentre, nuda, si
fa la doccia. La ragazza lancia un nitrito. Gianni torna nel salotto, bacia Maretta, che si
trasforma in Leila e quindi in un uomo con i baffi. Fugge, urlando, tra due ali di persone
immobili. Lo psicanalista si siede sopra lo stomaco di Gianni, steso sul pavimento:
«Dunque lei mi dice che avverte una certa oppressione». Ottavio, esultante, annuncia
l’arrivo delle sedicenni. Una torma di ragazze butta giù la porta di casa. Afferrano Gianni,
lo portano sul terrazzo mentre nevica e lo gettano giù. Mentre Gianni sprofonda
nell’abisso, si sveglia.
La sequenza dura quattro minuti. E’ girata con uno stile impassibile che, più di Fellini,
ricorda Buñuel. Il linguaggio cinematografico è rigoroso: i pochi movimenti di macchina,
il montaggio elementare, a stacchi, cercano di raccontare la sequenza in modo realistico.
La distorsione onirica avviene tramite la diffusione della luce (i riflettori furono posti in
alto34), l’uso del sonoro (per tutta la durata della sequenza ci sono in sottofondo dei
rintocchi vibranti, la voce dei personaggi è distorta, le risate squillano istericamente), la
presenza di elementi incongrui: il salotto si riempie di persone che assistono immobili
alla scena, un uomo entra nell’appartamento con un go-kart, la ragazza sotto la doccia
nitrisce, Maretta assume diverse sembianze. L’atmosfera è rarefatta (come nella
sequenza del sogno del soldato in Il fascino discreto della borghesia, 1972, di Luis
Buñuel) e non barocca (come in Otto e mezzo, 1963, di Fellini). Lo spettatore,
inizialmente, non sa di trovarsi di fronte ad un sogno di Gianni: i momenti assurdi che si
succedono ce lo svelano, in «un crescendo d’incoerenza fantastica, di quadri viventi i
quali, dissolvendo la barriera tra realtà e l’illusione, conducono lo spettatore alla vertigine
della conoscenza»35 (queste parole scritte da Cattini a proposito di Buñuel si attagliano
perfettamente a questa sequenza). Anche figurativamente, il riferimento più precipuo
sembrano i quadri di Paul Delvaux, con le prospettive allungate e la scarnificazione
formale.
Infine è surrealista la sostanza stessa del sogno, la ricerca dell’autentica realtà
interiore di Gianni, la rappresentazione del suo inconscio secondo le suggestioni
freudiane. Emergono nel sogno le pulsioni più profonde di Gianni: gli atti mancati (i due
34
35
Cfr. appendice: intervista a Erico Menczer.
Alberto Cattini, Luis Buñuel, Il castoro cinema, Milano, 1995, p.112
15
schiaffi mai dati), l’eccitazione libidinosa nei confronti delle ragazze, la paura di un
possibile tradimento di Maretta (con Cipriani, l’amico disprezzato) e la sua eccessiva
prodigalità sono tutti elementi che confermano in Gianni la negatività dell’esperienza
matrimoniale, da cui è ora di fuggire (il volo finale dell’abisso).
Dopo l’incubo, Gianni e Maretta si allontanano progressivamente: Maretta cerca delle
esperienze che possano ricostruirle la personalità (cerca lavoro nel cinema), Gianni tenta
qualche avventura, ricominciando ad osservare le ragazze che incontra. Il pranzo con i
Cipriani segna il momento della crisi. Gianni non accetta più l’umorismo paradossale di
Maretta (un po’ macabro, fa credere ai Cipriani che Gianni soffre di cuore), la sgrida, lei
gli fa una scenata perché sta guardando insistentemente una ragazza prosperosa. I due
si separano, Gianni fugge da Ottavio, che vive in uno scantinato, da solo. Insieme,
partecipano ad un’orgia.
Come l’incubo era l’acme della prima parte del film, l’orgia lo è della seconda.
Formalmente le due sequenze si assomigliano moltissimo. Se il sogno era raccontato
realisticamente, l’orgia è un fatto reale raccontato oniricamente. Sono sempre le pulsioni
di Gianni a definire la situazione narrativa. Nell’orgia, l’uomo è un corpo estraneo: le
donne che vi partecipano non l’interessano. Il tempo del racconto si dilata fino alla stasi, i
personaggi rallentano così tanto le loro reazioni da sembrare, anche in questa sequenza,
immobili. I personaggi reagiscono in modo assurdo. Ottavio suggerisce a Gianni di
chiamare una donna dal seno molto grande e di chiederle se fosse finto: la donna
avrebbe accettato le avances. Gianni esegue e viene schiaffeggiato dalla donna, che poi
comincia uno spogliarello. La donna che Gianni aveva portato con sé, Leila, dopo aver
tentato il suicidio a casa, si ubriaca e comincia a distruggere le suppellettili. Gianni è
costretto a portarla via, ma lungo il viaggio di ritorno, Leila scende dall’auto e urla,
dicendo ai passanti di essere stata violentata. Quando la polizia sta per intervenire, Leila
salta nella macchina di un conoscente.
Gianni torna a casa da Ottavio, ma scopre che l’amico, non è affatto uno scapolo
felice: è un frustrato. Torna allora da Maretta, ma con la promessa di interrompere il
matrimonio. Vivranno da separati, come prima di sposarsi, e riacquisteranno la felicità.
Perché «le ore dell’amore sono poche, sparse e fuggitive» e l’intimità continuata le
distrugge.
La tesi amara del film non è quella di un film divorzista. Gli autori sembrano contrari
all’istituzione stessa del matrimonio, che distrugge le personalità dei due coniugi, i loro
interessi culturali, le loro amicizie, il loro amore a causa di una convivenza coatta.
Maretta perde l’entusiasmo, Gianni il suo umorismo: la quotidianità, le meschinità della
routine inaridiscono i sentimenti. Se ne accorgono i due personaggi, la mattina prima di
partire con i Cipriani, il giorno in cui scoppierà la crisi. Davanti allo specchio, osservano le
16
loro immagini riflesse, ricordano cos’erano prima del matrimonio e riconoscono la crisi. I
loro monologhi interiori, alternati, rivelano gli stessi pensieri e lo stesso desiderio di
tornare a comunicare i propri sentimenti più profondi (la schematicità della scena è
superata dalla scomposizione prismatica delle due immagini riflesse, la cui asimmetria
compositiva, rivela metaforicamente una coscienza non bidimensionale e manichea).
Quando sembrano sul punto di trovare il coraggio di comunicarsi i propri sentimenti,
interviene la cameriera e rompe l’incanto. L’aridità del quotidiano rende impossibile una
comunicazione profonda: i due precipitano consapevolmente nel vortice della crisi.
Le ore dell’amore sembra paradossalmente riunire in sé le qualità dei contemporanei
film di Fellini e Antonioni, senza averne i difetti. Come Antonioni, Salce s’interroga sui
problemi di una coppia borghese, sull’incomunicabilità dei sentimenti. Ma a differenza di
Antonioni non ha la «sua subalternità culturale rispetto alle mode filosofiche del suo
tempo. Quanto esistenzialismo d’accatto, quanta fenomenologia divulgata sui rotocalchi
c’è spesso nella presunzione, nell’arroganza intellettuale del cinema di Antonioni!»36.
Come Fellini, Salce ha la stessa capacità di cogliere con sguardo sociologico l’evoluzione
morale della classe borghese (la scena dell’orgia è presente qui come ne La dolce vita).
Non ha però lo stesso stile barocco, la stessa immaginazione fantastica: non ha perciò
nemmeno gli eccessi di cattivo gusto del regista (basta osservare la sequenza dell’incubo
de Le ore dell’amore con quelle di Otto e mezzo e La città delle donne). L’ispirazione di
Salce è satirica, le sue osservazioni riguardano il costume. Può deformarle surrealmente,
mai rielaborarle fantasticamente.
Gianni e Maretta manifestano la propria crisi mentre entrano in contatto con i prodotti
del boom economico: «dal twist alle sedicenni, da Riccione al televisore, passando per via
Veneto»37. Regista e sceneggiatori si divertono a creare personaggi-simbolo, a deformarli
beffardamente, in un’ottica più amara del precedente La voglia matta. Rispetto a
Francesca, le sedicenni di Le ore dell’amore hanno perso tutta la carica di malizia, di
seducente svagatezza: sono soltanto un corpo generoso, muovono le forme prosperose
senza la consapevolezza della propria sensualità. Il loro fascino è più animalesco, ma
anche più pericoloso. Non a caso le ritroviamo nelle tre sequenze che segnano la crisi di
Gianni nel film: quando nel sogno lo gettano dal terrazzo; quando, mentre ballano il twist
insieme ai Cipriani, Gianni ne occhieggia una e Maretta fa la scenata; quando, durante
l’orgia, Gianni viene schiaffeggiato da una di loro. Queste ragazze non hanno più fascino,
non se ne devono servire: il matrimonio ha ingabbiato Gianni (simbolicamente,
36
Ruggero Guarini, Un narratore borghese, in Mauro Bolognini il fascino della forma, ANCCI,
1996, p. 62
37
Caldiron, Girlanda, Pisarra, Le ore dell’amore…, cit., p. 236
17
rappresentato prigioniero tra le recinzioni della terrazza, durante la festa notturna), che
non può far altro che osservarle, ma non avvicinarsi, pena la crisi.
La sceneggiatura e la regia presentano una galleria di personaggi buffi, tratteggiati
con una sola battuta, una sola inquadratura: lo psicanalista ritenuto da Gianni
omosessuale e le cui domande («Rimanga qui con me lei. Ha mai desiderato fare il bagno
nudo?…Da bambino amava toccarsi i genitali?») non fanno che avvalorare la sua tesi; il
giovane fratello di Mimma procacciatore di tardone, del quale si innamora Maretta; gli
amici di famiglia, i Cipriani, noiosi e beneducati, con cui i rapporti sono ridotti a vuote
frasi di convenzionale intimità.
Lo stile di Salce condensa, come e più che nei film precedenti, comicità e malinconia in
una stessa scena. Esemplare quella in cui Mimma incontra Maretta e discorre con lei del
fratello, spiegandole come si faccia mantenere da donne più mature di lui, regalandole un
mazzo di violette come primo approccio. Maretta, che aveva appena avuto un
appuntamento con il ragazzo, sembra ascoltare indifferente. Ma la mdp, fino ad allora
frontale, si arresta, lascia scorrere le due donne, le osserva da dietro e inquadra un
mazzo di violette caduto sul marciapiede.
Come le commedie americane, Le ore dell’amore è una commedia di personaggi
borghesi, anche se un personaggio come la cameriera lo riporta immediatamente sui
binari della commedia all’italiana. E’ una commedia di interni, come La voglia matta: la
mdp si sofferma sugli elettrodomestici, simbolo del consumismo di quegli anni. E’ una
commedia di psicologie. Non solo Gianni e Maretta sono seguiti nelle loro evoluzioni
comportamentali. Ma anche i personaggi minori.
Dal loro disegno, anzi si traggono elementi che danno nuovi significati al senso del
racconto. Lo scapolo Ottavio, impenitente donnaiolo che ha un’agenda dove tiene
segnate tutte le conquiste (come Calboni ne Il secondo tragico Fantozzi, 1977), che
vorrebbe condurre Gianni verso la liberazione sessuale, si rivela un fallito: vive in uno
scantinato disordinato, in compagnia di un ragno che tesse la sua tela indisturbato da più
di due anni, a cui ha dato perfino un nome, Giorgetto. L’amarezza finale del suo
comportamento rivela la consapevolezza di una frustrazione non più celabile: l’uccisione
finale del ragno Giorgetto ha il sapore di una ribellione impotente. E confonde le
coordinate ideologiche del film. Se, fino ad allora la tesi, sembrava cristallina – il rifiuto
della convivenza matrimoniale – la rivelazione della vita fallimentare dello scapolo porta
lo spettatore a chiedersi se il matrimonio è veramente un male. O se lo è la concezione
borghese del matrimonio. O se le persone debbano essere consapevoli dell’impossibilità
di una durata eterna del rapporto amoroso. E’ difficile vivere un rapporto duraturo, ma è
impossibile vivere senza provarci.
18
Potrebbe essere questa la tesi del film, molto più probabilmente questo film non ha
tesi. Salce ha sfruttato al meglio le proprie doti di osservatore e le ha messe a
disposizione dell’analisi di una crisi matrimoniale. L’estro satirico gli ha consentito di fare
del personaggio interpretato da Tognazzi «un vero e proprio uomo-massa, simbolo di
un’intera generazione e di un’epoca»38. Gli status-symbol borghesi con cui Gianni entra in
contatto, analizzati con un gusto beffardo che ricorda quello di Risi (la serata intera
passata di fronte alla televisione, che azzera la conversazione ed i rapporti interpersonali,
era il tema di un episodio de I mostri – L’oppio dei popoli – ma Risi, più cinico, aveva
risolto il problema matrimoniale: approfittando della distrazione del marito – ancora
Tognazzi – la moglie si era fatta l’amante), ne riflettono la vita privata in quella pubblica,
lo inseriscono nel quadro sociale, ne orientano il comportamento. Ma non mutano quella
che è la sostanza fondante del film: l’analisi rigorosa di una questione privata. Le ore
dell’amore è una galleria di ritratti disegnati con talento, cui il tempo ha consegnato una
validità sociologica.
Tra La voglia matta e Le ore dell’amore, Luciano Salce gira un altro film, La cuccagna
(1962), una sorta di appendice della trilogia con Tognazzi, simile e insieme estraneo ad
essa. Simile, perché anche La cuccagna è una commedia del boom, che analizza un
problema contemporaneo: la ricerca da parte di una ragazza (Rossella) di una propria
emancipazione, cominciando dall’indipendenza nel lavoro. Delusa dai rapporti con una
società consumistica, che presenta il miraggio di una ricchezza facile per poi stritolare
l’individuo più debole nei propri meccanismi (per guadagnare, Rossella accetta di posare
per foto osée), troverà la spinta a vivere nell’amore di un giovane contestatore, Giuliano.
L’estraneità di La cuccagna alla trilogia sull’uomo comune è evidente: stavolta
l’obiettivo di Salce è puntato su una donna (anche lei molto comune), La cuccagna è una
commedia psicologica al femminile, come quelle di Antonio Pietrangeli (molto saranno i
punti di contatto col suo Io la conoscevo bene, 1965). Gli interpreti principali sono
esordienti: Donatella Turri e il cantante Luigi Tenco. La continuità con la trilogia è data
dalla presenza, in piccoli ruoli, di Ugo Tognazzi e dello stesso Luciano Salce. La
sceneggiatura non è firmata da Castellano e Pipolo, ma da Luciano Vincenzoni e dallo
stesso Salce, che si ispirarono ad un fatto realmente accaduto ad Alberto Bevilacqua
(accreditato nei titoli come autore del soggetto).
La cuccagna è un piccolo film di grandi ambizioni. Gli autori sono concordi nel ritenerlo
un film importante. Erico Menczer ne rileva i caratteri di «anticipazione»39, così come
Salce:
38
39
Caldiron, Girlanda, Pisarra, Le ore dell’amore…, cit., p.236
Cfr. Appendice: intervista ad Erico Menczer
19
In La cuccagna anticipavo un personaggio esploso poi nel ’68, il personaggio del contestatore
del ’68. Fatto da Tenco, giovane, disadattato, ribelle, anticipatore perfino fisicamente40.
La critica invece lo considerò generalmente un film mancato, seppur impegnato.
Giovanni Grazzini, nella sua recensione, scrisse:
Uno sperpero di fantasia è il difetto di La cuccagna, che per voler dire troppe cose
sull’imprevedibilità della vita risulta una collana di macchiette, tutte assai ben disegnate ma forzate
nel segno e nel colore. Teneva meglio, nella struttura narrativa, La voglia matta. […] Il filo
conduttore del film erano le peregrinazioni di una ragazza italiana che oggi vuole trovare lavoro, i
pericoli e gli equivoci ai quali va incontro. Poi il filo si è arruffato in una matassa di casi-limite; le
difficoltà e le sorprese della vita si sono incarnate in personaggi grotteschi (il confusionario
industriale del Nord, i commendatori galanti, la turpe mercantessa nazista, l’avvocato visionario),
di estrazione surreale, nei quali Salce sbriglia la sua fantasia da cabaret più che sviluppare un
discorso. La sua ambizione di satireggiare il miracolo economico, il mito della ricchezza, si è persa
per via, distratta dagli aspetti buffi della vita, dal suo gusto del descrivere. Lo stesso Giuliano, che
doveva fare da contrappeso, è una caricatura. Accade così che il film difetti di approfondimento
psicologico […], che la decisione finale di Rossella e Giuliano di lasciarsi uccidere, durante
un’esercitazione militare, per protesta contro la società, tocchi davvero l’assurdo, di fronte al quale
le battute di chiusura […] stridono come un trattato sull’esistenzialismo in una collana di libri
umoristici.41
Forse le ambizioni di Salce erano troppe e troppo confuse. Lo testimonia anche questa
dichiarazione di Ennio Morricone:
Salce mi chiese un pezzo di musica – intanto La cuccagna era uno strano film, molto astratto
con delle cose paradossali – su una scena dove c’era un uomo che sembrava matto e, vicino alla
stanza, aveva un morto, forse la moglie morta, non ricordo. E lui mi chiese una cosa che doveva
essere ironica, ma che doveva tener conto del morto vicino, quindi anche funebre; però doveva
essere grottesco…Insomma, mi mise insieme una quindicina di aggettivi, che io, nel mio quaderno
di appunti, scrissi. E a casa scrissi la musica. E la musica che io scrissi – io mi ricordo – era musica
così astratta, astrattissima. La musica non funzionava proprio42.
L’assenza di Castellano e Pipolo influì più di tutte sulla riuscita del film. I due
sceneggiatori fungevano da riequilibratori della vena surrealista e ridondante del regista:
senza di loro emergono quei difetti di frammentarietà e squilibrio narrativo che
caratterizzeranno
la
produzione
del
regista
successiva
al
termine
della
loro
collaborazione.
40
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.141
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, Laterza, Bari, 1980, p.18
42
Ennio Morricone in www.ala.it/fmastudio/musicae.htm
41
20
Capitolo 3. Storie di ragazzi e di giovani mai cresciuti nel decennio della crisi.
(Il professor Kranz tedesco di Germania, Riavanti…marsch!, Quelli del casco)
E’ una tematica che collega l’intera filmografia di Luciano Salce: l’osservazione del
mondo giovanile e di quello dei quarantenni. Gli adolescenti e gli adulti incrociano i loro
sguardi con quello mai imparziale del regista, i loro destini si intrecciano - come ne La
voglia matta – o si separano – come in Quelli del casco. L’atteggiamento di Salce è
leggermente più accomodante con i quarantenni, non foss’altro per questioni di
generazione. Lo stesso autore ha dichiarato il peso autobiografico nelle storie di quegli
uomini maturi innamorati persi di ragazze molto più giovani. Un rapporto che conduce
inesorabilmente ad uno scontro generazionale, nascosto anche in opere insospettabili,
che sembrano non affrontare direttamente l’argomento: ma i rapporti che intercorrono
tra Michele e Pepita ne La moglie bionda (episodio di Oggi, domani, dopodomani, 1965),
tra Silver Boy ed Enrica in Basta guardarla (1970) e tra Guido e Mia in Il…Belpaese
(1977) si coniugano sotto questo segno, rivelano i reali motivi conduttori dei rispettivi
film ed indicano dove siano le coordinate capaci di svelare una coerenza di disegno nella
filmografia del regista.
Probabilmente il titolo più rivelatorio della logica del regista è un film che ha scritto e
interpretato, ma non diretto: si tratta di Oh dolci baci e languide carezze (1969) di Mino
Guerrini. Salce vi interpreta uno di quei ruoli che aveva precedentemente assegnato a
Tognazzi: è un maturo ingegnere, padre di famiglia, che perde la testa per una ragazza
“beat”. Per seguirla, lascia la moglie e tenta di comportarsi come la nuova generazione,
finendo anche per fumarsi, con la ragazza, un pacchetto di sigarette di marijuana. La
polizia li scopre, li arresta e, durante il processo, la ragazza accuserà l’ingegnere di
averla violentata. Il sogno dell’uomo si infrangerà, così come la sua vita. Con tutti
i
difetti di una regia troppo farsesca, che tende ad appiattire gli spunti, Oh dolci baci e
languide carezze, porta alle estreme conseguenze il discorso avviato con La voglia matta,
mostrando un cinico disincanto sull’evoluzione del costume sociale. I giovani hanno
adeguato il proprio comportamento a quello degli adulti.
2
L’amarezza per il comportamento cinico e conformista della gioventù non sarà però
definitiva, tant’è vero che il regista chiuderà la propria carriera con Quelli del casco, un
film che concentra il proprio sguardo soltanto sui giovani, cercando di recuperare una
purezza ed un entusiasmo ormai perduti, e lasciando agli adulti il ruolo poco nobile di
ostili
comprimari,
una
galleria
di
personaggi
ritardati,
mummificati,
insensati
rappresentanti di una società ormai completamente massificata. Ma su quest’opera
torneremo in seguito.
Sono comunque i quarantenni ad interessare particolarmente il discorso di Salce.
Saranno protagonisti soprattutto negli anni ’70, quando lo sguardo su di loro perderà il
sarcasmo del decennio precedente e si farà prevalentemente malinconico. «La crisi della
commedia all’italiana – ricordano Castellano e Pipolo - lambisce anche Salce, che «come
noi e tanti altri, non potendo più agganciarsi alla realtà, ha dovuto ricorrere ad altri tipi di
divertimento. C’è chi fa i film in costume sulla Roma dei Papi come Magni, c’è chi come
noi fa film sul tipo delle commedie americane, e Salce ha dovuto cercarsi altri spazi
anche lui…perché non sente, come onestamente riconosciamo di non sentire noi,
l’attualità e le sue logiche. Perché forse l’attualità non abbiamo più strumenti sufficienti
per spiegarla».1
Quello di Salce è un ripiegamento sul privato. I personaggi sono osservati dietro la
lente della nostalgia, i contorni delle loro storie sfumano nel ricordo autobiografico, il
sarcasmo della gag comica svanisce in un sentimento melanconico che accomuna
personaggi, cose e luoghi. I protagonisti delle storie di questi anni conservano una carica
di infantilità, una purezza primigenia che permette loro di trascorrere gli eventi più
terribili e di superarli indenni. Anche se l’ingenuità può talvolta rasentare la malattia
mentale. Allora il protagonista si trova nei confronti della realtà senza più difese,
destinato a soccomberle: è il caso di Didino, bambino mai cresciuto, in quella grottesca
storia di amore, repressione sessuale e insanità mentale che è Alla mia cara mamma nel
giorno del suo compleanno (1974), che mostra il lato oscuro dell’infantilismo allegro dei
cinque commilitoni che giocano alla vita in Riavanti…marsch!.
Non è un caso che il protagonista di Alla mia cara mamma nel giorno del suo
compleanno è un individuo solitario, mentre i protagonisti delle storie più tipiche di questi
anni sono riuniti in gruppi: soltanto insieme, e con il distacco dell’incoscienza, è possibile
superare le insidie della vita, altrimenti non c’è scampo. I personaggi sono votati a
sconfitte che, se affrontate solitariamente, possono essere letali.
Sono Il professor Kranz tedesco di Germania (1978) e Riavanti…marsch! (1979) ad
interessare soprattutto il nostro discorso. Girati a pochissima distanza di tempo l’uno
1
Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 144
3
dall’ altro,
presentano
ambedue debiti con alcuni celebri
modelli della commedia
all’italiana. Il primo con I soliti ignoti, il secondo con Amici miei, tutti e due film di Mario
Monicelli, il regista italiano «dell’amicizia virile (come Hawks e Ford) e delle imprese
destinate al fallimento»2. Nonostante le referenze, Salce vi aggiunge delle notazioni
personali, direttamente derivate dalla propria esperienza, che rendono i suoi film
autonomi rispetto ai modelli.
Il professor Kranz tedesco di Germania porta sullo schermo un celebre personaggio di
Paolo Villaggio, il presentatore tedesco cattivo e maleducato che aveva esordito nel
programma televisivo Quelli della domenica (1968). Se l’isterico e razzista tedesco è una
creazione dell’attore Villaggio, lo spostamento del suo ruolo sociale e del posto geografico
rispondono ad un’esigenza del regista.
La storia è ambientata in Brasile, tra le favelas di Rio De Janeiro, e segna il ritorno
cinematografico di Salce nello stato sudamericano a trentacinque anni di distanza.
L’immagine è tutt’altro che oleografica: la Rio del film è una città popolare, la mdp gira
tra quartieri brulicanti di persone indigenti, disoccupati indolenti, prostitute, bicocche
cadenti. L’ambientazione è prevalentemente notturna. Su tutto domina la gigantesca
statua di Cristo che sormonta il Corcovado, dalle grandi braccia allargate che sembrano
voler accogliere tutta l’esistenza umana, mentre ne osserva scrupolosamente i
movimenti. La sensazione è più di ostilità che di carità, la statua di Cristo sembra
un’enorme spia - lo spiega chiaramente il professor Kranz: «Sempre lui che guarda, che
scruta…» - come la cupola di S. Pietro di Guardie e ladri.
Come nel film di Steno e Monicelli, sotto la statua del Corcovado si svolge un grottesco
e scatenato ballo di ladri. La banda di malfattori, che crede di aver rapito lo sceicco del
Qatar, mentre invece ne ha rapito l’autista, è la più disastrata e inetta banda che si sia
mai vista nel cinema italiano. I cinque membri che la compongono sono un eterogeneo
gruppo di scombinati e diseredati della società umana.
La mente del gruppo è il professor Franz Kranz, psicanalista germanico di tendenze
naziste e razziste («Io non sono razzista, ma è chiaro che il negro è un animale
nettamente inferiore al bianco. Lei è d’accordo, no?» chiede ad un negro; «Noi tedeschi
siamo specializzati in sequestri di intere popolazioni, se vogliamo»), ridotto in stato di
miseria (mangia brodo di gallina senza gallina) da un’inettitudine così totale da rasentare
il vertice opposto della genialità (e per tale viene, inizialmente, scambiato dagli altri
membri). Si esibisce come attrazione nei locali notturni, presentando esperimenti che
non riescono mai: si rinchiude in sacchi di tela da cui non sa uscire, propone test
psicanalitici sulla sessualità che non sa riconoscere. Parla una lingua distorta e ridicola ed
2
Giacovelli, La commedia…, cit., p. 166
4
è talmente dissociato da non saper contare («uni, uni e mezzo, uni e tri quarti, uni e
cinqui sesti…cosa viene dopo uno?») e da non saper far coincidere il linguaggio ed i segni
che lo accompagnano (dice io ed indica gli interlocutori). E’ insomma, come afferma uno
dei personaggi del film, la segretaria dell’ambasciata della Germania Occidentale: «la
vergogna della comunità tedesca in Brasile». E’ un individuo totalmente antisociale.
Leleco è un giovane disoccupato che, del gruppo, sembrerebbe il più realista. In realtà
è un pigro, un indolente, che, invece di cercare lavoro, preferisce dormire, magari
sognando una donna. Gioca alle corse il poco denaro che ha, non ha reazioni mentre gli
portano via i mobili di casa pignorati. La moglie chiede ai giudici che le lascino almeno il
frigorifero, lui ottiene di recuperare il televisore, per vedere la prossima partita del
Botafogo.
Sua moglie si chiama Dosdores ed è il vero capo di famiglia. E’ lei a lavorare, anzi di
lavori ne fa tre. Ha una sorella, Raimunda, che fa la prostituta, sotto la protezione del
“carcamano” ed è l’amante dell’arabo, che il carcamano vorrebbe far rapire. E’ Dosdores,
che, tra tutti i personaggi, è quella che ha la mira di migliorare la propria posizione
sociale (lavorando è più a contatto con i miti del consumismo), a suggerire di precedere il
carcamano e di rapire in proprio l’arabo.
C’è poi il piccolo Pelesinho, il figlio della domestica del prof. Kranz (una grassa donna
di colore, come quelle dei film americani e, come quella di Via col vento, è chiamata
“Mamy”), verso cui il professore nutre un affetto paterno («Ricordati di andare a scuola,
così quando crescerai diventerai bello, buono…e forse anche bianco») e che, unico
bambino tra tanti bambini mal cresciuti, è l’unico a comportarsi in modo ragionevole.
C’è, infine, il tassista Fittipaldi, contraltare del prof. Kranz, di cui condivide i difetti
(l’inettitudine mentale), ma non le virtù. Il regista riesce a delineare la sua ristrettezza
mentale, piccolo-borghese, con due precise notazioni: maramaldeggia sul professore una
volta fallito il primo piano (Dosdores lo rimbecca: «Stai zitto, tu»), vorrebbe tenersi per
sé le polpettine di gallina quando il gruppo si ritrova, affamato, al termine del secondo
tentativo di rapimento. E’ lui, che soffre di disturbi della memoria e della personalità, a
guidare l’unico mezzo di trasporto della banda: il suo vecchio taxi scoppiettante.
Con tali personaggi, non c’è alcuna possibilità, naturalmente, che gli obiettivi vengano
centrati. Assistiamo non ad un rapimento, ma ad una parodia del rapimento. Una parodia
dall’interno, perché la risata non nasce da effetti meccanici esteriori (c’è qualche gag
corporale memore di Fantozzi). Non c’è quasi nessun espediente farsesco in questo film:
mancano le accelerazioni, le caricature, tutto ciò che è artefatto. La comicità e il
grottesco
sono
comportamento.
interni
Sono
ai
personaggi.
talmente
L’equivoco
maldestri
e
germina
illogici,
questi
spontaneo
poveri
dal
criminali,
loro
da
ridicolizzare ogni loro serio tentativo di perpetrare il rapimento. Il crimine ha bisogno di
5
essere costruito geometricamente, punto per punto, secondo una logica ferrea: quella
che non possiedono questi personaggi, dilettanti incapaci di nuocere ad alcuno. Quando
l’ambasciata del Qatar chiede di tagliare la mano al rapito, hanno una tale crisi di
coscienza, che se lo lasciano scappare. Non sono loro i mostri, è la società ad essere
mostruosa: sono solo dei poveri diseredati. Sono di Leleco, quando scopre la vera
identità dell’arabo, le parole rivelatrici dell’ideologia del film: «Amico! Sei anche tu un
poveraccio come noi. Un lavoratore, un proletario…una merda, insomma».
Il primo piano di rapimento è subito abortito: il megalomane prof. Kranz elabora una
strategia che prevede quattro finti poliziotti, un finto mendicante cieco, una finta
ambulanza, una finta banca da rapinare, per distogliere la polizia dal vero evento
criminoso…Il piano non supera l’elaborazione teorica: i componenti della banda abili
fisicamente sono due: Leleco e il prof. Kranz, e non hanno mezzi di trasporto («Almeno
una macchina ci vuole. Il rapito mica lo possiamo portare in tram» afferma Leleco).
Si tenta, allora, di utilizzare Raimunda come esca involontaria: le si fa credere di aver
creato un elisir d'amore, capace di stimolare sessualmente l’amante, mentre le si propina
un sonnifero, così da poterlo rapire. In realtà, Leleco sbaglia bottiglia e somministra
all’arabo un eccitante. L’inseguimento dell’auto dei due amanti è catastrofico: sulla
macchina davanti è collocato un radar che il prof. Kranz non sa affatto usare. Lo scambia
per un telefono («Pronto, chi parla?», domanda, come nei vecchi film con Totò, come in
Miseria e nobiltà, dove Totò parlava nell’obiettivo fotografico, come se fosse una cornetta
telefonica); quando il radar si stacca dalla macchina dell’arabo, per attaccarsi,
magneticamente, sulla sua, annuncia trionfante: «In questo momento, la macchina
dell’arabo è sotto di noi…Sotto i nostri sedili». Perduto il contatto e lanciatasi
all’inseguimento, la banda dovrà fare i conti con la crisi di memoria del conducente
Fittipaldi, che scorrazza, invasato, per la città, fino all’alba. Per un colpo di fortuna, si
ferma proprio accanto alla macchina dell’arabo, ma questo è tutt’altro che addormentato:
è eccitato. Dopo aver sodomizzato un passante e un cane, tenta un approccio anche con
il professore, ma è distolto dall’arrivo di un cavallo.
Il terzo tentativo di sequestro prevede la partecipazione di Raimunda, alla quale verrà
fatto credere che il rapimento è necessario, perché l’arabo è sotto la mira di alcuni
terroristi israeliani. Stavolta il sonnifero è creato dal professore (una “batida” al limone),
la base sarà un appartamento che Dosdores pulisce la mattina. Non mancano gli
incidenti, anche stavolta: il professore, eternamente affamato, tenta di bere la bevanda
col sonnifero; il padrone di casa torna improvvisamente (verrà addormentato con la
batida, proprio mentre sta per scoprire tutto); i corpi dell’arabo e quello del padrone di
casa vengono scambiati dal prof. Kranz, che arrotola, dentro un tappeto, il secondo
invece del primo. Nonostante tutto, la banda riesce ad uscire dall’appartamento, ma il
6
prof. Kranz, che, per chiamare Fittipaldi con il taxi, ha scelto una fischiata convenzionale
(«Otto fischi lunghi e dodici brevi intervallati»), scopre di non saper fischiare. Un fischio
fortuito lancia sulla scena Fittipaldi, ma Leleco e il professore con il tappeto sono
impacciati ed un passante che deve andare all’aereoporto li precede sul taxi. Così ha
luogo l’incredibile soluzione precedentemente paventata da Leleco: il rapito viene portato
dalla banda in tram.
Quando i rapitori scopriranno che il sequestrato non è lo sceicco, lo consegneranno al
carcamano in modo da riavere Raimunda, nel frattempo rapita dal suo protettore. Lo
scambio degli ostaggi, come in un “polar” francese, avviene di notte, su di un ponte
deserto, le cui estremità sono bloccate dalle rispettive automobili. Ma, estrema
dimostrazione di inettitudine, il prof. Kranz commette l’ennesimo errore: scambia l’arabo
con il “carcamano” e, mano nella mano, lo conduce nella propria postazione. Si accorge
dell’errore («Tipici errori da scambi di ostaggi») mentre sta ululando dalla gioia. L’errore
viene riparato e la storia si chiude circolarmente. Tutto ritorna come prima, anzi peggio
di prima: Leleco torna a sognare le proprie donne; Dosdores torna ai propri lavori,
adesso aumentati: se n’è aggiunto uno notturno; il prof. Kranz torna alle sue esibizioni di
inettitudine; Raimunda torna sul marciapiede, dopo aver cambiato protettore: adesso è
l’arabo, che ha sostituito il “carcamano” imprigionato, da cui ha imparato subitaneamente
il comportamento degli occidentali.
Il finale amaro, che ricorda come sia impossibile il riscatto sociale di chi è totalmente
estraneo alla logica della società capitalistica (al massimo può soltanto adeguarsi alla
massificazione sociale) riconduce Il prof. Kranz tedesco di Germania sui terreni della
commedia all’italiana. I cinque protagonisti trovano una ragione di vita che li unisce: la
speranza del riscatto. Soltanto la speranza, che se non modifica la loro situazione
disagiata, consente almeno di sopravviverle. Una scena fondamentale del film è quella
del mancato suicidio del prof. Kranz, dopo essere stato cancellato dal registro dei
tedeschi in Brasile. Riuscito a scampare alla disgrazia (la cucina a gas esplode mentre si
sta impiccando), si risolve ad agire: rapirà l’arabo. Quando, lacero ed annerito,
annuncerà la notizia a Dosdores, venuto a trovarlo, farà il gesto dignitosissimo di
aggiustarsi il cappio della corda rimasto al collo, come fosse una cravatta.
Il film non ebbe alcun successo (incassò un decimo di Fantozzi) e Salce se ne assunse
tutte le colpe. Ma non è un film sbagliato. Le riprese con la macchina a mano danno
quell’immediatezza che consente di entrare nell’intimità dei personaggi. Alcune soluzioni
espressive - come l’uso del sonoro nella scena del tentato suicidio del professore, il cui
continuo saliscendi sulle scale scandisce i preparativi della propria morte – sono tutt’altro
che corrive. L’arresto del carcamano è costruito grazie ad un montaggio ellittico che lo
scompone cronologicamente, rilevando i dettagli essenziali: il passo ancheggiante di
7
Raimunda al lavoro, le catene d’oro del carcamano che l’osserva, le sirene della volante
che arriva sul posto, i volti corrucciati dei poliziotti in azione, le catenine strappate dal
collo del carcamano (frutto di una precedente rapina), lo scontro con Raimunda e le
minacce lanciate dall’uomo, i volti interessati dei passanti, dietro cui si nasconde il sorriso
soddisfatto di Dosdores, autrice della delazione. La vicinanza ai corpi dell’obiettivo della
macchina a mano ne capta ogni cenno di reazione e fa lievitare il giusto nervosismo
dell’azione. Le gag sono costruite con la solita impeccabile precisione: un montaggio
alternato dai tempi perfetti conduce Dosdores a bussare alla porta del prof. Kranz proprio
mentre la casa sta per esplodere; la scomposizione dei piani dell’inquadratura risolve
l’inganno del professore, scoperto da Leleco mentre si mangiava le polpettine di gallina
da offrire al rapito.
C’è, in questo film, il piacere del ritorno in Brasile, nei luoghi frequentati in gioventù.
Si riaccende l’entusiasmo a contatto con questa realtà: non c’è una sola inquadratura
gratuita nel Professor Kranz…, che cada nel descrittivismo fine a se stesso. C’è invece il
gusto della ricostruzione realistica: come la casa a due piani del professore, sulla strada
ripida che porta la finestra del primo piano quasi a contatto col suolo. La mdp si sofferma
sugli interni di legno, polverosi, poveri, le colonne sbilenche, la cucina annerita dall’uso e,
a collegare i due piani, il grande dignitoso scalone che Kranz e Pelesinho percorrono
correndo, allegramente. Una casa dalle due anime, che rispecchia il carattere del
professore: dotato di una dignità che travalica le sue capacità intellettuali e le misere
condizioni di vita. C’è l’utilizzo della musica di Toquinho e Vinicius de Moraes. E
l’aderenza dell’ambiente con i personaggi, che sembrano essere tutt’uno con le spiagge
assolate e il caldo soffocante.
A ribadire il carattere memoriale del film c’è la partecipazione come attore (in un cast
quasi totalmente brasiliano), nel ruolo del carcamano, di un perfido Adolfo Celi: amico di
Salce, con cui aveva condiviso, al cinema e al teatro, la precedente esperienza brasiliana.
Se la caratteristica dei protagonisti di Il prof. Kranz tedesco di Germania era
l’infantilismo
mentale,
quella
dei
cinque
quarantenni
richiamati
alle
armi
di
Riavanti…marsch! (1979) è la malinconia nata sull’onda della memoria. L’istituzione
militare del film di Salce non è un rigido apparato gerarchico, burocratico e repressivo,
ma l’unico spazio libero della civiltà, grazie al quale i protagonisti possono ritrovare il
contatto con i veri valori della vita: l’amicizia e l’amore. E’ vero che c’è un colonnello
pestifero, frustrato (è sottomesso al potere degli americani) e dittatoriale, che li
costringe, coadiuvato dal sergente Sconocchia, a massacranti quanto inutili sforzi – come
scavare e riempire un rifugio antiatomico – ma è un militare da operetta: bastano due
scherzi goliardici (tenere abbassata la sbarra d’ingresso al campo mentre arriva con la
jeep, presentarlo in mutande davanti all’ufficiale americano) per renderlo innocuo.
8
A contatto con la vita militare, i cinque quarantenni ritrovano lo slancio per superare le
frustrazioni della vita civile, nascoste anche dove sembra regnare il successo. Se Otello
Cesarini, che afferma di essere «uno zingaro, un vagabondo delle stelle» per nascondere
di essere un venditore ambulante, sradicato e senza famiglia (abita sul Grande Raccordo
Anulare ed ha fatto l’amore solo con prostitute) e il ten. Pietro Bianchi, negoziante con
figlia illegittima, sono facilmente riconducibili al “tipo” del borghese fallito, non altrettanto
dovrebbe dirsi del barone Francesco Paternò e dell’industriale Giovanni Crippa («il re
della trippa»). In realtà anche i due hanno di che lamentarsi, nella loro condotta di vita: il
barone è geloso della sua stupenda moglie Immacolata ed è tormentato da incubi e
visioni dei suoi tradimenti; l’industriale è inaridito da una condotta di vita prosaica: è
consapevole che sua moglie lo tradisce, ma è indifferente, perché non l’ama più.
Il quinto personaggio, Alessio Rossetti, è l’unico consapevole del suo fallimento: quello
del sogno rivoluzionario. E’ disincantato (chiama «riformista» la sua compagna di vita
russa, perché non è mai stata capace di un gesto rivoluzionario), ma insieme
appassionato: crede ancora nella rivoluzione (si porta dietro tutte le letture preferite:
Marx, Lenin), nonostante sappia della potenza del capitalismo. Interpretato da Stefano
Satta Flores, è un personaggio che riassume e definisce i contorni delle precedenti
interpretazioni dell’attore: il meridionale pugliese de I basilischi (1963, Lina Wertmuller),
il siciliano amareggiato di Perdutamente tuo mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe
(1975, Vittorio Sindoni) e, soprattutto, l’intellettuale di sinistra di C’eravamo tanto amati
(1974, Ettore Scola). Proprio del film di Scola, potrebbe far parte questo scambio di
battute tra Satta Flores e Alberto Lionello (l’industriale Crippa):
Crippa: - Ma tu, intanto che l’Italia faceva i soldi, cosa hai fatto?
Rossetti: - L’Italia dei ricchi ha fatto i soldi, l’Italia dei poveri è sempre più povera.
Crippa: - Va beh, ma tu cosa hai fatto?
Rossetti: - Io mi sono laureato in economia politica, sociologia e filologia romanza…
Crippa: - Si, vabbè, ma cosa hai fatto?
Rossetti: - Ho partecipato ai grandi movimenti sindacali: il ’62, il ’63. Ho fatto tutto il ’68, la
guerra del pomodoro…
Crippa: - Va beh, ma cos’hai fatto ?
Rossetti: - Poi sono stato presente nei gruppi della sinistra parlamentare, da Servi del popolo a
Lotta continua.
Crippa: - Ma cos’hai fatto ?
Rossetti: - Sono stato nominato assistente precario all’Università di Catanzaro due mesi fa.
Crippa: - A quarantadue anni ?!
Rossetti: - Eh, carriera fulminea, eh?
Il metronomico «Ma tu cosa hai fatto?» scandisce e rileva l’inutilità di una vita passata
ad elaborarla teoricamente, ma non a praticarla, dell’uno, e la sordità ideologica di chi la
vita l’ha solo praticata, ma mai pensata, dell’altro. L’amarezza della situazione è però
ribaltata dalla battuta conclusiva (Crippa offre a Rossetti una mancia se questo gli
porterà il fucile, Rossetti l’appella: «Schiavista!») che la sdrammatizza e la rende
9
politicamente innocua. Rimane la satira a fior di pelle che è il tratto distintivo dello stile di
Salce.
Riavanti…marsch! è un discendente diretto delle farse da caserma, fortemente
radicate anche nella nostra tradizione cinematografica. Ne diresse una anche Steno,
protagonisti Rascel e Fabrizi: Un militare e mezzo (1959). Al momento dell’uscita del film
erano tornate di moda le farse di ambiente militare, dove «la caserma è il luogo della
volgarità, anche se gratuita, e della goliardia nella sua accezione più estrema»3. Qualche
critico ha, infatti, ricondotto il film alla commedia scollacciata degli anni ’70. Ma se è
stato possibile scrivere che «il film sembra una versione da Come eravamo dei
militareschi di Cicero, appena offuscata da un’ombra di malinconia»4, è giusto rilevare la
giustezza della seconda parte dell’osservazione.
Se appartengono al genere gli interpreti principali (Carlo Giuffrè, Aldo Maccione, Renzo
Montagnani, Anna Maria Rizzoli, Silvia Dionisio) ed anche la goliardia di alcune situazioni,
non altrettanto può dirsi dell’umore melanconico che sprigionano queste storie. I cinque,
riuniti, non hanno perso il gusto dello scherzo atroce; alcuni sembrano appartenere al
cinismo di Amici miei: come quello giocato ad Otello (Maccione), per la prima volta
innamoratosi di una donna, la leggiadra Elena. Prima gli viene fatto credere che la donna
è una prostituta, soprannominata «Boccadoro», amante di tutti loro («E’ alta, normale,
coi capelli biondi, neri…ce l’ha i capelli, sì, si chiama Elena, sì e allora è lei, Boccadoro!»).
Poi è Elena ad essere avvertita che Otello è sposato ed ha sei figli da mantenere. Infine,
Otello viene condotto ad un incontro amoroso tra Elena e il barone Paternò (ma la donna
è stata sostituita con una ragazza truccata come lei). La gioia dello scherzo è offuscata
dal tentato suicidio di Otello, che si getta da un ponte. Ormai i cinque sono troppo grandi
per scherzare, nonostante resti in loro il comportamento burlesco.
«Ne vien fuori un film anche troppo alto per il tempo e per il suo pubblico che mira più
ad Amici miei che alle Soldatesse»5. In effetti, il riferimento al film di Monicelli è
dichiarato già nelle frasi di lancio del film: «1970 Mash - 1975 Amici miei – 1979
Riavanti…marsch! – uno squinternato quintetto di richiamati rinverdisce le più paradossali
situazioni comiche della prima naja»6. Le situazioni canoniche dell’umorismo da caserma
ci sono – gli scherzi beffardi agli ufficiali e quelli goliardici ai pari grado – ma si
stemperano nell’idea centrale del film.
Il ritorno alla vita militare è l’ultima occasione per modificare il corso della propria
esistenza: in questo consiste la grande differenza con Amici miei, in cui i protagonisti non
3
Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., Tarab, Firenze, 1999, p.31
Marco Bertolino e Ettore Ridola, Vizietti all’italiana-L’epoca d’oro della commedia sexy, Igor
Molino Editore, Firenze, 1999, p. 49
5
Marco Giusti, Dizionario dei film italiani stracult, Sperling e Kupfer, Milano, 1999, p. 647
6
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.664
4
10
prendevano mai sul serio la vita, nemmeno di fronte alla morte. In Riavanti…marsch! c’è
un punto in cui il gusto della beffa si arresta. E’ quando i cinque quarantenni fanno i conti
con la propria vita sentimentale.
Il racconto attenua i toni comici: prevalgono quelli patetici, con l’insistenza dei dettagli
grotteschi. Sono soprattutto due le storie connotate sotto questo segno. Quella del
tenente Bianchi, che torna a cercare un antico amore e ne trova la figlia, Marina, di cui
scoprirà essere il padre; quella di Giovanni Crippa che, nel rapporto con Zaira, un’exprostituta che l’aveva svezzato sessualmente vent’anni prima, ritrova la gioia dell’amore
disinteressato.
Nella storia del tenente prevalgono i toni sommessi, malinconici: lunghi dialoghi tra
Montagnani e Silvia Dionisio, passeggiate lungo il lago, al crepuscolo, e per le vie
dell’antico borgo (mai nominato, ma riconoscibile come Bracciano: si nota il castello
Orsini sullo sfondo di alcune inquadrature, alcuni manifesti arancioni annunciano una
partita di calcio dei dilettanti, Manziana-Bracciano; una curiosità: sul muro di una casa è
riconoscibile la locandina del film, di Pasquale Festa Campanile, Gegè Bellavita); nella
storia di Crippa prevalgono gli accenti grotteschi: grazie soprattutto all’interpretazione
che Sandra Milo dà di Zaira - con la voce in falsetto dall’accento bolognese, il corpo
vistoso dalle forme generose – che canta a voce spiegata Cesenatico Beguine in una
balera, travolge Crippa con la sua vitalità dirompente e lo scambia per un miserabile; ma
anche ai luoghi che fanno da cornice alla vicenda: un alberghetto di quarta categoria,
lindo e spoglio come un motel, la pompa di benzina gestita da Zaira, il ristorante sul lago,
il locale notturno, luoghi che sembrano, contemporaneamente, troppo ostentati o troppo
dimessi per la loro storia d’amore e dunque adatti alle loro personalità ed al gioco delle
parti che sono costretti a recitare.
Cinque personaggi, cinque storie, cinque attori e cinque modi di caratterizzazione
comica: Riavanti…marsch! è anche virtuosistica variazione di tono interna al racconto. La
recitazione di Renzo Montagnani è sommessa, giocata su toni smorzati, adeguata ai toni
patetici della sua storia, tali da rendere il suo personaggio più una vittima degli eventi
che il colpevole di un ingravidamento non voluto: a riprova della sua modestia, il tenente
Bianchi è la vittima preferita degli scherzi dei suoi commilitoni. Stefano Satta Flores gioca
con la nevrosi del suo personaggio di Rossetti: allinea tic e vezzi verbali, si diverte con
tormentoni
linguistici,
propone
un
linguaggio
complesso
ed
involuto
che
progressivamente strania il suo personaggio dal contesto. Alessio Rossetti, tra tutti i suoi
compagni, è l’unico a non avere successo con le donne, è l’unico a contestare lo stato
sociale. Se Carlo Giuffrè tenta l’esasperazione caricaturale del personaggio, Aldo
Maccione ne tenta un’interpretazione psicologica: il suo Otello Cesaretti, ricco di umori
popolari (e con un linguaggio tendente al turpiloquio), è quello che presenta maggiore
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variazione psicologica, non si risolve in un’unica dimensione ma si evolve da cinico
vagabondo in tenero sentimentale. Alberto Lionello, infine, introduce la nota grottesca nel
suo Giovanni Crippa già nel modo di parlare: la sintassi dei suoi discorsi è perfetta, ma la
pronuncia ha il difetto di arrotare le “erre”: il suo è un personaggio complesso che deve
unificare il piacere della compagnia degli amici ritrovati, con la naturale sicurezza di chi
occupa una posizione sociale superiore. Non è la ritrosia aristocratica del barone Paternò:
Crippa è un uomo comune che ha fatto carriera.
Il racconto così procede alternando, e talvolta fondendo, i diversi toni: quelli pateticogrotteschi a quelli goliardici, quelli malinconici a quelli comici, a buffi tormentoni che
punteggiano la vicenda: il colonnello che cambia umore, e punisce i soldati, ogni volta
che riceve la telefonata annunciante il ritardo della visita dell’ufficiale americano; l’arrivo
di gran carriera della jeep del colonnello al campo militare, con la sbarra d’ingresso ogni
volta alzata, con tempismo perfetto, pochi attimi prima che l’ufficiale varchi l’entrata
(l’allegra marcetta che accompagna l’azione induce lo spettatore all’attesa di quello che
poi, puntualmente si verificherà: lo schianto della jeep sulla sbarra rimasta abbassata).
Lo stile visivo di Salce è rimasto invariato negli anni: il montaggio di stacchi e attacchi
in movimento che dinamizza il racconto e collega i piani narrativi senza soluzione di
continuità, i flashback che puntualizzano comicamente alcuni momenti dell’azione
(espediente linguistico presente da La pillole di Ercole e proseguito negli anni fino a
L’anatra all’arancia: qui illustrano i pensieri nascosti del barone Paternò e, come per le
altre volte, con il loro eccessivo grottesco, sono il punto debole del film). Così come
invariata è la costruzione narrativa, fondata sull’osservazione del comportamento dei
personaggi, sul dettaglio satirico e non psicologico: ad ognuno dei protagonisti è
concessa una presentazione “ad personam”, poi le rispettive storie si intrecciano e si
sciolgono grazie ad un montaggio alternato che le allinea senza sbalzi temporali. Il
dettaglio che centra il personaggio può essere periferico, decentrato rispetto al corso del
racconto: la scarsa finezza di Otello Cesarini, ad esempio, è prospettata durante la sua
presentazione, con una zoomata sul panino con la lonza che ha preparato per una
prostituta: una fetta di lonza molto spessa e mezza cipolla per profumarla. Sono
presenti, infine, quelle osservazioni marginali di segno surreale che rivelano lo stile del
regista: come il personaggio della zia di Valeria, la vecchietta addormentata sulla sedia,
cui il barone Paternò, cadendole addosso, toglie la parrucca.
Ad essere variato, rispetto alla produzione precedente, è il gusto della gag, come
felicemente osserva Brunetta: «A cavallo degli anni settanta i suoi film, come del resto
quelli di quasi tutti gli autori della commedia, fanno ricorso a battute grevi e ad
assecondare la richiesta di una caduta di tono per rispondere alla domanda di un pubblico
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dai gusti più facili»7, c’è la tendenza «a lasciar sempre più spazio alla rimasticatura del
luogo comune»8.
Sono
osservazioni
molto
pertinenti
proprio
riguardo
a
Riavanti…marsch!.
Il
personaggio del barone Paternò è costruito con tutti i luoghi comuni del siciliano geloso e
cornificato, e l’interpretazione che ne dà Carlo Giuffrè è puramente di routine, senza
annotazioni originali: l’attore presenta una maschera già perfezionata precedentemente
in alcune commedie (come La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono, 1973,
di Mariano Laurenti), in cui «l’enfasi calibrata di alcuni dettagli fisici – i baffi curatissimi e
i capelli impomatati – è essenziale per conferirgli le stimmate del modello originale (il
siciliano geloso, ndr)»9. Il che non è necessariamente un elogio, ma la constatazione di
uno stereotipo codificato e immutabile, appena attenuato da alcune notazioni dovute al
gusto del regista - come i commenti in controcampo, con i quali il barone prende le
distanze dai suoi compagni di più bassa levatura sociale. Anche il denudamento dei
protagonisti (che finiscono sotto una doccia come le protagoniste dei film comico-erotici
di quegli anni) ed alcune gag grevi – come gli atteggiamenti equivoci in cui i cinque sono
sorpresi dal sergente – rivelano l’adeguarsi alla moda dei tempi. Ma la genuina vitalità,
venata di malinconia, dei personaggi distacca immediatamente dalla produzione coeva
Riavanti…marsch!.
Sono propri dell’estro di Salce i veloci scambi di battute, i battibecchi dei cinque
protagonisti, quello sfalso nelle situazioni psicologiche, per cui un personaggio è sempre
in condizioni di inferiorità rispetto all’altro - per minore intelligenza, per minore astuzia o
solo per scarsa brillantezza verbale, che nei film di Salce ha molta importanza – creando
l’occasione della gag. Ne sono un esempio i dialoghi tra Cesarini e Crippa: le timide
richieste di denaro del primo sono abilmente stornate dal secondo con capziose
motivazioni psicologiche che Cesarini reputa credibili.
Ciò che conta, nel tessuto del racconto, non è la progressione drammatica – le
situazioni sono abbastanza scontate, gli sviluppi prevedibili – quanto l’atmosfera di
intimità che si instaura tra i personaggi, come nel precedente Professor Kranz. E’ più
importante il contesto del racconto, i suoi personaggi, che il racconto stesso: non è un
caso che le situazioni progrediscano labilmente e si chiudano in modo indefinito, senza
certezze. Il nodo del film sono i momenti di riflessione, le pause dell’azione, quando i
protagonisti si scambiano opinioni, battute o soltanto scherzi.
Tutti i personaggi sono osservati con affetto, anche quelli più lontani dal gusto del
regista. Cosicché vengono appianate questioni politiche e sociali piuttosto spinose nel
7
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, p.321
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol. 4, p. 393
9
Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p.200
8
13
segno dell’amicizia: quella tra il comunista Rossetti e il capitalista Crippa o quella tra il
tenente Bianchi e la figlia, illegittima e inconsapevole, Marina. La leggerezza dello
sguardo risolve facilmente questioni psicologiche complesse: quella che si sviluppa tra
Cesarini e gli amici che, con scherzi atroci, cercano di dissuaderlo dal matrimonio –
come, ne Le ore dell’amore, faceva Ottavio, che, con poche frasi appropriate, novello
Jago, insinuava in Gianni il tarlo del sospetto; in Riavanti…marsch! , tempi aggiornati, i
protagonisti non si accontentano delle parole ma passano ai fatti; quella, improvvisa,
nata con l’apparizione di Marina, durante l’incontro tra Bianchi e sua moglie, che scambia
la figlia per l’amante del marito.
E’ un ottimismo che ritroviamo nell’ultimo film di Salce, Quelli del casco (1988). Il
gruppo di ragazzi, studenti di un liceo artistico – riconoscibile come quello di Via Ripetta,
a Roma – è alle prese con i problemi del vivere quotidiano: amorosi, soprattutto, ma
anche nei rapporti con gli adulti e in quelli con la malavita. La vitalità, lo spirito e la forza
della loro giovinezza consentono loro di superarli tutti indenni, anche facilmente: con
qualche abile scherzo ogni problema è risolto.
Luciano ha la famiglia in subbuglio: il padre ha un’amante e la moglie lo fa pedinare
da un investigatore privato, così da impedirgli ogni incontro amoroso. Il ragazzo ha in
testa la soluzione ideale: far vestire i propri abiti al padre e sviare così l’attenzione
dell’investigatore. Presto fatto. E’ un’occasione, come svela il ragazzo, con inattesa
profondità, per far del bene alla madre, che altrimenti si sarebbe fatta odiare dal marito.
Se un professore è troppo puntiglioso e scocciatore, come l’insegnante di disegno
Impallomeni, i ragazzi hanno ancora una volta la soluzione pronta: colpirlo nella propria
dignità, facendolo accusare di una violenza carnale mai consumata.
Se un ragazzo ha problemi d’amore, perché la ragazza che ama esce con un adulto,
soltanto per poter far carriera, i ragazzi riescono a risolverli, beffando atrocemente
l’uomo, calpestandone il decoro.
Quelli del casco procede allineando episodi di questo tenore: osserva quotidianamente
le azioni dei ragazzi, ne descrive caratteri e psicologie, cercando di darne un quadro
compiuto. Non c’è un protagonista assoluto in questo film, è un racconto corale, legato
da un filo conduttore: la ricerca di Luciano della donna dei suoi sogni, una ragazza con il
casco,
vista
su
un
cartellone
pubblicitario.
L’ideologia
del
film
può
sembrare
semplicistica: questi ragazzi non soffrono di disagi esistenziali o sociali (sono tutti di
buona famiglia: le storie sono ambientate ai Parioli), non conoscono il problema della
tossicodipendenza. Sono belli, giovani, puliti, pieni di spirito. L’unico di essi che presenta
un interesse psicanalitico è Spina: ama travestirsi, camuffarsi sotto le spoglie dei più vari
personaggi (sua nonna, la preside dell’istituto, persino Cossiga, allora presidente della
Repubblica). Si costruisce tante personalità differenti dalla sua, che forse non ama: ha
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due genitori trinariciuti e maneschi. Ma l’aspetto è affrontato solo dal lato ridanciano: i
suoi travestimenti sono spunti per iniziare scatenati equivoci: in uno di essi ne rimane
vittima un vescovo vero (lo stesso Luciano Salce), che l’insegnante di religione, avvezzo
ai travestimenti del ragazzo, scambia per una delle tante maschere di Spina.
Marco Giusti ha scritto, a proposito di Quelli del casco, che è «una commedia
giovanilistica tra Berlusconi e De Laurentiis»10. In effetti, nella descrizione dei ragazzi,
non c’è traccia del sarcasmo di La voglia matta (non c’è traccia nemmeno degli
sceneggiatori Castellano e Pipolo; qui il soggetto è stato scritto da Peter Gonzales, attore
nel felliniano Roma); ci sono, invece, molti riferimenti al minimalismo della serie di
telefilm, I ragazzi della terza C, che le reti di Berlusconi trasmettevano all’epoca
dell’uscita di Quelli del casco: lo stesso sguardo sui giovani, la stessa costruzione del
racconto, a macchiette. C’è nel film di Salce una totale assenza di volgarità (anche nei
momenti più grevi) ed una volontà trasgressiva dall’orizzonte limitato che riconduce
direttamente l’opera al suo genere di riferimento: il neorealismo rosa.
In Poveri ma belli (1956, Risi), i due ragazzi protagonisti, Romolo e Salvatore, dopo
aver «corteggiato goffamente la bella del quartiere – la procace Giovanna – scelgono la
dirimpettaia – le rispettive sorelle, Anna Maria e Marisa – rientrando senza rimpianti nei
propri orizzonti»11. In Quelli del casco, Luciano che cerca di dare corpo alla ragazza dei
suoi sogni (come Mastroianni in Culastrisce nobile veneziano, 1976, Mogherini), scopre
che il sogno è realtà e la ragazza è la sua compagna di banco, Arianna. Il mito di
Pigmalione, aggiornato ai tempi moderni, secondo un gusto alla Gianni Rodari: «Mentre
andava a casa, incontrò una fanciulla che era stata, molti anni prima, sua compagna di
giochi. […] Essa gli rivolse la parola e gli disse soltanto: - Ciao, Pigmalione. Ma mentre
glielo diceva lo guardò con i suoi occhi neri e ridenti. E dopo aver guardato dentro quegli
occhi vivi Pigmalione cessò improvvisamente di desiderare che gli occhi di marmo della
sua statua rispondessero»12.
Con
opportuni
accorgimenti
e
variazioni
(al
posto
della
statua
il
cartellone
pubblicitario, al posto di Pigmalione Luciano), queste righe di Gianni Rodari si adattano
perfettamente all’incontro tra Luciano e Arianna davanti al Ponte Milvio: il ragazzo scopre
di avere sempre amato la giovane, prima ancora di sapere che è lei la modella dei
manifesti. La felicità è nel quotidiano: la stessa morale da applicare alla storia tra Nicola
e Monica, che abbandona, per il ragazzo, lo stilista Feletti e tutte le ambizioni di fare
carriera.
10
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 623
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 26
12
Gianni Rodari, Il libro degli errori, in I cinque libri, Einaudi, Torino, 1993, p. 467
11
15
Nonostante Quelli del casco sia l’ultimo film della sua carriera, ed il regista l’abbia
diretto già ammalato, sono invariati lo stile visivo ed il ritmo del racconto. La sequenza
iniziale, che fa da prologo ai titoli di testa, ha una struttura simile a quella omologa de Il
federale. Anzi, ne è quasi un ricalco, visivo e narrativo.
Alcune lente panoramiche immergono lo spettatore nella quiete di un convento,
adagiato in un’oasi di verde nel centro di Roma. Un gruppo di sacerdoti passeggia per il
portico, quando scorge un’apparizione tra i merli delle mura di cinta: una splendida
ragazza, vestita con un panno blu. I sacerdoti la credono una madonna e lanciano
esclamazioni di meraviglia, quando la vedono denudarsi il seno. Fuggono scandalizzati,
quando la giovane scopre anche l’organo
sessuale.
Ne
rimane
solo uno che,
inginocchiato, urla: «Miracolo…miracolo!!!». Subito, l’inquadratura successiva, ci svela
come l’apparizione sia stata uno scherzo blasfemo di un gruppo di ragazzi, quelli che
scopriremo essere i protagonisti del film. Ma per qualche istante, supportato anche dalla
musica celestiale e dalla fotografia luminosa, anche lo spettatore più smaliziato rimane
interdetto, posto di fronte ad una situazione tipica della commedia all'italiana: «la
verosimiglianza
della
premessa,
l’ambiguità
dello
svolgimento,
la
comicità
della
13
soluzione» .
Il racconto prosegue intrecciando una lunga serie di personaggi stravaganti, al limite
della macchietta (il portiere Panelli, che punteggia le frasi con i reiterati: «Nun ce se
crede, nun ce se crede!»), di beffe e di pause dell’azione (i momenti di riunione nei
luoghi di ritrovo, come le hamburgherie), prima di trovare il suo centro nella sequenza
dello scherzo alla Taverna dell’Orso. Argomento molto greve (il terribile scherzo giocato a
Feletti è quello di farlo sembrare un petomane), trattato con la leggerezza tipica di Salce.
La volgarità della situazione trova, in primo luogo, ambientazione in un locale esclusivo,
frequentato dall’alta società: il ritmo è languido e segue il corso delle futili conversazioni
che animano il ristorante. Quando i ragazzi, con un marchingegno, diffondono nel locale i
rumori spetazzanti, il ritmo diventa serrato, con un montaggio alternato di primi piani
che osservano le reazioni dei personaggi (l’espressione di imbarazzo di Monica, la
ragazza che accompagna Feletti), di dettagli che definiscono il racconto (le mani del
ragazzo che manovrano l’apparecchio, i microfoni nascosti tra le piante del locale), di
totali che arricchiscono la sequenza di notazioni stravaganti (la donna che dice al marito
di contenersi, quella che chiede, spaventata, se nel locale si mangia pesante, quella che
comincia a sentire un fantomatico cattivo odore).
Le notazioni sarcastiche del regista sono dirette verso la rappresentanza del mondo
adulto che popola il film. La loro presenza è quasi totalmente ostile o, quantomeno,
13
Viganò, Commedia…, cit., p.80
16
indifferente: sembrano attrarre su di loro lo scherzo goliardico che ne azzeri il decoro,
l’orgoglio, la dignità professionale e morale. Luciano, che è il ragazzo più carismatico del
gruppo, prepara le beffe sempre con le stesse parole, come uno slogan: «Diamogli una
lezione». Il petulante Impallomeni, la rigida preside, il padre fedifrago, quello manesco,
hanno una personalità poco piacevole: il loro carattere ha un aspetto abnorme, un punto
debole da sgretolare con la forza del comico. Che è poi una dichiarazione di poetica, anzi
la rappresentazione narrativa dello stile del regista. I personaggi adulti sono un modello
di caratterizzazione comica: interpretati da attori d’esperienza (Montagnani, Panelli,
Cassola) che li schizzano con notazioni fulminee, tanto da farne una punteggiatura
comica del racconto.
L’unico degli adulti che eccepisce la regola dell’indifferenza e dell’ostilità verso i
ragazzi è un sacerdote, padre Gavazzi (una delle interpretazioni cinematografiche più
felici di Luigi De Filippo, figlio di Peppino, mai troppo impegnato al cinema), che tenta di
guidarne la formazione, l’educazione e li asseconda nell’unico momento difficile
che i
giovani attraversano: quando una di loro, Arianna, è derubata, da una banda di
malfattori in moto, di una forte somma di denaro e i ragazzi ne tentano il recupero; li
scoveranno e Luciano si giocherà il bottino sfidando il capobanda ad una gara di velocità
con le proprie moto. Episodio che ricorda i vecchi film di Mattoli o Bragaglia, le vecchie
farse degli anni ’50, in cui i cattivi personaggi non erano poi tanto cattivi, ma facilmente
manipolabili: esemplare, comunque, nel rilevare come il burbero ma comprensivo
sacerdote sia accomunato ai giovani da una perifericità nell’ambito della vita sociale.
Perifericità, ma non estraneità: i giovani di Quelli del casco conoscono i meccanismi
sociali e non li rifiutano. Qualcuno, come il ragazzo napoletano, è addirittura in anticipo
sui tempi: sa trarre il massimo dei vantaggi dalla sua grande esperienza nel campo
informatico ed elettronico. Altri, come Monica, rifiutano gli aspetti più vieti del
consumismo (il carrierismo a tutti i costi) perché hanno ancora l’età giusta per ritornare
sulle proprie scelte. La «generazione del casco» - come spregiativamente la chiama
Impallomeni – ha una vitalità prorompente che appiana ogni ostacolo. Il loro punto di
forza è proprio il casco che li protegge dai pericoli (delle corse in moto, strumento
vitalistico per eccellenza, e quindi, metaforicamente, della vita) e permette di osservare il
mondo senza essere osservati, conservando quella libertà d’azione e di pensiero decisiva
nella realizzazione dei propri desideri.
In fondo quello in cui viviamo, con tutti i suoi difetti, anche grandi, è il migliore dei
mondi possibili: il cinico, disincantato, sarcastico Luciano Salce chiude la carriera, e la
vita, con un estremo messaggio di ironica sensibilità (Il prof. Kranz tedesco di
Germania), di affettuosa malinconia (Riavanti…marsch!), di vitale ottimismo (Quelli del
casco). L’amarezza per una realtà ostica e contraddittoria è temperata dalla speranza di
17
un futuro migliore, affidato ai giovani o a quegli adulti che conservino il temperamento, la
vitalità, l’ingenuità dello stato giovanile.
Capitolo 4. L’impegno politico di un autore disimpegnato
(Colpo di stato)
Il migliore tentativo di commedia politica all’italiana resta […] Colpo di stato (1969). Boicottato
dai politici dell’epoca e da altri controllori della cultura, uscito in sordina, poi quasi totalmente
dimenticato. Nell’Italia 1972 (futuro prossimo, essendo il film del 1969) i comunisti colgono una
vittoria inattesa alle elezioni politiche, ma per convenienza, per paura e per ordine dell’Unione
Sovietica preferiscono non prendere il potere e lasciar credere a tutti che abbiano vinto i soliti
democristiani. Se la corruzione dell’intera classe politica italiana non era una novità per gli schermi,
per la prima volta venivano tuttavia fatti riferimenti precisi a partiti realmente esistenti. Vi erano
poi molte idee spiritose: il persuasore politico di professione, le visite a domicilio dei cacciatori di
voti, le suore che riescono a far votare (indovinate per chi) un uomo morto da tre giorni, la Tv di
stato che al momento del “sorpasso” sostituisce le dirette elettorali con documentari d’arte e
canzonette di tendenze sempre più sinistroidi. Ma il film non piacque al pubblico. […] Sarà stata
anche colpa della censura di mercato, ma qualche responsabilità l’aveva pure il linguaggio
cinematografico usato da Salce, più vicino alla Nouvelle Vague che alla commedia di costume
18
tradizionale (vi erano persino cori da opera lirica usati come cori di tragedia greca a ironico
commento delle vicende)1.
Riporto per intero la critica di Enrico Giacovelli perché questo capitolo è dedicato ad un
film fantasma, Colpo di stato (1969), «mitico film di fantapolitica»2, uno dei titoli «meno
visti e più boicottati della sua epoca»3. Nello stesso anno in cui Il prof. Dott. Guido Tersilli
primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue incassò più di due miliardi,
Colpo di stato ne raccolse solo cento. Da allora è scomparso. Se ne lamenta anche Marco
Giusti: «il film allora non lo vide nessuno. Venne duramente stroncato dalla critica, […]
ma non ebbe prove d’appello. Ricordo di averne visto solo il trailer (promettentissimo) e
di non essere riuscito a vedere il film a Genova (cinema Grattacielo). Perso per sempre.
Non è mai più ricomparso. Chissà?»4. Lo stesso Salce ne ricorda le difficoltà produttive e
rimpiange soprattutto l’indifferenza nei suoi confronti:
Con De Concini abbiamo lavorato un anno, un tempo interminabile, su Colpo di stato. Anche
perché Cristaldi è un produttore faticoso nel metter su le cose, sempre cagadubbi e con tanti
progetti. Simpatico, cordiale, ospitale, ma prima di arrivare a fare un film ce ne vuole. Forse aveva
ragione perché poi il film non è stato un trionfo, ma resta il fatto che è stato il film a cui mi sono
più dedicato. L’idea era di De Concini, e non si chiamava così, anche se non ricordo più come (La
schiavitù è finita, nda). Un soggetto prodigioso per le sue capacità divinatorie perché dopo
successero quasi le stesse cose! Ho conservato le critiche di Times Magazine e France Observateur
perché dicevano che si trattava di un film esemplare per capire qualcosa dell’Italia. C’erano
intuizioni notevoli, in un film originale come struttura, che parte come un’inchiesta televisiva e
piano piano diventa spettacolo. La seconda cosa interessante è l’uso dei cori dell’opera lirica, come
coro da tragedia. Gente con costumi diversi, con cori molto spiritosi, su parole mie e un pastiche
musicale di tipo melodramma di Marchetti. Il coro era l’italiano che commenta le situazioni. La cosa
che mi dispiacque di più fu l’indifferenza con cui fu accolto. Il film urtò un po’ tutti, anche i
comunisti perché si permetteva di dire che era loro sistema stare alla finestra. C’era dentro il Papa,
Saragat. Gli avvocati di Cristaldi ci dissero che c’erano quattordici punti per cui noi potevamo
essere arrestati: offesa a capo di stato estero, al Papa, a tutti quanti. E invece cascò tutto
nell’indifferenza. Eppure era un film pieno di cose divertenti, mi pare. Qualche anno dopo Monicelli
fece Vogliamo i colonnelli, che fu una specie di rifacimento di Colpo di stato, ma tutto grottesco,
esagerato. Noi andavamo sul credibile, sul possibile, sul reale5.
Lo sceneggiatore Ennio De Concini ricorda il boicottaggio politico che il film subì:
La mia posizione politica è sempre stata molto chiara, sono stato anche in carcere durante il
fascismo, quindi più chiara di così si muore. La realtà è che io facevo un certo tipo di film (anche il
periodo di Antonioni) che non era un cinema civile, e quindi non entrava nell’occhio del ciclone. Il
primo film politico che feci e che sentii veramente da persona che ha una coscienza fu Colpo di
stato, un lavoro a cui tenni moltissimo. Disgraziatamente fu fatto senza mezzi, artigianalmente
come se fosse un prodotto qualsiasi. Con tutto questo ottenne quattro pagine su Times Magazine,
con tanto di fotografie. Insomma all’estero si parlò di questo film che da noi invece fu messo in
sordina, rovinato, proprio a causa di un intervento politico, perché trattava un tema che poteva
dare molto fastidio a certi personaggi. Peccato! Era un film di una incredibile violenza politica.
1
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.71
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 157
3
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 113
4
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 157
5
Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 386
2
2
Salce, che lo diresse, ancora oggi dice che gli hanno ucciso il film della sua vita. Insomma,
praticamente, era il primo film italiano di fantapolitica6.
Fortunatamente, Colpo di stato non è un film «perso per sempre»: l’ho ritrovato alla
Cineteca Nazionale della Scuola Cinematografica Nazionale, dove l’ho visionato in
videocassetta VHS, poiché non ne esiste una copia in pellicola disponibile per il pubblico.
E’ un film sorprendente.
Riunisce in sé uno stile italiano (il melodramma operistico e l’ironia sarcastica) ed un
linguaggio cinematografico europeo, affine, come ricordava Giacovelli, a quello della
Nouvelle Vague. Per motivi anche obbligati, poiché Salce ebbe a disposizione uno
scarsissimo budget per girare il film. Nettamente diviso in due parti: nella prima la
macchina a mano scorre liberamente per le strade, con inquadrature sghembe, attacchi
sbagliati, in una ricerca di cinema-verità, con lo stesso Salce che intervista i passanti
sulle future elezioni, commenta con ironia svagata gli avvenimenti («il fotografo francese
Matruch è molto “in”: cena con i Kennedy, fuma con i Rolling Stones»), ricostruisce in un
mosaico di tasselli diversissimi tra loro (l’ambiente universitario, quello proletario,
ospedali, chiese, ricevimenti) il clima elettorale («Salce spreca metà del primo tempo per
darci una beffa fasulla e stereotipata del clima lettorale»7 scriveva Filippo Sacchi su
Epoca); nella seconda sviluppa l’intrigo: i comunisti hanno effettuato lo storico sorpasso
elettorale ed il governo democristiano non sa adeguarsi all’evento, chiama il presidente
degli USA, prepara una rivolta, avendo l’esercito a favore (il capo dell’esercito propone
due soluzioni: arrestare tutti i dirigenti comunisti o andare a Napoli e Pescara e da lì
imbarcarsi per lidi migliori).
L’intreccio è sviluppato con una libertà narrativa fuori dal comune: svincolato dalla
prepotente presenza del comico-mattatore, aiutato da una uniforme fotografia in bianco
e nero (tendente al grigio) di Luciano Trasatti, che appiana ambienti e personaggi più
disparati, Salce racconta una storia senza protagonisti principali (nel coro si distinguono
l’inventore americano George Bradis e il giornalista comunista Giordano), compiendo
vertiginosi sbalzi geografici e temporali: il montaggio lega la residenza del presidente del
Consiglio a Castel Sebino con la Casa Bianca di Washington, il PalaEur di Roma con gli
interni popolari, una villa sul mare, teatro di un ricevimento aristocratico, con gli studi
della Rai di via Teulada, le basi missilistiche americane con il Vaticano, il palcoscenico di
un’opera lirica con Piazza S. Pietro. Tramite lo split screen, il regista accosta ambienti agli
antipodi
nella
stessa
inquadratura,
accentuando
la
caoticità
dell’immagine:
l’ambasciatore americano a Castel Sebino, di notte, parla, al telefono, al presidente degli
6
Ivi, p. 386-387
Filippo Sacchi, Epoca, 27.4.1969, in Roberto Poppi e Mario Pecorari, Dizionario del cinema
italiano, I film, vol.3, p. 117
7
3
Stati Uniti, appena alzato dal letto ed avvolto, nudo, in un’enorme bandiera a stelle e
strisce.
Un coro lirico (interpretato dagli stessi protagonisti del film), dalle tavole di un
palcoscenico, canta arie di introduzione e commento alle fasi dell’intreccio, sul modello
delle opere di Filippo Marchetti (l’autore di Ruy Blas, 1869). La prima aria introduce al
racconto con questi versi sarcastici: «Questo è tempo di elezioni/ camarille e confusioni/
Questo è tempo di elezioni/ camarille e confusioni/ Ma il paese non si brucia/ e rinnova la
fiducia/ al sistema occidentale/ Libertà…democrazia/ con un poco di caviale», dove il
termine desueto di “camarilla” si riferisce al modello operistico di partenza (era un
consiglio segreto dei monarchi spagnoli, le cui vicende erano spesso protagoniste dei
melodrammi lirici) e sferza sarcasticamente il costume politico odierno, i cui intrighi sono
paragonabili a quelli spagnoli dell’età barocca. Quando le elezioni si avvicinano è sempre
il coro, mentre i versi scorrono sullo schermo, a ricordarci il clima in cui si svolgono:
«Sono gli ultimi momenti/ persuasuioni…accertamenti/ interviste…discussioni/ fiati
mozzi…previsioni/ mancan solo poche ore…/ la parola all’elettore».
Infatti, precedentemente, le immagini ci avevano mostrato le potenzialità della
propaganda elettorale. Il persuasore politico che parte dalla sezione per andare a
convincere gli indigenti, contrastato a sua volta dal persuasore occulto, che dissemina le
città di messaggi favorevoli alle forze governative: «D.C.- commenta Salce, leggendo su
un manifesto - Dobbiamo Continuare…a fregarvi, ha scritto. sotto uno, una volta…ma a
Roma, si sa, sono maligni: sono dissacranti, dicono i critici». Il politico che segue il
consiglio del persuasore («stringi una mano e quella mano un giorno scriverà il tuo nome
sulla scheda»), scende tra il popolo e ad un pensionato, che aspetta la pensione di guerra
da sedici anni, risponde: «Abbiamo fatto il possibile, faremo ancora di più, nello spirito
della pace e della concordia tra i popoli». C’è un ministro che scende dall’aereo ed alla
folla che lo aspetta non sa che dire; gli portano un biglietto, che legge a mezza bocca:
«Votare sì, ma votare bene». Il giornalista della Rai, ossequiente, che, il giorno delle
elezioni, intervista gli onorevoli che votano, ricevendo queste risposte: «Io voto per
l’Italia: esclusivamente per gli interessi del paese», «Io voto per l’Italia…per l’Italia e il
popolo italiano».
Il giorno del voto, il coro anticipa i risultati clamorosi delle elezioni: «Tutti al voto,/
tutti al voto!/ vota l’ateo e il devoto/ su brindiamo all’elettore/ ma del dopo, ahimé, ho
timore!». Il governo si era cautelato, telefonando al presidente USA, che davanti alle
telecamere, dopo essersi puliti i piedi sul suo cane barbone accucciato accanto alla
scrivania, aveva mostrato fiducia. Al momento del sorpasso, i dirigenti precipitano nel
caos: alla Rai oscurano i risultati elettorali, prima deviando l’obiettivo della telecamera
dal tabellone luminoso dei risultati alla cupola del palazzo dello sport (il giornalista dice:
4
«occupiamoci un attimo dell’ambiente in cui ci troviamo. Osserviamo la bella ardita
cupola
dell’architetto
Nervi:
tutta
nervature,
per
così
dire»),
poi
trasmettendo
documentari sulla cupola del Brunelleschi e sugli scorpioni, infine prendendo dal fondo
dei magazzini un filmato di canzoni di Anna Ferretti, oscura cantante popolare, che,
riscuotendo successo tra il pubblico, viene subito chiamata in sede e costretta a cantare
canzoni sempre più di sinistra (Le otto ore, Il duomo di Milano). Frenetiche telefonate si
susseguono al governo americano (il presidente urla al telefono, chiedendo se c’è già
stato il bagno di sangue), mentre il popolo reagisce istericamente: chi si barrica in casa
con i viveri, chi dà l’assalto ai negozi, anche quelli di nessuna necessità (viene svuotata
una merceria). Gli unici a rimanere impassibili sono i dirigenti comunisti che, telefonando
a Mosca, hanno ricevuto l’ordine di lasciare le cose come stanno. Quando vengono
convocati dai politici governativi per il passaggio di consegne, rifiutano le cariche. Tra il
capo del partito comunista ed i compagni, dispiaciuti, si svolge questo dialogo: «Ragazzi,
i compagni di Mosca hanno parlato chiaro, mi pare: qui si tratta di equilibrio…», «E quelli
che hanno votato?», «Ognuno sa il suo voto, mica quello degli altri. E poi, guarda, la
pace fa comodo a tutti, anche a loro». Tutto torna come prima: dei “falsi” risultati
elettorali
viene
“incolpata”
la perfetta
macchina
computerizzata
appena
portata
dall’America, per lo spoglio dei voti, perché infallibile; l’inventore viene rinchiuso in
manicomio.
La storia è girata da Salce come se fosse un film nel film, con un artificio
metalinguistico. Le prime immagini inquietanti, mostrano avvenimenti misteriosi: da un
archivio rubano un dossier sui ministri governativi, vengono rapiti quaranta attori su di
un aereo, in casa del regista Salce vengono prelevate delle sue fotografie (c’è un
memorabile primissimo piano del volto del regista che, mezzo ghignante, si rivolge
all’obiettivo, chiedendosi: «E’ come se ci fosse gente che si voglia documentare su di me:
è strano, molto strano»), poi una voce fuori campo, rivela l’arcano: «Il gioco era ormai
chiaro: una grande potenza, infida e lontana, aveva girato un film, realizzato, bisogna
ammetterlo, con eccezionale talento, che avrebbe diffuso nel mondo intero un’immagine
falsa, tendenziosa e qualunquistica delle nostre elezioni del 1972. Lo scopo? Ma era
evidente. Descrivere il caos e la crisi del mondo occidentale di fronte ad un ipotetico,
quanto assurdo…Colpo di stato!». Mentre la voce pronuncia queste parole, scorrono sullo
schermo le immagini di una pellicola ritrovata che viene montata su un proiettore: i titoli
di testa del film nel film corrispondo con quelli di Colpo di stato. Una didascalia finale
incornicia la vicenda: «Questa fantasiosa, assurda storia, realizzata nell’ormai lontano
1972, viene solo ora proiettata in pubblico (in forza del provvedimento n°731 del 13-21979) affinché in un mondo ormai rasserenato, tutti possano bonariamente e
democraticamente sorriderne».
5
Svagatamente, come se stesse giocando, Salce ha inserito nel suo film anche le future
reazioni della critica e dei politici: il film non fu affatto accolto bonariamente. Scomparso
da ormai trent’anni sui nostri schermi (e teleschermi), fu attaccato ferocemente dai pochi
critici che lo videro. E lo accusarono, naturalmente, di qualunquismo: Morandini parlò di
«buffoneria rivistaiola e piuttosto qualunquista»8, Filippo Sacchi di «rozzo qualunquismo
[…]. Siamo ancora a Guglielmo Giannini. Come apertura mentale abbiamo fatto dei bei
progressi»9. Dietro l’attacco al suo possibile qualunquismo c’è il disagio di chi non
perdona al regista «gli sberleffi antipartitici» e la rivelazione profetica ed ancora attuale
del malcostume politico. La «beffa stereotipata e fasulla del clima elettorale» riportata da
Sacchi si fonda su esperienze - come la suora che porta a votare un uomo morto da tre
giorni, gli ammalati caricati su un camion, dove c’è scritto «Votare sì, ma votare bene» e
portati a votare dai religiosi – che, analogamente, si possono ritrovare anche in un
romanzo quasi contemporaneo di Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore (qui a
votare erano gli idioti del Cottolengo): erano momenti consueti durante le votazioni e
neanche tanto nascosti. Il dialogo, nella seconda parte del film, tra il capo comunista
italiano e quello sovietico, al telefono (spiati da tutti i membri governativi) che volge su
fatti minimi (la salute dei figli) ricorda analoghe sequenze de Il dottor Stranamore (1963,
di Kubrick), tra il presidente statunitense e quello sovietico. A sollevare il film dalle
critiche di qualunquismo provvede il finale del film: sulle parole entusiaste del giornalista
comunista Giordano - l’unico che non è stato avvertito della mossa politica ed è convinto
di stare scrivendo un articolo sull’«alba di un mondo nuovo», con parole che inneggiano
alla raggiunta maturità politica italiana («Finalmente possiamo dire che l’Italia è
diventata un paese moderno, veramente democratico») – scorrono le immagini di donne
impellicciate, di borghesi felici ed attivi, del ritorno all’avvilente normalità dopo lo
“scampato pericolo”.
Nei confronti di Colpo di stato diventano convenzionali le altre due commedie politiche
di Salce, La pecora nera (1968) e Il sindacalista (1972). La prima, scritta con Ennio De
Concini (una prova generale per Colpo di stato), sviluppa la satira politica su un antico e
consueto tema farsesco, di provenienza plautina (Maenecmi), quello dei gemelli: «uno è
un simpaticone, dongiovanni, genialoide, “puttaniere”; l’altro un uomo politico […]. Anche
la “pecora nera” verrà assorbita dalle pecore bianche, anzi diventerà capogregge, forse
capogruppo, domani probabilmente Capo di stato»10. Il sindacalista, scritta con
Castellano e Pipolo (tornati a collaborare con Salce a distanza di sei anni), tratta un tema
serio, quello del sindacalismo: se sia giusto praticarlo individualmente o inserirsi nei
8
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 272
Filippo Sacchi, Epoca…, cit., p. 139
10
Enrico Giacovelli, La commedia …, cit., p. 71
9
6
sindacati ufficiali (il film propende per la seconda soluzione).. Qualche critico, come
Marco Giusti, la apprezza:
Uno dei film che io e Giovanni Buttafava amavamo di più. Lo conosciamo quasi a mente. Un
piccolo capolavoro salciano recuperato solo da Blob per la grande scena della segreteria telefonica
del padrone Renzo Montagnani al quale il sindacalista Lando Buzzanca invia una interminabile
pernacchia mentre conta i secondi che ha di tempo per il messaggio. Non una parodia dei
sindacati, però, o dei rapporti operai-padroni, alla Petri, qualcosa di più avanzato, in qualche modo
anche serio, ma di grandissimo divertimento con un Buzzanca al suo massimo e un Salce
straordinario come in Basta guardarla. […] Al suo meglio, Il sindacalista, è una folle rivisitazione
delle lotte operaie del tempo in chiave di commedia all’italiana. Classicissimo e comicissimo.
Buzzanca è l’operaio ciarliero che diventa sindacalista un po’ così nella fabbrichetta di Montagnani.
Poi viene emarginato dai suoi compagni. Alla fine diventa un sindacalista serio11.
Sono gli stessi autori del film (il direttore della fotografia Menczer e lo stesso Salce) a
considerare Il sindacalista un film minore. A non funzionare è proprio Lando Buzzanca,
che come spesso gli accade, sottolinea troppo le gag e le sequenze, dando ridondanza a
tutto l’intreccio e sbilanciando il film tutto dalla sua parte, riducendolo ad uno di quei
“ritratti tra virgolette” tipici della commedia all’italiana – «film programmatici ed in un
certo senso monografici fin dal titolo, dove l’articolo determinativo precede un sostantivo
che indica lo stato civile o il mestiere dei protagonisti»12 - a cui Salce si era dedicato già
l’anno precedente con Il provinciale (1971).
11
12
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 710
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 42
7
Capitolo 5. L’incontro con Villaggio: il grottesco sociale e psicologico.
(Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, Fantozzi, Il secondo
tragico Fantozzi)
Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974) è un film eccentrico ed
anomalo, nella filmografia di Salce e nel cinema italiano. Segna l’incontro del regista con
l’attore Paolo Villaggio e tenta di introdurre in Italia l’umorismo nero spagnolo tipico del
regista Luis Garcìa Berlanga (La ballata del boia, 1963) e dello sceneggiatore Rafael
Azcona (collaboratore abituale di Marco Ferreri), gli autori del racconto da cui è stato
tratto il film. La critica, come spesso per Salce, si divise, tra chi considerò Alla mia cara
mamma nel giorno del suo compleanno «di tutti i film di Salce […] senz’altro il più
maturo, anche se, forse, il meno personale: l’opera letteraria da cui è tratta la pellicola, e
che lascia trasparire in modo evidente il proprio umorismo feroce, sinistro e beffardo,
porta le firme Rafael Azcona […] e Luis Berlanga. Si ride, dunque, ma con una smorfia.
Luciano Salce, comunque, ha trovato una materia evidentemente a lui congeniale: lo
dimostra con uno stile unitario, con la cura dei particolari, con la scelta appropriata degli
interpreti»1 e chi un film che «inclina alla farsa greve invece che al grottesco sul
mammismo. Inadatto alla parte, Villaggio è un clamoroso esempio di “miscasting”»2.
Il film è ben più che un grottesco sul mammismo, come avrebbe voluto diventasse
Morandini.
Luciano Salce riesce a raccontare una storia di umorismo nero, in cui i due elementi
sono equilibrati, appropriati, di uguale consistenza ed unitari: lo fa, paradossalmente,
con un’operazione di regia che mette in conflitto la storia, i personaggi e l’ambientazione.
La storia, melodrammatica, surreale e morbosa, è quella del conte Fernando, detto
Didino, un uomo di 32 anni succube della madre, che vorrebbe rimanesse per sempre un
bambino: è richiamato a casa, mentre è al cinema, perché la madre ha sentito in
televisione che è stato rapito nei dintorni un bambino e crede sia suo figlio; è costretto a
farsi fare il bagno dalla madre; a subire i ricatti di lei, che lo vorrebbe tutto per sé. Oltre
tutto, Fernando è costretto a subire dalla madre i commenti entusiasti sulla virilità del
padre, ora morto («Era alto, aitante, virile!»), a cui, inutilmente, il figlio si ribella («Era
uno scorreggione»). Fernando cresce, ovviamente, inibito sessualmente: il modello virile
è troppo lontano da quello a cui corrisponde lui. A trentadue anni non è mai stato con
una donna ed è costretto ad usufruire dei surrogati sessuali: guarda al cinema i film
1
Vice, Il Resto del Carlino, 31.8.1974, in Roberto Poppi-Marco Pecorari, Dizionario del cinema
Italiano, I film, vol. 4, Tomo I, Gremese, Roma, 1996, p. 30
2
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 39
1
pornografici, fa l’amore con bembole gonfiabili che si fa venire da ogni parte del mondo. I
parenti lo sospettano un omosessuale. La situazione si sblocca quando, dopo la morte
della cameriera Driade (caduta dalle scale mentre spiava Didino che faceva l’amore con
una bambola), arriva in casa sua nipote
Angela, una ragazza bellissima, ma storpia.
Didino ne è subito attratto morbosamente (la spia mentre fa il bagno, si nasconde nei
posti più impensati, le fa continui regali), ma deve fare i conti con la madre che ha subito
compreso come la ragazza sia una concorrente, con buone possibilità di strapparle per
sempre Didino. Infligge così ad Angela le punizioni peggiori (le toglie la paga, la costringe
a nutrirsi di pane ed acqua), ma inutilmente. Didino si sblocca e fa l’amore con Angela
proprio nella camera della madre, come estremo oltraggio. Nel momento della vittoria,
gli eventi precipitano: la madre subisce un colpo apoplettico per lo schock, Angela è
cacciata di casa. Didino è costretto a tornare alla routine quotidiana: alle sue bambole, ai
giochi con la madre. Un giorno Angela torna, di nascosto, e Didino decide di fuggire con
lei. Ma la madre, che ha spiato i loro piani, lo affoga mentre gli fa il bagno, per non
lasciarlo andare via.
I personaggi del racconto sono osservati da un punto di vista opposto a quello
melodrammatico, con un sarcasmo che li ridicolizza. La contessa Mafalda è una donna
tirannica, grassa e tremolante come i budini che cucina a suo figlio Didino. E’ gelosa e
possessiva, si atteggia a vittima, ma ha un cuore abbastanza arido per tramutarsi in
carnefice (lo dimostrano le sue opere di beneficenza: ogni anno dedica un giorno, quello
di S.Porfirio, ai poveri, regalando loro, ogni volta i supplì). Suo fratello, il conte Alberto, è
torturato da un tic che fa tremare tutta la parte sinistra del suo corpo e gli scuote la testa
in un eterno gesto di diniego. E’ uno sprovveduto, mentalmente ed economicamente, che
vive alle spalle della sorella ed è incapace di comprendere la natura di Didino, che
considera un omosessuale, da quando lo ha scoperto a leggere riviste porno, e glielo
rivela: «Divertimenti da impotente!», «Mi sento impotente», «Faresti meglio a seguire la
tua natura di omosessuale. […] Ho letto Freud, lasciati servire: tu sei un culattina, hai
paura delle donne», «Non ho mai fatto la prova, non ho mai verificato. Aiutami tu, zio
Alberto!». La cameriera Angela è una ragazza che tiene fede al suo nome, ma ha anche
lei una particolare mostruosità: è storpia ed ha un fratello scemo, Peppe (lo interpreta
Jimmy il Fenomeno), che, al funerale della zia Driade, urla: «Zia Driade è in cielo, zia
Driade è in cielo!…Ne abbiamo tante!». I due domestici hanno anche loro una dose di
grettezza e, tra i personaggi di contorno, il vecchio compagno di scuola di Didino è un
omossessuale, l’amica di infanzia Jolanda è una donna di facili costumi che, appena
sposata, vorrebbe tradire il marito (un perfetto imbecille) con Didino. Quest’ultimo è il
personaggio che concentra su di sé le diverse coordinate psicologiche del racconto: la
volontà di essere normale e l'impossibilità di esserlo. E’ ossessionato dal sesso e dalla
2
voglia di dimostrare una virilità che la madre gli soffoca, con le proprie morbose
attenzioni («Ma perché si sposano tutti e io no?», «Ma perché tu hai tua madre»).
Vorrebbe andare con le donne, ma ne è incapace: si accontenta di spiare le loro gambe
dalla grata di un tombino e di avviare un triste ménage con le bambole: «un’oasi di
delizia: un’amante diversa, silenziosa e fedele», come riportano le istruzioni («una gran
cagata!» esclama Didino dopo averle lette). Quando lo zio gli procura una prostituta, si
comporta come se fosse sua madre: le si accoccola tra le braccia, con un dito in bocca,
mentre lei lo ninna (precedentemente la prostituta aveva tentato di stimolarlo: «come mi
vuoi: in piedi, a cavallo, sulla tazza?»). Per affermare la propria virilità, Didino è costretto
a mettersi in uniforme; ma, eccettuata quella militare, la madre riesce a rendere infantili
anche le sue uniformi: quella da marinaio, con cui, fin da fanciullo, consegna alla madre
la torta di compleanno, quelle da riposo (che veste durante la merenda sui prati o mentre
gioca a cricket): gilet senza maniche, pantaloni alla zuava, calzettoni lunghi di lana dai
colori sgargianti (arancioni, rossi). Per reazione, Didino ama travestirsi: arriva ad
impersonare il fantasma di suo padre, che ridicolizza accentuando il suo difetto,
l’aerofagia. Il gusto per il travestimento ed il tentativo di recuperare il contatto fisico con
una donna (senza riuscire ad avere con lei un rapporto sessuale) lo portano a tagliare un
ciuffo di peli della vagina di Angela, farsene un paio di baffetti con cui impersonare Hitler
di fronte alla madre: sequenza che mostra chiaramente il groviglio psichico che tortura i
personaggi. I quali sono dotati di nomi altisonanti e nobili (il conte Ferdinando, la
contessa Mafalda, i domestici Anchise e Driade, la ragazza Angela) che contrastano con
la loro natura anormale (o abnormale) e qualche volta segnano una confusione di
personalità: la giovane Jolanda, amante proibita di Didino, ha un nome assonante con
quello di Mafalda e lo stesso rapporto protettivo con l’uomo (per sedurlo le offre il proprio
seno: «Bevi, bevi il tuo lattuccio», «Non avrei sete…veramente avrei appena bevuto
un’oransoda»); Didino si chiama in realtà Ferdinando, come il marito di Jolanda, che ha
preso il suo posto accanto a lei («L’altra notte ho fatto l’amore con mio marito e l’ho
chimato Fernando», «Ma non si chiama Fernando anche lui?», «Ma non Fernando come
lui, Fernando come te», sussurra, tentatrice, Jolanda al circospetto Didino). Questi
personaggi agiscono in un ambiente chiuso (una casa solitaria in un piccolo borgo di
campagna), che ne segna i movimenti psicologici, acutizzandone il ripiegamento
ossessivo sulle proprie manie.
L’ambientazione accentua il tono nero della rappresentazione e conduce Alla mia cara
mamma nel giorno del suo compleanno sul terreno della favola gotica, dando unitarietà
di tono all’intreccio melodrammatico ed ai personaggi grotteschi. Il film si svolge,
prevalentemente, all’interno di una grande ed alta costruzione merlata, simile ad un
castello e con un parco circondante molto esteso. Il palcoscenico di questo intreccio sono
3
le scale strette ed alte, i lavatoi sull’attico, stretti e freddi, le cucine in penombra, le
camere della servitù con le mattonelle bianche, le stanze enormi sontuosamente ed
eccessivamente arredate e parcamente illuminate, le cantine, gli anfratti e gli angoli
oscuri. Questa scenografia misteriosa permette a Salce di accentuare il lato macabro del
racconto, conducendolo come fosse un film gotico. Nella suggestiva sequenza dei titoli di
testa, la mdp pedina il piccolo Didino mentre porta la torta alla madre, nel giorno del suo
compleanno, percorrendo, sinuosamente come in un labirinto, le alte stanze oscure della
villa, illuminate soltanto dalle candeline sul dolce. La scarsa illuminazione e la grandezza
degli ambienti permette ai personaggi di spiarsi a vicenda attraverso invisibili punti di
vista. La cameriera Driade muore proprio mentre si sta dedicando a questa attività:
perde l’equilibrio e cade dalla scaletta a pioli, precipitando nella tromba delle scale, fino
ad un pianerottolo dove sbatterà la testa, fratturandosi il cranio: una scena costruita da
Salce tramite il montaggio di otto inquadrature con il punto di vista sempre più in basso
delle precedenti, a rendere graficamente la caduta verticale della donna, spezzando il
ritmo all’altezza della quarta inquadratura, dove inserisce un movimento contrario:
l’improvviso rizzarsi della contessa dal letto, svegliata dall’urlo della cameriera. Molte
altre sono le sequenze che si rifanno ai film del terrore: l’arredamento del salone, dove la
contessa conserva le vestigia del marito; le apparizioni fantasmatiche di Didino travestito
(all’oscuro, con la voce camuffata); la scoperta da parte di Angela di Didino, nascosto
nella fontana del lavatoio, per fuggire alla madre, come un annegato; il licenziamento di
Angela, con la sua partenza notturna sotto una pioggia torrenziale, scorta da lontano da
Didino.
La cena finale, in onore del compleanno della contessa, che chiude circolarmente il
film, manifesta chiaramente i referenti cinematografici: l’ambientazione sovraccarica
della stanza, la tensione emotiva dei commensali, foriera di follia, nascosta dietro una
forzosa tranquillità, e, soprattutto, il particolare delle candele nere, nei candelabri sul
tavolo, rimandano all’archetipo del film gotico italiano, Malombra (1943) di Mario Soldati,
in cui un’analoga cena risolutoria si svolgeva in una veranda ventosa. La cena di Alla mia
cara mamma nel giorno del suo compleanno, così come quella di Malombra, è una cena
funebre: in tutti e due i casi la protagonista femminile decide un destino di morte per
l’uomo che più ha amato, in modo morboso e malato, nella vita.
La triplice differenza di segno dei tre elementi principali del film (l’intreccio
melodrammatico, i personaggi grotteschi, l’ambientazione gotica) è riunita dal regista in
ogni inquadratura e gli permette di dare al racconto un andamento surreale, con forti
interruzioni di tono: come nella sequenza del ricevimento in casa della contessa, quando
eminenze e nobili discutono con Mafalda dei turbamenti sessuali e mentali di Didino,
ricevendo dalla madre risposte rassicuranti, mentre Didino entra improvvisamente,
4
correndo nudo, con un elmo in testa ed una cartucciera in vita, urlando con accento
tedesco, tra lo sbigottimento generale: «Libertà sessuale per i figli. Mamme a casa».
Così l’impossibile storia d’amore tra Didino ed Angela è condotta secondo i modi dell’
“amour fou” surrealista: tanto più la ragazza subisce le torture e le sevizie della
contessa, tanto più Didino le si avvicina, desiderando un contatto sempre più carnale.
Inizialmente la spia mentre fa il bagno, poi morde gli stracci con cui si è asciugata.
Quando la contessa Mafalda comincia a punire la ragazza, Didino le fa regali sempre più
consistenti: le nasconde i soldi nel libro di preghiere, le regala lo smeraldo, dono nuziale
della madre. Quando li scoprirà, la contessa picchierà e spoglierà Angela per cercare la
pietra e Didino spierà la ragazza nuda e sofferente sul tavolo della cucina. Poi, salito nella
sua camera, la curerà, spalmandole una pomata su tutto il corpo pieno di piaghe. Infine,
nascosto sotto il letto, depositerà sul corpo di Angela
delle monete sulle parti intime,
costringendola a denudarsi; ma non riuscirà a fare l’amore. Per riuscirci, la ragazza dovrà
infilarsi in una bambola gonfiabile.
Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno si presta a differenti piani di
lettura: un grottesco sull’abnormalità, una storia d’amore folle, un melodramma dalle
implicazioni psicanalitiche, una favola nera (l’ultima, delicata, inquadratura è per le bolle
di sapone, provocate dal respiro mozzato di Didino nella vasca, che si librano in aria e si
depositano sul volto di Angela, in attesa, sotto la finestra del bagno, di un amante che
non arriverà). La moltiplicazione dei significati è affidata ai particolari delle inquadrature,
estremamente calibrate nel taglio, nella profondità e nei movimenti interni dei
personaggi: come nella sequenza in cui Didino sbeffeggia la madre fingendo di cadere
per le scale come Driade, e la contessa scopre il legame tra lui ed Angela (che si affaccia
dalla sua stanza chiedendo cosa sia successo), risolta con un gioco di sguardi tra i
personaggi e con la profondità di campo (la contessa, Didino ed Angela si trovano
ognuno ad un diverso pianerottolo della tromba delle scale): si capovolgono i rapporti di
forza tra i personaggi (quando Mafalda scorge Angela sulle scale capisce i suoi rapporti
con Didino: le espressioni dei personaggi cambiano istantaneamente) ed il tono del
racconto si rompe, passando dal grottesco al melodramma.
Salce
ha
raggiunto
la
propria
maturità
stilistica, fondata
sulla
composizione
dell’inquadratura e sulla rilevanza dei particolari apparentemente secondari, che
perfezionerà con il successivo Fantozzi (1975).
L’anno dopo, infatti, l’editore Rizzoli ha l’intuizione di portare sullo schermo le
avventure del rag. Ugo Fantozzi, personaggio che Villaggio aveva inventato per la
televisione ed a cui poi aveva dedicato alcuni racconti, riuniti nei volumi Fantozzi e Il
secondo tragico libro di Fantozzi.
5
Villaggio costruisce un personaggio originale, pur esibendo i rimandi alla tradizione,
anche letteraria, del comico. La critica rintraccia facilmente i modelli, da Gogol’ - «Più
ancora e in modo più continuo di Rascel del Cappotto, Villaggio ha fatto rivivere il senso
dell’umorismo gogoliano e immesso il soffio di una tragica grandiosità in personaggi
come Fantozzi»3 - a Swift - «Rivisti a distanza di tempo, questi film che alla loro uscita
fecero sbellicare dalle risa lasciano sgomenti, imbarazzati: non si ride più, se non
istericamente, siamo nel regno dello Swift che proponeva di mangiare i bambini per
risolvere il problema della fame»4.
Rispetto ai facili referenti cinematografici - i film impiegatizi con Renato Rascel,
L’impiegato (1960) di Gianni Puccini - Fantozzi è orientato verso un grottesco metaforico
e spietato, senza patetismi, più vicino al surrealismo di un vecchio film di Steno e
Monicelli, Totò e i re di Roma (1951), suo autentico modello. Giacovelli traccia una
precisa ricapitolazione del personaggio e delle storie:
Fantozzi è l’ultima grande maschera della commedia dell’arte, la più importante del ‘900
insieme a Totò […]. Mentre però le altre maschere italiane (Pulcinella, Arlecchino, Totò) risultano
quasi sempre, se non proprio dei vincenti, quanto meno dei vincitori, Fantozzi è un perdente nato,
un professionista della scalogna e della sconfitta, come Paperino o Wile Coyote: maschera
decadente, di fine civiltà. Sempre con un piede nella metafora, può finire a fare il parafulmine sul
tetto di un palazzo o essere servito in salmì nelle cene dei ricchi. Il suo subire è automatico,
fisiologico, quasi logico in questo universo di «eschi», «venghi», «no, venghi lei», «ma com’è
umano Lei». Padrone di Fantozzi non è soltanto il padrone in senso stretto, il mitico e quasi
inesistente «direttore megagalattico»: suo vero padrone è il consumismo, la sottocultura di massa
che promette la felicità nel momento stesso in cui la rende impossibile. E al di là del personaggio
anche i suoi film, che poterono sembrare a prima vista rozzi e approssimativi, offrono un ritratto
impressionante e allucinante della vita impiegatizia, con il suo grigiore preordinato, le ingiustizie
regolamentari, le miserie senza scampo, le consolazioni senza gioia (la cosa più triste sono le gite
di piacere). Perfino l’amante ideale, l’incarnazione dell’eterno femminino, la ragazza dei sogni, non
è più una donna procace come nel vecchio L’impiegato di Puccini, ma una donnetta scheletrica,
orribile, sboccata. Dietro il velo dell’iperbole, i Fantozzi rispecchiano meglio di tante opere
realistiche una precisa situazione sociale, così intimamente esasperata e iniqua da poter essere
resa appieno soltanto attraverso l’esagerazione linguistica: non è il cinema, è la nostra società che
è abnorme, che prevede padroni con poltrone in pelle umana e impiegati che non hanno mai visto
un pomeriggio di sole.5
L’apporto di Villaggio fu fondamentale a livello di sceneggiatura: nella proposizione di
un nuovo tipo di umorismo, un «grottesco normalizzato»6, la composizione di personaggi
stravaganti, l’invenzione di situazioni originali ed eccentriche. Ma l’organizzazione
cinematografica dei racconti fu merito assoluto di Salce, come ricorda il direttore della
fotografia Erico Menczer7.
In Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1977), Salce dà volto e consistenza a
personaggi e fatti caricaturali ed eccessivi, segnati, sulla pagina letteraria, da un gusto
3
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, pp. 305-306
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 82
5
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., pp. 134-135
6
Ivi, p. 135
7
cfr. Appendice.
4
6
del grottesco surreale ed iperbolico quasi impossibile da trasporre visivamente. Il regista
(anche sceneggiatore con Benvenuti e De Bernardi) sposta personaggi, confonde i tipi,
contamina gli episodi. Nelle due raccolte di racconti di Villaggio, il compagno di
disavventure era Fracchia, l’organizzatore di divertimenti e gite aziendali: al cinema
diventa l’occhialuto e magro Filini (l’attore Gigi Reder, divenuto proverbiale nel ruolo del
personaggio semicieco, che porta «occhiali doppi tipo civetta»), che nei racconti era
presentato così: «Quarantasei anni, 99 cm di statura […] completamente calvo»8.
Acquista consistenza il personaggio di Calboni, «di gran lunga il più odioso dei suoi
colleghi
d’ufficio.
[…]
Calboni
era
un
disinibito,
odiosissimo,
stronzo,
stupido,
bugiardissimo e fastidiosamento profumato con Tabacco d’Harar»9. Laddove i caratteri
sono rispettati la visualizzazione è puntuale: «la signorina Silvani […] non era certo una
bellezza, anzi a voler essere un po’ severi era un “mostrino” di gamba corta all’italiana,
denti da coniglietto e capelli tinti»10.
La rielaborazione degli intrecci dei racconti, procede con lo stesso sistema di
contaminazione, smussando le iperboli letterarie ed accentuando la fisicità farsesca delle
situazioni. Tra i racconti di Fantozzi, ce n’è uno, La sfida calcistica tra quarantenni, che
narra di una partita di calcio tra gli impiegati scapoli ed ammogliati dell’azienda. Lo stile
di Villaggio è quello di un barocco ridondante ed iperbolico, sfrenatamente irrealistico:
Al 36’, calcio di rigore. Si incarica del tiro Fracchia, emozionatissimo. Prende la rincorsa da
dietro le colline e viene giù al galoppo. Nel campo si era fatto un grande silenzio. Fracchia entrò
dalla porta del palio. Giunto all’altezza del dischetto gli partì la scarpa dopo aver mancato
decisamente il pallone. La scarpa centrò in pieno il portiere sgranandogli tutti i denti. Il portiere
(che era sceso in campo, su consiglio di alcuni politicanti, in completo grigio, chiavi incrociate agli
occhielli, berretto gallonato e guanti bianchi) rimase un attimo ondeggiante e poi andò a cemento.
L’arbitro che vide la scarpa rotolare in porta, fischiò la prima rete. Il punteggio, che fino a questo
momento era rimasto bloccato sullo zero a zero, degenerò decisamente: 5 a 8, 11 a 20 e poi 38 a
24. Erravano per il campo dei calciatori miopi, ormai quasi ciechi, avendo perso gli occhiali nelle
mischie, che colpivano sempre i compagni di squadra in nuca, credendo di respingere la palla.
Scoppiarono quindi delle risse feroci, Bulbem, un mostro dell’ufficio sinistri, staccò netta
un’orecchia, con un morso, a Fantozzi. Il capo del personale se la mise in tasca e la portò a casa
per farla trapiantare su un suo cugino che aveva un udito irregolare. La partita fu sospesa per
oscurità al calar della notte.11
Salce, in Fantozzi, sceglie di ambientare la sequenza in un campo di periferia in terra
battuta (vicino Ponte Marconi), concentra l’attenzione sui tre personaggi principali del
film: Fantozzi, Filini e Calboni. Sceglie un tono realistico di partenza, raccontando le fasi
della partita, modellandole sulle caratteristiche dei personaggi: Filini è l’arbitro cieco che,
durante una punizione, posiziona la barriera dietro la linea di fondo; Calboni, che si sa
adattare ad ogni situazione, è l’autore del gol vincente, che esulta come se fosse in una
8
Paolo Villaggio, Fantozzi, cit., p. 116
Paolo Villaggio, Il secondo tragico libro…, cit., p. 103
10
Paolo Villaggio, Fantozzi, cit., p. 13
11
Ivi, p. 117
9
7
finale mondiale: «Ueh, ho fatto gol! Ho fatto gol!»; Fantozzi fa due autoreti, liscia un
calcio di punizione, viene anticipato su un calcio d’angolo, è fermato durante una discesa
vincente dalle palpitazioni. Procedendo la sequenza si fa sempre più surreale: la nuvola
dell’impiegato, che ammorba gli impiegati durante le vacanze, scatena sul campo un
temporale che riduce il terreno ad una piscina: i giocatori nuotano, sprofondano nelle
buche ed hanno delle visioni. Salce mostra la sua impronta disseminando la sequenza di
rapide gag che illuminano un’intera situazione. E’ esemplare la scelta di campo iniziale,
affidata alla monetina: Fantozzi sceglie testa, Calboni pari, Filini getta la moneta in una
pozzanghera, tutti i giocatori si mettono carponi alla ricerca della moneta.
La caratteristica stilistica di Salce è il particolare rivelatorio, il dettaglio rapido e
improvviso, nello scorrere del racconto, che carica di nuovi significati la situazione
narrativa. Il critico letterario Giacomo Debenedetti chiama questa funzione “epifania” e
«fonda su di essa la fisionomia del romanzo del Novecento»12. Scrive Debenedetti:
(Nella narrativa tradizionale) quando quegli oggetti compaiono dicono ciò che devono dire, ciò
che la loro concreta immediata presenza dice, entrano, operano e sono inghiottiti nel ritmo della
vicenda, che è il solo semmai a sprigionare un senso, che i singoli fatti ed oggetti ignorano. Sicché
al romanziere basterà di rappresentare quegli oggetti: quanto più efficace sarà stata la resa, tanto
più egli si riterrà soddisfatto, persuaso di aver assolto il proprio compito. Lo sconfinamento di
questi oggetti o fatti in qualcosa che sta dietro di loro, di là da loro, e mette intorno ad essi un
alone da cui sembrano emanare messaggi: tutto questo dipenderà dal dono poetico del
romanziere, non è l’obiettivo della sua specifica ricerca di narratore. […]13
Il futuro romanziere nuovo, si sente colpito da fatti per sé insignificanti, che, in quanto non
servono, e perciò si epifanizzano, arrivano a un potere manifestante. Detto in un modo molto
approssimativo: è come se il mondo si fosse dualizzato in ciò che appare e in ciò che viene
manifestato da quanto appare. Ma che cosa viene manifestato? […] Claritas è quidditas. Quiddità è
anch’essa una parola della scolastica […] e significa la qualità essenziale, il quid per cui una cosa è
quella che è. La claritas sarebbe dunque quel raggiungimento artistico grazie al quale la cosa
rivela, attraverso la sua rappresentazione, la propria qualità essenziale. “ La sua anima, la sua
identità balzano verso di noi oltre i veli dell’apparenza”.14
Essendo un film, come un romanzo, opera di narrativa, le valutazioni di Debenedetti
sono valide anche per quello che riguarda Salce.
E’ il naturale approdo della ricerca, da parte del regista, di «una modernità di struttura
narrativa»15 che Morandini aveva già osservato ne La voglia matta e che Salce stesso
aveva rivelato a proposito di Come imparai ad amare le donne (1966): «Massima libertà
di sviluppi narrativi e possibilità di sganciarsi anche di tanto in tanto da una rigorosa
successione temporale e via di questo passo. Per esempio: luoghi del mondo moderno,
con le più evidenti tracce della modernità, cioè mettendo in primo piano certi dettagli che
forse oggi sono una eccezione nell’insieme e costituiscono un’anticipazione nel futuro
12
Walter Pedullà, Le caramelle di Musil, Rizzoli, Milano, 1993, p. 242
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1971 (1996), p. 292
14
Ivi, p. 293
15
Morando Morandini, Stasera, 16.3.1962
13
8
immediato»16. Salce è, fondamentalmente, un osservatore: di personaggi e dei loro
comportamenti. Come il protagonista, io-narrante, del suo racconto Avenida:
In mezzo alla folla di São Paulo, dove i colori, i vestiti, i baffetti si alternano monotoni e
compongono una massa bruna e malinconica, veder emergere una faccia rosea e rasata,
assolutamente europea, ci fa riandare colla memoria a certe Pasque dell’infanzia e al gioco
frenetico di individuare per primi il gelido e perfetto uovo di zucchero nascosto tra le uova sode più
vive e irregolari. Nel cuore della Cina il passaggio di un bianco deve essere salutato con la stessa
mescolanza di curiosità e diffidenza. Se poi quel volto risulta vagamente familiare, subito si
presenta la molesta necessità di localizzarlo, di collocarlo nel tempo oltre che nello spazio: stabilire
se è compagno di collegio, di servizio militare, di università, di viaggio – ma quale viaggio? – o
semplicemente un vicino che incontriamo in ascensore e che senza ascensore non sappiamo più
riconoscere17.
Gli intrecci dei suoi film procedono per annotazioni fulminee, frantumando l’intreccio in
numerosi episodi, personaggi, situazioni. Talvolta le opere si presentano frammentarie
(La cuccagna è il caso limite), ma, progressivamente, il gusto dell’osservazione accresce i
particolari di una funzione epifanica. Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi (e tutti gli altri
film di Salce) sono cosparsi di questi particolarie: oltre alla scelta di campo della partita,
è importante ricordare la sequenza del varo della turbonave della ditta ne Il secondo
tragico Fantozzi.
Sul porto di Genova (nella finzione, in realtà Civitavecchia) una folla festante è
radunata: sono impiegati dell’azienda di Fantozzi, personalità importanti, rappresentanti
del potere. Ognuno sventola una bandierina tricolore di plastica. L’obiettivo della mdp
cerca tra la folla Fantozzi: anche lui sventola la sua bandierina. O meglio tenta: perché a
lui, unico tra la moltitudine dei personaggi, la bandierina si è arrotolata sul supporto.
Così, invece di sventolare esultante, agita un bastoncino monco. E’ una scena che fa
ridere, ma dietro la brillantezza di superficie, quel dettaglio ci svela, improvvisamente, il
senso profondo del personaggio Fantozzi: l’impossibilità di essere normale, nonostante
tutti gli sforzi compiuti sulla strada del conformismo.
Nella stessa macrosequenza narrativa (comprendente il varo della turbonave e il
ricevimento della villa), un altro particolare rileva la satira della classe aristocratica, vista
come un “entourage” di vecchi storditi (in primis la contessa Serbelloni Mazzanti
Viendalmare che impiega un’intera giornata per varare la nave, mietendo vittime tra gli
incolpevoli convenuti) e, letteralmente, rintronati: la centoduenne baronessa Firinguelli
de Bonchant («mascotte a vita della società»), gettata a mare dalla ciclonica Serbelloni
Mazzanti, cozzerà contro la nave, facendola rintronare.
Numerosi sono i dettagli rivelatori, sparsi nei due film, che permettono una
decodificazione ulteriore alla visione iniziale, organizzando, dai particolari, un sistema
16
Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, in Cinema ’60, n. 57, mar. 1966, p.
57
17
Luciano Salce, Cattivi soggetti, Rizzoli, Milano, 1981, p. 51
9
universale di idee. La refrattarietà di Fantozzi ad essere servito (ha paura di essere
derubato: in Fantozzi litiga con la guardarobiera che vuole togliergli il cappotto, durante il
cenone dell’ultimo dell’anno; ne Il secondo tragico Fantozzi picchia l’inserviente dell’Hotel
Quisisana di Capri che vuole portargli le valigie) è la prova di una ben allenata attitudine
a servire; la volgarità della classe dirigente è indelebilmente incarnata in Fantozzi nella
figura del conte Diego Catellani, sigaretta con bocchino al lato della bocca, andatura
sostenuta, adorazione della madre, linguaggio volgare e plebeo («Chi non scatta niente
scatti, ve lo dice uno che viene dalla gavetta e che si è fatto un mazzo così»); mentre
l’irraggiungibilità del padronato è visualizzata dall’aura mistica che lo circonda.
In questi due film ci sono molti riferimenti mistici, al limite della blasfemia, in cui
l’epifania assume un significato cristiano: Fantozzi è tormentato da incubi e visioni, quasi
fosse l’agnello sacrificale in una società irredenta. In Fantozzi, inchiodato su una barca
con Filini, vede Gesù camminare sulle acque ed ha con Lui (che parla ciociaro) uno
scambio memorabile di battute - «Avete pesci?», «Non abbiam pescato!», «Avete pani?»,
«Doveva portarlo lui!», «No, lui!», «E allora che m’a murtiprico io?» - che attualizza
l’impossibilità di effettuare miracoli che migliorino la posizione contingente della gente
comune; ne Il secondo tragico Fantozzi si crede addirittura incinto del Salvatore e va a
partorire in una clinica nei pressi di Agrigento (chiedendo stupito ai medici: «Ma non si
era stabilito Betlemme?»).
Al di là della consacrazione del particolare epifanico, testimonianza di una raggiunta
maturità stilistica, la regia di Salce si segnala in questi due film per la capacità di saper
organizzare tutti gli elementi tecnici in una perfetta corrispondenza tra di essi: la musica,
il montaggio, i movimenti di macchina (come sempre, tutti gli stacchi e gli attacchi delle
inquadrature sono in movimento), la scenografia (ogni luogo fu scelto da Salce dopo
accurate ricerche), la fotografia sono perfettamente calibrati nella costruzione delle gag.
Si possono citare: il montaggio analogico (l’analogia è nel commento musicale) che
permette, in
Fantozzi,
di
passare
dall’allucinazione
del
miracolo
di
Gesù
della
moltiplicazione dei pani e dei pesci ai festeggiamenti natalizi nell’azienda di Fantozzi;
l’impostazione ritmica, quasi musicale, della sequenza della partita di biliardo tra Fantozzi
e il conte Catellani, che intreccia motivi psicologici (gli sguardi tra Catellani e Fantozzi
stabiliscono i rapporti di forza; quelli tra Fantozzi e la moglie Pina rendono consapevole il
ragioniere della propria dignità), grotteschi (la scenografia del salone, suddiviso in palchi
come un arena, con un trono per la madre del conte), lirici (le inquadrature della Pina
prima commossa, poi piangente, poi soddisfatta), farseschi (il tema musicale a tempo di
marcia che accompagna Fantozzi e Catellani sul luogo dell’ agone), comici (i gesti
meccanici degli impiegati, che ridono e bevono a comando, succubi della potenza del
conte).
10
La «grande trovata»18 registica è la ripetizione della scena della scalinata di Odessa de
La corazzata Potemkin di Ejzenstejn. La sequenza è diventata famosa per il rifiuto di
Fantozzi della cultura ufficiale, con una visceralità («La corazzata Potemkin è una cagata
pazzesca!», uno «slogan dell’anticonformismo culturale»19) che, ricorda Giusti, scatenò
«una serie di discussioni sulle pagine dell’Unità»20. Ma il rifacimento di Salce, il più fedele
possibile (ci sono alcune zoomate sui dettagli impossibili nell’originale) e insieme comico
(i soldati, guidati da Calboni, che sparano facendo: «Pum!»; Filini vestito da donna che
muore al grido di: «Muoia, Filini»; Fantozzi sulla carrozzella che deve precipitare dalla
scalinata, spinta dalla madre, la Silvani, morente) rende impossibile, a chi ha visto
questa scena, una visione seria della sequenza originale, tanto che «per anni e anni,
grazie a Fantozzi, [La corazzata Potemkin] non si è più rivista in Italia»21.
Il successo di questi due film fu tale che negli anni successivi Salce e Villaggio
potranno proseguire una collaborazione intensa e molto ravvicinata, affinando il grottesco
di Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, variandolo, contaminandolo con diversi
orientamenti culturali. I film di questo periodo sono altrettanti tentativi di coniugare il
grottesco di Villaggio con la commedia tradizionale: quella all’italiana de Il…Belpaese,
quella parodistica di Sì buana, quella teatrale di Rag. Arturo De Fanti bancario precario.
Salce tenta di contaminarle con il proprio stile sarcastico, fatto di notazioni rapide che
mettono in burla ogni tema, anche il più tragico. La mescolanza di comico e tragico che
dà forma al grottesco sarà esemplare ne Il professor Kranz tedesco di Germania (1979),
in cui il personaggio protagonista porta al massimo grado il ruolo di vittima assegnatogli
da Villaggio: stavolta senza speranza, poiché, inetto e dissociato, è costretto in una
società disperata, quella brasiliana, in cui anche i sogni sono vietati.
Il…Belpaese (1977) univa il grottesco di Villaggio con le annotazioni comico-satiriche
della sceneggiatura di Castellano e Pipolo, costituendo «pur con molte approssimazioni
da commedia minore, uno dei culmini del filone “accumulazione di mali sociali”: in fondo
non è solo Fantozzi, è tutto il decennio ad essere fantozziano»22. Villaggio è Guido
Belardinelli, che tornato in Italia dal Golfo Persico, spera di sistemarsi, aprendo coi
risparmi un negozietto di orologi, ma trova una realtà invivibile, dominata dalla
contestazione giovanile, dal terrorismo, dalla droga, dalla delinquenza mafiosa. Salce non
tradisce la sua capacità di mettere in immagini un racconto in modo antitradizionale: ne
Il…Belpaese utilizza come voce-off le parole sguaiate di un d.j. e la musica hard-rock di
una radio privata, a controcanto ironico delle vicende del protagonista. Il clima di
18
Marco Giusti, Dizionario dei film…, cit., p. 683
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 237
20
Marco Giusti, Dizionario dei film…, cit., p. 684
21
Ibidem.
22
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 135
19
11
guerriglia sociale che il film mette in scena non piacque ai critici dell’epoca, che ebbero
buon gioco a considerarlo un «limitativo e qualunquistico compendio di alcuni mali
dell’Italia di oggi con velleità satiriche»23. Oggi Giusti può considerarlo un «grande film
sul (e del) 1977. Teoricissimo. […] Villaggio è ancora perfetto e lo sono anche il fido
Reder e Boldi, in un ruolo che venne offerto a Nanni Moretti negli anni di Ecce bombo»24.
Sì buana, episodio di Dove vai in vacanza? (1978), è un’altra variazione del grottesco
fantozziano (accanto a Villaggio c’è ancora Gigi Reder), un’operazione di contaminazione
della cultura letteraria (Hemingway) con la volgarità delle commedie pecorecce (Villaggio
è afflitto da una terribile aerofagia). Sì buana è una trasposizione velata ma piuttosto
fedele di uno dei capolavori di Hemingway, il racconto La breve vita felice di Francis
Macomber. Ne conserva le linee generali dell’intreccio (la moglie molto giovane di un
anziano cacciatore approfitta di una battuta di caccia per ucciderlo, simulando un
incidente) ed i nomi dei personaggi, leggermente camuffati: Villaggio è lo spiantato
genovese Arturo, assunto come guida inglese che conosce lo swahili in una spedizione
turistica e per questo soprannominato Wilson (come il Robert Wilson del racconto), Anna
Maria Rizzoli è Margherita (nel racconto Margot), Daniele Vargas è Ciccio Colombi (il
Francis Macomber di Hemingway), Peter Abadire è Kangoni (il portatore Kongoni). Per
tutto il racconto, Villaggio, che narra in prima persona la storia, fa riferimento allo
scrittore americano («sembra una storia di Hemingway»), svelando nel finale l’origine del
racconto («si conclude così la breve vita felice di…»).
La mitologia dello scrittore americano è completamente ribaltata: il portatore nero
Kangoni è nato a Roma e non sa adattarsi alla vita africana, ha nostalgia delle sere
passate in pizzeria con gli amici, canta «Er barcarolo va, controcorente…» (il capo della
spedizione, Natali, lo redarguisce subito, dicendogli: «Tu puoi cantare solo «Bingo bango
bongo/ stavo bene solo al Congo…»); i leoni muoiono di nostalgia, disadattati alla vita in
savana, richiedono l’affetto dei bambini che li visitavano allo zoo. I personaggi che si
aggirano in questi paraggi africani sono disegnati secondo i moduli della commedia
all’italiana: sono borghesi arricchiti, volgari, corrotti ed ignoranti, di provenienza
lombarda, adusi a maneggiare denaro per corrompere, comprare, adulare. Il Wilson di
Villaggio è, come Fantozzi, una vittima sacrificale, destinata ad essere stritolata dalla
astuzia corruttrice della borghesia benestante, dalla propria ingenuità, dalla volontà di
conformarsi agli altri, dunque vittima della propria astuzia (perde tutto quando sembra
trionfare). Lo spaesamento di Wilson in quest’ambiente e in questa società, il
ribaltamento sarcastico dei luoghi comuni sull’Africa pura e incontaminata (l’industriale
Colombi magnifica la purezza dell’aria seduto sopra una latrina a cielo aperto, dove con
23
24
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 148
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 76
12
un gesto brusco spedisce, involontariamente, un suo compagno) sono a fondamento
delle gag del film. Ma Sì buana non si ferma al livello della parodia: il disorientamento
sociale, la disperazione del vivere quotidiano sono riassunti non tanto nel commento di
Wilson,
ma
nello
sguardo
di
Kangoni,
sperso
all’orizzonte,
durante
la
cena
nell’accampamento, in una di quelle inquadrature rivelatorie tipiche di Salce.
All’epoca l’episodio passò inosservato, oggi Giusti lo rivaluta pienamente:
Sì buana di Salce, con Villaggio, è forse uno dei capolavori della coppia. Magistralmente scritto
da Continenza e Scarpelli […] Le scene migliori mostrano Villaggio alle prese con il cibo africano in
duetto con il nero che parla romano Kangoni. Dopo aver inghiottito un pezzo di animale arrosto,
Villaggio chiede cos’è. «Dopo» dice Kangoni. «Dopo?» chiede stupito Villaggio. «Dopo», ripete
Kangoni. «Ma dopo…dopo…dopolino?» chiede impaurito Villaggio. 25
La maschera fantozziana tornerà anche nella pochade Rag. Arturo De Fanti bancario
precario (1980), in cui Villaggio è un impiegato alle prese con il male di vivere dell’epoca:
dissesto finanziario (nonostante viva in un castello ereditato), delinquenza dilagante. Il
quadro sociale è affine a quello de Il…Belpaese: le rapine in banca sono all’ordine del
giorno (nel film precedente, il banchiere aveva i sacchi da
ormai assuefatti, discutono
tranquillamente
rapina; in questo i bancari,
dei problemi familiari), i passanti vivono
nel terrore degli scippi, l’amante «è una necessità come tutte le cose superflue» («E’
come la televisione: è noiosa, ma in casa ci vuole») e contribuisce all’economia familiare
(«Un’amante fuori è un’emorragia continua, in casa invece è un risparmio»). Ma la satira
di costume (c’è perfino un prete che, intrappolato nel traffico, dà l’estrema unzione per
telefono) è secondaria rispetto al gioco degli equivoci della farsa. Il grottesco è presente
nei dialoghi, che normalizzano una situazione assurda, con tono surreale («La rana è
morta, il dottor Morpurgo è vivo, come donna è sterile e quindi cambiamo argomento»
dice De Fanti).
25
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.238
13
Capitolo 6. Il teatro s’incontra con il cinema: la pochade
(da Le pillole di Ercole a Vediamoci chiaro)
Le pillole di Ercole (1960), Ti ho sposato per allegria (1967), L’anatra all’arancia
(1975), La presidentessa (1977) segnano la continuità dei rapporti di Salce con il teatro,
anche nel momento in cui sembra averlo abbandonato, per dedicarsi totalmente al
cinema. In realtà, il legame di Salce con le origini teatrali fu sempre molto stretto, sia per
quanto riguarda la scelta di temi e ambientazioni dei suoi film, sia per quanto riguarda il
ritmo, la scansione narrativa – sempre molto matematica – e la recitazione degli attori, a
cominciare dalla propria, nei suoi film e in quelli altrui (soprattutto nei grotteschi di
Vittorio Sindoni) sempre piacevolmente fuori dalle righe. Il suo interesse era rivolto
soprattutto verso le commedie borghesi, in cui l’intreccio amoroso subisse una
stilizzazione verso il puro meccanismo narrativo. La preferenza di Salce andava perciò
alle pochade francesi e al loro scatenato ritmo danzante, anche al cinema. Tali sono Le
pillole di Ercole, da una farsa di Hennequin e Billhaud, e La presidentessa, da Hennequin
e Veber. E’ inglese, di Home e Sauvajon, L’anatra all’arancia, ma il tema è analogo e
Salce lo tratta con lo stesso stile pochadistico. Ti ho sposato per allegria è una commedia
in due atti di Natalia Ginzburg che Salce ridusse anche per la radio ed alla cui stesura
partecipò attivamente, come ricorda egli stesso:
La Ginzburg mi consegnò, a casa della Asti, tirandoli fuori da una borsa della spesa, dei fogli che
contenevano dei dialoghi deliziosi, ma non ancora una commedia. Credo di averla tirata fuori io la
commedia da questi fogli, dando loro una forma teatrale. Da tre ho fatto due atti con un
intermezzo, inventando l’ambiente del bagno. La Ginzburg fu molto contenta1.
La trasposizione cadenzata di queste commedie dimostra un interesse immutato negli
anni, una vera e propria adesione incondizionata al genere. L’estensione cronologica tra
un film e l’altro motiva il differente approccio del regista verso la pochade. La prima
versione di Le pillole di Ercole è un movimentato racconto, in cui la regia di Salce si
dedica alla scansione geometrica dei momenti dell’intreccio: il montaggio, il taglio delle
inquadrature, i movimenti di macchina sono in funzione della perfezione architettonica
del racconto. La comicità nasce, più che dalla recitazione degli attori, dall’accelerazione
del ritmo delle sequenze, talvolta frenetico e stilizzato. Ma la seconda versione della
pochade, Una moglie, due amici, quattro amanti (1980, Michele Massimo Tarantini), cui
Salce partecipò solo come attore (era il coprotagonista, insieme a Renzo Montagnani) è
una «versione ad alta percentuale voyeuristica […] (che) si segnala soprattutto per le
1
Fofi-Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p.379
1
deliranti scorrerie mandrillesche di Renzo Montagnani»2. Se, nel 1967, Ti ho sposato per
allegria è un divertimento «brillante e un po’ fatuo»3, otto anni dopo, L’anatra all’arancia
è «una commedia di sapore francese»4, in cui «il gioco scenico trova nel dialogo brillante
e nell’arguzia delle situazioni efficaci supporti»5, ma «in una versione giustamente
involgarita»6, che rende vitale una struttura che «riportata pari pari sullo schermo
sarebbe apparsa un po’ imbalsamata»7; e il quasi consecutivo La presidentessa orienta il
proprio interesse verso la satira politica, appoggiandosi, anititeticamente a Le pillole di
Ercole, sulla personalità degli attori, «bravi professionisti del brillante: una effervescente,
aguzza, spiritosa Mariangela Melato, un disinvolto Johnny Dorelli nella doppia parte del
ministro e del nipote, un Gianrico Tedeschi argutamente pittoresco»8.
Lo scambio degli amanti, il moltiplicarsi dei tradimenti amorosi, l’unione, la
dissoluzione e la riproposizione di nuove coppie, caratteristiche appariscenti di queste
commedie, non devono precludere l’analisi dei momenti satirici presenti in queste opere.
Ti ho sposato per allegria inserisce, in una struttura da commedia sofisticata9, un motivo
sociologico: l’attrazione di Pietro per una moglie dissennata ed estranea alle regole del
matrimonio borghese (non è una massaia, ma una sognatrice), che ama tanto più la
donna evidenzia la propria eccentricità. L’anatra all’arancia stravolge il finale della
commedia originale e ricomponendo la coppia di fedifraghi, Lisa e Ugo, compie «a modo
suo […] un inno alla famiglia e al matrimonio indissolubile»10. La presidentessa,
aggiornando la storia agli anni ’50 e ambientandola nel Veneto, ripropone atmosfera e
situazioni di Signore e signori (1966) di Pietro Germi (che era stato il regista della
precedente
versione
cinematografica
della
pochade,
nel
1952),
«vivacemente
intenzionato a sposare la vecchia pochade alla critica di costume»11, presentando una
«classe politica di erotomani»12.
L’aggiornamento avviene anche sul piano stilistico: all’eleganza di Ti ho sposato per
allegria fa seguito la maggiore licenziosità di L’anatra all’arancia e La presidentessa,
ricchi di scene sboccate e maliziose, di nudi femminili: quello di Barbara Bouchet, sempre
spogliata ne L’anatra all’arancia nel ruolo della segretaria Patty, è scultoreo e mostrato
2
Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p. 127
Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere…, cit., p.89
4
Ivi, p. 128
5
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., p. 227
6
Marco Giusti, Dizionario del cinema italiano…, cit., p. 30
7
Ibidem.
8
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 252
9
«Salce […] ha spazzolato il suo stile, restituendogli il candore femminile che è proprio del
testo della Ginzburg. […] Ha inoltre rispettato l’eleganza verbale […] ha portato un tono nuovo
in un campo solitamente dominato da oscenità da caserma» (F. Rinaudo, Film Mese, 8/9
settembre 1967 in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema…, cit., vol. 3, p. 546)
10
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini 1999, Zanichelli, Bologna, 1998, p. 71
11
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 252
3
2
con una disinvoltura che le permette di ritagliarsi «uno dei suoi migliori ruoli in
assoluto»13. La ricerca di un ritmo cinematografico che spezzi la staticità teatrale è alla
base dei flashback di L’anatra all’arancia, «fragili inserti grotteschi (dove i protagonisti,
sicilianizzati, immaginano di vendicarsi con la lupara sul coniuge fedifrago)»14 che, come
in alcuni precedenti film di Salce (La voglia matta, Basta guardarla) spezzano il tono della
vicenda, rivelandosi un corpo estraneo all’intreccio. Ma anche Le pillole di Ercole
contenevano delle scene oniriche (le allucinazioni di Manfredi in preda all’effetto delle
pillole), che mostravano la volontà dell’esordiente Salce di padroneggiare i mezzi
espressivi del cinema.
Perfettamente padrone dei meccanismi del racconto, Salce è pronto nel 1980 a
scriversi e dirigere Rag. Arturo De Fanti bancario precario, in cui mette a punto la
geometricità della struttura, adattandola alla recitazione grottesca del protagonista Paolo
Villaggio. Il gioco delle coppie delle commedie
condotto
al
limite
estremo:
degli
equivoci,
in
questo film,
è
ogni personaggio è legato sessualmente ad un altro, in
una catena che segue il principio del domino. C’è il marito (Arturo De
Fanti), la moglie (Elena, Catherine Spaak), l’amante del marito (Vanna, Anna Maria
Rizzoli), l’amante della moglie (Willy, Gigi Reder), la moglie dell’amante della moglie
(Selvaggia, Anna Mazzamauro), l’amante della moglie dell’amante della moglie (il conte
Ernesto, Paolo Paoloni), il marito dell’amante del marito (Libero, Carlo Giuffrè).
L’interlinearità dei rapporti era ben esplicitata nella frase di lancio del film: «Per la
soluzione dei vostri problemi Paolo Villaggio vi consiglia la comune: la moglie, l’amante
del marito, l’amante della moglie del marito e…l’amante della moglie dell’amante della
moglie del marito»15. Più che alla conoscenza di Labiche (facile autore di riferimento cui
rimanda erroneamente Paolo Mereghetti16), Salce si rifà a quella di Achille Campanile:
Rag. Arturo De Fanti bancario precario è un gioco di parole visivo, un rebus, una tavola di
parole incrociate: i rapporti tra i personaggi sono evidenziati da didascalie che li
presentano durante un fermo di fotogramma (es.: “il marito”). La stilizzazione raggiunge
in quest’opera il vertice massimo: tutti gli amanti sono riuniti in un’ambientazione
unitaria (il castello di De Fanti, eredità familiare, funge da palcoscenico) - con pochi
intermezzi in banca ed uno nel cabaret, dove si rappresenta «La bottega del carnefice» –
anticipando da subito il momento culminante che chiudeva le pochade: gli scambi delle
coppie, con agnizioni finali e ribaltamenti dei ruoli in un luogo chiuso (un albergo come in
Le pillole di Ercole, una villa come in La presidentessa); il contesto sociale (gli anni di
12
Ibidem.
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 30
14
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 227
15
MarcoGiusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 640
16
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti, Baldini & Castoldi.
13
3
piombo, degli scippi e delle rapine in banca quotidiane) è rapportato, con rapide
notazioni, all’intreccio principale; gesti, azioni e situazioni assumono i significati di un
rituale: le entrate e le uscite degli amanti dalle rispettive camere da letto, la cameriera
Esmeralda che si deve alzare presto perché il giorno dopo ha «tanti programmi da vedere
in Tivì», il gruppo degli amanti che, sfiancato dal gioco delle coppie, guarda la sera i
programmi televisivi (momento ricorrente nei film di Salce, l’attrazione magnetica della
televisione, da La cuccagna a Le ore dell’amore a Basta guardarla) e soprattutto l’ultima
inquadratura, in cui la rappacificazione familiare (la famiglia allargata torna a restringersi
a dimensioni normali: moglie, marito e cameriera come terzo incomodo) è espressa col
movimento sincronizzato con cui i tre personaggi si portano alla bocca la tazza di caffè.
L’intricatezza dei rapporti giunge all’astrazione: i personaggi di Rag. Arturo De Fanti
bancario precario chiacchierano, discutono, analizzano i loro rapporti personali e sessuali,
ma non concretizzano niente: il chiacchiericcio e i sotterfugi sommergono la possibilità di
vivere pienamente i nuovi incontri amorosi.
Quattro anni dopo, Vediamoci chiaro (1984), tenta una nuova riproposizione
cinematografica di antichi schemi teatrali. Il film è «una sorta di Profumo di donna molto
più ambiguo, a metà tra l’Enrico IV e Il fu Mattia Pascal pirandelliani»17: «il cieco Johnny
Dorelli […] riacquista la vista ma continua a fingersi cieco per veder meglio le brutture
che lo circondano»18. Dorelli è Alberto Catuzzi, imprenditore televisivo sul modello
berlusconiano (è il padrone del canale televisivo Rete 99 Tele Italia Network), che,
divenuto temporaneamente cieco a causa di un incidente automobilistico, «un bel giorno
[…] ha modo di scoprire gli inganni e i tradimenti della moglie
e del socio, e di
smascherare il doppio gioco di Eleonora, che gli fa gli occhi dolci e lo spia»19. Riacquistata
la vista, Alberto, simulerà la propria cecità per trovare il momento adatto a svelare la
verità e fuggire con Eleonora, con cui s’è riconciliato.
L’impostazione teatrale del film è evidente: l’intreccio fondato sulla finzione,
l’apparenza, gli inganni, i tradimenti; i personaggi che recitano la propria parte, invece di
agire, come in Rag. Arturo De Fanti bancario precario. L’architettura narrativa è molto
elaborata, anche se non intricata come nel film con Villaggio. Scritto da Franco Bucceri e
Roberto Leoni (che già avevano redatto la sceneggiatura di Vieni avanti cretino),
Vediamoci chiaro ostenta la propria morale in una battuta di Alberto: «Io ho visto. Ma
adesso non voglio più vedere. Perché non bisogna mai guardare quello che gli altri non
vogliono tu veda». A differenza delle precedenti pochade, Vediamoci chiaro è una
commedia morale: è il suo pregio e anche il suo limite. Il messaggio del film non diventa
17
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 91
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.152
19
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985, p. 95
18
4
mai rappresentazione, ma si enuncia in lunghi dialoghi talvolta asfittici e banali, che
rallentano il ritmo. E’ un «film piuma un po’ stanco e insidiato da qualche lentezza,
afflitto da capocciate, ruzzoloni, e pubblicità di sigarette, ma che dice la sua moraletta
con lieta amarezza»20. I momenti più felici sono quelli più meccanici, i giochi degli
equivoci: la figlia Monique che fa l’amore davanti al padre Alberto che non la può vedere,
lo squallido ricovero per ciechi presentato ad Alberto come un luogo idillico.
Nonostante le situazioni pirandelliane, Vediamoci chiaro frequenta gli stessi salotti
eleganti, la stessa società borghese del sottogenere delle commedie sofisticate. Ne è
l’estrema propaggine: è infatti l’ultimo film di Johnny Dorelli, protagonista di questo
filone, ormai
pronto a contaminarsi con la comicità televisiva dei film di Vanzina e
Parenti. Più che alla problematica metafisica di Pirandello, Vediamoci chiaro si rifà al
pirandellismo di Aldo De Benedetti, che dello scrittore siciliano sfruttava le strutture
formali. E’ comunque un film profondamente salciano: lo testimoniano le lunghe
inquadrature dedicate al viaggio in barca di Catuzzi con Eleonora, dove regna
un’atmosfera lieta che ricorda come i momenti più felici della sua vita Salce li
trascorresse navigando; i personaggi non sono osservati con complicità, ma con
sarcasmo, mostrando così tutta la distanza tra questo film e le commedie neosofisticate:
«benché, arrivato al trentaseiesimo film, Salce sembri aver ammorbidito la sua vena
sarcastica, il moralismo che gli è connaturato stavolta si esprime con l’amena
indignazione di chi, volendo veder chiaro nella natura dell uomo, prima se ne ritrae
inorridito e poi trova conforto nella forza dell’amore»21.
In fondo Vediamoci chiaro è l’ultimo sguardo che Salce presta alla famiglia borghese,
ai suoi problemi amorosi, alla difficoltà della vita di coppia. Ricollegandosi a La voglia
matta e Le ore dell’amore, questo gruppo di commedie di derivazione teatrale e
parateatrale, non fanno altro che mettere in scena le fobie sessuali e le difficoltà
sentimentali delle coppie borghesi. Utilizzano la farsa invece della satira di costume, ma
l’ideologia è la stessa e talvolta anche gli attori: Tognazzi, protagonista di La voglia matta
e Le ore dell’amore torna in L’anatra all’arancia; Catherine Spaak la ritroviamo in Rag.
Arturo De Fanti bancario precario; Monica Vitti è la protagonista sia di Ti ho sposato per
allegria che de L’anatra all’arancia; Johnny Dorelli, oltre che di Vediamoci chiaro, anche
de La presidentessa.
L’amore
per
essere
veramente
appagante
deve essere
libero:
libero da
conformismi, da moralismi, da riti consumistici. Possono essere delle miracolose pillole
afrodisiache a liberare l’uomo dalla propria rigidità morale e intellettuale. La libertà di
pensiero e il comportamento anticonformista di un personaggio possono recuperare
20
21
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p.96
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p. 96
5
rapporti che sembrano impossibili da mantenere (Giuliana nei confronti di Pietro in Ti ho
sposato per allegria) o svelare la corruzione dietro la facciata perbenista (la ballerina
Yvette in La presidentessa). Anche i tradimenti reiterati possono generare sazietà e
voglia di tornare ad un regolare rapporto matrimoniale (Lisa e Ugo in L’anatra all’arancia,
Arturo ed Elena in Rag. Arturo De Fanti bancario precario). Spesso queste storie si
chiudono con un matrimonio o con una ritrovata serenità tra i coniugi fedifraghi. Ma il
conformismo delle soluzioni, dopo tante situazioni anticonformistiche, non è tanto di
Salce, quanto proprio della commedia. Lo provano due finali “diversi” come quello de Le
ore dell’amore (i coniugi che tornano a fare gli amanti) e di Vediamoci chiaro (Alberto
lascia la famiglia e scappa con un’assicuratrice). Il regista non pone messaggi (quando lo
fa, in Vediamoci chiaro, indebolisce il racconto): osserva e racconta i suoi personaggi e i
fatti compiuti. Manifesta il proprio amore per la paradossalità, nelle battute e nelle gag,
fatte di annotazioni fulminee (in Rag. Arturo De fanti bancario precario, ogni volta che De
Fanti alza le mani in alto, durante le rapine, strappa le camicie ed il banchiere, come in
uno spot pubblicitario, gli suggerisce di cambiare candeggina). Costruisce con leggerezza
sequenze volgari, come quella ne L’anatra all’arancia, in cui Ugo simula un amplesso con
la propria segretaria Patty per ingelosire la moglie Lisa. I problemi di coppia, i rapporti
d’amore, lo interessano profondamente. Rifarsi agli schemi teatrali, per raccontarli, gli
consente di superare i propri problemi nella costruzione degli intrecci (difetti di
frammentarietà, soprattutto).
Capitolo 7. «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio»: lo spettacolo
popolare
(Vieni avanti cretino)
6
Dopo la sigla iniziale della casa di produzione, si susseguono sullo schermo, su sfondo
dorato, come
titoli di testa, i nomi di Marlon Brando, Bo Derek, John Travolta. Una
leggera carrellata all’indietro ne rivela la natura di targhette posizionate sulle porte dei
rispettivi camerini. Una panoramica circolare verso destra, contemporanea alla carrellata
all’indietro, rivela la posizione in sequenza dei camerini, la loro rifinitura lussuosa: porte
in legno di mogano, tendaggi a mantovana sugli stipiti, candele appese sui muri,
poltrone. La panoramica continua fino a rivelare un’altra porta in legno, stavolta
riverniciata di bianco, con la maniglia rotta e pendente verso il basso ed un pezzo di
carta, appuntato sul battente, con sopra scritto Lino Banfi. La porta si apre e la mdp si
sofferma sulla soglia, inquadrando frontalmente l’attore che sta sorseggiando un
bicchiere di scotch, con lo sguardo rivolto verso l’obiettivo:
Scotch, scotch! Roba alla grande, ragazzi. Eh, ve l’aspettavate voi qualcosa del genere? Bella,
bellissima. Certo, il mio camerino non è all’altezza del loro, ma loro sono dei grossi divi americani.
Che ci vogliamo fare: non è questo che conta. E’ il lavorare con questa gente di Hollywood, di
Beverly Hills – squilla il telefono, Banfi risponde – Yes, Hollywood? I du du du du. Mister Banfi,
yes…Come? Ah, Bo Derek e Marlon Brando non vengono più. Perché? Ah…Bo Derek è scappata con
Tarzan, nella giungla. E Marlon Brando? Because? Because…s’è ingrassato 240 chili: non entra più
nel jumbo jet. Ma non è carino questo, madame. Glielo dica a Mister Brando. Il signor Salce è
molto arrabbiato, sa? Poi lui col signor Salce, in Italia, non lavora più. Com’ha detto Brando?
Ah…ringrazia. Va bene, va bene…okay, okay. E Travolta? Ah, non si sa se viene. E come sarebbe a
dire, non si sa!! Mi scusi tanto, signorina, no, io grido, perché, no…no…viene o non viene?! Vabbè,
venga o non venga, non me ne frega niente. Anzi, manco lo volevo nel film mio. Ce lo dica papele
papele a questo signor Travolta, che a me manco mi piace, che deve essere anche uno malaticcio e
mezzo pazzo, che il sabato sera s’imbrieca e poi ci viene la febbre. Anzi, sa cosa ci diciamo, noi
italiani, a questi divi che non vogliono venire qua? Go to day kill! Andate a morire ammazzeti. –
riattacca – E mi sono sfogato! E che roba è! Non si fanno queste cose! Abbiamo speso 87 milioni
per fare quei camerini, tutti lussuosi, tutti belli hollywoodiani…e a me che mi hanno rinchiuso qua
dentro, in questa cosa brutta, schifosa, che sembra un cesso. Che sembra…no, che sembra. Che è:
è un cesso – lenta carrellata all’indietro a scoprire l’arredamento della stanza: Banfi è seduto sul
water. Si alza, la mdp indietreggia – Meno male che c’è Luciano Salce: Luciano Salce è una persona
squisitissima, con lui lavoro veramente volentieri. S’è creata una specie di simbiosi, tra me e
Lucieno, chè la fine del mondo. Veramente. Poi vedrete. Perché ha capito la mia provenienza, la
mia cultura, la mia intelligenza…
Voce di Salce (fuori campo): - Vieni avanti, cretino!
Partono i titoli di testa, sulle note della canzone che dà il titolo al film:
Il Padre Eterno quando fece il mondo, / lo disegnò quadrato, però gli venne tondo/ e poi sbagliò
dell’uomo il modellino,/ il primo venne dritto, ma l’altro un po’ cretino./ Se tu sei cretino lo sai solo
tu,/ quando uno è scemo, è scemo pure nel Perù./ Il Padre Eterno, allora, un po’ sudato/ si tolse lo
stivale e fece il nostro stato/ ed erano ottocento cittadini/ seicento deputati e duecento cretini./ Lo
dice il padrone al contadino:/
Oh… oh… vieni avanti cretino!/ Risponde l’operaio al
suo padrone:/ Oh, oh, oh, oh…vieni avanti frescone!/
Sì, sì è proprio così, oh, yes, ja, mais oui…
Nei quattro minuti del prologo di Vieni avanti cretino è condensato tutto il cinema di
Salce: il piacere di giocare con il cinema, i rimandi immediati all’attualità (la satira
spicciola sullo spettacolo), i riferimenti alla comicità dell’avanspettacolo, la centralità
dell’attore nelle sequenze, la perfetta scansione dei tempi comici nella costruzione della
gag (in questo caso la scoperta della vera natura del camerino di Banfi).
2
Vieni avanti cretino non ebbe successo di critica: Banfi, che lavorando con Salce
pensava di «rifarsi una verginità»1 dopo anni di commedie con Vitali e la Fenech, fece
notare, nella sua autobiografia, che alla morte di Salce, quando sui giornali apparvero le
filmografie del regista, Vieni avanti cretino non venne nemmeno citato2. Ebbe però
successo di pubblico, superando la quota dei tre miliardi d’incasso, nel 1982.
L’itinerario di Pasquale Baudaffi (Banfi), alla ricerca di un lavoro e di un rapporto
d’amore, quindi del senso della vita, è l’occasione che Salce offre a Banfi di mostrare
tutto il suo repertorio: un’operazione identica a quella che Steno fece con Totò per Totò a
colori. In Vieni avanti cretino, Banfi strabuzza gli occhi, si picchia in testa, corre, salta,
balla e canta vestito da spagnolo, si mostra nudo, in mutande, nascosto dietro veli
femminili trasparenti, robotizzato, prende in testa schiaffi e piatti, si accoppia con una
donna giunonica, trovando, finalmente, l’amore di una vita.
E’ riconoscibile lo sforzo di riaggiornare gli sketch dell’avanspettacolo – fin dal titolo,
che riprende una battuta dei fratelli De Rege, poi ripresa anche da Walter Chiari e Carlo
Campanini - al gusto contemporaneo, facendo affidamento su un attore, Lino Banfi, dalla
maschera molto popolare, quindi adatta a quel tipo di comicità immediata. Una comicità
non molto elegante, basata sul doppio senso (che in Vieni avanti cretino raggiunge livelli
virtosistici nella lunga sequenza in cui Banfi scambia uno studio dentistico per un
bordello), sulla meccanicità degli equivoci, sullo scambio di battute con la spalla (in
questo caso Franco Bracardi, non ancora pianista del Maurizio Costanzo Show),
sull’improvvisazione (per ovviare alla scarsa durata del metraggio, Salce e Banfi decisero
di aggiungere una scena improvvisata al momento, quella del dialogo tra i due pugliesi
con i sottotitoli in arabo).
Luciano Salce e Lino Banfi sono consapevoli di realizzare un film popolare, che soddisfi
i gusti del pubblico. Il particolare rivelatorio, che svela l’essenza stessa di Vieni avanti
cretino è un’esclamazione rivolta a Banfi da un personaggio del film: «La sua
soddisfazione è il nostro miglior premio». E’ come se l’emittente del messaggio fosse il
regista ed il destinatario, non solo Banfi-Baudaffi, ma tutto il pubblico che fruisce della
commedia.
Già dal punto di vista stilistico Vieni avanti cretino evidenzia rimandi al filone «mediobasso comico»3 di fine anni ’40, di grande successo popolare, caratterizzato da
«progressiva disarticolazione del racconto […] a segmenti legati per paratassi, che
consentono allo spettatore un’attenzione indipendente verso le varie parti ed un continuo
ritorno al punto di partenza, in quanto ognuno dei soggetti dell’azione gestisce, in
1
Cfr. Appendice: intervista ad Erico Menczer
Lino Banfi, Alla grande!, 1991
3
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit. p. 588
2
3
proprio, la sua storia senza grandi relazioni con gli altri. […] Questa logica valorizza le
battute, le barzellette, la creazione di una galleria ricchissima di macchiette e di
personaggi che si specializzano nell’interpretazione di certi tipi e figure».4
La struttura di Vieni avanti cretino è poco articolata: una serie di sketch, legati da un
filo conduttore, il reinserimento in società di Pasquale Baudaffi (Banfi), uscito di prigione
per un reato che non ha commesso. L’inserimento del racconto in una cornice
metacinematografica, chiarifica subito la volontà di lavorare sui meccanismi comici: al
prologo già raccontato, corrisponde, infatti, un epilogo in cui Banfi, soddisfatto della
riuscita del film, chiede a Salce un giudizio critico sulla sua recitazione, ricevendo come
risposta una scarica di torte in faccia da un gruppo di uomini, schierato come un plotone
d’esecuzione.
Alcuni episodi sono basati sull’equivoco: verbale (il dialogo tra Pasquale e la cognata,
con il cugino Gaetano che, alle spalle della donna, suggerisce le parola) o visivo (la
sequenza dell’ufficio di collocamento, costruita in crescendo, dove un direttore moralista
che odia gli omosessuali si trova di fronte Pasquale vestito di abiti sempre più femminili
ed in pose sempre più compromettenti: con i tacchi a spillo, vestito di velo di fronte a un
monsignore, infine con le mutande calate). Altri sono poco più di barzellette: l’esame di
ornitologia, il furto nel garage. I più costruiti sono gli episodi in cui Banfi mette in mostra
il proprio corpo reificato, in cui i movimenti sono sfasati, irrigiditi o gommosi, il ritmo
accelerato, le espressioni grottesche: la sequenza, fondata sul gioco degli equivoci, in cui
fa il cameriere al bar; quella, apocalittica, della fabbrica futuristica, in cui, alienato dai
compiti di lavoro assegnati da un direttore nevrotico cha fa strani gesti, perde la testa e
ripete gli stessi gesti del direttore, compresa la sua frase preferita, sopra citata: «La sua
soddisfazione è il nostro miglior premio».
Vieni avanti cretino esibisce in ogni suo aspetto lo spirito popolare con cui è stato
realizzato: la presenza di attori secondari fortemente caratterizzati (Jimmy il Fenomeno
nel ruolo dello scemo Raffaele, Mireno Scali sosia di Benigni, il manesco Nello Pazzafini);
quella di giovani attrici piacenti, come Adriana Russo e, soprattutto, Michela Miti, che
recita praticamente nuda; l’impianto scenografico poveristico, in interni spogli e
convenzionali, probabilmente voluto, perché perfettamente in tono con il racconto; e poi
le citazioni della cultura popolare: dai divi americani del prologo, alla vecchia “talpa”
carceraria Faina, analoga all’abate Faria del Conte di Montecristo, che Antonio Gramsci
considerava l’esempio del «tipo di romanzo che piace “certamente al popolo”»5.
Lo spettatore è posto dagli autori in condizioni di superiorità rispetto al protagonista.
Pasquale Baudaffi è un uomo comune molto mediocre. Fisicamente è brutto,
4
5
Ibidem.
Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 122
calvo e
4
basso.
Socialmente
è
un miserabile: disoccupato, appena uscito di prigione. Ha un
quoziente d’intelligenza piuttosto basso: è stato arrestato perché, davanti ad una banca,
ha riconsegnato, ad un uomo che ne usciva «frettoloso e freddoloso» (portava un
passamontagna nel mese di luglio), una valigia che aveva perso, aggredendo due
«tranvieri» (in realtà poliziotti) che volevano impedireglielo. Il racconto del suo arresto,
fatto da Baudaffi al cugino, è una sequenza che ne ricorda analoghe di comici come Totò
(che in Totò a colori descriveva un capostazione come «quel colonnello in borghese col
cappello in divisa») e Franchi e Ingrassia (che in Indovina chi viene a merenda, 1965, di
Ciorciolini, prendevano un carro armato per un trattore, poiché l’avevano trovato di
fronte ad una trattoria). L’equivoco, più che verbale, è mentale: la logica del comico è
altra rispetto a quella comune. Il personaggio di Banfi, in Vieni avanti cretino, è di una
stupidità molto accentuata: più simile a Franco Franchi che a Totò.
In questo modo, quando Baudaffi incontra i suoi datori di lavoro, la propria mediocrità
lo costringe in situazioni difficili, da cui spesso esce sconfitto, ma sempre incolume, e
qualche volta moralmente vincitore, poiché il comico è indistruttibile. Lo spettatore è
soddisfatto nel vedere condivise sullo schermo le difficoltà del quotidiano ed ancor più lo
è quando il protagonista mostra le possibilità di rivalsa.
Ne è un esempio l’esame di ornitologia, in cui l’esaminatrice-virago costringe Baudaffi a
riconoscere le specie degli uccelli mostrandogli solo la coda. Il poveretto, naturalmente, è
bocciato, ma la sua vendetta finale evidenzia tutta la follia nascosta sotto la normalità
della sua interlocutrice: quando questa gli chiede le generalità, Baudaffi si mette una
scopa tra le gambe, dimena il posteriore e le impone di indovinarle.
La chiave di lettura del film ce la offre la canzoncina dei titoli di testa: il mondo è
diviso in cretini ed oppressori, ma il limite della stupidità è indefinibile, ed il ritornello
finale lo ricorda prontamente. Gli episodi di Vieni avanti cretino sono l’esemplificazione di
questa ideologia: il cretino Baudaffi ad ogni incontro con un nuovo padrone-oppressore,
ne mette in mostra la stupidità fino ad allora abilmente camuffata. Quella del dottor
Thomas, che nasconde la propria alienazione dietro l’impassibilità e la gentilezza del
comportamento. Quella del direttore dell’ufficio di collocamento, con la sua fobia per gli
omosessuali. Quella, infine, dei nobili spagnoli che, alla festa di una baronessa,
scambiano il cameriere Baudaffi, mandato da Gaetano, per un cantante spagnolo
chiamato “El Gitano” ed ascoltano ispirati, la sua canzone improvvisata, Filomeña:
Filomeña muy hermosa/ è scappata da Canosa/ Filomeña “galopera”/ è passata da Lucera/ e
con todo el mi turmiento/ l’ho cercada nel Salento/ una noche pien de pioggia l’hanno vista pure a
Foggia/ jo me soy desperado/ però no me soy sparado/ sono pieno de libido/ arrapeto ed ingrifido/
e anche un po’…rincoglionido!/ L’ho cercada fino a ieri puro dai carabinieri/ Filomeña donde està?/
chi lo sas, chi lo sas/ L’ho cercada l’alma mia/ puro dalla polizia/ donde està, Filomeña donde
està?/ chi lo sas, chi lo sas/ l’ho cercada, o mi amigos/ negli uffici della Digos/ donde està,
Filomeña cosa fas?/ chi lo sas, chi lo sas/ Forse è andata giù a Sanremo/ ma che cacchio ne
sapemo/ forse al lago de Comacchio/ noi nun ne sapemo un cacchio/ Filomeña, donde estas,
5
Filomeña?/ Cosa fas Filomeña?/ jo lo sé cosa fas Filomeña/ e porqué non me l’has digos primas?/
Filomeña…fa la puteña!!!6.
La classe dirigente è attaccata frontalmente, senza sfumature, con le invettive della
rabbia popolare, puntando, nel caso, anche sul turpiloquio e l’equivoco greve (Banfi,
vestito di velo, si scontra, nello studio del direttore dell’ufficio di collocamento, con un
vescovo e, per scusarsi, comincia a parlare di un «rinculo»). La satira politica è ottenuta
con i facili meccanismi della farsa – la baronessa spagnola è gettata nella sua torta di
compleanno – ma, l’effetto – la rivelazione della stupidità dei potenti – è comunque, per
lo spettatore, consolante.
Con i suoi grevissimi doppisensi e con le sue ballerine smandrappate, l’avanspettacolo costituiva
una sfida permanente al moralismo e al perbenismo borghese, e infatti le autorità ecclesiastiche lo
condannavano senza remissione, sconsigliandone la visione “a tutti”; la sua riduttività
qualunquistica e vernacolare incarnava inoltre l’irriducibilità all’inquadramento di un paese
storicamente frazionato e sospettoso di qualsiasi autorità centrale7.
L’identificazione di Vieni avanti cretino con l’avanspettacolo è totale e più profonda di
una riproposta di celebri scenette di repertorio: ne
eredita
la
stessa
natura di
spettacolo popolare. Se l’avanspettacolo era «la versione povera e plebea» della rivista,
Vieni avanti cretino è la versione povera e plebea della commedia all’italiana. E dunque
conserva quella vitalità, sanguigna e volgare, negata alla convenzionalità della commedia
neosofisticata degli anni ’80. Esito paradossale di un’operazione concepita «come una
celebrazione ufficiale del comico – Lino Banfi – e la sua immissione in una commedia di
serie A come unico protagonista dopo anni di piccoli ruoli e film minori»8.
Per verificare la veridicità di questa affermazione basta osservare il modo in cui Salce
risolve, in Vieni avanti cretino, la storia di Pasquale Baudaffi: con un lieto fine amoroso
che è la negazione dei buoni sentimenti e del conformistico ideale di “kalòs kai agathòs”
delle commedie dell’epoca. Ridotto ad un barbone, Pasquale trova, improvvisamente,
accoglienza e amore
tra
le
braccia
tornite,
i seni gelatinosi
ed i fianchi opulenti
dell’enorme Palmira, donna assetata di sesso – perché evidentemente anche lei, come
Pasquale,
lungamente
astinente
–
cui
l’attrice e cantante Luciana Turina presta il
proprio grasso corpo . Due sgraziati individui di mezza età trovano, ad un passo dalla
disperazione, il piacere di soddisfare pienamente i propri appetiti sessuali. La fisicità della
loro immagine – lui in vestaglia e con una cintura sulla fronte a mo’ di bandana, lei in
body, con il grasso che sembra volerle uscire da tutte le parti – è tanto aggressiva da
oltrepassare, volutamente, i limiti del cattivo gusto. Il sentimento amoroso nasce in
6
Testo raccolto in Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., p. 16
D’Amico, La commedia…, cit., p.27
8
Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.835
7
6
qualsiasi individuo, non soltanto chi sembra fisicamente predisposto: è questo il
messaggio ultimo e più soddisfacente, per il suo pubblico, di Vieni avanti cretino.
Postilla
Tutti i testi, dizionari ed enciclopedie che hanno analizzato l’opera di Luciano Salce, nella
compilazione della filmografia del regista, hanno escluso Lo smemorato (1968), che è
rimasto così per molto tempo un film misteriosissimo. In realtà Lo smemorato è
un’operazione di montaggio dei due episodi di Oggi, domani, dopodomani diretti da De
Filippo e Salce e rimasti orfani di quello di Ferreri, L’uomo dei cinque palloni, rimontato in
lungometraggio con il nuovo titolo di Break-Up. L’operazione è tanto bislacca da essere
artisticamente ingiudicabile (e forse è davvero preferibile passarla sotto silenzio), ma
quantomeno è decisamente curiosa. Con un prologo girato ex-novo, per le strade di
Roma e nelle stanze di un commissariato, il film inizia dove finisce La moglie bionda:
Michele, venduto agli arabi dalla moglie, riesce a fuggire, nudo, per le strade di Roma. Da
questo momento la storia è raccontata in flashback, utilizzando i due episodi sopracitati,
diluiti e smussati di tutta la loro carica satirica in questa struttura similpoliziesca. L’abilità
delirante è di dare un passato al personaggio di Michele, combinando i diversi
cortometraggi, tanto differenti per ambientazione e soggetto, provocando scompensi e
salti temporali da acrobati della sceneggiatura.
7
PARTE TERZA: PASQUALE FESTA CAMPANILE
Capitolo 1: un affabulatore di storie dallo stile compatto.
«Pasquale Festa Campanile ha avuto un “curriculum” intenso e vario, svolto sempre a
passo di carica, nel quale non è facile orientarsi. La sua professionalità e i suoi interessi
lo facevano passare dalla letteratura al cinema, dalla sceneggiatura al teatro, alla
televisione, ma il fatto che egli tra l’inizio e la fine della su attività […] possa annoverare
precisi riferimenti qualitativi, come tante “perle” di cui si può parlare senza imbarazzi, è
la prova di una tenuta professionale che ha cercato di restare sempre sullo stesso
livello».1 Così scrisse Zocaro, ad un anno dalla morte del regista, tracciando un primo
bilancio della sua carriera.
La fortuna critica di Pasquale Festa Campanile è divisa tra chi lo ha stroncato senza
ritegno
(Mereghetti,
Argentieri)
ritenendolo
un
puro
confezionatore
di
opere
parapornografiche, chi lo ha criticato con pudore, intimorito dal suo passato di scrittore e
di sceneggiatore di film di qualità (Morandini), chi ne ha seguito con interesse il percorso,
poco esteso cronologicamente, ma molto intenso (Miccichè e, soprattutto, Grazzini):
giudizi come «regista corrivo, ha sprecato una bella intelligenza e un talento autentico»2
o «Festa Campanile era un intelligente che si buttava via»3 proliferano nella letteratura
critica dedicata al regista.
Quella
di
Festa Campanile
è
un’opera
sottovalutata
in
tutti
i
suoi
aspetti:
cinematografici, letterari e teatrali. Ricorda giustamente Michele Prisco che
Nella bibliografia di Pasquale Festa Campanile La nonna Sabella, ch’è poi il suo primo libro, è
senza dubbio il romanzo che ha convogliato su di sé i maggiori consensi critici: non
vogliamo dire, con questo, che la successiva produzione dello scrittore – non abbondante, a
tutt’oggi, ma assai ravvicinata nei tempi di pubblicazione, dopo un intervallo d’anni da quel lontano
esordio prolungatosi sino a far pensare quasi a un abbandono, da parte dell’autore, dei primari
interessi per i più redditizi sentieri del cinema – abbia ricevuto accoglienze più tiepide, e tuttavia un
dubbio sembra insinuarsi (e si fa credibile, e magari malizioso), e cioè che sul giudizio del narratore
Festa Campanile abbia a un certo punto pesato e forse nuociuto giusto il giudizio sul regista Festa
Campanile, anche troppo prolifico questi, e spesso discontinuo, così da passare disinvoltamente da
opere impegnate ad altre di pura evasione e più dichiarato consumo, sin nella scelta dei titoli, non
sempre felici, quando non al limite della caduta di gusto.4
Affermazione perfettamente condivisibile (e testimonianza dell’approccio critico al
regista Festa Campanile), se è vero che, il giorno dopo la morte del cineasta, apparve sul
quotidiano La Repubblica un articolo in cui La nonna Sabella era considerata una
«raccolta di bozzetti» e gli altri romanzi «fruibili, digeribili, scritti per essere trasposti».
Sul regista Pasquale Festa Campanile i giudizi lesivi, sarcastici e ironici sono ancora più
1
Ettore Zocaro, Un esempio di grande professionalità, in Sipario, dic. 1986, p. 11
Alfredo Baldi, Pasquale Festa Campanile, in Fernaldo Di Gianmatteo, Nuovo dizionario
universale del cinema, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 436
3
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1000
4
Michele Prisco, Postfazione, in Pasquale Festa Campanile, La nonna Sabella, Bompiani,
Milano, 1983, p. 235
2
1
evidenti: veniva chiamato il «regista-miliardo», poiché era stato l’artefice di alcuni dei più
grandi successi di pubblico del nostro cinema (Qua la mano, il primo film a sfondare, nel
1980, il muro dei dieci miliardi d’incasso, e poi Culo e camicia, Nessuno è perfetto, Bingo
Bongo, Un povero ricco); il critico Stefano Reggiani affermò che «faceva i film per
telefono»5, poiché si diceva che non partecipasse all’edizione dei suoi film, avendone in
produzione altri da girare.
Un’affermazione del critico letterario Carlo Bo consente di osservare l’opera di Festa
Campanile (senza disgiungere il momento letterario da quello cinematografico, che, anzi,
formano un corpo unico) secondo un’angolazione nuova, capace di rivelarne i meccanismi
fondanti della sua attività di narratore: «Festa Campanile […] è un narratore svelato,
senza segreti, che rifugge dalla trama dei calcoli presuntuosi e inutili».6 Proprio partendo
dagli ultimi romanzi pubblicati, Per amore, solo per amore (storia di Giuseppe, padre di
Gesù) e La strega innamorata (storia d’un amore impossibile, nella cornice secentesca di
San Martino al Cimino, tra la strega Isidora e papa Urbano VIII), è possibile, con effetto
retroattivo, ritrovare una linea di coerenza molto forte nella produzione di Pasquale Festa
Campanile: il gusto di raccontare storie di personaggi comuni alle prese con aspetti
abnormi della realtà, osservati con atteggiamento minuziosamente psicologico, attento
alla contingenza quotidiana.
La difformità tra i personaggi ed il mondo circostante
provoca la nascita delle situazioni umoristiche, senza escludere l’intervento della
tragedia: il ladrone Caleb incontra fatalmente, durante i suoi vagabondaggi, Gesù e
muore accanto a lui sulla croce (Il ladrone), il disoccupato Spartaco è costretto a
travestirsi per trovare lavoro ed un affetto disinteressato (Più bello di così si muore), il
violinista Niccolò Vivaldi è talmente avvinto della propria scarsa personalità da finire in
manicomio (Il merlo maschio).
Già nel 1957, l’apparizione del suo primo romanzo, La nonna Sabella, aveva
manifestato le qualità di un narratore capace di «costruire un vero e proprio romanzo
servendosi della memoria più come d’una struttura narrativa che d’una poetica da
recuperare dopo la sua inevitabile estenuazione. La nonna Sabella è il romanzo di una
donna ma è anche il romanzo di un mondo di provincia rappresentato nei suoi miti e riti
ricorrenti proprio mentre sta ormai per trasformarsi sotto la spinta di un improvviso e
rapido cambiamento di costume».7 Nel tratteggiare il ritratto della protagonista del
romanzo, Festa Campanile profonde a piene mani nella memoria autobiografica (la
famiglia protagonista si chiama Festa e vive a Melfi, paese dove lo scrittore e regista era
nato il 28 luglio del 1927), riuscendo a coniugarla con una sapiente ricostruzione storica,
5
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 155.
Carlo Bo, Prefazione, in Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, Bompiani,
Milano, 1983, p.8
6
2
tanto da permettere ad Emilio Cecchi di affermare che «Festa Campanile ha scritto con
La nonna Sabella il libro che – riguardo alla storia del meridione italiano – non scrissero
romanzieri e storici di consumata esperienza, e che per giunta sarebbero stati in tempo a
largamente valersi di testimonianze dirette…La parte del libro che narra il passaggio dal
Mezzogiorno al regno d’Italia, e relative delusioni proletarie, ha scorci assai efficaci. E
non è meno valido il racconto dei successivi decenni»8.
Del romanzo ne viene subito proposta una trasposizione cinematografica (1957),
diretta da Dino Risi, che riduce la storia ad un bozzetto e costringe il personaggio della
nonna Sabella in un tipo fortemente caratterizzato (la interpreta Tina Pica). Il film ha un
tale successo, di pubblico e di critica (vinse l’Ulivo d’oro al Festival del cinema comico di
Bordighera), da mostrare a Festa Campanile la strada da intraprendere, quella del
cinema, in qualità di sceneggiatore.
Aveva già tentato un approccio, nel lontano 1949, scrivendo con l’amico Massimo
Franciosa un dimenticato film di Roberto Bianchi Montero, Faddija (La legge della
vendetta), ma era tornato subito alla sua attività principale di giornalista (alla Rai) e
critico: redattore de La fiera letteraria, per cinque anni, sotto la direzione di Vincenzo
Cardarelli, autore di racconti e saggi apparsi su quotidiani e riviste, come Paragone.
Al cinema era tornato nel 1955, scrivendo, insieme a Franciosa, il soggetto e la
sceneggiatura di una commedia di Mauro Bolognini, Gli innamorati. Un anticipazione di
temi, tempi e modi narrativi messi a punto, l’anno dopo, nel film Poveri ma belli, scritto
ancora con Franciosa e diretto da Dino Risi. Da questo film in poi si distinguerà come
coerente osservatore, in sceneggiature tutte scritte con Massimo Franciosa, di «temi di
costume riferiti soprattutto alle fasce giovanili proletarie e piccolo-borghesi di un’Italia
provinciale e insieme avventurosa»9. Lo stile di Festa Campanile e Franciosa è visibile
nell’attenta calibratura narrativa, che intreccia varie storie parallele di personaggi
baldanzosi e vitalistici, nella maggioranza dei casi giovani e un po’ sprovveduti, in
ambientazioni storiche o contemporanee. La loro impronta è talmente forte da essere più
evidente di quella di registi dalla scarsa personalità (il Franciolini di Fernando I, re di
Napoli, che spreca, con una messinscena monocorde, una sceneggiatura ricca di trovate
sarcastiche e romantiche, il Petroni de La cento chilometri, l’Orlandini di Tutti innamorati)
o da influenzare l’orientamento stilistico dei registi con cui si legano più assiduamente:
Risi (Poveri ma belli, Belle ma povere, Poveri milionari, Venezia, la luna e tu), Zampa
(Ladro lui, ladra lei, Il magistrato), Bolognini (Gli innamorati, Giovani mariti, La viaccia)
e, soprattutto, Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo), cui forniscono due
7
8
Michele Prisco, Postfazione, cit., p. 236
Emilio Cecchi, La Fiera Letteraria, 19.1.1958
3
sceneggiature architettonicamente molto complesse (due strutture a mosaico, ricche di
personaggi, ambienti, situazioni, sbalzi temporali) e la loro sapiente capacità di narrare
storie meridionali.
Nel 1963, Festa Campanile e Franciosa, oltre a partecipare alla realizzazione di due
opere importanti come il film di Ferreri L’ape Regina e la commedia musicale, di Garinei e
Giovannini, Rugantino, esordiscono nella regia cinematografica con Un tentativo
sentimentale, opera che risente di influssi antonioniani e che riscuote scarso successo di
pubblico e di critica: «pur denso di motivi intellettualistici e di ambizioni esistenziali Un
tentativo sentimentale è un’operina decisamente convenzionale, appena riscattata da una
certa abilità di costruzione narrativa e da una discreta interpretazione»10. Con il film
successivo, Le voci bianche (1964), i due registi trovarono però il registro adatto alla loro
ispirazione: quello della commedia satirica. Le voci bianche, che segna la fine del
sodalizio tra Festa Campanile e Franciosa, contiene in nuce tutte le coordinate narrative
che
il
regista
lucano
svilupperà
progressivamente:
l’ambientazione
storica,
la
paradossalità dell’intreccio che racconta un caso limite, l’interesse per la tematica erotica,
il disegno umoristico di un protagonista ribaldo, insieme smargiasso e pavido,
l’attenzione alla cura fotografica, scenografica e dei costumi, il ritmo sostenuto impresso
al racconto. Le voci bianche rimarrà sostanzialmente l’unico successo unanime di critica
di Festa Campanile: per Miccichè, «uno degli episodi di fondazione della “commedia
all’italiana”
del
decennio»11,
per
Giacovelli
«un
gustoso
affresco
della
Roma
settecentesca»12.
Rimasto solo Festa Campanile sembra incerto sulla strada da prendere e tenta una
riduzione da un romanzo complesso e poco ispirato di Vasco Pratolini, La costanza della
ragione (1964), raccogliendo scarsi consensi. Col film successivo, Una vergine per il
principe (1965) torna alla commedia, di cui accentua i toni erotici, ispirandosi alla
tradizione toscana rinascimentale (Machiavelli, Bibbiena, Bruno, Ariosto) al suo gusto per
la beffa ed i maliziosi doppi sensi erotici. Da allora rimarrà sempre nel genere; proseguirà
nella seconda metà degli anni ’60 con una serie di commedie «che giocano con ironia
sulle italiche manie sessuali»13, bersagliando con le armi del paradosso i problemi nei
rapporti di coppia: Adulterio all’italiana (1966), La cintura di castità (1967), Il marito è
mio e l’ammazzo quando mi pare (1968), Dove vai tutta nuda? (1969), Con quale amore,
con quanto amore (1970). Ogni tanto si permetterà qualche divagazione – la favola
9
Arianna Guarnieri, Pasquale Festa Campanile, in Dizionario critico della letteratura italiana
del Novecento, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 320.
10
Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p. 72
11
Ibidem.
12
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61
13
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.140
4
bellica La ragazza e il generale (1967), le fantasie preistoriche ed anticapitalistiche di
Quando le donne avevano la coda (1970) e Quando le donne persero la coda (1971) –
trovando la massima ispirazione ne La matriarca (1968) e, soprattutto, Il merlo maschio
(1971), che entusiasmò Visconti e interessò un critico come Micciché, tanto che lo
considerò «uno dei titoli migliori di Festa Campanile – e dell’intera filmografia della
“commedia ll’italiana”, qui in uno dei suoi estremi bagliori – […] malinconico grottesco
della frustrazione (piccolo-borghese) e dello smarrimento di stagioni che sembrano non
essere quiete né esaltanti»14.
Il referente cinematografico di Festa Campanile è la commedia americana, sofisticata
o slapstick, e quella sentimentale francese: gli autori che fungono da modelli al regista ed
ai suoi sceneggiatori (i più stretti sono, oltre Franciosa, gli scrittori Luigi Malerba ed
Ottavio Jemma) sono Billy Wilder (Dove vai tutta nuda? riprende l’intreccio de
L’appartamento, Più bello di così si muore è una storia di travestitismo, in cui la purezza
dei sentimenti supera la grevità delle situazioni, come A qualcuno piace caldo, la cui
battuta finale è ripresa esplicitamente in Nessuno è perfetto) e Claude Lelouch (Con
quale amore con quanto amore è costruito con lo stesso gusto degli incastri e degli
incroci amorosi e, come La matriarca, rimanda al modello francese fin dalla colonna
sonora). Ai modelli americani e francesi rimandano l’attenzione alla qualità fotografica
dell’immagine ed alla scenografia, così come l’attenta direzione degli attori (soprattutto
Catherine Spaak, Lando Buzzanca, Adriano Celentano, Enrico Montesano), qualità che ha
in comune con gli stessi Steno e Salce, da cui però lo distacca un’attenzione maggiore
alla confezione del prodotto. Festa Campanile (come ricorda la dichiarazione riportata
nella prima parte della tesi) rifiuta gli schemi della commedia all’italiana: il dato di
costume, la puntualizzazione regionale dei personaggi, la presenza fisica degli attorimattatori del genere (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi). Non lavorerà mai con Sordi,
lavorerà pochissimo con gli altri tre, cercando altrove i volti per le sue storie paradossali,
anche sul mercato internazionale (gli americani Rod Steiger, Tony Curtis e Ben Gazzara, i
francesi Samy Frey, Catherine Deneuve, Jean-Louis Trintignant, Haydée Politoff, Claude
Rich, Andréa Ferréol, l’inglese Hugh Griffith, l’austriaca Senta Berger): volti quasi inediti
sugli schermi italiani, che non rimandassero automaticamente a maschere già definite.
Come per l’ultima produzione filmografica di Luciano Salce, anche in Festa Campanile
c’è l’influenza dei meccanismi narrativi del commediografo Aldo De Benedetti, un maestro
del paradosso e dei tempi comici: il macabro umorismo nero di Il marito è mio e
l’ammazzo quando mi pare è ispirato direttamente ad un suo racconto. L’influenza
dell’autore di Non ti conosco più (1932), Due dozzine di rose scarlatte (1936), Trenta
14
Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p.339
5
secondi d’amore (1937) emerge soprattutto nelle commedie d’ambientazione borghese,
in cui Festa Campanile racconta i problemi di coppia con i mezzi del paradosso (la moglie
tradita che promette la rivalsa al marito in Adulterio all’italiana, il marito tradito che,
subito un trauma, incontra una donna con gli stessi problemi in Come perdere una moglie
e trovare un’amante) ed il complemento di dialoghi scoppiettanti, scenografie sfarzose e
irreali. Un tipo di commedia che coniuga il modello americano con quello italico dei
telefoni bianchi, piegati alle esigenze dell’autore (il disorientamento del protagonista, le
scoperte pulsioni erotiche e sessuali): tanto lontano dalla commedia all’italiana da
convogliare su di sé gli strali della critica. Giacovelli le considera «commedie dei telefoni
bianchi fuori tempo massimo (o fuori tempo minimo, se le si considera un anticipo di
sviluppi futuri), ma con qualche aggiornamento, qualche spunto satirico da Italia ’60 e un
pizzico di sesso […] che preannunciano in qualche modo la fine della commedia
all’italiana, anticipando le commedie disimpegnate e sciocchine di fine anni Settanta (di
cui
proprio
Festa
Campanile
sarà
uno
dei
principali
artefici)»15.
E’
la
tipica
sottovalutazione di chi non riesce a comprendere le eccentricità, i percorsi alternativi, le
deviazioni dalla norma, e pretenderebbe di ridurre tutto ad un solo orientamento.
Gli stessi temi, con piglio meno grottesco e aggressivo, li affronterà in campo teatrale,
scrivendo nel 1970 la commedia Anche se vi voglio un gran bene, che lo stesso autore
definisce «un quadro […] pietoso e[…] quotidiano, e non […] aspro e feroce, della vita
coniugale; anzi i toni dell’ironia e dell’umorismo possono sembrare quelli predominanti.
Ma ciò non toglie che io la consideri, ugualmente, una commedia amara, dolente»16.
Continuando a realizzare un paio di film l’anno, nel 1975 Festa Campanile scrive il suo
secondo romanzo, il fantascientifico Conviene far bene l’amore, opera di intrattenimento
pur se dal sorriso ansioso, che lo stesso anno trasporrà al cinema. Ripresa l’attività
letteraria, la affiancò a quella cinematografica, riscuotendo successi di critica con i
romanzi (Il ladrone, Premio Selezione Campiello 1978, Per amore, solo per amore,
Premio Campiello 1984, La strega innamorata, Premio Bancarella 1986) e di pubblico con
i film – a proposito di Qua la mano: «un sondaggio sul gradimento (“Fra tutti i film che
ha visto nel 1980 al cinema quale è stato il film italiano che le è piaciuto di più?”)
consacra uno dei trionfi commerciali della stagione: il 21% degli italiani (la percentuale
più alta) sceglie i due episodi»17.
Nonostante il dissenso della critica, le opere di questa stagione cinematografica del
regista (gli anni 1980-82) sono molto interessanti, tanto che è possibile ritrovare in uno
dei film meno considerati del periodo, Bingo Bongo (1982), con Adriano Celentano,
15
16
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 72-73
Adriana Guarnieri, Pasquale Festa Campanile…, cit., p. 320.
6
numerose «chicche da culto (non colte): una doppia citazione del King Kong del ’33,
Bingo Bongo che legge “Airone”, e una scena ambientata in una megadiscoteca (il Kiwi di
Modena) che rimanda all’inizio di Geppo il folle e alle atletiche prestazioni di Adriano nei
suoi concerti dal vivo. E persino due gustose “coincidenze”: la sequenza del barattolo
(Bingo, deriso da quattro giovinastri, si comporta da perfetto cattolico: porgendo l’altra
guancia) e quella della spiaggia, che non possono non far pensare a Bianca: al Nanni
Moretti sbeffeggiato, inutilmente, da un paio di coatti romani; e al Nanni Moretti talmente
impacciato con le donne da essere costretto a imitare le effusioni delle coppie sdraiate
sulla spiaggia»18.
L’attività letteraria e cinematografica si intrecciano senza soluzione di continuità:
l’autore sviluppa i temi a lui più cari con i due mezzi espressivi, indifferentemente. La
follia della guerra, che impedisce un disteso rapporto sentimentale, è alla base dei
drammatici fatti del romanzo Il peccato (1980), così come delle circonvoluzioni
grottesche del film Porca vacca (1982), massacrato dai produttori. Nel 1982 il romanzo
La ragazza di Trieste (da cui nello stesso anno girerà un film) impone una svolta
drammatica allo sguardo dell’autore sulla vita di coppia, decretando l’impossibilità di un
«colloquio tra due persone, se pure entrambe bisognose d’affetto»19.
L’attenzione della critica comincia rivolgersi verso Pasquale Festa Campanile (il suo
ultimo film, Uno scandalo perbene, 1984, è chiamato, addirittura, a rappresentare la
selezione italiana alla mostra del cinema di Venezia), quando il regista è colpito da
neoplasia renale. Per un anno si susseguono miglioramenti e ricadute, in cui l’autore,
confermando la propria vitalità frenetica («sono uno che lavora 18-19 ore al giorno. La
notte la passo a scrivere sostenendomi con grappa e caffè, fumando cento sigarette al
giorno [...]. Sono fatto in modo tale che non posso mettere le marce basse, se non metto
la quinta non mi diverto»), ha il tempo di scrivere un altro romanzo (Buon natale…Buon
anno, edito postumo nel 1987, mancante della revisione definitiva dell’autore) e di
sposarsi per la terza volta (con Rosalba Mazzamuto, figlia del prefetto di Reggio
Calabria). Ma la neoplasia si estende al fegato e Pasquale Festa Campanile muore il 25-21986, proprio mentre sta preparando con Luciano Vincenzoni la sceneggiatura del film
che doveva segnare il suo rientro al cinema, Casinò.
17
Aldo Fittante, Questa è la storia…Celentano nella musica, nel cinema e in televisione,
Milano, Il Castoro, 1997, p. 142
18
Ivi, pp. 62-63
19
Adriana Guarnieri, Pasquale Festa Campanile…, cit., p. 320
7
Capitolo 2: un assiduo frequentatore dei sentieri della storia
(Il soldato di ventura)
Il secondo film di Pasquale Festa Campanile è un film in costume, Le voci bianche,
ambientato tra i castrati del Settecento; l’ultimo film di Festa Campanile è Uno scandalo
perbene, ricostruzione del caso Bruneri-Canella, lo smemorato di Collegno, che ebbe
inizio nel marzo del 1926. La filmografia del regista si apre e si chiude, circolarmente,
con due film storici e ne comprende altri tredici, ben distribuiti tra il 1965 e il 1983,
escludendo L’emigrante (1973) e Il corpo della ragassa (1979), in cui la ricostruzione
d’epoca, pure evidente, è in subordine rispetto al meccanismo dei generi gangster (il
primo) ed erotico (il secondo). Sono un po’ troppi per considerare la frequentazione della
commedia storica soltanto una concessione alla moda del tempo (sembra che per i critici
Festa
Campanile
non
abbia
fatto
altro,
nella
sua
carriera,
che
concedersi
continuativamente alla moda del tempo: con Una vergine per il principe seguiva il
modello de La mandragola di Lattuada, con La calandria s’inseriva nel filone dei
decamerotici nati sulla scia del Decameron di Pasolini). Festa Campanile è autore pure di
un film di fantascienza, Conviene far bene l’amore, tratto dal suo romanzo omonimo:
questi viaggi nel tempo, questi ritorni al passato e al futuro, non sono affatto casuali.
Hanno un loro preciso significato. Quale?
Il distacco temporale libera le storie da una vischiosa attualizzazione, da una
compromettente partecipazione delle situazioni e dei personaggi, dal pericolo della
convenzionalità nel tratteggio psicologico e sociale. Il distacco temporale libera l’autore
dalle compromissioni con la commedia di costume, recupera la primordialità di fatti e
personaggi, consente un distacco critico che dona agli intrecci un’esemplarità attuale,
inserendola in una rievocazione storica perfettamente ricostruita. Festa Campanile può
abbandonarsi al gusto del racconto, concedendo maggiore nitidezza alle sue componenti
(la ricostruzione ambientale, il tratteggio psicologico, la scansione delle sequenze) e a
quello che è il suo tema: lo spaesamento di un personaggio alle prese con una realtà
inspiegabile. La lontananza remota dell’ambientazione temporale non fa che accentuare
questo spaesamento, anche nello spettatore.
Le commedie storiche di Festa Campanile, ordinate cronologicamente secondo il
divenire storico dei fatti raccontati e non secondo la loro realizzazione, si rivelano tanti
capitoli di una compiuta narrazione di tutta la storia delle italiche genti. Nell’ordine:
1. l’epoca preistorica: Quando le donne avevano la coda (1970), Quando le donne
persero la coda (1971), apologhi di costume (e di scarsi costumi), in cui si raccontano,
8
secondo i modi della farsa slapstick e della comicità da fumetto - botte in testa con la
clava, capitomboli, violenza smodata e ridanciana (ma l’inventore Kao morirà nel
tentativo di volare), sadismo delirante (Put, affamato si mangia la propria mano),
linguaggio onomatopeico (i personaggi si chiamano Grrr, Put, Zog, Kao) e maccheronico
- le scoperte primordiali dell’uomo: il sesso (nel primo film, sette uomini trovano una
donna e, credendola un animale, sono tentati, inizialmente, di mangiarsela) ed il profitto
economico
(nel
secondo,
«i
cavernicoli
applicano
all’Età
della
Pietra
le
teorie
1
capitalistiche» : il forestiero Am obbliga i protagonisti a lavorare per lui e poi spendere i
loro guadagni nella sua bottega);
2. l’epoca romana: Il ladrone (1979) è la storia di uno dei tanti protagonisti ribaldi dei
film di Festa Campanile, Caleb, che vagabonda felicemente, rubando e vivendo di
mezzucci ed espedienti, citando i versi di un immaginario profeta Baracuc (vivente
soltanto nei suoi racconti), soddisfatto dei rapporti saltuari con le donne e della sua vita,
grama ma libera, in un’epoca di schiavitù e sopraffazione, che ha la sventura, durante il
suo peregrinare, di incrociare il destino di un certo Gesù, di cui non sopporta la
spettacolarità dei trucchi;
3. il medioevo: La cintura di castità (1967), affresco comico-storico-erotico, destinato
al mercato internazionale (protagonisti Tony Curtis e Monica Vitti) dell’epoca delle
crociate e Jus primae noctis (1972), parabola quasi politica in cadenze di non-sense, in
cui la fine dell’applicazione dell’aberrante legge del titolo (il tributo di maritaggio che il
vassallo doveva al signore e feudatario) e del tirannello che l’applica è, storicamente,
osservata come la fine dell’intera epoca medioevale;
4. il rinascimento: Una vergine per il principe (1965), La calandria (1972), Il soldato di
ventura (1976) che ritraggono l’epoca in questione attraverso un comune, seppur
diverso, filtro letterario (il primo da un carteggio e poi dalla biografia di Vincenzo
Gonzaga attuata da Maria Bellonci, il secondo dall’omonima commedia licenziosa del
Bibbiena, il terzo dal romanzo di Massimo d’Azeglio);
5. il sei-settecento: Le voci bianche (1964), Il ritorno di Casanova (1978), due ritratti
di libertini, uno immaginario ma possibile(il falso castrato Meo), l’altro realmente esistito,
per tracciare un quadro del secolo ora comico-satirico, ora malinconico ;
6. l’ottocento: Rugantino (1973), ambientato a Roma, nel 1830, che riprende la
celebre maschera popolare romana, assegnandole caratteristiche comuni col precedente
protagonista de Le voci bianche;
1
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.44
2
7. la belle époque: Il petomane (1983) che inserisce nell’epoca spensierata della Parigi
di inizio secolo, dedita all’arte ed all’amore, la figura patetica e grottesca di un fenomeno
vivente (con riflessi di The elephant man, 1980, di David Lynch)
8. la prima guerra mondiale: La ragazza e il generale (1967), “Porca vacca” (1982),
che insieme al romanzo Il peccato (1980) costituiscono un trittico dedicato alla barbarie
bellica secondo un’angolazione decentrata (il primo film è una favola, il secondo un
poema eroicomico modellato su La grande guerra, il romanzo narra una storia d’amore
impossibile), la cui unità è evidenziata dai rimandi trasversali tra un intreccio e l’altro,
come l’episodio in cui la buca di una bomba serve da riparo, perché «né cannonate, né
fulmini, né bombe, cadono due volte nello stesso punto»2 (presente in tutte e tre le
opere);
9. i primi anni del Novecento: Uno scandalo perbene (1984), rievocazione del caso
Bruneri-Canella (cui Sergio Corbucci, nel 1962, aveva dedicato già Lo smemorato di
Collegno), secondo i modi del dramma psicologico e con un’attenzione particolare
all’apparato scenografico-costumistico, tipica dei film di Bolognini (alcuni momenti, come
il processo, sembrano rimandare al suo Fatti di gente perbene, 1974).
Nelle sue commedie storiche Pasquale Festa Campanile non mostra tanto interesse per
la Storia, quanto per le storie private di personaggi popolari, inquadrate in un preciso
contesto storico-geografico.
Ci sono tutti gli elementi per tracciare una storia d’Italia al contrario, che rinneghi e
ribalti la magniloquenza e la retorica eroica che si accompagna spesso nelle narrazioni
storiche: il gusto innato per il capovolgimento umoristico sposta l’interesse del regista
dalle personalità eroiche, dalle illustrazioni «da museo delle cere»3 ai personaggi
alternativi, «secondo l’esempio manzoniano e la lezione di certi storici contemporanei»4,
ma accentuando la paradossalità delle situazioni e la forte connotazione erotica della sua
ispirazione.
Nell’epoca delle crociate, ne La cintura di castità, la moglie del principe Guerrando,
Boccadoro, più che interessata alle eroiche imprese del marito, è umiliata dalla cintura di
castità con cui costui l’ha cinta e rischia di essere violentata dal lascivo sultano Ibn-ElRashid, anch’esso più interessato all’amore che alla guerra. Il ducato di Mantova, tenuto
dai principi Gonzaga, in Una vergine per il principe, ha molti punti di contatto con la
società italiana contemporanea: è sommerso dai debiti, dagli intrighi di corte («Lo sai
quanti vorrebbero toglierci la sedia da sotto il deretano?», domanda il duca al figlio) ed il
suo principe Vincenzo deve sacrificare i propri sentimenti alla politica («In tempi di crisi
2
Pasquale Festa Campanile, Il peccato, Bompiani, Milano, 1989 (1980), p.130
Aldo Viganò, Storia del cinema storico in cento film, Le mani, Recco, 1997, p. 151
4
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 44
3
3
tutti si devono restringere, anche i nani» esclama Vincenzo al suo paggio nano). I
combattimenti con i comuni vicini, simbolo anzitutto di potenza ed onore (anche il piccolo
tiranno di Jus primae noctis, Aregardo, vorrebbe una bella piccola guerra da combattere
e vincere facilmente), sono diventati una routine («Però a Pavia abbiamo pareggiato!»
esclama Vincenzo, solitamente sconfitto in questi agoni provinciali). Il ladrone, pur
ambientando il racconto in Palestina, negli anni della predicazione di Cristo, erge a
protagonista il ladrone Caleb che non crede ai miracoli di Gesù, reputandolo un grande
baro. Cercherà di scoprirne i trucchi: alle nozze di Caana, andrà alla ricerca di un’otre di
vino nascosta, incredulo di fronte alla tramutazione dell’acqua in vino. Fino alla fine dei
suoi giorni Caleb sarà sospettoso ed incredulo nei confronti di Gesù, anche quando lo
affiancherà, crocifisso, sul Calvario: quando Cristo gli dirà: «Oggi sarai con me nel mio
regno», il ladrone risponderà: «Va’ pure avanti tu».
Ne Il soldato di ventura gli straccioni guidati da Ettore Fieramosca a sfidare i francesi a
Barletta non sono tanto simbolo della rivalsa italiana rispetto agli odiati francesi (come
nel precedente film di Blasetti, Ettore Fieramosca, dedicato alla disfida, in cui si
sovrapponeva alla storia la retorica fascista), quanto della ribellione degli umili ai soprusi
dei potenti. In questo film il tono antieroico è proporzionale alla chiarezza narrativa. E’
conveniente fare un paragone tra Ettore Fieramosca (1938) ed Il soldato di ventura
(1976): sono due opere dedicate allo stesso argomento (la rievocazione della disfida di
Barletta, avvenuta il 13.9.1503), allo stesso protagonista storico, con una simile struttura
narrativa e talvolta visiva, ma stilisticamente opposte. Ettore Fieramosca rivela la
passione del regista
per le «tonalità epiche», il «torneare di cavalieri», il «garrire di insegne», insomma la tendenza
sempre più urgente in Blasetti ad eleggere «a suo mondo lo spazio e a sua bussola l’imaginazione
storica, distorta e reinventata in libertà» (F. Savio). Ma se il film è figurativamente forte, è anche
narrativamente debole. Per l’ennesima volta si rimprovera a Blasetti la «scarsa e poco sorvegliata
[…] capacità del racconto» che «produce discontinuità e talvolta oscurità nel suo modo di narrare»
(E. Cecchi). Il regista cercherà di porvi rimedio sia apponendo delle didascalie sia rimaneggiando il
film a più riprese; così dagli originali 3215 metri […] con tagli successivi si arriva agli attuali 2496
[…] ma una certa debolezza di scrittura rimane.5
In Ettore Fieramosca il racconto è così oscuro che non si riesce a comprendere il
momento del tradimento di Graiano con i francesi e, nella scena della disfida («la
sequenza finale e la più famosa del film»6), è difficile individuare le personalità dei
combattenti francesi ed italiani.
La spiegazione, oltre che nell’interesse di Blasetti, maggiormente volto alla ricerca
figurativa («Con Novarese, documentandoci dal punto di vista figurativo relativamente al
film, ci eravamo soffermati sulla stupenda scultura di Ilaria Del Carretto di Jacopo della
5
Gianfranco Miro Gori, Alessandro Blasetti, Il castoro cinema, La nuova Italia, Firenze, 1983,
p.62
6
Gianfranco Miro Gori, Alessandro…, cit., p. 61
4
Quercia»7, ricorda Blasetti, relativamente al personaggio della duchessa di Monreale) è
che l’obiettivo del regista è puntato quasi esclusivamente sul protagonista Ettore
Fieramosca, sulla sua personalità eroica, sui suoi legami privati, sulla virtuosa grandezza
che gli permette di sconfiggere la «suffisance»8 dei francesi e di Guy de la Motte.
Pasquale Festa Campanile, invece, riporta la storia ai suoi protagonisti silenziosi: i
personaggi popolari. L’inizio de Il soldato di ventura rende subito espliciti gli intenti del
regista. Sull’assolata pianura pugliese, davanti alle mura della città di Barletta, sotto un
unico
albero
secco,
quattro
uomini
hanno
un’animata
discussione
sulla
natura
dell’oggetto appeso ad un ramo della pianta («quaglia o beccafico?», si chiede uno di
loro, Bracalone). Lo puntano, lo colpiscono con una fionda, l’oggetto cade sulla testa di
Bracalone: si rivela essere una pigna. I quattro, affamati, si rivolgono ad un uomo a
cavallo poco più in là, che da un’altura scruta le mura della città: gli chiedono se per
stavolta possono fare una guerra facile che dia loro un po’ di guadagno. Quell’uomo è
Ettore Fieramosca ed i quattro sono i suoi soldati di ventura.
In poche immagini Festa Campanile ha delineato i cinque personaggi, sopprimendo
ogni possibilità retorica. I soldati di ventura di Ettore Fieramosca sono uomini affamati
che combattono per guadagnare, anelano ad una condizione sociale migliore e lasciano i
pensieri idealistici al loro capo. Il quale, una volta tanto, decide di dar retta a loro, ed alla
guerra tra francesi (gli assedianti) e spagnoli (gli assediati) decide di schierarsi per i più
forti: i francesi. Ma, sdegnato dal comportamento provocatorio e presuntuoso dei soldati
francesi (la “suffisance” di Blasetti) – che costringono gli italiani nel ruolo di servi:
Bracalone è obbligato a pulire con le mani gli stivali infangati di De La Motte – cambia
fazione sul campo di battaglia, decide di aiutare gli spagnoli, da un mese assediati in città
e costretti alla fame.
Rispetto all’Ettore Fieramosca di Blasetti, questo di Festa Campanile più che un
nazionalista è un ribelle, un difensore dei deboli e degli oppressi, un uomo che si diverte
a ribaltare le situazioni già definite. Quando, offeso nella dignità da De la Motte,
raggrupperà gli uomini per sfidare i francesi, sceglierà i migliori spadaccini più che tra le
migliori menti italiane, tra i disperati, i girovaghi e i ladri. Tra gli italiani che sfidano i
transalpini c’è lo scienziato Albimonte da Peretola (avversario di Leonardo, che reputa un
bugiardo), ma anche l’attore romano Capoccio, il baro
Miale da Milazzo, il ladro
Salomone, il frate spadaccino Ludovico da Rieti, lo scomunicato Giovenale da Vetralla
(che vive con sette donne e s’è convertito all’Islam per sposarle tutte): l’armata eroica
del film di Blasetti si rivela, in quest’opera, un’”armata Brancaleone”, conservando del
film di Monicelli lo spirito picaresco con cui presenta il suo campionario di varia umanità.
7
8
Francesco Savio, Cinecittà anni trenta, Bulzoni, Roma, 1979, p. 138
Ivi, p. 137
5
La precisione del disegno dei personaggi, tratteggiati con spirito umoristico e rapidità
psicologica (le doti del romanziere Festa Campanile: di ognuno dei protagonisti, grazie ai
dialoghi che si susseguono mentre l’azione si sviluppa, sappiamo il suo passato e le
caratteristiche spiccate della sua personalità) supera le convenzioni dello schema
narrativo, riconducibile al film corale americano (tra i capistipite: il western I
professionisti, 1966, di Richard Brooks, e il film di guerra Quella sporca dozzina, 1967, di
Robert Aldrich):
1. un uomo, di solito uno specialista, si assume – per ordine altrui o forzato dagli eventi – la
responsabilità di un drappello di disperati (circa una dozzina), ai quali è affidata una
missione impossibile;
2. la «sporca dozzina» si forma: dapprima un’accozzaglia di individui allergici all’obbedienza
[…], asociali; poi, via via, sempre più solidali, uniti, partecipi alla sorte comune;
3. battesimo del fuoco: la squadra dimostra il suo valore sul campo;
4. la missione è compiuta, nonostante gli ostacoli «insormontabili».9
Anche i personaggi de Il soldato di ventura sono degli asociali, non soltanto fuorilegge,
perché sono degli sradicati, a cominciare da Ettore Fieramosca, stranieri nella loro stessa
patria, dove vivono da mercenari, al servizio dei francesi o degli spagnoli che all’epoca (il
1500) si dividevano il potere in Italia («Siete in tredici, è vero, ma non rappresentate che
voi stessi, il vostro orgoglio personale, il vostro gusto per le bravate, la vostra
millanteria», chiarifica il capitano di Guadarrama). Festa Campanile sottolinea la
bipartizione del potere con insistite inquadrature sui luoghi d’azione francese e spagnola,
che teatralizzano la scena: il governatore spagnolo Gonzalo Pedro de Guadarrama e il
suo vice Paredes prendono le loro decisioni politiche mentre si riparano sul cammino di
ronda
delle
mura
(come
fosse
un
palcoscenico,
osservano
da
lì
i
movimenti
dell’accampamento francese); il centro dell’azione francese è invece la lunga tavola
imbandita, dove i commensali (capitanati dal duca di Namour) discutono con tranquillità
le strategie d’attacco delle future battaglie. La precisione scenografica, oltre a chiarificare
la situazione narrativa, è carica di significati ulteriori, poiché manifesta le caretteristiche
interiori delle parti in causa: gli spagnoli, maestri dell’intrigo sottotraccia, del doppio
gioco, agiscono in uno spazio chiuso, in anfratti oscuri (i due spagnoli sono sempre
riparati, nell’inquadratura, da tettoie, da mura); gli spavaldi francesi esibiscono la loro
forza e tranquillità, pranzando sul campo di battaglia, in modo da attrarre i soldati
spagnoli ridotti allo stremo delle forze dalla fame.
Un altro punto di contatto tra Il soldato di ventura e Quella sporca dozzina è che i
tredici cavalieri
(«corsari, ciarlatani, biscazzieri, malviventi, anche un ragazzo e un
frate») riuniti da Fieramosca per la disfida con i francesi sono in realtà dodici: gli italiani
si presentano sul campo di battaglia con un’armatura vuota (dopo che si era offerta
9
Claver Salizzato, Robert Aldrich, Il castoro cinema, La nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 74-75
6
addirittura una donna, Leonora), che lo sbadato Bracalone fa cadere, rivelando l’inganno
(«Pensavo che fosse una guasconata e invece si sta rivelando una farsa», sghignazza La
Motte). Soltanto quando la disfida sembra impossibile da attuarsi, giunge a sorpresa il
tredicesimo elemento: il terribile e irraggiungibile cavaliere Mariano da Trani. Il
personaggio chiarifica le intenzioni del regista, che nel momento della disfida capovolge
l’iconografia eroica, mescolando solennità ed umorismo: in questa sequenza Il soldato di
ventura si distacca nettamente da Ettore Fieramosca, facendosi beffe di tutta la
letteratura cavalleresca e della storiografia ufficiale («Ma va che la storia quanto meno ne
sa/ più snello e più bello e più prode ti fa» dicono due versi della canzone Oh Ettore!,
riferendosi al Fieramosca, cui l’attore Bud Spencer presta le proprie fattezze non molto
leggiadre).
La presentazione dei due schieramenti sul campo di battaglia è identica a quella del
film di Blasetti: i cavalieri francesi sono nominati uno per uno (e così inquadrati), quelli
italiani sono presentati sotto l’appello di «Gli italiani», con un travelling laterale che li
unisce tutti sotto un’unica identità, quella nazionalità italiana che ancora non c’è. Ma la
possibile retorica del momento è subito negata dai costumi indossati dai personaggi:
mentre i francesi sono un corpo unico, rinchiusi nelle loro lucide armature metalliche
bianche, con gli svolazzanti pennacchi azzurri sugli elmi, gli italiani hanno ognuno
un’armatura diversa e molto provvisoria: fra’ Ludovico ha per elmo una tiara di bronzo, il
giovane Carellario come pennacchio ha una scopa d’erice, l’attore Capoccio l’elmo
dell’Orlando Furioso (retaggio dei suoi costumi di scena), Bracalone addirittura una
bacinella da barbiere, come Don Chisciotte. L’armata italiana è quanto di più grezzo e
irregolare si possa immaginare, oggetto dei facili scherni di De La Motte: «Basterà una
corrente d’aria per farli cascare…allora, sbrighiamoci: io non ho fatto colazione! […] Vedo
un branco di pecoroni, di grossi pecoroni».
L’arrivo di Mariano da Trani, apparizione nera e terribile sulla macchia bianca della
spiaggia e sull’azzurro intenso del mare (ha nere l’armatura, la bardatura del cavallo,
l’elmo ed un grosso teschio bianco che lo decora), accompagnato da una musica solenne,
sembra ridare al film le tonalità epiche appropriate; invece è proprio questo personaggio
- che si presenta con un tonitruante: «Mariano è il mio nome. Trani il mio feudo. Chiedo
di battermi contro i francesi!» - a ridicolizzare l’avvenimento. Mariano si aggira sul campo
spaventando gli avversari con la sua sola presenza («Dove t’inzippo, dove t’infilo!»), una
volta affrontato da Guy De La Motte rivela la propria pavida personalità (con un felice
espediente narrativo) proprio mentre esibisce la propria forza al francese:
Mariano: - Fuggi prima che t’ammazzi…che botta! – De La Motte lo colpisce ripetutamente –
M’arrendo, m’arrendo, m’arrendo, m’arrendo, m’arrendo!. Ma dico… non hai capito chi sono?
Fieramosca: - Ma come…Mariano da Trani! Ma con tutte le imprese che hanno cantato di te
poeti e cantastorie ?!
7
Mariano: - Ma, insomma! Io non mi sono mai battuto con nessuno. Io ho pagato l’Ariosto e il
Tasso per inventare le mie vittorie. Con la reputazione che mi ero comprato, tutti fuggivano…tutti.
E anche qua avevo cominciato bene. – si rivolge a De La Motte – Ma tu non l’hai letto l’Ariosto?
De La Motte: - No!
La disfida si svolge intrecciando le gesta dei cavalieri italiani, che si comportano
ognuno secondo le caratteristiche già espresse precedentemente. Albimonte da Peretola
abbaglia il suo rivale in duello con il riflesso del sole sullo scudo («Lo specchio
d’Archimede. Visto cosa significa conoscere la scienza, ignorante?»); il corsaro Salomone
scaraventa contro un francese la statua di una sirena in porfido con cui si proteggeva,
dopo che un francese le ha staccato la testa («Vigliacco! ‘A fimmina non si tocca manco
con il fiore»); il pavido ed inoffensivo Bracalone saltella per il campo di battaglia
sfuggendo a turno ai cavalieri francesi; il prode Fieramosca soccorre il giovane Carellario,
vessato da un nemico («Te metti a fa ‘o guappo co’ ‘o guaglione»).
Il finale suggella l’antiretoricità del film, riprendendo la parodia della letteratura
cavalleresca. Il personaggio di Bracalone, scrivano napoletano, per tutta la storia ha
funto da cantore delle eroiche gesta di Fieramosca, che annotava su un libriccino tenuto
sempre addosso. Quando Fieramosca consegna fieramente il manoscritto al capitano di
Guadarrama
(«Bracalo’,
dammi
il
manoscritto…Vogliate
conservare,
capitano
di
Guadarrama, le memorie delle gesta di tredici cavalieri italiani»), costui rimane
fortemente sorpreso («Ma qui ci sono solo scarabocchi!» esclama) ed alla domanda
inespressa di Ettore, Bracalone risponde con arguzia napoletana: «Ma vui che vulite da
me ?! Io non saccio scrivere: tanto vui nun sapite leggere…».
L’erotismo è totalmente assente ne Il soldato di ventura, mentre invece darà il motore
dell’azione
nelle
rimanenti
commedie
storiche
e
in
costume,
assumendo
una
connotazione gioiosa e beffarda in quelle d’ambientazione medievale e rinascimentale.
Queste commedie (Una vergine per il principe, La cintura di castità, Jus primae noctis, La
calandria) sono disinvolti esemplari discendenti da una secolare tradizione letteraria, che
fa capo a Boccaccio e a Machiavelli, in cui l’intreccio erotico è lo spunto per una ribellione
sarcastica e beffarda contro il potere costituito. L’intrigo erotico, a volte pesante,
nasconde la beffa ai mariti gelosi, ai nobili tirannici, frequentemente tratteggiati con un
gusto caricaturale ed eccessivo, tale da raffigurarli come persone tarate mentalmente e
fisicamente (Calandro ne La calandria). E’ un sentimento di rivolta, l’unico possibile nella
realtà italiana dell’epoca, priva di unità nazionale e sottomessa al dominio straniero. Lo
ricorda anche Maria Bellonci - in Segreti dei Gonzaga, testo che ha ispirato parzialmente
a Festa Campanile Una vergine per il principe – riferendosi alla corte di Ferrara (ma il
discorso è valido per ogni altro comune italiano):
Ferrara che non perdeva mai un’occasione di far festa, figurarsi come accogliesse Vincenzo; se
non c’erano carnevali da offrirgli, c’erano mezze quaresime, e se non mezze quaresime, partite di
8
caccia o di pesca, occasioni di nozze, di battesimi e di ricevimenti. Per quegli energici ferraresi,
costretti dalle condizioni d’Italia ormai sottomessa al dominio straniero ad una pace senza gloria –
interrotta da avventure di guerre che singolarmente i più bravi andavano a cercarsi in altre nazioni,
Francia, Fiandra, Germania, - inventare su motivi di festa stava diventando una vibrata e quasi
esasperata necessità polemica. Quello che poteva venirne fuori, strani incontri, spedizioni amorose
in massa, travestimenti di gentiluomini da frati o di dame da cavalieri, ed altro ancora, s'imm’gina
(ma bisogna lasciare uno spazio largo all’immaginazione). E, sebbene il duca Alfonso II e la
duchessa Margherita si tenessero il più possibile di qua da questo traboccare sensitivo, in una vita
moralmente irreprensibile, pure, riassumendo in loro i principi di una stemperata cortigianeria,
vezzeggiando su certi usi, indugiando su certe compiacenze, offrivano agli altri l’occasione se non il
pretesto di torbidi sbandamenti.10
In questo brano si fa riferimento a corteggiamenti e travestimenti amorosi (con
scambio o camuffamento dell’identità sessuale), momenti prioritari dell’intreccio di
queste commedie. Festa Campanile concilia il proprio gusto dell’erotismo con la realtà
storica dell’epoca.
In Una vergine per il principe si propone di raccontare «il più grande scandalo del
Cinquecento»11, avvenuto nel 1584 a Venezia (nel film a Colorno): la prova di virilità che
il principe Vincenzo Gonzaga deve sostenere prima di sposare Leonora de’ Medici, con
una fanciulla illibata, Giulia. L’avvenimento è trattato con grazia licenziosa, ma anche con
un’impassibilità che rende quotidiana la crudeltà dei costumi morali del tempo – la prova
sessuale è raccontata dal regista come una prova sportiva: un’evento diviso in tre tempi,
con gli arbitri (i funzionari statali) ed i sostenitori (i mantovani che scommettono sulla
virilità del principe) – e non nasconde un sarcasmo finale - che annulla le rimostranze di
critici come Tullio Kezich, il quale si sorprende che «un regista di estrazione letteraria […]
non sia stato tentato dai risvolti amari, melanconici e persino avvilenti del racconto»12 rivelato dalla citazione finale di Machiavelli: «Giova al
principe dare di sé esempli rari,
operare in qualche cosa veramente straordinaria, in bene o in male e sopra tutto deve
un principe ingegnarsi di tramandare di sé e delle sue azioni, fama di uomo grande e di
ingegno eccellente»13. Il cinismo di Una vergine per il principe è specchio della realtà: il
principe Vincenzo sposò serenamente Leonora, mentre «Giulia morì giovane, prima del
1600, forse stritolata giorno per giorno dalla prepotenza, dalla vanità e magari dal
disprezzo del marito; e il ricordo delle cose di Venezia ebbe il tempo di diventarle
leggenda segreta»14.
Le pulsioni sessuali sono nascoste anche in momenti narrativi insospettati. L’ovvio
intreccio erotico di Jus primae noctis - «Ariberto (Buzzanca), divenuto proprietario di un
feudo popolato da poveracci affamati, ne reprime costantemente i tentativi di ribellione e
10
Maria Bellonci, Segreti dei Gonzaga, Milano, Mondadori, 1991, p.19
Ivi, p. 99
12
Tullio Kezich, Settimana Incom Illustrata, 14.11.1965 in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema
italiano, I film, vol.3, Gremese, Roma, 1992, p.5959
13
Niccolò Machiavelli, Il principe, La Nuova Italia, Firenze, 1991, p.189
14
Maria Bellonci, Segreti dei…, cit., p. 106
9
11
gli scherzi ai suoi danni, accanendosi specialmente sul villano Gandolfo (Montagnani). Per
arricchirsi, il signorotto impone anche
numerose tasse, e si arroga il diritto di fruire
personalmente della prima notte di nozze. Dopo aver approfittato di numerose contadine,
non esita a eliminare la moglie e risposarsi. Vorrebbe poi aiutare il ritorno del pontefice
all’Urbe, ma deve invece affrontare la rivolta popolare: i villani si vendicano giacendo a
turno con la sua giovane consorte e lo scacciano, ma Alberto ha ormai dei buoni agganci
in Vaticano…»15 - nasconde una dialettica servo-padrone, analizzata dal regista secondo
un’ottica psicanalitica e non politica.
La lotta tra il tiranno Aregardo e il popolano
Gandolfo è guidata da una volontà di supremazia virile che nasconde (poco)
un’omosessualità latente: per non permettere ad Aregardo di godere del diritto di
maritaggio, Gandolfo sostituisce la fidanzata Venerata con un uomo, ma è scoperto dal
tiranno e costretto a giacere con la “sposa”; una delle tante punizioni inflitte da Aregardo
a Gandolfo consiste nel cospargere le parti posteriori dell’uomo di chicchi di grano e poi
farle beccare da una gallina affamata; Gandolfo arriva addirittura ad allenare un pastore
tedesco ad evirare Aregardo (ma il cane fallirà); infine i due nemici si scontrano in un
duello con i bastoni.
Dietro la paradossalità e spensieratezza questi film nascondono segni sparsi che ne
consentono una doppia lettura. La scoperta di una donna, in Quando le donne avevano la
coda, è anche, semiologicamente, la scoperta di un nuovo segno da parte di un
interprete: non è un caso che il soggetto del film fosse ispirato ad un racconto di
Umberto Eco.
Il regista si diverte a ricostruire gli ambienti, a rievocare personaggi realmente esistiti.
Ne Il petomane, il fenomenale Joseph Pujol circola come un estraneo nei salotti letterari
e nei ricevimenti aristocratici dove intervengono Schönberg e Gide e nel finale «invitato
da principi e re – il re d’Inghilterra, il capo di stato francese, il kaiser Francesco II –
mentre volano schiaffi, Pujol produce una tempesta che si confonde col primo colpo di
cannone»16 della prima guerra mondiale. A volte la ricostruzione storica è affidata alla
perfezione dell’ambientazione, come ne La calandria, «ambientato in una Toscana dai
grandi richiami figurativi»17 e soprattutto in Jus primae noctis, che ricostruisce un antico
borgo medioevale coi muri di pietra, le case spoglie dalle piccole finestre ed i mobili
rozzamente costruiti.
La ricostruzione storica, in questo gruppo di commedie, non era gratuita,: consentiva
al regista «di costruire un intreccio che colpiva direttamente la fantasia e di stabilire un
15
Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p. 23
Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza, Bari, 1984, p. 130
17
Ettore Zocaro, Un esempio di…, cit., p. 12
16
10
rapporto immediato con il pubblico»18. La preistoria di Quando le donne avevano la coda
è spunto per «una sorta di pellegrinaggio alle radici del buffonesco, dove qualche goccia
di sentimento serve a sottolineare l’assurdità di un paesaggio tutto inventato, fatto di
alberi di pesce, di piante carnivore, di fiori utopici, fra cui si muovono uomini seminudi
(all’occorrenza truccati da pavoni) che mugolano una lingua bislacca»19.
Per Festa Campanile, la storia è come un palcoscenico, dove far sfilare personaggi a
noi lontani, ricostruiti con il gusto archeologico della ricerca del particolare eccentrico,
straniante, che ne segnali la distanza epocale e affidati ad attori che, in modo opposto,
ne facciano risaltare la vicinanza sociale e psicologica con l’era contemporanea. E’ la
storia di Gesù, raccontata attraverso il personaggio del ladrone, che la avvicina alla
nostra mentalità. E' la storia di Meo (Le voci bianche) costretto a sopravvivere in una
società insieme così lontana (in cui il rispetto dell’individualità umana era utopistico) e
così vicina (il potere costituito, a Roma, nel 1600, era oggi come allora distante ed ostile
dal popolo) alla nostra. La regia di Festa Campanile teatralizza gli snodi del racconto:
questi film sono pieni di travestimenti, di inseguimenti scanditi da un ritmo matematico,
di recitazione esteriore (i protagonisti di queste commedie sono Gassman, Buzzanca,
Ferrari), di inquadrature stilizzate. Ne La calandria un’intera sequenza è impostata come
fosse la scena di una rappresentazione teatrale: sullo sfondo dell’inquadratura c’è una
parete con due porte, da cui, alternativamente, Lidio entra ed esce cambiando di
personalità (è entrato in casa di Calandro travestito da cortigiana, per sedurne la
moglie). Le scorribande notturne di Lidio nelle camere delle donne di casa (la moglie di
Calandro, Fulvia, la loro serva, Clizia) sono raccontate con un ritmo accelerato da vecchia
pochade. In Una vergine per il principe, il principe Vincenzo, di ritorno a Mantova dopo la
guerra con Casale, subisce i rimbrotti paterni, facendo a voce alta le considerazioni
ufficiali e svelando i propri pensieri a bassa voce, come in un controcanto teatrale: una
lunga carrellata sui dignitari in attesa rafforza visivamente la teatralizzazione.
18
19
Romano Milani, Il regista miliardo, in Sipario, dic. 1986, p. 18
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 148
11
Capitolo 3. L’ossessione erotica da Il merlo maschio a Il corpo della ragassa.
(La matriarca, Il merlo maschio, Il corpo della ragassa)
Pasquale Festa Campanile è un autore fortemente interessato alle tematiche sessuali.
L’erotismo è la componente essenziale delle sue storie, i romanzi come i film. Spesso la
letteratura e il cinema si congiungono nell’opera del regista, che ha trovato ispirazione
per alcuni film da romanzi, racconti, commedie di tipo erotico: un elenco cospicuo che
comprende Scacco alla regina (dal romanzo di Ghiotto), Il merlo maschio (da Il
complesso di Loth), La calandria (dalla commedia del Bibbiena), La sculacciata (da
Neurotandem di Silvano Ambrogi), Conviene far bene l’amore (dal suo romanzo
omonimo), Il ritorno di Casanova (dal romanzo di Schnitzler), Il corpo della ragassa (dal
romanzo di Brera), Più bello di così si muore (da Il travestito, in seguito al successo del
film reintitolato Più bello di così si muore, di Antonio Amurri), La ragazza di Trieste (dal
suo romanzo). Ma i rapporti amorosi, le pulsioni sessuali sono presenti in ogni suo film:
l’erotismo è analizzato in ogni suo aspetto, da quello ludico a quello psicolgico. E’ un
atteggiamento mentale dei protagonisti di queste storie, che la progressione narrativa
svela nella sua natura ossessiva.
12
Nella mente dei personaggi il desiderio sessuale acquista una dimensione abnorme
tanto da travolgere il loro equilibrio mentale, diventando un’idea fissa, o le loro funzioni
fisiologiche,
condannandoli
ad
un
comportamento
senza
alternative.
Illustrano
esemplarmente la logica della patologia erotica i casi di Mimì ne La matriarca (1969) che,
scoperti i tradimenti del marito ormai morto, si vendica da vedova, accettando le
numerose avventure che le consentono di affermare la propria libertà sessuale, e di
Gennarino Amato, in Gegè Bellavita (1979), che, posseduto da una smania sessuale
irrefrenabile che lo costringe a congiungersi con tutte le donne che incontra, viene
sfruttato vantaggiosamente dalla moglie Agata, che pretende compensi economici dalle
sue prestazioni erotiche.
La matriarca, pur proponendo un primo ritratto di donna emancipata, è ancora un
prodotto ibrido, «scabroso all’occhio per l’alta aliquota di svestizioni e di complicate
malizie amatorie; è furbetto nella pretesa moralistica di deridere con le ossessioni
erotiche quell’industria del sesso in cui invece è puntualmente integrato; […] sventatello
nell’assunto, che ondeggia fra la critica del privilegio maschile di correre la cavallina
mentre le bravi mogli rammendano calzini, la corrosiva misoginia e l’invito a incanalare
nel letto a due piazze i torrenti limacciosi. Però non è tutto aria fritta. Seppure giochi
sull’equivoco, la commedia ha pagine spiritose, specialmente laddove fa la parodia di
Buñuel (quello scarabeo non è forse uscito dalla scatolina misteriosa di Bella di giorno?) e
dà di gomito, nel commento musicale e nella scelta del bravo Trintignant, ai patiti di
Lelouch»1.
I riferimenti a Buñuel (ricordati anche dal critico Tullio Kezich) si perdono un po’ in una
struttura narrativa monocorde, vero limite del film, che allinea gli incontri amorosi e gli
accoppiamenti sessuali senza soluzione di continuità, nel tentativo di far emergere la
grettezza, la meschinità, il perbenismo, la scarsa fantasia e la poca immaginazione della
compagnia maschile («Gli scarabei sono tutti uguali, come gli uomini»), sorpresa dal
comportamento così libero di Mimì e, contemporaneamente, di
quantità
di
esercizi
erotici
illustare
una
buona
perversi e devianti: nelle scene proliferano strumenti di
piacere come catene e fruste e riferimenti alle teorie sessuali del marchese De Sade ed
allo scienziato William Reich. Festa Campanile racconta questa storia in modo poco
serioso, con un linguaggio cinematografico di gusto “pop”. Le scenografie abbondano di
specchi, toilette eleganti, arredamenti sfarzosi e moderni e l’operatore vi circola con la
macchina a mano, carpendo primi piani e dettagli inconsueti, avvicinandosi alla
protagonista tanto da lasciarla senza segreti; il regista risolve narrativamente la scoperta
dei tradimenti del marito da parte di Mimì con l’artificio del film nel film (sono film erotici
1
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., p. 118
2
all’interno di una commedia erotica) e visualizza le ossessioni erotiche della donna con
flashback onirici, che scandagliano i segreti della sua psiche (un accorgimento tecnico già
sperimentato, con minore valenza, in Scacco alla regina).
A distanza di anni è soprattutto lo stile a rimanere interessante, avendo perso il film,
con la liberalizzazione de costumi, un po’ della sua carica di provocazione, come rileva
anche il critico Marco Giusti: «Allora un supererotico con Catherine Spaak scatenata
donna-padrona […]. Oggi […] una commediola erotica abbastanza buffa e pop, forse
anche un filo femminista. Perfino la scena finale, con i capelli ben fissati sui seni di
Catherine Spaak per non far vedere troppo, risulta adesso castissima. Allora però usciva
negli stessi giorni di Teorema di Pasolini e sembrava una commediola sgraziata e
insultante»2.
Il ritratto di Mimì sviluppa le premesse del personaggio di Francesca che Catherine
Spaak aveva interpretato per La voglia matta di Luciano Salce. Festa Campanile sarà
regista
che
accompagnerà
l’attrice
belga
verso
la
il
maturità recitativa,
trasformandola da ragazza borghese desiderabile in giovane donna emancipata che, in
epoca postsessantottina, diventa, con la sua libertà di comportamento morale e sessuale,
una protofemminista: il punto d’arrivo di quest’evoluzione sarà Con quale con quanto
amore (1970), in cui nel ruolo di Francesca (proprio come nel film di Salce) sarà una
moglie fedifraga che si farà riconquistare dal marito tradito, costringendolo a ricercare in
se stesso un comportamento più attento alle esigenze della donna.
Ne La matriarca il ritratto di Mimì è indebolito dalle concessioni del regista alla moda
del tempo: i riferimenti a Lelouch e Buñuel impediscono un discorso più coerente e
personale.
Il successivo Il merlo maschio (1971) riesce invece nell’intento di costruire una
personale e «graffiante analisi delle ossessioni erotiche contemporanee»3: il regista,
autore anche del soggetto e della sceneggiatura, che trae da un breve racconto di
Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth, porta a compimento le sue tematiche (il
soggetto protagonista alle prese con un aspetto abnorme della quotidianità, le pulsioni
sessuali ossessive, le teorie di Reich), giocando con i diversi modi espressivi, letterari (il
diario), musicali (il melodramma e lo scherzo), pittorici.
Il complesso di Loth di Bianciardi è un resoconto clinico, narrato in prima persona dal
protagonista, un violoncellista di fila che si eccita fotografando la moglie e libera la
propria libido soltanto mentre fotografa gli accoppiamenti con una Polaroid:
So che il mio caso è grave, e ne ebbi conferma dall’analista, la quale aveva continuato a
prendere appunti, sempre più accigliata in viso. Ancora non so la diagnosi: forse scriverà che si
tratta di un insolito incrocio fra voyeurismo ed esibizionismo, chissà. Forse dovrà frugare nella
2
3
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 448
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.140
3
mitologia greca per battezzare un complesso sinora inaudito: Narciso, chissà, Alcibiade, o forse la
Bibbia, per esempio Loth (con allusione ai sali contenuti nello sviluppo) o forse Cam, che vide le
vergogne del padre ebbro, e fu dannato. Non lo so. […]4
Il racconto non propone altro. Intorno a questa idea, che costituisce il centro narrativo
di Il merlo maschio – Niccolò Vivaldi, violoncellista di fila, fotografa la moglie nuda –
Festa Campanile sviluppa un grottesco che «mette in scena la tragedia di chi non sa più
riconoscere se stesso»5 e in cui «il tema del voyeurismo, identificabile con il fare stesso
del cinema, viene posto al centro di un discorso molto coerente sul piano narrativo,
volutamente costruito su un crescendo paradossale»6.
Il protagonista ha i suoi precedenti in campo letterario: in quei personaggi creati da
Italo Svevo, irrimediabilmente mediocri, ma tentati da una presunzione di talento che li
costringe a misurarsi con eventi più grandi di loro e li porta alla rovina. Niccolò Vivaldi
(un nome che è già una pena da scontare) è uno di questi personaggi, lo comprendiamo
dalla presentazione che fa di se stesso all’inizio de Il merlo maschio:
Mi chiamo Niccolò Vivaldi. Sono musicista, sposato, ma non sono contento. E’ la gente…ecco, la
gente che non si ricorda mai di me. A certa gente sono stato presentato dieci, venti volte: io mi
ricordo benissimo di tutti, ma loro di me non si ricordano mai. Eppure ho un viso marcato, una
forte personalità musicale, ho temperamento: non sono un nulla.
E’ un violoncellista di fila cui manca il talento per diventare solista, che, come lo Zeno
Cosini di Svevo, è in cura da uno psicanalista e tiene un diario clinico per curarsi dal
malessere mentale che lo attanaglia:
Il medico mi ha detto che è solo un esaurimento nervoso, e siccome è un amico mi ha detto
anche che è inutile spendere soldi per curarmi da lui. La cura, dice, consisterebbe nell’andare da lui
due o tre volte la settimana per raccontargli tutto quello che mi passa per la testa, ma è la stessa
cosa, mi ha detto, se scrivo un diario, purché scriva sempre la verità, a proposito di tutto quello
che mi capita, di tutto quello che penso e addirittura anche i sogni.
Così annota puntualmente i suoi rapporti col tirannico direttore d’orchestra («Amici
belli, dovete mettervi in testa una cosa: voi siete dei professionisti, pagati male, lo so,
ma sempre meglio di quello che meritate…e allora mettetecela tutta, santa madonna!»)
che dimentica il suo nome e lo chiama Frescobaldi, gli scherzi del vicino di fila
Cavalmoretti (che gli sostituisce la partitura del Primo scherzo di Mendelsson-Bartholdy
con lo spartito di Funiculì Funiculà), gli incidenti occorsigli nella vita (venne dimenticato
dall’autista durante il viaggio di nozze): «sono cose insignificanti – scrive – che non le
devo drammatizzare. Io però con questa storia che la gente non mi riconosce mai,
proprio mai, ci sto male». Quando il direttore applaude un’esecuzione dei violoncelli cui
4
Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth, in La solita zuppa e altre storie, Bompiani, Milano,
1994, pp. 67-68
5
Aldo Viganò, Commedia…, cit., p. 140
6
Ibidem
4
Vivaldi non ha partecipato, entra in crisi, smette di minimizzare e dubita delle proprie
qualità:
La verità è questa, che il mio violoncello, ci sia o non ci sia, è lo stesso: nessuno lo sente. Forse
lo sbaglio è stato nella scelta dello strumento: si sa, il violoncello è uno strumento di
accompagnamento, non è mai il primo attore, serve a fare tappezzeria, a dare rinforzo ai bassi. No,
il medico mi ha raccomandato di scrivere sul diario tutta la verità…Esiste anche Pablo Casals, esiste
un primo violoncello. Esistono sonate per violoncello e piano, in cui è il piano a fare da
accompagnamento. Esistono pezzi scritti apposta per il violoncello. Sono io che faccio parte della
massa, non il violoncello!
Quando crede che anche il violoncello gli si ribelli («Costanza, ho capito tutto. E’ lui, lui
che s’è nascosto. Si vergogna di me, mi odia…»), lo psicanalista gli consiglia di prendersi
un periodo di riposo e di accompagnare la moglie a Salsomaggiore dove deve curarsi
l’artrosi. In questo luogo ha una rivelazione fulminante, quella donna modesta,
dall’apparenza mesta, di scarsa fantasia («Fa la polenta nei giorni pari…la fa malissimo»),
spogliata è una donna bellissima, guardata con golosità da tutti i medici delle terme (ed
anche da qualche critico, come Leo Pestelli, che scrisse, su La Stampa: «Attrice da tenere
d’occhio, e possibilmente sottomano»7). Vivaldi si scopre contento e non geloso delle
attenzioni degli estranei verso sua moglie («Peccato che la cura dei fanghi sia finita,
anche perché Costanza ha ripreso quel suo aspetto di brava casalinga») e comincia ad
avere l’idea di possedere uno strumento di rivalsa verso chi non lo considera, sua moglie:
«Magari vestita non sei un granché, ma quando sei tutta nuda è un’altra cosa. Così ho
pensato: non sarò un gran violoncellista, sarò un uomo così…qualunque. Ma ho una
moglie che se la vorrebbero portare a letto tutti, invece è solo mia».
Seguendo il consiglio di un musicista tedesco acquista una Polaroid e la fotografa
segretamente («[…] dicono che la pellicola si sviluppa da sola, ma non aggiungono che si
sviluppa senza bisogno di portarla dal fotografo professionista»8), mostrandola al collega
Cavalmoretti («Questo qua non è un culo, boia: è un organo celeste, è una viola. E’
Bach!») che rimane sorpreso: «Uno che si cucca ‘sti lombi è un parone lui, no un
poareto». Quando Costanza scopre il commercio che fa di lei il marito, arrivato a
pubblicare le sue foto su un giornale pornografico, cerca rifugio dai genitori, che scopre
molto emancipati: parteggiano per il marito e le sue manie voyeuristiche ed esibizoniste
(«Il sesso è un gran conforto, se no è sempre la solita minestra»: è un omaggio a
Bianciardi, presente nel film nel ruolo del violoncellista Mazzacurati, autore di un racconto
sulle abitudini sessuali degli italiani intitolato La solita zuppa).
Sempre più frustrato nella vita reale («Un uomo frustrato dalla vita, spesso cerca la
propria rivincita col sesso» recita lo psicanalista, citando William Reich), Niccolò Vivaldi:
la sera che potrebbe significare una svolta si risolve in uno scacco. Ammalato il primo
7
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.773
5
violoncello, durante la messinscena della Tosca, il direttore sceglie al suo posto
Cavalmoretti. Vivaldi decide di suicidarsi, buttandosi nell’Adige con il violoncello: «E’ la
prima volta che mi suicido: mi dispiace di farlo, ma non mi resta altro. Sono un fallito. E
poi, non mi trovo bene in questo mondo»: l’ammissione di colpa è subito superata in
un’assegnazione di colpa (agli altri). Cavalmoretti, comunque lo dissuade dal suicidio,
mostrando una concezione della vita molto pragmatica, capace di adattarsi alla propria
mediocrità, senza presunzione:
La vita è una festa malinconica…Ho fatto il solista una sera e basta, ecco, tutto qua. Doman se
ritorna il cojon de sempre…I dolori son come i soldi caro mio: chi li ha se li tiene. C’è chi sta a galla
e chi va a fondo e noi siamo quelli del fondo, ma proprio, eeehhh…
Se ne vanno a bere in un’osteria, dove c’è un altro personaggio dalla morale concreta,
che non fa che rafforzare le idee di Cavalmoretti: un ubriaco consapevole dei tradimenti
della moglie, che se ne torna a casa quando sa che l’amante l’ha appena lasciata. «Sei
becco, ma rispettoso degli orari» gli fa Cavalmoretti e la risposta dell’ubriaco è ovvia:
«Se tutti i becchi avesser un lampion, oddio, sai che illuminazion». Stimolato dai successi
che ha con la moglie, si decide a comporre un’opera - «Il merlo maschio, opera gioiosa di
Niccolò Vivaldi» - ma, una volta terminata, scopre con disperazione di averne copiato,
nota per nota, una già scritta: La gazza ladra di Rossini.
L’ossessione di Vivaldi peggiora, insieme con la sua frustrazione. Adesso, con la
moglie compiacente, organizza delle vere e proprie messinscene, mostrandola nuda al
portiere del suo palazzo (finge di non aver la chiave dell’appartamento e che la donna si
sia sentita male nel bagno), agli operai di una ferrovia (la mostra nuda nel bagno), ad un
dottore, ricavandone grande soddisfazione, arrivando a fare l’amore con Costanza
davanti alle diapositive del direttore d’orchestra.
Lo stile di Festa Campanile si fa immaginifico. La progressione ossessiva di Vivaldi è
visualizzata, oltre che con obiettivi grandangolari che distorcono le prospettive e
movimenti di macchina rotatori, continui, circolari o basculanti, quasi ipnotici - è ne Il
merlo maschio che Festa Campanile mette a punto quella sua particolarità stilistica che
consiste nel rifiutare la consueta punteggiatura cinematografica (dissolvenze, stacchi,
neri) sostituendola con rapidissimi movimenti laterali della mdp che collegano le
sequenze senza soluzione di continuità – con visioni oniriche surreali e grottesche che
concretizzano i transfert psicanalitici del protagonista. Sono sequenze come il sogno della
prova con il direttore d’orchestra («E’ un pezzo da suonare in pianissimo…Lei lo suona
addirittura in zitto»); quella celebre in cui il violoncello è sostituito dalla visione
posteriore di Costanza nuda, in un atteggiamento che ricorda la sagoma dello strumento
o quando sogna di essere diretto in un amplesso con Costanza dal suo persecutorio
8
Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth…, cit., p. 63
6
direttore d’orchestra: «Più brio, più brio…più basso, carezzevole…il pizzicato…adesso
l’acuto»). L’obiettivo indaga sui volti e sui dettagli, ne dilata i lineamenti, ne amplifica i
turbamenti (le gocce di sudore che imperlano il volto di Buzzanca, quando urla
freneticamente: «Voglio svegliarmi, voglio svegliarmi»).
L’ossessione del protagonista non può che avere una conclusione. Vivaldi perde il
controllo di sé stesso: quando la moglie rischia di morire e gli chiede di smettere le
esibizioni, l’uomo rimane vittima di un’amnesia freudiana: dimentica egli stesso il proprio
nome. Costanza capisce che ormai è irrecuperabile: durante la rappresentazione
dell'Aida, fa modo di partecipare al coro e si denuda davanti al pubblico dell’Arena (c’è un
montaggio preciso, rispettoso dei punti dei vista e delle differenti reazioni dei personaggi:
quando Costanza si denuda, il primo sguardo è del marito che se l’aspetta e
l’inquadratura successiva è quella del corpo della donna ripreso di profilo; lo sguardo
successivo è di Cavalmoretti, che rimane sorpreso: stavolta inquadratura dell’attrice è
frontale, lei è nuda; infine abbiamo il punto di vista del direttore d’orchestra e poi del
pubblico: la mdp si alza in un totale, poi in un campo lungo, con movimenti laterali
riporta la sopresa degli spettatori): Vivaldi, stravolto, spinge via il direttore dal suo palco,
lo sostituisce e comincia ad assaporare quello che crede il suo trionfo, mentre il pubblico,
esterrefatto, protesta, mostra il corpo della moglie:
Adesso il controfagotto. Su, girati, di dietro, di dietro…Fatti vedere di dietro. Fatti vedere di
dietro!! E’ bellissima, è magnifica: è mia moglie. E’ tornita: è mia moglie. E’ mia moglie. E’ un
organo celeste. E voi siete tutti tangheri, macachi, froci, froci, impotenti, impotenti!!
Gli infermieri della croce verde lo portano in manicomio, dove la sua ossessione non
accenna a passare. Quando la moglie lo va a trovare, infatti, la mostra agli altri malati,
ricercando ancora un impossibile successo: «Hai ragione è una gran bella tetta. – dice
uno di essi - Mo’ ve’, ne ha anche un’altra. […] Attesto e certifico che la moglie di Niccolò
Vivaldi ha le tette più belle del mondo, per averle toccate con mano».
Il merlo maschio ebbe un grande successo all’estero, in Francia soprattutto (dove
ebbe le migliori recensioni critiche9), e piacque moltissimo a Luchino Visconti, come
ricorda lo stesso Festa Campanile:
Ho fatto diversi film con Buzzanca, alcuni dei quali ottennero molto successo. E’ un bravo attore
che ha avuto la sfortuna di imbattersi nei soliti filoni, nei generi, e forse ha fatto troppi film uno
dietro l’altro sfruttando lo stesso personaggio e lo stesso genere. A me è capitato di fare con lui
uno dei film che amo di più, Il merlo maschio. Il merlo maschio piacque moltissimo a Visconti, il
quale mi disse una cosa che mi lasciò un po’ perplesso: «Se invece di esserci Buzzanca ci fosse
stato Dustin Hoffman sarebbe stato un capolavoro!». Io sono contrario a questo atteggiamento.
Quando Il merlo maschio uscì in Francia i francesi, non avendo consuetudine con il genere
Buzzanca, col filone Buzzanca, non avendo quindi le prevenzioni che c’erano in Italia nei riguardi
9
Cfr. J.Zimmer, Saison ’74; G. Brancourt, Ecran, 20.12.1973, con intervista al regista di A. Ben
Canaan; Anonimo, Cinéma et Télécinéma, 501, 15.1.1974
10
Fofi-Faldini, Cinema italiano…, cit., p. 184
7
dei film interpretati da Buzzanca, scrissero inni su Buzzanca e sul film. Buzzanca era bravissimo. Se
ha dei limiti, questi secondo me sono rappresentati dalla ripetizione di certi personaggi di maschio
italiano, di gallo siciliano. Ma non gli sono attribuibili, semmai è colpa della produzione, perché è un
attore che potrebbe avere molte altre corde.10
Festa Campanile aveva ragione: senza Buzzanca, Il merlo maschio non avrebbe potuto
risultare, con altrettanto efficacia, una riflessione sulla frustrazione dell’italiano negli anni
del riflusso economico, il ritratto di una mediocrità artistica ed, insieme, un’analisi sui
meccanismi voyeuristici e sull’ossessione erotica.
Se, strutturalmente, Il merlo maschio rimanda a La coscienza di Zeno (il racconto in
soggettiva, il diario clinico), la figura di Niccolò Vivaldi rimanda ad altri personaggi creati
da Italo Svevo, quei suoi artisti mancati o falliti, per scarso talento, poca convinzione ed
inerzia di carattere, come l’aspirante filosofo Alfonso Nitti di Una vita («Aveva trovata la
sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana […] Il titolo intanto: L’idea
morale nel mondo moderno e la prefazione in cui dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era
uno scopo teorico senza veruna intenzione di utilità pratica […]. Lavorava bene ma
lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi
che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. […] Dopo qualche mese, vedendo che il
risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione
[…] venne preso da un grande scoramento.»11) l’Emilio Brentani di Senilità («Da molti
anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non
aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia»12) e, soprattutto, il Mario Samigli di Una
burla riuscita («Mario Samigli era un letterato quasi sessantenne. Un romanzo che egli
aveva pubblicato quarant’anni prima si sarebbe potuto considerare morto, se a questo
mondo sapessero morire anche le cose che non furono mai nate. […] Alla sua età egli
continuava a considerarsi destinato alla gloria, non per quello che aveva fatto, né per
quello che sperava di poter fare, ma così, perché un’inerzia grande, quella stessa che
gl’impediva ogni ribellione alla sua sorte, lo tratteneva dal faticoso lavoro di distruggere
la convinzione che s’era formata nell’animo suo tanti anni prima»13).
Niccolò Vivaldi non è un fallito perché inetto (Festa Campanile non è Svevo), è un
personaggio che presume avere qualità che non ha, però è disegnato con lo stesso gusto
umoristico di Svevo: è un uomo che vive a contatto con l’arte e per questo è convinto di
possedere qualità artistiche, che nello stato presente non mostra, ma che è convinto di
riuscire a rivelare in seguito. La frustrazione nasce dal non essere in pace con sé stesso:
11
Italo Svevo, Una vita, Dall’Oglio, Milano, 1938, pp. 83-84
Italo Svevo, Senilità, Bompiani, Milano, 1985, p. 6
13
Italo Svevo, Una burla riuscita, in I racconti, Rizzoli, Milano, 1988, p. 176
12
8
è un atteggiamento contrario a quello dell’amico Cavalmoretti, consapevole delle proprie
(modeste) qualità.
L’ossessione voyeuristica ed esibizionista che l’ammorba – condivisa con tutti gli altri
conoscenti, da Cavalmoretti ai suoceri alla cognata, ma presente in condizioni abnormi –
è una metafora metafilmica curiosamente anticipatrice. Il merlo maschio riflette su
meccanismi erotici che il nostro cinema minore sfrutterà un quinquennio dopo, quelli del
corpo femminile divenuto oggetto del desiderio degli sguardi avidi ed ingolositi di
adolescenti impuberi e uomini maturi e frustrati: «Un’intera generazione è cresciuta
guardando fellinianamente il sesso dal buco della serratura, e certamente ne ha tratto
svariati problemi. Ma chi stava dall’altra parte del buco avrà vissuto davvero meglio la
propria sessualità?»14.
La risposta al quesito di Giacovelli potrebbe darla la paziente Costanza, pronta a
soddisfare il marito in tutte le sue folli pretese, pur di concedergli un minimo di
tranquillità. Costanza fa del suo corpo uno strumento da affidare nelle mani del maritodemiurgo-regista Niccolò, che ne Il merlo maschio costruisce con pazienza certosina e
malata, tante diverse situazioni erotiche da mostrare a personaggi ignari, sorpresi ed,
infine, attratti. Quella che Festa Campanile mette in scena è una metafora chiara e
precisa del rapporto tra regista, attori e spettatori nelle commedie erotiche. Niccolò
Vivaldi non è un personaggio da imparentare, come troppo spesso è stato fatto15, ai vari
Armandino Fusecchio (Alvaro Vitali in L’insegnante va in collegio, 1977, di Mariano
Laurenti), Roberto Marullo (Lucio Montanaro in L’insegnante viene a casa, 1978, di
Michele Massimo Tarantini), Persichetti (ancora Vitali in La soldatessa alle grandi
manovre, 1978 di Nando Cicero): non usufruisce in prima persona del piacere di vedere il
corpo nudo della moglie; trova soddisfazione nell'osservare il piacere che hanno gli altri
personaggi quando li mette in condizione di spiarlo. La sua è un’operazione di regia
(quando dispone le diapositive dell’odiato direttore d’orchestra dietro il letto nuziale è
come se allestisse una scenografia), che il regista Festa Campanile asseconda ed
evidenzia puntualmente, con effetti vertiginosi, come l’abissale sequenza del treno, in cui
dietro il riquadro del finestrino, il corpo nudo di Costanza è spiato da alcuni operai di
linea, a loro volta osservati dall’obiettivo della mdp e dunque ritagliati all’interno dello
spazio dell’inquadratura.
Niccolò Vivaldi può essere paragonato soltanto al professor Ulderico Quario (Enrico
Maria Salerno), il protagonista de Il corpo della ragassa (1979). E’ un altro demiurgo
14
Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 130
Cfr. Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana e Non ci resta che ridere, Masolino D’Amico,
La commedia all’italiana, Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga al festival di Cannes,
Paolo Mereghetti, Dizionario dei film.
15
9
ossessionato dal sesso che si cimenta nel tentativo fatale di fare della bella contadina
Teresa Aguzzi, detta Tirisin (Lilli Carati, «nel film che è un po’ il punto d’arrivo della sua
carriera di star»16), uno strumento di piacere sessuale. E’ una
figura
di novello
Pigmalione (come Henry Higgins dell’omonima commedia: «Io di questa stracciona posso
fare una duchessa […] Sì, in sei mesi – in tre forse se ha buon orecchio e lingua agile – io
potrò presentarla in qualsiasi posto e presentarla come ogni altra persona»17) che tenta
di trasformare una povera e sguaiata ragazza in «una gran dama, ovverossia una gran
puttana»: accetta nella migliore società come oggetto di sfrenate pulsioni sessuali, come
dimostra la sua presentazione, denudata, ad un ricevimento serale di borghesi benestanti
(una scena che ricorda la vendita di Silvia come schiava in Scacco alla regina).
Per meglio evidenziare l’ossessione erotica di Quario (subito presentata durante i titoli
di testa, quando, scorta dalla sua auto una visione fuggevole di Tirisin, esclama:
«Chiappa padana, razza sovrana!»), Festa Campanile scarnifica l’intreccio del romanzo di
Brera nelle linee essenziali - elimina la nonna di Tirisin ed un personaggio importante
come Chiara, la sorella psicopatica e lesbica del professore, per poter concentrare tutte le
perversioni sessuali sulla figura maschile, trasforma la prostituta lombarda Cecchina in
una romana, ed è una svolta fondamentale - tanto da rendere «tutta l’operazione […]
troppo poco padana rispetto al testo di Brera»18. Al regista non interessa tracciare un
quadro nitido della provincia padana (anche l’ambientazione è variata, dalla fluviale San
Zenone Po ad una più suggestiva Mantova, la città lombarda che mantiene nelle sue
vestigia ricordo degli intrighi e dei segreti dei Gonzaga, gli stessi di Una vergine per il
principe), quanto riprendere la stessa metafora metafilmica de Il merlo maschio. Se ne
accorse anche Marco Giusti, solitamente trascurato nell’accostarsi a Festa Campanile:
«La Carati viene veramente esibita come “corpo della ragassa” all’interno dello stesso
film. Vediamo il professor Ulderico Quario che la visita esattamente come i guardonispettatori che vanno al cinema, guardandola subito lì. E’ un momento quasi teorico per il
cinema erotico del tempo. La discesa nella vagina della Carati. E noi con lui»19.
Delle situazioni del romanzo, Festa Campanile conserva soprattutto le immaginose
mascherate che Quario propone a Tirisin (travestita da marchesa Solange, «degna erede
della contessa Amande de Collignon d’Avranche»20 o da Leila «che il bey travestito da
beduino ha gloriosamente rapito all’harem d’un suo rivale politico»21). Sono i momenti in
16
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 173
G.B.Shaw, Pigmalione (trad. di Masolino D’Amico), Newton Compton, Roma, 1995, p.35
18
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 173
17
19
Ibidem
Gianni Brera, Il corpo della ragassa, Longanesi, Milano, 1969, p. 200
21
Gianni Brera, Il corpo della…, cit., p. 205
20
10
cui Quario, come Vivaldi, assume il ruolo del regista: davanti agli specchi, che
moltiplicano le immagini e rivelano le personalità, ora spoglia, ora riveste, di gioielli e di
splendidi adornamenti, la ragazza («Lo specchio di Chiara, davanti al quale prende
coscienza di sé, marchesa Solange, non evoca pensieri minimamente fastidiosi. Il duca
Allan de Vendôme le ha chiesto di spogliarsi tutta come se fosse in camice e non in
smoking: la voce era quella stessa: Tirisìn obbedisce esattamente come il primo giorno,
quando
l’ha
visitata»22);
le
propone,
proprio
come
Vivaldi,
qualche
piccola
rappresentazione, in cui prepara puntualmente la scenografia e le battute da recitare:
per esempio, fingersi una prostituta in attesa di un cliente, che dovrà essere ovviamente
il professore.
Quario concerta la loro vita in comune con continue piccole rappresentazioni, assalti,
agguati, trabocchetti, atteggiamenti ambigui. Festa Campanile spezza l’andamento piano
del racconto con alcuni inserti grotteschi, come la sequenza in cui il professore, a letto,
posiziona una bottiglia di champagne sul basso ventre, per simulare
davanti a Tirisìn:
un’ erezione
invece nella sua camera entra la sua governante, Caterina, che
gridando: «Sporcaccione!» le dà una gran manata sulla bottiglia, frantumandogliela
addosso; è una sequenza, che, pur con una volgarità appositamente e pesantemente
caricata (il prof. Quario è un libertino volgare e non sottile, come crede) omaggia al Billy
Wilder di Sabrina, in cui William Holden si sedeva sui bicchieri. Anche Quario, come
Vivaldi, sarà vittima della sua perversione, della sua ossessiva lascivia: morirà in una
notte d’amplessi sfrenati con l’oggetto dei suoi impulsi libidinosi, Tirisin. Il corpo della
ragassa non è una riproposizione dei temi de Il merlo maschio: ce lo rivela questo
sorprendente finale, preparato da un intreccio matematico, cosparso da sottili allusioni,
minimi dettagli rivelatori, apprentemente sparsi in modo casuale e svagato. La semplice
e sbadata Tirisin, strumento ingenuo, oggetto dei propositi erotici del professore, si rivela
essere un soggetto dell’azione, perfettamente consapevole delle mire di Quario e capace
di governarle in modo insospettabile a suo profitto. Il professore muore in una notte di
sesso e la sua morte è enigmatica: il suo decesso potrebbe essere stato non proprio
casuale, ma provocato da Tirisin con l’unico strumento in suo possesso, il proprio corpo.
La regia di Festa Campanile è tanto ambigua da permettere lo sfalsamento di
prospettiva del punto di vista del racconto: Il corpo della ragassa ha la stessa struttura
narrativa di un giallo. Il colpo di scena finale rimette in discussione tutta la logica della
rappresentazione, ma il regista era stato attento a disporre l’indizio principale
esattamente a metà del racconto: quando il prof. Quario mette in scena una delle sue
22
Ivi, p. 200
11
azioni teatrali con protagonista Tirisìn, quella in cui la ragazza deve fingere di essere una
prostituta. Quando i due si incontrano su un ponte, la giovane,
nel ripetere le battute scrittegli dal professore, si confonde ed afferma di essere
“soggetto” di piacere, anziché “oggetto”. Quario s’arrabbia perché la ragazza ha sbagliato
le battute, ma non capisce che quello è stato un lapsus rivelatorio.
In questa storia sorprendente, in cui l’ossessione letale è raccontata con uno stile
allusivo e insinuante, opposto a quello grottesco e carico di Il merlo maschio, Festa
Campanile aveva sparso abilmente un altro indizio rivelatorio: il personaggio di Cecchina,
la vecchia prostituta romana. E’ lei ad ispirare il comportamento di Tirisìn, conoscendo
intimamente il prof. Quario e le sue perversioni, i suoi capricci, i suoi punti deboli. Il
cambiamento di regionalità è decisivo: la sua romanità sarcastica e, talvolta anche cinica,
stride con l’introversione cantilenante dei personaggi padani. La sua estraneità è
evidente, così come la sua funzione di controcanto, capace di smascherare le pulsioni
segrete di Quario, nascoste dietro un’apparente perbenismo. Il suo carattere intrigante
ne fa la confidente ideale di Tirisin: è sua l’idea di rilevare con i soldi di Quario il bordello
mantovano, l’occasione di una piena affermazione economica. Un ultimo, beffardo, colpo
di scena ci rivela che siamo nel 1958, ed il bordello appena rilevato verrà subito chiuso
con l’attuazione della legge Merlin. Tirisìn è capace di volgere a suo favore anche questa
situazione: l’ultimo giorno di apertura sarà l’occasione per scegliere i propri clienti.
La donna-oggetto diventa soggetto del piacere sessuale e trasforma l’uomo in uno
strumento (è una delle risposte possibili all’interrogativo di Giacovelli). Il corpo della
ragassa sviluppa le situazioni de La matriarca e Il merlo maschio: Tirisìn, progredendo
l’emancipazione di Mimì governa a suo vantaggio le libidini maschili (mentre Mimì era
ancora succube della virilità maschile, come testimonia il matrimonio finale con il
medico); le ossessioni erotiche che avevano condotto Vivaldi alla follia, ne Il corpo della
ragassa, spingono Quario verso una fine definitiva.
12
Capitolo 4: L’ambiguità dei rapporti interpersonali
(Il prete ballerino, ep. Qua la mano; Nessuno è perfetto; Più bello di così si
muore)
Il parroco di un paese padano senza alberi, Don Fulgenzio, anticonformista amante del
ballo, frequentatore di balere, incontra una sera in discoteca Rossana che s’innamora di
lui: la riporta alla ragione e, sfidando le gerarchie ecclesiastiche, partecipa con lei ad una
gara di ballo televisiva; vince e riceve in regalo gli alberi del paese (Il prete ballerino).
Guerrino Castiglioni, industriale lombardo vedovo con suocera a carico che aspira a
diventarne l’amante, incontra la fotomodella Chantal, se ne innamora pazzamente e la
sposa, scoprendo in seguito che è un transessuale, ex-paracadutista tedesco sposato con
prole: dopo un periodo di crisi esistenziale, decide di accettare le cose come stanno
(Nessuno è perfetto).
Il nullatenente Spartaco Meniconi, ex-detenuto disoccupato con moglie ambiziosa a
carico, mantenuto dal cognato, è costretto dalla famiglia a lavorare sul marciapiede e,
per non incorrere nella gelosia della moglie, a travestirsi ed attirare clienti maschi: il
primo che incontra è un barone miope succube della madre che lo scambia per una
donna, se ne innamora e chiede di sposarlo (Più bello di così si muore).
Un prete oggetto dei desideri di una ragazza, un uomo che sposa un transessuale ed
un altro che si innamora di un travestito: ci sono critici che hanno accusato Festa
Campanile di girare film convenzionali - Marco Giusti ha parlato di «commediucce»1 che
fanno ridere «con preti ballerini e papi polacchi»2, Brunetta di «film come Nessuno è
perfetto, Culo e camicia, Bingo Bongo, Un povero ricco, che contribuiscono a fissare gli
standard ideali della commedia degli anni Settanta e Ottanta»3, Giacovelli di commedie
«non esaltanti»4, Alberto Orbicciani di «commedie di immediato successo popolare, ma
decisamente poco memorabili»5 - ad inizio degli anni Ottanta.
Con il gusto delle trovate paradossali, Festa Campanile giunge a rappresentare il
problema
dell’identità
sessuale,
della
distorsione
e
dell’ambiguità
dei
rapporti
interpersonali nella vita quotidiana. Per far questo, e per raccontare storie insolite e
difficili che siano immediatamente accettate dal pubblico, rende il più possibile
“convenzionale” lo “sfondo” in cui si svolgono gli intrecci, sceglie come protagonisti attori
di grande successo popolare (Adriano Celentano è Don Fulgenzio, Renato Pozzetto è
1
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 633
Ivi, p.184
3
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p.322
4
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.91
5
Alberto Orbicciani, Adriana Russo, in Dizionario del cinema italiano, Le attrici, Gremese,
Roma, 1999, p. 307
1
2
Guerrino Castiglioni ed Enrico Montesano è Spartaco Meniconi) e ravviva gli intrecci con
spunti eccentrici e surreali.
Il prete ballerino (secondo episodio del “movie-movie” Qua la mano) e Nessuno è
perfetto hanno un’ambientazione provinciale, che permette di mettere in scena un
intreccio di pettegolezzi, allusioni, rivelazioni parziali ed enormi illazioni: le reazioni più
consone ad un ambiente dalla mentalità ristretta; Più bello di così si muore è ambientato
a Roma, vista però nei suoi lati più segreti (gli stretti vicoli del centro storico, le distese
pianeggianti delle periferie), che evitano l’inserimento della storia in un quadro sociale,
per un’analisi psicologica dei sentimenti privati.
L’ambientazione nella Bassa padana emiliano-romagnola consente al regista di fare de
Il prete ballerino un «riadattamento moderno del vecchio Don Camillo»6. Don Fulgenzio
ha come amico-nemico il sindaco Libero Battaglini (un Renzo Montagnani che, come
Peppino De Filippo, «travolgente nella sua apparente calma, faceva ridere solo a
pensarlo»7, capace di strappare la risata con un minimo movimento facciale), ma il
regista evita di fondare le loro dispute su qualsiasi sottofondo ideologico-politico (anche
se Battaglini è un «senza Dio» che, all’inizio del film va a confessarsi dopo vent’anni, in
seguito ad una scommessa persa): sono vecchi amici d’infanzia e con gli altri compagni
Benigno e Fausto, atei e pettegoli («Perché non metti su una bella trattoria. Avresti
sempre più gente di quel localino che hai adesso» chiede Benigno a Don Fulgenzio)
formano un gruppetto di burloni, amanti dello scherzo anche pesante.
Festa Campanile tratteggia, con l’aiuto di Celentano, il personaggio di Don Fulgenzio
con annotazioni eccentriche, facendone un prete molto stravagante: «è un ecologista che
lotta per far piantare dieci alberi per ogni abitante della sua parrocchia»8 (è in un paese
con un albero solo: «Voi avete mai visto un paese senza alberi? Un paese senza alberi è
come un prete senza Dio!»), è uno sportivo che ama la boxe e il ciclismo
(«Questa…questa è la chiesa, non il Coni – gli ricorda il vescovo esasperato –
Contravvenendo ai miei ordini, l’anno scorso hai partecipato al giro dell’Emilia Romagna»,
«Però sono arrivato primo», «Rischi di arrivare ultimo…») e, soprattutto, ama ballare
(«Dov’è che sta scritto che questo mestiere bisogna farlo senza allegria? Sant’Agostino
diceva: “chi canta prega due volte”. Io dico che chi balla prega tre volte»): a tal
proposito nasconde in canonica un impianto stereo e, tutti i sabato sera, se ne va
segretamente in discoteca (il Kiwi di Modena), insospettendo gli amici che credono abbia
un’amante:
Benigno: - Ah! Ma è vero che oggi è sabato…
Fausto: - Ma dov’è che vai tutti i sabato sera con la motocicletta.
6
Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p.80
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 198
8
Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p. 80
7
2
Libero: - Dicci la verità, dillo che vai dalla morosa…
Benigno: - Dai…
Libero: - Dicci chi è. La conosciamo?
Benigno: - Resta in segreto.
Don Fulgenzio: - Segreto segreto?
Tutti (in coro): - Sì.
Don Fulgenzio: - Vado dalla Zora.
Benigno: - Chi? Dalla Zora…
Libero: - La Zora quale?
Don Fulgenzio: - La Zora Battaglini: tua moglie
Libero: - Ma va, bestia di un prete! C’ha sempre voglia di scherzare, lui.
Don Fulgenzio rientra in casa.
Fausto: - Ragazzi, stasera non ci scappa…Ma se non va con tua moglie, con chi va?
Libero: - Andrà con la tua.
Fausto: - Impossibile. Mia moglie è un angelo.
Libero: - Beato te: la mia è ancora viva.
Non è sorprendente, quando, nella discoteca, una ragazza, Rossana (Lilli Carati), lo
nota mentre balla solitario e se ne invaghisce. Don Fulgenzio è indeciso sul
comportamento da tenere: non può dichiarare di essere un prete, perché è sconveniente;
non può accettare la corte della ragazza; non può neanche essere scortese con lei,
perché non è nel suo carattere e nella sua missione. Diventa elusivo, sulla sua identità
(«Di’ un po’, ma tu chi sei?», «Sono uno che balla»), sul suo lavoro («Il lavoro mio è
come una ditta…», «Un ente di stato?», «Di più…», «Un ente internazionale?», «Di più»,
«E che sarà mai, un ente spaziale?», «Eh…»).
Gli incontri sono ripresi frontalmente dal regista, con i personaggi seduti al bancone
del bar a sorseggiare una bibita, circondati da specchi e superfici riflettenti. Festa
Campanile riesce a mettere in scena una situazione ambigua, che Don Fulgenzio
vorrebbe rimanesse immobile (l’inquadratura frontale), ma che Rossana cerca di far
progredire (gli specchi che rompono la frontalità dell’immagine). Così ad ogni nuovo
incontro, la situazione si ripete, ma piccoli cambiamenti la variano, fino a farla sviluppare
nella direzione voluta da Rossana: Don Fulgenzio difende paternalmente Rossana da un
fidanzato sbruffone e lei lo crede un interessamento sentimentale, così da costringere il
prete a mentire («Si può sapere perché mi hai difeso, ieri, che Baby mi ha messo le mani
addosso?», «Ah, si chiama Baby?», «Nnon sviare il discorso», «Senti Rossana…io sono
sposato. E poi sono anche uno che…», «…Ama sua moglie», «Beh, sono fedele»);
Rossana beve con la sua cannuccia e si porta alla bocca la sua sigaretta, mentre continua
a porgli domande provocatorie («Non è che tu sei dell’altra parrocchia?…Io ti interesso?
Non so, non mi chiedi mai niente di me»), provocandogli un forte turbamento: Don
Fulgenzio fuma con la cannuccia ed aspira dalla sigaretta. Infine Rossana giunge a
baciarlo. Quando l’equivoco sembra senza uscita, una casualità conduce i due di fronte
ad un negozio di elettrodomestici, nella cui vetrina c’è un televisore che sta trasmettendo
un’intervista a Don Fulgenzio: la ragazza lo riconosce («Non è un fratello gemello, sono
3
proprio io. Adesso hai capito con chi sono sposato») e lo schiaffeggia («Certo, tu come
sai scegliere il momento, eh?» esclama il prete rivolto al Signore). Nonostante tutto, Don
Fulgenzio riesce a regolarizzare i propri sentimenti con Rossana ed a diventarne amico,
giovandosi della loro passione comune della musica.
Una passione per Don Fulgenzio veramente sfrenata (salta scatenato tra le panche
della chiesa, seguendo il ritmo delle gocce di pioggia che tintinnano sulle bacinelle
d’acqua dal tetto rotto), che supera anche gli ostacoli frapposti dalla morale comune e
dalle gerarchie ecclesiastiche («Per entrare nel regno dei cieli bisogna essere puri come
bambini. Guarda il vescovo…Quello lì che bambino è…Si fosse trattato di una donna o
addirittura di un uomo era disposto anche a chiudere un occhio. E io, invece, per aver
fatto una ballatina, ha fatto un ca…voglio dire: ha fatto un baccanone»). Quando un
temporale fulmina l’unico albero rimasto nel paese (proprio dopo che Rossana lo ha
baciato, Don Fulgenzio non vuole credere che sia una punizione divina: «Forse queste
cose le faceva tuo padre, quand’era più giovane. Voglio dire…ai tempi del Vecchio
Testamento» dice rivolgendosi al Crocifisso), partecipa con Rossana ad una gara di ballo
televisiva per vincere gli alberi, sfidando il vescovo (che aveva promesso di spedirlo in
Sudamerica), assecondando le ire di Libero («Invece di fare il prete da strapazzo,
dimostra che sai fare qualcosa per questo paese, prima che sprofondi nella merda.
Rischia qualcosa anche tu! Così magari ti fanno santo: Santo Fulgenzio degli alberi») e
producendosi in una predica televisiva (la prima di Celentano, sette anni prima di
Fantastico, che davanti all’allibito presentatore, un giovanissimo Andrea Roncato, cita
Sant’Agostino e San Paolo: «Omnia munda mundis: tutto è puro per i puri di cuore»).
Don Fulgenzio ha tanto successo da vincere la gara e sconfiggere il vescovo, poiché il
Papa stesso («Roba grossa! Roba vestita bianco» urla il sindaco) ha visto la sua
esibizione e, proprio mentre sta per partire («Come diceva San Colombano, prima di
partire diamoci la mano. Avete perso un prete, ma avete guadagnato gli alberi. Qua la
mano»), gli telefona, impedendogli di partire per il Brasile («Peccato: mi sarei
perfezionato nella samba»).
«Sorretto da una regia che sminuisce la splendida forma di Adriano («Il film s’impenna
– scrisse Tullio Kezich su La Repubblica -
sulle piroette scattanti di un Celentano che
procede a ritmo rock. Non lontano dalla recitazione ballata di James Cagney, insomma
quasi un fenomeno») e stimola efficacemente il cocktail rock-ecologico-surreale, tre delle
“vene d’oro” del Molleggiato autore e dell’attore Molleggiato»9, Il prete ballerino
compatta nella durata di un mediometraggio tre differenti linee narrative.
9
Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p.80
4
E’ un’operazione opposta a quello di Nessuno è perfetto (1981), che invece dilata uno
spunto iniziale che Festa Campanile riprende da Billy Wilder: la battuta finale di Joe
Brown a Jack Lemmon, quando quest’ultimo gli rivela di essere un uomo, in A qualcuno
piace caldo (1959). L’analisi psicologica è approssimativa e ridondante, per difetti di
sceneggiatura.
Fra soggettisti e sceneggiatori si sono fatti in quattro per dar modo al regista Pasquale Festa
Campanile di strapparci qualche risata. Forse in troppi. Se Festa Campanile se la fosse scritta da
sé, questa storiella, probabilmente il film sarebbe infatti riuscito migliore: non avrebbe sofferto di
quell’ibridismo, metà farsesco metà drammatico, che non si traduce in grottesco, né lustra il
paradosso d’ironia. […]
La prima parte si spreca in sbaciucchiamenti fra la coppia impossibile Renato Pozzetto e Ornella
Muti, con equivoci, capocciate, tuffi in piscina, e viaggi incantati negli occhi di lei; la seconda tenta
con poco successo un confronto tra la balordaggine buffonesca di Guerrino e l’amorosa umiliazione
della moglie-parà. Nel complesso effusioni, vaghissima critica di costume, e gran sfilata di
toilettes.10
La prima parte presenta un momento centrale isolato dal contesto: la notte in camera
d’albergo, dove Guerrino, ubriaco, incontra Chantal che tenta il suicidio; trattata come
una pochade, con un meccanismo dai tempi perfetti (Guerrino e Chantal hanno preso la
stessa camera, ma non si incontrano mai finché non si mettono a letto), ma che non
aggiunge niente psicologicamente al disegno dei due personaggi.
Il personaggio di Guerrino è disegnato con il gusto surreale tipico di Pozzetto: vedovo
di una donna di cui era innamoratissimo, parla con la sua fotografia al cimitero, porta alla
rovina la sua fabbrica (da quaranta dipendenti a due soli imbottigliatori di vino, che
stampano le etichette con la macchina da scrivere e le incollano con la lingua), subisce i
pettegolezzi del paese sul concubinaggio con la suocera, che vorrebbe realmente
convivere con lui («Sai che stasera tua madre mi ha chiamato amore? – domanda alla
fotografia di sua moglie – Ormai è senza freni, non ha più limiti. Mi hai fatto proprio un
bel regalo. Ma non poteva morire lei?»). E’ un solitario, così come la fotomodella Chantal:
il loro incontro è prevedibile.
Una regia precisa e fluida - che definisce in modo nitido e piacevole le situazioni (i
vitelloni che spettegolano sul muretto) ed i referenti (Guerrino, annoiato, guarda la Tv,
dove sui canali passano, di seguito, una sequenza di Totò a colori, una de Il vizietto ed
una di Qua la mano (l’episodio con Montesano): è una dichiarazione di poetica - sviluppa
nella seconda parte un intrigo quasi giallo, con Guerrino che si improvvisa investigatore e
ricostruisce l’identità di Chantal, grazie ad alcune fotografie, una rivista tedesca, una
strana visita che riceve sua moglie (una donna ed un bambino che la ricattano). Quando
scopre la verità, come nei gialli morali della storia del genere (i romanzi di Patrick
Quentin, in cui «la realtà è un’apparenza ingannevole […] Soluzione del mistero significa
10
Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1989 (1982), p. 143
5
quindi acquisizione di una nuova realtà»11 o i film di Arthur Penn), ha una crisi morale e
stretto tra lo sdegno dei concittadini ed i loro pettegolezzi, lo sgomento per una verità
inaspettata ed una discordanza
tra
il
piacere
sessuale
provato
con
Chantal
ed il disgusto di riporto, rischia di perdere la sua compagna. Stizzito ed impaurito dalle
reazioni dei conoscenti, infatti, tenta di mettere in scena prima un finto tradimento della
moglie e poi una sua finta gravidanza, per ribadire la condizione attuale di Chantal, ormai
donna con il risultato di far fuggire la moglie. Ridotto ad un triste ménage con la suocera,
avrà la forza di vincere le convenzioni ed il perbenismo, dopo un incontro con l’amico
Enzo, che lo sferzerà con parole rivelatorie del senso del film:
Guerrino, tu non sei solo uno stronzo. Tu sei peggio: sei un mediocre! Come hai potuto
infognarti in questo squallido concubinaggio…Ti rendi conto che sei nella merda fino al collo, sì o
no? Ma cosa te ne frega a te se era una donna, un uomo, un muratore o un carabiniere! Tu l’ami. E
allora? O hai paura di quello che dice la gente? Anche se prima fosse stato un albero, un gatto, un
angelo o una strega, vattelo a riprendere! Cosa aspetti? E’ l’amore che conta!
E’ un inno alla libertà dell’amore e, più in generale, alla purezza dei sentimenti,
vincitrice sul conformismo e sul consumismo della società moderna: una morale
ricollegabile a quella di Più bello di così si muore (1982).
Tratto da un romanzo dell’umorista Antonio Amurri, il film è un apologo sull’ennesima
deviazione sessuale, il travestitismo, in cui la farsa grottesca è sottesa da un’amara
satira della società dei consumi («Tra le pieghe della farsa leggera affiorano i veleni di
un’amarezza maligna che verso la fine si tinge di malinconia»12). Spartaco è costretto a
prostituirsi, travestendosi, da una famiglia (una moglie incinta, un cognato arrivista
sposato ad una donna piuttosto facile) che aspira ad una buona posizione sociale. Per far
questo è disposta a sfruttare l’unica risorsa di Spartaco, la potenza sessuale (uno
sfruttamento analogo a quello di Conviene far bene l’amore, in cui la potenza sessuale
era produttrice di risorse energetiche). L’incontro con il barone Nereo, succube di una
madre possessiva (è un personaggio simile a quello di Didino in Alla mia cara mamma nel
giorno del suo compleanno, senza sprazzi surreali, ma descritto con una comicità
realista: «Quando vengo a Roma, vado sempre in albergo. Anzi, ogni volta in un albergo
diverso, così mammima è costretta ad aspettare che sia io a telefonare» dichiara stizzito
a Spartaco) è l’avvio di una storia impossibile: Nereo scambia Spartaco (che nel
frattempo ha adottato lo pseudonimo di Marina) per una donna e se ne innamora
(«Marina, sei differente dalle altre donne: hai qualcosa di speciale» le confida Nereo),
sommergendolo di regalie con cui l’altro sostiene la famiglia. Quando Spartaco è
costretto a rivelare al barone la propria identità (ospitato nella sua casa con i familiari, è
stato visto in abiti maschili e la situazione si è fatta insostenibile),
11
sarà
ancora
Alberto Tedeschi, Introduzione a Patrick Quentin, Controcorrente, Mondadori, Milano, 1976, p. VI
6
l’ambiziosa Amalia («io ormai me so’ pure abituata…a magna’ tre volte al giorno. Tutte
le sere il televisiore a colori», «Pane e miseria m’hai fatto magna’. Manco l’affitto de ‘na
baracca sei stato bono a guadagna’. Pe’ viaggio de nozze m’hai portato a Fregene…») a
risolvere a modo suo la situazione: si concederà a Nereo, iniziando un concubinaggio a
tre («Ma perché fai così – ricorda allo scocciato Spartaco – Nun ce fa manca’ niente:
vestiti, sordi, da magna’, pure l’automobile»). Il finale è una beffa alle convenzioni:
Spartaco (che ora vive agiatamente, ma come un mantenuto) riacquista la falsa identità
di Marina, chiedendo a Nereo di reinstaurare il loro legame d'amicizia e riappropriarsi di
una purezza di sentimenti e della propria identità perduta («Io ho sempre preso calci
nella vita […].
Poi me so’ stravestito da donna e per la prima volta ho trovato una
persona che me trattava con gentilezza, se preoccupava de me»).
E’ una storia che Festa Campanile regge perfettamente in bilico tra la volgarità
potenziale delle situazioni narrative e le eleganze espressive con cui sfumarla: la raffinata
fotografia di Contini e la scenografia di Crisanti che immergono il racconto tra i vicoli del
centro di Roma, e contrappongono i palazzi sontuosamente arredati del barone Nereo e
con la piccola abitazione fredda e oscura di Agenore; il contrappunto a Spartaco
rappresentato dal felice travestito Marcello («’No sbajo de natura!» lo chiama Spartaco,
prima di travestirsi anche lui), che ispira i parenti; la precisa caratterizzazione di
personaggi secondari (come Ottavia, la cognata di Spartaco che pretende di sapere il
francese: «Siamo tette a tette…[…] Vuol dire capoccia a capoccia»). Micciché ritiene il
film tra i migliori del regista, rilevando la presenza di «un irresistibile Caprioli che si
innamora del travestito Montesano»13. Vittorio Caprioli era uno degli attori preferiti dal
regista:
la
loro
amicizia
era
talmente
profonda
che
all’attore
era
consentito
d’improvvisare i suoi ruoli sul set. Il loro sodalizio
era iniziato con quel delizioso film che è Le voci bianche, dove Vittorio aveva così potuto
tratteggiarsi al meglio quel personaggio di cantore bianco settecentesco, evirato nel fisico ma
rimasto profondamente virile nella mente e nell’anima, tanto da preferire il suicidio a una simile
condizione di vita, ed era terminato, passando attraverso successive prestazioni, con la
caratterizzazione del barone cieco come una talpa, ma gran signore, di animo e di modi squisiti,
che si innamora di una donna che è in realtà uno straordinario Enrico Montesano costretto per
necessità a travestirsi, in Più bello di così si muore. Quando Pasqualino telefonava per una proposta
di lavoro esordiva sempre chiedendo: «Vittorio hai qualche tassa da pagare;» e la risposta era
invariabilmente: «Sì!».14
Il critico Morando Morandini ha acutamente rilevato che «En travesti il bravo
Montesano assomiglia a Franca Valeri trentenne e duetta con Caprioli e il suo istrionismo
sornione»15: il regista ripropone ironicamente i duetti di circa vent’anni prima della
12
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.989
Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p.414
14
Virginia Caprioli, Vittorio ed io, cit., p.139
15
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.989
13
7
coppia Valeri-Caprioli. Fondati su una struttura ad equivoci doppi (il travestimento di
Spartaco e la miopia di Nereo: l’uno ha da nascondere qualcosa, l’altro non ha occhi per
guardare) i duetti tra Montesano e Caprioli consentono al regista di parodiare gli
stereotipi della commedia sentimentale: il primo incontro (tra le passeggiatrici dello
stadio dei Marmi), il primo invito a cena, il primo bacio sul divano della casa di Nereo (il
divano si ribalta, Nereo perde gli occhiali e Spartaco la parrucca). E’ un gioco di rimandi e
di battute, con punte di sarcasmo, tra il languido ed aulico Nereo («Oh, la tua manuccia
ha sfiorato la mia boccuccia») e il pragmatico e becero Spartaco («Che tocca fa pe’
campa’»).
Progressivamente, però, pur aumentando gli equivoci (gli scambi di identità), il
rapporto tra Spartaco e Nereo si fa sempre più solido (ad Agenore che insulta il barone,
Spartaco risponde: «Non è uno stronzo: è innamorato»). Una vera ammirazione
s’impadronisce di Spartaco nei confronti di quel barone, miope, un po’ maniaco, ma
buono e generoso. Si giunge così al ricordato finale, in cui i loro rapporti accettano
l’ambiguità della rappresentazione, subordinata, però all’acquisizione di un sentimento
vero (in questo caso d’amicizia: «Ma no’ ‘o vedi che p’ave’ ‘n amico me so’ rivestito da
donna» esclama Spartaco): una conclusione comune ai tre film analizzati.
8
Capitolo 5: Roma e la sua disperata vitalità.
(Le voci bianche, Rugantino, Sto così col papa, Manolesta)
Per comprendere meglio il disegno che Festa Campanile fa della città di Roma e dei suoi
personaggi nei quattro film a lei dedicati (Le voci bianche, Rugantino, Sto così col papa,
ep. di Qua la mano e Manolesta) – i protagonisti, Meo, Rugantino, Orazio e Quirino pur
essendo diversi tra loro per funzione sociale ed epoca storica in cui vivono, hanno tutti
una stessa impronta caratteristica: una vitalità cialtrona e sbruffonesca – è opportuno
risalire a quell’opera-prototipo che è la commedia musicale Rugantino, che Pasquale
Festa Campanile e Massimo Franciosa scrissero nel 1963, con la collaborazione di Luigi
Magni, per Pietro Garinei e Sandro Giovannini: un successo eccezionale di pubblico che
permise a Festa Campanile di trarne un film e un romanzo.
Rugantino è una maschera popolare romana dell’ottocento, che deriva il proprio nome
dal suo atteggiamento di protesta (rugare in romanesco ha il significato di protestare
minacciando con arroganza). Una protesta sterile perché, come specifica Festa Campanile
nel suo romanzo (che precisa gli aspetti più spettacolari della commedia), «Rugantino è
un qualunquista incallito, giacobino coi giacobini, baciapile coi baciapile. Non che
possieda una coscienza, ma a lui la coscienza serve per altre cose. “Io? Ma che ne frega
a me? Leone o Pio, basta che magno io”»1.
Ricorda Goffredo
Bellonci
che
«la maschera di Rugantino ha avuto nella storia
diverse facce: sbruffone, sdolcinato, vigliacco. Festa Campanile toglie nel linguaggio le
sdolcinature di Zanazzo, conserva il tono risentito del discorso, impertinente ed
epigrammatico anche quando è retorico. Rugantino assomiglia al Till Eulenspiegel di De
Coster e Strauss»2.
Una canzone della commedia rende esplicito il carattere di Rugantino: «Ma pensa che
bellezza/ nun c’ho niente da fa’/ Porcaccia la miseria/ nientissimo da fa’/ e rompo li stivali
a tutta quanta la città/ perché nun c’ho niente da fa’// Rugantinì, Rugantinà/ nun c’hai
mai voja de lavorà/ Rugantinì, Rugantinà/ c’hai sempre voja de sta’ a scherza’».
Il ritratto di Rugantino è valido per gli altri personaggi romani creati da Festa
Campanile: il querulo Meo che circola per le strade di Roma, rimbeccando i passanti (da
una finestra vola una sedia, indirizzata a lui: «Ariposate, mettete a sede’» gli gridano); il
vetturino Orazio che vive la vita come un sogno, quello di realizzare l’incontro con il
Papa; il ladro Gino Quirino, disoccupato, ma teso all’educazione del figlio.
1
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino, Rizzoli, 1978, p.9
Goffredo Bellonci, prefazione a Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino,
1963
2
1
Nel Rugantino è impostato anche il linguaggio di questi film, un impasto di dialetto
romanesco e italiano maccheronico, snocciolato con un gusto pungente e brillante, ricco
di battute spiritose e spesso sboccate, ma anche di una sua dolcezza congenita: «Er
romanesco è una lingua dolce, come una musica. Se po’ dì che più che pe’ parlà è fatta
pe’ canta’. Nasce dar core e quanno sale dar gargarozzo come in una canna d’organo
s’arrotonna tutta e quanno s’affaccia al labbro, prima de sorti’ fora, lo fa con delicatezza,
con garbo, quasi
sbruffone
addimannannose: “Addisturbo?”»
romano incarna la parte più maliconica.
dice Orazio Imperali,
che dello
Sono rintracciabili in Rugantino
espressioni gergali e dialettali come «Sì, lallero», «Sor du’ fodere», «Ma ‘ndo vai? Pe’
tetti?» ed un’intera declinazione dell’indicativo presente del verbo andare: «Io agnedi, tu
annasti, egli agnede, noi annassimo, voi annassivo, coloro agnedero o, tutt’al più,
andorno»; o espressioni colorite ed immaginifiche come queste: «Tiè! Lei fa Cleopatra e
io
er serpente
che je dà er mozzico della vipera dove dice la storia» (rivolta da
Rugantino allo scultore Thorwaldsen), «Sei così secco che pe’ lascia’ l’ombra pe’ terra
devi passa’ due volte»; e infine quelle rime a dispetto che si concludono con un insulto
(«San Simone della grotta/ siete fiji de na’…», «Fiore d’inverno/ io vado in paradiso e poi
ritorno/ ma tu che aspetti a annattene all’inferno?») che diventeranno le espressioni
preferite di Gino Quirino, col suo «liberatorio turpiloquio a ruota libera»3 («Ah se chiama
pure Brega e se nun se fa ‘na plastica quanno frega»). Lo stesso linguaggio immaginoso
avranno Orazio («Ah, Ben Hur, se acciacchi un occhio al cavallo, te faccio un’asola nella
panza», «Piazza del Popolo. Populus Square: tre chiese, du’ bar, un obelisco e ‘na
mignotta») e Meo.
Le voci bianche, ha la stessa impostazione narrativa di Rugantino: ha l’andamento di
una commedia musicale senza canzoni. E’ riconoscibile l’apporto dello sceneggiatore Luigi
Magni a queste due opere: nella precisa ricostruzione storica della città di Roma, capitale
dello Stato pontificio, «che concentra in sé il potere del Vicario di Cristo su questa terra
contraddetto quotidianamente nella sua missione spirituale, imprigionata nelle pastoie
di un governo temporale tra i più retrivi e reazionari, segnata da una organizzazione
dello Stato tra le più liberticide e oppressive del panorama europeo, che smentisce nella
prassi di un’autorità corrotta ogni prospettiva evangelica»4.
Sia Meo che Rugantino, due popolani, devono sopravvivere in una società dominata
dalle gerarchie ecclesiastiche e nobiliari e dalle loro sopraffazioni. I loro nemici sono
soprattutto i nobili «gaudenti e feroci»5 (l’inesorabile e perfido principe Ascanio ne Le voci
bianche, Don Niccolò e Donna Marta in Rugantino), rappresentati nel loro disumano
3
Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., p.46
Carlo Tagliabue, Passò er tempo che noi trasteverini…, in Luigi Magni: storia e romanità,
dramma, melodramma e satira, (a cura di Primo Piano sull’autore), ANCCI, Assisi, 1997, p.63
4
2
cinismo (Donna Marta si diverte a travestirsi da prostituta ed attirare popolani che Don
Niccolò assalirà e getterà nel fiume), con un sarcasmo spietato: «Ci sono anche Donna
Marta e Donna Letizia, nobildonne romane travestite da mignotte. Che se non fossero
tanto carogne, le si potrebbe con agio prendere per vere»6.
I personaggi ecclesiastici, diversamente dai nobili, sono meno cinici, magari
ugualmente spietati ed ancora più infidi e corrotti, ma non disumani: alcuni di loro
soccorrono, più o meno volontariamente, i protagonisti in disgrazia (come il frate
trappista che fa fuggire Meo che gli si era attaccato per il diritto d’asilo, perché ha un
appuntamento con l’amante).
La differenza con i film dei Magni, sta nella diversa caratterizzazione che Festa
Campanile dà dei suoi protagonisti romaneschi: Meo e Rugantino (quello teatrale)
affrontano la vita con aerea leggerezza, si fanno beffe dell’autorità e della situazione
sociale, hanno il gusto della bravata. Sono sbruffoni e loquaci, sarcastici e pavidi, disposti
a giocarsi tutto per una battuta ad effetto. A volte, come Meo, ingaggiano delle sfide
con i nobili: tra Meo e il principe Ascanio è un duello di vittorie e rivincite: inizialmente
beffato da Meo (che gli tira addosso sterco di pecora), Ascanio lo sbeffeggia (lo invita a
pranzo e glielo fa mangiare), poi è ancora Meo a tentare l’assalto (ustiona il piede del
principe arroventando lo scalino della sua carrozza), ma Ascanio capovolge ancora la
situazione a suo favore (buca le orecchie di Meo con una forchetta rovente).
Nelle loro azioni non c’è alcuna connotazione politica, ma il gusto di vivere
un’esistenza individualista, libera da legami sociali, politici, religiosi, in un’epoca in cui la
personalità dell’individuo era in ogni modo oppressa e repressa.
Festa Campanile rileva nel loro carattere ciò che maggiormente lo interessa:
l’atteggiamento libertino, l’interesse ossessivo per una bella donna, il gusto incoercibile
per il rapporto sessuale. Un atteggiamento che, come per molti altri personaggi creati da
Festa Campanile, li porterà alla rovina: Meo, che «si finge un castrato per aver salva la
vita, […] alla fine dovrà diventarlo davvero per aver messo incinta un’onorata
nobildonna»7, Rugantino, incolpatosi di un delitto che non ha commesso per farsi
ammirare dalla donna che ama, si farà decapitare pur di non ritrattare.
Il tono narrativo de Le voci bianche e Rugantino è dinamico e picaresco e la dinamica
degli incontri amorosi aggiunge una carica erotica da commedia galante. La ricostruzione
non è solo scenografica, ma anche sociale e politica. Festa Campanile presenta con gusto
archeeologico una galleria di tipi e caratterizzazioni dei personaggi dell’epoca: i bulli di
Rugantino,
dagli
pseudonimi
tipizzanti,
Iscariotto,
Rubastracci,
Strappalenzola,
5
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino, cit., p.66
7
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61
6
3
Bellachioma o anche, ne Le voci bianche, l’ipocrita e religioso Ora Pro Nobis, che,
segretamente, fa il boia. Tra la moltitudine dei personaggi inventati, in Rugantino è
rievocata la figura di Mastro Titta, boia realmente esistito che, in più di quarant’anni di
carriera (dal 1796 al 1840) eseguì 339 giustizie.
Oltre a qualche ovvio snellimento della struttura del racconto - il ridimensionamento
dei personaggi di Eusebia e Mastro Titta, l’inserimento di una sequenza inedita, quella del
carnevale, ricostruita filologicamente (con i mascherati che spengono l’un l’altro i
moccoletti accesi che portano in mano, gridando: «Si’ ammazzato») - la trasposizione
cinematografica di
Rugantino (1973) aggiunge
una nota particolare
all’impianto
narrativo: l’affidamento del ruolo del protagonista (che in teatro era stato nel 1963 e
1965 di Nino Manfedi, è sarà nel 1976 di Enrico Montesano e nel 1999 di Valerio
Mastandrea) al «meridionale milanesizzato»8 Adriano Celentano. La decisione del regista
fu giudicata negativamente dalla critica a causa della «mai sormontata incapacità di
adeguarsi ai dialetti»9 da parte dell’attore-cantante: Giacovelli la definì «un’incredibile
errore»10 e D’Amico scrisse che in Rugantino «Celentano appare più incongruo di altre
volte, in lui la malizia sorniona dell’eroe trasteverino diventando ghigno nevrotico»11.
L’inadattabilità di Celentano
al
dialetto è
evidente,
ma
tutto
quello
che
il
personaggio perde in realismo lo guadagna in asciuttezza recitativa: il ghigno nevrotico
dell’attore non è incongruo, ma rivelatorio del nascosto malessere del personaggio, della
sua inadattabilità alla società.
Sto così col papa e Manolesta, ambientati in epoca contemporanea, aggiungono altri
referenti letterari e cinematografici. L’atmosfera crepuscolare di Sto così col papa (1980),
con i viaggi in carrozzella tra i resti di un antico passato e l’intreccio principale, fondato
sulla memoria di fatti privati e malinconici, trova il suo riferimento precipuo in un sonetto
di Giuseppe Gioacchino Belli, del quale sono citati alcuni versi nell’episodio: «La morte
st’anniscosta drent’all’orologgi/ e nessuno po’ di’ domani ancora/ sentirò batte’ er
mezzogiorno d’oggi». Manolesta (1981), invece, nel suo manierismo iperrealista,
riprendendo il personaggio di sottoproletario straccione e sboccato interpretato da Tomas
Milian da un quinquennio (il personaggio di Monnezza appare ne Il trucido e lo sbirro,
1976, di Umberto Lenzi e verrà perfezionato da Bruno Corbucci in Squadra antiscippo,
sempre del 1976) si rifà al cinema pecoreccio.
Orazio Imperiali e Gino Quirino hanno ugualmente notevole attinenza con Meo e
Rugantino. Quirino è un sottoproletario che vive ai margini della vita civile (abita su un
barcone, è disoccupato), vive di espedienti («Mio padre preferisce fa’ la spesa a credito:
8
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.1139
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.193
10
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.61
9
4
“Pijo oggi e pago domani”. Anzi, quanno me pare. Tutti i signori fanno così») ed è
concentrato sul mantenimento del figlio, cui non fa mancare nulla, coccolandolo e
viziandolo pur in una vita così grama: «Io faccio il padre e quanno serve pure la madre –
risponde al giudice che gli chiedeva quale lavoro avesse – Lei parla del secondo lavoro.
Eh, io l’ho cercato ma dicono che ‘o danno sortanto a chi c’ha il primo. E c‘hanno ragione,
se no che cazzo de secondo lavoro è?». Anche Quirino rifiuta nel linguaggio, come Meo e
Rugantino, l’autorità costituita: definisce il sindaco, beffardamente, «un tizio con la fascia
sulla panza». Ma, differentemente da loro, fiancheggia la vita civile senza parteciparvi. La
marginalità della sua vita è un rifiuto del meccanismo della vita capitalistica: racconta al
figlio una parabola sulla sogliola pescata dal mare: il pescatore lo ha fatto senza il
permesso dell’animale e dunque, essendo senza autorizzazione, non è reato, anzi è
giusto che ci sia qualcuno che la sfili da una bancarella al mercato.
Orazio Imperiali, al contrario, pur essendo anche lui un proletario è inserito nella
società
borghese:
si
presenta
come
un
impunito
(«So’
proprio
un
impunito,
mannaggia»), ma è pronto a ricordare i rapporti della famiglia con le autorità («La
famiglia mia è tutta segnata da incontri col Papato»). Come tutti i romani è uno sbruffone
(«Tu non dici le bugie come tutti l’altri. Tu le spari grosse, ma proprio grosse, come i
ragazzini» gli dice la moglie) e ha il gusto del gioco e dello scherzo: ama fare scommesse
con l’amico Marotta, sarto del Vaticano («A Marò e mica pòi vince sempre»), che perde
puntualmente accumulando debiti («Io ar posto der core c’ho ‘na sveglia. ‘Na sveglia
mica si commuove» minaccia Marotta, chiedendo la riscossione). Vive modestamente,
ma coltiva un sogno abnorme, che, a differenza degli protagonisti, realizza: riesce a
parlare con il Papa, che nella società contemporanea ha perso il suo potere temporale e
s’è riavvicinato al popolo. La vittoria di Orazio poggia sulla sua irresistibile spavalderia
(«Me gioco er cavallo, ‘a licenza e pure ‘a carozza. Una scommessa impossibile:
m’affaccio alla finestra col Papa»), ma anche comportamento informale del Pontefice, che
già conosceva il vetturino prima che fosse eletto al Santo Soglio e ne accetta il carattere
franco e aperto («Se tante vorte ve va de veni’ a assaggia’ la carbonara come la fa’ mi’
moje, potete veni’ quanno ve pare, pure senza avviso»), ricambiandolo con un linguaggio
brillante e generoso («Santità è suonata la mia ora», «Temo che sia suonata al momento
sbagliato» è lo scambio di battute che avviene nel momento in cui suona la sveglia che
Orazio voleva far passare per un pacemaker).
In questi quattro film la città di Roma - le case, le mura, le chiese, i grandi palazzi
barocchi, le ville - non è indifferente, ma ha la funzione di un altro personaggio, che
contrappunta, talvolta minacciosamente, le vicende dei protagonisti. Se ne Le voci
11
Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.193
5
bianche tutto l’ambiente sembra in rovina – le abitazioni popolari sono diroccate e
sommerse dalle erbacce, i palazzi nobiliari sono enormi ma vuoti, il loro sfarzo si spegne
in un opaco squallore - in Rugantino i protagonisti si rivolgono direttamente alla città,
invocandola per supportare le loro azioni. Durante il corteggiamento di Rugantino a
Rosetta, i due personaggi affidano i loro pensieri contrastanti alle strofe di due canzoni
contrapposte in un identico commento musicale: «Roma, nun fa la stupida stasera/
damme ‘na mano a faje di’ de sì/ Scegli tutte le stelle/ più brillarelle che puoi/ è un
friccico de luna tutta pe’ noi// Faje sentì ch’è quasi primavera/ manda li mejo grilli a fa
cri-cri…// prestame er ponentino/ più malandrino che c’hai/ Roma, reggeme er moccolo
stasera» (è il pensiero di Rugantino), «Roma, nun fa la stupida stasera/ damme ‘na
mano a famme dì de no/ Spegni tutte le stelle/ più brillarelle che c’hai// nasconneme la
Luna, se non so’ guai// famme scordà ch’è quasi primavera/ tiemme ‘na mano in testa
pe’ dì de no/ smorza quer venticello/ stuzzicarello che c’hai/ Roma nun fa la stupida
stasera» (è l’invocazione di Rosetta).
La vicenda sottoproletaria di Quirino è ambientata in una Roma periferica e sfatta, tra
i barconi sul Tevere, le discariche, i canali fognari, le distese campagnole del Quadraro e
le mura Aureliane dell’Appio (con le lunghe carrellate che pedinano le passeggiate delle
prostitute) ed un intendimento ironico che gioca sul folkloristico ed il pittoresco: Quirino
conversa con il suo avvocato mentre stanno girando un film biblico, vestiti con i costumi
di scena (l’avvocato è Gesù, Quirino uno storpio), mentre l’aiuto-regista richiama gli
attori e le comparse («La Madonna, Gesù Cristo, San Giuseppe») ed il figlio di Quirino
s’interroga sul perché di tutte quelle bestemmie. Sto così col Papa recupera l’atmosfera
crepuscolare nelle lunghe scarrozzate di Orazio per le strade di Roma, all’ora del
tramonto oppure nel viaggio notturno con cui riporta il Pontefice al Vaticano da Castel
Gandolfo. E’ un viaggio che ripercorre i sentieri della memoria e stabilisce - con le tappe
di Orazio lungo il tragitto («Qui nacque, visse e morì, il più tardi possibile, Imperiali
Orazio, amico del Papa») – il rapporto esemplare con una città in cui il passato confluisce
nel presente e la memoria è nel quotidiano.
6
Capitolo 6. Tra letteratura e cinema.
(Conviene far bene l’amore, Il ladrone, La ragazza di Trieste)
Nei diciotto anni intercorsi tra l’esordio letterario (La nonna Sabella, 1957) e il suo
secondo romanzo (Conviene far bene l’amore, 1975), le qualità di scrittura di Pasquale
Festa Campanile sono rimaste invariate (e tali rimarranno nei sei romanzi successivi),
tanto da non far sospettare una distanza così remota tra le due opere.
Il talento del narratore era già stato dispiegato all’esordio ed è proseguito, anche
cinematograficamente, su una linea precisa e coerente. Talvolta è cambiato il tono del
racconto, ora drammatico ora umoristico, ma mai lo stile, limpido ed agile. La scrittura di
Festa Campanile è chiara, lucida, fa largo uso di periodi legati sinttatticamente per
asindeto, composti di frasi brevi, in cui l’andamento piano nasconde un umorismo
piacevole, ma talvolta beffardo e tendente al sarcasmo. Questo breve passo è
esemplificativo:
Per qualche giorno non sono andato all’università e ho girovagato per Roma. Avevo bisogno di
distendermi i nervi e di riflettere. Spesso ho preso il barcone che percorre il Tevere avanti e
indietro da San Paolo, dove c’è il capolinea, a Ponte Milvio in poco più di mezz’ora. E’ primavera, e
il Tevere, tra i muraglioni e i platani, è stupendo, dolcissimo. L’acqua ha un colore tra il verde e il
giallo, strano e riposante. Il barcone s’intona perfettamente al fiume, è uno zatterone largo, con
sponde basse, coperto da un tendone verde. Se uno si sporge vede anche i rematori, che trovano
posto nella parte posteriore dello scafo, sei rematori, sei a sinistra. Il timoniere è un fiumarolo che
conosce i peggiori mulinelli sotto i ponti, e i fondali bassi. Purtroppo è sempre il fiume della merda,
anche se il sindaco lo fa dragare a strascico.1
E’ uno stile diretto, perfettamente aderente ai fatti del racconto, che per ritmo interno
e capacità di visualizzare l’oggetto della narrazione richiama lo stile cinematografico: i
mezzi espressivi nel narratore Festa Campanile collimano. Nel seguente passo, tratto
dal romanzo Il peccato (1980) , dedicato alla prima guerra mondiale, la concertazione di
frasi che si susseguono come inquadrature costruisce un equilibrio grottesco, che unisce
il tono umoristico, quello tragico ed un’aggressiva ferocia satirica contro le istituzioni:
Questa mattina l’alpino Mario Boccardi è uscito dalla trincea che si vedeva appena: la foschia
preannunciava un giorno afoso. In quell’ora, in cui le sentinelle perdono la nozione del loro
compito, gli occhi fissi a un orizzonte vicinissimo che non vedono più, nessuno si è accorto di un
ombra che scavalcava i sacchi di sabbia.
Pochi minuti dopo la nebbia che saliva dalla valle, come succede di prima mattina in certi giorni
d’estate, cancellava lo spazio tra le trincee avversarie. Boccardi ha camminato per venti ciechi
minuti e alla fine, gridando Kamarad, si è consigliato per sbaglio ai nostri avamposti. Solo dopo che
fu entrato di nuovo nella trincea da cui era partito , si è reso conto che non era prigionero degli
austriaci ma dei suoi imbarazzati compagni. Non è stato possibile ignorare la sua diserzione,
perché questa mattina il maggiore Barcari, avendo già lucidato tre paia di stivali, non aveva più
niente da fare ed era salito in linea. Il povero Boccardi è rotolato dentro la trincea quasi sui suoi
piedi. Il maggiore, la cui codardia è notoria, ha subito ceduto all’impulso di castigare in un altro il
vigliacco che è in lui e ha condannato l’alpino alla fucilazione. Il delitto essendo palese, anzi
pubblico, non c’era bisogno di ricorrere a un tribunale militare.2
1
2
Pasquale Festa Campanile, Conviene far bene l’amore, Milano, Bompiani, 1989 (1975), p. 41
Pasquale Festa Campanile, Il peccato, cit., p. 82
2
La costruzione narrativa dei romanzi di Festa Campanile era adatta ad una
trasposizione per immagini, anche se i romanzi non furono scritti in previsione di una
futura riduzione cinematografica: erano il risultato di un’acuta ispirazione; con l’eccezione
de La strega innamorata (1985) e de Il peccato (ma Gillo Pontecorvo non riuscì a
chiudere il suo avanzato progetto di trasposizione del romanzo, per problemi con la
produzione che desiderava avere come protagonista l’attore Robert De Niro) tutti
divennero film: tre li diresse lo stesso Festa Campanile (Conviene far bene l’amore, Il
ladrone, La ragazza di Trieste), uno Dino Risi (il già ricordato La nonna Sabella), uno
Luigi Comencini (Buon Natale…Buon anno, 1989) ed uno Giovanni Veronesi (Per amore,
solo per amore, 1993).
Nonostante la particolare qualità visiva della sua scrittura, Pasquale Festa Campanile
non era soddisfatto dei film che aveva tratto dai suoi romanzi e, più in generale, riteneva
conflittuali i rapporti tra il cinema e la letteratura. Lo dichiarò in un’intervista di Franco
Cauli, fatta due mesi prima della sua morte ed apparsa postuma:
Quale dei tuoi film – fra quelli che hai tratto dai tuoi romanzi – ritieni di qualità superiore al libro
o viceversa?
“Sono tutti più brutti dei romanzi e questa considerazione mi ha ancora una volta convinto
dell’inutilità di trasferire in cinema un’opera letteraria. Amo molto i libri che ho scritto e siccome io
stesso ne ho curato la trasposizione cinematografica non posso dare la colpa a nessun altro di
averli rovinati. La responsabilità è solo mia.”
Nessuno meglio di te, che sei nello stesso tempo scrittore e regista, può spiegare perché molti
scrittori disconoscono i film tratti dai loro libri.
“Direi che è naturale che sia così. Io credo che sia quasi impossibile da un bel libro trarre un bel
film. La letteratura è un genere artistico molto sottile e complesso. Uno scrittore può descrivere la
psicologia dei personaggi più facilmente di quanto non la si possa illustrare attraverso delle
semplici immagini. Parlando con alcuni lettori-spettatori che hanno letto i miei libri e visto i miei
film mi sono sempre sentito dire la stessa cosa che ha un grande fondamento teorico. Cioè, che
dopo aver visto il film avevano letto il libro ed erano rimasti condizionati dalle immagini degli attori
nei personaggi, il che significa, secondo me, che la gente vuole avere il suo spazio, la sua libertà di
inventarsi i visi dei suoi protagonisti, di contribuire alla storia che lo scrittore ha creato con la
propria fantasia e in questo caso lo stesso pubblico diventa coautore dello scrittore. Questo è il
fascino della letteratura per cui ogni lettore fa suo il libro dello scrittore.”
Quindi, facendo un paragone fra libro e film, il libro sviluppa molto più la fantasia dello
spettatore che non il film.
“Certamente, ed è una cosa importantissima perché offre al lettore una grande emozione: la
possibilità di immaginare a suo modo le cose che lo scrittore suggerisce, perché spesso l’autore le
accenna soltanto”.
Ti è mai successo di disconoscere un tuo film tratto da un tuo libro?
“No, mi sembra una cosa impossibile perché fa sempre parte della mia vita, del mio lavoro. Per
esempio Il ladrone è un film che è andato molto bene, è stato visto in televisione in tre lunghi
episodi; ha avuto 14 milioni di spettatori a puntata ed è una delle storie che amo di più. Sono
convinto che se fossi stato solo l’avrei realizzato meglio. Essere solo significa non dover affrontare
compromessi con i produttori, i distributori e gli attori. E’ evidente che nel realizzare un film la
legge principale che vige è quella del profitto. Il produttore ha bisogno di guadagnare ed è convinto
che il film lo si debba fare in un certo modo perché possa piacere al pubblico.
Quindi spinge l’autore a fare delle cose che non vorrebbe ed è difficile resistergli”.
Quale ritieni che possa essere il rapporto tra letteratura e cinema?
“Credo che l’autore debba avere una maggiore indipendenza mentre fa il suo film. Penso che il
produttore cinematografico una volta che ha scelto il regista e gli ha affidato l’opera debba lasciarlo
libero di esprimersi come meglio crede. Voglio comunque precisare che è più facile trarre da un
romanzo mediocre un buon film perché il libro può essere arricchito da tante cose, come nel caso di
3
uno dei più grandi film della cinematografia mondiale che è Via col vento. Il libro è mediocre
mentre il film è bello. Il regista è stato capace di arricchire la trama con annotazioni psicologiche e
con una buona recitazione degli attori. Mentre è molto più difficile trarre un buon film da un libro
bello”.3
I romanzi di Pasquale Festa Campanile (con la significativa eccezione de La ragazza di
Trieste) hanno la particolarità di adottare la focalizzazione interna della narrazione. La
scrittura fattuale acquista una profondità psicologica nel racconto in prima persona del
protagonista, che svela la propria consistenza di personaggio grazie ad una progressione
narrativa che procede per iterazione: gli episodi si succedono con piccoli spostamenti,
modifiche che non alterano la loro struttura iniziale. L’iterazione degli episodi provoca nel
protagonista un’esperienza e quindi una mutazione psicologica, uno sviluppo della
coscienza interiore. L’incipit de La strega innamorata condensa in poche righe questa
caratteristica stilistica:
A sei anni è accaduto il fatto che ha cambiato la mia vita. Immagino che altre sarebbero
diventate pazze al mio posto o sarebbero morte: io mi tengo l’anima strettamente attaccata al
corpo e sono ancora qui, libera, sana e a volte allegra, perché prima di tutto voglio vivere.
Adesso ho sedici anni e sto per diventare una strega. Sono moto eccitata da questa prospettiva:
sarò diversa dalle altre donne, avrò dei poteri che esse appena si immaginano. “Ti potrai
vendicare” dice la mia inuiziatrice nella scienza delle cose nascoste, la vecchia Bernarda, che è una
strega maestra. “Non dimenticare ciò che hanno fatto a tuo padre e a tua madre”, ripete e non
capisce che io vorrei invece cancellare tutto dalla memoria.
Non voglio essere obbligata a vendicarmi; desidero usare i miei poteri liberamente: Che mio
padre e mia amdre siano morti sul rogo è stato un colpo tremendo, dato di traverso sulla mia vita
di bambina, e non posso ricordarmene sempre. Tendo a dimenticarmene, perché è necessario,
altrimenti non riuscirei più a campare. Non porto il segno dentro di me e sto attenta che non si
veda.4
La trasposizione della focalizzazione interna al cinema è difficile da effettuare e Festa
Campanile ha adottato l’espediente della voce fuori campo per ovviare a questa difficoltà
(lo fece anche nella trasposizione, nel 1964, de La costanza della ragione, dal romanzo
di Pratolini, attirandosi la critica di «incapacità di esprimersi con un mezzo espressivo
proprio del linguaggio cinematografico»5). La voce fuori campo funge da contrappunto
del racconto, talvolta ironico, talvolta, come ne Il merlo maschio, in contrapposizione alle
immagini, e semplifica la struttura del racconto. «Il suo merito consisteva nel costruire
storie con personaggi a tutto tondo, con situazioni logiche, con sviluppi sempre
conseguenti, messi in scena con ritmi giusti, buon dosaggio di pause, cadenze di
racconto calibrate anche quando appaiono disinvolte, misurato nella comicità e
nell’alternanza con situazioni sentimentali e raccolte»6.
3
Franco Cauli, Uno stakanovista che amava il cinema e la letteratura, in Sipario, dic. 1986,
p.16
4
Pasquale Festa Campanile, La strega innamorata, Bompiani, Milano, 1990 (1985), pp. 5-6
5
N.M.Lugaro, Alba, nov. 1964, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema italiano, I Film,
vol.3, cit., p. 137
6
Ettore Zocaro, Un esempio di grande…, cit., p. 14
4
Il passaggio del racconto dalla letteratura al cinema chiarifica queste qualità ed
evidenzia la natura del regista di narratore di storie in bilico sull’assurdo e l’irreale, dove
l’irrazionale sembra dominare, recando condizioni abnormi nel quotidiano. Festa
Campanile può raccontarle umoristicamente, come ne La strega innamorata (dove la
strega Isidora s’innamora del Papa Urbano VIII), con un sarcasmo allucinato, come ne Il
peccato (in cui la storia d’amore tra un prete ed una tisica rimette in discussione
l’accezione di peccato sullo sfondo della carneficina bellica) o satiricamente, come in
Conviene far bene l’amore.
La trasposizione cinematografica del racconto evidenzia il carattere paradossale delle
invenzioni umoristiche che connotano l’assunto, la struttura complessiva, i singoli episodi
e le gag fulminanti. Conviene far bene l’amore è un film girato rapidamente, soffre della
«sua debolezza d’impianto e della corrività delle soluzioni espressive»7 (c’è un uso troppo
frequente della dialettica narrativa campo/controcampo e le inquadrature sono poco
meditate), ma costituisce comunque «uno spettacolo stuzzicante e godibile»8. Tanto che
l’esperto di fantascienza Giovanni Mongini gli dedica una pagina nella sua Storia del
cinema di fantascienza:
Tra i rari titoli di spicco del 1974 una segnalazione merita la pellicola di Pasquale Festa
Campanile Conviene far bene l’amore, tratta dal suo omonimo romanzo edito da Bompiani. Il
cinema italiano affronta così un tema fantascientifico nel modo che attualmente gli è più consono,
ma non congeniale al genere: mescolandolo col sesso. A differenza di opere consimili questo film
rivela però una vena di simpatico umorismo, che non scade affatto nella pornografia. L’autoreregista in un’intervista, come è ormai diventata un’abitudine, ha tenuto a dichiarare di non aver
inteso fare un film fantascientifico, genere che non l’attira particolarmente, ma sviluppare un’idea
che gli è sembrata stimolante.
Il mondo è in piena crisi energetica: a Roma si circola in carrozza e tutte le luci sono spente da
molto tempo, nessuna automobile, nessun treno od aereo circolano più. Un professore di biologia
del Policlinico di Roma decide di applicare virtualmente un lontano predecessore, di usare cioè
l’attività sessuale come fonte di energia.
Il successo raggiunto dai suoi esperimenti, con i lampadari che si accendono, e le vie che si
illuminano, scatena una divertentissima serie di trovate che culminano nella “lunga notte dell’orgia”
dell’Hotel Hilton dove pratiche di tutti i generi vengono messe in funzione per verificare le varie
forme di energia e le potenzialità che esse possono produrre.
Va da sé che il sesso diventa all’ordine del giorno, che la fornicazione è obbligatoria, che
nessuno può tenersi per mano e dirsi parole d’amore: il sesso diventa una catena di montaggio per
produrre energia e le foto “porno” che ora circolano sono quelle di donne vestite.
Il finale, forse un poco amaro, non toglie nulla alla vicenda: anzi, piacevolmente l’esalta e ne
lascia un simpatico ricordo.9
Il film segue l’organizzazione narrativa del romanzo: ne rispetta la consequenzialità
degli episodi e la focalizzazione interna del racconto (a narrare questa storia è il prof.
Enrico Nobili, interpretato da Luigi Proietti). Nel film appare chiara la costruzione per
7
Dario Zanelli, Il Resto del Carlino, 30.3.1975, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema
italiano, I film, vol. 4 (A-L), Gremese, Roma, 1996, p. 204
8
Dario Zanelli, Il Resto del Carlino…, cit., p. 204
9
Claudia e Giovanni Mongini, Storia del cinema di fantascienza, vol.4, Dal 1969 al 1975,
Fanucci, Roma, 1999, p. 112-113
5
iterazione degli episodi con spostamenti progressivi del racconto. La sperimentazione del
prof. Nobili avviene secondo una progressione proporzionata. Le idee di William Reich,
che sviluppano quelle dello scienziato Galvani - «gli organi sessuali, in stato di erezione,
presentano un forte incremento di energia bioelettrica»10 - sono attuate per gradi:
l’energia orgonica è ricercata inizialmente nei turbamenti sensuali di una ragazza
accarezzata, poi da un amplesso, in seguito, in crescendo, da un amplesso tra individui
sessualmente potenti, da una moltitudine di amplessi in un hotel, sinché il coito
energetico non diventa esercizio comune alla popolazione mondiale. I risultati sono
evidenti: dall’accensione di una lampadina, si passa a quella di un lampadario, di un
intero viale, al funzionamento degli ascensori di un albergo, di una linea ferroviaria, al
ripristino dell’energia mondiale.
Attraverso un linguaggio, letterario e cinematografico, impassibile, Festa Campanile
giunge ad una satira interna della società dei consumi. Conviene far bene l’amore
presenta lo sviluppo possibile di una società (alle soglie del duemila) che subordina i
sentimenti all’istinto sessuale, sfruttato per un guadagno economico: poiché i sentimenti
nuocciono alla produzione di energia orgonica-coitale sono vietati, messi al bando da una
forma di potere cui appartiene anche la chiesa, pronta a rivedere i suoi tabù («Restano
sempre l’assassinio, il furto, l’avidità di denaro, la libertà di pensiero»). Nelle fabbriche si
assumono fornicatori per sviluppare l’energia adatta a permettere la produzione, il sesso
diventa un dovere da difendere con l’autorità.
Festa Campanile descrive queste situazioni paradossali con una fantasia immaginosa,
sarcastica e grottesca:
La festa finalmente sta per finire, per gli sciocchi, i deboli, i nostalgici. Da una settimana reparti
della polizia e dell’esercito si dedicano alla distruzione sistematica di tutte le cose che possono
avere attinenza con il sentimento dell’amore, o che potrebbero contribuire a suscitarlo. Sempre per
usare le parole di Swift, è stato un serio ed utile disegno.
Con i lanciafiamme vengono bruciati tutti i campi di fiori.
Falciate le rose rosse con le mitragliatrici.
Rimosse le panchine dai parchi pubblici.
E le amache, le altalene sequestrate nei giardini privati, nelle ville.
Intere biblioteche di letteratura romantica sono bruciate nelle strade, Shelley, De Musset,
Stendhal, Keats, Byron.
Fatti a pezzi i dischi con le canzoni d’amore, i ballabili lenti, i famigerati slow, Night and day,
Beguine the beguine, Tenderly.
Erotizzata al massimo la pubblicità, e resa oscena.
Vietati i tabacchi e gli alcolici, che inibiscono e obnubilano l’istinto sessuale.
Nei negozi si espongono i vestiti più scollacciati e turbativi.
Il disco più gettonato nei juke-box è quello dei famosi sospiri e rantoli orgasmatici simulati. Ma
ci sono anche dischi con passi letterari di contenuto erotico: Miller, Lawrence, D’Annunzio.
Sorgono un po’ ovunque stele e monumenti fallici.
Sugli aquiloni vagine garriscono controvento.11
10
11
Pasquale Festa Campanile, Conviene far…, cit., p.23
Pasquale Festa Campanile, Conviene far…, cit., p.238
6
Il film conserva questo fantasia grottesca (nelle scene finali si vedono rossetti e
asciugacapelli a forma di fallo, sui titoli del telegiornale il globo terrestre è sostituito da
un deretano), operando alcuni cambiamenti, in funzione di un’accentuazione comica.
Viene maggiormente caratterizzata la figura del prof. Nobili, presentato come uno
sbadato (mangia il brodo con la forchetta, si pulisce gli occhiali con la stola del
cardinale), attento soltanto alle sue teorie scientifiche. Ha un andamento farsesco anche
la sequenza centrale del film, quella dell’albergo, in cui le autorità si sostituiscono agli
inservienti per controllare l’esperimento, provocando una serie di equivoci; il ritmo
sostenuto non soffoca però la causticità del regista (al primo ministro che ritiene l’orgia
«Un grande esperimento», il cardinale Alberoni risponde con «Un grande bordello»).
Conviene far bene l’amore è
un film da non sottovalutare: contiene molte
affermazioni sociopolitiche del regista, nascoste dietro l’anticonformismo narrativo: in
una sequenza, un gruppo di bambini osserva il relitto di un aereo, mentre i genitori
raccontano che una volta volavano, come gli uccelli; è beffardo sentire questa
affermazione dal futuro regista de Il prete ballerino, in cui Don Fulgenzio afferma: «Lo sa
che se un bambino di oggi vede un uccellino si spaventa, perché non sa cos’è. Lui crede
che gli uccellini siano i missili».
Anche Il ladrone (1979) è un film rispettoso del romanzo di partenza, anche se
l’organizzazione narrativa è strutturata diversamente: ad esempio il personaggio di
Batuel, il levita marito di Rachele, padrone di Caleb, appare a metà film, mentre nel
romanzo è all’inizio e permette al personaggio del ladrone un’autopresentazione ironica
che dispiega intere le sue caratteristiche:
Il mio padrone è un levita e ha una quantità di nomi. Quando si presenta li recita tutti: dice che
è Batuel, figlio di Eliu, figlio di Hazaele, che fu generato da Ioachim, figlio di Oreb, figlio di Zabulon,
e così avanti, anzi indietro, di figlio in padre in nonno, per quattordici generazioni. Quanto a me, io
ho un nome solo, il mio. Mi chiamo Caleb. Non so come si chiami mio padre per la buona ragione
che non l’ho mai conosciuto. Così il mio secondo nome è bastardo e figlio di nessuno.12
Dal romanzo, Festa Campanile trae quegli episodi che sono più caratterizzanti (gli
incontri con Gesù, durante i suoi miracoli, quelli con Appula, moglie del governatore
Rufo, l’aggressione dei soldati romani), organizzati secondo una progressione psicologica
di Caleb: la presentazione del personaggio (i suoi trucchi), l’incontro con Deborah, che
diventerà la sua donna, gli incontri profetici con Gesù, i vagabondaggi che si chiudono
sempre con una sconfitta, infine l’arresto e la crocifissione.
Per Il ladrone Pasquale Festa Campanile[…] si era impegnato in special modo perché lo sentiva
diverso dagli altri che aveva girato. E’ stato forse il film al quale ha tenuto di più perché per la
prima volta è riuscito a sposare una vena allegra e beffarda a contenuti drammatici e commoventi.
E’ la storia di un ladrone, Caleb, il ladrone buono della croce, un antieroe picaresco, un ciarlatano
12
Pasquale Festa Campanile, Il ladrone, Bompiani, Milano, 1984 (1977), p. 5
7
simpatico, che vende polveri miracolose, finte reliquie a creduloni, farisei e prostitute di una
Palestina che comincia ad essere percorsa dai messaggi rivoluzionari di Cristo per mettere insieme
ventimila dracme e comprarsi la cittadinanza romana. Campanile lo girò interamente in Tunisia,
scegliendo la faccia della Palestina più povera e miserabile per sottolineare la disperata storia del
protagonista.
Comunque lo si giudichi, la prerogativa di questo film sta nel saper imprimere alla narrazione un
“taglio” e una disinvoltura di linguaggio, tali da renderne spedita sia la lettura che la visione filmica
[…]. Il ladrone non mancava di avere qualche relazione con il romanzo successivo Per amore, solo
per amore. E’ un libro, quest’ultimo, in cui viene raccontato l’amore di Giuseppe e di Maria
portandolo fuori dai testi religiosi e da quel tanto di sacro timore con cui si è indotti ad accostarvisi.
Il risultato è un’opera di smitizzazione: un fattore che si ritrova sempre nelle sue opere, anche le
più divertenti e consumistiche, sia di cinema che di letteratura. 13
Il ladrone conserva una carica di provocazione, fin nella scelta dell’attore protagonista,
Enrico Montesano: «Contro tanti pareri avversi ebbe il coraggio di accettare Enrico
Montesano come protagonista. Quando, prima dell’uscita del film, su qualche rotocalco
apparve l’immagine di Montesano in croce, tutto il cinema disse che Festa Campanile era
impazzito. Ma aveva ragione lui e fu un grande successo»14. Festa Campanile riesce
nell’intento di costruire un personaggio credibile, che racchiude in sé le caratteristiche dei
protagonisti di tanti film del regista: una spavalderia spensierata ed, insieme,
malinconica, come ha rilevato Giacovelli:
Anche il furfantello dalla baldoria facile predica e vive un proprio Vangelo, non importa se rivolto
più allo stomaco che all’anima: quand’anche siano chiuse all’uomo le porte dell’eternità, una vita
spensierata, libera e bella è premio a sé stessa. Sulla croce, mentre Gesù, pensa agli affari del
Cielo, al futuro dell’Umanità, essendo in fondo un intellettuale idealista, uno che si avvelena la vita
col vano proposito di cambiare il mondo,
il buon ladrone si rassegna alla propria sorte: ricorda serenamente i giorni della vita, avendo
sempre vissuto alla giornata, non “all’eternità”, e ritrovandosi ai piedi della croce, in lacrime, una
donna bella d’amore carnale, non cortigiani a caccia di Paradiso. «Non devi avere pena per me.
Muoio giovane, è vero, ma che importa? Sono sempre stato un uomo libero: anche in carcere,
anche qui sulla croce. Ho patito fame, sete, miseria, mi hanno picchiato…Ma ho camminato per il
mondo, ho inventato trucchi bellissimi, ho avuto una donna come te, mi sono divertito…».15
Gli esiti de Il ladrone (romanzo e film) vanno riconsiderati in rapporto con il romanzo
Per amore, solo per amore (che Festa Campanile non riuscì a trasporre, come avrebbe
voluto, perché la morte lo colse subito dopo aver firmato un contratto in esclusiva di
cinque anni con Luigi De Laurentiis), come ricordava Zocaro. Gli incroci tra Caleb e Gesù
non appartengono soltanto alla categoria della smitizzazione, cui pure rimanda il
memorabile scambio di battute finale (del romanzo e del film): «Gesù lo ringraziò e gli
disse: “Oggi sarai con me nel mio regno”. Caleb sorrise. “Va pure avanti tu”, rispose»16.
La prospettiva di Caleb è una prospettiva decentrata che permette di raccontare
indirettamente il personaggio di Gesù senza bigottismi e pesantezze pedantesche: Festa
Campanile sa illustrarla efficacemente nel film, mostrando i miracoli di Gesù in campo
13
Ettore Zocaro, Un esempio di grande…, cit., p.13
Fulvio Lucisano, Per Pasqualino, in Sipario, dic. 1986, p. 24
15
Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.84
16
Pasquale Festa Campanile, Il ladrone, cit., p. 216
14
8
lungo, secondo il punto di vista Caleb, giungendo a tenere fuori campo la resurrezione di
Lazzaro. Anche nel romanzo la prospettiva decentrata, che sfiora le vicende di Cristo
senza raccontarle direttamente, è evidente; come nel passo che narra del miracolo della
moltiplicazione dei pani e dei pesci:
Sulla sponda del lago troviamo una vera folla, migliaia di persone, che lo aspettano. Lui non c’è.
Un rapido cenno a Teofane e ci ficchiamo in mezzo alla gente, che è il miglior modo per
nascondersi. Gesù arriva dal largo su una grossa barca. E’ una cosa che fa effetto: lui è in piedi
sulla prua, la barca scivola sull’acqua, spinta dai remi di alcuni apostoli, che erano pescatori di
mestiere.
Parla alla gente dal ponte dell’imbarcazione. Non odo una parola, perché sono troppo lontano,
ma immagino che siano le solite cose: contro i ricchi, i preti e i farisei, che mi va benissimo, e in
favore dell’essere poveri e perseguitati, che mi va meno bene. Parla a lungo, fino al tramonto. La
folla è un poco irrequieta, quando finisce, perché nessuno ha mangiato granché dalla mattina in
qua. Giovanotti e ragazzi passano tra noi e ci pregano di metterci tutti a sedere, dividendoci in
gruppi di cinquanta. Poi incominciano a distribuire da mangiare: pane e pesce arrostito. O meglio è
Gesù che porge continuamente a questi giovani il cibo e loro vanno in giro e ce lo portano. Ce n’è
per tutti. Mangiamo a sazietà, tanto che i ragazzi raccolgono non so quante sporte d’avanzi.
Sento dire qualche giorno dopo che era un miracolo. Tutti ne parlano di qua e di là del lago di
Genezareth. Non per spirito di contraddizione, ma per vederci chiaro, ne parlo anch’io. 17
Pasquale Festa Campanile può, in questo modo, affrontare temi religiosi, «il libro delle
immagini sacre»18 e giungere a Per amore, solo per amore e raccontare la storia d’amore
di Giuseppe e di Maria come fosse una comune storia sentimentale.
In questo ritratto di San Giuseppe che non si chiude mai nel sacro del suo studio, non veste
panni curiali: se fa una scommessa è proprio questa di volerci raccontare come una storia reale ciò
che per molti ha soltanto il sapore della leggenda.
Curioso che abbia scelto una figura che nell’opinione comune viene data per incomprensibile o
negata ai nostri strumenti di individuazione […]. L’impegno del narratore qui è […] svelarci un
Giuseppe probabile, fuori dalle poche luci che la storia sacra ci consente e immerso nel quotidiano,
così come ce lo possiamo immaginare. […] Ha studiato, ha letto e poi è passato all’impasto, al
difficile tentativo di saldare in una sola voce la tradizione e il nuovo. […] La scelta è caduta sulla
norma, sul discorso piano, facendo di Giuseppe e di Maria due creature umane che a un certo
punto si incontrano, si amano, soffrono la gelosia e non presentano mai i titoli della loro gloria
futura. Resta il miracolo, l’evento miracoloso al quale i due protagonisti contrappongono la sola
risposta che suggerisce la verità interiore: non chiedere più, accettare, obbedire, soprattutto
conservare gelosamente il senso e il peso del ricordo.
Non ricordo nell’ambito delle grandi esercitazioni letterarie una soluzione del genere: di solito i
commentatori o gli interpreti liberi […] o scivolavano o si arrampicavano sui vetri, lasciando vedere
e capire che o giudicavano il tema marginale o non suscettibile di interpretazioni. […] Festa
Campanile […] si è messo al posto dei vicini, di chi viveva con Giuseppe e alle domande che certo
hanno dato origine alla scelta del tema, ha risposto con le parole, gli scatti, le reazioni che sono
degli uomini di sempre di fronte all’amore, al tradimento, alla gelosia. Con un tratto di pudore ha
voluto poi richiudere la sua storia nell’involucro costituito dai secoli, non ha sforzato, non ha mai
piegato al gusro e alla tentazione dell’intelligenza il problema tutto umano offerto da una vicenda
che di solito partecipa più del divino che del mistero. In tal senso il lettore si sente autorizzato a
chiedere a Festa Campanile, perché non raccontare con le parole di oggi e i nostri sentimenti eterni
tutta la storia di Gesù? 19
17
Pasquale Festa Campanile, Il ladrone…, cit., p.173
Carlo Bo, Prefazione a Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, Bompiani,
Milano, 1983, p.7
19
Ivi, pp. 8-10
18
9
La scelta dell’autore di raccontare quest’evento capitale della storia del cristianesimo
dalla parte di Giuseppe è ascrivibile all’ispirazione del regista:
all’interesse
per
gli
antieroi e per quei personaggi comuni che affrontano aspetti impensabili della realtà. Il
Giuseppe di Per amore, solo per amore ha caratteristiche comuni con quelle di Caleb
(l’incredulità di fronte a manifestazioni arcane), ma anche con quelle di Meo e di
Rugantino (è un donnaiolo, un ragazzo spavaldo e intelligente, astuto, ma giusto).
Con queste opere l’autore affronta temi religiosi in una prospettiva laica, rivelandosi
narratore dal gusto anticonvenzionale, che utilizza i mezzi dell’introspezione psicologica e
dell’umorismo per raccontare storie fuori dal comune. Lo stile è evidente tra le pagine di
Per amore, solo per amore, dove il rapporto tra Giuseppe e Gesù è inserito nella
dialettica dei rapporti padre-figlio, ma riesce a manifestare una forte carica nei sottintesi:
“Il Signore sia con voi”, salutò Gesù, mettendosi a tavola per ultimo. Era di nuovo in ritardo.
“E tu, sei sicuro che il Signore sia con te? Se fosse tuo padre al posto mio, ti tirerebbe le
orecchie.”
“Puoi sempre tirarmele tu”, disse Gesù, pronto ad accettare il castigo che Giuseppe volesse
infliggergli.
“E’ così che mi rispondi? Chi credi di essere?” ormai lanciato, il mio padrone proseguì nel suo
sfogo. “Un signorino, il capo di casa, il padrone del mondo, che vai e vieni come ti pare? Ti dico io
che cosa sei: un presuntuoso, perché ti credi da più di tua madre e di me; un ingrato, perché te ne
infischi dei sacrifici che facciamo per te; un fannullone, un discolo, un vagabondo. Finirai male, te
lo dico io”.20
Ne Il ladrone il regista riserva al racconto lo stesso trattamento anticonformista già
nella composizione delle inquadrature, come in quelle finali dedicate alla crocifissione.
Rifiutando la magniloquenza delle immagini tipica delle produzioni hollywoodiane
dedicate a Gesù (La più grande storia mai raccontata, di Stevens), Festa Campanile,
sorretto da una fotografia dai colori pastello che rileva plasticamente i corpi con effetti di
controluce, lavora per sottrazione, stilizzando le immagini secondo una disposizione
triangolari degli oggetti dell’inquadratura, e sottolinea l’isolamento dei crocifissi e il
dolore straziato dei credenti. Iconograficamente è una sequenza ispirata ai presepi
napoletani secenteschi. Le inquadrature della crocifissione sono spesso in campo lungo
ed i pochi primi piani, sono dedicati, coerentemente, a Caleb.
Le accoglienze critiche verso Il ladrone sono state contrastanti e, come spesso è
accaduto nei confronti del regista, superficiali. Sorvolando sulla critica indiretta di Pietro
Pisarra (che, recensendo Qua la mano, scrive: «Forse per farsi perdonare lo scivolone di
un
film
come
Il
ladrone…»21),
sono
esemplari
di
una
precisa
mancanza
di
approfondimento i giudizi di Paolo Mereghetti e Marco Giusti. Il primo giudica il film una
«inconsueta prova di Festa Campanile, che si ispira ad un suo romanzo per affrontare un
20
Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, cit., p. 171
Pietro Pisarra, Rivista del Cinematografo, 7,1980, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema…,
voI. 4, cit., p. 193
10
21
tema più serio del solito, ma il risultato, anche per alcune indulgenze a una comicità
facile e volgare, è inferiore alle attese»22; il secondo un «film “serio” di Pasquale Festa
Campanile, che inaugura il filone comico-mistico. Abbastanza riuscito come operazione. E
non era facile da far accettare al pubblico Enrico Montesano come ladrone che morirà
accanto a Gesù-Claudio Cassinelli sulla croce. A completare il tutto ci sono Edwige Fenech
non ancora del tutto rivestita, ma che pensa di recitare in un film intellettuale (infatti lo
cita sempre come esempio delle sue opere maggiori), solidi caratteristi come Daniele
Vargas, Enzo Robutti e Auretta Gay appena uscita da Zombi 2 di Lucio Fulci. Uscito in
Francia come Le larron»23. Tutto qui.
La rapida recensione di Mereghetti rientra nella solita critica rivolta a Festa Campanile,
quella di non essere all’altezza delle sue qualità, a causa dei cedimenti alla volgarità
corrente. Ne Il ladrone, però, le scene volgari sono volute e tutte dedicate alla
rappresentazione dei romani, detentori del potere: è una volgarità cinica quella di Rufo e
Appula; è una volgarità putrida quella del soldato romano (Robutti) che uccide il cane di
Caleb (che il ladrone porta in mano come un capro espiatorio) e gli urina sulla testa; è
una volgarita beffarda, compensatoria di quella romana, quella di Caleb, che si vendica
del soldato romano con una burla boccaccesca: lo mostra nudo alle donne giudee, dopo
avergli fatto credere di aver bevuto una pozione che lo rende invisibile.
La rivalutazione di Giusti è invece più ambigua perché, dietro gli apparenti elogi, c’è la
volontà di dare un incasellamento alla produzione di Festa Campanile, che è un regista di
commedie leggere e tale dorvrebbe rimanere (è esemplare quel «pensa di recitare in un
film intellettuale» rivolto ad Edwige Fenech). Considerare, comunque, Il ladrone un film
comico ed avvicinarlo al filone comico-mistico (Il pap’occhio, 1980, di Renzo Arbore e
Miracoloni, 1981, di Francesco Massaro) è sintomo di superficialità.
Un sintomo evidente anche nel giudizio critico su La ragazza di Trieste (1982):
«Disastro. Lanciato come film del riscatto di Pasquale Festa Campanile, dopo anni di
commediucce,
tratto
da
un
suo
libro
“serio”,
con
un
protagonista
come Ben
Gazzara in coppia con Ornella Muti come più o meno contemporaneamente aveva fatto
Marco Ferreri, e invece il film è deludente. “La storia appare banalizzata e appiattita, il
ricorso
alla
“follia”
come
produttrice
di
senso
è
più
che
mai
ovvio
e
falso
nell’edulcorazione della confezione patinata del prodotto. Resta la visione della testa
pelata della Muti su un corpo che non è da meno” (Giovanni Buttafava). Infatti, la grande
trovata del film, che rimarrà immortale proprio per quello, è la Muti pelatona e seminuda
sulla spiaggia di Trieste»24.
22
Paolo Mereghetti, Dizionario dei Film, Baldini & Castoldi.
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.394
24
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.633
23
11
La ragazza di Trieste rimarrà nel ricordo per quella concentrazione di effetti del primo
piano finale sul volto di Dino (Ben Gazzara) che, mentre guarda Nicole lasciarsi
lentamente affondare, disegna sul viso impassibile un sorriso appena accennato e che
risolve in una sola inquadratura il senso della storia, racchiuso nel romanzo in queste
ultime frasi:
Dentro di sé sperava che non la trovassero: voleva arrivare alla notte senza la certezza brutale
di un cadavere, che bisognava riconoscere e vegliare e seppellire. Si alzò e andò ancora alla
finestra, a guardare come faceva sempre, quando perdeva di vista un attimo la ragazza e si
domandava con una punta di angoscia che cosa stesse combinando. Poi, di colpo, capì che non
avrebbe più dovuto preoccuparsi di ciò che Nicole diceva o faceva. Odiò il senso di liberazione che
stava provando.25
La ragazza di Trieste è l’unico romanzo di Pasquale Festa Campanile narrato con una
focalizzazione esterna, che analizza i comportamenti di Dino e Nicole in modo oggettivo.
Si inserisce facilmente nella tematica dell’autore, nella volontà di raccontare storie
eccezionali: in questo caso un melodramma d’”amor fou” tra un disegnatore di fumetti ed
una misteriosa ragazza dalle molte identità che si rivelerà essere una psicolabile,
soggetta a turbe depressive e ad amnesia. Dina e Nicole sono due personaggi
equiparabili, immersi in una realtà parallela ed alternativa, quella dell’invenzione artistica
e quella della follia. La struttura narrativa è quella del giallo: il disegnatore si improvvisa
investigatore per risolvere il mistero della strana personalità di Nicole, che appare e
scompare dal suo appartamento, rivela false identità e si attribuisce diverse personalità.
Nel ritratto dei protagonisti, Festa Campanile mostra una penetrante introspezione
psicologica, capace di svelare inconsueti aspetti mentali nel rapporto amoroso.
Dal bagno non veniva più alcun rumore. Dino la chiamò per nome alzando la voce; Nicole non
fiatava. Allora egli assunse il tono dell’autorità maschile intimandole di aprire; scosse la maniglia,
minacciò di sfondare la porta. Alla fine prevalse la preoccupazione: “Nicole che ti succede? Parla,
dimmi qualche cosa”. Dino non gridava più, ma nella sua voce si sentiva crescere l’ansia.
Tentò ancora la maniglia e la porta si aprì: Nicole, pianissimo, aveva di nuovo girato la chiave
nella serratura.
Al vedersela davanti, nuda, ancora molle di pianto, Dino se la strinse addosso. Lei rise, mentre
lui la sollevava (con un certo sforzo perché Nicole era alta e solida) per portarla sul letto. Ci
rimasero a lungo. Dino alla fine soffriva per una vibrazione dolorosa dei nervi; si sentiva
lucidissimo, ma l’ombra dell’ottusità lo minacciava, come se si fosse rischiarato il cervello, alla
ricerca degli ultimi residui di vitalità. Non gli era mai accaduto, nemmeno nei casi in cui si era dato
a eccessi sessuali più gravi.
Si riposarono l’uno accanto all’altra, guardando il soffitto.
“Perché non rispondevi?” le domandò Dino.
“Non avevo capito”, rispose, “credevo che ti fossi arrabbiato sul serio e che non mi amassi più.
O pensavo di non piacerti abbastanza.”
“Vuoi dire che, mostrandoti a quel modo, mi hai messo alla prova?”
“Press’a poco. Sto sempre cercando qualcuno che s’interessi a me sempre, che mi ami anche
mentre faccio la pipì. Ti pare troppo?”26
25
26
Pasquale Festa Campanile, La ragazza di Trieste, Bompiani, Milano, 1982, p. 201
Pasquale Festa Campanile, La ragazza…, cit., pp. 22-23
12
Questo passo che mette in discussione l’immaginario erotico è trasposto nel film quasi
direttamente, ma con una suggestione visiva maggiore, poiché il dialogo tra Dino e
Nicole si svolge nella stanza da bagno, mentre la ragazza è seduta con le gambe
divaricate sul water. Trasportando il romanzo al cinema, Festa Campanile si sofferma
maggiormente sull’ossessione erotica della protagonista ed avvicina l’esibizionismo di
Nicole a quello Niccolò Vivaldi (i nomi sono gli stessi, non deve essere una casualità), con
uno spostamento decisivo: Niccolò provava piacere esibendo il corpo della moglie, Nicole
lo prova esibendo il proprio. Tutti e due sono alla ricerca di una propria identità, di una
soddisfazione personale: quella di Nicole è la ricerca di una passionalità possessiva.
Alcune inquadrature de La ragazza di Trieste si rifanno alla composizione visiva de Il
merlo maschio e de Il corpo della ragassa: come il denudamento, apparentemente
casuale, di Nicole davanti al fattorino di un albergo di Parigi, risolto osservando la scena
allo specchio.
La ragazza di Trieste recupera parzialmente i tratti stilistici antonioniani del primo film,
Un tentativo sentimentale: nelle immagini intervengono i silenzi e le pause, la regia si
sofferma ad indagare le reazioni dei personaggi posteriori alle azioni. Grazie alla
fotografia di Contini, il regista recupera l’atmosfera plumbea e crepuscolare di una Trieste
invernale (Tullio Kezich, triestino di nascita, si accorse che Festa Campanile aveva scritto
il romanzo senza essere mai andato nella città giuliana), in cui dominano le inquadrature
di un mare fuori stagione, grigio, freddo e metallico: un luogo di morte. Con l’utilizzo
delle carrellate a schiaffo che svelano un dettaglio improvviso, il regista costruisce
immagini raffinate e, quando devono visualizzare l’alienazione mentale di Nicole,
visionarie: come la sequenza dell’improvvisa amnesia della ragazza, che dimentica
l’ubicazione della villa di Dino e gira freneticamente per le strade con l’automobile (ne Il
merlo maschio c’è una sequenza quasi identica: Niccolò è colto improvvisamente da
amnesia sulla propria identità e vaga senza meta per Verona una notte intera) e quelle
delle sue allucinazioni (si sente assalita dagli scarafaggi, come il protagonista di Giorni
perduti, 1945, di Billy Wilder).
La ragazza di Trieste, assolutamente privo di umorismo, rivela in questi rimandi interni
la piena appartenenza alla poetica del regista. I riferimenti ad altri film precedenti non
sono finiti: Festa Campanile utilizza Ornella Muti («il simbolo stesso di una femminilità
finalmente liberata e consapevole di se stessa, che travolge con la sola presenza fisica
ogni
residuo
dell’arcaica
e
fallimentare
cultura
maschilista»27)
come
elemento
perturbatore ed impossibile oggetto del desiderio maschile, come in Nessuno è perfetto;
analizza acutamente psicologie contorte come già in Scacco alla regina, in cui i sogni
27
Alberto Orbicciani, Ornella Muti, in Chiti-Lancia-Poppi-Orbicciani, Dizionario del cinema
italiano, Le attrici, Gremese, Roma, 1999, p. 245
13
perversi di Silvia (la sua trasformazione in oggetto di piacere) erano concretati in
flashback visionari, raffiguranti rapaci donne-uccello e torturatori mascherati.
14
Capitolo 7. Problemi coniugali tra farsa, grottesco e giallo
Il rapporto di coppia è a fondamento di tutta la filmografia di Pasquale Festa Campanile,
anche laddove, come Il ladrone, gli interessi del racconto sembrano più lontani (c’è una
storia d’amore, disinvolta e contrastata tra Caleb e la prostituta Deborah). Analizzare
l’atteggiamento del regista verso questa tematica, sottintende una valutazione dell’intera
filmografia. Tuttavia è lecito individuare alcune opere in cui la vita di coppia diventa il
tema principale e l’intreccio è costruito su scambi di coppie, tradimenti, tentativi di
riconciliazione, equivoci. Lo stile del regista non è univoco.
Un film come Adulterio all’italiana è riconducibile al genere della commedia all’italiana,
sin dal titolo, ma contaminato con il gusto del regista per la commedia sofisticata, come
ha rilevato Giovanni Grazzini:
[…] Adulterio all’italiana, pur partendo da uno spunto antico e che il cinema italiano già riprese
con La bellezza d’Ippolita, ha caratteri suoi propri di stile e di gusto, che lo distinguono dalla
pletora di una produzione invereconda. Innanzi tutto, e dite poco, la mancanza di scurrilità, ed
eleganza di impianto scenografico, e brillantezza d’interpretazione, e una comicità festosa, che
sgorga da provate ricette – l’inseguimento, il travestirci, gli equivoci della pochade – ma applicate
con moderna fantasia e vivacità per irridere a un marito geloso e celebrarre l’astuta saggezza d’una
giovane mogliettina.
Tutto comincia da un cornetto che Franco, ingegnere di una grande azienda, fa spuntare sulla
fronte di Marta, l’innamorata consorte, con l’aiuto innocente di una cara amica di lei. Colto in fallo,
deve scegliere: o lascia che la moglie torni dalla mamma, o le permette, se vuole essere
perdonato, di ricambiargli una volta pan per focaccia. […] Il divertimento del film è tutto qui: da un
lato nei sospetti e nelle smanie del poveraccio, che sudando freddo cerca di individuare il rivale, e
raccoglie gli indizi più contraddittori, sparsi ad arte dalla moglie, dall’altro nei luciferini machiavelli
di Marta, che anche oltre il lecito, e sfiorando il sadismo, si diverte nel veder soffrire il marito e nel
cacciarlo in situazioni impossibili. Dalla gara, che ha momneti di irrefrenabile ilarità, è naturalmente
la donna a uscire vittoriosa; e non già come aveva minacciato, prendendosi la rivincita con un
amico di passaggio (benché proprio il marito, pur di togliersi il dente, le avesse mandato il più caro
collega d’ufficio), bensì conservandosi fedele e costringendo il fedifrago, dopo più di un ricovero
all’ospedale, a travestirsi da donna, estrema umiliazione del maschio italiano.
Realizzato nello stile americano della commedia sofisticata, con corredo di ambienti di lusso e di
piccanti toilettes, il film è troppo zeppo di situazioni perché tutte si mantengano sullo stesso livello.
La recitazione di Nino Manfredi, molto spassoso nell’abito del marito bugiardo e vigliacchetto, e
quella spigliata di Catherine Spaak, gli danno tuttavia una compattezza più che soddisfacente; e un
allegro colore il film riceve dal ritmo inesausto, dal brio inventivo della regia […].1
Il gioco degli equivoci ha, come raramente succede nell’opera del regista, un forte
radicamento nel costume italiano ed alcune battute mettono in discussione le abitudini
degli italiani, come nelle commedie all’italiana correnti: quella di Nino Manfredi, ad
esempio, rivolta alla moglie che gli annuncia la sua prossima vendetta: «Puniscimi in un
altro modo: magari non vado alla partita per un paio di domeniche».
Due anni dopo, Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare (1968) riprende lo sfarzo
scenografico di Adulterio all’italiana (le scenografie sono di Flavio Mogherini), ma la
adatta ad un intreccio più adeguato, surreale ed assurdo, tratto da un’opera di Aldo De
Benedetti. E’ la storia di una ragazza, Allegra, sposata ad un musicista, Ignazio di Rondò,
1
Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., pp. 83-84
1
molto più vecchio di lei (ha circa quarant’anni di più) e che sta già pensando al suo
avvenire, cercandole un uomo da sposare dopo il suo decesso. Allegra conosce un
ragazzo un po’ stralunato, Leonardo, e se ne innamora: ai due giovani viene la
tentazione di accelerare la dipartita di Ignazio. L’intreccio del film si snoda sui ripetuti e
vani tentativi dei due giovani di assassinare il marito di lei (con l’esplosivo, in un
incidente ferroviario, per impiccagione, con una revolverata, avvelenandolo, facendolo
sfracellare da un’altezza remota e poi su una piscina ricoperta, riempiendogli i tacchi
delle scarpe con la polvere da sparo, facendogli precipitare sulla testa un lampadario e,
infine, ancora in un incidente ferroviario) e sui rocamboleschi salvataggi di Ignazio che,
nel finale, si fa volontariamente da parte e lascia i due giovani alla loro felicità. Il tono di
Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare è grottesco, i personaggi sono marionette,
la recitazione caricaturale (la protagonista è ancora Catherine Spaak che rotea gli occhi,
manda gridolini), i gesti meccanici, l’umorismo è nero. Un effetto voluto che trova la
massima espressione nella visita notturna del dottor Sperenzoni nella villa di Ignazio, che
si svolge in un’atmosfera allucinata, che si carica, progressivamente, delle caratteristiche
dell’incubo, nella passeggiata che il dottore fa nei corridoi dell’abitazione (la regia lo
segue con una lunga carrellata), in cui, ad ogni angolo, appaiono personaggi che
sembrano comportarsi senza senso:
Sperenzoni vede uno scimpanzè portare una borsa dell’acqua calda ad un cane che dorme, sulla
soglia di una camera, avvolto di una coperta. Incontra Costanzo.
Sperenzoni: - Ho visto una bestia antropomorfa accudire un cane…
Costanzo: - Gaetano e Maurizio: il cane ha paura, la notte fa brutti sogni. Ma io ho visto una
donna camminare sull’acqua.
Sperenzoni: - Niente paura, è la prima moglie del conte Ignazio.
Costanzo: - Morta da dieci anni!
Sperenzoni: - Appunto!
Il dottore prosegue con sguardo allucinato. Da una camera esce l’impagliatore:
L’impagliatore: - Dottore, questo conte quando muore?
Sperenzoni: - Non lo so, non me l’ha detto!
L’impagliatore: - Sono qui per impagliarlo, ma lui non deve sapere nulla. Vuol vedere il catalogo
della ditta?
Sperenzoni: - No, grazie.
Prosegue per il corridoio, guardandosi intorno. Gli si avvicina il maggiordomo, Demetrio.
Demetrio: - Dottore, non dia confidenza allo zio Pasqualino.
Sperenzoni: - Non gliela do!
Demetrio: - E il nipote capellone è anche peggio: si soffia il naso nelle tende e ora è tutto rotto.
Non lo ha visto?
Sperenzoni: - No.
Demetrio: - Ha tutte le ossa frantumate. Il duca lo ha spinto giù per la scarpata. Ha saputo?
Mentre parla, una donna in sottana corre per il giardino, inseguendo un giardiniere barbuto. Alla
muta domanda di Sperenzoni che li guarda esterrefatto, Demetrio risponde:
La duchessa Paolina, dottore: una ninfomane, ma una vera signora.
Nel finale, dopo il secondo incidente ferroviario («Se penso a quei trenta chilometri a
cavallo di un respingente, con un cane in braccio, scomodissimo»), il conte Ignazio si
finge morto ed impagliato, così come il cane Maurizio, in una scena che parodizza quella
2
de Il gattopardo (il principe di Salina aveva un cane impagliato), quando Demetrio
(interpretato da Romolo Valli, uno dei protagonisti del film di Visconti scritto da Festa
Campanile) dice: «Nelle grandi famiglie si usa così. E poi sta così bene insieme al conte.
Fa più atmosfera».
Il tono spiritoso e fatuo di Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare scompare
nell’ultimo film di Pasquale Festa Campanile, Uno scandalo perbene (1984), rievocazione
del caso Bruneri-Canella, in cui Suso Cecchi D’Amico e Pasquale Festa Campanile si
riallacciano […] al Pirandello di Come tu mi vuoi per nascondere il sorriso del paradosso
dietro le pieghe della tragedia esistenziale. Era la giusta via per tornarvi a cogliere la
Grande Contraddizione che ci lacera, e quell’assurdo bisogno di sciogliere ogni enigma
che ci ammala. […] Scritto da Suso Cecchi D’Amico col suo sapiente gusto dell’intreccio e
diretto da Festa Campanile con la legittima ambizione di ricordarci quanto sia ampia la
sua tastiera di narratore e cineasta, per cui sa trascorrere dalla commedia brillante alla
novella psicologica, dall’erotico al sociale senza venir meno agli obblighi imposti dal
decoro.
[…] Mentre accantona, per non smarrirsi nel garbuglio, tanti aspetti della diatriba […], è
comunque sul versante coniugale che il film gioca le sue carte maggiori. Con qualche ragione se si
ammetta che la signora Canella difende a spada tratta lo smemorato di cui si è invaghita, facendosi
complice del simulatore Bruneri, e dunque offra al cinema dell’ambiguità ardenti scene d’alcova.
Senza tuttavia trascurare gli sforzi perché il ritratto dell’uomo, chissà quanto Bruneri, chissà
quanto Canella, assuma i segni del rompicapo e i suoi trascorsi – i rapporti con una prostituta, con i
colleghi di scuola, con i soldati in partenza per il fronte – accrescano l’arcano.2
Quella tra lo smemorato di Collegno e la signora Canella è una storia d’amore folle
avvicinabile a quella tra Dino e Nicole ne La ragazza di Trieste (il protagonista è lo
stesso: Ben Gazzara), in cui le parti sono contrapposte: in Uno scandalo perbene è
l’uomo che non riconosce la propria identità (l’amnesia è totale, non come quella
improvvisa di Nicole) ed è soggetto a crisi (improvvisi scoppi emotivi, nascosti dietro
l’«aria smarrita, il sorrisino del commediante e qualche lampo di furbizia degli occhi»3)
che minano il rapporto tra i due, già difficoltoso per l’intervento dei parenti «di Canella,
dapprima compiaciuti d’averlo riacquistato, poi indignati all’idea d’essere stati tratti in
inganno»4.
La visione di queste opere suggerisce che i legami nei rapporti di coppia debbano
essere colti sotto il segno della lealtà, della vitalità, della passione sensuale. Queste
qualità sono tutte subordinate alla fantasia, all’immaginazione gioiosa che coglie nella
quotidianità la stravaganza e fornisce le fondamenta per una prolungata convivenza.
2
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985, pp. 129-130
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p.130
4
Ibidem.
3
3
L’autore ce lo rivela in uno dei suoi film più sottovalutati e dimenticati, Cara sposa
(1977), in cui disegna il ritratto di Alfredo, uno sbandato, fanfarone e giocoso, ma non
sprovveduto: uno dei tanti protagonisti spensierati e gioiosi creati da Festa Campanile.
Alfredo affronta la vita con leggerezza, vive di espedienti e per questo è stato in carcere
ed è stato lasciato dalla moglie, Angelina e dal figlio, il piccolo Pasqualino, che si sono
accasati con un tassista serio ed avveduto, anche troppo.Tanto che Alfredo riesce a
riconquistare Angelina, di cui è sempre stato innamorato (anche quando ha pensato di
farla violentare per punirla, ma non ne ha avuto il coraggio ed è stato picchiato dagli
stessi uomini che assoldato) e l’amato Pasqualino (un amore ricambiato), grazie alla sua
straripante fantasia: quella che gli ha permesso di portare il figlio in Africa in una mattina
(con l’aereo, durante le ore di scuola vola in Tunisia, per permettere al figlio di poter
scrivere in modo documentato un tema sull’Africa) e di fingersi morto, dopo un
improvviso barbaro pestaggio da parte di “persone perbene” (che lo scambiano per un
rapitore), per farsi dichiarare dalla moglie tutto il suo amore. Angelina sposa Alfredo per
allegria: come Pietro faceva con Giuliana nel film di Salce Ti ho sposato per allegria.
Postilla: Mal di critica
Pasquale Festa Campanile è stato un regista tanto amato dal pubblico, quanto snobbato
se non osteggiato dalla critica. «Era un regista più intelligente dei film che faceva»:
luogo comune tanto stantio, ritornello spassoso apparso sulla metà delle schede
dedicategli nel Dizionario dei Film di Laura, Luisa, Morando Morandini (leggere per
credere). Ma probabilmente mai s’è arrivati all’indecenza cui è giunto Roberto Poppi, sulle
pagine dei suoi Dizionari del Cinema Italiano, che così recensisce Porca Vacca:
Un film che abbiamo detestato, come la quasi totalità della critica “ufficiale”. Un film che non ha
ragione d’essere perché, nonostante l’intreccio alla lunga se ne discosti, profana comunque un
capolavoro. O almeno l’idea che ha ispirato un capolavoro. Le vicende private di cialtroni in un
tragico contesto qual è la guerra. Il maestro Mario Monicelli con La grande guerra ha firmato un
film memorabile e immortale, servito da una sceneggiatura oltre i limiti della perfezione e da attori
grandissimi come Sordi, Gassman, Mangano, Blier. Qui i cialtroni non sono i personaggi
(marionette senz’anima), ma gli ideatori di una storia che abbiamo respirato con ben altri profumi.
Sono parole che si commentano da sole. Senza giudicare le qualità artistiche di un film
comunque tra i più personali del regista, ci chiediamo il perché di tanto accanimento e
rancore.
4
PARTE QUARTA: ANALISI COMPARATA DI TRE FILM
(Vita da cani, Basta guardarla, Il petomane)
Rilevare le differenze stilistiche tra Steno, Luciano Salce e Pasquale Festa Campanile è
possibile se si tiene conto che i tre registi hanno ognuno dedicato una loro opera ad uno
stesso tema, lo spettacolo di varietà. Nell’analisi bisogna tener conto, cronologicamente,
della diversità dell’epoca di realizzazione – Vita da cani è un film del 1950, Basta
guardarla del 1970, Il petomane del 1983 – e della conseguente modificazione del gusto
e dei generi narrativi e, stilisticamente, che Vita da cani appartiene al primo periodo della
produzione di Steno, quando il regista dirigeva in coppia con Mario Monicelli. Tuttavia
un’analisi comparativa è appropriata ed evidenzia le differenze di stile delle opere,
inscrivendole senza difficoltà nelle rispettive filmografie.
La vicinanza stilistica tra Steno e Salce è subito evidente nella scelta dello stesso
soggetto: Vita da cani e Basta guardarla sono dedicati alle compagnie dell’avanspettacolo
che girovagano per ltalia nei piccoli teatri dei centri minori. La contiguità tra i due film è
sottolineata dal fatto che Steno partecipa, con Iaia Fiastri e lo stesso Salce, alla stesura
della sceneggiatura di Basta guardarla. Festa Campanile, coerente con la sua ispirazione,
ricerca nello spettacolo di varietà il caso eccezionale e, ne Il petomane, tratteggia la
biografia del francese Joseph Pujol che, ai tempi della “belle époque”, si esibiva nei
giardini del “Moulin Rouge” di Parigi usando, come strumento, il proprio sfintere anale.
Nel comune realismo d’impianto, Vita da cani è maggiormente attento al disegno dei
personaggi,
mentre
Basta
guardarla
si
rivolge
alla
ricostruzione
dei
numeri
d’avanspettacolo; Il petomane «per certi aspetti prossimo all’Uomo elefante, […] del
prolifico Festa Campanile (è) nonostante quello scherzo di natura natura, tra i suoi più
discreti: d’un’ironia che anche quando scivola nel grossolano serba un profumo di
mestizia, e d’una leale volgarità che evita il triviale. Il petomane è, se proprio si vuole,
una commedia romantica, insaporita dalla ricostruzione di un ambiente in cui transitano
Schönberg e Gide, polemicamente intesa a lasciare in mutande i bigotti, e sentimentale
quanto basta a farci perdonare Ugo Tognazzi e Mariangela Melato: uno impegnato con
successo a esprimere il pudore e l’amarezza segreta di quel virtuoso, l’altra senza meno
deliziosa nel soave candore della sua figurina».1
Vita da cani mette a punto alcune consuetudini narrative cui si ispireranno tutti i film
successivi – anche Basta guardarla - che in Italia saranno dedicati all’avanspettacolo
(Luci del varietà, 1950 di Fellini e Lattuada, Ci vediamo in galleria, 1953, di Bolognini,
scritto da Steno). Realizzato nel 1950, in epoca neorealista, il film di Steno e Monicelli
1
Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza,Bari, 1984, p.130
1
rivolge la sua attenzione verso le compagnie d’avanspettacolo evidenziandone le
condizioni miserabili di vita (il cane di un attore mangia un cappello di paglia, «rivelando,
per metonimia, la fame del suo padrone»2); gli espedienti cui è costretto il capocomico
per sopravvivere; il rapporto tra gli attori ed il pubblico di provincia, che costringeva i
primi ad improvvisare numeri secondo i propri gusti; i comportamenti capricciosi delle
primedonne della compagnia. Infine, i registi sviluppano, nell’intreccio, una storia
d’amore tra il capocomico (Nino Martoni, interpretato da Aldo Fabrizi) ed una ragazza
presa dalla strada (Margherita, uno dei primi ruoli di rilievo per Gina Lollobrigida) che,
grazie alle attenzioni dell’attore diventa un’importante donna di spettacolo, ma da cui si
affrancherà una volta ottenuto il successo.
Steno e Monicelli propongono una ricostruzione di gag dell’avanspettacolo - alcuni
numeri comici e musicali di Aldo Fabrizi («Aggio perduto ‘a capa pe’ st’occhi blu marin/
nel petto c’ho una fiamma pe’ st’occhi blu marin/ stongo perdendo ‘a famm’ pe’ st’occhi
blu marin/ che ne vulite, che ne vulite, che ne vulit‘a me// Ve vedo, ve guardo,
m’addormo/ ve sogno, me sceto , me torno addurmi’…») – con l’interesse per il contesto
sociale e ambientale. Il capocomico Nino Martone, che si fregia del titolo di cavaliere (una
mania per le commende che avrà anche Ercole Pappalardo in Totò e i re di Roma),
conduce la sua compagnia in alberghi di terz’ordine, in teatri cadenti ed inutilizzati.
L’Italia percorsa dalla compagnia è quella provinciale, in cui la volontà di ricostruzione si
unisce al disorientamento morale e poltico: la regia è capace di catturare quest’atmosfera
riconducendola sotto il segno dell’umorismo. E’ esemplare l’episodio di Civita Pratese, in
cui Martone deve esordire con la sua compagnia e, per ingraziarsi il pubblico decide di
sondare le idee politiche del paese, i suoi gusti («Siccome dobbiamo fare delle scenette
politiche…»); lo fa, però, chiedendo informazioni ad un barista che è l’unico, nella
popolazione, ad avere idee contrarie («Una volta si viveva bene […] Allora dategli
addosso»): così, alla sera della prima, le battute di Martone (vestito da sovietico
esclama: «I nemikovscki hanno saputo che le nostre bombe a idrogeno non sono altro
che bombe a mano della guerra 1915», «Noi siamo ottanta milioni…di morti di fame»)
riceveranno un’accoglienza tutt’altro che trionfale. I personaggi sono consci di vivere in
una diversa realtà sociale, rispetto a quella di pochi anni prima e Martoni, riprendendo un
industriale, può rivendicare liberamente il proprio stato sociale: «E’ finito il tempo in cui
non si poteva parlare, siamo in democrazia».
Vita da cani, attraverso una regia secca e rigorosa, aderente ai fatti e ai personaggi,
riesce a costruire un racconto «pittoresco, sciolto, brioso»3 che si riserva, «all’interno di
una struttura narrativa che punta alla risata, un territorio d’osservazione di confine in cui
2
3
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, vol.3, cit., p.328
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1477
2
il sorriso è quasi un mezzo di protezione e di autodifesa di fronte al male di vivere che si
incontra nella vita di tutti i giorni»4. Infatti, con uno sguardo minuzioso che anticipa
quello del futuro “neorealismo rosa”, la regia costruisce il racconto intrecciando le storie
di tre attrici dell’avanspettacolo, disegnando precisamente personaggi socialmente
esemplari: sono Margherita che, come ricordato, ottiene il successo nello spettacolo;
Vera (Delia Scala), una ballerina che sposa il figlio di un industriale, dopo aver vinto le
rimostranze del padre, che scopre essere uno dei suoi pretendenti (una storia costruita
sul modello di Miseria e nobiltà, in cui il marchese Ottavio, che non vuole concedere le
nozze del figlio Eugenio con la ballerina Gemma, figlia di un cuoco, capitola quando si
scopre essere lui stesso uno dei pretendenti della ragazza); Franca (Tamara Lees)
un’operaia che tenta il successo nel mondo dello spettacolo, sembra trovarlo sposando
un industriale brutto e più vecchio di lei, e si uccide quando scopre che il suo fidanzato,
Carlo, ha fatto i soldi e lei non ha avuto la forza di aspettarlo.
Basta guardarla, ricalcando la struttura narrativa di Vita da cani, aggiornata a
vent’anni dopo – la compagnia d’avanspettacolo è ancora più miserabile e ridotta a
peregrinare in paesi minuscoli, il capocomico non è più un attore, ma un cantante,
Silver Boy (perché vestito di lustrini argentati) non al passo con i tempi (è un cantante
melodico:
«A
me
me
fanno
ridere
questi
cantanti
italiani:
Malle,
Morandi,
Celentano…Cos’hanno più di me?»), che s’innamora di una contadina cafona, Enrichetta,
che farà diventare una piccola stella – mostra maggiore attenzione verso la ricostruzione
dei numeri comici e musicali. Gli autori hanno una tale inventiva che Basta guardarla è il
Capolavoro di Salce e punta massima dei suoi protagonisti, Carlo Giuffrè e Maria Grazia
Buccella. “Il miglior film sull’avanspettacolo appena guastato da un ricordo del Risi peggiore
(Straziami ma di baci saziami)” (Giovanni Buttafava, Il patalogo). Lo spunto è proprio quello di
sfruttare il successo della commedia popolare alla Straziami ma di baci saziami di Dino Risi. Ma il
film va presto oltre, mostrandoci uno spaccato commosso e scatenato delle piccole compagnie di
avanspettacolo come raramente si è fatto. La borissima Enrichetta, la Buccella nel film della sua
vita, ingenua dalle grandi curve, entra nella compagnia di Silver Boy, che la ribattezza Rikk e la
affascina non poco. Questo provoca la gelosia della prima donna, la finta spagnola Marisa di
Mariangela Melato, fantastica, che riuscirà a farla cacciare dal gruppo. Enrichetta trova sulla sua
strada un altro gruppo di guitti, capitanato da Farfarello, vecchio arnese dell’avanspettacolo,
interpretato da Salce alla grande, e dalla moglie Pola Prima, una Valeri stratosferica (canta anche
“Piramidal”). Si metterà con loro diventandone presto la star erotica del gruppo. Ma Silver Boy è
davvero innamorato. E quando la rivedrà, pensando che lei si è messa con Farfarello, tenterà il
suicidio. Enrichetta ha finalmente capito che la loro vita è unita per sempre. Salce mette insieme
dei numeri fantastici del basso varietà con la Valeri di grande competenza e volgarità (il “tram” con
la canzoncina “che piacere, che piacere che si prova nel…sedere” e “Via col razzo”, ecc.) in un
tripudio di battute, doppi sensi. Loredana Berté e Pippo Franco alle prime armi offrono la giusta
cornice. Magnifico. Uscito con grande successo in Francia […] e in Spagna […].5
L’entusiasmo fa commettere a Giusti qualche errore nella redazione della scheda –
Silver Boy inventa per Enrichetta lo pseudonimo di Erica («Erìca?», «No, Erica»), è
Farfarello a rinominare la ragazza come Erika Rikk («Col kappa?», «Due!») – ma non
4
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, vol.3, cit., p.292
3
inficia il suo apprezzamento per un film in cui Salce gioca virtuosisticamente con il cattivo
gusto. Sia Vita da cani che Basta guardarla raccontano umoristicamente una storia
melodrammatica (l’amore contrastato tra un artista e la donna che ha lanciato: era il
soggetto di un melò fantastico di Powell e Pressburger, Scarpette rosse, 1948), ma se
nel film di Steno e Monicelli il racconto era realistico, poiché nell’immediato secondo
dopoguerra le compagnie d’avanspettacolo, pur cominciando ad entrare in crisi,
conservavano ancora una certa importanza, nel film di Salce è volutamente ridicolo.
Nel 1970 le compagnie erano diventate un rifugio di relitti artistici, di diseredati - il
ballerino omosessuale interpretato da Pippo Franco, che apre gli spettacoli dicendo:
«Signore e signori e militari»; la ballerina di flamenco Marisa, focosa spagnola di Porta
Ticinese («Io son di Barcellona», «Ma quale Barcellona, a Gallarate t’ho trovato» le
ricorda Silver Boy), che batte i tacchi e sfonda le assi dei palcoscenici («Te lamenti de far
l’amore con migo che son tutta fuego?») - incapaci di misurare il proprio talento e le
proprie ambizioni. I teatri sono ancora quelli di Vita da cani («Se tira la tenda: gli uomini
se spojano da ‘na parte, le donne dall’altra»), ma l’interesse del pubblico è scemato e gli
attori non si sono adeguati: «Mandate via la folla, se non non scendo» dice Silver Boy,
mentre corre per la piazza vuota di Copparola, in cui si trovano tre maiali, coprendosi il
volto per non essere riconosciuto. Se Nino Martoni, si considerava anche lui più di quanto
valesse, ma aveva abbastanza talento per scoprire nuovi talenti, Silver Boy non ha
neanche questa capacità, anche se se l’attribuisce: scaccia dal teatro Enrichetta che si
propone come ballerina della compagnia, perché vuole una svedese, e non la riconosce il
giorno dopo quando ritorna con una parrucca bionda; quando Marisa ne rivela l’identità,
esclama tranquillamente: «L’ho detto subito io, questa ragazza c’ha il teatro nel sangue:
basta guardarla!».
Silver Boy e Farfarello si prendono molto sul serio (Farfarello cita Shakespeare per le
sue scenette a doppio senso: «Dimmi, che vuoi Cassio?», «Come, che vuoi Cassio? Ma
cosa dici: devi dire: “che Cassio vuoi?” Se no è inutile; è tutto lì. Se no che si chiamava
Cassio, allora si chiamava Filippo»), si contendono Enrichetta come fosse una star, le
prospettano spazi importanti per il suo nome sui manifesti, come se fossero direttori di
importanti compagnie di prosa.
La regia, sarcastica (mai come in Basta guardarla Salce è stato capace di demolire
un personaggio con una battuta, con un dettaglio), ne svela impietosamente l’essenza:
Silver Boy è una caricatura del latin-lover, con i capelli imbrillantinati e lisciati all’indietro,
vestiti con i lustrini, il repertotio datato (una sola canzone melodica, presentata come un
grande successo: «Siccome so, dai miei colleghi che mi hanno preceduto, che il pubblico
di Copparola è raffinato e sensibile, vi proporrò “Tre rose”: Tre rose un solo cuore// […]
5
Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 70
4
Ho soltanto poche rose/ dal profumo di preghiera/ è insieme alla mia vita che le do»);
Farfarello e sua moglie Pola Prima sono presentati come due vecchi «arnesi»: Farfarello
ha i capelli tinti, uno spacco sulla dentatura, i vestiti dai colori sgargianti (porta le
bretelle rosse), la capacità di parlare in rima e di storpiare le frasi fatte («Mi tolga un
dubbio atletico», «Da evitare come la peste borbonica», «Un’interpretazione maestrale»)
ed una nomea di grande amatore da salvaguardare («L’amore non è bello se non è con
Farfarello», ad ogni donna della compagnia che, ogni notte, porta nel suo letto) grazie
alla moglie, dai capelli platinati, gli occhi bistrati e le scarpe con i tacchi altissimi (in una
gag surreale, saltando per acchiappare un grappolo d’uva, non riesce a raggiungerlo e,
scuotendo le spalle, mormora: «Tanto era acerba») che ogni volta entra nella sua
camera prima dell’amplesso e, fingendo di scoprire una cosa che già sa, nasconde
l’impotenza del marito.
In questo clima di cattivo e gusto e volgarità, Salce riproduce mimeticamente i numeri
comici dell’avanspettacolo. Farfarello, Pola Prima e Peppe De Pico mettono in scena
spettacoli come Col razzo che ci vengo e Poppea monta sul…cocchio («Un titolo forte,
commendatore», «Beh, felliniano…»), in cui, come racconta Enrichetta: «Farfarello è
proprio un grande artista: ha una comicità raffinata e sottile». Nella rivista, infatti, si
scambiano battute come: «Cesare cosa ha la tua cavalla?», «Eh, oggi è nervosa perché
le hanno rotto la biga»; «Popolo romano, ti assicuro che verrà l’abolizione delle tasse!»,
«Sì col cocchio, sì col cocchio, sì col cocchio che verrà». Mentre Pola Prima, imitando
Wanda Osiris, scende le scale cantando: «Piramidal, il mio fascino egizio/ non conosce
artifizio/ Tutankha, Tutankha, tutti…/ in camera la vengono a trovar». Il qualunquismo
delle
battute
dell’avanspettacolo
riportate
da
Salce
è
molto
simile
a
quello
contemporaneo del Bagaglino.
La regia ricostruisce i numeri con puntiglio fotografico (colori accesi: arancione, rosa,
viola e rosso), scenografico e costumistico, con grande uso di lustrini, paillettes, lampade
al neon e piume, come quelle che riempiono il “Coccorocò”, numero d’attrazione della
compagnia di Silver Boy, in cui il cantante e la prima donna (inizialmente Marisa, poi
Enrichetta) cantano questi versi: «C’era un bel gallo felice e giocondo/ aveva cento
galline per sé/ era tra i monti, più felice del mondo/ ma fortunato viveva da sé// Ma un
giorno arriva una bella gallina/ un tipo strano allevato in città/ il gallo subito le si
avvicina/ le fa la corte ma lei non ci sta:/ cocococò corocococò…// Lei civettava con modi
smorfiosi/ Non concedendo mai nulla di sé/ Se tu mi vuoi, caro gallo, mi sposi/ lasci le
altre e sei sempre con me// Per quanto strano vi possa sembrare/ lei tanto fece che il
gallo abboccò/ storia curiosa che può capitare/ solo tra i polli; tra gli uomini no».
Il racconto rispetta spiritosamente le convenzioni del genere melodrammatico:
agnizioni, tradimenti, sospetti (Marisa, in ogni modo, cerca di riprendere il suo ruolo di
5
prima donna, costruisce un intrigo che spinge Enrichetta da Farfarello, e giunge a
pugnalare Silver Boy), ritmo concitato e finale amaro, in cui Enrichetta sceglie l’amore
invece dell’arte, che spinge Farfarello a questo deluso commento: «Erika poteva essere
una grande stella e invece è stato solo un meteorismo».
Salce gioca con i nomi degli attori ed i loro personaggi: l’amico Umberto D’Orsi
interpreta la spalla del comico Farfarello, Peppe De Pico, il cui nome è troppo trasparente
per non rimandare a quello del grande caratterista napoletano da poco scomparso, Pietro
De Vico; Luciano Salce e Franca Valeri, compagni nel Teatro dei Gobbi, dove
proponevano un cabaret intellettuale, interpretano due guitti; il pittore, giornalista,
attore, sceneggiatore e regista, Mino Guerrini, amico di Salce, interpreta la parte,
minima, del medico che testimonia la guarigione di Farfarello dall’impotenza.
Già nei titoli di testa, in cui propone la canzone del “Cocorocò”, in un tripudio di
ballerine discinte, di spettatori entusiasti, mentre lampeggiano i nomi dei tecnici e del
cast, Salce evoca il tono kitsch di Basta guardarla, in cui sono adeguate anche le
prodezze tecniche della regia che gioca con il fermo-immagine, il rallentatore, le
didascalie scritte in fumetti da fotoromanzi, i flashback onirici dalla luce soffusa, la
musica caramellosa quando deve raccontare la storia d’amore tra Silver Boy ed
Enrichetta. I titoli di coda che riportano beffardamente le reazioni della critica
(«”Sobrio”…Le Figaro; “delicato”…La Pravda; “un’opera immortale, che resterà nella
storia accanto alla Divina Commedia e al Partenone”…L’Araldo di Copparola di Sotto»),
chiudono circolarmente Basta guardarla, ripetendo un’operazione già effettuata da Salce
in Colpo di stato.
Pasquale Festa Campanile, ne Il petomane, compie un’operazione inversa a quella di
Salce, che ha ridicolizzato una storia melodrammatica: rende seria una storia triviale,
cerca sfumature tragiche in un personaggio grottesco, Pujol, esposto nei suoi spettacoli
come un fenomeno da baraccone. Ricerca la grazia, il comportamento delicato all’interno
d’un uomo che utilizza la volgarità per avere successo. Pujol è un virtuoso, un artista del
peto, che con i suoi figli ha impiantato un complesso con cui vorrebbe eseguire sinfonie
classiche (naturalmente i ragazzi utilizzerebbero gli strumenti musicali e Pujol quello
personale). E’ un personaggio nobile, intelligente, che, quando incontra una violoncellista
chiamata a far parte del complesso, Catherine, una ragazza delicata e sognatrice, se ne
innamora e si vergogna di sé stesso: non gli rivela la propria personalità e non l’ammette
nel complesso musicale, ma preferisce partire con lei in una vacanza, in cui Catherine
apprezza le sue doti di cortesia. Pujol ha una crisi d’identità; non si accetta più nel suo
modo di essere, si ritira dalle scene, ma è insoddisfatto: una truffatrice si spaccia per una
nuova petomane, Pujol ne svela trucco, sale nuovamente sul palcoscenico ed è scoperto
da Catherine. Fugge a Le Havre, dove si riduce ad un relitto: è raggiunto da Catherine, si
6
riconcilia con lei e ritorna sulle scene, accompagnato, oltre che dai figli, dalla nuova
compagna.
Festa Campanile mescola diversi generi, nel tentativo di far dimenticare l’oggetto
volgare nel racconto: la sua scommessa è quella di costruire un impianto narrativo
elegante su di un argomento scurrile. Morandini ricorda che il film «comincia in farsa
spetazzante, diventa commedia drammatica, sfiora il melodramma e si chiude in chiave
di satira politica»6, ma la regia adopera anche materiali da cinegiornale (l’inizio del
racconto è cronachistico), si rifà al dramma giudiziario (il processo intentato a Pujol) e,
nelle melodrammatiche sequenze di Le Havre, al realismo poetico di Marcel Carnè. Troppi
spunti, non tutti sviluppati ed amalgamati (tra la scoperta della personalità di Pujol da
parte di Catherine e la sequenza di Le Havre c’è solo uno stacco, ma troppa differenza di
tono) da una regia molto trattenuta («inamidata»7), preoccupata di non essere volgare. I
momenti migliori de Il petomane sono le esibizioni di Pujol, la sinfonia suonata con la
famiglia (ogni membro del complesso spegne una candela con il fiato, Pujol con il
posteriore) e la sequenza finale, in cui Pujol è chiamato ad esibirsi davanti alle autorità
internazionali (i capi di stato francese, inglese e tedesco) e l’artista suona con i peti gli
inni nazionali. Festa Campanile si libera degli impacci e rivela il messaggio del film, più o
meno opinabile: nell’epoca delle sommosse socialiste, dei messaggi libertari, degli
atteggiamenti
anticonvenzionali,
il
peto
è
rivoluzionario
perché
è
espressione
dell’umanità ed è simbolo dell’uguaglianza. E’ la dichiarazione esplicita del radicalismo di
sinistra dell’autore (che in Manolesta aveva affidato al turpiloquio un’analoga carica
rivoluzionaria) e la prova di una piena appartenenza de Il Petomane alla sua poetica.
CONCLUSIONE
Steno, Salce e Festa Campanile non hanno avuto un rapporto univoco con la commedia
all’italiana. Sono stati registi attivi nell’ambito del cinema comico e della commedia, ne
hanno frequentato tutte le variabili ed eccezioni: la farsa slapstick, la comica finale, la
commedia sofisticata (o “neosofisticata”), la commedia di caratteri, l’umorismo nero e
addirittura il grottesco, talvolta abbinando i diversi livelli in una stessa opera (come
Piccola posta, Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare, Alla mia cara mamma nel
giorno del suo compleanno). Tra queste differenti espressioni del genere commedia, i tre
registi hanno prodotto anche alcune commedie all’italiana, che rimangono marginali
rispetto alla loro intera produzione. Steno, che all’inizio degli anni ’50, insieme a Mario
6
7
Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 972
Ibidem
7
Monicelli e poi da solo, ha fissato alcune coordinate della commedia all’italiana, si è
riaccostato al genere soltanto negli anni ’70; Pasquale Festa Campanile, in una
filmografia uniforme, solo saltuariamente ha diretto opere riferibili al genere, ma inserite
in un discorso personale (Adulterio all’italiana, Il merlo maschio). Soltanto Luciano Salce
ha sviluppato un progetto coerente all’interno della commedia italiana, ma se ne è poi
discostato, assecondando il proprio gusto per la teatralità ed il surrealismo, lo stile
leggero e corrosivo, in direzione di un originale grottesco.
Gli epigoni dei tre registi, con la loro attività, hanno confermato la fondamentale
estraneità al genere della commedia all’italiana di Steno, Salce e Festa Campanile. Tra i
collaboratori di Steno, lo sceneggiatore ed aiuto-regista di tutti i suoi film dal 1952 al
1957, Lucio Fulci (1927-1996), divenuto regista, prima di dedicarsi al genere “horror”,
s’è dedicato al cinema comico, dirigendo quindici film di Franco Franchi e Ciccio
Ingrassia, due farse con Lando Buzzanca (una d’argomento politico, All’onorevole
piacciono le donne, 1972) ed alcune commedie ad episodi (Gli imbroglioni, I maniaci).
Mariano Laurenti (1929) ha avuto una carriera parallela: aiuto-regista di Steno (diresse
la seconda unità di I moschettieri del mare), passato alla regia, ha diretto alcuni film di
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma, differenziandosi da Fulci, ha continuato a praticare
il cinema comico, dedicandosi alla commedia erotica di fine anni ’70.
Il caso di Castellano (1925-1999) e Pipolo (1931) è diverso. Sceneggiatori di alcune
delle migliori commedie di Salce, hanno collaborato anche con Steno (La feldmarescialla,
Arriva Dorellik) e Pasquale Festa Campanile (Il soldato di ventura, Dimmi che fai tutto
per me), rivelando la loro partecipazione alla sceneggiatura dei film nella costruzione
nell’intreccio narrativo, ricco di gag, talvolta demenziali. Castellano e Pipolo, come Steno,
avevano iniziato la loro carriera come umoristi del Marc’Aurelio, e si dedicheranno, dagli
anni ’80, alla regia di commedie sofisticate d’imitazione americana.
Collaboratore di Pasquale Festa Campanile fu Neri Parenti (1950), suo aiuto-regista a
metà degli anni ’70. Passando alla regia, nel 1979, divenne il regista personale di Paolo
Villaggio (sposò anche sua figlia), sviluppando il personaggio di Fantozzi in tutti i seguiti
dei due film diretti da Luciano Salce, imprimendogli una comicità molto meccanica.
Allontanatosi da Villaggio (Fantozzi 2000: la clonazione, ultimo film della serie, è stato
diretto da Domenico Saverni), s’è proposto, con Carlo Vanzina (1951), secondogenito di
Steno, come regista della nuova generazione di comici di provenienza televisiva. E’
proprio questo il problema: l’incapacità di dare un ritmo cinematografico alle gag dei
nuovi attori comici.
Chi si dirige da solo (sono sempre di più gli attori che debuttano al cinema dirigendo i
propri film: Antonio Albanese, Aldo, Giovanni e Giacomo, la Gialappa’s band) dimostra di
non aver nessun requisito per farlo; chi si affida agli artigiani della regia (Vanzina,
8
Parenti) è inserito in una produzione che riprende formalmente la forma espressiva
televisiva: piani fissi, inquadrature sciatte, ritmo lento.
Scomparsi negli anni ’80, Steno, Salce e Festa Campanile, nel 1990 Sergio Corbucci
(che, nell’ambito della commedia aveva svolto un’attività parallela nell’ultimo ventennio)
e, recentemente, Castellano; costretto in una produzione minore, di scarsa visibilità,
Mariano Laurenti, è definitivamente scomparsa una generazione di registi che sapevano
dirigere commedie popolari e contemporaneamente di maggiori ambizioni, che sapevano
organizzare
la
narrazione
secondo
un
ritmo
appropriato
e
dirigere
gli
attori,
sviluppandone le qualità.
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APPENDICE PRIMA: LE INTERVISTE
Intervista a Vittorio Sindoni del 2-6-1999
D. – Per prima cosa: come mai questa stretta collaborazione con Luciano Salce? Amicizia,
affinità culturale o che altro?
R. – Salce era un amico. Io avevo voglia di ripescare quegli attori che erano rimasti al di fuori
del cinema, chiusi dai quattro colonnelli della commedia all’italiana (Gassman, Tognazzi, Manfredi,
Sordi). Chiari era rimasto fuori dal giro, completamente, perché proprio in quegli anni aveva avuto
problemi con la droga. Valentina Cortese non aveva mai fatto il cinema brillante e grottesco, a
teatro recitava Cecov. Macha Méril era appena giunta in Italia, aveva fatto i film con Godard. Salce
accettò di girare questi film perché si divertiva molto. Girava cinque-sei giorni, dieci pose,
guadagnava facilmente e lavorava poco. Tra noi c’era un rapporto di grande affiatamento.
D. – Com’è avvenuto il primo incontro con Salce?
R. – Con Luciano avevo già fatto Gran Varietà in televisione. Ero uno dei pochi che riuscivo a
stanarlo. L’esordio al cinema fu Amore mio non farmi male con Salce, Chiari, Cortese e Méril.
Tenne due mesi di fila al cinema Europa, c’era la fila, il sabato, fino a Porta Pia, per vederlo. Un
record per quel tempo in Italia, quando un film teneva due, tre settimane. A vederlo erano
soprattutto i giovani che si riconoscevano nei due protagonisti che per la prima volta tentano di
fare l’amore.
D. – La sua carriera si divide nettamente in due parti: commedie grottesche, fin dai titoli, e
analisi generazionali in forma di commedia. Salce ha interpretato soltanto il primo filone, come
mai?
R. – Le commedie grottesche nascono dal successo ottenuto con La signora è stata violentata,
con Montesano. I produttori, sorpresi dal fatto che si potevano fare soldi al di fuori della commedia
all’italiana, accettarono la proposta di Amore mio non farmi male. Da allora feci tre film in un anno:
Son tornate a fiorire le rose, Per amore di Cesarina, Perdutamente tuo…mi firmo Macaluso Carmelo
fu Giuseppe. Erano commedie girate in grande libertà, scritte con il critico teatrale, commediografo,
adattatore plautino Ghigo De Chiara, che adesso, poverino, è morto. Ci potevamo permettere gag
assurde come i titoli di testa di Son tornate a fiorire le rose con il matrimonio dei due ragazzi
celebrato da tutto il cast tecnico del film: io e De Chiara firmavamo i registri, Simonetti suonava
l’organo, gli operatori riprendevano il matrimonio. L’altro filone è più personale, rappresenta le mie
idee più sentite, per questo scelsi attori giovani e fuori dagli schemi. Comunque tutti i miei film, e
lo dico da socialista, contestano il ’68, che aveva ucciso la gioia di vivere per l’impegno a tutti i
costi. Una cosa contronatura e infatti in quegli anni nacque il terrorismo.
D. – La questione (ir)risolta di Marco Aleandri.
R. – Marco Aleandri nasce perché volevo produrre un film, Ride bene…chi ride ultimo, in cui ogni
episodio rappresentava l’esordio alla regia di un attore: Bramieri, Chiari, Caruso. L’unico attore, tra
tutti, che fosse anche regista era Luciano Salce e dunque non poteva firmare col suo vero nome.
Allora c’inventammo lo pseudonimo di Aleandri. Poi i produttori vollero che il gioco continuasse e i
due seguenti titoli li girai ancora con lo pseudonimo di Aleandri. Dei film di questo periodo porto un
po’ di vergogna, perché mi impedirono di portare avanti un mio discorso personale. Comunque c’è
anche qualche episodio riuscito. Il migliore è quello con Salce che fa il venditore ambulante e va a
casa di una di una donna, il cui marito è a pesca, dopo essersi dato malato in ufficio. Quando arriva
la visita fiscale, il venditore deve sostituirsi al marito. Da qui poi nasce tutto un gioco…
D. – Salce era un attore-regista. Quando recitava faceva sentire la sua natura di regista?
Interveniva nelle sue decisioni? O c’era un rapporto di collaborazione?
R. – Essendo un regista serio e preparato si comportava sul set con grande professionalità,
perfettamente rispettoso dei tempi. Non si permettava di influenzare la regia, ma a volte si
preparava il personaggio in sede di sceneggiatura, scrivendoselo un po’. Era molto bravo a tenersi
un po’ sopra le righe, accentuando i toni grotteschi. Collaborava ma non prevaricava: arrivava ad
accettare i miei film, tanta era l’amicizia, senza sapere quale sarebbe stato il suo personaggio. Sul
set non improvvisava, preferiva prepararsi prima. Era così professionale che entrava
continuamente in rotta di collisione con Walter Chiari, estroverso e confusionario, e dunque tutto il
contrario di lui, perché non rispettava gli orari, i tempi. Mi ricordo che che doppiò Per amore di
Cesarina un mese dopo la fine delle riprese. Sul set, però, c’era grande affiatamento: i loro
battibecchi si risolvevano in grandi scambi di battute. Credo che il migliore film che abbiamo fatto
insieme sia stato Perdutamente tuo, in cui faceva un barone spiantato, con grande classe. Era il più
originale, tra tutti quelli girati insieme, con la storia di questo emigrante che torna a casa e trova
l’inferno.
D. – Una sua considerazione su Salce come regista e, in genere, come uomo di spettacolo.
R. – Salce era un grande uomo di spettacolo. Conosceva i tempi comici come nessuno in Italia,
forse in questo campo era addirittura il migliore. I due Fantozzi erano bellissimi perché sapeva
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portare al limite la situazione grottesca e poi tagliarla al punto giusto. Il progressivo decadimento
di Fantozzi non credo sia stato colpa di Neri Parenti, ma dello sfruttamento del personaggio.
D. – Un aneddoto sul vostro rapporto.
R. – Salce era un misantropo, tirato fino all’inverosimile. Tirchio, nonostante avesse i soldi.
Cercava di averli perché non essendo bello, pensava che avrebbe potuto attrarre così le donne:
Cinzia Monreale me la segnalò lui. Era molto solitario, non aveva amici, perché oltretutto era
brillante e sarcastico anche nella vita privata. Amava molto le barche, spendeva milioni per
comprarsele, e poi stava giorni in mare, mangiando insalate di pomodori, inseguito dal fisco. Come
tutti gli uomini di spettacolo, cercava di evitare le tasse, la sua barca batteva bandiera starniera. La
sua tirchieria era proverbiale. Finito Son tornate a fiorire le rose, gli chiedemmo di offrire qualcosa
alla troupe. Balbettò, esitò, infine offrì un gelato. Chiari, che era nella stessa troupe, offriva cene di
milioni, offriva tutto a tutti, non aveva mai in tasca nemmeno diecimila lire.
D. – Parliamo di lei. Crede di essersi distinto nel cinema? E’ soddisfatto di ciò che ha fatto?
Quanto ha ricevuto dal cinema?
R. – Ho sempre cercato di fare commedie alternative. Non mi piaceva lavorare con i colonnelli
perché si prendevano il 50% dei profitti. Mi sono sono ispirao soprattutto alla brillantezza di Mario
Camerini, il mio grande maestro. Non credo che farò più cinema, perché non ho voglia di fare film
che poi vedono solo trenta persone, quelli dell’anteprima. Preferiscono farli per la televisione, dove
li vedono decine di milioni. Mi sono ritirato dal cinema perché proprio nel momento della crisi, ho
allentato un po’ la presa, per la morte del mio primo figlio. Morì in un incidente automobilistico
quando stavo doppiando Per amore di Cesarina. Il mio più grande successo è stato senza dubbio
Gli anni struggenti, anche di critica, ricevetti i complimenti anche da Rondi.
Intervista ad Erico Menczer del 11-10-1999
D. – Come è avvenuto il primo incontro con Luciano Salce?
R. – Fu per Le Pillole di Ercole. Allora Salce era appena tornato dal Brasile…Lei sa come fu la sua
vita?
D. – Abbastanza.
R. – In Brasile aveva girato due film, c’era stato un po’ di tempo. Quanti anni, precisamente,
forse lo saprà lei…
D. – Quattro.
R. – Bene, quando tornò in Italia De Laurentiis gli propose questo film, tratto da una pochade
francese, in cui lanciare come protagonista assoluto Nino Manfredi, che fino ad allora aveva fatto
particine, mi ricordo un film con Sordi, Lo scapolo. Come direttore della fotografia venni chiamato
io, che fino ad allora ero stato operatore di macchina. Mi concessero fiducia.
D. – Un film di esordienti.
R. – Sì, in qualche modo sì. C’era però anche quel comico francese, bassino…
D. – Francis Blanche.
R. – Sì, lui. C’era De Sica, la Koscina, quell’attrice di teatro un po’ anzianotta.
D. – La Pagnani.
R. – Esatto. Durante le riprese a Salce venne una specie di paralisi alla schiena. Un grande colpo
della strega. Lo portavano sul set, a Salsomaggiore, in ambulanza. Dirigeva su una lettiga, un po’
sollevato sulla schiena, con degli appoggi sotto le ascelle. Era sposato, ma aveva dei problemi con
la moglie, che, infatti non lo accompagnò a Salsomaggiore. Dopo poco divorziarono.
D. – Com’era il suo umore sul set?
R. – Buono. Era troppa la voglia di esordire. Nonostante tutto era lui a decidere ogni cosa. Era
molto pignolo. Mi ricordo che cercavo di aiutarlo. Facevo dei cenni ai macchinisti sul
posizionamento della mdp, li chiamavo, ma lui ci zittì, voleva ordine. Comunque, il film venne
bene.
D. – Molto divertente. L’anno dopo però ci fu un salto di qualità con Il federale.
R. – Sì. Nonostante non facesse mai apprezzamenti sul lavoro, si ritrovò molto bene con me e
mi richiamò. Il federale lo girammo tutto nel Lazio, sulla Prenestina.
D. – Come si chiamava il paese in cui si rifugiava il produttore Bonafè all’inizio del racconto?
R. – Era vicino Palestrina. Non mi ricordo il nome: San…Ci si arrivava da Palestrina dopo una
serie di tornanti, quelli dove girammo la scena di «Buca…buca con acqua». Mi ricordo che il campo
d’aviazione era vicino a Civitavecchia ed il lago a Giulianello. Fu una bellissima lavorazione, con
molte scene difficili: quelle dei bombardamenti. C’era George Wilson, grandissima persona,
amabilissima.
D. – E Tognazzi?
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R. – Tognazzi era un po’ scocciatore. Interrompeva la lavorazione del film all’una, perché
doveva prepararsi da mangiare.
D. – C’era Stefania Sandrelli: diede particolari problemi?
R. – No, no, era il primo film. Poi faceva una particina. Mi ricordo che durante una pausa di
lavorazione ci fu un fuggi fuggi dei tecnici, che si ammassarono tutti intorno alla sua roulotte. Lei
era lì dentro, completamente nuda, con il finestrino aperto e tutta la gente intorno. Stava lì,
tranquillissima.
D. - Quali furono le scene più difficili da girare?
R. – Sicuramente quelle dei bombardamenti, soprattutto quelli notturni. La difficoltà stava nel
ritrovare, al buio, i segni delle cariche per terra. Era un po’ pericoloso: l’esplosivo era abbastanza
forte da poter rovesciare una jeep. Il mitragliamento della corriera, quella con il santo da cui esce
l’olio, la facemmo vicino Guidonia. I mitragliamenti li facevamo con un attrezzo chiamato la
chitarra: un pezzo di legno con tanti chiodi conficcati. Ad ogni chiodo corrispondeva un filo
collegato ad una piccola carica di polvere da sparo. Si passava sopra i chiodi con una mano,
progressivamente, questi si inclinavano e cominciavano a far esplodere i colpi consecutivamente.
Nelle scene dei mitragliamenti il difficile era trovare strade sterrate, per poter far vedere i colpi di
mitragliatrice che rimbalzavano. Se fossero state asfaltate non ci sarebbe stato l’effetto.
D. – Chi si occupava degli esplosivi? Avevate degli artificieri, qualcuno dell’esercito, con voi?
R. – No, no. C’erano dei tecnici degli effetti speciali che si occupavano di questo. C’erano delle
persone, nel cinema, che possedevano e procuravano bombe, mitra, fucili, pistole.
D. – E le scene con Tognazzi in sidecar come le giravate?
R. – Con il cameracar. Avevamo la mdp montata sull’auto. Salce era lì e dirigeva le operazioni.
Praticamente c’erano metà dei tecnici sul cameracar.
D. – Il film successivo fu La voglia matta, con Catherine Spaak. Nemmeno lei diede problemi?
R. – Assolutamente. Anche lei era molto giovane. La voglia matta lo girammo tutto a Sabaudia,
in una villetta ricostruita in legno, tranne l’inizio, girato ad Ostia antica. Lo girammo in dicembre.
D. – Chi faceva i sopralluoghi? Chi decideva qual era il posto giusto per girare un film? Salce o
lei?
R. – Salce. Insieme allo scenografo. Di solito i sopralluoghi si fanno con lo scenografo, che mi
sembra allora fosse Boccianti.
D. – La voglia matta è pieno di sequenze notturne: quella di Ostia, quella con Tognazzi al
cimitero e quella del ballo dei ragazzi in riva al mare…
R. – Tutte girate con l’effetto-notte, in pieno giorno, a mezzogiorno. Solo quella degli scavi di
Ostia la girammo veramente di notte. Anzi, eravamo alla ricerca delle giornate perfettamente
serene, per girare, per poter ottenere quel chiarore che sarebbe sembrato lunare. Se ci fossero
state le nuvole tutto sarebbe apparso più monocorde: invece quando andavamo a girare c’era
sempre qualche nuvola.
D. – Da quel che riferisce lei, Salce era un regista molto rigoroso. Non improvvisava mai sul
set?
R. – Improvvisava solo nella costruzione di qualche gag. Salce era un regista geniale. Faceva
parte di quel gruppo…il Teatro dei Gobbi. Ho lavorato con tutti loro: sono morti tutti giovani
poveretti, poco oltre la sessantina.
D. – Bonucci, non ne aveva nemmeno cinquanta.
R. – Bonucci era una grandissima persona, simpaticissimo. Ho lavorato molto per lui, ho fatto la
fotografia del suo episodio de L’amore difficile. Caprioli un po’ meno…
D. – Un po’ meno cosa…un po’ meno simpatico o ha lavorato un po’ meno con lui?
R. – Un po’ meno simpatico. Era un napoletano un po’ bugiardo, così, insomma…Salce era
geniale: aveva sempre idee originalissime. Quando facevamo i film insieme e mi faceva leggere il
copione, mi facevo già un’idea visiva della storia, no, come spesso succede? Beh, quando
discutevamo insieme, Salce aveva trovato sempre, sempre, una soluzione migliore delle mie.
Sapeva perfettamente qual era la posizione migliore della macchina per costruire un gag, non solo,
trovava sempre soluzioni inedite.
D. – Non sempre capita.
R. – Assolutamente. Mi ricordo che c’era un regista, non voglio far nomi, che si presentava la
mattina sul set con la pagina di sceneggiatura che doveva girare e la leggeva e la rileggeva, la
leggeva, la rileggeva. Sempre da capo. Quando arrivavo io, mi dava la pagina, me la faceva
leggere, mi guardava, poi diceva: «Ma hai letto? Rileggi». Insomma andava a finire che il film lo
giravo io. Non aveva un’idea. A proposito di La voglia matta, fu su questo set che conobbe Diletta
D’Andrea, era una delle ragazze: un anno e mezzo dopo ebbero il figlio.
D. – Un colpo di fulmine. Mi diceva Vittorio Sindoni, quando l’ho intervistato, che Salce era un
tipo solitario, anche un po’ tirato, avaro. Che gli piaceva molto andare in barca.
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R. – Era acido. In trent’anni, con quattordici film fatti insieme, siamo usciti insieme una sola
volta, al di fuori dal set. Frequentava pochissime persone, aveva grande amore soltanto per le
donne. Non passava sera che non uscisse tutto agghindato, con il suo vestito con i bottoni d’oro.
Aveva una villa ad Amelia, con i pavimenti in cotto, i rubinetti navali.
D. – Non crede che abbia scontato negli ultimi della sua vita, questo suo carattere sarcastico?
Non si fece inimicizie?
R. – Non credo. Era un individuo un po’ al di fuori della norma. Era estraneo al gruppo degli altri
registi. Non andava mai nella tana dell’ANAC, a piazzale Flaminio. Si sentiva diverso, aveva fatto
teatro, era più colto della media dei registi, quelli che andavano nella tana dell’ANAC.
D. – Non crede che l’ostilità della critica verso di lui…
R. – Dopo la sua morte…
D. – Soprattutto dopo la sua morte…Non crede che l’ostilità della critica nei suoi confronti nasca
dal suo carattere un po’ spigoloso? Ho notato nei confronti di Salce una freddezza superiore a quelli
che possono essere i suoi meriti o demeriti estetici.
R. – Non fece mai film per la critica. Fece solo commedie, film comici, uno diverso dall’altro,
anche se li fece molto bene.
D. – Sicuramente. Però, dopo l’uscita, de Le ore dell’amore era tenuto in grande considerazione
critica, Tullio Kezich affermò che la commedia all’italiana aveva trovato il suo stile. Poi, subito dopo
questo film, niente: buio totale. La critica non si è più interessata a lui.
R. – Forse ha ragione lei. Le ore dell’amore era veramente un bel film. Un film originale,
presentava un’idea che si sarebbe mostrata molti anni dopo, quella della crisi del matrimonio. Salce
fu molto bravo a sfruttare le doti di quest’attrice francese (Emmanuelle Riva), a costruire su lei e
Tognazzi un gioco molto sottile, sommesso. Ci sono scene di classe.
D. – Come quella del sogno.
R. – Salce mi chiese di mettere luci molto forti e molto in alto, per dare quest’illuminazione un
po’ da incubo. Era pieno di idee. Mi ricordo che per Le pillole di Ercole, appena arrivato, mi disse:
«Voglio tutti attacchi e stacchi in movimento». Io rimasi interdetto, non sapevo cosa volesse, poi
mi chiarì che voleva l’entrata e l’uscita in scena dei personaggi sempre in movimento, con
carrellate.
D. – Insomma, già all’esordio si presentò con le idee ben chiare. Salce, spesso partecipava ai
suoi film anche come attore. Erano ruoli che si ritagliava, oppure erano buchi del cast da turare?
R. – No,no. Erano ruoli che si ritagliava. Si divertiva molto a recitare. Qual è il film che viene
dopo?
D. – La cuccagna.
R. – Anche quello fu un film avveniristico. Anticipò temi successivi, quelli della contestazione
giovanile. Quello delle ragazze in cerca di lavoro circuite dai loro datori. Adesso è quasi nella
norma, terribile. Il film lo girammo a Fregene. La protagonista era molto adatta al ruolo. Si
chiamava…
D. – Donatella Turri. Non fece altri film dopo La cuccagna, vero? Non aveva doti particolari ?
R. – No, anzi. Nel film era brava.
D. – E c’era Luigi Tenco.
R. – Era un ragazzo molto simpatico, serio, parlava poco.
D. – Ho letto dichiarazioni di Luciano Salce, a proposito di Tenco, in cui affermava che, durante
la lavorazione del film, non avrebbe pensato che in seguito si sarebbe suicidato.
R. – E’ vero. La sua donna lo lasciò, quella cantante, con i capelli rossi, che ha avuto un certo
successo. Non lo so. Soffrì molto. Era molto timido, non aveva un carattere forte.
D. – Secondo lei avrebbe potuto continuare una carriera d’attore?
R. – Perché no?! Aveva una recitazione sommessa. Certo aveva dei limiti: non avrebbe mai
potuto recitare l’Amleto. Ma probabilmente, con qualche parte adatta…
D. – Come imparai ad amare le donne, che confesso di non aver visto, è il primo film a colori
che fece con Salce. E c’era uno stuolo di belle attrici.
R. - Un film molto carino. C’era la Mercier, bellissima. Lo girammo ad Amburgo: le parti con la
Mercier, la Ekberg, e a Roma, con la Leander e la Tiller. C’era Hoffmann, quell’attore austriaco. E
c’era una giovanissima Romina Power.
D. – Come mai sceglieste Romina Power?
R. – Eh, ce la segnalarono. Probabilmente fu la madre che la spinse. La proponeva a tutti.
D. – C’era Zarah Leander, diva tedesca. Che rapporto aveste con lei?
R. – Buonissimo, ormai era vecchia, avrà avuto una settantina d’anni. Nel film suonava una
canzone al pianoforte.
D. – In seguito faceste quello che per me è il miglior film di Salce: Alla mia cara mamma nel
giorno del suo compleanno.
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R. – E’ vero, fu un ottimo film. Pieno di idee: quella delle monete stese sul corpo di lei, la
bambola gonfiabile, l’ambiente tutto in interni. La Giorgi lì fu bravissima. Anzi, per me non ha mai
recitato così bene come in quel film. In seguito ho ancora lavorato con lei, ma non ha mai più reso
come in quel film.
D. – Chi fu a sceglierla?
R. – Salce, probabilmente, era sempre lui che sceglieva tutto. Per molto tempo ha avuto come
aiuto regista Emilio Miraglia, che adesso è morto.
D. – Mi dispiace.
R. – Miraglia lo feci esordire alla regia io. Ha mai visto qualche suo film?
D. – La notte che Evelyn uscì dalla tomba.
R. – Avevo fatto un film con Franco Prosperi, Tecnica di un omicidio, fatto con tre lire,
letteralmente, con cento milioni. Andammo in tre a girare a New York, avevamo Franco Nero e un
caratterista americano Robert Webber.
D. – Che poi ha fatto una discreta carriera nei film di azione.
R. – Sì, ma allora era agli esordi. Il film ebbe un successo grandissimo. Mi ricordo che dovevo
girare la scena della sparatoria dall’alto e l’attore che la faceva aveva le vertigini. Così dovemmo
girare la città alla ricerca di un palazzo che avesse trenta piani e che prima dell’ultimo avesse un
terrazzino, di modo che l’attore sporgendosi non avesse le vertigini. Il film ebbe tanto successo che
i produttori vollero mettere insieme un altro film simile. Prosperi si defilò e io proposi Miraglia, che
così esordì. Il film si chiamava Quella carogna dell’ispettore Sterling. Lui era molto avvilito, perché
vedeva che i film che girava non gli venivano, non erano all’altezza di quelli di Salce.
D. – Anche perché affrontò un genere completamente diverso.
R. – Tecnicamente era bravo. Aveva poca personalità, era indeciso, aveva mille dubbi. Ma
torniamo a noi. Dove eravamo?
D. – Alla mia cara mamma. Che come ha ricordato lei aveva molte scene di effetto: quella delle
monete, quella del lavatoio, la sequenza finale dell’uccisione di Villaggio. Di chi erano queste idee?
Erano nella sceneggiatura, che era insolita, fatta da Azcona e Berlanga, o erano idee originali di
Salce, che sviluppò sul set?
R. – Non me lo ricordo. Ma probabilmente di Salce: la torta che girava nei saloni, al buio, è
stata un’idea sua, per esempio. Aveva sempre queste idee originali. La villa dove girammo era
vicino Roma, forse a Monte Mario, piena di boschi.
D. – E’ il primo film che Salce fece con Villaggio. Com’era l’attore sul set?
R. – E’ sicuro che non lo facemmo tra i due Fantozzi?
D. – Non credo, Alla mia cara mamma è del 1974, Fantozzi del 1975.
R. – Villaggio fu tranquillo. Ascoltava tutto quello che diceva Salce, si faceva guidare da lui,
sentiva che Salce aveva molto da dargli. E poi era conscio di non avere le qualità del regista, infatti
non ha mai provato a dirigere un film.
D. – Tra i film che avete fatto insieme c’era stato anche Il sindacalista, con Buzzanca.
R. – Un attore troppo invadente. Così come è lui nella realtà, molto esuberante, parla molto.
D. – Ho letto delle dichiarazioni di Buzzanca, in cui sembra che fosse lui a dirigere tutti i film in
cui recitò. Ho dei dubbi.
R. – Ha ragione. Glielo lasciavano credere. Lo lasciavano fare. Lui diceva fate così, così, poi i
registi cambiavano come pareva loro. Salce lo tenne a bada.
D. – Credo che Buzzanca l’abbia saputo governare soltanto Pasquale Festa Campanile. Le altre
volte sembra sempre prevaricare. Anche in questo film sembra voler fare troppo. Il difetto de Il
sindacalista fu che Buzzanca sembrava commentare e spiegare i gag, le battute.
R. – E’ vero. Nel film c’era anche Montagnani, bravissimo. Un personaggio di grande simpatia
umana. Forse Salce diresse il film quando era già in fase calante.
D. – Oddio, doveva ancora girare i due Fantozzi…
R. – Non è successivo?
D. - No, giunse subito dopo Basta guardarla e Il provinciale. Comunque lei crede che Salce fu
svogliato?
R. – Sì, è un film minore, non ha entusiasmato nessuno.
D. – In effetti è vero, eppure fu scritto da Castellano e Pipolo, che tornavano a lavorare con
Salce dopo un po’ di tempo.
R. – Non sempre l’alchimia può funzionare.
D. – Forse fu un film un po’ estraneo alle corde di Salce. Un film quasi di impegno politico.
R. – In effetti, fu fatto un po’ per forza, tante volte bisognava impostare il film su Buzzanca.
Anche il film che Salce fece in seguito con Buzzanca, Io e lui, non fu eccezionale.
D. – A proposito di Io e lui, vedo che lei non ha mai diretto dalla fotografia dei film di Salce
tratti da opere letterarie e teatrali: Ti ho sposato per allegria, La presidentessa…
R. - …L’anatra all’arancia…
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D. – Come mai? Forse queste erano produzioni diverse, in cui i direttori della fotografia erano
già stabiliti?
R. – Può darsi. Se fosse dipeso soltanto da Luciano, mi avrebbe chiamato sempre. Ma poi
bisogna scendere a compromessi. Ci sono attrici che hanno il proprio direttore: per esempio la Vitti
che aveva sempre Carlo Di Palma, suo marito. Oppure bisognava fare compromessi con i
produttori. A volte si facevano degli scambi: si rinunciava ad un tecnico (uno scenografo, un
direttore della fotografia), per poter avere un attore.
D. – Dove fu girato Il sindacalista?
R. – A Roma.
D. – A Roma? E i paesaggi brumosi?
R. – Falsi. Tutto finto. Nebbia finta. Fatta coi fumoni.
D. – Anche la fabbrica è stata trovata a Roma?
R. – Qui vicino. Era una fabbrica di frigoriferi sulla Pontina. Adesso non c’è più, l’hanno chiusa.
D. – A questo punto siamo arrivati ai due Fantozzi, successi grandissimi. Quale fu il successo più
grande della carriera di Salce?
R. – Proprio Fantozzi. Anche Il Federale andò bene, ma non quanto Fantozzi. Ho una lista di tutti
i luoghi dove girammo i due film. Il veglione di Capodanno di Fantozzi lo girammo nei sotterranei
della piscina del Foro Italico: tutti quei tubi erano l’impianto di riscaldamento. La partita di calcio a
Ponte Marconi. La partenza ne Il secondo tragico Fantozzi alla stazione Tiburtina.
D. – Il varo della turbonave a Civitavecchia, vero?
R. – Esatto. Per la fotografia dei due Fantozzi, Luciano mi chiese di farla tipo vignette del
Corriere dei Piccoli: tutto colore, tutto illuminato, senza effetti di luce. Proprio così mi disse, di farla
come le vignette del Corriere dei Piccoli.
D. – Nelle sequenze con i megadirettori mi sembra evidente l’uso del grandangolo.
R. – Certamente. Il grandangolo sempre, per ingrandire gli ambienti. E il diaframma molto
aperto per fare entrare più luce e distorcere gli ambienti, allungarli. Queste scene le girammo tutte
nei teatri di posa.
D. – Come riusciste a colorare il volto di Paolo Villaggio al pranzo della Serbelloni Mazzanti?
R. – Con un piccolo proiettore puntatk sul suo volto. L’operatore scaldava la resistenza ed il viso
di Villaggio cambiava colore.
D. – E la scena dello scontro di Fantozzi con il faraglione di Capri?
R. – Quella è un trucco. Anche allora c’erano i trucchi, non fatti con il computer, però...
D. – Anche la scena del parafulmine, allora è un trucco…
R. – Anche quella. Ed anche quella della nuvoletta dell’impiegato: una sovrapposizione di
pellicola. Comunque Villaggio per tutte le scene pericolose, quelle acrobatiche con i pugni in faccia,
le cadute, aveva una controfigura, che ancora adesso lavora per lui negli ultimi film. Gli assomiglia
in modo spaventoso.
D. – Sarà invecchiato con lui.
R. – No, credo che abbia almeno vent’anni di meno.
D. – E le pozze d’acqua del campo di calcio, dove i calciatori nuotavano, come furono fatte?
R. – Quella in cui Fantozzi cade venendo sommerso fino al collo era una buca preparata prima.
Le altre erano vere e proprie trincee scavate nella terra, rivestite con pannelli di legno. Erano come
le corsie di una piscina.
D. – Dopo i due Fantozzi, ecco, dopo molto tempo, Vieni avanti cretino.
R. –Lo sa che me l’ero dimenticato? Stavo preparando una filmografia ed ero convinto che
avessi girato quattordici film con Salce, eppure me ne ricordavo soltanto tredici…Era Vieni avanti
cretino.
D. – Sono contento di averla aiutata.
R. – Fu un film molto divertente. Una lavorazione piacevole, per i duetti tra Banfi e Franco
Bracardi, quello che suona al Maurizio Costanzo Show.
D. – Mi sembra che Banfi sia un attore un po’ esuberante, sul tipo di Buzzanca.
R. – No, affatto. Fu molto tranquillo, dava molto retta a Salce. D’altronde veniva dai film con la
Fenech, doveva rifarsi una verginità. Si fidava di Luciano.
D. – Quelli del casco fu l’ultimo film di Salce, diretto quando stava già male.
R. – E’ morto poco più di un anno dopo.
D. - Sindoni mi ha detto che non ha mai voluto vederlo, per non vedere come si era ridotto
Salce.
R. – Era cotto. Dopo mangiato, si addormentava. Giravamo le prime scene sempre senza di lui.
D. – Come mai, con la crisi del cinema di quegli anni e pur essendo stanco e malato, decise di
tornare a dirigere un film?
R. – Forse proprio perché era un periodo di crisi. E poi era malato, ma ancora molto lucido.
Aveva già avuto delle proposte precedentemente: dovevamo fare un film con Buricchi.
6
D. – In effetti Quelli del casco è comunque un buon film. Con qualche bella scena, come quella
iniziale nel convento.
R. – Sì, sì. Quella della cena notturna dei ragazzi al ristorante. La girammo alla Taverna
dell’Orso. Il resto quasi tutto nel liceo qui vicino di via Ripetta. C’era quella che sarebbe diventata
la moglie di Claudio Lippi, Luana Ravegnini. Era molto brava. Mi ricordo che quando girammo la
scena del bar in via Gallia, le feci tutta una serie di primi piani e ne rimasi impressionato. C’erano
anche delle corse in moto in quel film.
D. – Chi diresse la gara finale sulle moto? Non Salce.
R. – Furono girate dalla seconda unità. Dall’aiuto regista, sicuramente.
D. – Insieme a Salce giraste anche un film per la televisione americana, Gli innocenti vanno
all’estero.
R. – In America ancora lo danno, da noi non lo hanno mai dato, forse una volta sulla Rai. Fu un
film di una piacevolezza unica. Pieno di attori americani, di secondo piano, ma molto bravi.
D. – C’era anche Proietti.
R. – Proietti faceva la guida. Girammo il film viaggiando in mezzo mondo: Roma, Paestum,
Napoli, Pisa, Venezia, Parigi, Il Cairo, Atene. C’era un gruppo che girava tutte queste città e
dovunque andava la guida era Proietti, sempre lui, vestito in mille modi diversi.
D. – Un’idea molto carina. Di chi fu?
R. – Di Salce, naturalmente. Il film fu fatto dal produttore Scanni, ma anche con capitali
americani. C’era una certa larghezza di mezzi. La nave in parte la ricostruimmo, girando gli esterni
a Fiumicino. Mi sembra che abbiamo parlato di tutto.
D. – Anche a me. Ah, no, ci siamo dimenticati de Le monachine.
R. – Quello con la Spaak e la Perego, vestite da suore? C’era anche Umberto D’Orsi.
D. – Che ha lavorato molto con Salce, era il Catellani di Fantozzi. Da dove veniva? Era un attore
di teatro?
R. – No, non credo. Credo che l’avesse scoperto così, dal nulla. Era un attore molto carino.
Comunque il film è minore, un film molto minore.
D. – Doveva essere l’esordio alla regia di Castellano e Pipolo, che poi rifiutarono e lasciarono
Salce a dirigerlo.
R. – Credo che abbia ragione lei. Sì, sì, fu proprio così.
Corrispondenza con Ottavio Iemma
I. Caro amico,
non creda che io mi sia dimenticato di lei. Il tempo è stato in quest'ultimo mese particolarmente
ostile anche nei miei confronti, e temo permarrà in tale ostilità almeno per qualche giorno ancora,
forse una settimana o due. E le sue domande sono molte, e tutt'altro che goffe, e tutte
meriterebbero una risposta seria e meditata che non ho avuto finora la possibilità di elaborare. Ma
lo farò senz'altro e, spero, in tempo perché le possano essere di qualche utilità per il suo lavoro.
Quel che posso fare subito è inviarle il testo di un mio breve intervento sull'opuscolo che fu
pubblicato in occasione di una manifestazione celebrativa promossa nel settembre 1997 dal
Comune di Melfi (cittadina della Basilicata in cui Pasquale nacque, come lei certamente saprà).
Anche se in modo molto succinto queste righe contengono un principio di risposta ad alcune delle
sue domande.
Credo che se fosse ancora qui, anche Pasqualino la ringrazierebbe, come faccio io, per
l'attenzione che ha dedicato e vorrà ancora dedicare al nostro lavoro.
Un cordialissimo saluto,
Ottavio Iemma
Ed eccole di seguito l'intevento di cui le ho parlato:
Pasqualino...
7
Sono contento di avere qui un¹occasione per pagare un debito che ho con lui. È stato lui, Pasquale
Festa Campanile, a spalancarmi le porte del cinema “vero”, del cinema professionale, chiamandomi
nel 1968 a riscrivere la sceneggiatura del film che si accingeva a dirigere, La matriarca, con Jean
Louis Trintignant e Catherine Spaak. Fu un successo. E fu, per entrambi, una sorta di colpo di
fulmine. Eravamo tanto diversi, per carattere, per costume di vita, per abitudini, ma forse proprio
per questo, o anche per questo, stavamo bene insieme, cosicché, da quell’anno, e fino alla sua
scomparsa, ho scritto con lui nell’arco di circa sedici anni almeno una ventina di film; e questo,
malgrado le circostanze del lavoro, suo e mio, ci costringessero talvolta a quello che ci divertiva
chiamare un “temporaneo adulterio professionale”. Ricordo che gli piaceva applicare anche alla
nostra collaborazione una delle sue massime preferite: meglio un amore senza fedeltà, che una
fedeltà senza amore.
A chiunque l’abbia conosciuto anche superficialmente non può essere sfuggito il suo fascino
personale, la sua straordinaria simpatia e capacità di comunicare; ma io credo che sue qualità
peculiari fossero l¹intelligenza e una cultura non provinciale: del suo cinema si può dire quel che si
preferisce; può aver fatto, come tutti, film belli e meno belli, film giusti e sbagliati; ma quel che
certamente non ha mai fatto è un film stupido. Gli piaceva, anzi, a suo modo rischiare su formule
inconsuete per il cinema italiano di allora. Con La matriarca avevamo riaperto il filone di una
commedia non dialettale, una commedia borghese, sulle onde della sophisticated comedy
americana; con Quando le donne avevano la coda avevamo resuscitato ritmi e modi delle vecchie
farse del muto. Se ne accorse il pubblico, che decretò a entrambi questi film un cordiale successo,
ma non se ne accorse la critica che, del resto, a quei tempi era ancora “distratta” da un rigido
bigottismo ideologico, più attenta alle tessere di partito che ai film. Né Pasqualino, né io, avevamo
tessere di partito, ma questa “disattenzione” della critica rimase per lui fino all’ultimo un costante
motivo di amarezza. Credo che, anche su questo terreno, gli si debba, se pure tardiva, una
riparazione.
Lavorare con lui era divertente. Ora che ci penso, scopro che nel lungo arco di vita in cui ci siamo
frequentati e abbiamo lavorato insieme, non c’è mai stato tra noi un litigio, un malinteso, un
momento di freddezza, di “allontanamento”, e questo mi sembra francamente miracoloso. Forse,
se me lo raccontasse un altro, non ci crederei. Persino le nostre “arrabbiature di lavoro” (e Dio sa
quante mai furono le volte in cui non la pensavamo allo stesso modo su quel che c’era da fare!)
duravano il tempo di una sigaretta e finivano per sbollire “in allegria”, come gli piaceva che
finissero tutte le cose della vita. Vi sono espressioni commemorative così abusate da restare ormai
prive di ogni autentico significato e valore; ma in questo caso, nel caso dei miei rapporti umani e
professionali con Pasquale Festa Campanile, temo proprio di dovervi fare ricorso: la sua scomparsa
ha davvero lasciato nella mia esistenza di ogni giorno un posto vuoto che nessun altro ha potuto e,
credo, potrà mai occupare.
Ciao, Pasqualino.
Ti ricordo sempre con grande affetto.
Ottavio Iemma
8
II.
1. Quando e come è avvenuto il primo incontro con Pasquale Festa Campanile?
Siamo nella preistoria! Mi sembra di ricordare che ci abbia presentato un giovane produttore amico
di entrambi, Luciano Perugia. Parlo degli anni ¹50 (seconda metà); lui era già uno sceneggiatore
affermato; aveva pubblicato un libro di successo (La nonna Sabella) e collaborava saltuariamente a
La fiera letteraria. Io avevo avuto una breve esperienza di set (assistente di Luciano Emmer in
Ragazze di piazza di Spagna e in Eroi dell’Artide, poi assistente di Carlo Infascelli
nell’organizzazione generale di Canzoni di mezzo secolo); ma la crisi del cinema (una delle tante
periodiche!) mi aveva subito respinto nei ranghi di coloro che del cinema si limitano a scriverne:
diressi per alcuni anni un mensile (Cronache del cinema e della televisione); e curai per la TV il
primo settimanale dedicato ai problemi della donna (Penelope). Nell¹anno in cui feci parte della
commissione di selezione dei film per il festival veneziano (1960) contribuii alla scelta di Rocco e i
suoi fratelli, che Pasqualino, insieme con altri, aveva sceneggiato. Ma la ragione per cui ci
ritrovammo ( a dieci anni circa dal nostro primo incontro!) fu un’altra: credo che Pasqualino avesse
letto un mio soggetto e gli fosse piaciuto; quel film non si fece, ma quando ebbe bisogno di
riscrivere il copione de La matriarca Pasquale si ricordò di me.
2. Come avveniva la vostra collaborazione in sede di sceneggiatura? Di chi era l'idea dei
progetti? Dei produttori, di Festa Campanile, sua?
Pasquale possedeva un¹agendina tascabile divenuta negli anni famosa (copertina rovinata, pagine
sgualcite, macchiate, strappate) dove annotava puntigliosamente ogni spunto, ogni idea, ogni
suggerimento che gli capitasse di “incontrare” durante la sua attività (magari anche un romanzo
che gli sembrasse trasferibile). Quando ci si vedeva per scegliere un nuovo progetto, tirava fuori
l¹agendina e la sfogliava. Naturalmente non tutti i progetti venivano da lì; qualcuno nasceva da
quello che in gergo pubblicitario si chiama “brain storming”. Per esempio i soggetti di Con quale
amore, con quanto amore, Quando le donne persero la coda (infausto seguito di Quando
l’avevano!), Qua la mano (l’episodio del vetturino e del papa), Un povero ricco. Altri nascevano da
romanzi, suoi o altrui. Ma, in ogni caso, era sempre lui a proporre l’idea al produttore; mai il
contrario. Con una sola eccezione a me nota, Autostop rosso sangue. In questo caso i produttori
(Turchetto e Montanari) avevano acquistato i diritti di un giallo Mondadori (l¹autore, americano, mi
pare si chiamasse Frank Kane), e lo proposero a Pasquale. Quale sia stata la ragione per cui lui
accettò, sinceramente non lo so o non me lo ricordo. Le posso solo dire perché io accettai di
scrivere il copione: denaro. A volte capita di averne bisogno. Una ragione poco “poetica”? Beh,
conosco molti “poeti” di provincia, della mia generazione, che scesero a Roma per fare il cinema
godendo di una rendita familiare sufficiente a consentirgli di dire qualche “no” in più. Né Festa
Campanile,
né
io
godevamo
di
questo
privilegio.
La nostra collaborazione obbediva a “regole” molto semplici: si parlava del film più o meno a lungo
(personaggi, intreccio, taglio del racconto, etc.) Poi io scrivevo. Pur essendo perfettamente capace
di farlo, Pasquale non aveva più voglia di scrivere, o almeno di scrivere sceneggiature. Anche per
questa ragione “si fece” regista. Poi, sul copione scritto, si tornava a discutere sul dettaglio di
questa o quella scena, di questo o quel dialogo, e io riscrivevo, fin quando le “date definitive di
consegna”, i tempi della produzione, ce lo consentivano. Non erano mai date comode, perché sia
Pasquale che io lavoravamo molto. Ma anche perché le date dei film erano quasi sempre
determinate, come scadenze cambiarie, dalle disponibilità degli attori principali.
3. Quanto rispettava la sceneggiatura il regista, al momento di girare il film?
Si sforzava di farlo il più possibile. Il suo amore per la letteratura (certamente più grande del suo
amore per il cinema) generava in Pasquale un grande rispetto per la pagina scritta. Ma, nei tempi
in cui Pasquale ed io abbiamo lavorato insieme, c’erano una dozzina di attori (quelli più graditi al
mercato, i cosidetti “colonnelli”) che possedevano un enorme potere sul film che avevano accettato
di girare e ne disponevano ampiamente, soprattutto sul set, spesso con grande arroganza, non
sempre con grande intelligenza. Parlo soprattutto dei “comici”, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Villaggio,
Vitti, Pozzetto, Montesano. Molti di loro erano “malati” di “tentazione registica” (alcuni di loro ci
hanno anche provato con risultati, ahimé, non brillantissimi) e dunque, durante le riprese,
“mettevano bocca” senza troppi riguardi. Non so se lei sa che Manfredi costrinse persino un regista
di grande prestigio come Lattuada ad abbandonare il set a causa delle continue divergenze sulle
riprese del film (Nudo di donna, se non ricordo male). Su questo “fronte” Pasqualino non trovava
sempre la forza di resistere quanto sarebbe stato necessario. Mi sia permesso ricordare che l’unica
sceneggiatura diretta da Pasquale, da cui mi sentii costretto a ritirare la firma fu Un povero ricco;
9
ma le prevaricazioni di Pozzetto durante le riprese erano state tante e tali che, quando vidi la copia
campione del film, non riconobbi assolutamente il copione. Credo di aver dato a Pasqualino, in
quella occasione, un piccolo dispiacere. Devo aggiungere che non sono mai più stato invitato, da
allora a scrivere un film interpretato da Pozzetto?
4. A quale aspetto nella stesura dei copioni si interessava di più Festa Campanile? Alla
scansione dell'intreccio, alla definizione psicologica dei personaggi, all'invenzione dei
momenti comici?
Tutti e tre gli aspetti lo interessavano, con prevalenza dell’uno o dell’altro in relazione al film di cui
si trattava. Per esempio, in Quando le donne avevano la coda, intreccio e invenzioni comiche
avevano la priorità. In La ragazza di Trieste non c’erano momenti comici ed era fondamentale il
lavoro sulla psicologia dei personaggi.
5. E' vero che il regista si disinteressava dell'edizione dei suoi film?
E’ falso. Almeno per quanto riguarda i film che io ho scritto. Tra i registi con cui ho lavorato è stato
quello che mi ha fatto trascorrere più ore con lui in moviola, o in saletta doppiaggio, o in sala
missaggio. Posso dire che aveva certamente una “minore” sensibilità musicale; ma si affidava
sempre a musicisti di primissimo piano.
6. Ha mai presenziato sui set del regista? Se sì, qual era l'aspetto della regia che curava
di più? Il taglio delle inquadrature, l'aspetto scenografico, il movimento e la recitazione
degli
attori?
Ci sono stato qualche volta. Ma devo dirle che Pasqualino, come tutti i registi intelligenti, si
guardava bene dal “mitizzare” e “mistificare” il suo ruolo. Non l’ho mai visto recitare una
“tormentata ricerca dell’inquadratura”. Si preoccupava che i luoghi fossero giusti, le scenografie e i
costumi ben curati, che il racconto fosse chiaro e che gli attori dicessero le battute senza sbagliare i
toni. Dopodiché si preoccupava molto di essere in regola con la tabella di marcia produttiva.
Pasquale ci teneva molto a “non sgarrare”. Spesso faceva con i produttori delle scommesse sui
tempi di lavorazione che a me sembravano semplicemente suicide. E le vinceva. Quando gli
suggerii, una volta, di prendersi qualche giornata in più, magari per girare una volta di più un
“ciack” venuto così così, mi rispose con grande saggezza: “ A’ Ottà, se mi danno sei mesi invece di
sei settimane, io sempre lo stesso film faccio.”
Aveva ragione. Ognuno ha il suo orologino interno. E se Chaplin ripeteva a volte un ciack più di un
centinaio di volte e impiegò più di tre anni a realizzare Luci della città, Welles fece il suo Macbeth in
ventun giorni. E se a a Balzac strappavano le pagine appena finite dalle mani, Flaubert riscriveva le
sue cinque, dieci volte. Il lavoro creativo non può essere regolato da un orario ferroviario. E, infine,
caro Lupo solitario mi creda: il set è un luogo noiosissimo e, come diceva Bergman, quanto di
meno propizio si possa immaginare all¹ispirazione!
7. Quanto è cambiata La matriarca dal copione di Niccolò Ferrari? Quali problemi avete
avuto con la censura?
Del
copione
di
Ferrari
è
rimasto
soltanto
lo
spunto
che
avvia
la
storia:
una piacente vedova scopre che il marito, da vivo, la tradiva ripetutamente, e decide di prendersi
una vendetta postuma, rendendogli pan per focaccia alla memoria. Il resto è tutto cambiato,
episodi, situazioni, personaggi, dialoghi. Ci divertimmo molto a piluccare qua e là, tra le pagine del
Kraft-Ebing
Bisognò concedere alcuni metri alla censura. Ma soprattutto bisognò concedere alcune “proposte”
all’autocensura che, a quei tempi, produttori e distributori prudenzialmente praticavano. Si tratta di
trent’anni fa!
8. Qual è stato l'apporto di Umberto Eco in Quando le donne avevano la coda?
Non lo abbiamo mai incontrato. Non in quell’occasione, almeno. Aveva scritto un soggetto
(acquistato, credo di ricordare, da Luciano Perugia e finito poi nelle mani di Silvio Clementelli, lo
stesso produttore de La matriarca, con cui facemmo il film). Me lo ricordo molto poco e non ce l¹ho
più in archivio, se no glie lo avrei inviato volentieri. C’era la preistoria, c’era un conflitto fra due
tribù, c’era mi pare una storia d’amore... L¹invenzione dei sette cavernicoli che non hanno mai
visto una donna e per sbaglio ne catturano una in una trappola per animali è tutta nostra (vorrei
dire di Pasqualino e mia, ma non oso visto il numero incredibile di nomi che affollano i titoli di
10
testa!). Comunque Eco non c¹entra in nulla con il film e penso che, dal suo punto di vista, abbia
fatto bene a non firmarlo. Dal mio non posso fare a meno di pensare che se tra i firmatari ci fosse
stato anche lui, certa critica avrebbe “letto” il film con più attenzione e non l’avrebbe trattato con
tanta superficiale spocchia.
9. Come mai il personaggio di Vittorio Gassman in Dove vai tutta nuda? sembra essere
messo a forza nella storia? E' stato aggiunto in seguito?
Ha indovinato. Mancavano pochi giorni all¹inizio delle riprese; Festa Campanile e Mario Cecchi Gori
erano insoddisfatti della sceneggiatura (non mi ricordo assolutamente chi l’avesse scritta); l¹idea
della svampita disinibita che gira nuda per casa era di Pasquale (pensata su misura per Maria
Grazia Buccella), ma nel copione non c’era molto di più; mi chiesero di irrobustirlo ed io non trovai
di meglio che ispirarmi ad un film che amo moltissimo (era tra quelli che scegliemmo per la mostra
di Venezia 1960, e secondo me, al di là di tutte le polemiche che accompagnarono quel festival, era
quello che avrebbe veramente meritato il Leone d’oro). Parlo de L’appartamento di Wilder. Scrivevo
mentre già si girava, ma per dare più forza al film venne a Cecchi Gori l¹idea di chiedere una
partecipazione a Gassman. Io ero impegnato a ricostruire la struttura della commedia, per cui il
“cameo” di Gassman venne inventato e scritto da Sandro Continenza, che con Gassman aveva già
lavorato e ne godeva la fiducia.
10. Lei ha ridotto per lo schermo, per Festa Campanile, molte opere letterarie. Chi
sceglieva i testi da cui poi trarre i film?
Se nelle opere letterarie include anche i romanzi dello stesso Festa Campanile, allora – è vero –
sono parecchie (nove, se non sbaglio, se si contano anche le mie sceneggiature de Il peccato e
Solo per amore che non sono diventate film). Se le esclude, però, rimangono solo La calandria,
Autostop rosso sangue, Il corpo della ragassa e Più bello di così si muore. Per quel che riguarda
Autostop le ho già risposto. Per il romanzo di Brera la rimando alla risposta n° 12 e per La
calandria alla risposta successiva. Quanto a Più bello…, il comune amico Antonio Amurri (umorista
prolifico e, secondo me, di notevole bravura) ci segnalava puntualmente l’uscita di ogni suo
romanzo; molti dei suoi libri sono diventati dei film; ma Più bello… sembrava sia a Pasquale che a
me uno dei suoi più “robusti” per invenzioni e intreccio. Il romanzo non me lo ricordo benissimo
(sono trascorsi vent’anni da quando lo lessi!), ma credo che la sceneggiatura abbia accentuato i
sapori amari della storia conferendole – chiedo scusa per la presunzione – un po’ di spessore in più.
Confesso che sono abbastanza affezionato a questo film che la critica ha (come sempre nel caso di
P.F.C.) trattato con molta sufficienza. E trovo che Montesano e Caprioli furono in alcune scene
straordinari.
11. Qual è stato il suo metodo di lavoro per La calandria? Di chi è stata l'idea di
modificare così la commedia rispetto all'originale?
Come accadde poi anche nel caso del romanzo di Brera, fui chiamato ad occuparmi della
sceneggiatura di questo film quando già esisteva una riduzione (un treatment) della commedia. Le
scelte fondamentali erano state già fatte e, credo, in buona misura determinate dalla destinazione
del ruolo principale a Lando Buzzanca e dalla necessità di modellargli addosso un personaggio che
fosse nelle sue corde (oltre che nella linea del rapporto di gradimento (reale o supposto) che si era
stabilito tra il pubblico e l’attore. Personalmente ritengo che Buzzanca fosse già allora un attore di
grande talento non soltanto comico; proprio Pasqualino ed io lo avevamo portato al successo
cinematografico con Quando le donne avevano la coda, che fu uno straordinario risultato di
pubblico, e con Il merlo maschio (ebbe anch’esso ottimi esiti commerciali, ma – all’estero, in
Francia soprattutto – anche di critica). Per questo, credo, Buzzanca mi onorò della sua stima ed
amicizia e mi chiese di collaborare ad altri suoi film non diretti da Pasquale. Io ci provai. Accettai di
scrivere Il prete sposato, prodotto e diretto da Marco Vicario; realizzai una stesura del copione, ma
sopravvennero “divergenze” (con Vicario) che mi indussero a non firmare il film. Per Jus primae
noctis, ultimo film con Buzzanca diretto da Pasqualino, scrissi soltanto un lungo treatment in un
latino “volgare” (naturalmente tutto inventato) di cui non restò nel film quasi più traccia. Ci provai
ancora con All’onorevole piacciono le donne. Ma questa è un’altra lunga storia e non riguarda Festa
Campanile, ma Lucio Fulci (regista – anche lui – ingiustamente maltrattato in vita dalla critica).
Purtroppo, in seguito, Buzzanca non seppe resistere alla tentazione di sfruttare alla svelta il
successo accettando, senza discriminare, ogni genere di proposte, facendo fino a sei-sette film
11
all’anno, e dissipando in poco tempo il patrimonio di simpatia di quello stesso pubblico che aveva
cercato “a tutti i costi” di compiacere.
12. Nel passaggio dalla pagina allo schermo, Il corpo della ragassa ha acquistato un tono
più sarcastico e cinico rispetto a quello più evocativo del romanzo. Come è nata la scelta
di ridurre il numero dei personaggi e di concentrare l'attenzione soprattutto su quelli di
Teresa e del professore? E' stato solo per motivi di opportunità o la scelta di raccontare
un'iniziazione erotica?
Quanto al Corpo della ragassa, fu per me addirittura un’operazione di “pronto soccorso”. Il film era
stato interrotto dopo la prima settimana di lavorazione perché ci si era accorti (ritengo in seguito
ad una forte “pressione” di Enrico Maria Salerno) che la sceneggiatura aveva urgente bisogno
interventi. Feci quello che mi fu possibile nei pochi giorni che mi furono concessi, senza stravolgere
(e nemmeno analizzare) le scelte e la struttura preesistenti. O il film sarebbe semplicemente
“saltato”. Il sarcasmo e il cinismo sono sentimenti che senza dubbio mi appartengono e ne lascio il
segno più o meno in tutto quel che scrivo. Credo si possa trovarne traccia – lei se ne sarà
certamente accorto – anche nel tono di queste mie risposte.
13. Lei ha sceneggiato i film che Festa Campanile ha tratto dai propri romanzi. Come mai,
almeno ufficialmente, il regista non ha partecipato alle sceneggiature? Le offriva,
comunque, indicazioni? Avete avuto differenti opinioni sulla stesura dei copioni?
Sono soprattutto i registi mediocri che avvertono l’urgenza di nascondere, a se stessi prima ancora
che agli altri, la propria “pochezza” usando il potere che hanno per pretendere il proprio nome
ripetuto nei titoli almeno tre o quattro volte, e vederlo campeggiare su manifesti e flani giornalistici
a caratteri di scatola. Ne conosco parecchi che esigono contrattualmente di firmare soggetti e
sceneggiature di cui non hanno scritto né ideato neppure una virgola. Festa Campanile non ha mai
avuto l’arroganza (o la frustrazione!) di smaniare per apparire come sceneggiatore quando non ne
aveva ragione. A volte ci ha rinunciato in casi nei quali avrebbe avuto il diritto di chiederlo.
Naturalmente, anche quando lavoravo su un suo romanzo, la stesura della sceneggiatura era
preceduta come sempre da riunioni in cui Pasquale discuteva le mie proposte, dava indicazioni e
suggerimenti, esprimeva desideri e richieste. Differenti opinioni? Qualche volta, certamente. Per
esempio sul finale di La ragazza di Trieste.
14. Cosa mi può dire di Gegè Bellavita, film che non ho mai visto?
Una “storia grottesca” nella quale Pasquale credeva molto; io un po’ meno; il produttore (Goffredo
Lombardo) per niente. Venne fuori una sorta di puntigliosa scommessa, o sfida, tra Pasquale che
voleva fare a tutti costi il film e Goffredo che glie lo voleva impedire. I due erano molto amici e da
moltissimo tempo; teste durissime entrambi; assistere alle loro clamorose litigate era uno
spettacolo divertente. Ma il film ne soffrì molto. Pasquale lo fece, ma Goffredo gli dette pochissimi
soldi: fu girato in 16 mm. E il cast – pur di attori assai bravi – non aveva alcuna “chiamata”. Io e
Riz Ortolani scrivemmo per il film persino una canzone, ma non ci siamo arricchiti con i diritti! Il
film fu disertato dal pubblico. Io stesso, quando andai a vederlo in sala, scappai dopo un quarto
d’ora, furioso per l’orribile qualità della copia, risultato di un pessimo “trasporto” dal “16mm” al
“35mm”. Malgrado la sua intelligenza, Pasqualino aveva talvolta la debolezza di sottovalutare gli
ostacoli.
15. Alla luce degli ultimi film (Il ladrone, Qua la mano, Più bello di così si muore) e degli
ultimi romanzi, mi sembra che, con effetto retroattivo, si possa trovare nel regista una
linea di coerenza molto forte: il gusto di raccontare storie di personaggi comuni che si
trovano davanti aspetti abnormi della realtà quotidiana. E' d'accordo con questa
interpretazione? Festa Campanile aveva veramente questa intenzione, nel raccontare le
sue storie?
Con Pasqualino non abbiamo mai parlato delle sue, o delle nostre, intenzioni. Raccontare storie
divertenti, o commoventi, questo era, credo, l’inespresso scopo del nostro lavoro, e anche il nostro
piacere nel farlo. Scoprire le linee psicologiche, o ideologiche, o stilistiche, o quant’altro, è o
12
dovrebbe essere compito del critico. L’interpretazione che ne dà lei è possibile, forse probabile.
Personalmente sono convinto, come lei, che vi sia, in tutta la storia di Festa Campanile–autore, una
riconoscibile coerenza, derivata certamente dalla sua indiscutibile personalità. Se mi è consentito
dal nostro lungo e felice sodalizio di muovergli un timido rimprovero – lo feci del resto più volte
direttamente con lui quando era vivo – ebbene, è quello di non aver forse creduto in se stesso
quanto avrebbe dovuto e potuto, e di avere avuto sempre “troppa fretta”. Ma Pasquale è morto a
59 anni, un’età che mi sembra terribilmente giovane. Questo può, forse, aiutare a comprendere e a
spiegare quella fretta?
16. Può raccontarmi qualche aneddoto sui vostri rapporti nel lavoro?
Non so se sia un aneddoto, ma mi viene in mente la strana avventura di un film come La ragazza
di Trieste. Ufficialmente risulta “ricavato dall’omonimo romanzo”. In realtà non andò così. Pasquale
amava moltissimo (del resto come me) Scott Fitzgerald e sognava di raccontare in un film una
storia che richiamasse la tragica vicenda dello scrittore con sua moglie Zelda. Buttammo giù l’idea
e ne parlammo con Giorgio Venturini (il produttore de La Calandria) A Venturini piacque, ma non
era un produttore che potesse mandare avanti più progetti contemporaneamente; in poche parole,
non era in grado di finanziare la sceneggiatura; allora Pasquale mi propose, ed io accettai, di
scriverla comunque, a nostro rischio. Anche la sceneggiatura piacque molto a Venturini (era un
sentimentale e ci aveva persino pianto sopra, ci disse!); ma la sua salute andava declinando ed
erano intervenute difficoltà di ordine finanziario che gli rendevano difficile, se non impossibile,
affrontare la produzione del film. Erano, purtroppo per noi, tempi nei quali una storia di quel
genere non trovava facile ascolto tra i produttori italiani. Il copione dormì nel cassetto per diversi
anni. Nel frattempo Pasquale aveva ricominciato a pubblicare romanzi i cui diritti di riduzione
cinematografica venivano puntualmente acquistati da questo o quel produttore. A Pasquale venne
in mente che poteva essere quella la strada giusta per “riesumare” La ragazza di Trieste e mi
chiese se poteva usare la nostra sceneggiatura per scrivere un racconto. Naturalmente risposi che
poteva fare quel che voleva. Il libro uscì e i diritti furono immediatamente comprati da Achille
Manzotti. Ricordo che Achille – innamorato della storia e forse sospettoso che potessimo venderla
ad un altro per una manciata di milioni in più – firmò il suo impegno d’acquisto al tavolo di una
trattoria della vecchia Roma, sui risvolti di una busta usata perché non avevamo altra carta…
17. Che ricordo ha della collaborazione con Luciano Salce per La presidentessa?
Luciano Salce, un uomo civile, intelligente e spiritosissimo come ne ho conosciuto pochi. Aveva
anche lui, come Pasqualino, il dono “divino” dell’ironia (“divino” diventa quando si ha l’eleganza di
praticarla innanzitutto su se stessi). L’operazione nacque su proposta di Mario Cecchi Gori (il Cecchi
Gori “serio”, per intenderci). Doveva interpretarlo Laura Antonelli, ma la brava ragazza, stordita
dagli incontri con Visconti e Patroni Griffi, s’era messa in testa di essere la nuova Duse. La Melato
fu un ripiego. Più brava certamente, un’attrice sul serio, ma di scarsa chiamata. La tentazione che
venne, a Salce e a me, lavorando sulla commedia di Hennequin e Veber, fu di forzarne il contenuto
satirico nella direzione di una parabola allegorica in cui, per fare un esempio, la Giustizia romana
“funzionava” in un Palazzo fatiscente che letteralmente crollava a pezzi sulle teste dei personaggi
senza che loro dessero il minimo sentore di accorgersene o darvi peso. O l’alluvione che quasi
travolge la casa del piccolo magistrato veneto mentre nel suo interno – tra il completo disinteresse
per la catastrofe ambientale – si svolge l’assalto posciadesco alla virtù del ministro in visita per
coinvolgerlo in una tresca di letti, corna e beghe di carriera. Queste intenzioni si scontrarono
purtroppo con i limiti del budget e ne rimasero nel film solo impercettibili tracce. Ma il mio incontro
con Salce fu piacevolissimo e rimpiango che non si sia verificata un’altra occasione per lavorare
insieme. Se il film avesse avuto un miglior risultato al botteghino, forse…
18. Come furono i suoi rapporti con Steno?
I miei rapporti personali con Steno erano ottimi. Quelli professionali sono stati, invece, rari e non
fortunati. Ricordo che Quando la coppia scoppia mi fornì l'occasione di scrivere una delle due
"lettere al produttore" da me spedite in tutta la mia non breve carriera... Era, si capisce, una
lettera di risentita protesta per il modo in cui si era svolto il lavoro di sceneggiatura. La scrissi dopo
aver letto, a quarantottore dall'inizio delle riprese, una versione del copione in cui, a mia insaputa,
il protagonista del film e un giovanotto milanese dalle multiformi quanto velleitarie vocazioni
13
avevano messo le mani. Il risultato di quegli interventi era tale da autorizzare la facile previsione di
un solenne fiasco anche sul piano commerciale. Che, infatti, puntualmente si verificò. Fu solo il mio
personale rapporto con Steno che mi trattenne in quel caso dal ritirare la firma della sceneggiatura.
Steno era un uomo intelligentissimo, simpatico, spiritoso e fornito di grande ironia, ma aveva il
difetto di essere patologicamente preda del dubbio. Nel corso dell'altra occasione che ebbi di
lavorare con lui (una serie di polizieschi interpretata per la TV da Bud Spencer) arrivò a farmi
scrivere l'intera sceneggiatura di due soggetti della serie prima di decidere che non voleva
realizzare quegli episodi. Ma, come dice Joe Brown in A qualcuno piace caldo: "Nessuno è perfetto!"
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APPENDICE SECONDA
IL LIETO FINE (Atto I, scena 4)
LA CLINICA
(Da una parte, un letto di ospedale, in penombra. Dall’altra, il corridoio della clinica. Sul letto,
una figura distesa, lo scrittore Malinverni. Vicino a lui, chiacchierando familiarmente, Quadroni, con
basco e occhiali, attivista di un partito confessionale)
QUADRONI – Noi ci evolviamo, caro Malinverni. Oggi i preti sono campioni di atletica e le suore
guidano i camion.
MALINVERNI – Ed è meglio ?
QUADRONI – Viviamo nel nostro tempo. Preveniamo i peccati, invece di assolverli, e basta.
MALINVERNI – Volete convertirmi?
QUADRONI – Nel suo caso c’è qualcosa di più importante, di più urgente della confessione…
MALINVERNI – E sarebbe?
QUADRONI – La sconfessione.
MALINVERNI – Sconfessione ?
QUADRONI – Sconfessare le idee, questo conta. Tutte quelle brutte idee, seminate qua e là nei
suoi libri, tra una battuta e un aneddoto…via, facciamo un bel falò…sconfessiamo!…
MALINVERNI – Ma allora, perché ho vissuto? Per rifiutare, alla fine, la mia vita?
QUADRONI – Si ricordi che la morte è solo del corpo.
MALINVERNI – E ‘ proprio per lui che mi dispiace.
QUADRONI – Però, “non omnis moriar”, qualcosa volerà fuori da questa spoglia mortale…Dove
volerà?
MALINVERNI – Non saprei.
QUADRONI – In alto o in basso? Questo è il punto…Vogliamo farla volare in alto ?
MALINVERNI (rassegnato) – Facciamola volare in alto.
QUADRONI – E allora su, una bella dichiarazione finale, una passata di spugna, un bell’articolo…
MALINVERNI (amaro) – Un articulo mortis…
QUADRONI – Ho preparato un abbozzo, vado a prenderlo: una firmetta e vedrà come si sentirà
leggero, pronto a volare…
MALINVERNI (esasperato) – Oh, all’inferno…
QUADRONI (correndo via) – No, in paradiso, in paradiso…(esce dalla “stanza” e nel corridoio
incontra Cassoni, attivista di un partito laico, fisicamente non dissimile da Quadroni)
CASSONI – Cosa fa lei qua?
QUADRONI – E lei? Io compio il mio dovere.
CASSONI – Quale? Ne avete tanti, ormai.
QUADRONI – “Curare gli infermi”, si rilegga il catechismo, le farà bene.
CASSONI – Guardi che Malinverni è dei nostri…Da tempo meditava una risoluzione…
QUADRONI – Sì! Finito il tempo delle rivoluzioni, vi consolate con le risoluzioni…
CASSONI – Del resto, il suo recente viaggio in Cina…
QUADRONI – Organizzato da voi, e, cosa che ha il suo peso, gratuito. E i suoi viaggi a Roma,
allora?
CASSONI – Che viaggi? Malinverni abita a Roma.
QUADRONI – Appunto. Una prova di più del suo bisogno di vivere all’ombra della grande cupola,
del grande colonnato che con le sue braccia amorose cinge…
CASSONI – Semplicemente, ha la casa a Roma, e col fitto bloccato.
QUADRONI – Poteva vivere a Parigi, come tutti gli scrittori pornografici. No, ha referito restare
qui. Cosa conta un viaggio in Cina, se la sua vita è tutta romana, e quindi, non ho bisogno di
ricordartelo, cattolica e apostolica?
CASSONI – Inutile discutere con lei. Parleranno i fatti.
QUADRONI – Appunto. E i fatti sono che Malinverni sta per firmare una protesta di fede. Anzi,
vado a prenderla. (si affaccia alla porta della stanza di Malinverni e gli grida) Malinverni, attento a
Cassoni! Non ceda…Io torno subito… (Esce rapidamente. Cassoni entra nella stanza e si accosta al
letto dello scrittore).
CASSONI (All’indirizzo di Don Quadroni) – Corvi! Avvoltoi! (siede accanto al letto)
MALINVERNI – Anche voi volete una dichiarazione?
CASSONI – Noi no. Che ne faremmo? Tu non ci servi. Non ti abbiamo mai cercato.
MALINVERNI – E’ vero. Anzi, vi ringrazio…
CASSONI – Sei tu, semmai, a cercare noi. A venirci incontro. Sei vissuto distrattamente. Non
vuoi che la tua morte serva a qualcosa.
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MALINVERNI – Preferirei servire vivendo.
CASSONI – Non vuoi parlare con me? Devi avere qualcosa che ti pesa… (con dolcezza) Non vuoi
sfogarti?
MALINVERNI (con una specie di calma disperazione) – Oh, tempi oscuri sono i nostri, in cui i
preti fanno politica, i politici vanno a messa e i mangiapreti si fanno agnelli!…
CASSONI – Su, prova…(atteggiamento da confessore) Da quanto tempo non hai letto Marx?
MALINVERNI – Non lo so…da anni…
CASSONI – Quanti? Cinque? Dieci?
MALINVERNI – Diciamo dieci.
CASSONI – Ti ricordi qualcosa?
MALINVERNI – Poco.
CASSONI – Ma ti dispiace di averlo trascurato, vero? Volevi leggerlo, ma poi le occupazioni, i…
MALINVERNI – I viaggi…
CASSONI – Sei stato in America?
MALINVERNI – Sì.
CASSONI – Male! Quante volte? Una o più?
MALINVERNI – Una volta.
CASSONI – Una sola? Attento!
MALINVERNI – Una, una…
CASSONI – Va bene…può bastare…appena possibile, leggerai venti lettere di Lenin a Clara
Zetkin.
MALINVERNI – Ora basta, sono stanco.
CASSONI – Basta, certo…C’è un solo guaio: Quadroni.
MALINVERNI – Perché?
CASSONI – Andrà proclamando la tua conversione. Da domani entrerai nel martirologio.
L’oscurantismo continua.
MALINVERNI – E che posso fare?
CASSONI – Puoi darci una risoluzione.
MALINVERNI – Cioè? Un’altra dichiarazione?
CASSONI – No, una risoluzione…E’ molto diverso…è spontanea…te la preparo io in un
attimo…Torni dalla Cina, sei entusiasta. Hai visto un grande popolo che rinasce. Cinquecento
milioni di esseri che pensano come un essere solo. Dicono che sono scalzi? Tu gli dici che hanno le
scarpe, e anche la bicicletta. Hai visto i capostazioni con la benda profilattica, come i chirurghi.
Allora, è caduta la tua benda, dagli occhi…hai capito tutto…non è mai tardi per capire…la nostra
misericordia è infinita…torno subito…Aspettami, eh! (Esce rapidamente. Nel “corridoio” si imbatte
con Rosita, Ornella, Gianni Berti e Milziade con la sacca da fotografo)
GIANNI – Come sta?
CASSONI – Eh…così così…(e andandosene) Non affaticatelo, mi raccomando! (esce)
GIANNI – Aspettate qui. (Fa per entare)
ROSITA (sospettosa) – Perché?
GIANNI – Per prepararlo.
ROSITA – Non ce n’è bisogno (si avvia decisa, ma Gianni la trattiene per un braccio)
GIANNI – Lei…mi giura che lui… (indica Malinverni)…conosceva suo marito?
ROSITA – Conoscerlo? Le ripeto che erano fratelli. Sempre insieme, sul Sabotino. Poi, tutti e
due legionari fiumani…Le ho detto le ultime parole di mio marito sul letto di morte? “Malinverni, fai
tornare Fiume all’Italia”! disse, e morì.
GIANNI (poco convinto) – Andiamo. (entrano e circondano il letto) Malinverni? Sono Berti, del
Carlino. Come sta?
MALINVERNI – Chi è questa gente?
ROSITA – Caiboni. La medaglia d’argento Caiboni.
MALINVERNI – Dov’è?
ROSITA – E’ morto. Io sono la vedova. Non ricorda? Eravate sul Sabotino, in trincea, sempre
assieme…(silenzio di Malinverni. Rosita agli altri) Ma già, in questi momenti…la memoria vacilla, è
umano.
MALINVERNI – La mia memoria è eccellente. Ma Caiboni non l’ho mai conosciuto.
ROSITA – Allora forse…sull’Isonzo…
GIANNI – Andiamo via! (Improvvisamente Rosita fa un segnale a Ornella che si getta sul letto e
abbraccia lo scrittore con espressione angosciata, piangendo, ma avendo cura di rivolgere la faccia
a Milziade, che prontamente tira fuori la macchina e scatta due flash. Malinverni si agita
esasperato)
MALINVERNI – Via,via! Cosa volete? Infermiera!
GIANNI (con forza, spingendo tutti per le spalle) – Fuori, basta! Fuori! (Escono nel corridoio)
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ROSITA (a Milziade) – Le ha fatte?
MILZIADE – Due.
GIANNI – Mi fate schifo.
ROSITA (allontanandosi con Milziade) – Per un po’ di pubblicità!…Esagerato!…
ORNELLA (si ferma, torna indietro) – Senta…Anche a me dispiace…Quel poveretto…
GIANNI – E allora perché l’ha fatto?
ORNELLA – E’ stata la mamma che…
GIANNI – La mamma! Le mamme si ubbidiscono finché si hanno sette anni. Poi viene l’età della
ragione – o dovrebbe venire – e si fa da sé. (Se ne va bruscamente. Ornella lo segue. Riappaiono,
insieme, Quadroni e Cassoni. Vanno a spiare Malinverni, che è disteso e non dà segni di vita)
QUADRONI – E ‘andato! Sarà stata lei, con le sue chiacchiere ad affrettare la fine.
CASSONI – Ma no, respira ancora. Malinverni? (Malinverni rantola) Afasia. Non parlerà più. (Si
guardano, ciascuno col proprio foglietto in mano, pronto per la firma)
QUADRONI – Cassoni?
CASSONI – Quadroni?
QUADRONI – Questa morte…speriamo lontana, ma…“estote parati”…ci impone un certo rispetto,
dei doveri, ma anche…
CASSONI – Dei vantaggi…
QUADRONI – Non per noi, noi siamo servi…
CASSONI – Esecutori.
QUADRONI – Ma siccome la Provvidenza ha permesso a noi soli di cogliere dalla sua viva voce…
CASSONI - …le sue ultime volontà…
QUADRONI - …vogliamo diffondere una lieta novella, diciamo così, a quattro mani?
CASSONI – Salvando certi punti fermi, io non sarei contrario…
QUADRONI – Allora, se le va bene, le ultime parole di Malinverni, saranno anche state di plauso,
di lode al progresso cinese…
CASSONI (cauto e dolce) - …al progressismo…
QUADRONI (cautissimo e dolcissimo) -…progresso suona meglio…
CASSONI – E intanto avrà creduto bene…
QUADRONI – Avrà sentito l’ultima esigenza…
CASSONI - …di riaccostarsi alla chiesa…
QUADRONI - …di rientrare in seno…
CASSONI - …di riavvicinarsi al seno…
QUADRONI - …o al grembo…
CASSONI - …della Chiesa.
QUADRONI - …della Madre chiesa. (Si stringono mutamente e lungamente la mano, mentre si
odono i lamenti di Malinverni e si fa rapidamente
BUIO
3
FILMOGRAFIA
STENO
Regie
1949
AL DIAVOLO LA CELEBRITA’ (t.i. A night of fame)
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Steno, M.Monicelli; scen. Geo Tapparelli, Dino Hobbes
Cecchini, M.Monicelli, Steno, Ernesto Calindri; dir.fot. Leonida Barboni e Tonino Delli Colli; mus.
Carlo Franchi e Mario Funaro, dir.da Giuseppe Morelli (il duetto dal Mefistofele è cantato da Pia
Tassinari e Tagliavini; la canzone «Dolce sera» è di M.Funaro); mo.Renzo Lucidi; scg. Piero
Filippone; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Ferruccio De Martino; fo. Mauro Zambuto; tr. Guglielmo Bonotti;
par. Mara Rocchetti; interpreti: Marcel Cerdan (Maurice Cardan, il pugile), Ferruccio Tagliavini (il
tenore Marini), Mischa Auer (H.E. Stark), Marilyn Bufferd (Hellen Rorin), Carlo Campanini (Emilio
Pogliazzi), Leonardo Cortese (prof. Franco Bresci), Albert Latcha (manager De Marini), Folco Lulli
(Ramirez), Gianni Rizzo (Max), Franca Marzi (Flora), Bill [William C.] Tubbs (Antonio), Aldo Silvani
(il diavolo), Alba Arnova (sorella di Elena), Leo Lenoir (l’allenatore), Luigi Pavese (delegato
sovietico), Agnese Dubbini (Adriana), Cesare Polacco (delegato israeliano), Marcella Govoni
(Margherita), Giuseppe Pierozzi (il principe Khalashivari), Amedeo Deyana (Manuel), Ettore
Bevilacqua (Pedro), Enrico Luzi, Giovanni Petti, Marcello Barlocco (un generale), Gino Scotti, Nino
Cavalieri, Luigi A.Garrone, il pugile Jannilli. Produzione: Maleno Malenotti per Produttori Associati,
Scalera Film; durata: 91’; incasso: £ 170.000.000
TOTO’ CERCA CASA
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Vittorio Metz, M.Monicelli, Steno dalla commedia Il custode di
M.Moscariello; scen. Age [Agenore Incrocci], M.Monicelli, Furio Scarpelli, Steno; dir.fot. Giuseppe
Caracciolo; mus.Carlo Rustichelli; mo. Otello Colangeli; scg. Carlo Egidi; co. Anna Maria Fea; d.pr.
Clemente Fracassi: a.re. Rudy Bauer; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Kurt Doubrawsky; tr. Giuseppe
Annunziata interpreti: Totò (Beniamino Lomacchio, avventizio anagrafico), Alda Mangini (sua
moglie Amalia), Lia Molfesi [Lia Amanda] (la figlia Aida), Mario Gattari (il figlio Otello), Aroldo Tieri
(Checchino, fidanzato di Aida), Giacomo Furia (Pasquale Saluto, il signore apprensivo), Luigi
Pavese (il capufficio), Enzo Biliotti (il sindaco), Cesare Polacco (il vice custode del cimitero), Alfredo
Ragusa (il bidello), Marisa Merlini (la patronessa), Folco Lulli (il turco), Flavio Forin (il vedovone),
Liana Del Balzo (la contessa), Mario De Vico (il cinese), Mario Riva (il proprietario dell’agenzia),
Mario Castellani (l’imbroglione), Lilo Weibel (la turca), Mario Molfesi, Gino Scotti, Nino Marchetti,
Luigi A.Garrone, Eugenio Galadini, Attilio Torelli, Claudio Melini, Ina La Jana. Produzione: Carlo
Ponti per A.T.A. (Artisti Tecnici Associati); durata: 76’; incasso: £ 515.300.000 (secondo migliore
incasso in assoluto della stagione 1949/50 dopo Catene di Raffaello Matarazzo).
VITA DA CANI
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. M.Monicelli, Stefano Vanzina [Steno]; scen. Sergio Amidei,
Aldo Fabrizi, Ruggero Maccari, Nino Novarese, M.Monicelli, Steno, Fulvio Palmieri; dir.fot. Mario
Bava; mus. Nino Rota (Canzoni di Fabrizi, Ravasini, Ruccione, Rota); mo. Mario Bonotti; scg.arr.co.
Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Silvio Clementelli; as.pr. Niccolò Pomilia, Pasquale
Misiano; s.ed. Ines Bruschi; op. Corrado Bartoloni; fo. Kurt Doubrawsky, Aldo Calpini; tr. Peppino
(Giuseppe) Annunziata; interpreti: Aldo Fabrizi (cav. Nino Martoni), Tamara Lees (Franca), Gina
Lollobrigida (Margherita), Delia Scala (Vera), Nyta Dover (Lucy D’Astrid), Marcello Mastroianni
(Carlo, fidanzato di Franca), Bruno Corelli (Dedè Moreno), [Enzo Furlai] Furlanetto (Boselli),
Giovanni (Gianni) Barrella (l’impresario), Enzo Maggio (Gigetto), Michele Malaspina (il
comm.Cantelli), Aldo Giuffrè (il barista), Pasquale Misiano, Eduardo Passarelli, Mariemma Bardi,
Jubal Schembri, Tino Scotti (sé stesso), Giuseppe Angelini, Pina Piovani, Lydia Alfonsi, Rina Pizzi,
Anna Pabella, Vittorina Benvenuti, Gino Scotti, Noemi Zeki, Livia Rezin, Siria Vellani, Giorgina
Nardini, il trio acrobatico Golden. Produttore: Clemente Fracassi per Carlo Ponti Cin.ca; durata:
101’; incasso £ 255.600.000.
1950
E’ ARRIVATO IL CAVALIERE!
1
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; coll.scen. Steno e
M.Monicelli; dir.fot. Mario Bava; mus. Nino Rota; mo. Franco Fraticelli e Mario Bonotti; scg.arr.co.
Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Raffaele Andreassi; i.p. Pasquale Misiano; op. Corrado
Bartoloni; fo. Kurt Doubrawsky; interpreti: Tino Scotti (il “cavaliere”), Silvana Pampanini (Carla
Colombo), Enrico Viarisio (ministro), Nyta Dover (Musette), Enzo Biliotti (commissario), Alda
Mangini (moglie del ministro), Galeazzo Benti (marchese Bevilacqua); Marcella Rovena (signora
Varelli), Giovanna Galletti (signora Colombo), Guido Morisi, Carlo Mazzarella (l’assessore), Federico
Collino (commendatore Varelli), Gilberto Mazzi, Guglielmo Leoncini, Mario Luciani, Aldo Alimonti,
Enzo Maggio, Rocco D’Assunta (capo banditi), Pasquale Misiano, Arturo Bragaglia (Buchs), Ettore
Jannetti (signor Colombo), Giuseppe Pierozzi, Giorgio Badia, Bruno Cantalamessa, Ada Colangeli,
Ciro Belardi. Produttore: Carlo Ponti per A.T.A., Excelsa Film; durata: 92’; incasso £ 254.300.000
1951
GUARDIE E LADRI
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Piero Tellini; scen. M.Monicelli, Steno, Vitaliano Brancati, Aldo
Fabrizi, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari; dir.fot. Mario Bava; mus. Alessandro Cicognini; mo.
Franco Fraticelli; scg.e arr. Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Mario Mariani; ass.re. Rudy
Bauer; i.p. Nicolò Pomilia; s.ed. Ines Bruschi; op. Claudio bartoloni; fo. Gino Fiorelli e Aldo Calpini;
interpreti: Totò (Ferdinando Esposito), Aldo Fabrizi (brigadiere Bottoni), Ave Ninchi (signora
Giovanna Bottoni), Pina Piovani (Donata, moglie di Ferdinando), Rossana Podestà (Liliana, figlia del
brigadiere), Ernesto Almirante (il padre di Ferdinando), Williams C.Tubbs (mr. Locuzzo), Aldo
Giuffrè (il “professore”, socio di Ferdinando), Mario Castellani (il tassista), Carlo Delle Piane
(Libero), Pietro Carloni (il commissario), Gino Leurini (Alfredo), Armando Guarnieri, Rocco
D’Assunta, Paolo Modugno, Gino Scotti, Ettore Jannetti, la piccola Alida Cappellini, Aldo Alimonti,
Riccardo Antolini, Giulio Calì. Produttori: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Ponti-De Laurentiis
Cin.ca; durata: 100’; incasso: £ 655.000.000
Premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes (1952).
Palma d’oro a Totò come miglior attore protagonista al Festival di Cannes (1952).
Nastro d’argento a Totò come miglior attore protagonista.
Presentato al Festival di Punta del Este.
TOTO’ E I RE DI ROMA
Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Dino Risi e Ennio De’ Concini liberamente tratto dai racconti La
morte dell’impiegato e Esami di promozione di Anton Cecov; scen. Peppino De Filippo, Steno e
M.Monicelli; dir.fot. Giuseppe La Torre; mus. Nino Rota; mo. Adriana Novelli; scg. Alberto Tavazzi;
co. Giuliano Papi; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Romolo Laurenti; a.re. Lucio Fulci; i.p. Piero Picuti; s.p.
Antonio Brandt; s.ed. Emilio Miraglia; op. Enrico Betti Berruto; fo. Kurt Doubrawsky; tr. Giuliano
Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Totò (Ercole Pappalardo), Anna Carena (Armida, sua
moglie), Giovanna Pala (Ines), Anna Vita (la figlia maggiore), Eva Vaniceck (Susanna), Ada Mari (la
figlia minore), Aroldo Tieri (Petrucci), Pietro Carloni (il capufficio Capasso), Ernesto Almirante (il
“padreterno”), Alberto Sordi (il maestro elementare), Giulio Stival (Sua Eccellenza Langherozzi
Schianchi), Lilia Landi (la contessa al Teatro Sistina), Gianni Musy Glori (Giorgio), Giulio Calì
(suonatore di tromba), Marisa Fimiani, Francesca Pietrosi (due squillo al Teatro Sistina), Emilio
Petacci (Filippini), Italia Marchesini (signora Sconocchia), Giulio Battiferri (guardiano dell’Olimpo),
Armando Annuale (orchestrale), Mario Maresca (Trifossi), Eduardo Passarelli, Paolo Ferrara (due
maestri esaminatori), Nino Milano (l’impiegato allo sportello 9), Amedeo Girard (usciere
dell’albergo), Rio Nobile, Amerigo Santarelli, Nino Marchetti, Eugenio Calafini, Celeste Almieri,
Gorella Gori, Alfredo Ragusa, Mimmo Poli. Produzione Golden Film, Humanitas Film; durata: 97’;
incasso: £ 406.400.000.
1952
TOTO’ E LE DONNE
Regia Steno; sogg. Age e Scarpelli; scen. Age e Scarpelli, Steno, Mario Monicelli; dir.fot. Tonino
Delli Colli; mus. Carlo Rustichelli dir.da Fernando Previtali; mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Piero
Filippone; arr. Marco Rappini; d.pr. Luigi De Laurentiis; a.re. Lucio Fulci; i.p. Valentino Trevisanato;
s.p. Piero Lazzari; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Gino Fiorelli; tr. Giuliano Laurenti; interpreti: Totò (cav.
Filippo Scaparro), Ave Ninchi (Giovanna, sua moglie), Giovanna Pala (Mirella, la loro figlia),
Peppino De Filippo (dott. Paolo Desideri), Lea Padovani (Ginetta, la ragazza del tabarin), Clelia
Matania (la cameriera Carolina), Pina Gallini (signora con pelliccia), Primarosa Battistella
(Antonietta), Franca Faldini (la signora dell’appuntamento), Mario Castellani (rag. Carlini), Teresa
Pellati, Alda Mangini (la cliente al negozio), Carlo Mazzarella (presentatore del concorso di
bellezza), Mimmo Poli (l’infermiere), Carlo Vanzina (Filippo in fasce). Produttore: Rosa Film;
durata: 95’; incasso £ 502.000.000.
La regia del film è firmata da Steno e Mario Monicelli; in realtà il film è diretto dal solo Steno.
2
LE INFEDELI
Anche la regia di questo film è firmata, per motivi di contratto, da Steno e Mario Monicelli. In realtà
il film è stato diretto dal solo Monicelli. Nonostante sia inserito in tutte le filmografie di Steno, non
è quindi preso in considerazione.
TOTO’ A COLORI
Regia Steno; sogg. Steno da “sketches” di riviste di Michele Galdieri e Totò; scen. Steno, Mario
Monicelli, Age e Scarpelli; dir.fot. Tonino Delli Colli (Ferraniacolor); mus. Felice Montagnini; mo.
Mario Bonotti; scg. Piero Filippone; co. Giulio Coltellacci; arr. Riccardo Domenici; a.re. Lucio Fulci;
i.p. Alfredo De Laurentiis; op. Bianco Bernardini; tr. Giuliano Laurenti; c.s.e. O.Di Sotto; col. Elio
Finestauri; interpreti: Totò (Antonio Scannagatti), Isa Barzizza (la signora del vagone letto), Rocco
D’Assunta (il cognato siciliano), Virgilio Riento (il maestro Tiburzi), Mario Castellani (l’on.Cosimo
Trombetta), Luigi Pavese (l’editore Tiscordi), Franca Valeri (Giulia Sofia, la signorina snob),
Galeazzo Benti (Poldo), Fulvia Franco (Poppy, la sua fidanzata), Anna Vita (un’esistenzialista),
Alberto Bonucci (il regista sovietico), Vittorio Caprioli (il tenore balbuziente), Armando Migliari (il
sindaco di Caianiello), Bruno Corelli (Joe Pellecchia), Guglielmo Inglese (il giardiniere), Rosita
Pisano, Michele Malaspina, Carlo Mazzarella (il fidanzato di Giulia Sofia), Franca Rame (la serva),
Lilli Cerasoli (un’altra esistenzialista), Barbara Florian, Manuel Serrano, Nancy Clark, Mimmo Poli,
Silvana Blasi, Riccardo Antolini, Paolo Ferrara (il controllore), Ugo D'Alessio, le marionette di G.e A.
Greco. Produttore: Ponti-De Laurentiis Cin.ca, Giovanni Amati per Golden Film; durata: 95’;
incasso: £ 774.750.000.
1953
L’UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU’
Regia Steno; sogg.dalla commedia omonima di Luigi Pirandello; scen. Steno; coll.scen. Vitaliano
Brancati, Lucio Fulci, Jean Josipovici; dir.fot. Mario Damicelli (Ferraniacolor); mus. Angelo
Francesco Lavagnino, Pier Giorgio Redi; mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Mario Chiari; arr. Piero
Gherardi; d.pr. Luigi De Laurentiis; a.re. Lucio Fulci; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Biagio Fiorelli; tr.
Giuliano Laurenti; interpreti: Totò (il prof. Paolino), Orson Welles (capitano Perella), Viviane
Romance (Assunta Perella), Clelia Matania (Grazia), Franca Faldini (Marianna), Italia Marchesini
(Rosaria), Mario Castellani (il dottore), Salvo Libassi (il timoniere), Carlo Delle Piane (uno
studente), Gian Carlo Nicotra (Nonò), Rocco D’Assunta (il farmacista), Michele Di Giulio, Paolo
Ferrara. Produzione: Antonio Altoviti per Rosa Film; durata: 87’; incasso: £ 258.260.000.
Il film venne bloccato per quarant’anni per problemi di diritti d’autore. Riuscì nel 1994, circolando
in una copia in bianco e nero.
CINEMA D’ALTRI TEMPI (t.f. Drole de bobines)
Regia Steno; sogg. Age, Scarpelli, Steno; scen. Steno, Age, Scarpelli, Augusto Camerini; dir.fot.
Marco Scarpelli (Ferraniacolor); mus. Franco Mannino; mo. Giuliana Attenni e Adriana Novelli; scg.
Beni Montresor realiz.da Mario Campagna; amb.e co. Piero Gherardi; d.pr. Domenico Bologna;
a.re. Lucio Fulci; i.p. Franco Palagi, Luigi Pinini (D’Oliva); s.ed. Liana Ferri; fo. Agostino Moretti e
Venanzio Biraschi; tr. Euclide Santoli; par. Annetta Fabrizi; interpreti: Walter Chiari (Marcello
Serventi, regista), Lea Padovani (Caterina, poi Ausonia), Jean Richard (Pasquale), Maurice Teynac
(Za l’Amour), Luigi Pavese (il produttore), Gianni Cavalieri (l’aiuto regista), Mirella Gagliardi, Rita
Stazi, Peter Trent (il conte), Bianca Maria Fabbri, Salvo Libassi, Carlo Mazzarella, Jean Demy,
Riccardo Ferri, Steno (un attore). Produzione: Jolly Film (Roma), Cormoran Film (Parigi); durata:
92’; incasso: £ 196.000.000.
UN GIORNO IN PRETURA
Regia Steno; sogg. Lucio Fulci; scen. L.Fulci, Alessandro Continenza, Alberto Sordi, Giancarlo
Viganotti, Steno; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Armando Trovajoli; mo. Giuliana Attenni; scg. Piero
Filippone; arr. Antonio Leonardi; d.pr. Paolo Frascà; a.re. Lucio Fulci; ass.re. Paolo Heusch; i.p.
Orazio Tassara; s.p. Angelo Binarelli; op. Elio Polacchi; fo. Rinaldo Boggio; interpreti: Peppino De
Filippo (pretore Salomone Lo Russo), Silvana Pampanini (Luisa Ciccinelli, in arte Gloriana), Alberto
Sordi (Nando Moriconi), Sophia Loren (Anna, la ladra), Walter Chiari (Don Michele Mezzocchi),
Tanja Weber (Elena Baronti Ponticelli), Leopoldo Trieste (Leopoldo),Armenia Balducci (la
fidanzata), Virgilio Riento (Virgilio Pampinelli), Giulio Calì (Augusto Mencacci, testimone oculare),
Turi Pandolfini (il cancelliere), Vincenzo Talarico (avvocato difensore), Ubaldo Lay (Raoul), Amalia
Pellegrini (la vecchia signora ricca), Cesare Bettarini (avvocato Tonnara), Bianca Maria Cerasoli
(nipote della vecchia signora), Gianni Partan (capitano Mazzoni), Marco Gualtieri (l’avvocatino),
Renato Bonifazi (il maggiore), Mario Maresca (pubblico ministero), Paolo Carletti (Alfio Ponticelli),
Gualtiero Jacopetti (l’avvocato Terenzio), Gianni Baghino (ladro di frutta), Maria Piazzai (invitata
3
alla festa), Floria D’Alba (altra invitata), Salvo Libassi (agente Nicola Sprameci), Venantino
Venantini (un ufficiale al varietà), Maurizio Arena (Lorenzo), Michele Di Giulio (ragazzo grosso),
Vincenzo Milazzo, Luigi Giacosi, Paolo Volta, Luciano Caruso. Produzione: Gianni Hecht Lucari per
Documento Film, Excelsa; durata: 87’; incasso: £ 473.000.000.
1954
LE AVVENTURE DI GIACOMO CASANOVA (t.f. Les adventures et les amours de Casanova)
Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Steno, Emo Bistolfi, Lucio Fulci, Mario Guerra,
Carlo Romano; dir.fot. Mario Bava (Eastmancolor); mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo.
Giuliana Attenni; scg. Mario Chiari; co. Maria De Matteis; d.pr. Emo Bistolfi; a.re. Lucio Fulci; op.
Corrado Bartoloni; fo. Bruno Brunacci; tr. Amato Garbini; interpreti: Gabriele Ferzetti (Giacomo
Casanova), Corinne Calvet (Louise de Chatillon), Marina Vlady (Fulvia), Nadia Gray (MarieThérèse), Carlo Campanini (valletto di Casanova), Mara Lane (Barbara, moglie del console di
Weimar), Irene Galter (Dolores), Lia Di Leo (Lucrezia), Anna Amendola (Geltrude), Aroldo Tieri
(ten. Josè Ramirez), Arturo Bragaglia (il conte di Charpillon), Fulvia Franco, Florence Arnaud, Nico
Pepe, Ursula Andress, Nuri Neva, Renzo Aiolfi, Ivy Nicholson, Ignazio Leone, Salvo Libassi, Mario
Siletti, Anna Berardelli, Giacomo Furia, Vanda Della Valle, Eugenio Velotti, Anny De Nobili.
Produzione: Dario Sabatello per Orso Film, Ezio Gagliardo ed Emo Bistolfi per Iris Film (Roma),
C.F.P.C. (Parigi); durata: 95’; incasso: £ 367.750.000.
UN AMERICANO A ROMA
Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Lucio Fulci, Ettore Scola, Alberto Sordi, Steno;
dir.fot. Carlo Montuori; mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni; scg. Piero
Filippone; co. Giorgio Vecce; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Paolo Frascà; a.re. Lucio Fulci; i.p. Pio
Angeletti, Totò Mignone; op. Goffredo Belisario; fo. Mario Morigi; tr. Marcello Ceccarelli; interpreti:
Alberto Sordi (Nando Moriconi), Maria Pia Casilio (Elvira), Ilsa Petersen (Molly, pittrice americana),
Anita Durante (madre di Nando), Giulio Calì (padre di Nando), Galeazzo Benti (Fred Buonanotte,
presentatore TV), Carlo Delle Piane (“Cicalone”), Rocco D’Assunta (il commissario), Ivy Nicholson
(amica di Molly), Charles Fawcett (mr. Brooks), Caterina Alcaide, Leopoldo Trieste (spettatori Tv),
Cristina Fanton, Carlo Mazzarella (segretario ambasciata americana), Vincenzo Talarico (l’on.
Borgiani), Ignazio Leone (il regista Verdolini), Pina Gallina (spettatrice TV), Ciccio Barbi
(impresario), Arcibaldo Layal (l’ambasciatore), Marcello Giorda, Tecla Scarano, Salvo Libassi,
Ursula Andress (Astrid), Sue Ellen Black, Luigi Giacosi, Gustavo Giorgi, Amalia Pellegrini, Jean
Molier, Adua Comin, Lucio Fulci (“il porcospino”). Produttore: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per
Ponti-De Laurentiis Cin.ca; durata: 89’; incasso: £ 380.370.000.
1955
PICCOLA POSTA
Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Lucio Fulci, Alessandro Continenza; dir.fot. Tonino Delli Colli;
mus. Raffaele Gervasio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Damarini; scg.e arr. Franco Lolli;
scg. Gastone Carsetti; co. Giovanna Natili; o.g. Emo Bistolfi; a.re. Lucio Fulci; i.p. Renato Tonini;
s.p. Emanuele Brescini; s.ed. Carla Fierro; op. Sergio Bergamini; ass.op. Augusto Tinelli; fo. Eraldo
Giordani; tr. Eligio Trani; ass.tr. Emilio Trani; interpreti: Franca Valeri (signorina Cangiullo, alias
“Lady Eva”), Alberto Sordi (Rodolfo Vanzino di Castelfusano d’Arezzo), Peppino De Filippo (vigile
urbano Gigliotti), Sergio Raimondi (Giorgio Cappelli), Anna Maria Pancani (Franchina), Nanda
Primavera (madre di “Lady Eva”), Amalia Pellegrini (donna Virginia), Memmo Carotenuto
(Ranuccio), Nietta Zocchi (signora Gigliotti), Georges Bréhat (medico inglese), Silvio Bagolini
(direttore del giornale), Luciano Salce (signore tedesco con il cane), Salvo Libassi, Renato Bonifazi,
Franco Jamonte, Mario Siletti, Giusy Raspani Dandolo, Lia Lena, Cinzia Manes, Giuliana Badaloni,
Marco Tulli, Nicoletta Orsomando (presentatrice TV), Tiziana Delfi, Marida Vanni, Vincenzo Talarico.
Produttore: Sandro Pallavicini per Incom; durata: 95’; incasso: £ 161.450.000.
1956
MIO FIGLIO NERONE (t.fr. Les week-ends de Néron)
Regia Steno; sogg. Rodolfo Sonego; scen. Alessandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra,
Rodolfo Sonego, Steno; dir.fot. Mario Bava (Cinemascope-Eastmancolor); mus. Angelo Francesco
Lavagnino dir.da Carlo Savina; mo. Mario Serandrei e Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; co.
Veniero Colasanti; arr. Gianni Polidori; o.g. Enzo Provenzale; d.pr. Pietro Notarianni; coreog. Mady
Obolensky; a.re. Lucio Fulci e Luigi Vanzi; i.p. Guglielmo Colonna; s.ed.Gigliola Rosmino; op.
Corrado Bartoloni; fo. Mario Messina; tr. Libero Politi; par. Gabriella Borzelli; interpreti: Alberto
Sordi (Nerone), Gloria Swanson (Agrippina), Vittorio De Sica (Seneca), Brigitte Bardot (Poppea),
Giorgia Moll (Livia), Ciccio Barbi (Aniceto), Memmo Carotenuto (Creperio), Mino Doro (Corbulone),
Furlanetto [Enzo Furlai] (Segimanio), Amalia Pellegrini (Acerronia), Agnese Dubbini (Ugolilla),
Irene Gail, Arturo Bragaglia (senatore), Giulio Calì, Anna Maria Del Prà, Mimmo Poli, Barbara
Shelley, Eura Teodori, Nino Vingelli, Sandra Milo, Sonia Moser, Maria Luisa Rolando, Rina De
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Liguoro, Eugenio Galadini, Amedeo Trilli, Renato Terra, Sergio Parlato, Mario Mazza (Tacito).
Produttore: Franco Cristaldi per Vides Cin.ca, Titanus (Roma), Les Films Marceau (Parigi); durata:
88’; incasso: £ 350.500.000.
1957
SUSANNA TUTTA PANNA
Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Mario
Gem (canzone dal Quartetto Cetra); mo. Giuliana Attenni; scg. Mario Santovetti; a.scg. Giorgio
Giovannini; arr. Andrea Tomassi; o.g. Mario Cecchi Gori; d.pr. Clemente Fracassi; a.re. Lucio Fulci;
s.p. Umberto Santoni; i.p. Pio Angeletti; s.ed. Emilio Miraglia; o.p. Silvano Ippoliti; fo. Mario
Morigi; tr. Giuseppe Annunziata; interpreti: Marisa Allasio (Susanna), German Cobos (Alberto),
Mario Carotenuto (Alfredo Libotti), Memmo Carotenuto (un barbone), Giulio Calì (il padre del
barbone), Anna Campori (madre di Susanna), Nino Manfredi (Romoletto), Paolo Ferrari (Tao),
Gianni Bonagura (complice di Romoletto e Tao), Raffaele Pisu (Arturo), Alberto Rabagliati (comm.
Botta), Gianni Agus (Trombetti), Fanny Landini (Armida), Nuto Navarrini (Palpiti), Sandra Mondaini
(Marisa Trombetti), Alberto Bonucci (Massimo, attore), Bice Valori (Rossella, attrice), Gianrico
Tedeschi (Gianluca, attore), Francesco Mulè (regista), Giacomo Furia (tassista), Luz Marquez
(Cecilia), Loris Gizzi, Fernando Sancho, Salvo Libassi, Adriana Facchetti, Pilar Gomez, Pietro Carloni
(padre di Susanna), Lamberto Antinori. Produzione: Carlo Ponti Cin.ca, Maxima Film (Roma), Jesus
Saiz Prod. Cin.cas (Madrid); durata: 97’; incasso: £ 353.000.000
FEMMINE TRE VOLTE (t.sp. Operacion Popoff)
Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; dir.fot. Tonino Delli Colli; mus. Angelo
Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni e Gaby Panalva; scg. Mario Santovetti; a.scg. Giorgio
Giovannini; amb. Andrea Tomassi; co. Ugo Pericoli; o.g. Mario Cecchi Gori; a.re. Lucio Fulci; i.p.
Pio Angeletti; s.p. Umberto Santoni; op. Franco Delli Colli; fo. Mario Morigi; tr. Giuseppe
Annunziata; interpreti: Sylva Koscina (Sonia), German Cobos (Ugo), Alberto Bonucci (Santucci),
Bice Valori (Katiuscia), Gianrico Tedeschi (Vassilij), Mario Carotenuto (padre di Ugo), Nino Manfredi
(comunista), Gianni Agus, Monserrat Blanch Ferrer, Furlanetto [Enzo Furlai], Gina Rovere, Gianni
Bonagura, Fernando Sancho, Angel Aranda, Laura Coprifoglio; Brigitte Kampbell, Lily Mantovani,
Emilio Petacci, Felix Fernandez, Steno, Amedeo Trilli, Lamberto Antinori, Salvo Libassi, Sergio
Parlato, Francesco Mulè, Mario Chiocchio, Elena Chiranova. Produttore: Clemente Fracassi per
Carlo Ponti Cin.ca (Roma), Jesus Sainz (Madrid); durata: 105’; incasso: £ 225.563.000.
1958
GUARDIA, LADRO E CAMERIERA
Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Lucio Fulci, Alessandro Continenza; dir.fot. Riccardo Pallottini;
mus. Lelio Luttazzi (le canzoni «Tira a campa’» di Amurri-Luttazzi e «’O poeta guappo» di NisaRossi, sono cantate da Fausto Cigliano); mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Alberto Boccianti; co.
Giuliano Papi; arr. Arrigio Breschi; d.pr. Romolo Laurenti, Carlo Vignati; a.re. Mariano Laurenti; i.p.
Giorgio Riganti; s.p. Gino Fanano; s.ed. Elsa Carnevali; op. Claudio Racca; a.op. Silvano Mancini;
fo. Franco Groppioni; tr. Guglielmo Bonotti; par. Maria Miccinelli; interpreti: Gabriella Pallotta
(Adalgisa Pellicciotti), Nino Manfredi (Otello Cucchiaroni), Mario Carotenuto (il “professore”),
Fausto Cigliano (Amerigo Zappitelli), Bice Valori (la contessa), Luciano Salce (il conte tedesco),
Marco Guglielmi (Franco), Gianni Minervini (un’altra guardia), Giampiero Littera (Angelino), Salvo
Libassi (Gioacchino, il barista), Enzo Garinei (il medico del P.S.), Marco De Simone (Bacchino).
Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L.; durata: 86’; incasso: £ 179.127.000
MIA NONNA POLIZIOTTO
Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti, Steno;
dir.fot. Sergio Pesce; mus. Carlo Innocenzi; mo. Otello Colangeli; scg. Ivo Battelli; d.pr. Jacopo
Comin; o.g. Fernando Felicioni; a.re. Franco Rossetti; op. Elio Polacchi; interpreti: Tina Pica (nonna
Tina), Alberto Lionello (Alberto, nipote di Tina), Lilia Rocco (la fidanzata di Alberto), Mario Riva
(Mario Secchioni), Riccardo Billi (Belletti), Ugo Tognazzi (Ugo), Raimondo Vianello (Raimondo),
Bice valori (Francesca), Paolo Panelli (Paolo, il marito), Alberto Talegalli (il maresciallo di polizia),
Luigi Pavese (il commissario), Loris Gizzi (primario della clinica). Produttore: Felice Felicioni per
Jonia Film; durata: 96’; incasso: £ 386.000.000.
TOTO’ NELLA LUNA
Regia Steno; sogg. Steno, Lucio Fulci; scen. Alessandro Continenza, Ettore Scola, Steno; dir.fot.
Marco Scarpelli; mus. Alessandro Cicognini; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; co. Ugo
Pericoli; arr. Riccardo Domenici; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Pio Angeletti; s.p. Umberto Santoni;
s.ed. Emilio Miraglia; op. Pasquale De Santis; fo. Roy Mangano; tr. Goffredo Rocchetti; interpreti:
Totò (Pasquale Belafronte), Sylva Koscina (Lidia sua figlia), Ugo Tognazzi (Achille), Luciano Salce
5
(Von Braut), Sandra Milo (Tatiana), Richard McNamara (Campbell), Agostino Salvietti
(l’amministratore), Renato Tontini (Vladimiro), Jim Dolen (O’ Connor), Francesco Mulè (una
guardia), Marco Tulli (un creditore), Ignazio Leone (un poliziotto), Giacomo Furia (comm. Bardi),
Anna Maria Di Giulio. Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima Film, Montflour Film, Variety Film;
durata: 90’; incasso: £ 368.650.000.
1959
TOTO’, EVA E IL PENNELLO PROIBITO
Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti e Ruggero Maccari; dir.fot. Alvaro
Mancori; mus. Gorni Kramer (le canzoni: «The elephant» e «Granada» sono cantate da Roberto
Altamura); mo. Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; co. Adriana Berselli (Schubert per Abbe
Lane); arr. Luigi Gervasi; d.pr. Franco Palagi; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Roberto Palagi; s.ed.
Liana Ferri; op. Guglielmo Mancori; ass.op. Sandro Mancori; fo. Giovanni Rossi, Emilio Rosa; tr.
Giuseppe Annunziata; par. Anna Angelini; interpreti: Totò (Totò Scorcelletti, pittore), Abbe Lane
(Eva), Giacomo Furia (Tobia), Mario Carotenuto (Raoul La Spada), Louis De Funès (prof. Francesco
Montiel), Josè Guardiola (Josè), Luna Pilar Gomez Ferrer (Gloria Arrison), Riccardo Valle (il torero
Pablo Segura), Anna Maria Marchi (Caterina), Luigi Pavese (commissario di polizia), Francesco Mulè
(Don Alonzo, marito geloso), Silvia De Vietri (la cameriera), Guido Martufi (il copista oriundo),
Anna Maestri (la signora del treno), Gianni Partanna (notaio), Anna Maria Di Giulio (moglie di Don
Alonzo), Enzo Garinei (l’amante) e il balletto di Pepè Alonzo. Produttore: Jolly Film (Roma),
Cormoran (Parigi), Esperia Film (Madrid); durata: 90’; incasso: £ 420.000.000.
I TARTASSATI (t.fr. Les tourmentés)
Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti, Ruggero
Maccari, Steno, Aldo Fabrizi; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Piero Piccioni; mo. Eraldo da Roma; scg.
Giorgio Giovannini; amb. Andrea A.Tomassi; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Pio Angeletti; s.p.
Umberto Santoni; s.ed. Emilio Miraglia; op. Pasquale De Santis; fo. Eraldo Giordani, Mario Amari;
tr. Marcello Ceccarelli; interpreti: Totò (cav. Torquato Pezzella), Aldo Fabrizi (maresciallo Fabio
Topponi), Louis De Funès (Ettore, il ragioniere), Miranda Campa (la moglie di Topponi), Cathia
Caro (la figlia), Luciano Marin (Tino Pezzella), Anna Campori (Dora Pezzella), Ciccio Barbi
(brigadiere Bardi), Anna Maria Bottini (Mara), Fernand Sardou (Ernesto), Cesare Fantoni (il
parroco), Ignazio Leone (guardia forestale), Lucien Sardou, Nando Bruno (l’ubriaco), Piera Arigo,
Gianna Cobelli, Elena Fabrizi (infermiera). Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima Film; durata:
105’; incasso: £ 600.000.000
TEMPI DURI PER I VAMPIRI
Regia Steno; sogg. Edoardo Anton e Mario Cecchi Gori; scen. Edoardo Anton, Alessandro
Continenza, Dino Verde, Steno; dir.fot. Marco Scarpelli (Ultrascope Technicolor); mus. Armando
Trovajoli e Renato Rascel; mo. Eraldo Da Roma; scg. Aldo Tomassini, Giorgio Giovannini; d.pr. Pio
Angeletti; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Umberto Santoni; op. Pasquale De Santis; fo. Mario Amari;
interpreti: Renato Rascel (conte Osvaldo Lambertenghi), Christopher Lee (conte Roderico, il
vampiro), Sylva Koscina (Carla), Lia Zoppelli (Letizia), Carl Very (il professore tedesco), Susanna
Loret (Liliana), Kay Fisher, Antije Ceerk, Federico Collino, Franco Scandurra, Franco Giacobini, Rick
Van Nutter, Angelo Zanolli, Lia Lena, Antonio Mambretti. Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima
Film, Montflour Film; durata: ; incasso: £ 385.000.000.
UN MILITARE E MEZZO
Regia Steno; sogg. Aldo Fabrizi; scen. Vittorio Metz, Aldo Fabrizi, Roberto Gianviti, Ruggero
Maccari, Mario Amendola, Steno; dir.fot. Tino Santoni (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli;
mo. Mario Serandrei; scg.e arr. Alberto Boccianti; ass.scg. Giuseppe Ranieri e Antonio Martino; co.
Giuliano Papi; d.pr. Danilo Marciani; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Armando Morandi e Bruno
Sassaroli; s.ed. Rometta Pietrostefani; op. Enrico Cimmitti; fo. Enzo Silvestri; tr. Telemaco Tilli e
Emilio Trani; par. Fiamma Rocchetti; f.sc. G.B.Poletto; interpreti: Renato Rascel (Nicola Carletti),
Aldo Fabrizi (il maresciallo Giovanni Rossi), Virna Lisi (Anita), Mario Girotti (ten.Giorgio
Strazzonelli), Vicky Ludovisi (Mary), Robert Alda (mr.Roy Harryson), Audrey Mc Donald (Betty
Carletti), Guido Martufi (Pasquale), Loris Gizzi (industriale farmaceutico), Ruggero Marchi (il
colonnello), Elena Fabrizi (la zia di Anita), Ignazio Balsamo (portiere delle Farmaceutiche Riunite),
Paolo Ferrara (giocatore a scopone), Alberto Antonucci, Nino Nini. Produttore: Silvio Clementelli
per Titanus; durata: 105’; incasso: £ 581.300.000.
1960
LETTO A TRE PIAZZE
Regia Steno; sogg. Lucio Fulci, Bruno Baratti, Vittorio Vighi; scen. Alessandro Continenza, Steno;
coll.scen. Lucio Fulcio, Bruno Baratti, Vittorio Vighi; dir.fot. Alvaro Mancori; mus. Carlo Rustichelli
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dir.da Pierluigi Urbini; mo. Giuliana Attenni; scg. Ottavio Scotti; arr. Arrigo Breschi; d.pr. Oscar
Brazzi; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Ferdinando Alivernini; s.ed. Rometta Pietrostefani; op.
Guglielmo Mancori; ass.op. Sandro Mancori; fo. Ovidio Del Grande e Oscar Di Santo; tr. Eligio
Trani; interpreti: Totò (Antonio Di Cosimo), Peppino De Filippo (prof. Peppino Castagnano), Nadia
Gray (Amalia), Maria Cristina Gajoni (Prassede), Aroldo Tieri (avv. Vacchi), Gabriele Tinti
(Pinuccio), Angela Luce (Jeannette, la ballerina), Mario Castellani (il preside), Luciano Bonanni
(tassista), Cesare Fantoni, Paolo Ferrara, Winni Riva, Nico Pepe, Bruno Scipioni, Pier Giorgio
Gragnani, Lina Ferri, Riccardo Ferri, Ombretta Valmonzi. Produttore: Cineriz; durata: 90’; incasso:
£ 441.000.000
Ulivo d’oro al Festival di Bordighera (1960)
A NOI PIACE FREDDO (t.fr. Le chat miaulera trois fois)
Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Vittorio Metz e Roberto Gianviti; dir.fot. Massimo Dallamano;
mus. Carlo Rustichelli dir.da Pierluigi Urbini; mo. Giuliana Attenni; scg. Ivo Battelli; ass.scg.
Giovanni Ranieri; co. Vera Marzot; arr. Fulvio Barsotti; d.pr. Folco Laudati; a.re. Mariano Laurenti;
i.p. Renato De Pasqualis; s.p. Aldo Pace; s.ed. Lina D’Amico; op. Cesare Allione; ass.op. Gianni
Savelli; fo. Bruno Brunacci e Bruno Moreal; interpreti: Ugo Tognazzi (Ugo Bevilacqua), Raimondo
Vianello (conte Raimondo), Peppino De Filippo (Titozzi), Francis Blanche (von Krussendorf), Yvonne
Furneaux (Rosalina), Carlo Taranto, Carlo Fantoni, Rick van Nutter (uff.tedesco), Fulvia Franco,
Brendan Fitzgerald, Loris Gizzi, Luisa Mattioli, Clara Auteri Pepe, Renato Montalbano. Produttore:
Leo Cevenini e Vittorio Martino per Flora Film, Tai Film e Variety Film; durata: 110’; incasso: £
201.000.000.
1961
PSYCOSISSIMO (t.fr. C’est parti mon Kiki)
Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Vittorio Metz, Roberto Gianviti; dir.fot. Clemente Santoni; mus.
Carlo Rustichelli dir.da Pierluigi Urbini (la canzone «Notte di Luna calante» di D.Modugno è cantata
da Peppino Di Capri; «Je ne joue pas» è di Marotta-H.Constantin); mo. Giuliana Attenni; ass.mo.
Marcella Bevilacqua; scg. Ivo Battelli; co. Dina Di Bari; arr. Fulvio Barsotti; d.pr. Folco Laudati;
a.re. Mariano Laurenti; ass.pr. Saverio Scriponi; i.p. Manlio Della Pria; s.p. Romolo Germano; op.
Enrico Cignitti; fo. Pietro Ortolani e Renato Cauderi; tr. Raoul Ranieri; interpreti: Ugo Tognazzi
(Ugo Bertolazzi), Raimondo Vianello (Raimondo Vallardi), Edy Vessel (Annalisa Michelotti), Monique
Just (Marcella Bertolazzi), Franca Marzi (Clotilde Scarponi), Spiros Focas (Pietro, autista),
Francesco Mulè (Arturo Michelotti), Leonardo Severini (commissario), Nario Bernardi
(prof.universitario), Renato Montalbano (un agente),Toni Ucci (Augusto, pensionante), Ugo Pagliai
(uno studente), Giuseppe Chinnici (il medico dell’autopsia). Produttore: Vittorio Martino e Leo
Cevenini per Flora Film, Variety Film; durata: 95’; incasso: £ 390.000.000.
LA RAGAZZA DI MILLE MESI (TOGNAZZI E LA MINORENNE)
Regia Steno; sogg.dalla commedia Le rayon de jouet di Jacques Deval; scen. Marcello Fondato,
Vittorio Metz, Steno; dir.fot. Aldo Giordani; mus. Armando Trovajoli; mo. Gisa Radicchi Levi; scg.
Alberto Boccianti; o.g. Mario Silvestri; a.re. Mariano Laurenti; op. Antonio Modica; interpreti: Ugo
Tognazzi (Maurizio D’Alteni), Danielle De Metz (Didi), Raimondo Vianello (Marco), Sophie
Desmarets (Armansia), Francesco Mulè (Amleto, il cameriere), Francis Blanche (comm.Borgioli),
Luciano Salce (lo psicanalista), Lilly Lembo (Fabiana), Ernesto Calindri (il colonnello), Gloria Paul
(Lorella), Simonetta Remoldi (Maria Grazia), Maria Marchi, Giò Stajano, Silvio Bagolini, Margaret
Rose Keyl, Rosalba Neri, Piero Gerlini. Produttore: Giuseppe Amato per Amato Film; durata: 105’;
incasso: sconosciuto.
I MOSCHETTIERI DEL MARE (t.fr. Il était 3 filibustiers)
Regia Steno; sogg.da un idea di Ennio De Concini elaborata da Marcello Fondato, Roberto Gianviti,
Vittorio Metz, Steno; scen.e dial. Marcello Fondato; dir.fot. Carlo Carlini (Eastmancolor); mus.
Carlo Rustichelli; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg.e co. Gianni Polidori; o.g.
Alfredo Mirabile; d.pr. Massimo Patrizi; re.2a unità Mariano Laurenti; a.re. Nando Cicero; i.p.
Orlando Orsini; s.p. Giuseppe Nicolini e Franco Grifeo; s.ed. Bona Magrini e Lidia Bronzini; op. Luigi
Filippo Carta; ass.re. Raniero Cochetti; m.armi: Ferdy [Goffredo] Unger; fo. Vittorio Trentino; mix.
Bruno Moreal; f.sc. Giovanni Assenza; interpreti: Anna Maria Pierangeli (Consuelo/Altagracia di
Lorna), Channing Pollock (Pierre de Savigny), Aldo Ray (Moreau), Philippe Clay (Gosselin), Robert
Alda (vicegovernatore Gomez), Raymond Bussières (il col. Ortona), Carlo Ninchi (conte di Lorna),
Mario Scaccia (re di Francia), Carla Calò (Zalamea), Mario Siletti (il tesoriere), Gino Buzzanca
(capociurma Gutierrez), Piero Tordi (il nostromo), Cesare Fantoni (padre Milita), Furio Meniconi,
Lamberto Antinori, Erica Jordan. Produttore: Morino Film (Roma), France Cinéma Production
(Parigi); durata: 105’; incasso: £ 227.000.000
7
1962
TOTO’ DIABOLICUS
Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Marcello Fondato, Roberto Gianviti,
Vittorio Metz, Gianni Grimaldi, Bruno Corbucci; dir.fot. Enzo Barboni; mus. Piero Piccioni; mo.
Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg. Giorgio Giovannini; co. Giuliano Papi; arr.
Brunello Serena Ulloa; o.g. Gianni Buffardi; a.re. Mariano Laurenti; ass.re Mario Castellani; i.p.
Egidio Quarantotti e Giancarlo Sambucini; s.p. Franco Pranteda; s.ed. Renata Clarici; op. Stelvio
Massi; ass.op. Renato Fait; fo. Enzo Silvestri; tr. Sergio Angeloni; interpreti: Totò (marchese
Galeazzo di Torrealta/gen. Scipione di Torrealta/prof. Carlo di Torrealta/baronessa Laudomia di
Torrealta/mons. Antonio di Torrealta/Pasquale Bonocore), Raimondo Vianello (Michelino, detto
Lallo), Beatrice Altariba (Diana), Nadine Sanders (donna Fiore), Luigi Pavese (commissario di P.S.),
Mario Castellani (isp. Scalarini), Peppino De Martino (notaio Cucuzza), Giulio Marchetti (capo
agenzia “Tigre”), Franco Giacobini (Pandoro), Mimmo Poli (il postino), Pietro De Vico (paziente da
operare), Paolo Ferrara (direttore carcere), Gianni Baghino (Gigi lo sfregiato), Antonio La Raina
(attendente del generale), Consalvo Dell’Arti (maggiordomo di Torrealta), Steno (Angelo, il
giardiniere). Produttore: Gianni Buffardi, Titanus; durata: 96’; incasso: £ 416.000.000.
COPACABANA PALACE
Regia Steno; sogg. Sergio Amidei; scen. Sergio Amidei, Luciano Vincenzoni; dir.fot. Massimo
Dallamano (Technicolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua;
scg.e co. Franco Fontana Arnaldi; o.g. Giuseppe Fieno; d.pr. Tonino Garzelli; a.re. Mariano
Laurenti; coll.dir.art. Fernado De Barros; coll.pr. Antonio Pereira De Almeida; i.p. Camillo Sampaio,
Piero La Mantia; s.p. Alberto Miranda, Carlo Erbetta; s.ed. Rossana Rebecchi; op. Carlo Fiore;
ass.op. Umberto Grassia; fo. Ennio Sensi, Mario Amari; tr. Maurizio Giustini; parr. Martina Prado;
c.s.m. Umberto Torriero;c.s.e. Enzo Zocchi; interpreti: Sylva Koscina (Ines Da Silva, hostess),
Walter Chiari (Ugo), Mylène Demongeot (principessa Zina von Raunacher), Franco Fabrizi
(Fernando), Paolo Ferrari (avv. De Fonseca), Gloria Paul (Lucia Fabiani), Claude Rich (Buby von
Raunacher), Raymond Bussières (Raymond Broussarc), Francis De Wolf (Theodoro van Der Welf),
Ruggero Baldi (Nicky Gutierrez), Charles Fawcett, Tania Carreo, John Herbert, Laura Brown, Celso
Faria, Irina Greco, Doris Montiero, Antonio Carlos Jobim, Cyll Farney. Produttore: Ital Victoria Film
(Roma), France Cinéma Production (Parigi), Consorcio Paulista de Coproduçao (San Paolo); durata:
100’; incasso: £ 299.000.000.
1963
I DUE COLONNELLI
Regia Steno; sogg.e scen. Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi; dir.fot. Clemente (Tino) Santoni;
mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; amb. Brunello Serena Ulloa; co.
Giuliano Papi; o.g. Gianni Buffardi; d.pr. Egidio Quarantotto; dir.dial. Mario Castellani; coll.pr.
William Menarini; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Ennio Di Mejo; ass.re. Roberto Arata e Aldo Grimaldi;
s.ed. Renata Meningò; s.p. Luciano Foti; op. Gianni Bergamini; fo. Giulio Tagliacozzo; tr. Franco Di
Girolamo; par. Anna Cristofani; interpreti: Totò (col. Di Maggio), Walter Pidgeon (col. Henderson),
Nino Taranto (sergente Quaglia), Scilla Gabel (Iride), Toni Ucci (Mazzetta), Roland von Bartrop
(magg.Kruger), Adriana Facchetti (Penelope), Nino Terzo (soldato La Padula), Giorgio Bixio
(soldato Giobatta), Gino Buzzanca (partigiano greco), Gerard Herter, Giorgio Maestri, Eleonora
Gery, Mimmo Poli (cuoco), Franco Lantieri, Jack West, Nino Nini, Andrea Scotti, Gianni Baghino.
Produttore: Gianni Buffardi per Titanus; durata: 104’; incasso: £ 465.000.000.
TOTO’ CONTRO I QUATTRO
Regia Steno; sogg.e scen. Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi; dir.fot. Clemente (Tino) Santoni;
mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; co. Giuliano Papi; amb. Brunello
Serena Ulloa; ass.amb. Rudj Maiolo; d.pr. Egidio Quarantotto; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Ennio De
Mejo; coll.pr. William Menarini; dir.dial. Mario Castellani; ass.re. Roberto Arata, Aldo Grimaldi;
s.ed. Renata Melingò; op. Gianni Bergamini; ass.op. Renato Fait; fo. Giulio Tagliacozzo; tr. Franco
Di Girolami; par. Anna Cristofani; interpreti: Totò (comm. Antonio Saracino), Peppino De Filippo
(cav. Alfredo Fiore), Aldo Fabrizi (Don Amilcare), Nino Taranto (isp. Mastrillo), Erminio Macario
(col. La Matta), Ugo D’Alessio (brig. Di Sabato), Mario Castellani (comm. Filippo Lancetti), Rossella
Como (sua moglie), Dany Paris (Jacqueline), Ivy Olsen (sig.ra Durant), Nino Terzo (agente
Pappalardo), Carlo Delle Piane (Pecorino), Moira Orfei (sig.ra Fiore), Gianni Agus (dott. Cavallo),
Mario De Simone (agente Spampinato), Luciano Bonanni (ladro anziano), Piero Gerlini (un
passante), Pietro Carloni (cognato di Lancetti), Steno (un idiota). Produzione: Gianni Buffardi per
Titanus; durata: 98’; incasso: £ 280.000.000.
1964
GLI EROI DEL WEST
8
Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Mario Guerra, Josè Mallorqui, Steno, Vittorio
Vighi; coll.scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi; dir.fot. Tino Santoni; mus. Gianni Ferrio (la
canzone «Ballata del Far West» è cantata da Sandro Alessandroni); mo. Giuliana Attenni; ass.mo.
Marcella Bevilacqua; scg. Franco Lolli; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Alberto Giommarelli; s.p.
Torquato Carocci; s.ed. Renata Melingò; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Angelo Lannutti; fo. Kurt
Doubrawsky; mic. Angelo Avatulli; tr. Piero Mecacci; par. Lina Cassini; f.sc. Divo Cavicchioli;
interpreti: Walter Chiari (Mick), Raimondo Vianello (Colorado), Silvia Solar (Margaret), Maria
Andersen (Barbara), Aurora Julia (Sherry), Tomas Blanco (il sindaco), Beni Deus (Bill), Miguel Del
Castillo (Jessie), Antonio Peral (il boia), Bruno Scipioni, Mercedes Lobato. Produttore: Emo Bistolfi
per Cineproduzioni Emo Bistolfi (Roma), Fenix Film (Madrid); durata: 95’; incasso: £ 484.000.000.
LETTI SBAGLIATI
Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza; dir.fot. Tino Santoni; mus. Carlo Rustichelli; mo.
Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Latini; scg.e co.(non accreditati); a.re. Mariano Laurenti; i.p.
Natalino Vicario, Carla Colisi Rossi; s.ed. Renato Pizzuto; op. Giovanni Bergamini; ass.op.
Arcangelo Lannutti, Lanfranco Spadoni, Otello Lunghini; fo. Enzo Silvestri; mic. Giorgio Minoprio;
tr. Maurizio Giustini; par. Vitaliana Rossi; f.sc. Angelo Pennoni; interpreti:
1° episodio Il complicato: Ingeborg Schoener, Lando Buzzanca, Aldo Giuffrè, Piero Tordi. 2°
ep.00sexy-Missione bionda platino: Margaret Lee, Raimondo Vianello, Fulvia Franco, Piero Morgia,
Pietro Gerlini. 3° ep.Quel porco di Maurizio: Carlo Giuffrè, Beba Loncar, Aldo Puglisi, Tecla Scarano,
Alberto Bonucci, Renato Terra, Enzo Filippi. 4° ep. La seconda moglie: Franco Franchi, Ciccio
Ingrassia, Olimpia Cavalli, Enzo Turco, Antonio La Raina. Produttore: Adelphia Compagnia Cin.ca;
durata: 105’; incasso: £ 164.000.000.
I GEMELLI DEL TEXAS
Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi; dir.fot. Manuel Hernandez Sanjuan
(Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg.
Antonio Visone; co. Maria Luisa Panaro; d.pr. Renato Tonini; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Rodolfo
Mecacci; s.ed. Renata Melingò; op. Sandro Mancori; ass.op. Remo Grisanti; fo. Antonio Bramonti;
mic. Augusto Troiani; tr. Romolo De Martino; par. Gisa Favella; interpreti: Walter Chiari
(Ezechiele/Joe), Raimondo Vianello (Johnathan/Kid), Diana Lorys (Fanny), Maria Jesus Mayor
(Betty), Alfonso Rojas (Malanza), Umberto Raho (Mick), Joaquim Pamplona (cap.Lister), Miguel Del
Castillo (Arnold), Carmen Esbri (Dominique), Liana Del Balzo (la madre di Malanza), Bruno
Scipioni, Eugenio Galadini, Franca Polesello (madame Duval). Produttore: Emo Bistolfi per Cin.ca
E.Bistolfi (Roma), Fenix Film (Madrid); durata: 96’; incasso: £ 221.000.000.
1965
UN MOSTRO E MEZZO
Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Steno; dir.fot. Tino Santoni; mus. Franco
Mannino; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Latini; scg. Riccardo Domenici; d.pr. Luciano
Cattania; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Natalino Vicario; s.p. Salvatore Chetri; s.ed. Franca
Carotenuto; amm. Flaminio Spadoni; op. Giovanni Bergamini; ass.op. Luigi Bernardini e Lanfranco
Spadoni; fo. Giovanni Rossi; mic. Sante Antonucci; tr. Maurizio Giustini; a.tr. Faliero Maggetti; f.sc.
Angelo Pennoni; interpreti: Franco Franchi (Franco Barretta/Cesarone), Ciccio Ingrassia (il
professore), Margaret Lee (Christine), Alberto Bonucci (prof.Carogni), Anna Maria Bottini
(Barbara), Renato Terra Caizzi, Consalvo Dell’Arti (il vicedirettore del carcere), Mario Frera, Ugo
Fangareggi (una guardia carceraria), Antonio La Raina, Mario Laurentina, Lena von Martens (sig.ra
Marini), Antonio Omiccioli, Giuseppe Pertile (il direttore del carcere), Mirko Valentin, Susan Klemm
(la contessa). Produttore: Adelphia Compagnia Cin.ca; durata: 95’; incasso: £ 358.000.000.
1966
AMORE ALL’ITALIANA (I SUPERDIABOLICI)
Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Francesco Luzi, Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi; dir.fot. Carlo
Carlini (Techiscope/Technicolor); mus. Robby Poitevin; mo. Giuliana Attenni; scg. Antonio Visone;
co. Maria Luisa Panaro; d.pr. Renato Tonini; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Alessandro Gori; s.p.
Quirino Pontecorvo; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Gianni Bergamini; fo. Leopoldo Rosi; mic. Giulio
Viggiani; tr. Gaspare Carboni; par. Maria Ariè; attr. Aldo Clementi; interpreti: Walter Chiari
(episodi: Divieto di sosta, Vampiro e lupo mannaro, Regalo di nozze, Troppo facile, Storia
domenicale, Gold Fischer, Cortesia ferroviaria, Il playboy e negli episodi di collegamento),
Raimondo Vianello (ep. Sangue blu, Troppo facile, Divieto di sosta, Vampiro e lupo mannaro,
Amore all’italiana, Regalo di nozze, Gold Fischer, Lo smoking, Il playboy), Paolo Panelli (ep.
L’esame, Storia domenicale, Lo smoking), Paolo Carlini, Vivi Bach, Luigi De Filippo, Alicia Brandet,
Isabella Biagini, Rica Dialina, Adriana Ambesi, Nicole Faida, Susanne Klemm, Silvia Daniels,
9
Lucretia Love, Angela Portaluri, Bruno Scipioni.
Incorporation; durata: 95’; incasso: £ 217.000.000.
Produttore:
Emo
Bistolfi
per
European
ROSE ROSSE PER ANGELICA (t.sp. El caballero de la rosa roja/t.fr. Le chevalier à la rose rouge)
Regia Steno; sogg.da un racconto di Alexandre Dumas; scen. Marcello Ciorciolini, Leo Cevenini,
Roberto Gianviti, Steno, Natividad Zaro; dir.fot. Mario Capriotti (Eastmancolor); mus. Angelo
Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni; scg. Ivo Battelli e Antonio Cortes; co. Maria Baronj,
Flora Bonocore; o.g. Folco Laudati; d.pr. Roberto Palagi, Rafel Cuevas; a.re. Mariano Laurenti; op.
Claudio Ragona, Miguel Agudo; interpreti: Jacques Perrin (Henri de Verlaine), Raffaella Carrà
(Angélique), Michèle Girardon (Antoinette La Flèche), Carlos Estrada (barone La Flèche), Jacques
Vastelot (conte d’Artois), Mario Feliciani (dottor Durand), Giulio Bosetti (il marsigliese), Marta
Padovan (Louise), Sandro Moretti (Ramboullet), Chris Huerta (Paul), Josè Maria Caffarel (Re Luigi
XVI), Enrique Navarro (Lalume), Armando Furlai (Bernard), Enzo Musumeci Greco (Michaud),
Saturnino Cerra (Grandet). Produzione: Leo Cevenini e Vittorio Martino per Flora Film, Italo
Zingarelli per West Film (Roma), Llama Film (Madrid), Cineurop (Parigi); durata: 110’; incasso: £
102.000.000.
1967
LA FELDMARESCIALLA (RITA FUGGE…LUI CORRE…EGLI SCAPPA) (t.fr. La grosse pagaille)
Regia Steno; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Riccardo Pallottini (Eastmancolor); mus.
Alberto Pisano (canzoni: «Rosamunda» di Vejvoda, «Camminando sotto la pioggia» di FrustaciMacario-Rizzo, «Non dimenticar (le mie parole)» di Bracchi-D’Anzi, «Pippo non lo sa» di KramerPanseri, «Un, due, tre (se marci insieme a me» di Castellano-Pipolo-Pisano, «Il geghegè» di
Canfora-Wertmuller); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Liliana Mancini; scg. Alberto Boccianti; arr.
Claudio Cinini; co. Milena Bonomo; d.pr. Francesco Campitelli; a.re. Romano Scandariato; i.p.
Salvatore Scarfone; s.ed. Vivalda Vigorelli; op. Sergio Martinelli; ass.op. Carlo Tafani; coreog. Gino
Landi; fo. Fiorenzo Magli; mix. Mario Morigi; tr. Massimo Giustini; par. Mara Rocchetti; interpreti:
Rita Pavone (Rita), Terence Hill [Mario Girotti] (prof. Giuliano Fineschi), Francis Blanche (cap. Hans
Vogel), Aroldo Tieri (mag. Kurt von Braun), Teddy Reno (il sacerdote), Giampiero Littera (Michele,
il cameriere), Jess Hahn (mag. Peter Hawkins), Michel Modo (attendente di Vogel), Mimmo Poli,
Claudio Trionfi. Produttore: Edmondo Amati per Fida Cin.ca (Roma), Les Productions Jacques
Roitfeld (Parigi); durata: 104’; incasso: £ 254.000.000.
ARRRIVA DORELLIK
Regia Steno; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Mario Capriotti (Technicolor); mus. Franco
Pisano (la canzone «Arriva la bomba» di Pisano-Castellano-Pipolo-Nohra è cantata da Johnny
Dorelli); mo. Ornella Micheli; ass.mo. Bruno Micheli, Maria Spera; scg. Arrigo Equini; co. Corrado
Colabucci; ass.co. Gabriella Pescucci; o.g. Daniele Micheletti; d.pr. Giorgio Baldi; pr.es. Anis Nohra;
a.re. Romano Scandariato; i.p. Albino Morandini, Carlo Vassalle; s.p. Angelo Saragò; amm.
Giuseppe Chevalier; s.ed. Marion Mertes; op. Silvano Mancini, Carlo Tafani; ass.op. Giovanni
Bonivento, Sergio Baldi; fo. Enzo Magli, Oscar De Arcangelis; mic. Manlio Urbani; tr. Amato
Garbini; par. Gabriella Borzelli; f.sc. Enrico Appetito; sarta: Anna Maria Tucci; eff.sp. Joseph
Nathansson; mix. Renato Cadueri; interpreti: Johnny Dorelli (Dorellik), Terry-Thomas (comm.
Green), Margaret Lee (Baby Eva), Alfred Adam (sergente Saval), Rossella Como (Barbara Leduc),
Riccardo Garrone (Vladimiro Dupont), Didi Perego (Gisèlle Dupont), Toto Mignone (Berthold
Dupont), Mimmo Poli (Gustavo Dupont), Piero Gerlini (Raphael Dupont), Samson Burke (l’ultimo
superstite dei Dupont), Agata Fiori (Carlotta, la segretaria), Consalvo Dell’Arti (il sindaco), Franco
Gulà, Emilia Della Rocca, Valentino Macchi. Produttore: Inter Jet Film, Mega Film (Roma); durata:
92’; incasso: £ 219.000.000.
1968
CAPRICCIO ALL’ITALIANA (episodio IL MOSTRO DELLA DOMENICA)
Regia Steno; sogg.e scen. Roberto Gianviti, Steno; dir.fot. Silvano Ippoliti (Technicolor); mus.
Ricky Gianco e Gianni Sanjust; mo. Adriana Novelli; scg. Mario Scisci; co. Giuliano Papi; arr.
Giorgio Herrmann; d.pr. Giorgio Morra e Giorgio Adriani; a.re. Mario Castellani; tr. Goffredo
Rocchetti; interpreti: Totò (l’anziano signore), Ugo D’Alessio (il commissario di P.S.), Regina
Seiffert (la ragazza), Dante Maggio (il brigadiere), Sandro Merli. Produttore: Dino De Laurentiis
Cin.ca; durata: 20’; incasso: £ 189.000.000.
Gli altri episodi sono Perché?, La gelosa (Mauro Bolognini), Che cosa sono le nuvole? (Pier Paolo
Pasolini), Viaggio di lavoro (Pino Zac e Franco Rossi).
1969
IL TRAPIANTO
Regia Steno; sogg. Nino Longobardi; scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Stefano Strucchi,
Raimondo Vianello, Steno; dir.fot. Carlo Carlini (Colorscope); mus. Gregor Segura dir.da Roberto
10
Pregadio; mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Franco Malvestito; scg. Alberto Boccianti; coll.scg.
Gianfrancesco Ramacci; co. Renato Beer; a.co. Daniela Lazzaretti; arch. Wolfgang Burmann; o.g.
Nello Meniconi; d.pr. Mario Basili; a.re. Mario Forges Davanzati; i.p. Pietro Innocenzi; amm. Walter
Massi; s.ed. Carlo Vanzina; op. Sergio Martinelli; ass.op. Marcello Carlini, Franco Frazzi; fo. Mario
Faraoni; mix. Mario Morigi; tr. Maurizio Giustini; par. Giancarlo Marin; interpreti: Carlo Giuffrè (il
barone siciliano), Renato Rascel (Dario), Graziella Granata (moglie del sindaco), Liana Trouché
(moglie di Dario), Roberto Camardiel, Rafael Alonso, Feodor Chaliapin (il miliardario impotente),
Fernando Bilbao, Richard Watson, Pino Patti, Adriana Facchetti, Carlo Rossi, Gabriella Giorgelli,
Vicente Roca, Sandro Dori, Gerlando Martelli, Renzo Marignano, Enrique Navarro, Carmelo
Finocchiaro, Malisa Longo, Maria Tasso, William Layton, Franca Sciutto, Gaetano Tomaselli,
Giovanni Cori, Karen Valenti, Vicente Soler, Pedro Sanchez Polac, Alberto Fogliani, Francesco
Leone. Produttore: Rizzoli Film (Roma), Prod. Cin.cas D.I.A. (Madrid); durata: 104’; incasso: £
683.000.000.
1971
COSE DI “COSA NOSTRA”
Regia Steno; sogg. Roberto Amoroso, Giulio Scarnicci, Steno; scen. Roberto Gianviti, Roberto
Amoroso, Steno, Aldo Fabrizi; dir.fot. Carlo Carlini (Eastmancolor); mus. Manuel De Sica dir.da
Roberto Pregadio; mo. Antonietta Zita; scg. Vincenzo Del Prato; o.g. Roberto Amoroso; interpreti:
Carlo Giuffrè (Salvatore Lococo), Pamela Tiffin (sua moglie, Carmela), Jean-Claude Brialy
(Domenico Gargiulo), Salvo Randone (Nicola o Nick Manzano), Vittorio De Sica (avv. Michele), Aldo
Fabrizi (comm.di P.S.), Agnes Spaak (amante di Manzano), Mario Feliciani (Calogero Bertuccione),
Angela Luce, Nino Vingelli (Pasquale, il barista), Fortunato Arena (un picciotto di Manzano), Mario
Brega, Nino Musco, Adelaide Moretti, Pier Luigi Zollo, Franca Dominici, Antonio La Raina.
Produttore: Roberto Amoroso per Ramo Film (Roma), P.A.C. Film (Parigi); durata: 93’; incasso:
IL VICHINGO VENUTO DAL SUD (t.fr. Comment épouser une suédoise)
Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci, Steno, Raimondo Vianello; dir.fot. Angelo Filippini
(Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «New Girl» è di Trovajoli-Pes-Nohra); mo.
Ruggero Mastroianni; ass.mo. Lea Mazzotti; scg. Pier Luigi Basile; arr.e co. Enrico Fiorentini; o.g.
Livio Maffei; ass.pr. Carlo Lastricati; a.re. Carlo Vanzina; ass.re. Ennio Marzocchini; i.p. Albino
Morandin e Riccardo Coccia; s.ed. Marion Mertes; op. Guglielmo Vincioni; ass.op. Carlo Poletti; fo.
Fiorenzo Magli; mic. Armando Janoda; tr. Franco Freda e Duilio Scarozza; par. Adalgisa Favella e
Maria Luisa Garbini; f.sc. Franco Vitale; amm. Paolo Lombardo; sarta: Angela Sponsali; interpreti:
Lando Buzzanca (Rosario Trapanese), Pamela Tiffin (Karen), Renzo Marignano (Marsen), Gigi
Ballista (Silvio Borolen), Steffen Zacharias (produttore di porno-film), Donatella Della Nora
(segretaria di Rosario), Dominique Boschero (Priscilla), Edda Ferronao (Annelise Jorgensen), Nino
Terzo (italiano in Danimarca), Kejeld Larsen Norgaard, Else Marie, Paul Kernan, Ennio Maiani, Rita
Forzano, Alessandro Figurelli, Victoria Zinny, Ada Pometti, Ferdie Mayne, Matilde Antonelli, Dante
Cleri, Ferruccio Fregonese, Gastone Pescucci. Produttore: Anis Nohra per International Film
Company; durata: 106’; incasso:
1972
LA POLIZIA RINGRAZIA (t.t. Das Syndicat/ t.lavor. Ipotesi del capo della Squadra Omicidi)
Regia Stefano Vanzina (Steno); sogg.e scen. Lucio De Caro, Steno; dir.fot. Riccardo Pallottini
(Technicolor); mus. Stelvio Cipriani; mo. Roberto Perpignani; ass.mo. Piera Gabutti, Maria Piera
Mari; scg.e arr. Nicola Tamburro; o.g. Marcello D’Amico; a.re. Mario Forges Davanzati; op. Luigi
Filippo Carta; ass.op. Dante Di Palma; fo. Piero Ortolani; mix. Franco Bassi; eff.sp. Luciano
Anzelotti; mo.f. Roberto Arcangeli; tr. Lamberto Marini; par. Ilda Gilda De Guilm; uff.st. Enrico
Lucherini, Margherita Rossetti, Matteo Spinola; interpreti: Enrico Maria Salerno (commissario
Bertone), Mariangela Melato (Sandra), Mario Adorf (sostituto procuratore Ricchiuti), Franco Fabrizi
(Bettarini), Cyril Cusack (ex-questore Stolfi), Laura Belli (Anna Maria Sprovieri), Jurgen Drews,
Corrado Gaipa (avv.Armani), Giorgio Piazza, Ezio Sancrotti (comm.Santalamenti), Pietro Tiberi,
Diego Reggente, Ada Pometti, Sergio Serafini, Fortunato Cecilia, Ferdinando Murolo (caposquadra
Anonima), Gianfranco Barra (agente Esposito), Romualdo Buzzanca, Giovanna Di Vito, Riccardo
Mangano, Giovanni Solari, Gianni Solaro, Franz Treuberg, Valentino Macchi (operatore radio),
Luciano Bonanni (Raf Valenti). Produttore: Roberto Infascelli per Primex Italiana (Roma), Dieter
Geissler Filmproduktion (Monaco); durata: 99’; incasso: £ 1.700.000.000
L’UCCELLO MIGRATORE (t.fr. Elles sont dingues, ces nénettes)
Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello; dir.fot. Ennio Guarnieri
(Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Nadia Moscovini;
sup.mo. Ruggero Mastroianni; scg. Gianni Polidori; arr. Lorenzo Baraldi, Massimo Tavazzi; co. Gaia
Romanini; ass.co. Anna Donati; d.pr. Dino Di Salvo; a.re. Enrico Vanzina; s.ed. Maria Grazia
11
Eminente; i.p. Enzo Nigro; s.p. Paolo Vandini; op. Emilio Loffredo; ass.op. Giulio Battiferri,
Giuseppe Fornari; fo. Massimo Jaboni; tr. Nilo Jacoponi; par. Giancarlo De Leonardis; a.tr. Giulio
Mastrantonio; f.sc. Antonio Benetti; interpreti: Lando Buzzanca (prof. Pomeraro), Rossana Podestà
(prof.ssa Delia Benetti), Gianrico Tedeschi (on. Pomeraro), Dominique Torrent, Paolo Cardoni,
Sandro Dionisi, Pia Velsi (madre di Delia), Ignazio Leone (commissario di polizia), Christian Thorn.
Produttore: Medusa Distribuzione; pr.es. Renato Jaboni; durata: 102’; incasso: £ 189.000.000.
IL TERRORE CON GLI OCCHI STORTI
Regia Steno; sogg. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello; scen. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello,
Steno; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone
«Fortuna sì, fortuna no» di F.Tozzi-G.e M. De Angelis è cantata da Enrico Montesano); mo. Tatiana
Casini Morigi; ass.mo. Liliana Mancini; scg. Alberto Boccianti; a.re. Mario Forges Davanzati; op. Elio
Polacchi; sc.acrob. Sergio Mioni; mix. Mario Morigi e Gianni D’Amico; interpreti: Enrico Montesano
(Mino Orlandi), Alighiero Noschese (Giacinto Puddu), Francis Blanche (commissario Pigna), Isabella
Biagini (Mirella Trombetti), Lino Banfi (agente Magli), Maria Baxa (Margaretha), Francesco Mulè (il
questore), Daniele Vargas (Josè), Umberto Raho (l’assassino), Valentino Macchi (speaker TV), Nello
Pazzafini (Ivan), Mimmo Poli (barman al party), Luca Sportelli (portinaio), Gastone Pescucci,
Isabelle Marchal, Ada Pometti, Lino Coletta, Sergio Serafini, Dino Curcio. Produttore: Dino De
Laurentiis per Inter.Ma.Co. (Roma), Universal Production France (Parigi); durata: 97’; incasso:
1973
ANASTASIA MIO FRATELLO (IL PRESUNTO CAPO DELL’ANONIMA ASSASSINI)
Regia Stefano Vanzina; sogg.liberamente ispirato dal libro di Salvatore Anastasia; scen. Sergio
Amidei, Alberto Sordi, Alberto Bevilacqua; dir.fot. Sergio D’Offizi (Eastmancolor); mus. Piero
Piccioni, coro dei Cantori Moderni dir.da Alessandro Alessandroni (la canzone «Feeling Low Blues»
di P.Piccioni è cantata da Shawn Robinson; mo. Raimondo Crociani; co. Bruna Parmesan; d.pr.
Romano Dandi; a.re. Enrico Vanzina; op. Enrico Lucidi; ass.op. Sandro Melaranci; fo. Domenico
Dubbini; mix. Mario Amari; interpreti: Alberto Sordi (Salvatore Anastasia), Richard Conte (Alberto
Anastasia), Eduardo Fajeta (Sonny Boy),Luciano Pigozzi (Pasquale), Thomas Chu (il cinese), Franco
Angrisano (commissario De Felice), Fjodor Chaliapin (Frank Costello), Maria Tedeschi, Ugo Carboni,
Mary Dolan, Enzo Monteduro, Umberto Taravagli, Nello Caruso, Joseph Anile, Henry Ferrentino,
Aldo Bonamano, Giuseppe Caracciolo, Mario Cecchi, Peter Clune, Rick Colitti, Ubaldo Granata,
Filippo Laurentino. Produttore: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; durata: 118’; incasso: £
1.113.000.000.
PIEDONE LO SBIRRO (t.fr. Un flic hors-la-loi/t.te. Sie Nannten ihn Plattfuss)
Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco; scen. Lucio De Caro; dir.fot. Silvano
Ippoliti (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Daniele Alabiso; ass.mo. Rita
Triunveri, Brigida Mastrolillo; scg. Carlo Leva; co. Luciano Sagoni; a.scg. Nicola Losito; d.pr. Bruno
Altissimi, Alfredo Melidoni (seconda troupe a Napoli); a.re. Guglielmo Giarda; op. Vittorio Biferale,
Francesco Manco (2° troupe a Napoli); s.ed. Adolfo Dragone; op. Enrico Sasso; ass.op. Enrico
Doria, Maurizio Santi; m.armi Giorgio Baldi; fo. Angelo Amatulli; mix. Danilo Moroni; eff.so.
Marinelli; c.sq.acrobati Sergio Mioni; tr. Luciano Giustini, Marcello Meniconi; par. Fausto De Lisio;
amm. Walter Massi; eff.sp. Eros Baciucchi; f.sc. Giorgio Garibaldi Schwartze; interpreti: Bud
Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Adalberto Maria Merli (commissario capo Tabassi),
Angelo Infanti (Ferdinando Scarano, ‘o barone),Raymond Pellegrin (avv. De Ripis), Juliette Maynel
(Maria), Mario Pilar (Antonio Percuoco detto “Manomozza”), Enzo Cannavale (brigadiere Caputo),
Jo Jhekins (John, marinaio negro), Nino Vingelli (capocamorra), Vittorio Duse (capo polizia con
l’ufficiale U.S.A.), Enzo Maggio (Gennarino), Ester Carloni (la sigaraia), Dominic Barto (Tom
Ferramenti) Salvatore Morra, Franco Angrisano, Carla Mancini, Alessandro Perrella, Luciano
Tacconi. Produttore: Sergio Bonotti per Mondial Te.Fi. (Roma), C.A.P.A.C. (Parigi); durata: 110’;
incasso:
1974
LA POLIZIOTTA
Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Nicola Badalucco, Giuseppe Catalano; scen.
Sergio Donati, Luciano Vincenzoni; dir.fot. Alberto Spagnoli (Technicolor); mus. Gianni Ferrio (il
brano «la Cumparsita» è di Velzaquez); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco Malvestito;
a.ass.mo. Adelchi Marinangeli; scg. Luigi Scaccianoce; a.scg. Paolo Biagetti; co. Enrico Sabbatini;
ass.co. Giovanni Viti; arr. Bruno Cesari; o.g. Jone Tuzi; a.re. Enrico Vanzina; i.p. Gino Santarelli;
s.ed. Lodovico Gasparini; s.p. Paola Surdi; op. Emilio Loffredo; ass.op. Gianni Fiore, Sandro Rubeo;
fo. Carlo Palmieri; mic. Alvaro Orsini; mix. Danilo Moroni; tr. Otello Fava; a.tr. Mario Scutti; par.
Luciano Vito; amm. Maurizio Anticoli; cas. Piero Innocenzi; f.sc. Claudio Patriarca; uff.st. Francesca
De Russis; interpreti: Mariangela Melato (Gianna Abbastanzi), Orazio Orlando (pretore Ruggero
12
Patanè), Mario Carotenuto (Barcellini, cap. dei vigili urbani), Alberto Lionello (assessore Tarcisio
Monti), Renato Pozzetto (Claudio Ravazzi), Armando Brancia (sen. Giuseppe Brembati), Renato
Scarpa (dott. Camillotti, il farmacista), Gianfranco Barra, Umberto Smaila (figlio di Brembani), Gigi
Ballista (avvocato), Alvaro Vitali (vigile Fantuzzi), Pia Velsi
(madre di Gianna), Giuseppe
Castellano, Lorenzo Logli, Antonietta Esposito, Umberto Travagli, Giuseppe Caracciolo, Orazio
Stracuzzi, Ugo Pace, Luigi Perrella, Gianni Solaro (procuratore della Repubblica). Produttore: Carlo
Ponti per Compagnia Cin.ca Champion; durata: 99’; incasso:
Premio David di Donatello (ex-aequo) come miglior attrice protagonista a Mariangela Melato (1975)
1975
PIEDONE A HONG-KONG (t.fr. Le cogneur/t.te. Plattfuss raumt auf)
Regia Steno; sogg. Lucio De Caro; scen. Lucio De Caro, Franco Verucci, Steno; dir.fot. Giuseppe
Ruzzolini (Eastmancolor-Technicolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «The last of
love» di Dandilion-Brenton è cantata da Phantom); mo. Mario Morra; ass.mo. Adelchi Marinangeli,
Maria Luisa Mengoli; arch. Piero Filippone, Giancarlo Pucci; scg. Elio Micheli; ass.scg. Nicola Losito;
co. Luciano Sagoni; arr. Riccardo Domenici; o.g. Lucio Bompani; d.pr. Alfredo Melidoni; a.re. Enrico
Vanzina, Beppe Cino; ass.re. Lodovico Gasparini; i.p. Vittorio Biferale; s.p. Francesco Manco,
Arduino Mercuri; s.ed. Adolfo Dragone; op. Alessandro Ruzzolini; ass.op. Claudio Sabatini, Emilio
Bestetti; fo. Mario Bramonti; eff.so. Renato Marinelli; m.armi Giorgio Ubaldi; tr. Luciano Giustini;
par. Fausto De Lisio; f.sc. Giorgio Garibaldi Schwartze; amm. Walter Massi; cass. Walter Zoi;
interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Daygolo (Yoko), Al Lettieri (Frank
Barella), Robert Webber (Sam Accardo, del Narcotic Bureau), Enzo Cannavale (vicecommissario
Caputo), Renato Scarpa (commissario capo Morabito), Francesco De Rosa (“Mani d’oro”), Enzo
Maggio (Gennarino), Dominic Barto (Tom Ferramenti), Roberta Paladini (zingara), Jo Jhenkins
(marinaio americano), Eduardo Fajeta (Willie Pastrone), Nancy Sit (Makiko, detta “Canna di
Bambù”), Chaplin Chang, Roberto Dell’Acqua, Claudio Ruffini, Ken Chaic, Lino Puglisi, Francesco
D’Adda. Produttore: Sergio Bonotti per Mondial Te.Fi.; durata: 115’; incasso: £ 1.008.000.000.
IL PADRONE E L’OPERAIO (t.te. Der Kleine mit dem dicken Hammer)
Regia Steno; sogg.e scen. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati; dir.fot. Luigi Kuveiller
(Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio (la canzone «La ventosa» di F.Calabrese-R.Pozzetto-C.PonzoniG.Ferrio è cantata da Cochi e Renato); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco Malvestito; a.mo.
Stefano Testa; scg. Gianni Polidori; co. Enrico Sabbatini; ass.co. Nadia Vitali; arr. Massimo Razzi;
o.g. Jone Tuzi; a.re. Enrico Vanzina; i.p. Gino Santarelli; s.p. Paola Surdi; s.ed. Ludovico
Gasparini; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Nino Annunziata, Antonio Tonti; fo. Carlo Palmieri; mic.
Pietro Fondi; mix. Danilo Moroni; tr. Mario Scutti; par. Ada Palombi; amm. Maurizio Anticoli, Pietro
Innocenti; f.sc. Claudio Patriarca; interpreti: Renato Pozzetto (Gianluca Tosi, detto Giangi), Teo
Teocoli (Luigi Carminati), Francesca Romana Coluzzi (Maria Luce Balestrazzi Tosi), Loris Zanchi
(comm. Balestrazzi), Gianfranco Barra (vicino di casa di Luigi), Gillian Bray (“Gigante Buono”,
l’amante di Giangi), Eva Maria Gabriel (amica di Maria Luce), Walter Valdi (dott.Bauer), Edda
Ferronao (sua moglie), Loredana Bertè (Maria Grazia Varigotti), Alena Penz, Aldo Rendine, Paola
Maiolini, Giancarlo Alessandri, Guido Nicheli, Barbara Maimone, Anna Maria Rizzoli (Violante),
Renato Pruscella, Anna Maria Prando, Laura Romano, Daniele Gallina, Sergio Farioli, Dino
Emmanuelli. Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion; durata: 105’; incasso: £
430.000.000.
1976
L’ITALIA S’E’ ROTTA
Regia Steno; sogg.e scen. Sergio Donati, Luciano Vincenzoni, Steno da un’idea di Giulio Questi;
dir.fot. Aldo Tonti (Technicolor); mus. Enzo Jannacci; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Stefano
Testa; arr. Riccardo Domenici; ass.co. Cristina Lafayette; a.re. Massimo Carocci; i.p. Gino
Santarelli; s.p. Barbara Berni; s.ed. Maria Giuseppina De Simone; op. Luciano Tonti; ass.op.
Antonio Annunziata, Enrico Priori; fo. Alvaro Orsini; mic. Roberto Pettini; tr. Mario Scutti; par.
Gerardo Raffaeli; amm. Maurizio Anticoli, Pietro Innocenzi; f.sc. Giulio Claudio Patriarca; sarta
Maria Zara; c.s.m. Giulio Diamanti; c.s.e. Pietro Simoni; attr. Giancarlo Rocchetti; mix. Danilo
Moroni; interpreti: Dalila Di Lazzaro (Domenica Chiavegato), Teo Teocoli (Peppe Zuzzolino), Mario
Scarpetta (Antonio Mancuso), Mario Carotenuto (cav. Amedeo Zerolli), Alberto Lionello (lo
scultore), Franca Valeri (contessa Giovanna), Enrico Montesano (il rapinatore romano), Duilio Del
Prete (il censore), Orazio Orlando (il maestro Oronzo), Clelia Matania (madre di Peppe), Carla Calò
(madre di Antonio), Loris Bazzocchi (trafficante di droga), Sergio Di Pinto (figlio di Zerolli), Marisa
Laurita (Rosalia, sorella di Antonio), Armando Marra (Scognamiglio), Barbara Herrera (sig.ra
Pautasso), Giovanni Pallavicino (capofamiglia), Marcello Alessandri. Produttore: Franco Caramelli,
Gianfranco Lastrucci per Splendid Pictures; durata: 102’; incasso: £ 476.000.000.
13
FEBBRE DA CAVALLO (t.fr. Fièvre de cheval)
Regia Steno; sogg. Massimo Patrizi; scen. Alfredo Giannetti, Steno, Enrico Vanzina; dir.fot. Emilio
Loffredo (Technospes); mus. Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera (motivo della canzone «Il
tango delle capinere» di B.Cherubini-C.A.Bixio); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco
Malvestito; scg. Franco Bottari; co. Bruna Parmesan; d.pr. Lucio Orlandini; a.re. Lodovico
Gasparini; i.p. Egidio Valentini; s.p. Paolo Bistolfi; s.ed. Vittoria Vigorelli; op. Gianni Fiore; fo.
Giorgio Pallotta; mix. Romano Checcacci; tr. Gloria Granati; par. Vittoria Silvi; f.sc. Pino Di Cola;
interpreti : Luigi Proietti (Bruno Fioretti, detto “Mandrake”), Enrico Montesano (Armandino Felici,
detto “Pomata”), Catherine Spaak (Gabriella), Mario Carotenuto (avv. De Marchis), Adolfo Celi
(presidente tribunale), Francesco De Rosa (Felice Rovesi), Maria Teresa Albani (Mafalda), Gigi
Ballista (conte Dallara), Marina Confalone (sorella di Armandino), Luciano Bonanni (infermiere),
Ennio Antonelli (Otello Rinaldi, detto “Manzotin”), Nerina Montagnani (nonna di Armandino), Renzo
Ozzano (Jean-Louis Rossini), Fernando Cerulli (attore), Giuseppe Castellano (Stelvio), Franca
Scagnetti (passeggera treno), Niki Gentile, Gianfranco Cardinali Castellano, Fulvia Pellegrino, Elena
Magoia, Maria Luisa Traversi, Valentino Simeoni. Produttore: Roberto Infascelli per Primex Italiana;
durata: 89’; incasso: £ 209.000.000.
1977
TRE TIGRI CONTRO TRE TIGRI
Regia Steno e Sergio Corbucci; sogg.e scen. Mario Amendola, Castellano e Pipolo, Sergio Corbucci,
Mino Guerrini, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Enrico Vanzina; dir.fot. Marcello Gatti, Emilio
Loffredo (Technicolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Amedeo Salfa; scg. Mario
Ambrosino, Andrea Crisanti; ass.scg. Giorgio Lazzeri, Vincenzo Medusa; co. Bruna Parmesan; o.g.
Raimondo Castelli; d.pr. Egidio Valentini; a.re. Gianni Manganelli, Ferdinando C. Bozzo Monaco; i.p.
Ermes Gallitti; s.p. Paolo Basile; s.ed. Vittoria Vigorelli, Daniela De Silva; op. Gianni Fiore, Otello
Spila, Gaetano Valle; ass.op. Roberto Locci, Sandro Rubeo, Claudio Tommasi; fo. Giorgio Pallotta;
mic. Manlio Urbani, Alfonso Montesanti; par. Armenio Marroni; f.sc. Pier Luigi Pratulon; interpreti:
primo episodio: Renato Pozzetto (Don Cimbolano), Cochi Ponzoni (padre Joe Martini), Kirsten Gille
(Diana, sua moglie), Ester Carloni (la perpetua), Ugo Bologna (Bkrsetti, il sindaco), Massimo Boldi
(Romeo), Gabriella Giorgelli (la barista), Renzo Ozzano (il capostazione); secondo episodio: Enrico
Montesano (Oscar Bertoletti), Dalila Di Lazzaro (l’attrice nel ruolo della contessa Lucrezia Marini),
Giuseppe Anatrelli (l’attore nel ruolo del conte Rodolfo Peppino Marini di Lampedusa), Nanni Loy
(se stesso), Piero Gerlini (commissario di Polizia), Paola Arduini (l’attrice, nel ruolo dell’istitutrice
tedesca), Franco Giacobini (l’attore, nel ruolo di Luigino); terzo episodio: Paolo Villaggio (avv.
Scorsa), Anna Mazzamauro (Giada Nardi), Daniele Vargas (avv. Berchielli), Renzo Marignano
(Lorenzo, marito di Giada), Dino Emanuelli (avv. Dal Pino), Ferruccio Amendola (addetto alla torre
di controllo). Produttore: Roberto Infascelli e Fulvio Lucisano per Primex Italiana, Italian
International Film; durata: 115’; incasso: £ 1.089.000.000.
DOPPIO DELITTO (t.fr. Enquete à l’italienne)
Regia Steno; sogg.dal romanzo Doppia morte al governo vecchio di Ugo Moretti; adatt. Age,
Scarpelli, Steno; scen. Age, Scarpelli dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo.
Antonio Siciliano; ass.mo. Anna Napoli, Luigi Guarini; o.g. Paolo Infascelli; d.pr. Egidio Valentini;
scg.e co. Mario Ambrosino (co. Ursula Andress: Luca Sabatelli); ass.co. Nadia Vitali; arr. Arrigo
Breschi; ass.arr. Mauro Panni; a.re. Ludovico Gasparini, Luis Pitzele; i.p. Ermes Gallitti; cass. Giulio
Cestari; s.p. Paolo Basile; s.ed. Vivalda Vigorelli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Nino Annunziata; fo.
Giorgio Pallotta; mix. Romano Checcacci; mic. Maurizio Merli; tr. Giuseppe Banchelli, Franco
Corridoni, Franco Schioppa; par. Gilda De Guilm; f.sc. Giovanni Vino; eff.so. Luciano Anzellotti;
c.s.m. Sergio Emidi; c.s.e. Sergio Coletta; attr. Adriano Tiberi; interpreti: Marcello Mastroianni
(commissario Bruno Baldassarre), Ursula Andress (principessa Anna Dell’Orso), Agostina Belli
(Teresa Colasanti), Peter Ustinov (Harry Hellman), Jean-Claude Brialy (Van Nijlen), Mario Scaccia
(Marino Cianciarelli, detto “Sorcio”), Gianfranco Barra (brigadiere Cantalamessa), Giuseppe
Anatrelli (Carrù), Serge Frederic (Melzio), Jean Patrick Junoy (Alex), Luigi Zerbinati (il debosciato),
Angelo Monte (Daniele Baldassarre), Massimiliano Monte (Daniele bambino), Francesco Infantino
(proprietario ristorante), Luciano Bonanni (il domestico), Caterina Dalin (Edith), Angelo Piazza
(cardinale), Nando Paone (direttore d’orchestra), Paola Orefici, Antonio Spinato. Produttore:
Roberto Infascelli per Primex Italiana (Roma), P.E.C.F. (Parigi); durata: 105’; incasso: £
450.000.000.
1978
PIEDONE L’AFRICANO (t.fr. L’inspecteur Bulldozer/t.te. Plattfuss in Africa)
Regia Steno; sogg. Franco Verucci; scen. Adriano Bolzoni, Giovanni Simonelli, Franco Verucci,
Rainer Brandt; dir.fot. Alberto Spagnoli (Vistavision); mus. Guido e Maurizio De Angelis (il brando
«Freedom» di Dandylion-De Natale-G.e M. De Angelis è eseguito dal gruppo Charange); mo. Mario
14
Morra; ass.mo. Carlo Bartolini, Ilona Dalmann; a.mo. Adelchi Maringeli, Mario Recupito; scg. Bruno
Cesari; ass.scg. Luciana Vasile; co. Luciano Sagoni; d.pr. Franco Cirino, Alfredo Mirabile; a.re. Neri
Parenti; ass.re. Thomas Franke; i.p. Bruno Biferale, Anselmo Parrinello; s.p. Paolo Vasile; s.ed.
Marina Mattoli; op. Giuseppe Maccari, Giorgio Di Battista (2° unità); ass.op. Hans Khule jr., Mauro
Marchetti, Wolfgang Weisner, Carlo M.Montuori; m.armi Giorgio Ubaldi; fo. Max Galinsky, Giorgio
Pallotta; mix. Luciano Muratori; amm. Roberto Luvisotti; f.sc. Gianfranco Salis; tr. Luciano Giustini,
Giovanni Morosi; par. Fausto De Lisio; c.s.m. Giacomo Tomaselli; c.s.e. Sante Federici; attr.
Luciano D’Achille; eff.sp. Giovanni Corridori; sarta Isa Cristofori; interpreti: Bud Spencer
(commissario Rizzo, detto ”Piedone”), Enzo Cannavale (Caputo), Dagmar Lassander (Maggie
Connors), Werner Pochat (Spiros), Joe Stewardson (Clay Smollet), Baldwin Dakile (Bodo), Giovanni
Cianfriglia (malvivente in autobus), Karel Trichard, Desmond Thompson, Antonio Allocca, Giancarlo
Bastianoni, Franco Cirino, Giorgio Cerioni, Ester Carloni, Rita Herles, Carlo Reali, Benito Pacifico,
Omero Capanna, Ottavio Dell’Acqua, Claudio Ruffini, Sergio Smacchi, Marco Stefanelli, Rinaldo
Zamperla. Produttore: Laser Film (Roma), Rialto Film (Berlino); durata: 115’; incasso: £
1.097.000.000
AMORI MIEI
Regia Steno; sogg.e scen. Iaia Fiastri dalla sua commedia musicale; dir.fot. Franco Di Giacomo
(Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (le canzoni «School Boy Crash» e «Deborah» di
A.Trovajoli-D.Meakin-M.Fraser sono cantate dai Crossbow); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia
Pascolini; a.ass.mo. Elvira Zincone; scg. Giantito Burchiellaro; co. Nicoletta Ercole; arr. Giovanni
Natalucci; o.g. Bruno Altissimi; d.pr. Giorgio Scotton; a.re. Neri Parenti; i.p. Nereo Salustri; s.p.
Rossella Angeletti; a.s.p. Ettore Salustri; amm. Claudio Saraceni; s.ed. Maria Pia Rocco; op.
Giorgio Di Battista; ass.op. Francesco Gagliardini, Stefano Coletta; fo. Vittorio Massi; mic. Roberto
Forrest; tr. Giancarlo Del Brocco; par. Rina Conversi; f.sc. Roberto Russo; interpreti: Monica Vitti
(Annalisa Rossi), Enrico Maria Salerno (prof. Antonio Bianchi), Johnny Dorelli (Marco Rossi), Edwige
Fenech (Deborah). Produttore: Franco Cristaldi, Nicola Carraro per Vides Cin.ca; durata: 100’;
incasso: £ 1.848.000.000 (secondo nella classifica dei film italiani più visti dopo Il vizietto di
Edouard Molinaro).
Premio David di Donatello come miglior attrice protagonista a Monica Vitti (1979)
1979
DOTTOR JEKYLL E GENTILE SIGNORA
Regia Steno; sogg.da un’idea di Castellano e Pipolo, liberamente ispirata al racconto di
R.L.Stevenson; sogg.e scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Steno; coll.scen. Gianni Manganelli;
dir.fot. Ennio Guarnieri, Sergio Salvati; mus. Armando Trovajoli (la canzone «Mr.Jekyll and
Mr.Hyde» di M.Fraser-Dandylion-A.Trovajoli-R.Serio è cantata da Mr.Hyde); mo. Raimondo
Crociani; ass.mo. Pina Triunveri; scg. Luciano Spadoni; co. Maria Rosaria Crimi, Elisabetta
Poccioni; arr. Massimo Tavazzi; d.pr. Carlo Bartolini; a.re. Gianni Manganelli; i.p. Lamberto
Palmieri; s.p. Lucia Nolano; s.ed. Marina Mattoli; amm. Leonardo Curreri; op. Renato Ranieri;
ass.op. Antonio Scaramuzza, Maurizio Lucchini; fo. Franco Borni, Massimo Jaboni; tr. Gianfranco
Mecacci, Franco Schioppa; par. Mirella Ginnoto, Sergio Gennari; mix. Bruno Moreal; f.sc. Francesco
Narducci; ass.dopp. Marcello Prando; interpreti: Paolo Villaggio (dr.Jekyll/Mr.Hyde), Edwige Fenech
(Barbara), Gianrico Tedeschi (Jeeves, il maggiordomo), Gordon Mitchell (Pretorius), Paolo Paoloni
(direttore stabilimento chimico), Geoffrey Copleston (membro P.A.N.T.A.C.), Guerrino Crivello, Eolo
Capritti, Paola Arduini (la segretaria), Franco Anniballi, Clemente Ukmar, Walter Wright Williams.
Produttore: Medusa Distribuzione; pr.es. Renato Jaboni; durata: 107’; incasso: £ 427.000.000.
LA PATATA BOLLENTE
Regia Steno; sogg. Giorgio Arlorio; scen. Giorgio Arlorio, Enrico Vanzina, Steno; dir.fot. Emilio
Loffredo (Technicolor); mus. Totò Savio (la canzone «Tango diverso» di T.Savio-Casella è cantata
da Tamara); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Graziella Zita; a.mo. Loretta Mattioli; scg. Mauro
Passi; co. Silvio Laurenzi; d.pr. Elio Saroli; deleg.pr. Paolo Infascelli; a.re. Massimo Carocci; i.p.
Hermes Gallitti; s.p. Luigi Patrizi; s.ed. Marina Mattoli; op. Massimo Di Venanzo; ass.op. Sandro
Rubeo; fo. Giorgio Pallotta; mix. Danilo Moroni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Franco Schioppa; par.
Ilda Gilda De Guilm; f.sc. Roberto Nicosia Vinci; ediz. Elio Vani; interpreti: Renato Pozzetto
(Bernardo Mambelli, detto “Gandhi”), Edwige Fenech (Maria), Massimo Ranieri (Claudio), Mario
Scarpetta (Walter), Clara Colosimo (Elvira, la portinaia), Luca Sportelli (Pietro, il marito), Sergio
Ciulli (Meravigli), Adriana Russo (amica di Maria), Loris Bazzocchi (un operaio), Dario Ghirardi,
Margherita Giacomelli, Nazzareno Natale (altro operaio), Emilio Leoni (direttore generale fabbrica),
Umberto Raho (medico), Enzo Rossi, Alberto Squillante (altri operai), Giorgio Vignali. Produttore:
Achille Manzotti per Irrigazione Cin.ca; durata: 100’; incasso: £ 1.600.000.000.
15
1980
PIEDONE D’EGITTO (t.fr. Pied-platt sur le Nil/t.ted. Plattfuss am Nil)
Regia Steno; sogg. Adriano Bolzoni; scen. Adriano Bolzoni, Massimo Franciosa, Steno; dir.fot. Luigi
Kuveiller (Technospes); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «Sphinx» di De NataleG.Lane- G.e M. De Angelis è cantata dal complesso Sunrise); mo. Mario Morra; ass.mo. Carlo
Bartolini; a.mo. Daniela Bonotti, Vincenzo Di Santo, Adelchi Marinangeli; scg. Enzo Bulgarelli;
a.scg. Stefano Bulgarelli, Nicola Losito; arr. Osvaldo Desideri; co. Luciano Sagoni; d.pr. Lucio
Bompani; a.re. Massimo Carocci; i.p. Vittorio Biferale, Arduino Mercuri, Ennio De Mejo, Franco
Manco; s.ed. Marina Mattoli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Renato Palmieri; a.op. Aldo Marchiori; fo.
Mario Bramonti; mic. Luciano Muratori; mix. Danilo Moroni; m.armi Giorgio Ubaldi; tr. Luciano
Giustini; par. Fausto De Lisio; f.sc. Sandro Borni; eff.so. Roberto Arcangeli; eff.pirotecnici Enrico
Pinto; interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Enzo Cannavale (brigadiere
Caputo), Angelo Infanti (Hassan), Cinzia Monreale (Connie Burks), Robert Loggia (Edward Burks),
Baldwin Dakile (Bodo), Leopoldo Trieste (prof. Coriolano Cerullo), Karl Otto Alberty (“Condor”, lo
svedese), Venantino Venantini (Ferdinando Ruotolo), Ester Carloni (sigaraia), Mimmo Poli
(passeggero in aereo), Giovanni Cianfriglia (complice di Ruotolo), Adel Adam (Zakar), Mahamud
Kabil. Produttore: Merope Film; durata: 107’; incasso: £ 890.000.000.
FICO D’INDIA
Regia Steno; sogg.e scen. Sandro Continenza, Raimondo Vianello; dial. Steno, Enrico Vanzina,
Renato Pozzetto; dir.fot. Carlo Carlini (Telecolor); mus. Giancarlo Chiaramello; mo. Raimondo
Crociani; scg. Paola Comencini; co. Silvio Laurenzi; o.g. Paolo Infascelli; d.pr. Elio Saroli; a.re.
Massimo Carocci; interpreti: Renato Pozzetto (Lorenzo Millozzi), Aldo Maccione (Ghigo Buccini),
Gloria Guida (Lia Millozzi), Diego Abatantuono (il capo delle belve), Daniele Formica (il cronista),
Licinia Lentini (amica di Ghigo), Luca Sportelli (Don Eusebio), Angelo Pellegrino (segretario di
Millozzi), Jimmy il Fenomeno (Arturo Brambilloni), Daniele Vargas, Nestor Garay, Dario Ghirardi,
Renato Montalbano, Giulio Massimini, Loredana Martinez, Sandro Ghiani. Produttore: Achille
Manzotti per Intercontinental Film Company; durata: 93’; incasso:
1981
QUANDO LA COPPIA SCOPPIA
Regia Steno; sogg. Enrico Montesano; scen. Ottavio Iemma, Gianfranco Manfredi, Stefano Vanzina;
dir.fot. Luigi Kuveiller (Telecolor); mus. Piero Umiliani; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Wanda
Olasio, Roberto Puglisi; scg.arr. Francesco Bronzi; co. Ezio Altieri; o.g. Raimondo Castelli; d.pr.
Eros Lafranconi; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Patrizia Zulini; i.p. Giancarlo Montesano; amm.
Sergio Giussani; cass. Anna Maria Novelli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio Annunziata;
a.ass.op. Alessandro Donatone; fo. Rocco Roy Mangano; mic. Benito Alchimede; tr. Vittorio Biseo,
Maria Cristina Rocca; parr. Luciano Vito; f.sc. Enzo Falessi; c.s.e. Sergio Coletta. c.s.m. Sergio
Emidi; sarta Orsola Liberati; interpreti: Enrico Montesano (Enrico Granata), Dalila Di Lazzaro
(Rossana), Claude Brasseur (Piergiorgio Funari), Lia Tanzi (Angela), Giorgio Bracardi (vicino di
Enrico), Gigi Reder, Daniela Poggi, Ugo Bologna, Piero Benedetti, Franco Caracciolo, Giovanni
Vannini, Marta Zoffoli (Anna); Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film (Roma),
Tarak Ben Ammar per Carthago Film (Parigi); durata: 95’. Incasso: £ 643.000.000.
TANGO DELLA GELOSIA
Regia Steno; sogg.dalla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti; scen. Steno,
Enrico Vanzina; dir.fot. Giorgio Di Battista (Eastmancolor-Technicolor); mus. Gianni Mazza; mo.
Raimondo Crociani; ass.mo. Wanda Olasio, Roberto Puglisi. scg. Giantito Burchiellaro; co. Bruna
Parmesan; arr. Giovanni Natalucci; d.pr. Paolo Vasile; a.re Massimo Carocci; i.p. Hermes Gallippi;
s.p. Francesco Anniballi; s.ed. Daniela Tonti; amm. Roberto Luisotti jr.; op. Giovanni Maddaleni;
ass.op. Carlo Milani, Renato Palmieri; fo. Carlo Palmieri; mic. Maurizio Merli; tr. Giancarlo Del
Brocco; parr. Rita Innocenzi; f.sc. Francesco Bellomo; sarte Lamberta Balducci, Giuliana
Mascelloni; c.s.m. Teodoro Memè; c.s.e. Gaetano Coniglio; grupp. Amedeo Leurini; interpreti:
Monica Vitti (Lucia), Diego Abatantuono (Diego), Philippe Leroy (Giulio), Jenny Tamburi (Nunzia),
Tito Leduc (Paul), Roberta Lerici, Gianfranco Principe, Giovanni Febbraro, Giulio Massimini,
Salvatore Jacono, Martufello. Produttore: Laser Film e Ypsilon Cin.ca; durata: 98’; incasso: £
743.000.000.
1982
DIO LI FA POI LI ACCOPPIA
Regia Steno; sogg. Bernardino Zapponi; scen. Bernardino Zapponi, Enrico Vanzina; dir.fot. Sandro
D’Eva (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio (la canzone «Dio c’è» di Pallavicini-Mescoli-Dorelli è
cantata da Johnny Dorelli); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Emita Frigato, Lidia Pascolini; a.mo.
Luciana Nusca; scg.arr. Giuseppe Mangano; a.scg. Antonio Tarolla; co. Silvio Laurenzi; d.pr. Gino
16
Santarelli; a.re. Massimo Carocci; i.p. Rossella Angeletti; op. Angelo Lannutti; s.p. Mario Cecchin;
s.ed. Roberto Giandalia; amm. Roberto Mezzaroma, Marcello Nusca; fo. Vittorio Massi; mix. Danilo
Moroni; tr. Giulio Mastrantonio; par. Vitaliana Patacca; c.s.m. Umberto Torriero; c.s.e. Francesco
Pandolfi; interpreti: Johnny Dorelli (Don Celeste), Lino Banfi (Dario), Marina Suma (Paola),
Venantino Venantini (Occhipinti), Giuliana Calandra (Clara), Franco Caracciolo (omosessuale
olandese), Franco Bracardi (sindaco), Mimmo Poli (tassista), Max Turilli (un testimone oculare),
Marilena Di Benedetto, Carlo Demi (il giudice), Anna Maria Giordano, Adriana Giuffrè, Graziella
Polesinanti, Raffaello Mitti, Giovanna Ribotta, Enzo Rinaldi, Vincenzo Tripodi, Loris Zanchi.
Produttore: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 97’; incasso: £
898.454.000
BANANA JOE
Regia Steno; sogg. Carlo Pedersoli; scen. Mario Amendola, Bruno Corbucci, Steno; dir.fot. Luigi
Kuveiller (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Raimondo Crociani; ass.mo.
Marcello Olasio, Roberto Puglisi, Paola Kuveiller; scg. Francesco Bronzi; ass.scg. Angelo Santucci;
co. Luciano Sagoni; ass.co. Sandra Pistella; d.pr. Vittorio Galiano; a.re. Massimo Carocci; ass.re.
Peter Exacoustos; op. Antonio Annunziata, Ubaldo Terzano; ass.op. Renato Palmieri, Sandro
Donatone; s.ed. Daniela Puccini; m.armi Giorgio Ubaldi; fo. Roberto Petrozzi; mic. Tullio Petricca;
costr. Alvaro Belsole; eff.sp. Dino Galiano; c.r.tr. Luciano Giustini; c.r.par. Fausto De Lisio; eff.ott.
Aldo Frollini; f.sc. Angelo Pennoni; interpreti: Bud Spencer (Banana Joe), Gianfranco Barra
(Torcillo), Marina Langner (Dorianne), Mario Scarpetta (Manuel, alias Nicola Pezzullo), Giorgio
Bracardi (ser. Josè Felipe Maria Marquinho), Enzo Garinei (ing. Moreno), Gunther Philipp (direttore
Mocambo), Nello Pazzafini (Carlos), Gisela Hahn, Carlo Reali (ufficiale di polizia), Salvo Basile, Edy
Biagetti, Giovanni Cianfriglia, Benito Pacifico, Sergio Smacchi, Marcello Verziera. Produttore: Derby
Cin.ca (Roma), Lisa Film Gmbh (Monaco); durata: 92’; incasso: £ 2.800.000.000
SBALLATO, GASATO, COMPLETAMENTE FUSO
Regia Steno; sogg. Enrico Vanzina, Cesare Frugoni; scen. Steno, Enrico Vanzina, Cesare Frugoni;
dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Detto Mariano; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia
Pascolini; a.mo. Luciana Nusca; scg. Giuseppe Mangano; co. Silvio Laurenzi; arr. Emita Frigato,
Antonio Tarollo; d.pr. Gino Santarelli; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Rossella
Angeletti; s.p. Mario Cecchin; amm. Roberto Mezzaroma; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio
Annunziata; fo. Vittorio Massi; tr. Franco Schioppa; parr. Mauro Tamagnini; mix. Danilo Moroni;
interpreti: Edwige Fenech (Patrizia Reda), Enrico Maria Salerno (Eugenio Zafferi), Diego
Abatantuono (Duccio Tricarico), Mauro Di Francesco (Pippo), Giorgio Bracardi (il medico), Peter
Berling (il regista), Liù Bosisio (Orietta Fallani), Cinzia De Ponti (Claudia, figlia di Zafferi), Sandro
Ghiani (guardiano zoo), Plinio Fernando (sua moglie), Ennio Antonelli (il fruttivendolo), Stefano
Gragnani, Maria Rosaria, Spadola, Giorgio Giuliani, Vana Milan, Annibale Rocco. Produttore: Pio
Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 96’. Incasso: £ 1.076.000.000.
1983
BONNIE E CLYDE ALL’ITALIANA
Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Paolo Villaggio; scen. Luciano Vincenzoni,
Sergio Donati, Gianni Manganelli; dir.fot. Franco Di Giacomo; mo. Raimondo Crociani; mus. Guido
e Maurizio De Angelis; scg. Ezio Altieri; co. Wayne Finkelman; d.pr. Giorgio Scotton; a.re. Massimo
Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Paolo Vasile; s.p. Luigi Lagrasta; amm. Raffaello Saragò; op.
Alessio Gelsini; ass.op. Stefano Coletta; interpreti: Paolo Villaggio (Leo Gavazzi), Ornella Muti
(Giada Foschini), Jean Sorel (capitano dei carabinieri), Ferdinando Murolo (il “marsigliese”),
Antonio Allocca (il medico), Ennio Antonelli (proprietario Luna-Park), Martufello (tassista), Corrado
Olmi (Bonetti), Max Turilli (turista tedesco), Antonio Basile, Loris Bazzocchi, Dino Cassio, Eugenio
Masciari, Giuseppe Picciotto, Giorgio Serafini. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film srl
(Roma); pr.es. Luciano Luna; durata: 96’; incasso: £ 826.328.000
MANI DI FATA
Regia Steno; sogg. Laura Toscano e Franco Marotta; scen. Renato Pozzetto, Steno, Enrico Vanzina;
dir.fot. Lamberto Caimi; mus. Giancarlo Chiaramello; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Antonio Di
Lorenzo scg. Ennio Michettoni; co. Ruggero Vitani; d.pr. Angelo Zemella; a.re. Massimo Carocci;
i.p. Franco Mancarella; d.es. Luciano Luna; s.p. Anna Paracchini; s.ed. Clarita Di Giovanni; op.
Roberto Seveso; fo. Domenico Pasquadibisceglie; mic. Riccardo Pintus; mix. Danilo Moroni; tr.
Gianfranco Mecacci; attr. Vittorio Troiani par. Giovanna Pigureddu; amm. Raffaello Saragò; sarte
Maria Radice Ariolfo, Pierina Rossi; f.sc. Maria Teresa Mattioni interpreti: Renato Pozzetto
(l’ingegnere Andrea Ferrini), Eleonora Giorgi (Franca, sua moglie), Sylva Koscina (la contessa
Irene), Maurizio Micheli (architetto Piero Persichetti), Felice Andreasi (l’ammiraglio), Giovanni
17
Frezza (Mariolino), Stefano Mingardo (Manolo), Eleonora Grippo, Elena Mazza, Elena Roverselli,
Andrea Montuschi. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film srl (Roma); durata: 92’; incasso:
1984
1986
MI FACCIA CAUSA
Regia Steno; sogg. Liberamente ispirato al film Un Giorno in pretura (1954) di Steno; scen. Steno,
Enrico Vanzina; dir.fot. Carlo Carlini; mus. Manuel De Sica; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Pina
Triumveri; a.mo. Leda Gorgolini; scg. Gastone Carsetti; co. Maria Grazia Spina; arr. Gualtiero
Caprara; d.pr. Gino Santarelli; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Alberto
Passone, Eutizio Di Salvatore; amm. Enrico Savelloni; op. Massimo Carlini; ass.op. Vasco Benucci,
Eric Biglietto; fo. Benito Alchimede; mic. Cinzia Alchimede; tr. Giulio Mastrantonio, Vittorio Biseo,
Mario Di Salvo, Alessandro Jacoponi; parr. Giancarlo Marin, Placida Crapanzano; sarte Angela
Viglino, Lucia Viglino; f.sc. Enzo Falessi; c.s.m. Umberto Torriero; c.s.e. Giovan Battista Di Cicco;
attr. Remo Pizzaroni; eff.so. Roberto Sterbini, Sotir Gjika, Tullio Arcangeli; mix. Gianni D’Amico;
interpreti: Christian De Sica (il pretore Giovanni Pennisi), Stefania Sandrelli (Rosanna Bianchini),
Enrico Montesano (Annibale Saraceni, detto Rocky III), Luigi Proietti (Luigi Marchetti, il ladro),
Marisa Laurito (la moglie di Pennisi), Giorgio Bracardi (il compositore), Gigi Reder (avvocato
difensore), Luca Sportelli (il cancelliere), Franco Fabrizi (il chirurgo interista), Fabrizio Bracconeri
(tifoso romanista), Mimmo Poli (suo padre), Jimmy Il Fenomeno (altro tifoso), Franco Javarone (il
mafioso), Annabella Schiavone, Angelo Maggi, Paolo Baroni, Ennio Antonelli, Giovanni Baghino,
Alessandro Bellacanzone, Franco Caracciolo, Leonardo Cassio, Clara Colosimo, Anna Maria
Dossena, Tom Felleghy, Antonio Francioni, Giorgio Giuliani, Alvaro Gradella, Stefano Gragnani,
Silvio Klein, Silvio Laurenzi, Martufello, Maurizio Mauri, Livia Romano, Valentino Simeoni, Josie
Estallings, Max Turilli; Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film; durata: 114’;
incasso: £ 480.976.000. Esiste una versione televisiva della durata di 226’.
L’OMBRA NERA DEL VESUVIO (CUORI DI PIETRA)
Regia Steno; sogg.e scen. Stefano Vanzina, Lucio De Caro; dir.fot. Luigi Kuveiller; mus. Tony
Esposito, Giacomo Dell’Orso; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Giancarlo Carotenuto; a.mo.
Vincenzo Zincone; scg. Luciano Sagoni; d.pr. Roberto Cuomo; ass.re. Nicoletta Veggezzi,
Francesco Castaldo; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Antonio Palombi, Franco Marino (a Napoli); amm.
Roberto Luvisotti jr.; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio Annunziata, Renato Palmieri; sc.acrob.
Rocco Lerro; fo. Benito Alchimede; mic. Angelo Amatulli; tr. Maurizio Giustini; a.tr. Goffredo
Calisse; parr. Luciana Palombi; eff.sp. Giovanni Corridori; mix. Alberto Tinebra; interpreti: Massimo
Ranieri (Tony Carità), Sophie Duez (Nennella Carità), Marcel Bozzuffi (Gaetano Buonanno),
Raymond Pellegrin (Don Vito Scalera), Ana Obregon, Carlo Giuffrè (Don Peppe Carità), Nunzio
Gallo (comm. Greco), Claudio Amendola (Mimì Sposito), Clelia Rondinella (Cettina), Larry Dolgin
(Cunningham), Leandro Amato, Vincenzo Andronico, Paolo Branco, Bernard Chaperon, Josè Gomez
De Segura, Ugo Fangareggi, Massimo Liti, Danika La Loggia, Lino Murolo, Antonio Orlando, Pascal
Persiano, Luigi Petrucci, Lino Salemme, Antonio Serrano, Luciano Bonanni, Alberto Capone,
Valentino Cervini, Riccardo Deodati, Marcello Di Martire, Vittorio De Bisogno, Cesare Di Vito,
Germana Di Giannicola, Mario Farese, Alvaro Gradella, Renato Montalbano, Maurizio Mauri,
Michelangelo Pace, Raimondo Penne, Giuseppe Piciotto, Lucio Rosato, Vittorio Rubbi, Antonio
Salvemini, Aldo Sarullo, Sasha Darwin, Pietro Zardini. Produttore: Titanus per Rai Radio Televisione
Italiana (Roma), Telecip (Parigi); durata: film per la televisione in quattro parti.
1987
ANIMALI METROPOLITANI
Regia Steno; sogg. Enrico Vanzina, Steno; scen. Enrico Vanzina, Marco Cavaliere, Steno; dir.fot.
Giorgio Di Battista (Telecolor); mus. Umberto Smaila; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia
Pascolini, Luciana Nusca; scg.amb. Luciano Sagoni; ass.scg. Stefano Bulgarelli; co. Graziella Pera;
a.re. Massimo Carocci; o.g. Mario D’Alessio; i.p. Roberto De Laurentiis, Nereo Salustri; s.p. Mario
Cecchin; s.ed. Roberto Giandalia; ass.re. Carlo Corbucci; op. Gianni Maddaleni; amm. Roberto
Mezzaroma, Marcello Nusca; fo. Roberto Edwin Forrest; mic. Riccardo Diana; tr. Giulio Natalucci;
par. Gianna Viola; f.sc. Roberto Biciocchi; c.s.e. Gaetano Coniglio; c.s.m. Martino Valente; attr.
Angeluccio Maccarinelli; sarta Ida Cistofori; eff.so. Luciano Anzellotti; interpreti: Donald Pleasence
(prof. Livingstone), Senta Berger (dott.ssa Abbott), Ninetto Davoli (Spartaco Scorcelletti), Galeazzo
Benti (dr. Coen), Maurizio Ferrini (Loris Zamberlini), Maurizio Micheli (rag. Coniglio), Leo Gullotta
(Don Michele Ametrano), Mara Venier (marchesa Esmeralda), Enzo Braschi (Ruggero Leone),
Karina Huff (Patrizia), Antonello Fassari (l’amante), Fabrizio Bracconeri (Gasperone), Albano
Bufalini, Renato Cecchetto, Sergio Di Pinto (il tifoso romanista), Enio Drovandi, Jimmy Il Fenomeno
[Origene Soffrano] (venditore ambulante), Max Turilli (sorvegliante Security Love Park), Roberta
Lerici, Antonio Iuorio (Pascalino, detto O’ animale), Francesco Scali (“Gattone”), Nicoletta Boris,
18
Olga Durano, Sophia Lombardo, Mario Pedone, Mimmo Cavicchia, Pino Ammendola. Produttore: Pio
Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 92’; incasso:
BIG MAN (serie TV in 6 episodi)
Regia Steno; sogg.e scen. Lucio De Caro, Steno, Carlo Pedersoli; coll.scen. Enrico Vanzina; dir.fot.
Silvano Ippoliti; mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Graziella Zita,
Vincenzo Zincone, Delia Apolloni, Laura Caccianti; scg. Vincenzo De Camillis; ass.scg. Francesca
Tusa; co. Tiziana Mancini, ass.co. Paola De Crescenzo; o.g. Gianni Cecchin; re. 2° unità Massimo
Carocci; d.pr. Marina De Tiberiis; ass.re. Laura Jannetti; i.p. Mario Cecchin, Nereo Salustri; s.p.
Patrizia Polini, Nicola Mastrolilli; a.sp. Luly Torre, Paolo Nigrelli; amm. Danilo Martelli, Luisa
Casadei; s.ed. Francesco Catald; op. Stefano Moser; ass.op. Enzo Frattari, Ettore Corso; fo. JeanMarie Blondell; mic. Jerome Coick; tr. Luciano Giustini, Mauro Meniconi; par. Fausto De Lisio; f.sc.
Paolo Maria Cavicchioli; m.armi Giorgio Ubaldi; mix. Franco Bassi, Roberto Moroni; sarte Ida
Cristofori, Renata Renzi; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Mario Occhioni; eff.sp. Paolo Ricci; attr. Bruno
Ortensi; interpreti di tutta la serie: Bud Spencer (Jack Clementi, detto “il professore”), Mylène
Demongeot, Michel Constantin, Denis Karvil, Raymond Pellegrin, Geoffrey Copleston. Interpreti dei
vari episodi: Ursula Andress, John Steiner, Isabel Russinova, Armand Meffre, Antonio Licausi,
Susan Marshall, Pino Ammendola, Elio Bonadonna, Sasha D’Ark, Maurizio Fardo, Bruna Fairri, Ole
Jorgenson, Elisa Mainardi, Armando Marra, Renato Montalbano, Piero Morgia, Nello Pazzafini,
Romano Puppo, Agnese Ricci, Francesca Ferrè, Raimund Harmstorf, Jacques Sernas, Mario Pilar,
Alicia Leoni, Max Turilli, Stefano Gragnani, Pascale Roberts, Jean Badin, Venantino Venantini.
Titoli degli episodi: La fanciulla che ride (con Raimund Harmstorf, Jacques Sernas); 395.000 dollari
l’oncia; Polizza inferno (con Hartmut Becker, Josef Frolich), Polizza droga (con Armand Meffre),
Diva (con Ursula Andress, Isabel Russinova), Boomerang (con Mario Erpichini, Jean-Paul Muel).
Produttore: Mario e Vittorio Cecchi Gori per C.G. Group, Fin Ma.Vi. (Roma), Reteitalia (Milano),
Amster Film e Taurus Film (Monaco), ZDF; durata di un singolo episodio: 90’.
Soggetti e sceneggiature
1939
1940
1941
1943
1945
1946
1947
1948
Imputato, alzatevi! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno, G. Guareschi)
Lo vedi come sei ?!...Lo vedi come sei ?! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Steno)
Il pirata sono io! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno)
Non me lo dire! (re. Mario Mattoli)
C’è un fantasma nel castello (re. Giorgio C. Simonelli; scen. Steno, Giorgio C.Simonelli)
La scuola dei timidi (re. Carlo Ludovico Bragaglia; scen. Cesare Zavattini, Marcello Marchesi,
Steno)
Tutta la città canta (re. Riccardo Freda)
Non canto più (re. Riccardo Freda; sogg.e scen. Riccardo Freda, Steno)
Quartieri alti (re. Mario Soldati; scen. Leo Longanesi, Ercole Patti, Steno)
Il viaggio del signor Perrichon (re. Paolo Moffa)
La vita ricomincia (re. Mario Mattoli; scen. Aldo De Benedetti, Mario Mattoli, Steno)
Aquila nera (re. Riccardo Freda; scen. Steno, Mario Monicelli, Riccardo Freda, Braccio Angioletti)
L’angelo e il diavolo (re. Mario Camerini; scen. Mario Camerini, Vittorio Nino Novarese, Steno,
Mario Monicelli, Cesare Zavattini)
I due orfanelli (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Steno, Age, Jean-Jacques Rastier)
I miserabili (re. Riccardo Freda; scen. Riccardo Freda, Steno, Mario Monicelli, Nino Novarese)
Il corriere del re (re. Gennaro Righelli; scen. Gennaro Righelli, Mario Monicelli, Steno, Ignazio L.
Nicolai, Ernesto Guida)
Come persi la guerra (re. Carlo Borghesio; scen. Mario Amendola, Leo Benvenuti, Carlo Borghesio,
Aldo De Benedetti, Mario Monicelli, Tullio Pinelli, Steno)
L’ebreo errante (re. Goffredo Alessandrini; non accreditato nel Dizionario del cinema italiano)
La figlia del capitano (re. Mario Camerini; scen. Mario Camerini, Mario Monicelli, Steno, Ivo Perilli,
Carlo Musso)
Lo sciopero dei milioni (re. Raffaello Matarazzo; scen. Steno, Mario Monicelli, Raffaello Matarazzo)
Follie per l’opera (re. Mario Costa; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Mario Monicelli, Steno, Mario
Costa, Giovanna Soria)
Il cavaliere misterioso (re. Riccardo Freda; sogg. e scen. Riccardo Freda, Steno, Mario Monicelli)
19
1949
1950
1951
1952
1954
1960
1964
1965
1966
1967
1970
1971
1979
1986
L’eroe della strada (re. Carlo Borghesio; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Steno, Mario Monicelli,
Carlo Borghesio, Leo Benvenuti, Mario Amendola)
Fifa e arena (re. Mario Mattoli; sogg e scen. Marcello Marchesi, Steno)
Totò al giro d’Italia (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno)
Il conte Ugolino (re. Riccardo Freda; scen. Steno, Mario Monicelli, Riccardo Freda)
Come scopersi l’America (re. Carlo Borghesio; sogg. e scen. Carlo Borghesio, Leo Benvenuti, Mario
Monicelli, Steno, Mario Amendola)
Il lupo della Sila (re. Duilio Coletti; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Steno, Mario Monicelli, Carlo
Musso, Ivo Perilli, Vincenzo Talarico, Giuseppe Gironda)
Vespro siciliano (re. Giorgio Pastina; scen. Fulvio Palmieri, Domenico Meccoli, Steno, Giorgio
Pastina, Emilio Cecchi, Oreste Biancoli)
Botta e risposta (re. Mario Soldati; sogg. e scen. Pietro Garinei, Sandro Giovannini, Steno, Mario
Monicelli, Dino Maiuri, Marcello Marchesi)
Quel bandito sono io (re. Mario Soldati; scen. Steno, Mario Monicelli, Mario Soldati)
I pompieri di Viggiù (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Marcello Marchesi, Steno)
Il brigante Musolino (re. Mario Camerini; sogg. Antonio Leonviola, Steno, Mario Monicelli)
Accidenti alle tasse (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Steno, Mario Monicelli, Mario Mattoli)
Anema e core (re. Mario Mattoli; scen. Ruggero Maccari, Steno, Leo Catozzo, Mario Mattoli)
Amo un assassino (re. Baccio Bandini; sogg. e scen. Sandro Continenza, Ennio De Concini, Mario
Monicelli, Steno)
Vendetta sarda (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Ruggero Maccari, Steno, Mario Monicelli)
L’inafferrabile 12 (re. Mario Mattoli; scen. Steno, Mario Monicelli)
Core ‘ngrato (re. Guido Brignone; sogg. Steno e Mario Monicelli)
O.K. Nerone (re. Mario Soldati; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Age, Scarpelli, Sandro
Continenza, Mario Monicelli, Steno, Ciannelli)
Napoleone (re. Carlo Borghesio; Leo Benvenuti, Steno, Mario Monicelli, Faele, Stefano Strucchi)
E’ l’amor che mi rovina (re. Mario Soldati; sogg. e scen. Enrico Blasi, Mario Monicelli, Steno,
Bernardino Zapponi)
Tizio Caio e Sempronio (re. Alberto Pozzetti; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno, Mario
Monicelli)
Le infedeli (re. Mario Monicelli; scen. Franco Brusati, Ivo Perilli, Steno, Mario Monicelli)
Don Lorenzo (re. Carlo Ludovico Bragaglia; sogg. Steno, Sandro Viganotti; scen. Steno, Sandro
Viganotti, Age, Scarpelli)
Cinque poveri in automobile (re. Mario Mattoli; scen. Aldo De Benedetti, Mario Amendola, Titina De
Filippo, Aldo Fabrizi, Ruggero Maccari, Mario Monicelli, Steno, Cesare Zavattini)
Ragazze da marito (re. Eduardo De Filippo; sogg. Steno, Age, Scarpelli; scen. Steno, Age,
Scarpelli, Eduardo De Filippo)
Io sono la primula rossa/Il sanculotto (re. Giorgio C.Simonelli; scen. Steno, Giorgio C.Simonelli,
Gaetano Ramazzotti, Lucio Fulci, Faele)
Totò, Peppino e le fanatiche (re. Mario Mattoli; sogg e scen. Steno, Ruggero Maccari, Age,
Scarpelli)
Totò, Peppino e la dolce vita (re. Sergio Corbucci; sogg. Steno, Lucio Fulci)
Il trattato di eugenetica, ep. Le bambole (re. Luigi Comencini; sogg. Steno, Luciano Salce)
Le belle famiglie (re. Ugo Gregoretti; scen. Ugo Gregoretti, Steno)
Delitto quasi perfetto (re. Mario Camerini; sogg. Mario Camerini, Steno)
Le piacevoli notti (re. Armando Crispino e Luciano Lucignani; sogg. Sandro Continenza, Steno,
Luciano Lucignani, Armando Crispino; scen. Sandro Continenza, Steno)
L’arcangelo (re. Giorgio Capitani; sogg. e scen. Renato Castellani, Steno, Adriano Baracco, Giorgio
Capitani)
Basta guardarla (re. Luciano Salce; scen. Iaia Fiastri, Luciano Salce, Steno)
Armiamoci e partite (re. Nando Cicero; sogg. Giulio Scarnicci, Enzo Tarabusi; tratt. Steno)
Speed cross (re. Stelvio Massi; sogg. Steno, Lucio De Caro; scen. Steno, L.De Caro, Sergio Patou)
Italian Fast Food (re. Ludovico Gasparini; sogg. Lucio De Caro, Steno)
20
LUCIANO SALCE
CINEMA, TEATRO, RADIO, TV, LETTERATURA
CINEMA
Regie
1953
UMA PULGA NA BALANCA
Regia Luciano Salce; scen. Fabio Carpi; d.pr. Ugo Lombardi; Interpreti: Paulo Autran.
Produttore: Società Vera Cruz
FLORADAS NA SERRA
Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo omonimo di D.Silveira De Queiroz; scen. Fabio Carpi;
dir.fot. Seu Chick [Chick Fowle]. Produttore: Società Vera Cruz.
1960 LE PILLOLE DI ERCOLE
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ettore Scola, Ruggero Maccari, Vittorio Vighi, Bruno Baratti,
Luciano Salce dalla commedia omonima di Maurice Hennequin e Paul Billhaud; dir.fot. Erico
Menczer; mus. Armando Trovajoli; mo. Roberto Cinquini; a.mo. Sergio Montanari; scg. Gianni
Polidori; arr. Nedo Azzini; co. Piero Gherardi e Lucia Mirisola; d.pr. Renato Jaboni; a.re. Emilio
Miraglia; ass.re. Ilde Muscio; i.p. Felice Dalisera; s.p. Carlo Bartolini, Toni Selvaggi; s.ed. Carla
Fierro; op. Luigi Kuveiller; ass.op. Sabino Tonti; fo. Venanzo Lisca; tr. Romolo De Martino; par.
Gisa Favella; interpreti: Nino Manfredi (Nino Pasqui), Sylva Koscina (Silvia, sua moglie),
Jeanne Valerie (Odette), Vittorio De Sica (col. Piero Cuocolo), Francis Blanche (Augusto),
Mitchell Kowal (Jonathan Braxton), Andreina Pagnani (Carla Attard), Piera Arico (Zaira), Ljuba
Bodin (Catherine Braxton), Nietta Zocchi (la signora violentata), Annie Gorassini (Elisabetta
Colasanti), Franco Scandurra (il portiere dell’albergo), Leopoldo Valentini (il vetturino), Mario
Pascucci (Tramontana), Lina Tartara Minora, Maria Elisabetta Franco (le due zitelle), Oreste
Lionello (fattorino dell’albergo), Gianni Bonagura, Marco Tulli, Andrea Petricca, Franca
Lazazzera, Tony Selvaggi, Nedo Azzini, Franco Bruno (medici al congresso di gerontologia).
Produttore: Dino De Laurentiis Cin.ca, Maxima Film; durata: 90’; incasso: £ 442.000.000.
1961
IL FEDERALE (t.fr. Le fédéral/t.te. Zwei in einem Stiefel/t.Usa The fascist)
Regia Luciano Salce; sogg. Castellano e Pipolo; scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce;
dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone dir.da Pierluigi Urbini (le canzoni «Addio Juna»
di Mari-Raimondi-Falpo, «Rosamunda» di Vejvoda); mo. Roberto Cinquini; scg. Alberto
Boccianti; co. Giuliano Papi; arr. Arrigo Breschi, Ennio Michettoni; d.pr. Gianni Minervini;
a.re. Emilio Miraglia; s.ed. Elsa Carnevali; i.p. Totò Mignone, Alberto Giommarelli; op.
Gastone Di Giovanni, Luigi Kuveiller; eff.sp. Serse Urbisagli; fo. Franco Groppioni; tr. Efrade
Titi; par. Maria Miccinelli; interpreti: Ugo Tognazzi (Primo Arcovazzi), Georges Wilson (prof.
Erminio Bonafè), Gianrico Tedeschi (Arcangelo Baldacci), Elsa Vazzoler (Matilde, sua moglie),
Stefania Sandrelli (Lisa), Mireille Granelli (Rita), Franco Giacobini (il matto), Renzo Palmer
(partigiano romagnolo), Gianni Agus (un federale), Luciano Salce (ten. Rudolph), Gino
Buzzanca, Peppino De Martino (partigiani in convento), Leopoldo Valentini (l’uomo con la
statua), Luciano Bonanni (autista corriera), Ester Carloni (Eleonora Castaldi), Gianni Solaro
(un federale), Gianni Dei (Pier Maria Castaldi), Leonardo Severini, Salvo Libassi, Mimmo Poli,
Nando Angelini, Edy Biagetti, Jimmy Il Fenomeno. Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi
per D.D.L.; durata: 101’; incasso: £ 832.000.000.
1962
LA VOGLIA MATTA
Regia Luciano Salce; sogg.dalla novella Una ragazza di nome Francesca di Enrico La Stella;
scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone; mo.
Roberto Cinquini, Gisa Radicchi Levi; scg.e arr. Nedo Azzini; co. Giuliano Papi; d.pr. Alessandro
von Norman; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Toto Mignone; s.ed. Carla Fierro; op. Alvaro Lanzoni;
ass.op. Giovanni Modica Canfarelli, Roberto Brega; fo. Raffaele Del Monte; tr. Sergio Angeloni;
par. Maria Miccinelli; interpreti: Ugo Tognazzi (Antonio Berlinghieri), Catherine Spaak
1
(Francesca), Gianni Garko (Piero), Franco Giacobini (Carlo Alberghetti), Fabrizio Capucci
(Enrico), Diletta D’Andrea (Maria Grazia), Jimmy Fontana (Jimmy), Beatrice Altariba (Silvana),
Oliviero Prunas (Veniero), Margherita Girelli (Marina), Lylia Neyung (la cinese), Luciano Salce
(Visigato), Corrado Pantanella (Flavio), Stelvio Rosi (Antonio), Carlo Pes, Donatella Ferrara,
Maria Marchi, Edy Biagetti, Nino Fuscagni, Elisabetta Marlorota, Dory Hessan, Margherita Patti,
Salvo Libassi, Orfeo Bregilozzi, Jimmy il fenomeno, Carla Mancini. Produttore: Isidoro Broggi e
Renato Libassi per D.D.L., Lux Film, Umbria Film; durata: 105’; incasso: £ 561.000.000.
LA CUCCAGNA
Regia Luciano Salce; sogg. Luciano Vincenzoni, Alberto Bevilacqua; scen. Luciano Salce,
Luciano Vincenzoni, Carlo Romano, Goffredo Parise; dial. Luciano Salce, Luciano Vincenzoni;
dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone dir.da Pierluigi Urbini (le canzoni «Quello che
conta» di Morricone-Salce, «La ballata dell’eroe» di Petracchi-Fabrizio, «Tra la gente» di
Morricone e Pilantra sono cantate da Luigi Tenco); mo. Roberto Cinquini; scg.e arr. Nedo
Azzini; co. Danilo Donati; coll.re. Emilio Miraglia; ass.re. Giovanni Bessone; i.p. Antonio Negri,
Carlo Vassalle; s.p. Ezio Ranzini; s.ed. Rometta Pietrostefani; op. Silvio Fraschetti; ass.op.
Enrico Fontana, Roberto Brega; fo. Adriano Taloni; tr. Andrea Riva; f.sc. Osvaldo Civirani;
ass.co. Pierangelo Cicoletti, Marcella Giorgi; ass.arr. Cesare Monello; interpreti: Donatella Turri
(Rossella), Luigi Tenco (Giuliano), Umberto D’Orsi (Giuseppe Visonà), Luciano Salce (colonnello
ai tiri), Anna Baj (signora tedesca), Ugo Tognazzi (l’uomo con la Maserati), Emilio Barella, Liù
Bosisio, Fernando Cerulli (l’avvocato), Elvira Cortese, Gianni Dei (Emilio), Consalvo Dell’Arti,
Toni Di Mitri, Vera Drudi, Jimmy il Fenomeno (il fotografo), Loretta Gagliardini, Cesare Gelli,
Piero Gerlini (cognato di Rossella), Ivy Holser, Salvo Libassi, Maria Marchi, Renato Montalbano,
Franco Morici, Giulio Nellia, Corrado Olmi (Garbolotti), Enzo Petito (padre di Rossella), Elisa
Pozzi, Giuseppe Ravenna, Jean Rougel, Aristide Spelta. Produttore: C.I.R.A.C., Giorgio Agliani;
durata: 102’; incasso: £ 152.000.000.
1963 LE ORE DELL’AMORE
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; rev.scen. Diego Fabbri;
dir.fot. Erico Menczer; mus. Luiz Bonfa, Toledo (eseguite alla chitarra da Luiz Bonfa: «Ilha de
Coral», «Maretta», «Ao Cair do Sol», «Domingo a Noite»); mo. Roberto Cinquini; scg.e arr.
Nedo Azzini; a.arr. Giuseppe Ranieri; co. Giuliano Papi; o.g. Alessandro von Norman; a.re.
Emilio Miraglia; s.p. Giuseppe Unici, Nino Benecchi; s.ed. Carla Fierro; op. Silvio Fraschetti;
ass.op. Sergio Martinelli, Fernando Gallant; fo. Franco Groppioni; tr. Giannetto De Rossi; par.
Maria Miccinelli, Argentina Ferri; interpreti: Ugo Tognazzi (Gianni), Emmanuelle Riva (Maretta),
Umberto D’Orsi (Ottavio), Barbara Steele (Leila), Mara Berni (sig.ra Cipriani), Brunello Rondi
(Cipriani), Diletta D’Andrea (Mimma), Fabrizio Moroni (Roberto), Mario Brega (un tifoso
romanista), Luciano Bonanni (il vigile), Renato Speziali, Giovanni Urli, Irene Aloisi, Renato Izzo,
Janine Handy, Francesco Rigamonti, Salvo Libassi, Franco Morici, Elvira Tonelli, Luciano Salce
(un passante che non ha tempo). Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L.
Cin.ca; durata: 105’; incasso: £ 375.000.000.
LE MONACHINE (t.Usa The little nuns)
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio
Morricone; mo. Roberto Cinquini; ass.mo. Sergio Montanari; scg. Aurelio Crugnola; co.
Giuliano Papi; arr. Franco Fumagalli; a.arr. Paolo Muschi; o.g. Gianni Minervini; coll.re.
Castellano e Pipolo; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Marcello Papaleo; s.p. Toto Mignone; s.ed. Anna
Maria Montanari; op. Silvio Fraschetti; ass.op. Sergio Martinelli; fo. Franco Groppioni; mix.
Renato Cadueri; tr. Giannetto De Rossi; par. Adriana Cassini; interpreti: Catherine Spaak (suor
Celeste), Didi Perego (madre Rachele), Amedeo Nazzari (Livio Bertana), Sandro Bruni
(Damiano), Umberto D’Orsi (Spugna), Sylva Koscina (Elena), Alberto Bonucci (rag.
Battistucchi), Lando Buzzanca (Amilcare Franzetti, vigile urbano), Annie Gorassini (segretaria),
Antonio Pierfederici (presidente), Consalvo Dell’Arti (medico), Edda Ferronao (cameriera), Piero
Tordi (sindacalista), Lola Wigan (mannequin), Ugo D’Alessio (regista), Toto Mignone (aiuto
regista), Giulio Calì (Antonio, il portiere), Franco Morici (Giuseppe), Laura Raggi (suor Lucia),
Roberto Bruni. Produttore: Ferruccio Brusaresco per Hesperia Cin.ca (Milano); pr.ass. Mario
Tugnoli, Giancarlo Marchetti; durata: 94’; incasso: £ 188.000.000.
2
1964 ALTA INFEDELTA’ (episodio LA SOSPIROSA)
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Age, Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola; dir.fot. Ennio
Guarnieri; mus. Armando Trovajoli; mo. Roberto Cinquini; scg. Gianni Polidori; co. Lucia
Mirisola; arr. Giovanni Checchi, Ferdinando Giovannoni; o.g. Fausto Saraceni; Marcello
Pandolfi; i.p. Egidio Quarantotto; s.p. Ennio Di Meo; op. Danilo Desideri; fo. Luigi Salvi; tr.
Sergio Angeloni, Otello Fava, Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Monica Vitti
(Gloria), Jean-Pierre Cassel (Tonino), Sergio Fantoni (Paolo, marito di Gloria). Produttore:
Gianni Hecht Lucari per Documento Film (Roma), S.P.C.E. (Parigi); durata: 15’ (circa); incasso:
£ 834.000.000.
Gli altri episodi sono Scandaloso (Franco Rossi), Peccato nel pomeriggio (Elio Petri), Gente
moderna (Mario Monicelli). T.fr. Haute infidelité, t.Usa High infidelity.
1965
OGGI, DOMANI, DOPODOMANI (episodio LA MOGLIE BIONDA)
Regia Luciano Salce; sogg. Goffredo Parise; scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; dir.fot.
Gianni Di Venanzo (Eastmancolor); mus. Luis Enriquez Bacalov (la canzone «Notte chiara» di
E.Bacalov è cantata da Stefania); mo. Marcello Malvestito; scg. Luigi Schiaccianoce; a.scg.
Francesco Bronzi; arr. Dante Ferretti; co. Cesare Rovatti; d.pr. Claudio Mancini; a.re. Emilio
Miraglia; ass.pr. Rafael Carrillo; op. Pasquale De Santis; fo. Ennio Sensi, Renato Cadueri;
interpreti: Marcello Mastroianni (Michele), Pamela Tiffin (Pepita), Lelio Luttazzi (amico di
Michele), Enzo Latorre, Luciano Bonanni (lo sceicco omosessuale), Antonio Ciani. Produttore:
Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion (Roma), Les Filmes Concordia (Parigi); durata:
55’ (circa).
Gli altri episodi sono L’uomo dai cinque palloni (Marco Ferreri), L’ora di punta (Eduardo De
Filippo, con Luciano Salce). Incasso: £ 450.000.000.
Rieditato nel 1968, in forma di lungometraggio, con il titolo LO SMEMORATO.
SLALOM
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Alfio Contini (Technicolor);
mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai; mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Franco
Malvestito; scg.e arr. Arrigo Breschi; co. Giuliano Papi (Angelo Litrico per Vittorio Gassman);
o.g. Pio Angeletti; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Mario D’Alessio; s.p. Bruno Altissimi; op. Maurizio
Scanziani; tr. Otello Sisi; c.s.m. Amerigo Casagrande; c.s.e. Domizio Ercolani; interpreti:
Vittorio Gassman (Lucio Ridolfi), Adolfo Celi (Riccardo), Daniela Bianchi (hostess), Beba
Loncar (Helen, agente F.B.I.), Loubna A. Aziz (Nadia), Emma Danieli (Ilde, moglie di Lucio),
Robert Oliver (George), Isabella Biagini (Simonetta, moglie di Riccardo), Corrado Olmi
(impiegato ambasciata italiana), Nagua Fuad, Piero Vida. Produttore: Mario Cecchi Gori per
Fair Film (Roma), Les Films Cocinor (Parigi), Copro Film (Cairo); durata: 105’; incasso: £
806.000.000.
1966 COME IMPARAI AD AMARE LE DONNE (t.fr. Comment j’appris à aimer les femmes)
Regia Luciano Salce; sogg. Willibald Eser; scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer
(Eastmancolor); mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai con I cantori moderni di
A.Alessandroni (la canzone «Pioggia sul tuo viso» di Morricone-Nistri-Pilantra è eseguita dai
Sorrows); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Germana Lanni; scg. Walter Haag; arr. Franco
Bottari; co. Luca Sabatelli; d.pr. Hans Fried; o.g. Nicolò Pomilia; a.re. Emilio Miraglia; ass.re.
Claude Vital; i.p. Marcello Papaleo; s.p. Vittorio Noia; interpreti: Robert Hoffmann (Roberto
Monti), Michèle Mercier (dott.ssa Francesca Marcos), Nadja Tiller (baronessa Laura), Elsa
Martinelli (Monica), Anita Ekberg (Margaret Joyce), Sandra Milo (Ilde), Zarah Leander (Olga),
Vittorio Caprioli (Renzino), Romina Power (Irene), Gianrico Tedeschi (il direttore del collegio),
Gigi Ballista (Archie), Orchidea De Santis (Agnese), Mita Medici (nipote di Olga), Carlo Croccolo
(direttore autosalone), Margherita Horowitz (una suora), Sonia Romanoff, Erica Scharumm,
Mariangela Giordano, Bernadette Kell, Franco Morici, Heinz Erhardt. Produttore: Alfonso
Sansone ed Enrico Chroscicki per Sancro Film (Roma), Nordeutscher Film (Monaco), Transister
Film (Parigi); durata: 110’; incasso: £ 431.000.000.
EL GRECO
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Guy Elmes, Luigi Magni, Massimo Franciosa, Luciano Salce;
dial. John Francis Lane; dir.fot. Leonida Barboni (DeLuxe color); mus. Ennio Morricone dir.da
Bruno Nicolai; mo. Nino Baragli; scg. Luigi Scaccianoce; co. Danilo Donati; d.pr. Eliseo Boschi;
a.re. Emilio Miraglia; op. Giuseppe Ruzzolini; fo. Renato Cadueri; interpreti: Mel Ferrer (El
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Greco), Rosanna Schiaffino (Jeronima de la Cuevas), Mario Feliciani (card. Nino De Guevara),
Giulio Donnini (Pignatelli), Adolfo Celi (Don Miguel de la Cuevas), Renzo Giovampietro (frate
Felix), Gabriella Giorgelli (Maria), Franco Giacobini (Francisco), Fernando Rey (re Filippo II),
Angel Aranda (Don Luis), Nino Crisman (Don Diego di Castilla), R. Di Pietro (Isabel), Rosanna
Martini (Zaida), Andrea Bosic (l’accusatore), Giulio Farnese (maestro d’armi), Santiago
Hontanon (Leoni), Rafael Rivelles, John Kusler, John Francis Lane. Produttore: Alfredo Bini per
Arco Film (Roma), Les Films du Siècle (Parigi); durata: 94’; incasso: £ 311.000.000.
LE FATE (episodio FATA SABINA)
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ruggero Maccari, Luigi Magni; dir.fot. Carlo Di Palma
(Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «Tatatatata» di Trovajoli è cantata da
Mina); mo. Sergio Montanari; scg.e co. Luca Sabatelli; arr. Vittorio Ansalone, Antonio Marini;
d.pr. Renato Jaboni; i.p. Gianni Di Stolfo, Dino Di Salvo; a.re. Mariano Laurenti; op. Claudio
Cirillo; s.ed. Franca Carotenuto, Massimo Castellani, Carla Fierro; ass.op. Roberto D’Ettorre
Piazzoli; ediz. Mario Milani; cass. Rolando Garbuglia; fo. Fausto Ancillai; tr. Giuseppe Banchelli;
par. Jole Cecchini; interpreti: Monica Vitta (Sabina), Enrico Maria Salerno (Gianni), Renzo
Giovampietro, Franco Balducci (due automobilisti). Produttore: Gianni Hecht Lucari per
Documento Film (Roma) Columbia Films (Parigi); durata: 15’ (ca.); incasso: £ 730.000.000.
Gli altri episodi sono Fata Armenia (Mario Monicelli), Fata Elena (Mauro Bolognini), Fata Marta
(Antonio Pietrangeli).
1967 TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia ominima di Natalia Ginzburg; scen. Alessandro
Continenza, Natalia Ginzburg, Luciano Salce; dir.fot. Carlo Di Palma (Technicolor); mus. Piero
Piccioni; mo. Marcello Malvestito; scg. Piero Polatto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Francesca
Romana Cofano; arr. Giulio Cabras; o.g. Pio Angeletti; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Marcello
Pandolfi; s.p. Renato Fiè, Mario Della Torre; s.ed. Liana Ferri; op. Alberto Spagnoli; fo. Vittorio
Massi; mix. Mario Morigi; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Monica Vitti
(Giuliana), Giorgio Albertazzi (Pietro), Italia Marchesini (sua madre), Maria Grazia Buccella
(Vittoria), Rossella Como (Ginestra), Michel Bardinet (coinquilino inglese), Anna Saia (Topazia),
Paola Corinti (ragazza al party), Ivan G. Scratuglia. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film;
durata: 99’; incasso: £ 365.000.000.
Nastro d’argento come miglior attrice non protagonista a Maria Grazia Buccella.
1968 LA PECORA NERA
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ennio De’ Concini, Luciano Salce, Adriano Baracco; dir.fot.
Aldo Tonti (Technicolor); mus. Luis Enriquez Bacalov (la canzone «La pecora nera» di Bacalov è
cantata da Rocky Roberts); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Olga Petrini; scg. Franco Bottari;
co. Luca Sabatelli; arr. Nicola Tamburro; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Maurizio Mein; i.p. Antonio
Mazza; s.p. Mario Della Torre; s.ed. Anna Maria Montanari; amm. Vincenzo Lucarini; op.
Luciano Tonti; ass.op. Franco Frazzi; fo. Vittorio Massi; tr. Otello Sisi; interpreti: Vittorio
Gassman (on. Giulio Agosti/Filippo), Lisa Gastoni (Alma), Adrienne La Russa (Kitty), Ettore G.
Mattia (ministro), Antonio Centa (comm. Mannocchi), Umberto D’Orsi (Roberto Franceschini),
Giampiero Albertini (un senatore), Fiorenzo Fiorentini (commissario), Ennio Balbo (padre di
Alma), Eugène Walter, Michel Bardinet, Marisa Fabbri, Antonella Della Porta, Donatella
Ceccarello, Tullio Altamura, Guido Spadea, Leonardo De Fraia, Giuseppe Terranova, Ivan
G.Scratuglia, Jimmy il fenomeno, Giuseppe Sorrentino, Cesare Gelli, Liliana Paoli, James Riley,
Janine Handy, Christopher Hodge. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 110’;
incasso: £ 1.141.000.000
LO SMEMORATO
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Goffredo Parise,Castellano e Pipolo,Luciano Salce; dir.fot.
Mario Montuori,Gianni Di Venanzo; mus. Luis Enrique Bacalov,Nino Rota; mo.(n.a.) Marcello
Malvestito; scg. Luigi Scaccianoce, Nando Scarfiotti; co.(n.a.) Cesare Rovatti; d.pr. Antonio
Altoviti; fo. Ennio Sensi, Renato Cadueri; interpreti: Marcello Mastroianni (Michele), Pamela
Tiffin (Pepita), Raimondo Vianello (comm. D’Altino), Luciano Salce (Arturo Rossi), Lina Volonghi
(Tecla), Lelio Luttazzi (banchiere), Luciano Bonanni (lo sceicco omosessuale), Ennio Balbo (il
fratello), Virna Lisi (Dorotea), Massimo Sarchielli (emissario degli arabi). Produttore: Carlo
Ponti; durata: 83’.
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Il film è un rielaboramento dell’episodio La moglie bionda di Oggi, domani, dopodomani con
scene aggiunte dell’altro episodio del film L’ora di punta (re. Eduardo De Filippo; int.: Marcello
Mastroianni, Luciano Salce, Virna Lisi).
1969
COLPO DI STATO
Regia Luciano Salce; sogg. Ennio De Concini; scen. Ennio De Concini, Luciano Salce; dir.fot.
Luciano Trasatti; mus. Gianni Marchetti (la canzone «La casa bianca» di Don Backy-La Val è
cantata da Marisa Sannia); mo. Sergio Montanari; scg. Giulio Cabras; o.g. Oscar Brazzi; d.pr.
Egidio Quarantotto; a.re. Francesco Aluigi; eff.sp. Giancarlo Urbisaglia; interpreti: Steffen
Zacharias (George Bradis), Dimitri Tamarov (Matruch, il fotografo), Silvano Spadaccino (il
fidanzato), Orchidea De Santis (la fidanzata), Luciano Salce (se stesso), Bebert H. Marbourtie
(pres. Johnson), Anna Casalino (Anna Ferretti), Giovanni Rionni (Claudio Villa), Amedeo Merli
(Giordano), Anna Maria Capparelli (sua moglie), Leo Talamonti (primo ministro), James E.
Mishener (ambasciatore americano), Raffaele Triggia (capo dell’opposizione), Alberto Plebani
(presidente della Repubblica), Giuseppe Ravenna, Luciano Trasatti, Attilio Zingarelli, Vlado
Stegar, Liz Barrett, Gianni Di Loreto, Giancarlo Tocchi, Riccardo Satta, Loris Gizzi (il
capocomico), Vittorio Ripamonti, Renato Marzano, Jole Giusti, Armando Lodi, Giovanni Volpini,
Gaetano Imvrò, Loris Zanchi (ministro all’aereoporto), Luciano Bonanni (il tipografo), Luca
Sportelli (cliente in merceria). Produttore: Franco Cristaldi per Vides Cin.ca; durata: 105’;
incasso: £ 107.000.000.
IL PROF.DOTT.GUIDO TERSILLI PRIMARIO DELLA CLINICA VILLA CELESTE DELLE PICCOLE
ANCELLE DELL’AMORE MISERICORDIOSO CONVENZIONATA CON LE MUTUE
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Alberto Sordi, Sergio Amidei; dir.fot. Sante Achilli
(Eastmancolor); mus. Piero Piccioni; mo. Sergio Montanari; ass.mo. Paola Carlotti; scg. Franco
Bottari; co. Bruna Parmesan; arr. Nicola Tamburro; o.g. Claudio Mancini; a.re. Maurizio Mein;
i.p. Mario Capelli; s.p. Ugo Valenti; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Giuseppe Di Biase; ass.op.
Emilio Loffredo; fo. Vittorio Massi, Franco Bassi; mix. Romano Checcacci; eff.sp. Aldo Frollini,
Silvio Bragoni; tr. Pierantonio Mecacci; par. Grazia De Rossi; interpreti: Alberto Sordi (Guido
Tersilli), Evelyn Stewart (Anna Maria Tersilli), Pupella Maggio (Antonietta Parisi), Claudio Gora
(prof. De Amatis), Alessandro Cutolo (comm. Valentano), Nanda Primavera (madre di Guido),
Gino Lavagetto (dott. Cremona), Ira Furstenberg (dott.ssa Olivieri), Marco Tulli (portiere),
Sandro Merli (prof. Drufo), Sandro Dori (un medico), Giovanni Nuvoletti (prof. Azzerini), Marisa
Fabbri (una suora), Patrizia De Clara (suor Pasqualina), Filippo De Gara (un altro medico),
Johanna Knox, Claudia Giannotti, Laura De Marchi, Antonella Della Porta, Franca Sciutto,
Franco Abbina, Adriano Amidei Migliano, Paolo Paoloni, Gennaro Masini. Produttore: Bino
Cicogna per San Marco Cin.ca; pr.es. Ugo Tucci; durata: 104’; incasso: £ 1.643.000.000.
1970
BASTA GUARDARLA (t.fr. Juste un gigolo/t.sp. Las tentaciones de Enriqueta)
Regia Luciano Salce; sogg. Iaia Fiastri; scen. Iaia Fiastri, Luciano Salce, Steno; dir.fot. Aiace
Parolin (Eastmancolor); mus. Franco Pisano (la canzone «L’arca di Noè» è composta e cantata
da Sergio Endrigo); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Francesco Malvestito; scg. Luciano
Spadoni; ass.scg. Giorgio Motto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Alessandra Cardini; d.pr. Luciano
Piperno; a.re. Vito Minore; i.p. Lanfranco Diotallevi; s.p. Mario Della Torre, Gaspare Conigliaro;
s.ed. Maria Pia Rocco; op. Elio Polacchi; a.op. Giancarlo Granatelli; coreog. Franco Estill;
ass.coreog. Franco Miseria; fo. Alvaro Orsini; tr. Franco Corridoni; par. Maria Teresa Corridoni;
amm. Mario Lupi; interpreti: Maria Grazia Buccella (Enrica), Carlo Giuffrè (Silver Boy),
Mariangela Melato (Marisa), Luciano Salce (Farfarello), Franca Valeri (Pola prima), Spiros Focas
(Fernando), Pippo Franco (Danilo), Riccardo Garrone (Pediconi), Umberto D’Orsi (Peppe De
Pico), Ettore G. Mattia (zio di Enrica), Stefania Pecci, Dino Curcio, Ada Pometti, Pinuccio Ardia
(Bubù), Mino Guerrini (il medico), Maria Marchinelli, Loredana Bertè (una ballerina), Ennio
Antonelli (il marito del ricordo). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 106’;
incasso: £ 367.000.000.
1971
IL PROVINCIALE
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Alberto Silvestri, Franco Verucci; dir.fot. Roberto Gerardi
(Technicolor); mus. Piero Pintucci; mo. Sergio Montanari; ass.mo. Nadia Bonifazi; scg. Dario
Micheli; arr. Giantito Burchiellaro; ass.arr. Francesca Saitto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Mario
Della Torre; d.pr. Enzo Mazzucchi; a.re. Mario Forges Davanzati; s.p. Alvaro Spada,
Giandomenico Stellitano; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Roberto D’Ettorre Piazzoli; ass.op. Franco
5
Bruni; fo. Umberto Picistrelli; mic. Benito Alchimede; tr. Franco Corridoni; par. Renata
Magnanti; sarta Carmen Pericolo; interpreti: Gianni Morandi (Giovanni), Maria Grazia Buccella
(Giulia), Sergio Leonardi (Sergio), Teri Hare (Silvana), Franco Fabrizi (Colombo), Andrea Scotti
(il ladro), Renzo Marignano (cliente al distributore), Enzo Guarini, Marcella Mariotti, Corrado
Olmi (direttore del distributore), Dario Danieli, Giorgio Paoletti, Gastone Pescucci, Fidel
Gonzales, Claudia Gravì, Ada Pometti, Ugo Carboni, Giuseppe Anatrelli (il concessionario),
Ennio Antonelli (l’infermiere), Jimmy il Fenomeno (un tipografo), Mimmo Poli (il mobiliere).
Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 107’ (93’); incasso:
1972
IL SINDACALISTA
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor);
mus. Guido e Maurizio De Angelis dir.da Franco Tamponi (le canzoni «Il torrente» e «Che si
dà» di autori non identificati sono cantate da Claudio Villa); mo. Antonio Siciliano; ass.mo.
M.Cuorso; scg.e co. Giancarlo Bartolini Salimbeni; arr. Franco D’Andria; o.g. Luciano Luna;
d.pr. Enzo Mazzucchi; a.re. Stefano Rolla; i.p. Giandomenico Stellitano; s.p. Renato Fiè; s.ed.
Maria Pia Rocco; op. Mario Brega; ass.op. Maurizio La Monica; fo. Umberto Picistrelli; mix. Luigi
Barbieri; mic. Manlio Urbani; tr. Otello Fava; par. Ernesta Cesetti; interpreti: Lando Buzzanca
(Saverio Ravizza), Paola Pitagora (Vera), Renzo Montagnani (Luigi Tamperletti), Isabella
Biagini (Teresa Piredda Ravizza), Dominique Boschero (Marisa), Piero Vida (Vezio Bellinelli),
Giancarlo Maestri (Tonino Magliari), Giacomo Rizzo (Stelvio De Paolis), Gino Santercole (un
operaio), Patrizia Battaglia (Delia, figlia di Saverio), Isabelle Marchal (attrice di spot), Gastone
Pescucci (il prete), Luca Sportelli e Ada Pometti (operai), Ezio Sancrotti (Cesare Taruffi),
Simone Santo, Luigi Valenzano (altri operai), Adriano Amidei Migliano (Orselli, il pubblicitario),
Gianfranco Barra (il carabiniere), Pietro Zardini (Costanzo Taleggio), Franca Scagnetti,
Fernando Cerulli, Fortunato Arena, Luciano Bonanni, Livia Galassi (altri operai), Renzo Rinaldi
(caporeparto verniciatura), Ferdinando Murolo (Martino, autista), Laura Begherelli (ragazza alla
festa), Nino Drago (passeggero pullman). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata:
108’; incasso: £ 683.000.000.
1973
IO E LUI
Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; scen. Fulvio Gicca Palli,
Enzo Siciliano, Luciano Salce, Nino Marino; dir.fot. Armando Nannuzzi (Technicolor); mus.
Bruno Zambrini dir.da Franco Tamponi (la canzone «Jalla je» di Zambrini è eseguita dal
complesso RRR); mo. Antonio Siciliano; scg. Francesco Bronzi; arr. Renato Postiglione; co.
Mario Ambrosino; o.g. Bruno Todini; a.re. Amanzio Todini; i.p. Aurelio De Laurentiis; op.
Giuseppe Berardini; fo. Rocco Roy Mangano; interpreti: Lando Buzzanca (Federico), Bulle Ogier
(Irene), Gabriella Giorgelli (Fausta, moglie di Federico), Vittorio Caprioli (Cuttica), Mario Pisu
(Protti, il produttore), Antonia Santilli (sua figlia Flavia), Jessica Dublin (moglie di Protti), Yves
Beneyton (Maurizio), Paolo Bonacelli (lo psichiatra), Michele Malaspina (il banchiere), Pier
Maria Rossi (amico di Maurizio con barba), Bruno Boschetti, Luigi Antonio Guerra, Dimitri
Corchilas (il regista grasso), Gianna Marelli. Produttore: Dino De Laurentiis per De Laurentiis
Inter Ma.Co. (Roma), Columbia (Parigi); durata: 108’; incasso: £ 218.000.000.
1974
ALLA MIA CARA MAMMA NEL GIORNO DEL SUO COMPLEANNO
Regia Luciano Salce; sogg.da Nel giorno dell’onomastico della mamma di Rafael Azcona e Luis
Berlanga; adatt. Luciano Salce; scen. Sergio Corbucci, Massimo Franciosa, Luciano Salce;
dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Franco Micalizzi (il brano «Alla mia cara mamma»
è di Micalizzi-Pilagra); mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Anna Maria Roca; a.mo. Angela Bordi
Scricchiola; scg.e co. Fiorenzo Senese; a.scg. Claudio Cinini; a.co. Giuliana Serano; a.arr. Nello
Giorgetti; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua; a.re. Giorgio Gentili; i.p. Attilio Viti; s.p. Pietro
Sassaroli, Piero Pennesi; s.ed. Egle Guarino; amm. Rolando Pieri; op. Roberto Brega; ass.op.
Luigi Bernardini; a.op. Francesco Gagliardini; fo. Mario Dallimonti; mic. Gianfranco Pacella; tr.
Gianfranco Mecacci; par. Paolo Franceschi; f.sc. Franco Bellomo; interpreti: Paolo Villaggio
(conte Fernandoo, detto Didino), Lila Kedrova (contessa Mafalda, sua madre), Eleonora Giorgi
(Angela), Antonino Faà di Bruno (zio Alberto), Orchidea De Santis (Jolanda, la sposa), Enzo
Spitaleri (Fernando, lo sposo), Renato Chiantoni (Anchise, domestico), Vera Drudi (Driade,
domestica), Jimmy il Fenomeno (Peppe, fratello di Angela), Guido Cerniglia (amico di Didino),
Carmine Ferrara, Carla Mancini, Vittorio Fanfoni. Produttore: Rusconi Film; durata: 102’;
incasso: £ 401.000.000.
6
1975
FANTOZZI (t.te. Das Grosse Rindvieh veit und breit)
Regia Luciano Salce; sogg.dal libro omonimo di Paolo Villaggio; scen. Leo Benvenuti, Piero De
Bernardi, Luciano Salce, Paolo Villaggio; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Fabio
Frizzi, dir.da Vince Tempera; cons.mus. Franco Bixio (canzoni e brani musicali: «La ballata di
Fantozzi» di Benvenuti-De Bernardi-Frizzi-Bixio-Villaggio e «L’impiegatango» di Benvenuti-De
Bernardi-Bixio-Frizzi-Tempera sono cantate da Paolo Villaggio, «Nann’ (‘na gita a li castelli)»,
«The Candlelight Valtz» di C.Dumont, «La fanfara dei bersaglieri»); mo. Amedeo Salfa; scg.
Nedo Azzini; co. Orietta Nasalli Rocca; arr. Osvaldo Desideri; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua;
a.re. Maurizio Mein; i.p. Attilio Viti; amm. Nicola Olasio; op. Roberto Brega; fo. Mario
Dallimonti; tr. Gianfranco Mecacci; par. Paolo Franceschi; interpreti: Paolo Villaggio (rag. Ugo
Fantozzi), Liù Bosisio (la signora Pina), Gigi Reder (rag.Renzo Filini), Anna Mazzamauro
(signorina Silvani), Giuseppe Anatrelli (Calboni), Umberto D’Orsi (cav. Diego Catellani), Plinio
Fernando (Mariangela), Paolo Paoloni (megadirettore galattico), Nello Pazzafini (un teppista),
Dino Emanuelli (un impiegato), Elena Tricoli (madre di Catellani), Piero Zardini (Fonelli),
Artemio Antonini, Nicola Morelli, Valerio Ruggeri, Mirko Baiocchi, Willy Colombaioni, Giuseppe
Terranova, Luciano Bonanni (cliente al ristorante giapponese), Jolanda Fortini, Ivano Gobbo,
Amerigo Alberani, Vincenzo Tavaglini, Ettore Geri, Jimmy il Fenomeno (un impiegato alla
ricerca di Fantozzi). Produttore: Giovanni Bertolucci per Rizzoli Film; durata: 97’; incasso: £
1.765.000.000 (secondo nella classifica dei film italiani più visti del 1975-76 dopo Amici miei)
L’ANATRA ALL’ARANCIA (t.fr. Le canard à l’orange/t.ted. Ente auf orange/t.ing. Duck in orange
sauce)
Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia di William Douglas Home e Marc Gilbert Sauvajon;
scen. Bernardino Zapponi; dir.fot. Franco Di Giacomo; mus. Armando Trovajoli (le canzoni
«Canard à l’orange», «Prima o poi», «Enfado», «You keep on turning me on» di TrovajoliG.Calabrese sono cantate da Suan); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Maria Luisa Luzi; scg.
Lorenzo Baraldi; co. Luca Sabatelli; a.co. Rosanna Andreoni; arr. Vincenzo Medusa; o.g.
Luciano Luna; d.pr. Vincenzo Mazzucchi; a.re. Stefano Rolla; i.p. Attilio Viti; s.p. Massimo
Ferrero; amm. Mario Lupi; s.ed. Marisa Agostini; op. Giuseppe Lanci, Gianfranco Transunto;
mix. Mario Morigi; fo. Mario Celentano; tr. Gianfranco Del Brocco; a.tr. Alvaro Rossi; par. Paolo
Franceschi; f.sc. Roberto Russo; interpreti: Monica Vitti (Lisa Stefani), Ugo Tognazzi (Livio
Stefani), Barbara Bouchet (Patty), John Richardson (Jean-Claude Ardin), Sabina De Guida
(Cecilia), Antonio Allocca (Carmine, suo marito), Tom Felleghi (un amico di Livio). Produttore:
Mario Cecchi Gori per Capital Film; durata: 102’; incasso: £ 776.000.000.
Premio David di Donatello a Monica Vitti e Ugo Tognazzi come migliori attori protagonisti
1976
IL SECONDO TRAGICO FANTOZZI
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Paolo Villaggio, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi dai libri di
Paolo Villaggio Fantozzi e Il secondo tragico libro di Fantozzi; coll.scen. Luciano Salce; dir.fot.
Erico Menczer (Technicolor); mus. Fabio Frizzi, Franco Bixio, Vince Tempera; mo. Antonio
Siciliano; ass.mo. Angela Bordi; scg. Carlo Tomassi; ass.scg. Nello Giorgetti; co. Orietta Nasalli
Rocca; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua; a.re. Gianfranco Coduti; i.p. Attilio Viti; op. Roberto
Brega; c.tr. Gianfranco Mecacci; tr. Marcello Meniconi; par. Mirella Ginnoto; fo. Massimo
Jaboni; mix. Gianni D’Amico; mic. Gianfranco De Matthaeis; m.armi Nazareno Zamperla;
interpreti: Paolo Villaggio (rag. Ugo Fantozzi), Liù Bosisio (signora Pina), Anna Mazzamauro
(signorina Silvani in Calboni), Gigi Reder (rag. Filini), Giuseppe Anatrelli (Calboni), Plinio
Fernando (Mariangela), Ugo Bologna (dirigente aziendale), Antonino Faà di Bruno (duca conte
Semenzara), Nietta Zocchi (contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare), Mauro Vestri
(Guidobaldo Maria Riccardelli), Paolo Paoloni (megapresidente galattico), Piero Palermini
(direttore hotel a Capri), Piero Zardini (Fonelli), Dino Emanuelli (un impiegato), Amerigo
Alberani, Mario Bartolomei, Eolo Capritti, Arnaldo Colombaioni, Vera Drudi, Willy Colombaioni,
Giorgio Jovine, Giuseppe Torrenova, Bruno Bartocci, Luigi Rossi. Produttore: Giovanni
Bertolucci per Rizzoli Film; durata: 105’; incasso: £
1977
LA PRESIDENTESSA
Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia omonima di Pierre Veber e Maurice Hennequin;
scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Lelio Luttazzi (i motivi musicali «Souvenir»
di Luttazzi e «La solita musica» di Luttazzi e Pilantra sono eseguiti dall’autore con i 4+4 di Nora
Orlandi); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Lina Caterini, Maria Luisa Lisci; scg. Dante Ferretti;
co. Gianfranco Carretti, Paola Comencini; arr. Vincenzo Medusa; o.g. Luciano Luna; d.pr.
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Vincenzo Mazzucchi; a.re. Renzo Spaziani; coreog. Renato Greco; i.p. Luciano Calzola; s.p.
Stefano Fabi, Tommaso Pantano; s.ed. Marisa Agostini; amm. Mario Lupi; cass. Giulio Cestari;
op. Maurizio Scanzani; ass.op. Renato Ranieri, Stefano Ricciotti; fo. Umberto Picistrelli; mic.
Giovanni Fratarcangeli; mix. Romano Checcacci; tr. Giuliano Laurenti; par. Alfredo Marazzi,
Paolo Franceschi; a.tr. Feliciano Ciriaci; a.par. Maria Luisa Garbini; sarta: Orsola Liberati;
interpreti: Johnny Dorelli (Ottavio Beghin, il ministro), Mariangela Melato (Yvette Jolifleur),
Gianrico Tedeschi (Agostino Trecanti, il giudice), Vittorio Caprioli (commissario capo Mazzone),
Luciano Salce (Bortignon), Elsa Vazzoler (Egle Trecanti), Marco Tulli (Salvatore), Laura Trotter
(figlia di Trecanti), Ria De Simone (Angelina), Giuliana Melis (Sofia, la cameriera), Ugo Bologna
(notaio Piovano), Renzo Marignano (turista scozzese), Lucio Montanaro (usciere), Tuccio
Rigano (ballerino), Fernando Cerulli. Produttore: Mario Cecchi Gori per Capital Film; durata:
105'; incasso: £ 978.000.000.
IL…BELPAESE
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; coll.scen. Luciano Salce, Paolo Villaggio;
dir.fot. Ennio Guarnieri (Eastmancolor); mus. Gianni Boncompagni, Giorgio Farina, Paolo Olmi;
mo. Antonio Siciliano; scg. Ezio Altieri; ass.scg. Mauro Passi; co. Orietta Nasalli Rocca; d.pr.
Eros Lanfranconi; a.re. Renzo Spaziani; i.p. Egidio Valentini, Lamberto Palmieri; s.p. Paola
Surdi; s.ed. Anna Maria Montanari; amm. Angelo Saragò; op. Renato Ranieri; ass.op. Antonio
Scaramuzza; fo. Mario Dallimonti; mic. Corrado Volpicelli; mix. Renato Cadueri; tr. Gianfranco
Mecacci; par. Ennio Cascioli; c.s.m. Ennio Picconi; c.s.e. Amilcare Cuccoli; sarta Stella Battista;
f.sc. Enzo Falessi; interpreti: Paolo Villaggio (Guido Belardinelli), Silvia Dionisio (Mia), Anna
Mazzamauro (sig.ra Gruber), Gigi Reder (Alfredo), Pino Caruso (Ovidio Camorella), Massimo
Boldi (Carletto), Giuliana Calandra (Elena), Raffaele Curi (Spadozza), Ugo Bologna (direttore
banca), Leo Gavero (gioielliere), Saviana Scalfi (Lisetta), Tom Felleghy (Andrea, sequestrato),
Bruno Modugno (sé stesso), Emilio Lo Curcio (il pregiudicato), Giacomo Assandri (capo racket),
Franco Bucceri, Carla Mancini. Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film;
durata: 109’; incasso: £ 1.104.000.000.
1978
DOVE VAI IN VACANZA? (episodio SI’ BUANA)
Regia Luciano Salce; sogg. Furio Scarpelli, liberamente tratto dal racconto La breve vita felice
di Francis Macomber di Ernest Hemingway; scen. Furio Scarpelli, Alessandro Continenza;
dir.fot. Danilo Desideri (Eastmancolor); mus. Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera (la
canzone «Sì buana» di D.Meakin-Frizzi-Bixio-Tempera); mo. Antonio Siciliano; scg. Francesco
Chianese; co. Bona Nasalli Rocca; d.pr. Romano Dandi; a.re. Giuseppe Pollini; s.p. Gino Usai;
s.ed. Serena Canevari; op. Roberto Brega; a.op. Domenico Ciampanella; fo. Massimo Loffredi;
mic. Giovanni Fratarcangeli; tr. Gianfranco Mecacci; par. Mirella Ginnoto; sarta: Stella Battista;
fr. Franco Bellomo; interpreti: Paolo Villaggio (Arturo), Anna Maria Rizzoli (Margherita), Daniele
Vargas (Ciccio Colombi), Gigi Reder (Paolo Panunti), Paolo Paoloni (funzionario delle
assicurazioni), Peter Abadire (Kangoni), Rita Silva, Clarita Gatto, Paola Arduini. Produttore:
Rizzoli Film; durata: 35’ ca.; incasso: £ 1.565.000.000.
Gli altri episodi sono Sarò tutta per te (Mauro Bolognini), Le vacanze intelligenti (Alberto
Sordi).
IL PROFESSOR KRANZ TEDESCO DI GERMANIA
Regia Luciano Salce; sogg.ispirato al personaggio omonimo creato da Paolo Villaggio; scen.
Ugo Liberatore, Fabrizio Zampa, Augusto Caminito, Giuseppe Catalano; revis.e coll.scen. Paolo
Villaggio, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Costa Serran; dir.fot. Danilo Desideri (Vistavision);
mus. Piero Piccioni (la canzone «Golpe Herrado» è composta ed eseguita da Vinicius de Moraes
e Toquinho); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Pasqua Di Benedetto; a.mo. Patrizia Lisci; art.dir.
Laonte Clawa; scg. Fernando Cardejas; co. Marcelo De Barros, Vera Rita de Reja; o.g. Stefano
Rolla; d.pr. Elio Di Pietro, Nelson Do Carmo, Fideias Barbosa; a.re. Carlos De Couto, Stefano
Rolla; s.ed. Serena Canevari, Eugenia De Oliveira; amm. Claudio Saraceni; cas. Leonardo
Curreri; op. Roberto Brega; ass.op. Domenico Ciampanelli, Renato Padovani; fo. Massimo
Jaboni; mix. Renato Cadueri; tr. Jacque Jorge Monteiro, Pierantonio Mecacci; par. Mirella
Ginnoto; c.s.e. Otello Diodato; uff.stam. Enrico Lucherini; interpreti: Paolo Vilaggio (prof. Franz
von Kranz), Josè Wilker (Leleco), Vitoria Chamas (Dosdores), Maria Rosa (Raimunda), Adolfo
Celi (carcamano), Walter D’Avila (Fittipaldi), Alexandre De Souza, Joaquim Suarez, Berta
Loran, Gina Teixeira, Josè Fernando. Produttore: Fausto e Cristiano Saraceni per Effe Esse
(Roma), Brasfilm (Sao Paulo); durata: 113’; incasso: £ 160.000.000.
8
1979
RIAVANTI…MARSCH!
Regia Luciano Salce; sogg. Teodoro Agrimi, Augusto Caminito; scen. Augusto Caminito,
Luciano Salce; dir.fot. Sergio Rubini (Technicolor); mus. Piero Piccioni; mo. Antonio Siciliano;
ass.mo. Andrea Caterini; scg. Carlo Leva; co. Giulietta De Riu; o.g. Teodoro Agrimi; a.re.
Roberto Palmerini; i.p. Mario Olivieri; s.p. Giuseppe Cicconi; s.ed. Marisa Agostini; amm. Enrico
Savelloni; op. Michele Pensato; fo. Antonio Pantano; tr. Stefania Trani; par. Jolanda Conti;
sarta Irene Parlagreco; ediz. Carlo Razzi; c.s.m. Giuseppe Raimondi; c.s.e. Furio Rocchi;
interpreti: Alberto Lionello (Giovanni Crippa), Aldo Maccione (Otello Cesarini), Carlo Giuffrè
(barone Francesco Paternò), Stefano Satta Flores (Alessio Rossetti), Renzo Montagnani (ten.
Pietro Bianchi), Sandra Milo (Zaira Bergamelli), Olga Karlatos (Elena), Anna Maria Rizzoli
(Immacolata Paternò), Adriana Russo (Valeria Sabbioni), Silvia Dionisio (Marina), Paola
Quattrini (Sofia Bianchi), Venantino Venantini (ser. Sconocchia), Gigi Reder (col. Luigi Placidi),
Elisa Mainardi (la “matrjoska”), Nello Pazzafini (Bolchi), Roger Browne (gen. Thompson),
Rolando Fucili (ufficiale giudiziario), Carmen Russo (la prostituta), Alberto Pudia, Alfredo
Zamarion, Renzo Rinaldi, Renato Cecilia, Rita Forzano, Stefano Galantucci. Produttore: P.A.C.
(Produazioni Atlas Consorziate); durata: 118’; incasso: £ 250.000.000
1980
RAG. ARTURO DE FANTI BANCARIO PRECARIO
Regia Luciano Salce; sogg. Luciano Salce; scen. Ottavio Alessi, Augusto Caminito, Luciano
Salce; dir.fot. Sergio Rubini; mus. Piero Piccioni; mo. Antonio Siciliano; scg. Elio Micheli; o.g.e
d.pr. Teodoro Agrimi; a.re. Roberto Palmerini; i.pr. Mario Olivieri; s.pr. Giuseppe Cicconi; op.
Michele Pensato; ass.op. Maria Grazia Nardi; interpreti: Paolo Villaggio (rag. Arturo De Fanti),
Catherine Spaak (Elena), Anna Maria Rizzoli (Vanna), Gigi Reder (Guglielmo, detto “Willy”),
Anna Mazzamauro (principessa Selvaggia Degli Antinori), Enrica Bonaccorti (Smeralda), Carlo
Giuffrè (Libero Catena), Ugo Bologna (dott. Morpurgo), Vincenzo Crocitti (Ciuffini, bancario),
Paolo Paoloni (conte Ernesto di Sacrofano), Angelo Pellegrino (padre Nicodemo). Produttore:
P.A.C.; durata: 92’; incasso:
1982
VIENI AVANTI CRETINO
Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Franco Bucceri, Roberto Leoni; coll.scen. Lino Banfi;
dir.fot. Erico Menczer (Telecolor); mus. Fabio Frizzi; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Giancarlo
Morelli; a.mo. Andrea Caterini; scg. Giorgio Postiglione; co. Vera Cozzolino; o.g. Mario Di
Blase; i.p. Massimo Ferrero; a.re. Roberto Palmerini; s.ed. Marina Mattoli; op. Gianlorenzo
Battaglia; tr. Franco Di Girolamo; par. Placida Crapanzano; mic. Giulio Viggiani; mix. Bruno
Moreal; eff.sp. Alvaro Gramagna, Fernando Caso; f.sc. Bruno Bruni; interpreti: Lino Banfi
(Pasquale Bautasso/se stesso), Franco Bracardi (Gaetano, il cugino), Gigi Reder (l’ingegnere
dal dentista), Michela Miti (Carmela), Luciana Turina (Palmira), Adriana Russo (la ragazza al
bar), Anita Bertolucci (Maria), Ramona Dell’Abate, Annabella Schiavone, Deda Gallotti,
Roberto Della Casa (il marito geloso), Danila Trebbi, Paolo Paoloni (direttore ufficio di
collocamento), Leonardo Cassio, Nello Pazzafini (Salvatore Gargiulo), Mireno Scali (sosia di
Benigni), Alfonso Tomas (dottor Tomas), Piero Zardini (Radames), Lia Ferci, Giovanni Morosi,
Giulio Farnese, Bruno Rosa, Francesco Viscardi, Giuseppe Spezia, Willi Colombaioni, Moana
Pozzi (caporeparto), Jimmy il Fenomeno (Raffaele), Mimmo Poli, Ennio Antonelli (due
carcerati) Luciano Salce (se stesso). Produttore: Giovanni Bertolucci, Aldo Passalacqua per
San Francisco Film; durata: 95’; incasso: £ 3.600.000.000
1983
THE INNOCENTS ABROAD (GLI INNOCENTI VANNO ALL’ESTERO)
Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo di Mark Twain; scen. Alberto Silvestri, Luciano Salce,
Dan Wakefield; dir.fot. Erico Menczer; mus. William Perry; mo. Angelo Curi; ass.mo. Maria
Pia Petito; scg.e arr. Elio Balletti; a.arr. Fabio Vitali; co. Giulia Mafai; d.pr. Anselmo
Parrinello; a.re. Roberto Palmerini; i.p. Giuseppe Butti; s.p. Antonio Tacchia; s.ed. Egle
Guarino; op. Mario Morabito; ass.op. Martino Bonicelli; fo. Mario Bramonti; mic. Giuseppe
Muratori; tr. Cesare Paciotti; par. Marisa Costanzi; amm. Salvatore Farese; mix. Danilo
Moroni; sarta Clara Fratarcangeli; interpreti: Craig Wasson (Mark Twain), Luigi Proietti
(Fergusson, la guida), Brooke Adams (Julia), David Ogden Stiers (Doc), Charles Kimbrough
(editore), Ed Van Nuys (publisher), Anton Giulio Majano (rev. Hutkinson), John Stacy (dott.
Andrews), Cindy Leadbetter (Kate), Venantino Venantini (Bartender), Brunello Chiodetti
(Czar), Barry Morse, Andréa Ferréol (Mary), Jess Hahn, Gianni Bonagura (Cutter), Andrea
Occhipinti (Charlie), Carlo Giuffrè (barbiere napoletano), Margherita Horowitz, Richard
9
McNamara, Ferdinando Patriarca, Lucia Perego, Jacques Peyrac. Produttore: Giulio Scanni per
FilmOdeon (Roma), Pro.Ge Fi (Parigi), Taurus Film (Monaco), The Greatest Amwell Company,
Nebraska Etv Network Lincoln; durata: 120’; Film in due puntate: 29-31/01/1985 (Raiuno,
22.08, durata: 57’).
1984
VEDIAMOCI CHIARO
Regia Luciano Salce; sogg. Franco Verucci, Romolo Guerrieri; scen. Franco Bucceri, Roberto
Leoni; dir.fot. Danilo Desideri (Telecolor); mus. Fabio Liberatori (la canzone «Mezzanotte
chiara» di Della Casa-Barbato è cantata da Franco Barbato); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo.
Carlo D’Alessandro, Valentina Curati; scg. Claudio Cinini; co. Silvio Laurenzi; a.co. Stefano
Arguilla; i.p. Gilberto Scarpellini; d.pr. Silvano Scarpellini; a.re. Roberto Palmerini; s.ed. Marisa
Agostini; s.p. Filippo Campus; amm. Anna Maria De Pedys; op. Idelmo Simonelli; ass.op. Carlo
Milani; a.op. Claudio Valerio; fo. Mario Dallimonti; mic. Giulio Viggiani; tr. Giulio Mastrantonio;
par. Giancarlo Marini; interpreti: Johnny Dorelli (ing. Alberto Catuzzi), Eleonora Giorgi
(Eleonora Bauer), Janet Agren (Geneviève), Angelo Infanti (Gianluca), Giacomo Furia
(Peppino), Milly D’Abbraccio (Monique), Ivo Anzivino, Fiammetta Baralla (suor Carlona),
Arnaldo Caivano, Geoffrey Gerald Copleston (comm. Mercalli), Duccio Dagoni, Tom Felleghy,
Jasmine Mamone, Michele Mirabella (l’assicuratore), Giancarlo Palermo, Stefano Palmerini,
Vincenzo Tripodi, Piero Vivaldi, Tamara Triffez (Samantha). Produttore: Adige Film ’76; durata:
100’; incasso:
1988
QUELLI DEL CASCO
Regia Luciano Salce; sogg. Peter Gonzales; scen. Franco Bucceri; dir.fot. Erico Menczer
(Telecolor); mus. The Grop’s Power; mo. Antonella Cipriani; scg. Antonio Murru; co. Silvio
Laurenzi; d.pr. Enzo Tacchia; i.p. Roberto Portoghesi; a.re. Maurizio Sciarra; ass.re. Enrico
Coletti; op. Roberto Bettoia; s.p. Carlo Barbieri; s.ed. Renata Franceschi; fo. Carlo Palmieri,
Andrea Moser; tr. Maurizio Nardi; par. Gina Usidda; interpreti: Francesco Bonelli (uno
studente), Giovan Battista Cannavacciuolo, Dario Casalini, Danilo Ceccarelli, Sonia
Degaudenz, Carmen Di Pietro (Gilda), Tommy Givogre, Romina Lari, Luana Ravegnini
(Monica), Fabrizio Rogano, Riccardo Rossi (Riccardo), Gianluca Favilla, Dario Salvatori
(Peletti), Carla Cassola (la preside), Anna Longhi (la madre di Spina), Anna Melato (la madre
di Sandro), Ronald Russo, Luigi Tondinelli, Luigi De Filippo (padre Gavazzi), Daniela Poggi
(l’amante di Matteo), Renzo Montagnani (prof. Impallomeni), Paolo Panelli (il portiere),
Rosanna Di Lorenzo (la moglie), Luciano Salce (il vescovo), Mario De Candia, Antonio De Leo,
Teresa Di Palma, Rolando Fucili, Salvatore Jacono, Carla Pampaloni, Paolo Paoloni (il maitre),
Maria Pia Regoli, Fabio Rusca, Pasquale Vitiello. Produttore: Filiberto Bandini per Filmauro
s.r.l., R.P.A. International Sas, Reteitalia s.p.a.; pr.es. Paolo Lucidi; durata: 92’. Incasso:
Interpretazioni
1946
1948
1952
1953
1955
1958
1959
1961
1962
1963
Un americano in vacanza (re. Luigi Zampa)
L’astuto barone (re. Riccardo Freda)
Tenori per forza (re. Riccardo Freda)
Angela (re. Tom Payne e A. P. De Almeida)
Uma pulga na balança (anche regia)
Floradas na serra (anche regia)
Piccola posta (re. Steno)
Guardia, ladro e cameriera (re. Steno)
Totò nella Luna (re. Steno)
Tipi da spiaggia (re. Mario Mattoli)
I baccanali di Tiberio (re. Giorgio C. Simonelli)
Il carabiniere a cavallo (re. Carlo Lizzani)
Il federale (anche regia)
La ragazza di mille mesi (re. Steno)
La voglia matta (anche regia)
La cuccagna (anche regia)
Le ore dell’amore (anche regia)
Il giorno più corto (re. Sergio Corbucci)
10
1965
1967
1968
1969
1970
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1982
1988
Gli onorevoli (re. Sergio Corbucci)
L’ora di punta, ep. di Oggi,domani e dopodomani (re. Eduardo De Filippo)
Le dolci signore(re. Luigi Zampa)
Lo smemorato (anche regia)
Colpo di stato (anche regia)
Oh dolci baci e languide carezze (re. Mino Guerrini)
Basta guardarla (anche regia)
Mazzabubù...quante corna stanno quaggiù (re. Mariano Laurenti)
Il prete sposato (Marco Vicario)
Ettore lo fusto (re. Enzo G. Castellari)
Homo eroticus (re. Marco Vicario)
Non commettere atti impuri (Giulio Petroni)
Anche se volessi lavorare, che faccio? (re. Flavio Mogherini)
Bisturi la mafia bianca (re. Luigi Zampa)
Commissariato di notturna (re. Guido Leoni)
La signora è stata violentata (re. Vittorio Sindoni)
Uomini duri (re. Duccio Tessari)
Il domestico (re. Luigi Filippo D’Amico)
Un uomo, una città (Romolo Guerrieri)
Nipoti miei diletti (Franco Rossetti)
Amore mio non farmi male (re. Vittorio Sindoni)
Son tornate a fiorire le rose (re. Vittorio Sindoni)
Perdutamente tuo...mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe (re. Vittorio Sindoni)
Di che segno sei ? (re. Sergio Corbucci)
L’affittacamere (re. Mariano Laurenti)
I prosseneti (Brunello Rondi)
La presidentessa (anche regia)
Ride bene...chi ride ultimo: ep. Sedotto e violentato (re. Pino Caruso)
La visita di controllo (re. Vittorio Sindoni)
L’amnistia, ep. di Maschio latino...cercasi (re. Gianni Narzisi)
Ridendo e scherzando (re. Vittorio Sindoni): ep. Nozze d’argento
Tanto va la gatta al lardo... (re. Vittorio Sindoni): ep. Le tre verginelle
Processo per direttissima
Voglia di donna (re. Franco Bottari)
Belli e brutti ridono tutti (re. Domenico Paolella)
Una moglie, due amici, quattro amanti (re. Michele Massimo Tarantini)
Quasi quasi mi sposo (re. Vittorio Sindoni)
Vieni avanti cretino (anche regia)
Quelli del casco (anche regia)
Soggetti e sceneggiature
1961
1964
1969
Il mantenuto (re. Ugo Tognazzi; scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Luciano Salce,
Castellano e Pipolo, Ugo Tognazzi)
Il trattato di eugenetica, ep. Le bambole (re. Luigi Comencini; sogg. Luciano Salce, Steno)
Oh! Dolci baci e languide carezze (re. Mino Guerrini; scen. Elvy Bayardo, Marino Onorati,
Mino Guerrini, Luciano Salce)
TEATRO
11
Teatrografia
1955
L’ARCISOPOLO (commedia in tre atti, scritta in collaborazione con Vittorio Caprioli e
Franca Valeri). Regia Luciano Salce. Interpreti: Franca Valeri, Luciano Salce, Vittorio
Caprioli.
1958
DON JACK (atto unico)
Prima rappresentazione: Roma, Teatro Quirino, 8/3/1958. Regia Vittorio Gassman;
interpreti: Vittorio Gassman (Andrea Falco), Edmonda Aldini (Laura Cardone), Grazia
Maria Spina (Iris De Zan), Mario Feliciani (on.Bra), Giulio Bosetti (Leoni), Vittorio Congia
(Colautti), Massimo De Francovich (la statua), Andrea Bosich (il regista bulgaro), Carmen
Pericolo (Carmela), Fortunato Arena (l’aiuto regista).
1959
IL LIETO FINE (commedia in due atti)
Prima rappresentazione: Firenze, Pergola, 31/12/1959. Regia Alberto Bonucci; interpreti:
Lauretta Masiero, Alberto Lionello, Lina Volonghi.
Regie
1947
1949
1950
1951
1952
1953
1955
1956
1957
1958
1959
1985
ANTHONY di Alexandre Dumas padre
UN GIOVANE FRETTOLOSO di Eugène Labiche (Roma, Teatro Valle, 29/11/1947)
GEORGE DANDIN di Molière (Firenze, Piccolo Teatro, 5/3/1949)
INNOCENZA DI CAMILLA di Massimo Bontempelli (Roma, Piccolo Teatro, 29/4/1949)
I FIGLI DI EDOARDO di Jackson, Bottomley e Sauvajon (comp. Pagnani-Cervi,
7/1/1950)
L’AVARO di Molière (Roma, Teatro Ateneo, 19/2/1950)
A IMPORTANCIA DE SER PRUDENTE di Oscar Wilde (San Paolo)
O ANJO DE PEDRA (SUMMER AND SMOKE) di Tennessee Williams (San Paolo)
DO MUNDO NADA SE LEVA (YOU CAN’T TAKE IT WITH YOU) di G.S.Kaufman e M.Hart
(SanPaolo)
L’INVENTORE DEL CAVALLO di Achille Campanile (Teatro de Segunda Feira)
CONVITE AO BAILE (L’INVITATION AU CHATEAU) di Jean Anouilh (T.Brasileiro de
Comedia)
A DAMA DAS CAMELIAS di Alexandre Dumas figlio (T.B.C.)
NIMIGOS INTIMOS (AMI-AMI) di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy (T.B.C.)
NA TERRA COMO NO CEU (DAS HEILIGE EXPERIMENT) di Fritz Hochwalder (T.B.C.)
O LEIPTO NUCIAL (THE FOURPOSTER) di J. De Hartog (T.B.C.)
LA REGINA E GLI INSORTI di Ugo Betti (Stabile della Regione Emiliana)
SEXOPHONE di Curzio Malaparte (Milano, T. Nuovo, 19/7/1955)
L’ARCISOPOLO di Luciano Salce, Franca Valeri, Vittorio Caprioli (T.di Via Vittoria,
18/11/1955)
I TROMBONI di Federico Zardi (comp. Gassman, Napoli, 18/12/1956)
UNO SCANDALO PER LILI’ di Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi (comp. Tognazzi)
COLOMBE di Jean Anouilh (comp. Porelli-A. Ninchi-Giovampietro, Roma, T.delle Arti,
18/10/1957)
L’UOVO di Félicien Marceau (comp. Proclemer-Albertazzi, Milano, T.Odeon, 28/12/1957)
UNA DONNA DI CASA di Vitaliano Brancati (comp. Villi-Santuccio, ivi, 15/2/1958)
LA PAPPA REALE di Félicien Marceau (comp. A.Pagnani-L.Masiero-A.Lionello, Perugia,
Teatro Morlacchi, 5//12/1958)
LE TRAME DELUSE di Domenico Cimarosa (Roma, T.della Cometa, 12/3/1959)
VERONICA E GLI OSPITI di Giuseppe Marotta e Belisario Randone (Napoli, 8/4/1959)
POLITICANZA di Italo Moscati (cor. Vittorio Caprioli, Adolfo Celi – Roma, Scaletta,
8/1/1985)
L’INCIDENTE di Luigi Lunari (Milano, Teatro Nazionale, 21/12/1985)
12
Interpretazioni
1947
LA FIERA DELLE MASCHERE di Vito Pandolfi, con la coll. di L.Salce e L.Squarzina, su
canovacci della Commedia dell’Arte (Praga, Festival della Gioventù e Venezia, Festival
del Teatro, re. Vito Pandolfi)
UN GIOVANE FRETTOLOSO di Eugène Labiche (Roma, T.Valle, re. L.Salce)
1948
ROSALINDA di William Shakespeare (Roma, Teatro Eliseo, re. Luchino Visconti)
LES MARIES DE LA TOUR EIFFEL di Jean Cocteau (Firenze, Maggio, re. Vito Pandolfi)
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE di William Shakespeare (Trieste, Castello di
San Giusto, re. Alessandro Brissoni)
1949
LA FAMIGLIA DELL’ANTIQUARIO di Carlo Goldoni (Roma, Piccolo Teatro, re. Orazio
Costa, Arlecchino)
LE ALLEGRE COMARI DI WINDSOR di William Shakespeare (Nervi, Parco Serra, regia di
Alessandro Fersen, parte di Evans)
PECCATO CHE FOSSE UNA SGUALDRINA di John Ford (Firenze, Piccolo Teatro, re.
Luciano Lucignani, parte di Bergetto)
LA FIGLIA OBBEDIENTE di Carlo Goldoni (Venezia, Festival del Teatro, re. Gerardo
Guerrieri, parte di Arlecchino)
IL CORVO di Carlo Gozzi (ivi, re. Giorgio Strehler, parte di Tartaglia)
1955
L’ARCISOPOLO di L.Salce, Franca Valeri, Vittorio Caprioli (T.di Via Vittoria, re. L.Salce,)
1986
C’ERA UNA VOLTA L’ITALA FILM di Giancarlo Sepe (Torino, re. Giancarlo Sepe, parte di
Giovanni Pastrone)
13
TELEVISIONE
Regie
1956
L’ARCISOPOLO
Tre atti di Franca Valeri, Luciano Salce, Vittorio Caprioli (trasmesso solo il II atto in
diretta)
Regia teatrale Luciano Salce; regia televisiva Franco Enriquez; interpreti: Franca Valeri
(Laura Lenzi), Luciano Salce (Fausto Righi), Vittorio Caprioli (Eros Ciccioli); durata: 37’
45’’ (II atto); data trasmissione: 28/5/1956, ore 22.00, Programma nazionale.
1958
L’ORSO E IL PASCIA’
Atto unico di Eugène Scribe. Traduzione e adattamento: Achille Campanile.
Regia Luciano Salce; mus. Gino Negri; interpreti: Michele Riccardini (il pascià), Mario
Scaccia (il ciambellano), Monica Vitti (Rossella), Silvia Monelli (la ciambellana), Alberto
Bonucci (Filippo), Franco Giacobini (Fortunato), Sandro Pellegrini (Alì); durata: 53’; data
trasmissione 9/5/1958, ore 21.00, Programma nazionale.
1959
LE TRAME DELUSE
Opera comica di Domenico Cimarosa. Revisione di Guido Pannain.
Regia teatrale Luciano Salce; regia tv Fernanda Turvani; scg. Pier Luigi Pizzi; durata:
91’data trasmissione: 27/04/1959, ore 21.50, Rai 1.
1978
LA CONVERSAZIONE CONTINUAMENTE INTERROTTA
Commedia di Ennio Flaiano. Regia Luciano Salce; scg.e co. Bruno Garofalo; interpreti:
Gianni Bonagura (il poeta), Giorgio Albertazzi (lo scrittore), Mario Maranzana (il
regista), Elisabetta Pozzi (Crimilde, cameriera incinta e un po’ svanita), Franca
Tamantini (moglie dello scrittore), Gabriele Antonini (il dottore), Lombardo Fornara
(Tavolino, giornalista), Antonio Iodice, Marcello Massimi (imbianchini); data
trasmissione: 4/11/1978, ore 20.40, Rai 2. Durata: 106’
Presentazioni, partecipazioni
1965
STUDIO UNO (Feb.-Apr. 1965). Presentatore, con Lelio Luttazzi, Mina, Milly, Alice e Ellen
Kessler, Mia Martini, Betty Curtis, Nino Manfredi, Paolo Panelli
1967
CI VEDIAMO STASERA IN CASA DI: UGO TOGNAZZI
Regia Stefano Canzio; autori Sandro Continenza, Maurizio Costanzo; presenta Mariella
Palmich; con Ugo Tognazzi; hanno partecipato: Gigi Ballista, Alberto Bevilacqua, Pat Mc
Callum, Ombretta De Carlo, Luciano Salce, John Philip Law, Philippe Leroy, Alfredo Pigna,
Ricky Tognazzi, Michael York; hanno cantato: Paolo Ferrara (La strada giusta), Sergio
Leonardi (I playboys), Donna Loren (Lui con te), Polnareff (Signorina Ta-ta-ta), Tony
Renis (Non mi dire mai good-bye)
1967
MINA-LUCIANO SALCE
Regia Antonello Falqui; autori: Antonio Amurri, Maurizio Jurgens, Antonello Falqui, Guido
Sacerdote; coreog. Don Lurio; co. Folco. Rai 1
1970
SENZA RETE
Trasmissione di musica leggera condotta da Enrico Simonetti, con la partecipazione di
Luciano Salce. Regia Enzo Trapani. Orchestra Rai diretta da Pino Calvi. Interventi musicali
di Mina, Enzo Jannacci, Nicola Arigliano.
1979
BUONASERA CON LUCIANO SALCE (10 puntate, Rai 2)
1
Testi
1958
1959
LE CANZONI DI TUTTI (5 puntate, durata: 60’ ca., 21/09/1958, ore 18.45, Rai 1)
Autori Luciano Salce, Ettore Scola; regia Mario Landi
FILI D’ORO di BUONGIOVANNI
Autori Luciano Salce ed Ettore Scola
Regia Mario Landi; mus. Franco Pisani; rievocazioni musicali Luciano Salce ed Ettore
Scola; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; cor. Paul Steffen; coro m.o Potenza; interpreti:
Gabriella B.Andreini, Fausto Cigliano, Franco Berardi, Alberto Bonucci, Paolo Ferrari,
Aurelio Fierro, Enzo Garinei, Renata Mauro, Dolores Palumbo, Elio Pandolfi, Vinicio
Raimondo, Luciano Rondinella, Franco Scandurra, Silvio Spaccesi, Carlo Sposito, Anna
Maria Ferrero.
Interpretazioni
1960
VITA COL PADRE E CON LA MADRE (4 puntate)
Regia Daniele D’Anza; adattamento Tv Anna Maria Romagnoli; luci Rodolfo Lombardi;
s.pr. Olga Bevilacqua; interpreti: Vittorio De Sica, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Corrado
Pani, Paolo Fratini, Claudio Sorrentino, Rodolfo Bianchi, Elisa Cegani, Grazia Maria
Spina, Ave Ninchi, Edda Piazza, Anty Ramazzini, Mario Feliciani, Luciano Salce, Lucilla
Morlacchi, Lucia Catullo, Paolo Modugno, Leonardo Gorla, Cristine Scher, Adriana
Innocenti, Laura Torchio.
1982
VIAGGIO A GOLDONIA
Regia Ugo Gregoretti; interpreti: Luciano Salce.
1983
CASA CECILIA (ep. Ladri di sottilette)
Regia Vittorio De Sisti; dir fot. Erico Menczer. Interpreti: Delia Scala, Giancarlo Dettori,
Stefania Graziosi, Claudio Mazzenga, Davide Lepore, Zoe Incrocci, Luciano Salce,
Stefania Di Giandomenico, Gianni Garofalo, Carlo Monni. Data trasmissione 16/11/1983.
1984
LA BELLA OTERO
Regia Josè Maria Sanchez; sogg.dal romanzo omonimo di Massimo Grillandi; scen.
Enrico Medioli, Lucia Drudi Demby, Paolo Cavara; mus. Carlo Rustichelli; co. Giulia
Mafai; interpreti: Angela Molina (Lina Otero), Mimsy Farmer (Valentina), Harvey Keitel
(Jurgens), Luciano Salce (Marchand), Stanko Molnar (zar Nicola Rasputin), Lina Sastri
(Carmen Otero), David Brandon (Piriewsky), Gérard Landry (Thomas), Luca Barbareschi
(Max), Eva Chistian (Madame Allemande), Nicola Pistoia (Savin), Cochi Ponzoni
(Vanderbilt), Claudia Baldeo (Lizette), Gianni Cavina (Guglielmo Rosi), Carlos Tristancho
(Paco), Nina Morillas (Carolina Otero).
RADIO
Presentazioni, partecipazioni
1970
FORMULA UNO (25 puntate)
Regia Antonello Falqui; autori Antonello Falqui, Guido Sacerdote; presentatore: Paolo
Villaggio; intervengono: Franca Valeri, Luciano Salce, Ornella Vanoni, Giorgio Albertazzi;
hanno partecipato all’inchiesta: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo
Lizzani, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Roberto Rossellini. (Rai 2)
2
SPECIAL OGGI: CATHERINE SPAAK
Regia Orazio Gavioli; autori: Lucio Ardenzi; interviste: Franco Solfiti; intervengono:
Castellano e Pipolo, Catherine Spaak, Gliberto Mazzi, Francesco Romano, Luciano Salce,
Vittorio Gassman. Durata: 90’; data 14/09/1973 (Rai 2).
1974
I MALALINGUA
Interpretazioni
1955
STORIA DI MICHELE PEZZA DETTO FRA’ DIAVOLO
Regia Anton Giulio Majano; autori Dario Puccini, Erasmo Valente; interpreti: Roberto
Bertea, Antonio Battistella, Nino Bonanni, Angelo Calabrese, Vittorio Caprioli, Alida
Cappellini, Renato Cominetti, Gustavo Conforti, Lia Curci, Gemma Griarotti, Manlio
Guardabassi, Adriana Januccelli, Loretta La Moglie, Paolo Modugno, Antonio Pierfederici,
Gigi Reder, Maria Teresa Rovere, Cesira Sainati, Fernando Solieri, Luciano Salce, Giotto
Tempestini, Massimo Turci, Enrico Urbini, Aleardo Ward, Rodolfo Cappellini. Durata: 60’
(tre puntate).
Commedie radiofoniche
1955
LA ZUCCHERIERA (data trasmissione 20/07/1957)
Autori Vittorio Caprioli, Luciano Salce, Franca Valeri; regia e interpretazione Luciano
Salce, Vittorio Caprioli, Franca Valeri. Durata: 52’.
Esiste anche un’edizione francese per Premio Italia 1955
Regie
1967
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
Autore Natalia Ginzburg; regia Luciano Salce; interpreti: Renzo Montagnani (Pietro),
Adriana Asti (Giuliana), Edda Ferronao (Vittoria), Italia Marchesini (madre di Pietro), Rita
Guerrieri (Ginestra, sorella di Pietro). Durata: 86’. Data trasmissione: 27/03/1967 (Rai
3).
BIBLIOGRAFIA
Luciano Salce, Cattivi soggetti, Rizzoli, Milano, 1981, pp.167
3
PASQUALE FESTA CAMPANILE
CINEMA
Regie
1963
UN TENTATIVO SENTIMENTALE (t.fr. Amour sans lendemain)
Regia Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sogg.e scen. Pasquale Festa
Campanile, Massimo Franciosa; coll.scen. Elio Bartolini, Luigi Magni; dir.fot. Ennio Guarnieri;
mus. Piero Piccioni; mo. Ruggero Mastroianni; scg.e co. Lucia Mirisola; arr. Franco Cuppini;
o.g. Luciano Perugia; d.pr. Nello Meniconi; a.re. Luigi Magni; s.p. Ermida Aichimo; s.ed.
Mirella Gamacchio; op. Danilo Desideri; fo. Mario Faraoni; tr. Nilo Jacoponi; interpreti:
Françoise Prévost (Carla), Jean-Marc Bory (Dino), Leticia Roman (Luciana), Giulio Bosetti
(Renato), Barbara Steele (Silvia), Gabriele Ferzetti (Giulio), Maria Pia Luzi (Irene), Marino
Masè (Piero), Antonio Segurini (Brunello), Maria Teresa Orsini. Produttore: Luciano Perugia e
Nello Meniconi per Franca Film, Federiz (Roma), France Cinéma Production (Parigi); durata:
100’; incasso: £ 118.000.000
1964
LE VOCI BIANCHE (t.fr. Le sexe des anges/ t.Usa White voices, poi Under cover rouge)
Regia Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sogg.e scen. Pasquale Festa
Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Magni; dial. Luigi Magni; dir.fot. Ennio Guarnieri
(Technicolor); mus. Gino Marinuzzi jr.; mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Adriana Olasio;
scg.e co. Pier Luigi Pizzi; a.co. Luigi Samaritani; arr. Franco Cuppini; o.g. Nello Meniconi,
Luciano Perugia; cons.storico- musicale Alfredo Bianchini; coll.art. Luigi Magni; i.p. Angelo
Jacono; s.ed. Mirella Camacchio; op. Danilo Desideri; ass.op. Franco Bruni; fo. Mario
Faraoni; mic. Primiano Muratori; c.tr. Giuseppe Banchelli; tr. Nilo Jacoponi, Alfio Meniconi;
par. Amalia Paoletti, Sandro Jacoponi; interpreti: Paolo Ferrari (Meo), Anouk Aimée
(Lorenza), Vittorio Caprioli (Matteuccio), Graziella Granata (Teresa), Claudio Gora (sor
Marcello), Philippe Leroy (Ascanio Savello), Barbara Steele (Giulia), Jacqueline Sassard (la
ragazza che gioca a nascondino), Sandra Milo (Carolina), Jean Tissier (marito di Teresa),
Leopoldo Trieste (“Ora pro nobis”), Jeanne Valerie (Maria), Anita Durante (madre di Meo),
Alfredo Bianchini (primo attore), Francesco Mulè (il frate trappista), Jacques Herlin (un altro
frate), Guglielmo Spoletini, Filippo Spoletini (fratelli di Meo), Giulio Calì (il pellegrino), Luigi
Basagaluppi, Giulio Battiferri. Produttore: Nello Meniconi, Luciano Perugia per Franca Film,
Cin.ca Federiz (Roma), Francoriz (Parigi); durata: 100’; incasso: £ 495.000.000.
LA COSTANZA DELLA RAGIONE (t.fr Avec amour et avec rage)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini; scen. Fabio
Carpi, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Giorgio Zinzi (la canzone
«Oggi è domenica per noi» è cantata da Sergio Endrigo, «Vola colomba» di CherubiniConcina, «More (mondo cane)» di Ortolani-Oliviero); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo.
Marcello Olasio; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; ass.scg. Franco Cuppini; ass.co. Gabriella Pescucci;
o.g. Luciano Perugia, Nello Meniconi; coll.re. Franco Giraldi; i.p. Angelo Jacono; s.p. Armida
Jachino; s.ed. Mirella Gamacchio, Franca Franco; op. Danilo Desideri; ass.op. Franco Bruni;
amm. Gianna Di Michele; fo. Mario Faraoni; mic. Primiano Muratori; tr. Nilo Jacoponi; par.
Sandro Jacoponi; intrepreti: Catherine Deneuve (Lori), Samy Fray (Bruno), Enrico Maria
Salerno (Millo), Norma Benguell (Ivana, madre di Bruno), Sergio Tofano (don Bonifazi),
Andrea Checchi (padre di Lori), Valeria Moriconi (Giuditta), Glauco Mauri (Luigi), Adriana
Ambesi. Produttore: Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa per Franca Film (Roma),
S.té Nouvelle de C.ie (Parigi); durata: 120’; incasso: £ 119.000.000
1965
UNA VERGINE PER IL PRINCIPE (t.fr. Une vierge pour le prince)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.Pasquale Festa Campanile tratto da documenti
raccolti sotto il titolo di Una vergine per il principe (ed. Canesi) e dal volume I segreti dei
Gonzaga di Maria Bellonci; scen. Ugo Liberatore, Giorgio Prosperi, Pasquale Festa Campanile;
1
dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Luis Enriquez Bacalov; mo. Otello Colangeli;
ass.mo. Marcello Olasio; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; a.co. Vera Marzot; a.scg. Luciano Ricceri;
a.arr. Franco Cuppini; d.pr. Mario De Biase; a.re. Gabriele Palmieri; s.ed. Elvira D’Amico;
amm. Gianna Di Michele; op. Franco Di Giacomo; fo. Mario Faraoni; mix. Primiano Muratori;
tr. Giuseppe Banchelli; coll.tr. Nilo Jacoponi, Otello Sisi; par. Ada Palombi; uff.st. LucheriniRossetti-Spinola; interpreti: Vittorio Gassman (principe Vincenzo Gonzaga), Virna Lisi
(Giulia), Philippe Leroy (Ippolito), Vittorio Caprioli (marchese Liginio), Tino Buazzelli (duca di
Mantova), Anna Maria Guarnieri (Margherita Farnese), Maria Grazia Buccella (marchesa
Clelia di Pepara), Giusi Raspani Dandolo (Francesca Gonzaga, duchessa di Mantova), Mario
Scaccia (Francesco Gonzaga), Paola Borboni (madonna Violante), Josè Luis de Villalonga
(Francesco de’ Medici), Alfredo Bianchini (cav. Vinta), Claudie Lange (Marfisia), Francesco
Mulè (il medico dei Gonzaga), Luciano Mondolfo (cardinale Farnese), Esmeralda Ruspoli
(Bianca de’ Medici), Leopoldo Trieste (marchese di Pepara), Jacques Herlin (dottor Lulli),
Vittorio Duse (il ginecologo), Femi Benussi (una cortigiana), Giulio Battiferri, Nello Pazzafini
(due ufficiali della guardia). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma), Orsay Film
(Parigi); durata: 110’; incasso: £ 809.000.000.
1966
ADULTERIO ALL’ITALIANA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Pasquale Festa Campanile; scen. Luigi Malerba,
Pasquale Festa Campanile, Ottavio Alessi; dir.fot. Roberto Gerardi (Eastmancolor); mus.
Armando Trovajoli (le canzoni «Bada Caterina» di Trovajoli-Migliacci e «Brillo e Bollo» di
Trovajoli-De Mutiis sono cantate da Carmen Villani, la prima con i Cantori moderni di
A.Alessandroni); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Marcello Olasio; scg.e co. Pierluigi Pizzi;
ass.co. Franco Carretti; d.pr. Mario Di Biase; a.re. Elvira D’Amico; i.p. Antonio Mazza; s.p.
Carlo Giovagnorio; s.ed. Massimo Castellani; op. Sante Achilli; ass.op. Roberto D’Ettorre
Piazzoli; fo. Mario Faraoni; mix. Mario Morigi; tr. Nilo Jacoponi; par. Jole Cecchini; interpreti:
Nino Manfredi (Franco), Catherine Spaak (Marta), Maria Grazia Buccella (Gloria), Vittorio
Caprioli (Silvio Sasselli), Akim Tamiroff (Max Portesi), Mario Pisu (il vicino), Gino Pernice
(Roberto), Tullio Altamura, Gianni Solaro (i due pappagalli). Produttore: Mario Cecchi Gori
per Fair Film, realizzata da Luciano Perugia; durata: 98’; incasso: £ 1.050.000.000.
1967
LA RAGAZZA E IL GENERALE (t.fr. La fille et le général)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile; scen.
Luigi Malerba, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Ennio Guarnieri (Technicolor); mus. Ennio
Morricone (la canzone «Ti xe el più bel» di Morricone-Bardotti è cantata da Alida Chelli); mo.
Jolanda Benvenuti; scg. Luciano Spadoni; co. Maria De Matteis; d.pr. Mario De Biase; a.re.
Elvira D’Amico; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Arturo Zavattini; fo. Vittorio Massi; interpreti: Rod
Steiger (il generale austriaco), Virna Lisi (Ada), Umberto Orsini (Tarasconi), Marco Mariani (il
caporale), Jacques Herlin (il veterinario), Toni Gaggia (il tenente), Valentino Macchi (un
soldato). Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion (Roma), Les Films
Concordia (Parigi); pr.es. Luciano Perugia; durata: 103’; incasso: £ 230.000.000.
LA CINTURA DI CASTITA’ (t.Usa On My way to the Crusades, I meet a Girl Who…)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ugo Liberatore; scen. Luigi Magni, Larry Gelbart;
rev.dial. Ettore Giannini; dir.fot. Carlo Di Palma (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo.
Gabrio Astori; ass.mo. Agnese Putignani; scg. Piero Poletto; ass.scg. Giantito Burchiellaro;
co. Danilo Donati; ass.co. Franco Antonelli; d.pr. Luciano Piperno; a.re. Elvira D’Amico, Carlo
Gotti; i.p. Lamberto Pippia, Mario Cotone, Gilberto Scarpellini; s.ed. Serena Canevari; op.
Alberto Spagnoli; ass.op. Gianni Antinori; m.armi Franco Fantasia; fo. Aurelio Verona; eff.sp.
Lamberto Verdenelli, Joseph Nathanson; tr. Gianni Amidei, Giannetto De Rossi, Giuliano
Laurenti; par. Luciano Vito, Elda Magnanti; uff.st. Lucherini-Rossetti-Spinola; interpreti: Tony
Curtis (Guerrando), Monica Vitti (Boccadoro), Hugh Griffith (Ibn-El-Rashid), John Richardson
(Dragone), Ivo Garrani (duca Pandolfo), Nino Castelnuovo (Marculfo), Francesco Mulè
(Rienzi), Franco Sportelli (Bertuccio), Gabriella Giorgelli (dama di compagnia), Umberto Raho
(monaco), Mimmo Poli (esattore), Leopoldo Trieste (pescatore), Mariella Palmich, Ugo
Adinolfi, Dada Gallotti, Franco Fantasia. Produttore: Franco Mazzei per Julia Film; durata:
108’; incasso: £ 651.000.000.
1968
IL MARITO E’ MIO E L’AMMAZZO QUANDO MI PARE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.da un racconto di Aldo De Benedetti; scen. Luigi
Magni, Stefano Strucchi, Iaia Fiastri; dir.fot. Roberto Gerardi (Eastmancolor); mus. Armando
Trovajoli; mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Marcello Olasio; scg. Flavio Mogherini; co. Lucia
2
Mirisola; arr. Emilio Baldelli; d.pr. Felice D’Alisera; re. 2a unità Carlo Capriata; i.p. Dino Di
Salvo; s.p. Stefano Pecoraro; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Roberto D’Ettorre Piazzoli,
Ubaldo Terzano; ass.op. Franco Bruno; eff.sp. Dario Micheli; fo. Alberto Bartolomei, Danilo
Moroni; tr. Franco Freda; interpreti: Catherine Spaak (Allegra), Hywell Bennett (Leonardo),
Hugh Griffith (Ignazio), Romolo Valli (Demetrio), Gianrico Tedeschi (l’impagliatore), Vittorio
Caprioli (Spinelli), Paolo Stoppa (dott. Sperenzoni), Francesco Mulè (Costanzo), Milena
Vukotic (Prassede), Leopoldo Trieste (signore barbuto), Pina Cei (Paolina), Gianni Magni
(l’idraulico), Alfredo Bianchini (il commissario), Ugo Fangareggi (Ceccarelli). Produttore:
Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 97’; incasso: £ 500.000.000.
LA MATRIARCA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Ottavio Jemma dalla precedente sceneggiatore
Niccolò Ferrari; dir.fot. Alfio Contini (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone
«L’amore dice ciao» di Guardabassi-Trovajoli è cantata da Andrée Silver, «Il profeta» di
Trovajoli-Amurri è cantata da Carmen Villani); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Wanda Olasio;
scg. Flavio Mogherini; co. Gaia Rossetti Romanini; ass.co. Silvana Pantani; arr. Ennio
Michettoni; ass.arr. Paola Mugnai; d.pr. Felice D’Alisera; a.re. Maria Teresa Girosa; i.p. Carlo
Bartolini; s.p. Emanuele Spatafora; s.ed. Maria Grazia Baldanello; op. Maurizio Scanziani;
ass.op. Giancarlo Granatelli, Sandro Tamborra; fo. Vittorio Trentino; mix. Danilo Moroni,
Alberto Bartolomei; tr. Franco Freda; ass.tr. Aldo Chiavaroli; f.sc. Mario Mazzoni; interpreti:
Catherine Spaak (Mimì), Jean-Louis Trintignant (dott. Carlo De Marchi), Luigi Proietti (Sandro
Maldini), Renzo Montagnani (Fabrizio), Luigi Pistilli (Otto Franz), Fabienne Dalì (Claudia),
Paolo Stoppa (prof. Zauri), Nora Ricci (madre di Mimì), Frank Wolff (dott. Giulio, dentista),
Philippe Leroy (maestro di tennis), Gabriele Tinti (uomo in auto), Vittorio Caprioli (il libraio),
Venantino Venantini (l’idraulico), Edda Ferronao (Maria). Produttore: Silvio Clementelli per
Clesi. Cin.ca, Finanziaria San Marco; durata: 92’; incasso: £ 1.017.000.000.
1969
DOVE VAI TUTTA NUDA?
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma; scen. Luigi Malerba, Alessandro
Continenza, Pasquale Festa Campanile, Ottavio Jemma; dir.fot. Roberto Gerardi
(Technicolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «Dove vai tutta nuda?» di TrovajoliAmurri è cantata da Maria Grazia Buccella); mo. Marcello Malvestito; scg. Franco Bottari; co.
Luca Sabatelli; d.pr. Luciano Luna; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Camillo Teti; s.ed. Maria Pia
Rocco; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Franco Bruni; fo. Umberto Picistrelli; tr. Franco
Corridoni; interpreti: Maria Grazia Buccella (Tonino), Tomas Milian (Manfredo), Gastone
Moschin (presidente della banca), Vittorio Gassman (Rufus), Lia Lander (moglie del
presidente), Angela Luce (la prostituta), Tito Leduc (cameriere), Mario Cecchi Gori
(l’avvocato), Giancarlo Badessi. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 93’;
incasso: £ 650.000.000.
SCACCO ALLA REGINA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Renato Ghiotto; scen. Tullio
Pinelli, Brunello Rondi; dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Piero Piccioni; mo. Mario
Morra; scg. Flavio Mogherini; ass.scg. Alessandro Gioia; co. Giulia Mafai; ass.co. Renato
Ranucci; arr. Massimo Tavazzi; ass.arr. Giuseppe Aldrovandi; d.pr. Dino Di Salvo; a.re.
Marcello Crescenzi; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Maurizio Maggi, Franco Bruni; fo. Bruno
Brunacci; tr. Franco Corridoni; par. Maria Teresa Corridoni; interpreti: Haydée Politoff (Silvia),
Rosanna Schiaffino (Margaret Mevin), Romolo Valli (Waldman), Aldo Giuffrè (Spartaco),
Daniela Surina (Dina), Gabriele Tinti (Franco), Elvira Tonelli (Cesarina), Ileana Rigano, Mario
Erpichini (invitati al party), Edda Ferronao (Maria), Giorgio Gruden (il regista). Produttore:
Alfredo Bini per Finarco; durata: 98’; incasso: £ 220.000.000.
1970
CON QUALE AMORE, CON QUANTO AMORE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile; scen.
Ottavio Jemma; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor); mus. Riz Ortolani (la canzone «So
much love» di Ortolani-Newell è cantata da Paul Slade; «More (mondo cane)» è cantata da
K.Ranieri, «Mi sono innamorato di te» di Tenco è cantata da Ornella Vanoni, «Blue lace» di
Ortolani-Jacob è cantata da Frank Sinatra, «Why» e «Mae» di Ortolani, «Samba de Orfeu» di
L.Bonfà, «Quizas quizas quizas» di O.Farres); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Maria
Gianandrea; scg.e arr. Sergio Canevari; ass.scg. Franco Vanorio; co. Gaia Rossetti Romanini,
Roberto Capucci; o.g. Mario Silvestri; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Eros Lafranconi; s.ed.
Maria Pia Rocco; op. Giuseppe Lanci; fo. Eraldo Giordani; tr. Franco Freda; par. Adalgisa
3
Favella; interpreti: Catherine Spaak (Francesca), Lou Castel (Ernesto), Claude Rich (Andrea),
Erika Blanc (Sandra), Aldo Giuffrè (Giovanni), Michel Bardinet (René), Marisa Traversi (Nora),
Aldo Traversi. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 107’; incasso:
QUANDO LE DONNE AVEVANO LA CODA (t.fr. Quand les femmes avaient une queue)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Umberto Eco; scen. Lina Wertmuller, Ottavio Jemma,
Marcello Coscia, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo (Eastmancolor); mus.
Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai; mo. Sergio Montanari; scg.e co. Enrico Job; ass.co.
Giuliano Persico; ass.scg. Ennio Michettoni; a.re. Marcello Crescenzi; s.p. Gualtiero
Tagliacozzo; op. Giuseppe Lanci; ass.op. Franco Bruni, Franco Trasatti; eff.sp. Wilfrido
Traversari; m.armi Neno Zamperla; fo. Carlo Palmieri; mix. Danilo Moroni; tr. Giannetto De
Rossi; par. Mirella Sforza; interpreti: Senta Berger (Filli), Giuliano Gemma (Ulli), Lando
Buzzanca (Kao), Frank Wolff (Grrr), Lino Toffolo (Put), Aldo Giuffrè (Zog), Renzo Montagnani
(Maluc), Francesco Mulè (Uto), Paola Borboni (la capo tribù), Gabriella Giorgelli, Melù
Valente. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 103’; incasso: £
1.800.000.000.
1971
IL MERLO MASCHIO (t.fr. Ma femme c’est un violon/t.t. Das nachte Cello)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Pasquale Festa Campanile, dal racconto Il
complesso di Loth di Luciano Bianciardi; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Riz
Ortolani (arie delle seguenti opere: «Gazza ladra» [Ouverture] di Gioacchino Rossini, «Tosca»
[E lucean le stelle] di Giacomo Puccini, «Aida» di Giuseppe Verdi); mo. Sergio Montanari,
Mario Morra; ass.mo. Wanda Olasio; scg.e co. Ezio Altieri; ass.scg. Ezio Di Monte; d.pr.
Giorgio Adriani; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Eros Lafranconi; s.p. Angelo Zemella; s.ed.
Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Vittorio Trentini; mic. Giuseppe
Muratori; mix. Alberto Bartolomei; interpreti: Lando Buzzanca (Niccolò Vivaldi), Laura
Antonelli (Costanza), Lino Toffolo (Cavalmoretti), Gianrico Tedeschi (direttore d’orchestra),
Ferruccio De Ceresa (neurologo), Elsa Vazzoler (Matilde), Gino Cavalieri (Salvino), Luciano
Bianciardi (Mazzacurati), Adolfo Belletti (il portinaio), Piero Tordi (il ginecologo), Edda
Ferronao (la prostituta), Aldo Puglisi (un medico), Felicita Fanni (sorella di Costanza),
Corrado Olmi (insegnante di Niccolò bambino), Enzo Robutti (un matto), Alfredo Piani, Gigi
Bonfanti, Bruno Boschetti, Orazio Stracuzzi, Enzo Spitaleri, Giuseppe Terranova, Franco
Bisazza. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 113’; incasso:
QUANDO LE DONNE PERSERO LA CODA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Lina Wertmuller; scen. Ottavio Jemma, Iaia Fiastri,
Marcello Coscia; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Ennio Morricone, Bruno Nicolai;
mo. Nino Baragli; ass.mo. Anna Rosa Napoli, Gino Bartolini; scg.e co. Enrico Job; ass.arch.
Enrico Fiorentini; ass.arr. Massimo Tavazzi; ass.co. Benito Persico; d.pr. Giorgio Adriani; a.re.
Franco Cirino; i.p. Angelo Zemella; s.p. Eros Lafranconi; s.ed. Maria Pia Rocco; ass.re.
Gertrud Peterson; op. Enrico Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Vittorio Trentino; mix. Mario
Bartolomei, Danilo Moroni; tr. Euclide Santoli, Mario Di Salvino; par. Paolo Franceschi;
interpreti: Lando Buzzanca (Am), Senta Berger (Filli), Renzo Montagnani (Maluc), Frank Wolff
(Grrr), Lino Toffolo (Put), Francesco Mulè (Uto), Mario Adorf (Pap), Aldo Puglisi, Fiammetta
Baralla (Katorcia). Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca (Roma), Terra Film Knust
(Monaco); durata: 94’; incasso:
1972
JUS PRIMAE NOCTIS
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ugo Liberatore; scen. Luigi Malerba, Ottavio Jemma,
Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo.
Nino Baragli; ass.mo. Anna Napoli, Gino Bartolini; scg.e co. Ezio Altieri; a.co. Rosanna
Andreoni; arr. Massimo Tavazzi; o.g. Giorgio Adriani; a.re. Marcello Crescenzi; ass.re. Neri
Parenti; i.p. Eros Lafranconi; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; m.armi Remo De
Angelis; tr. Mario Di Salvio; par. Paolo Franceschi; interpreti: Lando Buzzanca (Aregardo da
Ficulle), Renzo Montagnani (Gandolfo), Marilù Tolo (Venerata de Lanzicco), Paolo Stoppa (il
papa), Felice Andreasi (frate Puccio), Toni Ucci (Guidone), Gino Pernice (Marculfo), Alberto
Sorrentino (il frate), Giancarlo Cobelli (Curiale), Ely Galleani (Beata), Roberto Antonelli, Guido
Lollobrigida (un contadino), Gianni Magni, Franco Pesce (vecchio de Lanzicco), Ignazio Leone
(l’antipapa), Sergio Ammirata, Enrica Bonaccorti (una giovane moglie), Franco Latini,
Guglielmo Spoletini (amico di Guidone), Bruno Boschetti, Bruno Vaerini, Carla Mancini, Enzo
Robutti. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca, Verona Produzione; durata: 109’;
incasso: £ 407.000.000.
4
LA CALANDRIA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Gianfranco Clerici, dalla commedia omonima di
Bernardo Dovizi, detto Il Bibbiena; scen. Ottavio Jemma, Gianfranco Clerici, Pasquale Festa
Campanile; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Gian Maria
Messeri; ass.mo. Antonio Proia; scg.e co. Giancarlo Bartolini Salimbeni; ass.co. Nadia Vitali;
d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; i.p. Pietro Spadoni; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico
Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Renato Jaboni; tr. Amato Garbini; par. Gabriella Borzelli;
f.sc. Franco Narducci; interpreti: Lando Buzzanca (Lidio), Salvo Randone (Calandro), Agostina
Belli (Fulvia, sua moglie), Cesare Gelli (duca Ferruccio Consagro), Barbara Bouchet (Lucrezia,
sua moglie), Giusi Raspani Dandolo (Nonna, madre di Calandro), Grazia Maria Spina (Clizia),
Mario Scaccia (Ruffo), Franco Fantasia (il bargello), Roberto Antonelli (Tessenio), Toni Ucci
(un popolano), Ignazio Leone (un ubriaco), Giuliana Calandra (Venegonda), Clara Colosimo
(madonna Aurora), Stefano Oppedisano, Lorenzo Piani. Produttore: Filmes Cin.ca; durata:
103’; incasso: £ 318.000.000.
1973
L’EMIGRANTE (t.sp. Un trabajo tranquillo/t.te. Kleine mit dem grossen Tick)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Castellano e Pipolo, Pasquale Festa Campanile,
Massimo Franciosa, Luisa Montagnana, Sabatino Ciuffini; dir.fot. Gastone Di Giovanni, Juan
Gelpi Puig (Eastmancolor); mus. Carlo Rustichelli dir.da Sandro Blonchsteiner (le canzoni
«Santa Lucia luntana» di E.A.Mario, «Tiempe belle (‘e ‘na vota)» di V.Valente-A.Califano, «Lo
guarrancino» di anonimo, «Torna a Surriento»di E.De Curtis-G.B. De Curtis, cantata da
A.Celentano, «Reginella» di Bovio-Lama, «’O sole mio» di Di Capua-Capurro cantata da
Beniamino Gigli, «Te vojo bene assaie» di Sacco-Donizetti cantata da A.Celentano, «Lacreme
napuletane» di Bongioanni-Bovio, «’A canzone ‘e Napule» di Bovio-De Curtis, «Pupatella» di
autore non identificato, cantata da Claudia Mori, «Me ne vogli’i all’America» di autore non
identificato); mo. Mario Morra; a.mo. Piera Gabutti, Massimo Quaglia; scg. Giantito
Burchiellaro; ass.scg. Giovanni Natalucci; co. Franco Carretti; o.g. Camillo Teti; d.pr. Averroè
Stefani; a.re. Marcello Crescenzi, Filiberto Fiaschi; s.p. Augusto Marabelli, Vasco Mafera;
s.ed. Maria Pia Rocco; amm. Walter Massi; op. Enrico Sasso, Sebastiano Celeste; m.armi
Remo De Angelis; fo. Angelo Amatulli; eff.so. Renato Marinelli; tr. Giuliano Laurenti, Giovanni
Morosi; par. Elda Magnanti; f.sc. Bruno Bruni; interpreti: Adriano Celentano (Peppino
Cavallo), Claudia Mori (Rosita Flores), Lino Toffolo (Tony, l’anarchico), Sybill Danning
(Pamela), Pepe Calvo (don Nicolone Saletto), Manuel Zarzo (Ralf Moresco), Rosita Pisano
(Assunta), Nino Vingelli (tassista a New York), Gigi Reder (secondo marito di Assunta),
Giacomo Rizzo (il cassiere del club). Produttore: Mario Bonotti per Mondial Te.Fi., Adriano
Celentano per Clan Film (Roma), Impala Film (Madrid), Geiselgasteig (Monaco); durata: 126’;
incasso: £ 712.000.000.
RUGANTINO
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dalla commedia musicale di Pietro Garinei, Sandro
Giovannini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. Pasquale Festa Campanile,
Massimo Franciosa; dir.fot. Gastone Di Giovanni (Technicolor); mus. Armando Trovajoli; mo.
Mario Morra; scg. Giancarlo Bartolini Salimbeni; co. Franco Carretti; a.co. Rosanna Andreoni;
arr. Elena Ricci Poccetto; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; i.p. Viero Spadoni; s.ed.
Maria Pia Rocco; op. Sebastiano Celeste, Giuseppe Di Biase; ass.op. Maurizio Lamonica,
Guido Tosi; mix. Danilo Moroni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda
Magnanti, Paolo Borzelli; interpreti: Adriano Celentano (Rugantino), Claudia Mori (Rosetta),
Grazia Maria Spina (Donna Mirta Capitelli), Paolo Stoppa (mastro Titta), Riccardo Garrone (il
principe), Renzo Palmer (card. Severini), Toni Ucci (principe Niccolò Capitelli), Sergio Tofano
(marchese Michele Sacconi), Guglielmo Spoletini (Gnecco), Enzo Robutti (Thorvaldsen), Elio
Pandolfi (la voce bianca), Gastone Pescucci (Scariotto), Giacomo Piperno, Pippo Franco ,
Ernesto Colli (amici di Rugantino), Renato Baldini, Anna Maria Bottini (amici del principe),
Bruno Tocci (un carabiniere), Sandro Merli, Guido Lollobrigida, Roberto Maldera, Patrizia Gori,
Francesco D’Adda, Paola Montenero, Luigi Basagaluppi, Stefano Oppedisano, Lorenzo Piani.
Produttore: Giorgio Venturini per Filmes Cin.ca, Clan Film; durata: 110’; incasso:
1974
LA SCULACCIATA (t.te Ein susses Biest)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Silvano Ambrogi dalla sua commedia Neurotandem;
scen. Luigi Malerba, Silvano Ambrogi, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Salvatore Caruso
(Technospes); mus. Gianni Ferrio (canzoni «Fai piano, fai presto» di Ferrio-Calabrese è
5
cantata da Mina, «Je t’aime, moi non plus» di S. Gainsbourg è cantata da Serge Gainsbourg,
Jane Birkin, «Il tango delle capinere» di Bixio-Cherubini); mo. Mario Morra; scg.e co.
Giancarlo Pucci; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; s.ed. Maria Pia Rocco; i.p. Viero
Spadoni; op. Sebastiano Celeste, Sergio Martinelli; ass.op. Enrico Priori; fo. Carlo Palmieri;
mic. Alberto Moretti; mix. Danilo Moroni; tr. Raul Ranieri; par. Luciano Vito; interpreti: Sidne
Rome (Elena), Antonio Salines (Carlo), Gino Pernice (venditore di enciclopedie), Toni Ucci (il
frate), Marisa Bartoli (Veronica, la domestica), Paolo Gozlino (il medico), Roberto Antonelli,
Vincenzo Crocitti, Lorenzo Piani, Alessandro Perrella. Produttore: Giorgio Venturini per Filmes
Cin.ca; durata: 90’; incasso:
1975
CONVIENE FAR BENE L’AMORE (t.fr. En 2000 il conviendra de bien faire l’amour)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile;
scen. Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor);
mus. Fred Bongusto (la canzone «L’appuntamento» di R.Carlos-B.Lauzi è cantata da Ornella
Vanoni); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Wanda Olasio; a.mo. Roberto Puglisi; scg.e co. Ezio
Altieri; ass.scg. Cristiana Lafayette; arr. Enrico Fiorentini; o.g. Giorgio Adriani; d.pr. Marcello
Crescenzi; a.re. Neri Parenti; i.p. Gilberto Scarpellini; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Giuseppe
Lanci; ass.op. Gianfranco Transunto, Alessio Gelsini; fo. Armando Testa; mix. Franco Bassi,
Armando Tarsia; tr. Franco Schioppa; par. Ilda Gilda De Guilm; f.sc. Angelo Samperi; uff.st.
Maria Ruhle; interpreti: Luigi Proietti (prof. Enrico Nobili), Agostina Belli (Francesca De
Renzi), Eleonora Giorgi (Piera), Christian De Sica (Daniele Venturoli), Mario Scaccia (mons.
Alberoni), Adriana Asti (Irene Nobili), Franco Agostini (dr. Spina), Gino Pernice (dr. Bini),
Monica Strebel (seconda assistente), Mario Pisu (il ministro), Mario Maranzana (il generale),
Loredana Martinez (moglie di Daniele), Quinto Parmeggiani (dr. De Renzi), Franco Angrisano
(direttore hotel), Armando Bandini (antiquario), Piero Tordi (ministro anziano), Enzo Robutti
(Matteini), Salvatore Puntillo (prof. De Renzi), Enzo Maggio (prof. Gabrielli), John Karlsen
(capo polizia straniera), Franco Mazzieri (il suo assistente), Francesco D’Adda (speaker TV),
Oreste Lionello (un automobilista), Aldo Reggiani (fidanzato di Piera), Roberto Antonelli
(uomo di mano della potenza straniera), Tom Felleghy (venditore scatole organiche), Ettore
Carloni, Pupo De Luca, Leo Frasso, Aldo Rendine. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi
Cin.ca; durata: 106’; incasso:
1976
IL SOLDATO DI VENTURA (t.fr. La grande bagarre)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Castellano e Pipolo; scen. Castellano e Pipolo, Franco
Verucci, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Marcello Masciocchi (Eastmancolor); mus. Guido e
Maurizio De Angelis (la canzone «Oh Ettore» di O.Resti-G.e M.De Angelis è cantata da Bud
Spencer); mo. Mario Morra; ass.mo. Roberto Sterbini; a.mo. Adelchi Marinangeli, Sandro
Broglio; scg. Pier Luigi Pizzi; co. Dina Tirelli; a.co. Andrea Viotti; arr. Giovanni Silvestri; d.pr.
Averroè Stefani; a.re. Neri Parenti; a.re. 2a unità Stefano Petruzzellis, Elio Girlanda; m.armi
Giorgio Ubaldi; i.p. Vittorio Biferale, David Pash; s.p. Loredano Ulpiani; s.ed. Maria Pia Rocco;
op. Antonio Schiavo Lena, Idelmo Simonelli; ass.op. Claudio Tondi, Mario Masciocchi; fo
Bruno Zanoli; eff.so. Roberto Arcangeli, Aurelio Pennacchia; eff.sp. Armando Grilli, Giovanni
Corridori; tr. Luciano Giustini; par. Fausto De Lisio; f.sc. Giorgio Schwartze; amm. Walter
Massi; interpreti: Bud Spencer (Ettore Fieramosca), Enzo Cannavale (Bracalone da Napoli),
Angelo Infanti (Graiano d’Asti), Andréa Férreol (Leonora), Eros Pagni (Capoccio da Roma),
Mario Scaccia (Gonzalo Pedro de Guadarrama), Mariano Rigillo (Albimonte da Peretola),
Philippe Leroy (Guy de la Motte), Renzo Palmer (fra’ Ludovico da Rieti), Oreste Lionello
(Giovenale da Vetralla), Antonio Orlando (Carrellario da Barletta), Marc Porel (duca di
Namour), Mario Pilar (Salomone da Cavorà), Jacques Herlin (Paredes), Jacques Dufilho
(Mariano Da Trani), Nerina Montagnani (madre di Mariano), Roy Bosier (Riccio da Milazzo),
Franco Agostini (Romanello da Forlì), Gino Pernice (Fanfulla da Lodi), Guglielmo Spoletini
(Miale da Milazzo), Ria De Simone (Stella), Loretta Persichetti (Fiammetta), Roberto
Antonelli, Nicholas Barthe, Frederic De Pasquale (cavaliere inglese), Monica Strebel.
Produttore: Mondial Te.Fi. (Roma), Cité Film, Les Films Jacques Leitienne, Labrador Film
(Parigi), Impexci (Nimes); pr.es. Camillo Teti; durata: 115’; incasso:
DIMMI CHE FAI TUTTO PER ME
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Suso Cecchi D’Amico da un racconto di Piero Chiara;
scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor); mus. Armando Trovajoli;
mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Sergio Muzzi; scg. Guido Josia; co. Danda Ortona; a.co.
Francesca Zavaroni; arr. Bruno Cesari; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Neri Parenti; ass.re. Gian
Maria Ferretto; i.p. Francesco Guerrieri; s.p. Paolo Pattini, Mario Cecchin; s.ed. Maria Pia
6
Rocco; amm. Franco Penna; op. Giuseppe Lanci; ass.op. Maurizio Lamonica, Gianfranco
Transunto; fo. Vittorio Massi; mix. Danilo Moroni; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti;
m.armi Remo De Angelis; f.sc. Bruno Bruni; eff.sp. Giovanni Corridori; attr. Gianni Fiumi;
intrepreti: Johnny Dorelli (dr. Francesco Salmarani), Pamela Villoresi (Mary Mancini), Andréa
Férreol (Miriam Salmarani), Jacques Dufilho (Spinacroce), Grazia Maria Spina (Paola), Pino
Caruso (il commissario), Stefano Amato (Mino Salmarani), Enzo Robutti (Felegatti),
Ferdinando Murolo (Roberto Mancuso), Nanni Svampa (Bonomello, detto “Biondino”),
Francesco D’Adda. Produttore: Leo Pescarolo per Euro International Film; durata: 100’;
incasso: £ 411.000.000.
1977
AUTOSTOP ROSSO SANGUE (t.te. Wen du Krepierst-Lebe ich!)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Aldo Crudo liberamente tratto dal romanzo La
violenza e il furore di Peter Kane; scen. Ottavio Jemma, Aldo Crudo, Pasquale Festa
Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo, Giuseppe Ruzzolini (Eastmancolor); mus. Ennio
Morricone (le canzoni «Sunshine» di Morricone-De Natale-Duncan Smith è cantata da
Gladrags, «Notturno per tre» cantata da Gladrags); mo. Antonio Siciliano; scg.e co. Giantito
Burchiellaro; a.re. Maria Pia Rocco; interpreti: Franco Nero (Walter Mancini), Corinne Clery
(Eve, sua moglie), David Hess (Adam Kunitz), Fausto Di Bella (capellone al bar), Pedro
Sanchez (proprietario bar), John Loffredo (Hawk, un complice), Leon Lenoir, Carlo Puri (altro
complice), Monica Zanchi, Benito Pacifico, Luigi Birri. Produttore: Bruno Turchettio e Mario
Montanari per Explorer Film International, Medusa Distribuzione; durata: 102’; incasso: £
190.000.000.
CARA SPOSA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Franco Verucci; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini
(Technospes); mus. Stelvio Cipriani, Daniele Patucchi (la canzone «Fili d’oro» è di
Bongioanni-Capurro); mo. Mario Morra; ass.mo. Roberto Sterbini, Massimo Quaglia, Anna
Bolli; scg. Giantito Burchiellaro; co. Massimo Bolongaro; arr. Bruno Amalfitano; d.pr. Alfredo
Mirabile; a.re. Neri Parenti; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio
Sabatini, Giorgio Bonando; fo. Pietro Spadoni; mic. Angelo Spadoni; mix. Danilo Moroni,
Romano Pampaloni; tr. Giovanni Morosi; par. Paolo Franceschi, Franco Schioppa; f.sc. Sergio
Fontana; c.s.m. Alberto Emidi; c.s.e. Remo Dolci; attr. Giovanni Fiumi, Roberto Moneta; sarta
Adriana Manici; interpreti: Johnny Dorelli (Alfredo Menghini), Agostina Belli (Adelina), Lina
Volonghi (Rosa Balestra), Enzo Cannavale (Salomone), Aristide Ronchi (Pasqualino Menghini),
Mario Pilar (Giovannino), Marilda Donà (Liliana), Pina Cei (Elvira, madre di Alfredo), Carlo
Bagno (suo uomo e aiutante), Livia Cerini (Carlina, la ricettatrice), Livia Dicorato (venditrice
giocattoli), Guido Verdiani, Pietro Vial, Egidio Carrera. Produttore: Laser Film; durata: 110’;
incasso: £ 481.500.000.
1978
COME PERDERE UNA MOGLIE E TROVARE UN’AMANTE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Gianfranco Bucceri, Roberto Leoni; scen. Gianfranco
Bucceri, Roberto Leoni, Luigi Malerba; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Technospes); mus. Gianni
Ferrio (la canzone «Golosona» di Ferrio è cantata da Johnny Dorelli); mo. Alberto Gallitti;
ass.mo. Nadia Moscovini, Vivi Tonini; scg. Luciano Ricceri; co. Corrado Colabucci; a.co.
Barbara Canevari; arr. Ezio Di Monte; a.arr. Paolo Biagetti; d.pr. Bruno Frascà; a.re. Neri
Parenti; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini; fo. Dino
Fronzetti; mic. Davide Magara; tr. Giuliano Laurenti, Alfredo Moretti; par. Rosa Luciani;
sc.acrob. Sergio Mioni; eff.sp. Giovanni Corridori; attr. Luciano Bispuri; f.sc. Pina Di Cola;
interpreti: Johnny Dorelli (Alberto Castelli), Barbara Bouchet (Eleonora Rubens); Carlo Bagno
(Anselmo), Elsa Vazzoler (Anita, sua moglie), Felice Andreasi (prof. Rossini), Enzo Cannavale
(il falso santone indiano), Stefania Casini (Marisa), Toni Ucci (il frate francescano), Dino
Emanuelli (l’uomo a letto), Piero Tordi (padre officiante matrimonio), Deddy Savagnone
(suora infermiera), Annie Papa (moglie di Alberto), Ugo Maria Morosi (il suo amante), Tom
Felleghy (assistente di Alberto), Gino Pernice, Edda Ferronao, Paola Maiolini, Pietro Zardini,
Rosa Bruno. Produttore: Luigi Borghese per Cin.ca Alex; durata: 104’; incasso: £
1.379.000.000.
IL RITORNO DI CASANOVA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. dal romanzo di Arthur Schnitzler e da brani delle
Memorie e altre opere di Giacomo Casanova; scen. Piero Chiara; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini;
mus. Riz Ortolani; mo. Gian Maria Messeri; ass.mo. Mario Cinotti; scg.e co. Mario Ambrosino;
d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Neri Parenti; i.p. Viero Spadoni; s.p. Federico Franchini; s.ed.
7
Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini; fo. Ugo Celani; mix. Adriano
Taloni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Raul Ranieri; a.tr. Marcello Meniconi; par. Nerea
Rosmanit; sarta Anna Orazi; c.s.m. Sergio Emidi; attr. Adriano Tiberi; ass.dop. Gabriella
Bompani; interpreti: Giulio Bosetti (Giacomo Casanova), Piero Vida (Olivo), Grazia Maria
Spina (Amalia), Francesca Marciano (Marcolina), Bianca Toccafondi, Carlo Simoni, Mirella
D’Angelo, Piero Tordi, Enzo Robutti, Ettore Carloni, Dino Emanuelli, Dana Janker, Maria
Cristina Ferri, Romina Pugno, Libero Grandi. Produttore: Monica Venturini per Filmes Cin.ca.
Programmato in televisione in due parti: 6-8/1/1980.
1979
GEGE’ BELLAVITA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma;
dir.fot. Silvano Ippoliti (Telecolor); mus. Riz Ortolani (la canzone «Nun me scuccià» di
Ortolani-Jemma è cantata da Flavio Bucci); mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini,
Rosanna Landi; scg. Giantito Burchiellaro; co. Luciana Marinucci; o.g. Felice D’Alisera; a.re.
Neri Parenti; i.p. Vittorio Bucci; s.p. Carlo Emmi; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso;
ass.op. Ettore Corso; fo. Ugo Celani; mix. Romano Checcacci; tr. Lamberto Marini; f.sc.
Giuseppina Di Cola; uff.st. Francesca De Guida Canori; interpreti: Flavio Bucci (Gennarino
Amato), Lina Polito (Agata), Marina Pagano, Marisa Laurito, Enzo Cannavale, Pino Caruso (il
duca Attanasi), Anna Ria De Simone, Maria Pia Conte, Laura Trotter, Miranda Martino,
Gabriella Miluzio, Salvatore Billa, Enzo Scutellaro, Vincenzo Ottieri, Umberto D’Ambrosio,
Vincenzo Marazzino, Giovanni Febbraro, Marisa Harrison. Produttore: Koral International;
durata: 105’; incasso: £ 209.000.000.
IL CORPO DELLA RAGASSA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. dall’omonimo romanzo di Gianni Brera; adatt. Alberto
Lattuada, Enrico Oldoini; scen. Enrico Oldoini, Ottavio Jemma; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini;
mus. Riz Ortolani; mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini; a.mo. Rosanna Landi; scg.e
co. Ezio Altieri; ass.scg. Mauro Passi; ass.co. Cristiana Lafayette; d.pr. Giorgio Morra; a.re.
Vivalda Vigorelli; i.p. Mario Della Torre; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op.
Claudio Sabatini; fo. Domenico Dubbini; mix. Bruno Moreal; tr. Fabrizio Sforza; par. Paolo
Borzelli; f.sc. Paul Ronald Pellet; c.s.e. Enrico Bellacci; c.s.m. Alberto Emidi; sarta Angela
Silighini, Franca Lulli; uff.st. Enrico Lucherini, Irene Ghergo; interpreti: Enrico Maria Salerno
(prof. Ulderico Quario), Lilli Carati (Teresa Aguzzi, detta Tirisin), Renzo Montagnani (Pasquale
Aguzzi), Marisa Belli (Cecchina), Elsa Vazzoler (Caterina), Nino Bignamini (Erminio Alvarini),
Clara Colosimo (la ruffiana), Giuliana Calandra (Laura Marengo), Luigi Pernice (Giovanni),
Tom Felleghy (un ospite). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; durata:
104’; incasso: £ 420.000.000.
SABATO, DOMENICA E VENERDI’ (episodio DOMENICA) (t.sp. Sabado, domingo y viernes)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Alejandro Ulloa,
Giancarlo Ferrando (Eastmancolor); mus. Detto Mariano; mo. Mario Siciliano; ass.mo.
Giancarlo Morelli, Maria Teresa Alessandroni; scg. Bartolomeo Scavia; ass.scg.e co. Luis
Arguello; d.pr. Angelo Zemella, Jesus R.Folgar; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Manuel Sanchez;
s.p. Josè Vicente Puentes, Riccardo Pintus; amm. Leonardo Curreri; s.ed. Mirella Roy
Malatesta, Josè Vicente Fuente; op. Claudio Morabito, Eduardo Noè; ass.op. Bruno Cascio,
Guillermo Pena; fo. Tullio Petricca, Sebastian Cabezas; tr. Franco Schioppa; par. Ilda Gilda
De Guilmi, Wanda Piovesan; eff.so. Aldo Ciorba; interpreti: Barbara Bouchet (Enza), Michele
Placido (Mario), Antonio Ferrandiz, Margot Cottens, Manuel Zarzo, Sergio Tardioli, Salvatore
Ajesi; durata: 25’ ca. Produttore: Luciano Martino per Dania Film, Medusa Distribuzione,
National Cin.ca (Roma), A.S. Film (Madrid); incasso: £ 1.110.000.000
Gli altri episodi sono Venerdì (Castellano e Pipolo), Sabato (Sergio Martino).
IL LADRONE (t.fr. Le larron)
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile;
scen. Renato Ghiotto, Ottavio Jemma, Santino Spartà, Stefano Ubezio; dir.fot. Giancarlo
Ferrando (Telecolor); mus. Ennio Morricone; mo. Alberto Gallitti; a.mo. Nadia Moscovini,
Rosanna Lanni; scg. Enrico Fiorentini; co. Mario Carlini; d.pr. Aldo Santarelli; o.g. Marco
Lombardo; a.re. Vivalda Vigorelli; ass.re. Nouri Bourzid; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Claudio
Morabito, Bruno Cascio; fo. Ugo Celani; mix. Danilo Moroni; tr. Marcello Minoprio, Franco
Schioppa; par. Mirella Ginnoto; sarta: Clary Mirolo; eff.so. Roberto Arcangeli, Enzo Di Liberto;
interpreti: Enrico Montesano (Caleb), Edwige Fenech (Deborah), Bernadette Lafont (Appula),
Claudio Cassinelli (Gesù), Enzo Robutti (soldato romano), Sara Girgenti Franchetti, Susanna
8
Martinkova (Marta), Daniele Vargas (governatore Rufo), Anna Orso (Maria), Aurette Gay
(ragazza del lupanare), Maria Stefania D’Amario, Marcella Petrella, Jamid Joudi, Marcef Ben
Hadj Yahia. Produttore: Fulvio Lucisano, Franco Desiato, Tarak Ben Ammar per Italian
International Film, Daimo Film (Roma), Cartago Film (Parigi), in collaborazione con Rai 2;
durata: 112’; incasso: £ 1.411.000.000. Premio David di Donatello ad Enrico Montesano.
1980
QUA LA MANO (t.te. Don Tango-Hocwurden mit der kessen sohle)
Film in due episodi: Sto così col papa e Il prete ballerino
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Enrico Oldoini, Pasquale Festa Campanile; scen.
Ottavio Jemma, Enrico Oldoini; dir.fot. Giancarlo Ferrando (Telecolor); mus. Detto Mariano
(canzone «Qua la mano» di Celentano-Mori è cantata da A.Celentano); mo. Alberto Gallitti;
ass.mo. Nadia Moscovini, Rosanna Landi, Ornella Chistolini; a.mo. Adelchi Marinangeli; scg.
Enrico Fiorentini, Enrico Tovaglieri; co. Mario Carlini; d.pr. Eros Lafranconi; a.re. Maria Pia
Rocco; i.p. Lamberto Palmieri, Angelo Zemella; s.p. Cecilia Valmarana, Riccardo Pintus; s.ed.
Mirella Malatesta; op. Enrico Lucidi; ass.op. Bruno Cascio, Paolo Drago Ferrante, Ettore
Corso; coreog. Franco Miseria; fo. Amedeo Casati, Domenico Dubbini; mix. Romano
Checcacci, Danilo Moroni; tr. Alfredo Marazzi, Mario Di Salvio; par. Rosa Luciani, Roberto
Magnani; sarte Maria Fanetti, Corinne Guzzinati; cass. Alfonso Farano; interpreti: ep. Sto così
col papa: Enrico Montesano (Orazio Imperiali), Philippe Leroy (il papa), Mario Carotenuto
(Marotta), Adriana Russo (Ersilia Imperiali); ep. Il prete ballerino: Adriano Celentano (don
Fulgenzio), Renzo Montagnani (Libero Battaglini), Lilli Carati (Rossana), Carlo Bagno (il
vescovo), Enzo Robutti (Benigno), Dino Emanuelli (Fausto), Gigi Sammarchi (intervistatore
TV), Andrea Roncato (presentatore TV). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per
Filmauro; durata: 130’; incasso: £ 11.150.000.000.
Campione d’incassi della stagione 1979-80. Primo film italiano a sfondare il muro dei dieci
miliardi d’incasso. Premio David di Donatello ad Enrico Montesano come miglior attore.
MANOLESTA
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma, Enrico Oldoini; scen. Enrico Oldoini;
dir.fot. Giancarlo Ferrando; mus. Detto Mariano; mo. Amedeo Salfa; scg. Giantito
Burchiellaro; arr. Giovanni Natalucci; co. Nicoletta Ercole; d.pr. Felice D’Alisera; a.re. Maria
Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera; s.ed. Mirella Malatesta; op. Enrico Lucidi; ass.op. Bruno
Cascio, Gianfranco Torinti; fo. Domenico Dubbini; c.tr. Franco Di Giacomo; tr. Roberta
Petrini; par. Jole Angelucci; c.s.e. Armando Moreschini; c.s.m. Matteo Giordano; f.sc. Alfonso
Avincola; interpreti: Tomas Milian (Gino Quirino), Giovanna Ralli (dott.ssa Angela De Maria),
Paco Cardini (Bruno Quirino), Armando Pugliese (Rosario), Adriana Russo (una prostituta),
Clara Colosimo (giudice civile), Patrizia Tesone, Massimo Pittarello, Tom Felleghy, Valentino
Simeoni, Ennio Antonelli, Paolo Fiorino. Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis; durata: 95’;
incasso:
1981
CULO E CAMICIA
Film in due episodi: Il televeggente e Un uomo, un uomo e…evviva, una donna!
Regia Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini, Giancarlo Ferrando (Telecolor);
mus. Detto Mariano; mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Nadia Boggiani, Raffaella Zita, Rossana
Cingolani; scg. Enrico Fiorentini, Enrico Tovaglieri; ass.scg. Giancarlo Capuano; co. Mario
Carlini, Ezio Altieri; d.pr. Felice D’Alisera, Angelo Zemella; i.p. Franco Mancarella, Mario
Olivieri, Gilberto Scarpellini; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera, Angelo Mainardi,
Riccardo Pintus; s.ed. Maria Luisa Merci, Anna Maria Montanari; op. Enrico Lucidi, Enrico
Cortese; ass.op. Bruno Cascio, Paolo Drago Ferrante, Claudio Sabatini fo. Domenico
Pasquadibisceglia, Giuseppe Muratori; mix. Danilo Moroni; tr. Mario Di Salvio; par. Wanda
Piovesan, Luciano Vito; sarta Corinna Guzzinati, Maria De Angelis; c.s.e. Armando Moreschini,
Enrico Bellacci; c.s.m. Matteo Giordano, Giancarlo Rocchetti; f.sc. Mario Falsaperla Mancinelli,
Giuseppe Botteghi. Ep. Il televeggente: sogg. Ottavio Jemma, Francesco Venturoli; scen.
Ottavio Jemma; interpreti: Enrico Montesano (Riccardo Antuono), Daniela Poggi (Ornella),
Gino Pernice (Carlo Benedetti), Gianni Agus (Panebianco), Ennio Antonelli (salumiere);
episodio Un uomo, un uomo e…evviva, una donna!: sogg. Stefano Ubezio; scen. Stefano
Ubezio, Ottavio Jemma, Renato Pozzetto; interpreti: Renato Pozzetto (Renato), Leopoldo
Mastelloni (Alberto Maria), Maria Rosaria Omaggio (Ella Ferrari), Carlo Bagno, Carla Monti
(genitori di Renato). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro, Intercontinental
Film Company; durata: 130’; incasso totale: £ 11.208.000.000.
NESSUNO E’ PERFETTO
9
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Bernardino Zapponi, Enrico Oldoini, Franco Ferrini;
scen. Enrico Oldoini, Franco Ferrini, Renato Pozzetto; dir.fot. Alfio Contini (EastmancolorTelecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Nadia Boggiani; scg. Giantito
Burchiellaro; arr. Giovanni Natalucci co. Gaia Romanini Rossetti; d.pr. Felice D’Alisera; i.p.
Gilberto Scarpellini, Mario Olivieri; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera; s.ed. Anna Maria
Montanari; op. Sandro Tamborra; ass.op. Maurizio Lucchini, Carlo Montuori, Vasco Benucci; fo.
Ugo Celani, Domenico Dubbini; c.tr. Mario Di Salvio; tr. Alfio Meniconi, Alvaro Rossi; par.
Vanda Maria Luisa Piovesan; c.s.e. Antonio Leurini; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; sarte Maria De
Angelis, Anna De Santis, Lamberta Baldacci; attr. Paolo Luciani; f.sc. Vincenzo Marinelli
Falsaperla; interpreti: Renato Pozzetto (Guerrino Castiglioni), Ornella Muti (Chantal), Lina
Volonghi (Agata), Gabriele Tinti (Nanni), Felice Andreasi (Enzo), Massimo Boldi (“Lingua
profonda”), Franco Visentin, Rodolfo Magnaghi, Benedetto Ravasio, Danila Grassini.
Produttore: Achille Manzotti per International Film Company, Filmauro; durata: 104’; incasso:
£ 10.208.000.000.
1982
PIU’ BELLO DI COSI’ SI MUORE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Antonio Amurri, Ottavio Jemma dal romanzo
omonimo di Antonio Amurri; dir.fot. Alfio Contini (Telecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo
Salfa; scg. Andrea Crisanti; co. Mario Carlini, Piero Tosi; i.p. Mario Olivieri, Gilberto
Scarpellini; d.pr. Ennio Onorati; a.re. Maria Pia Rocco; s.ed. Anna Maria Montanari; op.
Sandro Tamborra; ass.op. Sandro Grossi, Carlo Maria Montuori; fo. Raffaele De Luca; tr.
Mario Di Salvio; amm. Enrico Savelloni; f.sc. Gianfranco Salis; interpreti: Enrico Montesano
(Spartaco Meniconi), Vittorio Caprioli (barone Nereo), Monica Guerritore (Amelia Meniconi),
Ida Di Benedetto (Ottavia), Toni Ucci (Agenore), Paola Borboni (la baronessa madre),
Giovanni Attanasio (il commendatore omosessuale), Franco Caracciolo, Paolo Fiorino,
Maurizio Mattioli (il fotografo), Giuseppe Tuminelli. Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis;
durata: 99’; incasso:
BINGO BONGO
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Enrico Oldoini, Franco Ferrini; scen. Enrico Oldoini,
Franco Ferrini, Franco Marotta, Laura Toscano; dir.fot. Alfio Contini; mus. Pinuccio Pirazzoli
(le canzoni «Giungla di città» e «Uh…Uh» sono cantate da Adriano Celentano); mo. Amedeo
Salfa; ass.mo. Ornella Chistolini, Gabriella Zita; scg. Giantito Burchiellaro; ass.scg. Massimo
Spano; co. Mario Ambrosino; ass.co. Natalia Verdelli; d.pr. Angelo Zemella; o.g. Giorgio
Morra; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Franco Mancarella; s.p. Riccardo Pintus, Enrico Carozzi;
s.ed. Anna Maria Montanari; op. Enrico Sasso; ass.op. Carlo Maria Montuori, Roberto Calvi;
fo. Amedeo Casati; mix. Romano Pampaloni; m.armi Sal Borgese; amm. Romano
Cannavacciuolo, Mario Lupi; eff.sp.tr. Rino Carboni; tr. Gabriella Trani; parr. Maria Luisa
Piovesan; eff.sp. Antonio Corridori; sarta Corinne Guzzinati; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; c.s.e.
Domenico Cavaliere; attr. Vittorio Troiani; eff.so. Luciano e Massimo Anzellotti; interpreti:
Adriano Celentano (Bingo Bongo), Carole Bouquet (Laura), Felice Andreasi (scienziato amico
di Laura), Enzo Robutti (altro scienziato), Walter D’Amore, Roberto Marelli, Sal Borgese
(custode), Alfio Patanè, Elizabeth Cobben, Maurizio Tabbiani, Mario Barilla, Guido Spadea,
Andrea Montuschi. Produttore: Mario e Vittorio Cecchi Gori per Intercapital; durata: 100’;
incasso: £ 3.049.298.000; incasso totale: £ 13.832.000.000
“PORCA VACCA!”
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Marcello Coscia, Pasquale Festa Campanile; scen.
Massimo De Rita; dir.fot. Alfio Contini; mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; scg.e arch.
Guido Josia; co. Luca Sabatelli, Ugo Pericoli; d.pr. Angelo Zemella; i.p. Cosimo Barbera,
Franco Mancarella; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luigi Lagrasta, Angelo Mainardi, Agostino
Zappa; s.ed. Marisa Merci, Lucilla Clementelli; m.armi Rocco Cerro; interpreti: Renato
Pozzetto (Primo Malvisetti, detto Primo Baffo), Aldo Maccione (Tomo Secondo), Laura
Antonelli (Marianna), Raymond Bussières (zio Nicola), Raymond Pellegrin (il generale),
Adriana Russo (la ballerina), Massimo Sarchielli (il capitano), Gino Pernice (il “professore”),
Toni Ucci (soldato romano), Enzo Robutti (capitano Caimani del Piave), Corrado Olmi
(ufficiale medico), Antonio Marsina (ufficiale austriaco), Ennio Antonelli (caporale), Antonio
Orlando (l’ex-seminarista), Maurizio Mattioli (soldato bolognese), Consuelo Ferrara, Edoardo
Sala, Dino Cassio, Roberto Ceccacci, Giuliano Manetti, Maurizio Francisci, Paolo Fiorino, Lucio
Salis, Antonio Pollio, Maria Novella Ercelsi, Rita Della Torre, Luciano D’Antoni, Dino Censki,
Antonio Viespoli. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film (Roma); durata: 93’; incasso:
10
LA RAGAZZA DI TRIESTE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile;
scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Alfio Contini (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo
Salfa; ass.mo. Loredana Cruciani, Loretta Mattoli, Rossana Cingolani; scg. Ezio Altieri; arr.
Massimo Spano; co. Wayne Finkelman; ass.co. Rosanna Andreoni; d.pr. Angelo Zemella; i.p.
Elio Saroli; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luigi Laurasta, Pier Paolo Bisleri; s.ed. Anna Maria
Montanari; op. Enrico Sasso; ass.op. Carlo Maria Montuori, Maurizio Fiorentini; fo. Amedeo
Casati, mic. Alfredo Petti; mix. Gianni D’Amico; tr. Mario Di Salvio; par. Paolo Franceschi;
sarta Orsola Liberati; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; amm. Raffaello Saragò;
attr. Vittorio Troiani; eff.sp. Aldo Frollini; f.sc. Vincenzo Falsaperla; interpreti: Ben Gazzara
(Dino Romani), Ornella Muti (Nicole), Mimsy Farmer (Valeria), Jean-Claude Brialy (dott.
Marin), William Berger (barman), Andréa Férreol, Consuelo Ferrara, Liliana Dell’Aquila,
Patrizia Lafonte, Diego Pesaola (bagnino), Romano Puppo, Bianca Maria Toso. Produttore:
Achille Manzotti per Faso Film; pr.es. Luciano Luna; durata: 97’; incasso: £ 4.170.000.000.
1983
IL PETOMANE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico
Medioli; dir.fot. Alfio Contini; mus. Carlo e Paolo Rustichelli; mo. Franco Fraticelli; scg.e co.
Dario Cecchi; coll. Mario Carlini; d.pr. Eros Lafranconi; a.re. Maria Pia Rocco; rumori Alvaro
Gramigna, Fernando Caso; interpreti: Ugo Tognazzi (Joseph Pujol), Mariangela Melato
(Catherine), Vittorio Caprioli (Pitalugue), Ricky Tognazzi (Michel Pujol), Gianmarco Tognazzi
(Lucien Pujol), Enzo Robutti (magistrato istruttore), Felice Andreasi (avv.Mercier), Giuliana
Calandra (Giulia), Anna Maria Gherardi (Misia Sert), Peter Berling (Ziedler), Sebastiano Lo
Monaco (Gide), Sergio Solli (Montesquieu), Cesare Rufini (Tamagno), Mila Stanic (Re Jane),
Filippo De Gara (Schonberg), Riccardo Parisio Perrotti (marchese De La Tour d’Asir), Roberto
Antonelli (avv. Constantin), Piero Nuti (presidente del tribunale), Massimo Sarchielli (pubblico
accusatore), Raimondo Penne (avv.di parte civile), Adriana Innocenti (la petomane), Flavio
Colusso (Antoine Pujol), Stefano Roffi (Marco Pujol), Giovanni Grimaldi (Louis Pujol), Piero
Tordi (capo di stato francese), Roberto Della Casa (cancelliere), Corrado Olmi (testimone),
Nicoletta Piersanti (signora che sviene), Sergio Rossi (re d’Inghilterra), Franco Ressel
(Guglielmo II) . Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; durata: 96’; incasso:
UN POVERO RICCO
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.Ottavio Jemma, Francesco Venturoli; scen. Renato
Pozzetto, Ottavio Jemma (n.ac.); dir.fot. Franco Di Giacomo; mus. Stelvio Cipriani; mo.
Amedeo Salfa; scg. Ezio Altieri; co. Rosanna Andreoni; d.pr. Gianni Stellitano; a.re. Maria Pia
Rocco; s.ed. Anna Maria Montanari; interpreti: Renato Pozzetto, Ornella Muti, Piero
Mazzarella (Stanislao), Patrizia Fontana, Nanni Svampa, Antonio Marsina, Ugo Gregoretti,
Corrado Olmi, Mila Stanic, Gabriele Tozzi, Dino Cassio, Bruno Rosa, Giorgio Serafini, Italo
Colini, Anna Maria Natalini, Massimo Mirani, Amedeo Merli. Produttore: Achille Manzotti per
Faso Film; pr.es. Luciano Luna; durata: 87’; incasso:
1984
UNO SCANDALO PERBENE
Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Suso Cecchi D’Amico; dir.fot. Alfio Contini
(Telecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Giancarlo Morelli; scg.arch.
Enrico Fiorentini; arr. Giancarlo Galvani; co. Mario Carlini; ass.co. Francesco Crivellini; o.g.
Raimondo Castelli; d.pr. Roberto Giussani; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Giancarlo Montesano;
s.p. Antonio Saragò; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Sandro Tamborra; ass.re. Patrizia
Regazzoni; fo. Amedeo Casati; mic. Alfredo Petti; mix. Danilo Moroni; tr. Alfredo Marrazzi;
par. Ida Gilda De Guilmi; sarta Luciana Mancini, Adalgisa Mosca; amm. Enrico Savelloni,
Franco Marrasi; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; f.sc. Enso Falessi; interpreti:
Ben Gazzara (lo smemorato), Giuliana De Sio (Giulia Canella), Valeria D’Obici (Camilla
Ghidini), Vittorio Caprioli (Renzo Canella), Franco Fabrizi (conte Guarienti), Carlos De
Carvalho (conte De Besi), Armando Bandini (Orlando Gastaldelli), Giuliana Calandra (Maria
Gastaldelli), Vincenzo Crocitti (giornalista), Enzo Robutti (il professore), Clara Colosimo
(tenutaria), Siria Betti, Filippo De Gara, Marilena Donati, Mario Farnese, Tom Felleghy, Dante
Fioretti, Julian Jenkins, Girolamo Marzano, Giovanna Mainardi, Ernesto Massi, Nazzareno
Natale, Graziella Polesinanti, Sergio Rossi, Massimo Sarchielli, Ettore Scarnecchia, Alessandro
Serra, Sergio Solli, Mila Stanic, Sergio Tardioli, Anna Maria Zomparelli. Produttore: Fulvio
Lucisano per Italian International Film, Screen World, Rai 2; pr.as. Pierluigi Carbone; durata:
103’; incasso: £ 2.351.000.000.
11
Soggetti e sceneggiature
1949
Faddija/La legge della vendetta (re. Roberto Bianchi Montero; sogg. Giovanni D’Eramo,
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Adolfo Franci; scen. P.Festa Campanile,
Giovanni D’Eramo, Adolfo Franci, Fulvio Palmieri, Roberto Bianchi Montero)
1956
Gli innamorati (re. Mauro Bolognini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa;
scen. P.Festa Campanile, M.Franciosa, Giuseppe Mangione, Giuseppe Berto, Mauro
Bolognini, Sandro Continenza, Pasquale Puntieri)
1957
Poveri ma belli (re. Dino Risi; scen. Dino Risi, Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa)
La donna che venne dal mare (re. Francesco De Robertis; scen. Francesco De Robertis,
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giuseppe Mangione)
La nonna Sabella (re. Dino Risi; sogg. dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile;
scen. P.Festa Campanile, Massimo Franciosa, Ettore Giannini, Dino Risi)
Il cocco di mamma (re. Mauro Morassi; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa;
scen. E.Bistolfi, P.Festa Campanile, M.Franciosa, Luciano Vincenzoni)
L’incanto della foresta (re. Alberto Ancillotto; comm.e dialoghi Pasquale Festa Campanile,
Massimo Franciosa)
Terrore sulla città (re. Anton Giulio Majano; sogg. Giovanni D’Eramo, Pasquale Festa
Campanile, Massimo Franciosa)
Vacanze a Ischia (re. Mario Camerini; scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario
Camerini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa)
1958
Belle ma povere (re. Dino Risi; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile,
MassimoFranciosa)
Giovani mariti (re. Mauro Bolognini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa;
scen. Piero De Bernardi, Enzo Curreli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa,
Luciano Martino, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini)
Totò e Marcellino (re. Antonio Musu; sogg. Massimo Franciosa, Pasquale Festa
Campanile;scen. Pasquale Festa Campanile, Diego Fabbri, Antonio Musu)
Ladro lui, ladra lei (re. Luigi Zampa; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa,
Luigi Zampa)
Venezia, la luna e tu (re. Dino Risi; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa, Dino Risi)
Poveri milionari (re. Dino Risi)
1959
Il magistrato (re. Luigi Zampa; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa,
Luigi Zampa)
La cento chilometri (re. Giulio Petroni; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa, Giulio Petroni)
Ferdinando I re di Napoli (re. Gianni Franciolini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa; scen.P.Festa Campanile, M.Franciosa,G.Franciolini)
Tutti innamorati (re. Giuseppe Orlandini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa; scen. P.Festa Campanile, M.Franciosa, Ugo Guerra, Franco Rossi, Giorgio
Prosperi)
1960
Rocco e i suoi fratelli (re. Luchino Visconti; scen. Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico,
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli)
Le tre “eccetera” del colonnello (re. Claude Boissol)
1961
La viaccia (re. Mauro Bolognini; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa,
Vasco Pratolini)
L’assassino (re. Elio Petri; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Elio Petri,
Tonino Guerra)
1962
La bellezza di Ippolita (re. Gianfranco Zagni; scen. Giancarlo Zagni, Elio Bartolini, Pasquale
Festa Campanile, Massimo Franciosa)
Smog (re. Franco Rossi; scen. Franco Brusati, Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa, Ugo Guerra)
Le quattro giornate di Napoli (re. Nanni Loy; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa, Nanni Loy; scen. Pasquale Festa Campanile, Carlo Bernari, Massimo
Franciosa, Nanni Loy)
1963
Una storia moderna: l’ape regina (re. Marco Ferreri; scen. Rafael Azcona, Marco Ferreri,
Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa)
12
Il Gattopardo (re. Luchino Visconti; scen. Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Pasquale
Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luchino Visconti)
In Italia si chiama amore (re. Virgilio Sabel; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo
Franciosa, Luigi Magni, Virgilio Sabel)
TEATRO
1963
1970
1957
1975
1977
1980
1982
1983
1985
1986
Rugantino
Anche se vi voglio un gran bene
I venti zecchini d'oro
BIBLIOGRAFIA
La nonna Sabella, Bompiani
Conviene far bene l'amore, Bompiani
Il ladrone, Bompiani
Il peccato, Bompiani
La ragazza di Trieste, Bompiani
Per amore, solo per amore, Bompiani
La strega innamorata, Bompiani
Buon Natale...Buon anno, Bompiani (postumo)
13
Bibliografia Generale
Opere generali
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1
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Opere specifiche sulla commedia italiana
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Marco Bertolino – Igor Molino Padovan, Vai avanti tu che a voi viene da ridere, «Amarcord», IV,
16, gen-febb.1999
O. Caldiron, Totò, Gremese, Roma, 1980
Masolino D'Amico, La commedia all'italiana – Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975,
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Enrico Giacovelli, La commedia all'italiana, Gremese, Roma, 1990 (1996)
Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Lindau, Torino,
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Jean Gili, La comédie italienne, Henry Veyrier, Parigi, 1983
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Igor Molino Padovan, Altro che Dustin Hoffman…, «Amarcord», II, 7, mar.-apr. 1997
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1986 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana. Parlano i protagonisti, Gangemi, Roma, 1986
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Opere, saggi e articoli specifici sugli autori e i film
Steno
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Bruno Ventavoli, Al diavolo la celebrità, Lindau, Torino, 2000
Angelo Olivieri, L'imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1984
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Anonimo, La commedia politica o l’ombra della restaurazione, «Rivista del cinematografo», 12,
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Anonimo, Steno, in Roger Boussinot (a cura di), Encyclopedie du cinéma, Bordis, Paris, 1989
Tullio Kezich, «La Repubblica», 15.3.1988
I FILM
Al diavolo la celebrità
E. Fecchi, «Intermezzo», 2, 3.1.1950
Totò cerca casa
Ermanno Contini, «Il Messaggero di Roma», 15.2.1949; Arturo Lanocita, «Il Nuovo Corriere della
Sera», 15.12.1949; Ennio Flaiano, «Il Mondo», 31.12.1949
Vita da cani
Giuseppe Marotta, «L’Espresso», 15.11.1950
2
E’ arrivato il cavaliere
F.Gabella, «Intermezzo», 2, 31.1.1951
Guardie e ladri
Oreste Del Buono, «Milano Sera», 22.12. 1951; Guido Aristarco, «Cinema», 77, 1951; Lamberto
Sechi, «Settimana Incom Illustrata», 5.1.1952; N.Ghelli, «Bianco e Nero», 1, 1952; G.Carancini,
«Eco del cinema e dello spettacolo», 16, 1952; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 22.12.1951; André Bazin,
«Cahiers du cinéma», 13, 1952; Corrado Alvaro, «Il Mondo», IV, 1, 5.1.1952
Totò e i re di Roma
Vice, «Cinema Nuovo», 1.1.1953; Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 19.10.1952; Ugo Zatterin, «Il
Giornale d’Italia», 19.10.1952
Totò e le donne
Tino Ranieri, «Rassegna del film», 11.2.1953; Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 28.12.1952; Filippo
Sacchi, «Epoca», 17.1.1953
Totò a colori
Alberto Moravia, «Al cinema»; Arturo Lanocita, «Corriere della sera», 9.4.1952; Gianluigi Rondi, «Il
Tempo», 13.4.1952; Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 7/8, 30.4.1952; M.Siniscalco, «Rassegna
del film», 1/2, Mar. 1953
L’uomo, la bestia e la virtù
Giulio Cesare Castello, «Cinema Nuovo», 108, 30.4.1953; Tommaso Chiaretti, «L’Unità»,
10.5.1953; Ermanno Contini, «Il Messaggero di Roma», 10.5.1953
Cinema d’altri tempi
Ezio Colombo, «Festival», 53, 2.1.1954; Vice, «Cinema nuovo», 26, 31.12.1953; G. Santarelli,
«Rivista del cinematografo», a. XXVII, 3, mar. 1954; F.Montesanti, «Cinema N.S.», 118,
30.9.1953; Giulio Cesare Castello, «Cinema N.S.», 124, 30.12.1953
Un giorno in pretura
N.Ghelli, «Rivista del cinematografo», 4, 1954; L. Quaglietti, «L’Eco del cinema», 67, 28.2.1954
Le avventure di Giacomo Casanova
Anonimo, «Cinema nuovo», 53, 25.2.1955; Tatti Sanguineti (a cura di), Italiataglia, Transeuropa,
cit.
Un americano a Roma
Anonimo, «Cinema nuovo», 53, 25.2.1955; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 24.6.1995
Piccola posta
Vice, «La Voce Repubblicana», 24.12.1955
Mio figlio Nerone
Pietro Pintus, «Gazzetta sera», 20.9.1956
Susanna tutta panna
Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 18, 30.9.1957
Femmine tre volte
Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 19/20, 30.10.1957
Guardia, ladro e cameriera
Vice, «Il Tempo», 23.3.1958
Mia nonna poliziotto
U. Tani, «Intermezzo», 20/21, 15.11.1958
3
Totò nella Luna
Leo Pestelli, «La Stampa», 29.11.1958; Anonimo, «Il Giorno», 17.12.1958; Anonimo, «Corriere
d’informazione», 19.12.1958; Valentino De Carlo, «La Notte», 19.12.1958
Totò, Eva e il pennello proibito
U. Tani, «Intermezzo», 6, 31.3.1959; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 15.2.1959; Arturo Lanocita,
«Corriere della Sera», 15.2.1959; Valentino De Carlo, «La Notte», 16.2.1959
I tartassati
Claudio G.Fava, «Corriere Mercantile», 23.4.1959; Maurizio Liverani, «Paese Sera», 12.4.1959;
Alberto Albertazzi, «Intermezzo»,15.4.1959; Leo Pestelli, «La Stampa», 17.4.1959
Tempi duri per i vampiri
U.Tani, «Intermezzo», 22/23, 15.12.1959
Un militare e mezzo
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. XLVIII, 1960
Letto a tre piazze
Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 15.9.1960; Vice, «Il Messaggero di Roma», 11.9.1960;
Vice, «Roma», 17.9.1960
A noi…piace freddo
Anonimo, «Cinéma ’61», 56, Parigi, Mag. 1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 17,
nov. 1960; «Le vostre novelle», 32, 1960; «Cinémonde», 1392, 11.4.1961; Pietro Bianchi, «Il
Giorno», febb. 1961; Valentino De Carlo, «La Notte», 4.2.1961; R.Maccario, «L’Italia», 7.8.1960
Psycosissimo
Valentino De Carlo, «La Notte», 2.3.1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 28/29,
febb. 1962; «Le vostre novelle», 18, 1961; Vice, «Il Tempo», 10.3.1961; B. Crowter, «The New
York Times», 8.9.1962; G.Gauthier, «Saison ’64», 1964
La ragazza di mille mesi
Vice, «Avanti!», 3.9.1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 27, dic. 1961; «Le
vostre novelle», 49, 1961; Anonimo, «Il Giorno», 3.9.1961; Anonimo, «Corriere della Sera»,
3.9.1961; Anonimo, «Fotogramas», 883, 17.9.1965; R. Lefèvre, «Saison ’64», 1964
I moschettieri del mare
U. Tani, «Intermezzo», 11/12, 30.6.1962; Anonimo, «Fiera del cinema», 12, dic. 1961, 2,
feb.1962, 8, ago. 1962; Anonimo, «Cinémonde», 1480, 18.12.1962; P.A.B., «Cinérevue», 41,
13.10.1961
Totò Diabolicus
Morando Morandini, «Stasera», 30.4.1962; «Fiera del cinema», 3, mar. 1962, 4, apr. 1962; U.
Tani, «Intermezzo», 7/8, 30.4.1962; Anonimo, «Mascotte», 6, 31.3.1962; Valentino De Carlo, «La
Notte», 30.4.1962; Vice, «Il Messaggero», 7.4.1962
Copacabana Palace
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LIII, 1963
I due colonnelli
Valentino De Carlo, «La Notte», 12.1.1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 12, dic.1962; Giuseppe
Marotta, «L’Europeo», 15.1.1963; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 12.1.1963; Vice, «Il
Messaggero di Roma», 6.1.1963
Totò contro i quattro
Leo Pestelli, «La Stampa», 7, 10.3.1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 1, gen.1963; Anonimo,
«Corriere della Sera», 14.3.1963; Vice, «Il Messaggero», 6.3.1963
Gli eroi del West
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LV, 1964
4
I gemelli del Texas
Vice, «Il Resto del Carlino», set. 1964
Amore all’italiana
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LIX, 1966
Rose rosse per Angelica
Anonimo, «Film Heute und Morgen», mar. 1968; Anonimo, «Film Spiegel», 13, 26.6.1968;
Anonimo, «Film Für Sie», 53, 1968
La Feldmarescialla
Vice, «Il Giorno», dic. 1967; Anonimo, «Film Mese», 13, 1968; M.J.L., «Cinéma et Télécinéma»,
466, 28.7.1969
Arrriva Dorellik
Anonimo, «Film Mese», 21/22, nov. 1968
Il mostro della domenica
G. Napoli, «Film Mese», 18, lug. 1968; Giulio Cesare Castello, «Bianco e Nero», 7/8, ago. 1968;
Alfonso Gatto, «Vie Nuove», 30.5.1968; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 16.4.1968
Il trapianto
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 68, 1970; Anonimo, «New Cinema», 4, apr. 1970
Cose di Cosa Nostra
Anonimo, «New Cinema», 4, apr. 1971; M. Guarino, «New Cinema», 6, giu. 1971
Il vichingo venuto dal Sud
Vice, «Il Resto del Carlino», 9.9.1971; D. Sauvaget, «Saison ’73»; Anonimo, «New Cinema», 2,
feb.1972
La polizia ringrazia
Mino Argentieri, «Rinascita», 5.5.1972; Callisto Cosulich, «ABC», 14.4.1972; Tullio Kezich,
«Panorama», 20.4.1972; Leo Pestelli, «La Stampa», 14.4.1972; Pietro Bianchi, «Il Giorno»,
26.3.1972; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 25.3.1972; T. Cicciarelli, «Il lavoro»,
11.3.1972; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 13.3.1972; Anonimo, «Stars et cinéma»,
2.2.1975; L. Fhon, «Cinestop», 1, mar. 1972; Chirenne, «Cinesex», 55, 31.1.1972; P.Bairati, Il
noioso ostacolo della legalità, «Rivista del cinematografo», 2, febb. 1973; F.Dorigo, Al di là delle
sbarre, «Rivista del cinematografo», 10, ott. 1972; M.F., «Rivista del cinematografo», 6, giu. 1972;
U. Rossi, «Cinema ’60», XII, 10, lug.-ago. 1972; Lino Miccichè, Il cinema italiano degli anni ’70,
Marsilio, Venezia
L’uccello migratore
Vice, «Il Resto del Carlino», ott. 1972; G. Colpart, «Saison ’77»; G. Cèbe, «Ecran», 61, set. 1977
Il terrore con gli occhi storti
Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 3.9.1972
Anastasia mio fratello
Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 12.10.1973; Leo Pestelli, «La Stampa», 12.10.1973;
G.M.G., «La Gazzetta del Popolo», 13.10.1973; P.Perona, «Stampa Sera», 12.10.1973; V.R., «Il
Secolo XIX», 12.10.1973; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 12.10.1973; O. Ripa, «Gente»,
9.11.1973; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 12.10.1973; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno»,
5.10.1973; U. R., «L’Unità», 12.10.1973; M. Cavagnaro, «Gazzetta del Lunedì», 15.10.1973
Piedone lo sbirro
Pietro Bianchi, «Il Giorno», 27.10.1973; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 14.11.1973, V.
Rossi, «Il Secolo XIX», 14.11.1973; P.Perona, «La Stampa», 1.11.1973; Leonardo Autera,
«Corriere della Sera», 27.10.1973; B. Di., «Saison ’76»; M. Martin, «Ecran», 39, set. 1975;
Anonimo, «Star et cinéma», 2.2.1975; Anonimo, «Film Spiegel», 17,1977
5
La poliziotta
Tullio Kezich, «Panorama», 28.11.1974; M.Cipolla, «Il Lunedì», 18.11.1974; Piero Virgintino, «La
Gazzetta del Mezzogiorno», 2.11.1974; Anonimo, «Il Giorno», 16.11.1974; Claudio G. Fava,
«Corriere Mercantile», 16.11.1974; P. Perona, «La Stampa», 19.11.1974
Piedone a Hong-Kong
Vice, «Il Resto del Carlino», 30.3.1975; Massimo Mida Puccini, «Giorni», 23.4.1975; G. Napoli, «Il
Domani», 3.4.1975; Leo Pestelli, «La Stampa», 29.3.1975; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 29.3.1975;
Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 29.3.1975; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile»,
1.4.1975; G. Colpart, «Saison ’77»; G. Cèbe, «Ecran», 54, gen. 1977
Il padrone e l’operaio
Mino Argentieri, «Rinascita», 9.1.1976; Tullio Kezich, «Panorama», 14.1.1976; C.Laurenzi, «Il
Giornale», 24.12.1975; Vice, «Il Domani», 8.1.1976; A.Santuari, «Paese Sera», 21.12.1975;
Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 24.12.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile»,
27.12.1975; Carlo Tagliabue, «Rivista del cinematografo», 2, 1976
L’Italia s’è rotta
G. Gs., «Corriere della Sera», 9.5.1976; Anonimo, «Il Giornale», 9.5.1976; A.V., «La Stampa»,
5.5.1976; C.R., «Il Giorno», 9.5.1976; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 9.12.1976
Febbre da cavallo
Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 2.11.1976; S.C., «La Stampa», 7.4.1977; A.F., «Paese sera»,
1.11.1976; A. C., «Il Giornale», 16.1.1977; Anonimo, «Il Secolo XIX», 9.12.1976; A. Garel,
«Saison ’79»; R. Bassan, «Ecran», 74, nov. 1978; Andrea Marzulli, Febbre da cavallo: un’analisi
narratologica, «Cinemastudio» (www.cinemastudio.com)
Tre tigri contro tre tigri
V. Spiga, «Il Resto del Carlino», 8.10.1977; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 6, giu.
1978
Doppio delitto
P. Bianchi, «L’Europeo», 20.1.978; Tullio Kezich, «La Repubblica», 24.12.1977; Tullio Kezich,
«Panorama», 10.1.1978; Vice, «Il Domani», 19.1.1978; S.C., «La Stampa», 27.12.1977; S.
Borelli, «L’Unità», 29.12.1977; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 29.12.1977; G.M. Guglielmino,
«Corriere della Sera», 30.12.1977; N. Bruzzone, «Il Lavoro», 20.1.1978; M. Cavagnaro, «Gazzetta
del Lunedì», 23.1.1978; M. Manciotti, «Il Secolo XIX», 20.1.1978; Claudio G. Fava, «Corriere
Mercantile», 20.1.1978; Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 29.10.1977; Lino Micciché, «Avanti!»,
24.12.1977, R. Lefèvre, «Saison ’79»; G. Cèbe, «Ecran», 85, nov. 1979
Piedone l’africano
V.Bassoli, «Il Resto del Carlino», 25.3.1978; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno»,
26.3.1978; P.Perona, «La Stampa», 25.3.1978; A.C., «Il Giornale», 25.3.1978; L.P., «L’Unità»,
25.3.1978; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 24.3.1978; Maurizio Porro, «Corriere della Sera»,
24.3.1978; Vice, «Corriere Mercantile», 24.3.1978; C. Surmani, «Saison ’79»; H. Moret, «Ecran»,
82, lug. 1979
Amori miei
Stefano Reggiani, «La Stampa», 22.10.1978; Anonimo, «La Repubblica», 23.12.1978; C.R., «Il
Lavoro», 22.12.1978; D.G., «L’Unità», 24.12.1978; C.R. «Il Giorno», 22.12.1978; Giovanni
Grazzini, «Corriere della sera», 22.12.1978; M. Man., «Il Secolo XIX», 23.12.1978; F. Fs.,
«Corriere Mercantile, 23.12.1978»
Dottor Jekyll e gentile signora
Aldo Viganò, «Il secolo XIX», 30.9,1979; L.P., «L’Unità», 9.12.1979; Morando Morandini, «Il
Giorno», 13.12.1979; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 6.9.1979; P.Perona, «La Stampa»,
19.10.1979; G.M. Guglielmino, «Corriere della Sera», 8.12.1979; Franco Fossati, «Corriere
Mercantile», 1.10.1979
6
La patata bollente
Tullio Kezich, «Panorama», 10.12.1979; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 29.11.1979; Leonardo
Autera, «Corriere della Sera», 31.10.1979; L. P., «L’Unità», 6.11.1979; P. Perona, «La Stampa»,
5.12.1979; Alberto Farassino, «La Repubblica», 2.11.1979; Anonimo, «L’Espresso», 16.12.1979;
Morando Morandini, «Il Giorno», 31.10.1979; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 11, nov.
1980
Piedone d’Egitto
V. Spiga, «Il Resto del Carlino», 12.3.1980; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 25.3.1980; Aldo
Viganò, «Il Secolo XIX», 23.3.1980; G.Gs, «Corriere della Sera», 6.4.1980; G.P., «Il Giorno»,
6.4.1980; A.V., «La Stampa», 6.3.1980; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 12.3.1980; A.Mazza,
«Rivista del cinematografo», 3, 1980; C. Bosseno, «Saison ’81»; G. Colpart, «Cinéma ’80», 262,
ott. 1980; A.Ma., «Rivista del cinematografo», 2, 1980
Fico d’India
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 90, 1981
Il tango della gelosia
Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982
Banana Joe
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol., XCIII, 1982
Dio li fa poi li accoppia
M.G., «Il Resto del Carlino», 28.11.1982
Bonnie e Clyde all’italiana
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 94, 1983
Luciano Salce
Dizionario ragionato del cinema brasiliano, «Cineforum» n.87, set. 1969
Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, «Cinema ‘60» n. 57, mar. 1966
L. De Santis, I registi del cinema italiano, «Cineforum» n. 37, set. 1964
Andrea Pergolari, Luciano Salce: tra ironia e satira, «I giganti della montagna»
(www.gigantidellamontagna.it)
Luciano Salce, Dichiarazione sulla violenza nel cinema, «Rivista del cinematografo», 8/9, set. 1967
Luciano Salce, Opinioni sui film di guerra, «Rivista del cinematografo», 2/3, febb.-mar. 1968
S. Zambetti, La cuccagna. Il regista, note sulla carriera, «Cineforum» n.29, mar. 1963
Ettore Zocaro, Dizionarietto nuovi registi, «Filmcritica», 158, giu. 1965
I FILM
Le pillole di Ercole
Leo Pestelli, «La Stampa», 11.9.1960; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 21, apr.
1961; G.Ranieri, «Settimana Incom Illustrata», 29.9.1960; Vice, «Il Tempo», 10.9.1960
Il federale
Adelio Ferrero, «Cinema nuovo», 155, gen-febb. 1962; G.Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 11,
nov. 1961; Anonimo, «Fiera del cinema», 5, mag. 1961; Mino Argentieri, «Vie nuove», set. 1961;
Antonello Trombadori, «Vie nuove», ott. 1961; «Le vostre novelle», 38, 1961; Filippo Sacchi,
«Epoca», 24.9.1961; Leo Pestelli, «La Stampa», 17.9.1961; Vice, «Corriere d’informazione»,
25.8.1961; Vice, «Il Messaggero», 1.9.1961
La voglia matta
Morando Morandini, «Stasera», 16.3. 1962; Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 4/5,
mag. 1962; G.Gambetti, «Bianco e Nero», 4, apr. 1962; P.Pruzzo, «Film Selezione», 11, giu. 1962;
Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 30/31, apr. 1962; Anonimo, «Fiera dal cinema»,
12, dic. 1961, 5, mag. 1962; L.A., «Intermezzo», 7/8, 30.4.1962; Leo Pestelli, «La Stampa»,
7
25.3.1962; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 15.3.1962; A.Sala, «Corriere d’informazione»,
16.3.1962; Anonimo, «Cinemundo», 524, 6.10.1962
La cuccagna
D. Campana, «Gente», dic.1962; G.Cattivelli, «Cinema nuovo», 160, dic. 1962; S.Zambetti,
«Cineforum», 23, mar. 1963; G. Gambetti, «Bianco e nero», 11, nov. 1962; Anonimo, «Fiera del
cinema», 11, nov. 1962; Antonello Trombadori, «Vie nuove», ott. 1962; N.M. Lugaro, «Alba», dic.
1962; N.M. Lugaro, «Terra e vita», nov. 1962; Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 11,
nov. 1962
Le ore dell’amore
C. Terzi, «Avanti!», 2.3.1963; G. Gambetti, «Bianco e nero», 4, apr. 1963; Anonimo, «Fiera del
cinema», 5, mag. 1963; Vittorio Spinazzola, «Cinema nuovo», 163, mag.-giu. 1963; F. Dorigo,
«Cineforum», 23, mar. 1963; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 2, apr. 1963; Arturo
Lanocita, «Domenica del Corriere», 17.3.1963; Ugo Gregoretti, «L’Unità», 2.3.1963; B. Crowter,
«The New York Times», 4.9.1965
Le monachine
G. Gambetti, «Bianco e nero», 11, nov. 1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 6, giu. 1963, 10, ott.
1963; GianLuigi Rondi, «Il Tempo», 16.9.1963; Anonimo «Fotogramas», 849, 22.1.1965;
Anonimo, «Cinémonde», 1535, 7.1.1964
Alta infedeltà
S.Zambetti, «Cineforum», 35, mag. 1964; G.Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 3-4, apr. 1964;
«Fiera del cinema», 9, set. 1963; Anonimo, «Cinema nuovo», 168, mar.-apr. 1964; Vice,
«Momento sera», 8.2.1964; Leo Pestelli, «La Stampa», 26.1.1964; Pietro Bianchi, «Il Giorno»,
31.1.1964; Valentino De Carlo, «La Notte», 31.1.1964; C.Cobast, «Saison ’64», 1964; Anonimo,
«Cinémonde», 1517, 3.9.1963; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31.1.1964
Oggi, domani, dopodomani
Guido Fink, «Cinema Nuovo», 179, feb. 1966; G. Gambetti, «Bianco e nero», 3, mar. 1966; Enzo
Natta, «Cineforum», 50, dic. 1965; C. Rispoli, «Filmcritica», 163, gen. 1966; G. Pierallini, «Cinema
’60», 59, mag. 1966; L. Cavicchioli, «Domenica del Corriere», 3, 16.1.1966; Enzo Biagi,
«L’Europeo», 20.1.1966; Alberto Moravia, «L’Espresso», 30.1.1966
Slalom
F. Dorigo, «Cineforum», 50, dic. 1965; G. Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 1.1.1966; Vice,
«L’Unità», 3.10.1965; N.M. Lugaro, «L’Italia», 3.10.1965; Piero Virgintino, «Gazzetta del
Mezzogiorno», 30.9.1965
Come imparai ad amare le donne
Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», nov. 1966; G. Gambetti, «Bianco e Nero»,
12.12.1966; Mino Argentieri, «Cinema ’60», 61, 1967; Filippo Sacchi, «Epoca», ott. 1966; F.
Dorigo, «Cineforum», 58/59, nov. 1966; G. Ciaccio, «Rivista del cinematografo», XXXIX, 12, dic.
1966
El Greco
Anonimo, «Cinérevue», 23, 9.6.1966
Le fate
Anonimo, «Cinéma et Télécinéma», 391, 15.2.1968; S.Pasca, «Rivista del cinematografo»,
1.1.1967, Leonardo Autera, «Bianco e Nero», 2.2.1967; Enzo Natta, «Cineforum ’60», dic. 1966;
Dino Meccoli, «Epoca», nov. 1966; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 22.11.1966; «Cinérevue», 16,
20.4.1967; Enzo Biagi, «L’Europeo», 16.12.1966; Anonimo, «Il Messaggero», 26.11.1966; Leo
Pestelli, «La Stampa», 4.11.1966; R.Marchi, «Il Telegrafo», 26.11.1966; Adriano Baracco, «Lo
Specchio», 4.12.1966; G.Napoli, «Il Giornale di Sicilia», 26.11.1966
Ti ho sposato per allegria
F. Rinaudo, «Film Mese», 8/9, set. 1967; G. Corbucci, «Cinema nuovo», 189, ott. 1967; Ermanno
Comuzio, «Cineforum», 71, gen. 1968; A. Solmi, «Oggi», 44, 2.11.1967; P.S., «Il Tempo»,
22.9.1967; V. Guslandi, «Il Giornale d’Italia», 23.9.1967; G.F., «Momento sera», 23.9.1967; Vice,
«Corriere della Sera», 3.10.1967; S.Pasca, «Rivista del cinematografo», 11, ott. 1967
8
La pecora nera
P. Pasinelli, «Bianco e Nero», 1-2, febb. 1969; C. Bertieri, «Film Mese», 23/24, 1968; G. Schmidth,
«Cineforum», 83, mar. 1969; Anonimo, «King Cinémonde», 6.12.1968; Anonimo, «Epoca», 946,
10.11.1968; A. Solmi, «Oggi», 47, 21.11.1968; A. Scagnetti, «Paese sera», 1.11.1968; Guglielmo
Biraghi, «Il Messaggero», 1.11.1968; Enzo Natta, «Rivista del cinematografo», 12.12,1968
Colpo di stato
Filippo Sacchi, «Epoca», 970, 27.4.1969; Anonimo, «Play Cinema», 8.9.1968; M.Guarino, «King
Cinema», 6, ott. 1969; Dino Meccoli, «Epoca», 966, 30.3.1969; Enzo Natta, «Rivista del
cinematografo», 3-4, apr. 1969
Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue
Filippo Sacchi, «Epoca», 1009, 25.1.1970; Anonimo, «Film Mese», 34/36, 1969; Dino Meccoli,
«Epoca», 1005, 28.12.1969; A. Solmi, «Oggi», 1, 16.1.1970; Anonimo, «King Cinema», 2.2.1970;
M. Guarino, «New Cinema», 8.8.1970; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 24.12.1969; Lino Miccichè,
«Avanti!», 20.12.1969; Paolo Valmarana, «Il Popolo», 22.12.1969; Claudio G. Fava, «Corriere
Mercantile», 27.12.1969; Tullio Kezich, «Panorama», gen. 1970
Basta guardarla
J.Agudo, in Film Guida, 9, apr./set. 1975; J. Zimmer, in Saison ’81
Il provinciale
Anonimo, «Segnalazioni cinematogarfiche», LXXI, 1971; Anonimo, «New Cinema», 8, ago. 1971
Il sindacalista
Vice, «Il Lavoro», 13.5.1972; Morando Morandini, «Il Giorno», 10.6.1972 e «Il Tempo»,
25.6.1972; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 10.6.1972; Piero Virgintino, «Gazzetta del
Mezzogiorno», 7.5.1972; A. Santuari, «Paese Sera», 22.4.1972; Leo Pestelli, «La Stampa»,
23.4.1972; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 13.5.1972
Io e lui
Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 29.9.1973; P.P., «Il Secolo XIX», 29.9.1973; R.B.,
«Corriere della Sera», 21.9.1973; S.R., «La Stampa», 27.10.1973; A. Sala, «Corriere
d’informazione», 21.9.1973; Tullio Kezich, «Panorama», 11.10.1973; Piero Virgintino, «Gazzetta
del Mezzogiorno», 23.9.1973; M.F., «Il Popolo», 22.9.1973, Pietro Bianchi, «Il Giorno», 21.9.1973
Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno
Vice, «Il Resto del Carlino», 31.8.1974; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 21.10.1974;
Anonimo, «Il Secolo XIX», 19.10.1974; Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 6.9.1974; Dino
Meccoli, «Epoca», 14.9.1974; Anonimo, «L’Espresso», 15.9.1974; C.T., «Rivista del
cinematografo», 2, febb. 1965
Fantozzi
Mino Argentieri, «Rinascita», 1.8.1975; Dino Meccoli, «Epoca», 26.4.1975; Callisto Cosulich,
«Paese Sera», 30.3.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 12.4.1975; Giovanni Grazzini,
«Corriere della Sera», 25.4.1975; Anonimo, «Il Giornale», 25.4.1975; Leo Pestelli, «La Stampa»,
23.4.1975; Vice, «Il Domani», 1.5.1975; L. Cavicchioli, «La Domenica del Corriere», 17.4.1975;
Tullio Kezich, «Panorama», 15.5.1975; Francesco Savio, «Il Mondo», 17.4.1975, O.Ripa, «Gente»,
12.5.1975
L’anatra all’arancia
Morando Morandini, «Il Giorno», 21.12.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1975;
P.P., «Il Secolo XIX», 27.12.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 21.12.1975; Ugo
Casiraghi, «L’Unità», 23.12.1975; Tullio Kezich, «Panorama», 27.1.1976; J.J.Arnault, «Saison ’77»,
R.Bassan, «Ecran», 62, nov. ‘76
Il secondo tragico Fantozzi
C.Novelli, «Rivista del cinematografo», 5, 1976; Morando Morandini, «Il Tempo», 9.5.1976; Vice,
«Il Domani», 22.4.1976; A.Bl., «La Stampa», 20.4.1976; P.Fabbri, «Il Giornale», 17.4.1976; C.R.,
«Il Giorno», 17.4.1976; P.P., «Il Secolo XIX», 16.4.1976; Anonimo, «Corriere Mercantile»,
16.4.1976
9
La presidentessa
Alberto Farassino, «La Repubblica», 7.2.1977; Oreste Del Buono, «L’Europeo», 25.2.1977; R.
Barneschi, «Oggi», 20.12.1976; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 8.2.1977; Vice, «Il Domani»,
10.3.1977; A. Santuari, «Paese Sera», 13.2.1977; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 6.2.1977; A.V.,
«La Stampa», 3.3.1977; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 5.2.1977; M. Cavagnaro,
«Corriere Mercantile», 19.3.1977; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 19.3.1977
Il…Belpaese
Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 24.12.1977; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 10,
ott. 1978; Lorenzo Codelli, «Positif», 208/9, ago. 1978
Dove vai in vacanza?
Tullio Kezich, «Panorama», 26.12.1978; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1978; Aldo
Viganò, «Il Secolo XIX», 24.12.1978; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 22.12.1978;
Morando Morandini, «Il Giorno», 22.12.1978; Stefano Reggiani, «La Stampa», 22.12.1978; D.G.,
«L’Unità», 23.12.1978; Tullio Kezich, «La Repubblica», 22.12.1978; G. Gauthier, «Saison ’80»;
Jean Gili, «Ecran», 85, nov. 1979
Riavanti…marsch!
Franco La Polla, «Il Resto del Carlino», dic.1979
Vediamoci chiaro
Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985
Pasquale Festa Campanile
Pasquale Festa Campanile, «Sipario», dic. 1986
Anonimo, Cose di questo mondo. Note sulla formazione professionale, «Cinema 60», n.10, 1961
Anonimo, Pasquale Festa Campanile, in Roger Boussinot (a cura di), Encyclopedie du cinéma,
Bordis, Paris, 1989
Ermanno Comuzio, Scheda biofilmografica, «Cineforum» n.77, set. 1968
L.De Santis, I registi del cinema italiano, «Cineforum» n.37, set. 1964
Ettore Zocaro, Dizionarietto dei nuovi registi, «Filmcritica» n.158, giu. 1965
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, La vita di oggi risponde…, «Rivista del
cinematografo», a. XXXV, n.12, dic. 1962
I FILM
Un tentativo sentimentale
Y. Chevalier, «Saison ’64», Parigi, 1964; L.Costantini, «Fiera del cinema», 7, lug. 1963; F. Dorigo,
«Cineforum», 28/29, nov. 1963; L. Quaglietti, «Cinema ’60», 39, sett. 1963; Anonimo, «Nuovo
spettatore cinematografico», 4, ago. 1963; P. Zanotto, «Intermezzo», 30.8.1963
Le voci bianche
Ermanno Comuzio, «Cineforum», 38/39, nov. 1964; A. Lodigiani, «Rivista del cinematografo»,
9/10, ott. 1964; Maurizio Ponzi, «Filmcritica», 151/152, dic. 1964; J. Lajeunesse, «Saison ’64»,
1964
La costanza della ragione
N.M. Lugaro, «Alba», nov. 1964; Mino Argentieri, «Cinema ’60», 51, mar. 1965; Lorenzo Pellizzari,
«Cinema nuovo», 174, apr. 1965; Alberto Moravia, «L’Espresso», mar. 1965; Giovanni Grazzini,
«Corriere della Sera», gen. 1965; M. Heidicke, «Film Spiegel», 4, 22.2.1967
Una vergine per il principe
Tullio Kezich, «Settimana Incom Illustrata», 14.11.1965; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera»,
28.10.1965; Filippo Sacchi, «Epoca», 14.11.1965; V.Bassoli, «Avvenire d’Italia», 17.11.1965;
«Cinérevue», 3, 20.1.1966
10
Adulterio all’italiana
Pietro Bianchi, «Il Giorno», 25.3.1966; A. Garbarino, «Rivista del cinematografo», 5/6, giu. 1966;
G.B. Cavallaro, «Cineforum», 53, mar. 1966; «Cinematografia Ita», apr. 1966; Enzo Biagi,
«L’Europeo», 7.4.1966; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 26.3.1966; Claudio G. Fava, «Corriere
Mercantile», 7.4.1966; Dino Meccoli, «Epoca», apr. 1966; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera»,
7.4.1966.
La ragazza e il generale
Nedo Ivaldi, «Film Mese», 8/9, sett. 1967; G. Corbucci, «Cinema Nuovo», 190, dic. 1967; Ermanno
Comuzio, «Cineforum», 70, dic. 1967; Anonimo, «Fotogramas», 934, 9.12.1966
La cintura di castità
U. Rossi, «Film Mese», 11, nov. 1967; G.L., «Il Giorno», 26.10.1967; Paolo Pillitteri, «Avanti!»,
26.10.1967, Leo Pestelli, «La Stampa», 27.10.1967; V.O., «Il Tempo», 1.11.1967; Vice, «Il
Giornale d’Italia», 1.11.1967; J.W., «Momento Sera», 1.11.1967; A.Garbarino, «Rivista del
cinematografo», 12, dic. 1967
Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare
L. Sambonet, «Film Mese», 16, mag. 1968; Anonimo, «Cinema Nuovo», 193, giu. 1968; G.
Zanetti, «Cineforum», 81, gen. 1969; Filippo Sacchi, «Epoca», 910, 3.3.1968; A. Garbarino,
«Rivista del cinematografo», 6/7, lug. 1968
La matriarca
F. Rinaudo, «Film Mese», 23/24, nov./dic. 1968; Anonimo, «Playcinema», 8.9.1968; Anonimo,
«King Cinémonde», 3, set. 1968; «Topfilm», 3, ott. 1970; Dino Meccoli, «Epoca», 956, 19.1.1969;
G.Mar., «Attualità cinematografiche», 1969; Giovanni Grazzini, in Eva dopo Eva, cit.
Dove vai tutta nuda?
L. Cavicchioli, «Domenica del Corriere», 41, 14.10, 1969; Anonimo, «King Cinema», 2, giu. 1969;
Vice, «Il Giorno», 17.9.1969; Vice, «Il Popolo», 30.9.1969; Vice, «Corriere della Sera», 17.9.1969;
Fabio Casagrande, «Amarcord», II, 7, mar.-apr. 1997
Scacco alla regina
Anonimo, «King Cinema», 1, gen. 1970
Con quale amore, con quanto amore
Filippo Sacchi, «Epoca», febb. 1970, A. Solmi, «Oggi», 7, 17.2.1970; Anonimo, «King Cinema», 3,
mar. 1970; M. Guarino, «New Cinema», 6, giu. 1970; «Topfilm», 7, 30.12.1970; Leo Pestelli, «La
Stampa», 10.2.1970; «Cinémonde», 1814, 16.12.1969
Quando le donne avevano la coda
A. Bernardini, «Bianco e Nero», 11/12, 1970; R. Sandi, «Cinesex», 23, 15.9.1970; L. Vanni,
«Topfilm», 3.10.1970; P. Manfredi, «Topfilm», 70, 30.12.1970; Anonimo, «New Cinema», 12, dic.
1970
Il merlo maschio
Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», LXXI, 1971; J.Zimmer, «Saison ’74»; G.Braucourt,
«Ecran», 20, dic. 1973; Anonimo, «Cinéma et Télécinéma», 501, 15.1.1974; O. Baviera,
«Cinestop», 15.1.1971
Quando le donne persero la coda
Pietro Bianchi, «Il Giorno», 23.3.1972; Anonimo, «Il Secolo XIX», 11.3.1972; A. Scagnetti, «Paese
Sera», 26.2.1972; Vice, «Il Lavoro», 11.3.1972; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 13.3.1972
Jus primae noctis
A. Scagnetti, «Paese Sera», 10.9.1972; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 9.9.1972; Anonimo,
«Il Secolo XIX», 9.9.1972; Roberto Chiti, «Il Lavoro», 9.9.1972; Leo Pestelli, «La Stampa»,
10.9.1972; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 17.9.1972; F. A., «Il Giorno», 17.9.1972; Vice,
«Il Messaggero», 9.9.1972; Anonimo, in New Cinema, 1, 1973
11
La calandria
Pietro Bianchi, «Il Giorno», 4.1.1973; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile7 , 17.2.1973; V.R.,
«Il Secolo XIX», 17.2.1973, Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 4.1.1973; A.S., «Corriere
d’informazione», 4.1.1973; S. F., «La Nazione», 27.12.1972; Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero»,
23.12.1972; A. Scagnetti, «Paese Sera», 23.12.1972; Vice, «Avanti!», 5.1.1973; P. Virgintino,
«Gazzetta del Mezzogiorno», 7.1.1973; G. Napoli, «Il Domani», 11.1.1973; Anonimo, «Il Lavoro»,
17.4.1973
L’emigrante
I.Molè, «Città nuova», 25.5.1973; T. Cicciarelli, «Il Lavoro», 22.4.1973; Pietro Bianchi, «Il
Giorno», 21.4.1973; Piero Virgintino, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22.4.1973; G. Cattivelli,
«Libertà», 22.4.1973; A. Valdata, «Stampa sera», 21.4.1973; Leonardo Autera, «Corriere della
Sera», 21.4.1973; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 24.4.1973
Rugantino
Leo Pestelli, «La Stampa», 27.10.1973; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 27.10.1973; V.
Rossi, «Il Secolo XIX», 27.10.1973; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 26.10.1973; Leonardo Autera,
«Corriere della Sera», 26.10.1973; Tullio Kezich, «Panorama», 8.11.1973
La sculacciata
A.Solmi, «Oggi», 20.2.1974; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 15.2.1974; Piero Virgintino, «Gazzetta del
Mezzogiorno», 10.3.1974; Callisto Cosulich, «Paese Sera», 17.2.1974; Leonardo Autera, «Corriere
della Sera», 15.2.1974; V. Rossi, «Il Secolo XIX», 10.2.1974; M. Cavagnaro, «Corriere
Mercantile», 12.2.1974; S.L., «La Stampa», 3.4.1974; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo»,
5, mag. 1974
Conviene far bene l’amore
Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 30.3.1975; Francesco Savio, «Il Mondo», 17.4.1975; Tullio
Kezich, «Panorama», 17.4.1975; G. Napoli, «Il Domani», 3.4.1975; Callisto Cosulich, «Paese
Sera», 30.3.1975; Leo Pestelli, «La Stampa», 20.4.1975; C. Laurenzi, «Il Giornale», 13.4.1974;
Pietro Bianchi, «Il Giorno», 13.4.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 13.4.1975;
Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 1.4.1975; P.P., «Il Secolo XIX», 30.3.1975; C. Surmani,
«Saison ’77»; G. Braucourt, «Ecran», 49, lug. 1976; G. Bechtold, «Cinematographe», 20, estate
1976; F.G., «Ecran fantastique», 1, estate 1977
Il soldato di ventura
Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 21.2.1976; G. Braucourt, «Ecran», 49, lug. 1976; B.D.,
«Saison ’76»
Dimmi che fai tutto per me
A.V., «La Stampa», 6.11.1976; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 30.10.1976; Paolo
Mereghetti, «Il Giorno», 30.10.1976; M. Vallora, «Gazzetta del Popolo», 4.11.1976; Oreste Del
Buono, «L’Europeo», 3.12.1976; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 1.11.1976
Autostop rosso sangue
A.Solmi, «Oggi», 26.3.1977; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 7.4.1977; Aldo Viganò, «Il
Secolo XIX», 6.4.1977; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 5.3.1977; Morando Morandini, «Il
Giorno», 5.3.1977; A.F., «Il Giornale», 5.3.1977; Alberto Farassino, «La Repubblica», 7.3.1977;
Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 12, dic. 1977
Cara sposa
Enzo Natta, «Rivista del cinematografo», 10.11.1977; Anonimo, «Cineinform», 283, nov. 1977
Come perdere una moglie e trovare un’amante
M.G., «Il Resto del Carlino», 30.11.1978; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 8.12.1978; Franco Fossati,
«Gazzetta del Lunedì», 11.12.1978; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 29.11.1978; Morando
Morandini, «Il Giorno», 29.11.1978; Stefano Reggiani, «La Stampa», 17.12.1978; Renzo Fegatelli,
«La Repubblica», 29.11.1978; L.P., «L’Unità», 30.11.1978; Tullio Kezich, «Panorama»,
19.12.1978; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 7/8, lug.-ago. 1979
12
Gegè Bellavita
M.G., «Il Resto del Carlino», 27.5.1979; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 26.5.1979; Aldo
Viganò, «Il Secolo XIX», 26.5.1979; G.M.Guglielmino, «Corriere della Sera», 25.7.1979; Morando
Morandini, «Il Giorno», 19.7.1979; Anonimo, «L’Unità», 20.7.1979; U. Buzzolan, «La Stampa»,
16.5.1979; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 16.4.1979; Piero Virgintino, «Gazzetta del
Mezzogiorno», 22.5.1979; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 4, apr. 1980
Il corpo della ragassa
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 14.9.1979; F.L., «Il Lavoro», 15.9.1979; Alberto Farassino,
«La Repubblica», 14.9.1979; A.V., «La Stampa», 25.10.1979; L.P., «L’Unità», 15.9.1979; Morando
Morandini, «Il Giorno», 14.9.1979; P.P., «Il Secolo XIX», 15.9.1979; Franco Fossati, «Corriere
Mercantile», 15.9.1979; Anonimo, «Cineinforme», 35, giu. 1980; Roberto Chiti, «Rivista del
cinematografo», 10, ott. 1980
Sabato, domenica e venerdì
Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 24.10.1977; Renzo Fegatelli, «La Repubblica»,
23.10.1977; L.P., «L’Unità», 23.10.1977; P.Perona, «La Stampa», 27.10.1977; Morando
Morandini, «Il Giorno», 22.10.1977; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 17.11.1979; M.G., «Il Resto del
Carlino», 23.10.1977
Il ladrone
Irene Bignardi, «L’Espresso», 2.3.1980; Tullio Kezich, «Panorama», 3.3.1980; A. Falvo, «Corriere
d’informazione», 29.2.1980; U.Buzzolan, «La Stampa», 10.2.1980; Renzo Fegatelli, «La
Repubblica», 11.2.1980; L.P., «L’Unità», 1.3.1980; G.P., «Il Giorno», 1.3.1980; Giovanni Grazzini,
«Corriere della Sera», 29.2.1980
Qua la mano
Pietro Pisarra, «Rivista del cinematografo», 7, 1980; Anonimo, «Cineinforme», 34, mag. 1980
Manolesta
Peppe Lai, «Rivista del cinematografo», 5, mag. 1981
Culo e camicia
V. Bassoli, «Il Resto del Carlino», 24.12.1981; M. Calderale, «Segnocinema», 3, mar. 1982;
Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982
Nessuno è perfetto
Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982
Bingo Bongo
Tullio Kezich, «Panorama», dic. 1982
Il petomane
Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza, Bari, 1984
Uno scandalo perbene
Nicola Rossello, «Segnalazioni cinematografiche», 1985; Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza,
Bari, 1985
Indice
Premessa
Introduzione: La commedia italiana: un genere ricco di varianti
Parte prima: Steno
Capitolo 1. Una vita dedicata alla comicità
Capitolo 2. Una comicità solo apparentemente realistica
Capitolo 3. La stilizzazione comica degli anni ’60 e ’80
13
Capitolo 4. Tecniche narrative del comico
Capitolo 5. Un abile manipolatore dei generi
Capitolo 6. Il gioco di specchi dei film polizieschi: (auto)riflessioni sul racconto giallo
Capitolo 7. Anni di piombo, anni di commedia: gli anni ’70 di Steno
Capitolo 8. L’ombra nera del Vesuvio: un affare di stato
Parte seconda: Luciano Salce
Capitolo 1. Un’immersione totale nello spettacolo
Capitolo 2. La commedia trova il suo linguaggio cinematografico
Capitolo 3. Storie di ragazzi e di giovani mai cresciuti nel decennio della crisi
Capitolo 4. L’impegno politico di un autore disimpegnato
Capitolo 5. L’incontro con Villaggio: il grottesco sociale e psicologico
Capitolo 6. Il teatro s’incontra col cinema: la pochade
Capitolo 7. «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio»: lo spettacolo popolare
Postilla
Parte terza: Pasquale Festa Campanile
Capitolo 1. Un affabulatore di storie dallo stile compatto
Capitolo 2. Un assiduo frequentatore dei sentieri della storia
Capitolo 3. L’ossessione erotica da Il merlo maschio a Il corpo della ragassa
Capitolo 4. L’ambiguità dei rapporti interpersonali
Capitolo 5. Roma e la sua disperata vitalità
Capitolo 6. Tra letteratura e cinema
Capitolo 7. Problemi coniugali tra farsa, grottesco e giallo
Postilla
Parte quarta: Analisi comparata di tre film
Conclusione
Appendice prima: le interviste
Appendice seconda: Il lieto fine (Atto I, scena 4)
Filmografia, teatrografia, bibliografia degli autori
Steno
Luciano Salce
Pasquale Festa Campanile
Bibliografia generale
14